CAPITOLO III La nascita della “scuola” di oreficeria a Padova “Padova diventa forse l’unica città di cultura orafa, in Italia, dove all’oreficeria è riconosciuta una totale autonomia artistica, in cui ideazione e sperimentazione tecnica vivono in una scambievole interdipendenza”. Graziella Folchini Grassetto 135 Nel 1983, in occasione di una mostra itinerante136 che vide protagonisti nove artisti orafi operanti nell’ambito di Padova (più un veneziano), venne ideata la denominazione di “Scuola orafa padovana”137. È indubbio, che i diversi lavori esposti nella mostra, pur essendo il risultato di ricerche espressive individuali, presentassero tra loro non poche affinità formali tali da giustificare, agli occhi dei critici stranieri, l’appartenenza di queste creazioni ad una linea comune di ricerca, propria di una “scuola”. Tale denominazione però era quanto mai legata alla contingenza del momento e limitata agli sviluppi della ricerca padovana realizzata fino ad allora, incentrata generalmente sulle linee programmate della geometria e sulla bellezza dell’oro concepito come pura forma. Essa è sempre stata una definizione adottata dalla critica straniera ma mai riconosciuta, per la sua validità, dalla maggior parte degli stessi protagonisti, che vedevano ridurre così il 135 Pinton Mario, in Grafica e oggetti d’arte… cit., 1996, p. 208. La mostra era intitolata 10 Orafi Padovani e curata dal direttore dello Schmuckmuseum di Pforzheim, Fritz Falk ( F. FALK (a cura di), 10 Orafi Padovani, catalogo della mostra itinerante, Pforzheim, Schmuckmuseum, 22 Januar bis 4 April 1983, Pforzheim, Stark~Druck Kg, 1983). La mostra del 1983 non è la prima rassegna che vede esposti insieme i lavori degli esponenti della scuola di Padova; già nel 1981, in occasione di una mostra organizzata a Basilea, si riconosce il valore della ricerca orafa padovana (cfr. M. CISOTTO NALON, Padova e la Scuola dell’oro, in M. CISOTTO NALON e A. M. SPIAZZI (a cura di), Gioielli d’Autore. Padova e la Scuola dell’oro… cit., 2008, p. 24). 137 La stessa mostra, in parte modificata, divenne la rassegna intitolata Nove artisti orafi di scuola padovana, organizzata a margine della XIV edizione della Biennale del Bronzetto e della Piccola Scultura. Ricordo che nel progetto auspicato dall’Amministrazione Civica, questa doveva essere la prima edizione di una rassegna stabile 136 G. FOLCHINI GRASSETTO, 53 loro percorso di sperimentazione ad una semplice etichetta omologante. Oggi è quanto meno riduttivo parlare di “scuola orafa”, anche se i diversi esponenti mantengono una comune linea di ricerca improntata all’arte astratta. Tuttavia, ritengo che, in tale sede, sia lecito parlare di “scuola orafa padovana” nell’accezione proposta da Giorgio Segato: non una “scuola” nel senso strettamente accademico del termine, ma indubbiamente una “scuola” all’antica, cioè nel senso più esteso e comprensivo di un particolare ambiente in cui opera in modo esemplare un maestro che avvia altri maestri e crea articolazioni e diversificazioni che autonomamente arricchiscono e modulano le ricerche, trasmettendo agli allievi, che poi saranno a loro volta maestri e colleghi, un gusto, un metodo di approccio, una sensibilità per soluzioni chiare, geometriche ma aperte, calibrate da un’alta e raffinata misura interiore fatta di esperienza, calcolo, invenzione poetica, piena conoscenza delle magie delle materie e delle tecniche138. Cerchiamo di capire a quale realtà si riferisca tale definizione. L’ambiente formativo indicato da Segato è l’Istituto d’arte Pietro Selvatico139 di Padova, originariamente rivolto alla «preparazione dei giovani operai» poi trasformato in «un laboratorio d’arte in cui i docenti sono “maestri” nel senso più alto del termine»140. L’istituto venne fondato nel 1867 (un anno dopo l’annessione italiana del Veneto) come “Scuola di disegno pratico, di modellazione e d’intaglio per la formazione dei giovani artigiani”141 per volere del marchese Pietro Selvatico, storico e critico d’arte padovano, dedicata al gioiello contemporaneo, organizzata con scadenza biennale, insieme alla manifestazione dedicata all’arte del Piccolo Bronzo. 138 G. SEGATO , La misura seducente, in Mario Pinton. L’oreficeria, catalogo della mostra, Padova, Piano Nobile dello stabilimento Pedrocchi, 11 marzo-30 aprile 1995, Padova, Opificio dell’immagine, 1995, s.p. 139 Diverse sono state le pubblicazioni dedicate alla ricostruzione dell’attività dell’istituto d’arte intitolato al marchese Pietro Selvatico. Se ne ricordano solo due: L. GAUDENZIO, L’istituto d’arte «Pietro Selvatico» (nel centenario della sua fondazione), Padova, Grafiche Erredici, 1967 e la recentissima pubblicazione, (catalogo di una mostra tenutasi a Padova tra febbraio e marzo 2006) A. ZECCHINATO (a cura di), Il Selvatico. Una scuola per l’arte dal 1867 a oggi, catalogo della mostra, Padova, Palazzo del Monte di Pietà, Padova, Istituto d’arte “Pietro Selvatico”, 11 febbraio-12 marzo 2006, Treviso, Canova, 2006. Aggiungo solo che Gaudenzio già nel 1943 aveva scritto un opuscolo, edito dalla casa editrice Le Monnier, dedicato alla storia della scuola. 140 T. BODINI, La scuola orafa del “Pietro Selvatico” dal secondo dopoguerra ad oggi, in «Padova e il suo territorio», XIII, 72, 1998, p. 58. 141 Nei primi mesi, le lezioni si tengono nell’abitazione dello scultore Natale Sanavio, allora unico docente. Nel 1880, con la morte del marchese, la scuola viene intitolata al suo fondatore. Nel 1909, la scuola diviene la “Regia Scuola Pietro Selvatico per le arti decorative e industriali” e, l’anno seguente, trova finalmente la sede definitiva negli ambienti dell’ex Macello progettato da Giuseppe Jappelli (1821). Alle materie tecniche-pratiche fin qui 54 nonché docente (1850-1858) e direttore dell’Accademia di Belle Arti a Venezia. Il marchese fu tra gli intellettuali protagonisti dei dibattiti post-unitari, centrati sulla formazione di un’identità culturale italiana142. Egli riteneva che la lavorazione artigiana del suo tempo, se riqualificata nei suoi aspetti teorici e pratici (in linea con i principi dell’Arts and Crafts) e aggiornata su quelle che erano le esigenze dell’attualità industriale, avrebbe costituito un modo per aprire un dialogo fruttuoso tra il lavoro collettivo artigianale e il mondo della produzione industriale. Si sarebbero risollevate così le sorti socio-economiche della nazione. Il marchese, nella sua scoletta, formava operatori attivi nel campo della produzione decorativa artigiana e industriale che erano in grado di “saper fare”, di concretizzare un’idea grazie alla perfetta acquisizione di norme teorico-progettuali e alla padronanza insegnate, si aggiungono materie più umanistiche, di cultura generale, quali la lingua italiana e la storia dell’arte. La scuola diventa Istituto statale d’arte “Pietro Selvatico” nel 1959, con i diversi corsi dedicati alla decorazione pittorica, decorazione plastica, alla lavorazione del legno, e dei metalli, al disegno di architettura e di disegno industriale (dal 1995), e infine di tessitura nel 1966 (già dal 1949-1952). Inoltre, fin dagli anni Cinquanta, il Selvatico vanta una sezione di glittica (volta ad insegnare tutte le tecniche di lavorazione sia delle pietre dure che preziose) a completamento dell’insegnamento impartito nella sezione della lavorazione dei metalli. Il fatto di concepire questi due insegnamenti in forte interazione, è un’assoluta novità in Italia. Nel 1966, la sezione “Arte dei metalli” dell’Istituto d’Arte Pietro Selvatico viene ribattezzata “Arte dei Metalli e dell’Oreficeria” sancendo in questo modo il nuovo interesse della scuola non più solo per la semplice lavorazione del metallo, ma anche per la creazione di gioielli o oggetti preziosi. Fin dalla fondazione dell’istituto, molti sono stati i premi vinti o i riconoscimenti ottenuti dagli allievi del Selvatico presso le più importanti manifestazioni dedicate all’artigianato artistico o industriale come la Triennale di Monza e l’Esposizione Internazionale di Parigi. La motivazione è da ricercarsi esclusivamente nel metodo d’insegnamento assolutamente individuale. Come afferma Sandro Zanotto l’insegnamento impartito agli allievi del Selvatico si interessa «non tanto all’oggetto da insegnare, quanto al soggetto a cui viene insegnato» (S. ZANOTTO, Quasi un’antica bottega artigiana la scuola “P. Selvatico”, in «L’orologio. Settimanale di vita padovana», I, 15, 7 aprile 1956, p. 8). 142 A partire dalla metà dell’Ottocento, con l’avvenuta unificazione d’Italia, risultavano di vitale importanza alcune questioni di carattere socio-economico volte a risollevare le sorti della neonata nazione. In primo luogo, si rendeva necessaria la creazione di un “gusto” nazionale tramite la diffusione e la valorizzazione della cultura artistica presso le diverse classi sociali. Si riteneva che l’oggetto di arte applicata o minore fosse in grado di influenzare maggiormente la formazione del gusto pubblico perché intimamente legato alla realtà quotidiana di ognuno. Il prodotto d’artigianato artistico, di fronte all’oggetto industriale, doveva recuperare in qualità e funzionalità e per questo, risultava indispensabile la formazione di personale altamente specializzato. Inoltre, si avvertiva la necessità di incentivare un’educazione popolare, di natura tecnica, che fosse anche all’insegna di un proficuo rapporto tra formazione artigiana e produttività industriale. Bisognava adeguare il sistema educativo artigiano in vista di un rinnovamento artistico delle industrie manifatturiere, tanto più che nelle diverse esposizioni universali, allestite nelle grandi capitali d’Europa, si dimostrava lo stretto legame che intercorreva tra arte minore e industria (cfr. T. SERENA, Il disegno, il gusto, l’industria. La fondazione della Scuola di Disegno Pratico nel contesto del dibattito italiano, in A. ZECCHINATO (a cura di), Il Selvatico. Una scuola… cit., 2006, p. 26). Il compito quindi, di molti intellettuali italiani, fu quello di educare e formare il popolo attraverso l’apprendimento di un mestiere per un progresso sostanziale della società. I nuovi artigiani-operai dovevano essere in grado di realizzare opere di altissima qualità recuperando, in tal modo, le antiche tradizioni fabbrili dell’Italia, ma altresì, dovevano inserirsi attivamente in una società industriale in continua evoluzione. 55 degli strumenti operativi143. Il disegno progettuale 144 era, per il Selvatico, la conoscenza di base che formava la mente e la mano di quei giovani pronti a ideare forme e poi interpretarle in oggetti tecnicamente perfetti, che rispondessero a esigenze di carattere pratico, senza dimenticare il valore estetico, «a cavallo tra cultura artigianale e produzione industriale»145. Per indirizzare i giovani, fin da’ primi anni, a conoscere le tecniche e ad applicarle a concetti propri146, si alternavano alle lezioni teoriche esercitazioni pratiche nei laboratori-officine. A tal proposito il Selvatico affermava: bisogna sia sempre pronto ad essere effettuato il lavoro […] effetto e causa un tempo di sapere robusto, bisogna sia dato d’or innanzi, quasi pane quotidiano dello insegnamento artistico come è dello industriale; se no continueremo ad avere per tutta Italia giovani d’alto intelletto impediti d’attuare i concetti della fervida mente147. Teoria e pratica dell’arte non erano mai insegnate senza trovare punti di contatto con le altre discipline artistiche o con la cultura del tempo148. Giulio Bresciani Alvarez, docente e direttore dell’Istituto Selvatico nel secolo scorso, puntualizzava che: 143 In quegli anni, la causa del progressivo declino della validità del prodotto artigianale e dell’interesse nei suoi confronti, non era solo dovuto all’imporsi sul mercato del competitivo oggetto massificato, prodotto in serie, meno costoso e di minor qualità, ma anche era dovuta alla scadente formazione degli artigiani stessi che non erano più in grado di disegnare modelli per poi tradurli nelle forme plastiche. I giovani allievi delle botteghe artigiane, in nome dell’empirismo didattico, imparavano a costruire qualcosa, a lavorare, ad assemblare pezzi attraverso unicamente l’esperienza pratica, senza alcuna coscienza teorica (cfr. G. BRESCIANI ALVAREZ, L’istituto d’arte Pietro Selvatico e le sue origini, in «Padova e il suo territorio», XIII, 72, 1998, p. 57). 144 Per il Selvatico il disegno era anche «utile strumento per l’alfabetizzazione delle masse e per edificare, in concerto con le virtù civiche, un “gusto” italiano» (T. SERENA, Il disegno, il gusto, l’industria. La fondazione della Scuola di Disegno Pratico nel contesto del dibattito italiano, in A. ZECCHINATO (a cura di), Il Selvatico. Una scuola… cit., 2006, p. 27). 145 T. SERENA , Il disegno, il gusto, l’industria. La fondazione della Scuola di Disegno Pratico nel contesto del dibattito italiano, in A. ZECCHINATO (a cura di), Il Selvatico. Una scuola... cit., 2006, p. 31. 146 M. CISOTTO NALON , Da Umberto Bellotto, maestro del ferro, alla scuola dell’oro di Mario Pinton, in A. ZECCHINATO (a cura di), Il Selvatico. Una scuola… cit., 2006, p. 138. 147 Ibidem. 148 Proprio perché agli allievi si insegnava a non svincolare mai la teoria dalla pratica, essi erano spesso coinvolti nei cantieri edilizi operanti in città come, per esempio, quelli legati ai progetti di Camillo Boito (formatesi 56 tendere alla professionalità vuol dire impostare un metodo di progettazione che veda nell’oggetto il centro risolutivo di una rete di reciproche interferenze tra varie discipline. Solo questo atteggiamento progettuale consapevole della complessità del senso dell’oggetto ha dato dignità culturale alla manualità ed ha fatto della manualità un luogo privilegiato della cultura: dunque il “fare” come strumento primario della “conoscenza”149. Fino agli anni del secondo dopoguerra, l’istituto mantenne il metodo d’insegnamento impartito originariamente dal Selvatico, creando un ambiente formativo simile alle antiche botteghe artigiane in cui il sapere si tramandava esclusivamente da un gruppo di artisti ad una ristretta cerchia di valenti allievi. Questo appariva come l’unico modo per recuperare il «mestiere d’artista a partire dal contatto rigenerante e dalla manipolazione della materia dell’arte»150. Le ultime considerazioni fatte si adattano, in particolar modo, a illustrare l’atteggiamento che si avvertiva nella sezione d’oreficeria, nel momento in cui Mario Pinton (Padova, 1919) ne assunse la cattedra151. Pinton seppe teorizzare e trasmettere, come docente (1944-1968) e direttore (1969-1975), un modo di intendere il gioiello quale nuova materia dell’arte. Egli si fece portavoce e interprete delle più diverse stimolazioni offerte dalla contemporaneità artistica e trasmise ai suoi allievi, poi a loro volta diventati docenti, la sua particolare sensibilità per il lavoro orafo, oggetto di «costante riflessione critica»152. L’istituto Selvatico, e di conseguenza Padova, divennero un centro di aperto confronto e sperimentazione orafa, in cui il sapere e all’Accademia di Venezia sotto la reggenza dello stesso Selvatico). 149 G. BRESCIANI ALVAREZ, L’arte dei metalli a Padova: dalla tradizione al rinnovamento, in Metalla. Istruzione arte e cultura nella lavorazione dei metalli, atti del convegno, Montegrotto Terme, Hotel Commodore, 5-7 dicembre 1995, Piombino Dese, Ditre Arti Grafiche, 1996, s.p. 150 T. SERENA , Il disegno, il gusto, l’industria. La fondazione della Scuola di Disegno Pratico nel contesto del dibattito italiano, in A. ZECCHINATO (a cura di), Il Selvatico. Una scuola... cit., 2006, p. 28. 151 La “scuola orafa padovana”, avviata dal maestro Pinton, trova la sua origine nei laboratori del Selvatico istituiti tra il 1910 e il 1919, e dedicati, rispettivamente, alla lavorazione del ferro battuto (diretto da Umberto Bellotto con l’assistenza di Giovanni Gatto) e allo sbalzo e cesello dei metalli fini (diretto dal maestro cesellatore Cornelio Ghiretti). Questi due laboratori-officine videro, nel tempo, il susseguirsi dell’insegnamento di maestri artigiani di grande talento quali, solo per citare alcuni nomi, Prospero Battestin, Luigi Nardo, Giuseppe Guzan e Alceo Pantaleoni (cfr. M. CISOTTO NALON, Da Umberto Bellotto, maestro del ferro, alla scuola dell’oro di Mario Pinton, in A. ZECCHINATO (a cura di), Il Selvatico. Una scuola… cit., 2006, pp. 138-48). 152 G. SEGATO, La misura seducente, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s.p. 57 una certa filosofia dell’operare si tramandavano da maestro ad allievo come nelle antiche botteghe, quali fucine di intenti dove i maestri sapevano individuare il talento e lo educavano a svilupparlo. Ecco perché si parla di “scuola orafa padovana” e solo in tale chiave interpretativa la denominazione trova la sua intima giustificazione. Perché proprio Padova? Perché, in questa città, svolse il suo impegno didattico l’unico orafo artista, Pinton, che, tra i precursori italiani dell’oreficeria contemporanea, volle trasformare le personali ricerche in una nuova cultura del gioiello e volle trasmettere un metodo operativo, di ricerca, volto ad una continua sperimentazione di tecniche e di materiali153. Quindi, se ancor oggi l’istituto Selvatico è l’unica realtà didattica italiana154 che si possa definire come scuola orafa, nel senso di luogo volto alla trasmissione di saperi e di intenti, lo si deve a Mario Pinton. Fritz Falk, nel 2005, riferendosi alla “scuola orafa padovana” parla addirittura di «vero e proprio movimento del gioiello artistico […] nel senso di una direzione stilistica ed artistica paragonabile alla School of Handicraft londinese o forse persino alla Wiener Werkstätte»155. I principi che hanno guidato la professione orafa di Pinton costituiscono ancora oggi le direttive di ricerca, il patrimonio comune cui si riferiscono gli artisti che si sono formati a Padova. È indubbio però che ognuno, come dicevo, manifesti una propria cifra stilistica ed è chiaro che, con “scuola padovana”, non si sia mai potuto intendere una soluzione creativa comune a tutti. La “scuola” è giunta ai nostri giorni alla quarta generazione. Tra i primi allievi di Pinton si 153 Cfr. G. FOLCHINI GRASSETTO, Oro italiano, in A. GAME e G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), British goldItalian gold… cit., 1998, s. p. 154 Ricordo che in Italia si sono istituite, negli anni, varie scuole dedicate alla formazione degli orafi quali, solo per citare le più recenti, la Scuola Professionale per Orefici “Ghirardi” di Torino (1902), l’Istituto Professionale per l’Oreficeria (Ipo) di Valenza fondato nel 1950, poi trasformato, alla fine degli anni Sessanta, nell’Istituto d’arte “Benvenuto Cellini”e la Scuola Orafa “Margaritone” ad Arezzo, aperta negli anni Cinquanta… Da alcuni anni, poi, si sono si sono istituiti vari corsi a livello universitario come il Corso per Designer Orafi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze (cfr. M. C. BERGESIO, Scuole, in L. LENTI e M. C. BERGESIO (a cura di), Dizionario del gioiello italiano… cit., 2005, pp. 254-55). Inoltre è risaputo come alcune tra le più importanti personalità orafe abbiano tenuto delle lezioni o dei corsi presso istituti d’arte come il caso di Edgardo Mannucci a Pesaro. 155 F. FALK, La scuola di Padova, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery. The Padua School. Gioielleria Contemporanea. La Scuola di Padova, Stoccarda, Arnoldsche, 2005, p. 7. 58 ricordano Renato Vanzelli, Renzo Burchiellaro e Francesco Pavan, poi Giampaolo Babetto, Graziano Visintin e Diego Piazza. Le generazioni successive vantano nomi come Renzo Pasquale, Giorgio Cecchetto, Alberto Zorzi e Paolo Marcolongo, fino ad Alberta Vita, Lucia Davanzo e Maria Rosa Franzin, e ancora Annamaria Zanella, Stefano Marchetti e Giovanni Corvaja156. Mario Pinton “La creatività deve essere intesa coma aspetto preminente dell’intelligenza, sintesi di sapere e saper fare; la progettualità come complesso percorso di ideazione che si realizza attraverso l’utilizzo programmatico di strumenti esecutivi e si fonda sulla conoscenza profonda dei materiali e delle tecniche”157. Pinton158 si avvicinò al mondo delle arti giovanissimo, nelle aule del Selvatico di Padova. Nei laboratori dedicati alla lavorazione dello sbalzo e del cesello, il veneziano Giuseppe Guzan iniziò Pinton al mestiere di orafo, mentre il pittore Carlo Della Zorza, gli insegnò il senso dello spazio e lo scultore Servilio Rizzato gli indicò l’importanza dei valori materici della forma. 156 Bisogna tener presente che tutti gli artisti veneti, o operanti in ambito veneto, sono stati allievi o docenti dell’Istituto d’arte Selvatico di Padova. 157 L. MOLINO , L’Istituto d’Arte Selvatico, dal 1867 a oggi, dalla tradizione all’innovazione, in A. ZECCHINATO (a cura di), Il Selvatico. Una scuola… cit., 2006, p. 7. 158 Mario Pinton, figlio di un incisore specializzato nella lavorazione a bulino, viene iscritto alla “Regia scuola Artistica Industriale Pietro Selvatico” nella sezione dei metalli, in cui si lavorava soprattutto l’argento. Nel 1935, una volta diplomatosi, si iscrive alla sezione di scultura decorativa dell’Istituto statale d’arte di Venezia, in cui era attivo un insegnamento specifico per l’oreficeria. Durante gli anni veneziani ha come maestri il pittore Mario Disertori, lo storico dell’arte Giuseppe Lorenzetti e l’architetto Giorgio Wenter Marini che insegnava stilistica architettonica. Dopo cinque anni, si diploma presso l’Istituto Superiore delle industrie artistiche a Monza (Isia). Qui insegnavano docenti di grande prestigio come Marino Marini, «docente di plastica, nel cui lavoro memoria ed eredità classica precipitavano nel senso tragico del contemporaneo» (G. SEGATO, La misura seducente, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p.), i pittori Pio Semeghini e Raffaele De Grada, un critico d’arte quale Giuseppe Pagano e storici dell’arte come Agnoldomenico Pica. Tra il 1941 e il 1944 Pinton ottiene il diploma sia all’accademia di Venezia che all’accademia di Belle Arti di Brera. Gli apporti dell’accademia milanese sono di fondamentale importanza per la formazione di Pinton, grazie soprattutto all’insegnamento dello scultore Francesco Messina e a quello della storica dell’arte Eva Tea. Per consultare note biografiche più precise e il curriculum vitae si rimanda a Mario Pinton. L’oreficeria… op. cit., 1995 e a M. CISOTTO NALON e A. M. SPIAZZI (a cura di), Gioielli d’Autore. Padova e la scuola dell’oro… cit., 2008, pp. 285-92. 59 Lascio alle indicazioni scritte in nota il compito di descrive più in dettaglio i passaggi formativi che definirono l’educazione artistica del maestro; detto questo, però, non posso non dedicare un poco di attenzione alle figure di alcuni docenti che, letteralmente, aprirono la mente del giovane artista a quelli che erano gli sviluppi dell’arte contemporanea degli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Sono quelli gli anni in cui Pinton maturò «un’esperienza estetica globale, attenta e interessata a ogni espressione, ricca di stimoli per l’operare individuale»159. Quella stessa apertura mentale che Pinton richiederà costantemente ai suoi allievi. Durante gli anni della formazione veneziana, Giorgio Wenter Marini, architetto formatosi alla scuola di Vienna, insegnò a Pinton soprattutto il modo di intendere le cose d’arte, di procedere nella valutazione critica degli spazi architettonici e nel modo di concepire e di elaborare le forme160. Folchini Grassetto riconduce all’insegnamento dell’architetto italiano quel modo di procedere nella progettazione formale, tipico di Pinton, per espressione di moduli lineari, vibranti di un parallelismo dove la precisione non è tanto segnata dalla geometria quanto da una mistica esigenza di ordine e di tensione insieme161. Nel momento in cui si trasferì a Milano, Pinton scoprì un ambiente artistico che in quegli anni era particolarmente vivace. Infatti, gli ambienti culturali di Monza e Milano risultavano aggiornati su quelli che erano gli apporti delle scuole costruttiviste europee in merito alle arti decorative162. I dibattiti sorti negli spazi della galleria Il Milione o sulle 159 L. BAZZANELLA DAL PIAZ, La libertà ragionata di Mario Pinton, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p. 160 G. SEGATO, La misura seducente, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p. G. FOLCHINI GRASSETTO, Uno. Mario Pinton e l’Istituto Statale d’arte «Pietro Selvatico» di Padova. A dagli anni Cinquanta, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, p. 16. 161 162 partire Si ricorderà come la Werkbund di Berlino, insieme alla già citata Wiener Werkstätte, assolvessero dei compiti volti a risollevare le sorti degli strati più miseri della popolazione attraverso l’apprendimento di un’arte o di un mestiere. Questa funzione venne assolta in Italia dalla società Umanitaria di Milano fondata nel 1893, da cui nacquero l’Isia (Istituto Superiore Industrie Artistiche) di Milano e il Consorzio Milano-Monza-Umanitaria. Quest’ultima istituzione dette «vita alle Biennali di Monza, trasformatesi successivamente nelle Triennali di 60 pagine delle riviste «Le Arti» o «Casabella», confrontavano le ricerche del Bauhaus, del Costruttivismo russo e del Razionalismo con le ricerche italiane del Ritorno all’ordine163. Pinton ebbe come maestri all’Istituto di Monza alcuni dei protagonisti di tali confronti e aggiornamenti sulle avanguardie europee: Pio Semeghini, Agnoldomenico Pica oppure Marino Marini, maestro di scultura, che ricercava «il nucleo semantico originario della forma plastica»164. In particolar modo, Guido Gregorietti, nel 1988, metteva in luce come l’insegnamento di Marini si traducesse, nell’opera di Pinton, nella predilezione per «l’eleganza non vistosa»165, per l’arte classica, intesa come armonia di forme proporzionate e razionalmente intese. Grazie invece a Eva Tea, storica dell’arte e del costume, presso l’Accademia di Brera, Pinton fece tesoro di un aggiornamento continuo sulla produzione artistica, visitando gallerie d’arte e frequentando spettacoli teatrali e concerti166. Frequentando l’istituto di Monza, il giovane artista seguì le lezioni di Giuseppe Pagano (Pogatschnig) che insegnava critica d’arte. Il suo insegnamento quale, ansiosa curiosità tattile e intellettuale, sarà sempre di guida “in” Pinton e lo solleciterà alle più diverse sperimentazioni167. Non si può dimenticare, infine, il maestro Pietro Reina (famoso scenografo della Scala) che insegnava le forme proiettive delle geometria descrittiva. Da qui nacque la costante ricerca di Pinton per la proporzione logica delle forme e l’adozione della geometria Milano» (G. FOLCHINI GRASSETTO, Mario Pinton e la IX Triennale di Milano del 1951, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s.p.). 163 Cfr. L. BAZZANELLA DAL PIAZ, La “libertà ragionata” di Mario Pinton, artista orafo, in «Padova e il suo territorio», X, 55, 1995, p. 34. 164 Ibidem. 165 G. GREGORIETTI, Mario Pinton, in R. HILDENBRAND e P. HILDENBRAND (a cura di), Biennale svizzera del gioiello d’arte contemporaneo, catalogo della mostra, Lugano, Villa Malpensata, 5 marzo-10 aprile 1988, s. l., p. 304. 166 L. BAZZANELLA DAL PIAZ, La “libertà ragionata” di Mario Pinton, artista orafo, in «Padova e il suo territorio»… cit., 1995, p. 35. 61 descrittiva come cifra stilistica personale e principio didattico. Per Pinton la fine della seconda guerra mondiale significò l’inizio dell’attività di docente e poi di direttore del Selvatico. Pinton nasce anche come scultore e insieme ai primi esperimenti d’oreficeria (gioielli e tazze d’argento martellate) si impegna nell’ambito dell’arte sacra dimostrando fin da subito una magistrale abilità nel trasformare la materia preziosa168. Lo sbalzo è la tecnica prediletta. È un metodo operativo che richiede grande abilità e che insegna a Pinton la resa dei valori di luce su un tessuto metallico, operato discretamente, e lo induce ad instaurare un rapporto sensibile tra forma, materia ed effetti luminosi. L’inizio della sua produzione di ornamenti per il corpo si situa in un momento storico in cui ispirarsi ai linguaggi razionali del progresso tecnologico e scientifico, o ai linguaggi astratti della nuova figurazione, è quasi un passaggio obbligato per chi si avvicina al mondo del gioiello169. Il maestro padovano dimostra subito la propria volontà di non adeguarsi ai dettami stilistici dell’artigianato artistico corrente. Pinton attesta i suoi primi ornamenti su forme essenziali, direi quasi primarie, nel senso che recuperano un mondo originario di sentire e di esprimere il visibile attraverso l’equilibrio e la semplicità della forma. Anche le raffigurazioni appartengono a mondi antichi: storie stilizzate della lontana civiltà egizia o etrusca, serti di alloro legati alle antiche glorie olimpiche, figure esili, allungate, quasi novelle danzatrici di un mondo originale. I gioielli di Pinton sono un ritrovato mondo figurativo simbolico. Egli imprime all’oro la forma, in bassorilievo, di mondi dimenticati, personalmente interpretati in un segno leggero che graffia la superficie in volute di pensiero prezioso. Viene in mente allora il bracciale a fascia spiralata, (in argento dorato) con una decorazione a sbalzo che finge una successione di foglie d’alloro (fig. n. 39), che gli vale 167 La misura seducente, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s.p. La prima commissione lo vede impegnato nella realizzazione del paliotto d’altare, in rame sbalzato e argentato, per il duomo di Abano Terme (1958). Nel corso degli anni, non solo creò oggetti di uso liturgico, ma anche fonti battesimali, amboni, etc. L’interesse per il tema religioso venne meno con l’inizio degli anni Settanta quando l’artista si dedicò alla creazioni improntate ad un linguaggio più astratto. Pinton fu un artista-artigiano dai molteplici interessi. Non solo orafo e scultore, ma anche, per esempio, pittore di vetrate policrome e anche illustratore di libri di poesia, una sua passione di sempre. 169 Cfr. R. TURNER, Il tempo passa, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p. 168 G. SEGATO, 62 la medaglia di bronzo alla IX edizione della Triennale di Milano (1951). I medaglioni realizzati da Pinton in questo periodo (come quello abbinato ad una collana anatomica in ferro battuto del 1955; fgg. nn. 40-41) raffigurano movenze leggere, quasi fluttuanti sulla superficie aurea, di animali selvaggi come tori, cavalli e cervi. Con pochi tratti gli animali sono definiti in tutta la loro naturalezza e maestosità. Ralph Turner170, londinese, uno dei più importanti critici del gioiello contemporaneo, afferma che Pinton, diversamente dagli autori, designers e artisti del dopoguerra, si ispira all’antico per le sue creazioni, e, in particolare, a soggetti antichi per la loro valenza iconologica e a materie antiche, ataviche, come l’oro171. L’oro: materiale alchemico, prezioso per eccellenza, che prevede un approccio creativo lento, ponderato, attento, che non ammette sbagli, è la materia di Pinton come d’altronde di quasi tutti gli artisti formatosi a Padova. Nella mani di tali artisti l’oro ridiventa materia prima, si spoglia delle seduzioni immediate delle forme decorative. Nelle opere di Pinton, l’oro viene semplificato e ridotto alla sua struttura interna, intima, procedendo per sottrazioni continue, per eliminazioni di strati superflui in modo delicato, sommesso; la materia aurea si trasforma così in una spilla, in un anello, piani di energia luminosa che esaltano il corpo. Le superfici vengono solcate da un leggero reticolo di segni espressivi, che increspano i piani, comunque mai piatti, dei gioielli di Pinton. Il trattamento della superficie così delicato e sensibile è una cifra solo sua. La luce, l’essenzialità, l’equilibrio delle proporzioni, la purezza classica delle forme nello spazio: sono sempre questi i valori di riferimento del genio pintoniano. Il gioiello deve essere armonia: armonico rapporto tra volume e spazio, tra qualità cromatiche e materia. Di qui a poco, il maestro, impegnato solo nel piccolo ambiente della provincia veneta, comincia a rendersi conto di non essere l’unico a intendere il gioiello in termini totalmente 170 Ibidem. Agnoldomenico Pica, nel 1954, affermava che «una certa inclinazione arcaicizzante, o comunque storicamente riflessa, ha tentato molti artefici, specie in Italia […]» (G. FOLCHINI GRASSETTO, Mario Pinton e la IX Triennale di Milano del 1951, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p.). A conferma della parole di Pica, si ricordano le sperimentazioni degli artisti-orafi italiani che lavoravano in collaborazione con i laboratori di Mario Masenza o dei fratelli Fumanti. Folchini Grassetto descrive come in tali creazioni «il linguaggio primordiale, ancora espresso in schemi post cubisti, è travolto da un’espressività più convulsa, da una dinamica informale che accede all’astrazione attraverso il biomorfismo, il molecolarismo» (G. FOLCHINI GRASSETTO, Due. Panorama della coeva sperimentazione orafa in Italia e in Europa in rapporto a Mario Pinton, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, p. 32). 171 63 altri rispetto alla tradizione. Viene invitato a rassegne e manifestazioni d’oreficeria contemporanea, conosce i pionieri del gioiello internazionale quali Max Fröhlich svizzero, Hermann Jünger di Monaco (fig. n. 42) e Sigurd Perrson di Stoccolma (fig. n. 43). La prima rassegna al di fuori dei confini nazionali cui partecipa il maestro è la fiera internazionale dell’artigianato di Monaco del 1956. Il vero trampolino di lancio risulta essere però l’invito, del 1961, all’International Exhibition of Contemporary Jewellery di Londra172. Raggiunta la notorietà internazionale, Pinton vede le sue opere esposte nei più importanti musei e gallerie d’arte straniere. Gli anni Sessanta e Settanta sono per Pinton un periodo di grande sperimentazione e inizia a lavorare con i nuovi materiali orafi, sia sintetici che naturali. Abbandonate le suggestioni di un figurativismo antico, dai tratti segnici di una linearità essenziale, il maestro trova nel linguaggio geometricamente astratto, razionale, un nuovo canone estetico votato alla misura. Come ricorda Folchini Grassetto, il passaggio da figurazione ad astrazione non è veloce e in un primo momento le due espressioni coesistono, com’è testimoniato, ad esempio, da una spilla del 1961, opera di pura astrazione (fig. n. 44), e dallo spillone del 1957 raffigurante un gruppo di cavalli (o due cavalieri) in movimento173 che richiama alla mente le pitture rupestri di tempi preistorici (fig. n. 45). I gioielli diventano segni lievi ed essenziali in cui si fa «più insistita la strutturazione geometrica»174. Come le cosiddette collane fisiologiche o anatomiche (con cui vince la medaglia d’oro alla XI Triennale) realizzate in fili leggeri di oro bianco o giallo che circondano il collo, quasi accarezzandolo. Solo l’inserimento, apparentemente casuale, lungo questi fili, di piccoli diamanti o rubini incastonati, contrasta con la semplicità del cerchio ornamentale (fig. n. 46). La particolare attenzione che Pinton ha sempre avuto per le forme anatomiche (bracciali fascianti e collane avvolgenti) in questi casi si fa ancora più evidente. Allora appaiono particolarmente appropriate le parole di Turner nel momento in 172 Insieme a Pinton risultavano invitati, tra gli italiani, anche i fratelli Pomodoro, Bruno Martinazzi, Afro Basaldella, Lucio Fontana. 173 G. FOLCHINI GRASSETTO, Uno. Mario Pinton e l’Istituto Statale d’arte «Pietro Selvatico» di Padova. A partire dagli anni Cinquanta, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, pp. 18-20. 64 cui afferma che il linguaggio orafo di Pinton non è altisonante, quanto, piuttosto, sommessamente autorevole. La discrezione e l’equilibrio di tutto il suo lavoro sono, forse, le caratteristiche principali della sua produzione175 (e del suo carattere). Di particolare bellezza gli anelli che il maestro realizza nel 1979 e nel 1985 (fgg. nn. 4748-49) come ghirigori d’oro avvolti attorno al dito, dove la pietra si pone al centro della voluta quasi prezioso tesoro dentro un labirinto metallico (come pure nel caso delle spille presentate da Pinton alla Triennale di Tokyo del 1981). La forma della vera dell’anello diventa quadrangolare annullando uno dei canoni più classici dell’ornamento che, in quanto tale, deve adattarsi prima di tutto alle forme del corpo. Pinton comincia ad insinuare che il gioiello ha valore anche solo come pura progettazione formale, al di là della sua effettiva indossabilità. Tale atteggiamento è maggiormente evidente nelle sperimentazioni orafe dei suoi allievi. Le spille sono il momento di più intensa espressività creatrice del maestro padovano. Le forme variano dal cerchio al quadrato, sono superfici d’oro ricamate da rilievi filiformi e tessiture ortogonali (fig. n. 52), oppure realizzate da cannule d’oro saldate insieme quasi a mimare la struttura del cartone ondulato (1982 o del 1987). In tali creazioni, la pietra preziosa, come sempre, mai appare e sorprende, ma, inserita nel mare del liquido riflesso dell’oro, risalta i valori di luce delle superfici di una lirica sensibilità materica (fgg. nn. 5051). Secondo un uso misurato e calcolato, la pietra dialoga con la materia in un rapporto paritetico, al fine di abbellire, ma non abbagliare. È come se l’autore voglia farci intendere che la bellezza non consiste nel fulgore momentaneo dell’oro o del rubino, ma è qualcosa che va cercato con pazienza. Nel 1975, Pinton è il primo italiano a ottenere il premio internazionale più ambito tra gli orafi contemporanei: l’Anello d’oro d’onore176 (istituito dal 1932 ad Hanau). Questo è solo 174 G. SEGATO, La misura seducente, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p. R. TURNER, Il tempo passa, in Mario Pinton. L’oreficeria... cit., 1995, s.p. 176 C. SEMENZATO, Cerimonia ad Hanau Mein. Premiata in Germania l’arte di Mario 175 10 giugno 1975, p. 5. 65 Pinton, in «Il Gazzettino», il primo di numerosissimi premi stranieri ottenuti dal maestro padovano nel corso della sua lunghissima attività. Come i premi ottenuti anche i primi cataloghi o scritti critici sono stranieri. In Italia, l’interesse per Pinton si manifesta solo a partire dagli anni Ottanta, mentre, nella sua città, a parte qualche articolo apparso su riviste specializzate, il grande pubblico ha la possibilità di conoscere il genio creativo del maestro solo nel 1995 con la prima mostra monografica, che purtroppo non è allestita in altre città italiane. Dopo questa breve trattazione di carattere generale, mi preme precisare alcuni aspetti dell’innovativa concezione dell’artista riguardo al gioiello contemporaneo e, in particolare, il suo modo di lavorare i metalli strettamente connesso a un’indagine conoscitiva proiettata allo studio della forma e la sua «consapevolezza critica delle diverse motivazioni progettuali»177. Tutto questo costituisce il principio, estetico ed esecutivo, comune a tutti gli artisti di Padova. Secondo Pinton l’oggetto di oreficeria, come ogni altro elaborato dell’uomo, non può scaturire da una mera esecuzione come atto consueto, non può essere passivamente riprodotto sulla base di schemi precostituiti, come comunemente succede. Una tale operazione darebbe origine a un prodotto anonimo insignificante e costituirebbe un intervento tutt’altro che costruttivo 178. L’artista-orafo crea un’opera unica, unico pensiero prezioso realizzato a mano, opera unica perché il momento dell’ideazione e realizzazione costituisce un solo evento creativo; l’opera creativa è pertanto unica in quanto espressione caratterizzante dell’artista, non riproducibile e infine, unica nel momento che valorizza in modo diverso una persona da 177 M. CISOTTO NALON , Da Umberto Bellotto, maestro del ferro, alla scuola dell’oro ZECCHINATO (a cura di), Il Selvatico. Una scuola… cit., 2006, p. 151. 178 M. PINTON, La scuola dell’oro, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p. 66 di Mario Pinton, in A. un’altra. Secondo il principio educativo di Pinton, in cui tanta parte ha avuto il pensiero di Selvatico, l’ornamento, prima di tutto, è forma. Mi piace ricordare le parole di Bresciani Alvarez quando dice che «le forme non sono altro che le impronte digitali della storia»179. La forma per Pinton è il risultato finale di conoscenze teoriche e pratiche, il saper fare, unito alla sensibilità estetica e all’accuratezza tecnica che trasformano un pensiero in una materia ornamentale, che deve essere anche indicativa del contesto sociale e culturale di cui è espressione. Anche Folchini Grassetto insiste su questo punto quando afferma: la teoria progettuale si avvale dei riferimenti alle arti visive, plastiche, architettoniche del proprio tempo, estendendosi anche alle culture più antiche le cui forme stilistiche vengono indagate dall’analisi tecnica180. E lo stesso Pinton aggiunge: credo che non si possa fare dell’oreficeria senza sapere di scultura e di pittura e che non si possa fare pittura senza avere in mente l’architettura, ed è stato Giorgio Wenter Marini a darmi questa impostazione181. Non si diventa artisti improvvisando, ma avendo alle spalle una solida formazione culturale e tecnica da cui attingere per inventare nuovi modi di trattare la materia preziosa. Altrimenti è come pretendere di essere chiamato scultore senza sapere la differenza tra bronzo e marmo. L’orafo-artista deve appunto “saper fare”. Pinton recupera il mestiere antico dell’orafo, le tecniche dimenticate, gli attrezzi lasciati nel cassetto182. 179 T. BODINI , La scuola orafa del “Pietro Selvatico”… cit., 1998, p. 61. G. FOLCHINI GRASSETTO, Uno. Mario Pinton e l’Istituto Statale d’arte «Pietro Selvatico» di Padova. A partire dagli anni Cinquanta, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, p. 24. 181 A. CASTELLANI, Mario Pinton, in C. VIRDIS LIMENTANI (a cura di), 1950-2000. Arte a Padova… cit., 2003, p. 180 219. 182 Il gioiello di ricerca padovano, come d’altronde quello italiano, è fortemente legato alla manualità artigiana della creazione. Si è detto come questo fattore, insieme all’impiego dell’oro, sia una peculiarità che distingue la ricerca italiana da quella straniera. Quest’ultima, spesso, esula il gioiello dall’ambito fabbrile, per renderlo protagonista di operazioni puramente concettuali dove la realtà fisica del gioiello si annulla. A tal proposito mi 67 Come nasce il gioiello d’arte di Pinton? Partiamo dal primo momento, quello in cui si comincia a pensare, a buttare giù degli schizzi sulla carta, a sperimentare, a immaginare nuove forme… per Pinton si tratta sempre di forme libere dalle coercizioni del pensiero creativo tradizionale. Secondo Pinton, la materia è la prima ispiratrice del fatto operativo e talora può essere suggeritrice del tema stesso: l’invenzione formale, infatti, non può prescindere dal fatto emotivo inizialmente suscitato dalla materia e dalle sue proprietà sostanziali183. Si realizza così quel passaggio fondamentale che rende un oggetto un’opera d’arte: l’ispirazione immediata dovuta al contatto tra creatività e materia, quel “fatto emotivo” di cui parla Pinton. Per esaltare il «valore intimo della materia»184 orafa la si spoglia delle sovrastrutture inutili, delle concrezioni fastidiose, sovraccariche di valori venali, per ritrovare l’originaria natura di linee preziose che abbracciano le forme del corpo; si dimenticano le tradizioni “neobarocche” che vedono nell’accumulo di materia preziosa la forma esteriore che giustifica la struttura identificativa di un anello o di una collana. Ecco perché il linguaggio orafo pintoniano non è mai enfatizzato, eccessivo, e le idee sono trasformate in modulazioni materiche lievi, sapientemente distribuite, quasi sospensioni auree create per offrire punti di luce. La materia così progettata e formata, da inattiva si trasforma in reattiva, instaurando un rapporto di sensazioni e pensieri biunivoci tra il gioiello e il corpo. Il gioiello stesso innesca nuovi processi e si trasforma in una comunicazione sublimata di preziosità, linguaggio segreto, personale, per trasmettere silenziosi messaggi adatti a colpire dei sensi diversi dal tatto e dalla vista, più profondi. viene in mente l’operazione di Bakker dove l’ornamento si traduce in un’immagine fotografica del segno lasciato sulla pelle da un filo metallico stretto precedentemente intorno al braccio. Bakker li definisce Shadow Jewelry. Siamo nel 1973 e l’operazione concettuale dell’artista olandese è pura body art. 183 M. PINTON, La scuola dell’oro, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p. 184 Mario Pinton, in G. SEGATO e A. SACCOCCI (a cura di), 14 Biennale Internazionale del Bronzetto… cit., 1986, s. p. 68 Egli afferma infatti nel 1961 che la materia preziosa ha necessità di entrare in comunicazione con lo spirito dell’artefice… il gioiello viene creato attraverso un’attività intellettualistica di ricerca e di conquista paziente e controllata185. Il momento creativo è il momento in cui appaiono le idee come in un’illuminazione, di conseguenza l’applicazione pratica deve essere all’altezza dell’intuizione. La materia orafa, di natura plastica, durante tutte le fasi del procedimento esecutivo, viene trasformata continuamente a seconda delle tecniche impiegate, riuscendo in tal modo a stimolare l’inventiva dell’artista. Ecco perché Pinton definisce di vitale importanza la sperimentazione tecnica, «la “trattazione” tecnica dell’opera, ossia la modalità tecnologica seguita»186, perché appunto è attraverso l’esecuzione che l’orafo artista continua a creare l’oggetto, realizzandone la configurazione mediante una attenta “ponderazione” fisica della materia impiegata, adottando accorte modulazioni della forma stessa e delle sue superfici. Questo principio operativo, attiva il valore di originalità anche nella ripetizione di una soluzione raggiunta e produce un fatto nuovo che dà luogo a un’opera singolarizzata […] e distingue l’oggetto come prodotto unico e personalizzato dal prodotto industriale o di serie il quale, pur essendo opera di designer, risulta spoglio di quel particolare respiro di cui si arricchisce l’opera manuale187. Per il caposcuola padovano, la dichiarata funzionalità pratica è imprescindibile dall’oggetto ornamento. Ritengo che l’orafo non sia vincolato dalle misure dettate dalla portabilità dell’ornamento, ma piuttosto sia limitato dall’implicita funzionalità dovuta alla struttura dell’oggetto gioiello (in primis dai sistemi di chiusura). Comunque, si è dimostrato come, nell’ambito dell’ornamento contemporaneo, questa apparente limitazione sia stata superata arrivando perfino a rendere il gioiello protagonista di 185 186 G. SEGATO, La misura seducente, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p. M. PINTON, La scuola dell’oro, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p. 69 installazioni. E allora rimane solo il fatto che, come lo scultore sceglie l’ambito plastico, così l’orafo contemporaneo sceglie il gioiello; sono solo modi diversi di esprimere diverse sensibilità. Nel paragrafo che segue si potrà notare come il linguaggio orafo degli allievi di Pinton sia stilisticamente differente da quello del maestro ma sia caratterizzato dalla stessa concezione dell’operare artistico. Le forme nello spazio dei primi allievi di Mario Pinton “Si tenga conto del fatto che materiale prezioso ed esecuzione accurata non solo bilanciano l’assenza di ornamenti, ma quanto ad eleganza la superano ampiamente. La forma e l’ornamento sono il risultato dell’inconscia opera comune degli uomini che appartengono ad un certo cerchio di civiltà. Tutto il resto è arte.” Adolf Loos188 Allievo e collaboratore di Pinton, Francesco Pavan (Padova, 1937) è chiamato dal maestro a insegnare al Selvatico alla cattedra di oreficeria (fino al 1999), istituita da poco. Siamo nel 1961 e, come già detto, sono gli anni che vedono Padova al centro dei dibattiti artistici internazionali grazie alle attività del Gruppo Enne. Nei gioielli di Pavan, l’adesione alle istanze cinetiche189 si manifesta adottando un tipo di movimento 187 Ibidem. A. FORMICHELLA, Ecco i miei gioielli, in Giampaolo Babetto. Gioielli di cultura, catalogo della mostra itinerante, München, Galerie Handwerk, 11 ottobre-16 novembre 2002, Prato, Gli Ori, 2002, p. 9. 189 G. FOLCHINI GRASSETTO, Tre. Francesco Pavan e l’Arte Programmata e Cinetica a Padova. Gli anni Sessanta, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, p. 42. Pavan non fu l’unico orafo a interessarsi all’arte programmata e cinetica (anche Aldo Boschin e suo figlio Andrea per esempio). Folchini Grassetto ricorda infatti come «buona parte dei maggiori rappresentanti dei diversi movimenti di Arte Programmata e Cinetica s’impegnarono nella progettazione di gioielli con opere straordinarie anche se limitate alla sola ideazione, realizzate da occasionali esecutori» (Ivi, p. 40). Nel testo, la critica padovana ricorda i nomi di François Morellet, Jesus Raphael Soto, Bruno Munari, Giuseppe Uncini, Gabriele de Vecchi, Getulio Alviani, Franco Cannilla e altri. Anche Alberto Biasi realizza, a partire dalla fine degli anni Sessanta, gioielli cinetici come la collana Manipolabile del 1967 (fig. n. 54) o la collana Sassi Appesi del 1991 (fig. n. 55), dove piccole 188 70 realizzato secondo norme logiche, matematiche, estraneo all’adozione di mezzi meccanici, motori, magneti, flussi d’aria o d’acqua, sistemi sovente utilizzati da molti artisti operanti nell’arte cinetica per creare il moto 190. A tal proposito mi viene in mente la ricerca condotta da Friedrich Becker (1922-1997), famoso per i suoi gioielli “cinetici”. L’artista realizzava ornamenti dalle sezioni mobili grazie a soluzioni meccaniche ingegnose non visibili. I suoi gioielli diventavano così veri e propri meccanismi danzanti che adornavano le dita della mano (fig. n. 53). Nell’ambito dello «studio delle alterazioni delle forme geometriche»191 spiega Folchini Grassetto, Pavan adotta la soluzione della flessibilità realizzando […] minimi perni, aghi d’oro, le cui estremità fuse diventano microscopiche capocchie, congegni non solo funzionali alla mobilità delle parti ma necessari all’integrazione del progetto che li assimila esteticamente sia come mezzi di variazioni cromatiche sia come dati strutturanti l’unità dell’opera. Questa ideazione […] se pure con modifiche e varianti, sarà uno dei segni distintivi dello stile della Scuola di Padova192. Nel caso, infatti, della collana del 1969 intitolata Giunto cardanico, in oro rosso e niello, il movimento è dato dalla struttura stessa dell’ornamento realizzato da tanti piccoli moduli cruciformi, forati al centro e legati da perni che permettono il movimento in modo da dare l’idea di essere tanti piccoli cubi legati insieme (fig. n. 56). Pavan concepisce tali collane come progetti industriali. Nel 1986 Pavan parla della sua esperienza in questi termini: il problema che mi sono posto fin dall’inizio del mio lavoro nel campo dell’oreficeria è stato quello di elaborare un metodo di progettazione che fosse logico, consequenziale, per così dire sottratto al gusto e al gesto individuale. […] L’espressione della mia individualità si è quindi pietre colorate scorrono su fili d’argento inseriti in un perno orizzontale d’argento. 190 Ivi, p. 42. 191 Ivi, p. 44. 192 Ibidem. 71 limitata alla scelta dei materiali e delle tecniche di lavorazione193. L’origine del suo interesse per la spersonalizzazione dell’opera d’arte, per la negazione di uno stile personale, è da ricercarsi chiaramente nel criterio oggettivo dell’operatività del gruppo Enne. Spersonalizzare, oggettivare, astrarre… è il mondo “elementare” della geometria. Le forme geometriche, che Pinton certamente suggerisce ma in un certo senso cela dietro al lirismo e alla squisita sensibilità con cui tratta la materia194, diventano, nell’opera di Pavan, l’alfabeto costruttivo del suo linguaggio orafo, dando vita ad un atteggiamento formale che caratterizzerà, sia pure per ciascuno in modo diverso, le ricerche degli orafi padovani. Nelle creazioni di Pavan le geometrie sono spogliate delle superfici, e svuotate dalla massa per manifestare la loro struttura interna, come nuove griglie d’oro che vengono come smontate, articolate in continui movimenti grazie ai famosi perni oppure il movimento è solo virtuale quando le forme piane sono trascinate nello spazio, creando proiezioni ortogonali di forme elementari, o ancora compenetrate da una lastra di cristallo di rocca che, grazie all’effetto di riflessione e trasparenza, modifica la percezione della forma originaria, in un gioco di astrazioni volumetriche che abitano uno spazio reale195. L’elemento cromatico rientra nell’oggetto di Pavan attraverso l’uso di metalli colorati con cui costruisce strutture geometriche, o dall’inserimento, all’interno della composizione, di pezzi di vetro o di cristallo di rocca trasparente o rutilato (fig. n. 57); oppure ancora si parla di colore in qualità di effetto pittorico offerto dal contrasto tra le lucide superfici dell’oro e quelle niellate, opache. 193 Francesco Pavan, in G. SEGATO e A. SACCOCCI (a cura di), 14 Biennale Internazionale del Bronzetto… cit., 1986, s. p. 194 M. CISOTTO NALON , Da Umberto Bellotto, maestro del ferro, alla scuola dell’oro di Mario Pinton, in A. ZECCHINATO (a cura di), Il Selvatico. Una scuola… cit., 2006, p. 154. 195 Nel 1982, l’autore realizza delle spille, in lamine diversamente aggettanti su base quadrata, che sono un dichiarato omaggio agli esperimenti percettivi del venezuelano Jesus Raphael Soto (fig. n. 59). 72 La pietra usata da Pavan, spesso agata e acque marine, non è un elemento aggiunto che impreziosisce la tessitura metallica del gioiello, come in Pinton, ma ne è elemento strutturale che offre punti di luminosità e trasparenza196 (fig. n. 58). Fino agli anni Settanta, l’artista si concentra sugli sviluppi della forma dovuti a interazioni delle diverse figure geometriche. Con gli anni Ottanta, Pavan continua a sperimentare sulle materia orafa e abbandona la via sicura della geometria per dedicarsi alle «possibilità espressive provocate dalla frantumazione dei metalli»197. La materia trattata, come per Pinton, è l’unica fonte di ispirazione creativa. Pavan parla di “tessuto metallico” creato dall’associazione di metalli diversi come oro, argento, alpacca e rame, letteralmente tessuti insieme. In un primo momento, il disegno del tessuto metallico è rigorosamente programmato, per poi lasciare alla casualità il compito di aggregare la materia liberamente. I metalli, ridotti in fili o frammenti sottili198 fusi e “intrecciati” in superfici piatte dalla fitta trama, possono 196 Tra i padovani, anche Paolo Maurizio (Padova, 1943) si inserisce nell’ambito dell’arte cinetica applicata al mondo orafo. Dopo il diploma presso il Selvatico di Padova, Maurizio lavora nello studio di Pinton. Nei suoi gioielli il movimento, non solo, come in Pavan, viene reso attraverso le modulazioni geometriche iterate, ma anche attraverso le variazioni cromatiche che ricoprono le sue lunghe collane definite come catene snodabili e flessibili, realizzate in oro, argento e spesso titanio. Il titanio, in particolare, è una materia che permette moltissime variazioni di colore (fig. n. 60). Renzo Pasquale (Padova, 1947), orafo autodidatta, secondo Folchini Grassetto rientra nell’ambito delle sperimentazioni cinetiche per l’uso «di cristalli di rocca dove l’asportazione di parti produce impressioni ingannevoli date dalle trasparenze del minerale» (fgg. nn. 61-62) (G. FOLCHINI GRASSETTO, Quattro. Influenza dell’Arte Programmata e Cinetica su alcuni autori. Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, p. 58). L’interesse creativo di Pasquale, in linea con la Scuola di Padova, è rivolto agli sviluppi della forma geometrica. Nei suoi gioielli, la pietra dura o preziosa diventa struttura portante e la materia aurea è quasi limitata alla funzione di semplice elemento di raccordo decorativo. D’altronde lo stesso Pasquale afferma che «l’uso della pietra mi permette di ritrovare una sintonia col percorso geometrico perché il minerale è nella sua essenza geometrico» (Renzo Pasquale, in G. SEGATO e A. SACCOCCI (a cura di), 14 Biennale Internazionale del Bronzetto… cit., 1986, s. p.). Per un altro interprete della scuola padovana, Alberto Zorzi (1958), la pietra è protagonista nell’invenzione ornamentale. I suoi gioielli sono densi di plasticismo volumetrico, quasi una roboante presenza sul corpo. Non si tratta mai di statiche geometrie, ma di agganci e compenetrazioni di cubi, cilindri… le pietre dai colori accesi si incastrano e spezzano la materia aurea leggera e vibrante (fig. n. 63). 197 G. FOLCHINI GRASSETTO , Sette. La sperimentazione oltre il modello geometrico. Gli anni Ottanta, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, p. 86. Annamaria Zanella (Sant’Angelo di Piove, 1966) traduce la libertà formale del suo maestro Pavan in composizioni materiche che distruggono l’ordine razionale delle geometria per creare aggregazioni metalliche, non casuali, aggredite e abbruttite dal gesto creativo che interviene sulla materia con corrosioni e ossidazioni. Le sua operazioni ricordano i Ferri di Alberto Burri, o il gesto materico di Antoni Tàpies. In linea con le ricerche europee più avanzate, la Zanella utilizza scarti industriali, legno, vetro, ferro arrugginito… come materie creative e ornamentali. Il colore è sempre stato importante per questa artista che utilizza gli smalti (dagli acrilici fino agli smalti a fuoco con resine sintetiche) con grande perizia (fgg. nn. 65-66-67-68). 198 Gli stessi fili d’oro e d’argento puri che una sua allieva, Lucia Davanzo (Padova, 1954), a partire dagli anni Novanta, utilizza per creare ornamenti di inusitata delicatezza. Davanzo letteralmente tira i fili fissati su telai 73 costituire il volume strutturante di forme geometriche dalla ritrovata compattezza, oppure, segmenti piatti di ricami preziosi chiusi un po’ in se stessi, quasi a voler custodire qualche segreto (fig. n. 71). I diversi metalli possono essere anche fusi e ridotti in segmenti ondulati sovrapposti l’uno sull’altro, creando una struttura simile al cartone di produzione industriale. In tal caso, le spille di Pavan diventano «reperti alveolari metallici»199, nelle cui superfici ondulate la luce crea effetti preziosi (fig. n. 64). Anche Erico Nagai, negli anni Settanta, creava gioielli dagli intensi valori pittorici grazie all’uso di impasti di metalli diversi (oro, argento, bronzo, ottone e acciaio)200. Se nei tessuti metallici la luce ha il compito di rendere cangianti e iridescenti i colori superficiali degli ornamenti, a partire dagli anni Novanta, la luce diventa protagonista dell’ornamento, anzi ne diventa un elemento costruttivo al pari della materia preziosa. Pavan, all’interno delle spille in oro, infatti, pone degli accumulatori elettrici azionati dall’ago di chiusura, che fungono da fonte luminosa che trova la propria fuoriuscita tramite delle sottili aperture laterali […] la luce diviene così “pietra preziosa virtuale”201. L’operazione di Pavan ricorda le installazioni luminose del padovano Germano Olivotto che, in quegli anni, sperimenta l’uso di tubi al neon quale aggiunta lirica al dato naturale. Le ultime ricerche, in termini di tempo, dimostrano un ritrovato interesse per le forme geometriche, non più in movimento, in cui il valore aggiunto dello smalto sottolinea geometrici portanti (fig. n. 69). Le sue opere mi ricordano da vicino alcuni anelli realizzati in argento e fili di nylon da Francesca Di Ciaula (Padova, 1960), negli anni Ottanta. 199 G. FOLCHINI GRASSETTO , Sette. La sperimentazione oltre il modello geometrico. Gli anni Ottanta, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, p. 86. Allievo di Pavan e di Paolo Maurizio, Giovanni Corvaja (Padova, 1971), con gli anni Novanta, inizia il suo percorso di ricerca personale in cui l’approfondita conoscenza della materia preziosa e la sperimentazione tecnica, tradiscono un’educazione padovana. Fin dalle prime creazioni, Corvaja si interessa a ridurre l’oro prezioso in sottili fili lavorati a maglia e intessuti in una trama tridimensionale, tesa su una struttura geometrica aperta. Nei fili sono inseriti sferette di niello o oro. In altri lavori, tanti fili d’oro, alle cui estremità sono fuse microsfere di niello o oro, sono inseriti pazientemente su una base compatta, come degli spilli. Alle volte le sfere sono saldate ai fili rielaborando l’antico procedimento della granulazione (fig. n. 70). Di questa tecnica millenaria Corvaja è uno dei massimi esperti (cfr. M. C. BERGESIO , Corvaja Giovanni, in L. LENTI e M. C. BERGESIO (a cura di), Dizionario del gioiello italiano… cit., 2005, pp. 82-83). 200 Cfr. M. C. BERGESIO, Le metamorfosi delle materie preziose, in D. L. BEMPORAD (a cura di), Lucca Preziosa… cit., 2005, p. 35. 74 l’aerea astrazione delle volumetrie razionali (fig. n. 72). Altro allievo di Pinton è Giampaolo Babetto (Padova, 1947), anch’egli per anni (19691983) docente al Selvatico. Il senso della misura, della chiarezza formale e della proporzione ravvisabili nell’opera di Babetto nascono da un rigore interiore e dalla formazione scolastica presso il Selvatico (prima come allievo dell’indirizzo architettonico poi di cesello e smalto), nonché dalle esperienze didattiche vissute in Olanda o in Germania. L’architettura, intesa sia come rigore progettuale che particolare costruttivo, rimane ancor oggi la maggior fonte d’ispirazione del maestro. Babetto, in un’intervista del 2002, dichiara di ammirare, tra gli architetti del XX secolo, Mies van der Rohe e Louis Barragan cui si aggiungono i contemporanei Norman Foster a Massimiliano Fuksas202. In occasione dell’intervista fatta recentemente all’artista, ho potuto notare in modo fugace ciò che mi circondava e la sensazione, meravigliosa, era quella di trovarsi più che in una casa, dentro un’opera d’arte. Dall’orologio alla parete, alla poltrona in entrata, tutto pareva informato dagli stessi criteri stilistici che poi ho ritrovato nelle sue opere. Ogni cosa sembrava opera di Babetto. La mia sensazione non era sbagliata perché effettivamente l’artista ha ristrutturato parte della sua abitazione e da diversi anni è una figura molto apprezzata nell’ambito dell’interior design (tavoli, divani dalle forme essenziali, mobili in legno laccato; fig. n. 73) e della progettazione d’interni, creando anche prototipi per produzioni industriali. Il tema del movimento affascina fin da subito il giovane artista. I suoi inizi (metà anni Sessanta) lo vedono avvicinarsi alle teorie cinetiche che si rifacevano alla tradizione visuale e concretista da László Moholy-Nagy a Max Bill, […] primo avvio per affrontare il soggetto della razionalità cangiante e polimorfa, tra ordine e disordine, del gioiello quanto della sua relazione con l’arte e l’architettura. L’esperienza cinetica serve ad ampliare lo spazio visivo del gioiello […] introduce la possibilità di concettualizzare la 201 A. CASTELLANI, Francesco Pavan, in C. VIRDIS LIMENTANI (a cura di), 1950-2000. Arte a Padova... cit., 2003, p. 222. 202 Si veda P. NICKL, Il linguaggio delle forme, in Giampaolo Babetto. Gioielli di cultura… cit., 2002, p. 78. 75 costruzione, quanto la percezione visiva203. In questo periodo, Babetto realizza una spilla (1969) (fig. n. 74) sulla cui base metallica sono inserite tante piccole cannule metalliche vibratili, come aculei, libere di muoversi a seconda del movimento attuato da chi indossa l’ornamento204. Su queste forme incide variamente la luce. La razionalità delle forme essenziali e la purezza misurata della linea proprie dell’opera pintoniana si ritrovano in Babetto con chiari riferimenti al linguaggio razionalista che si sviluppa in città col gruppo Enne, ma anche alle forme dell’architettura rinascimentale. Periodo particolarmente amato dall’autore se, anni dopo, rivolgerà la propria attenzione nuovamente a questo periodo per ispirarsi ad una nuova serie di opere. Una fase di passaggio vede l’artista impegnato a realizzare collane modulari (collana in oro bianco e niello del 1972; fig. n. 75) formate da elementi geometrici semplici, iterati e fissati tra loro con dei perni, in catene mobili, flessibili, in continua trasformazione. Abbandonata ben presto questa prima fase propriamente cinetica, alla fine degli anni Settanta Babetto si interessa alla resa plastica degli elementi geometrici non sviluppati in diversi giochi prospettici, ma semplicemente “esistenti”, sintetizzati nello spazio. Già pochi anni prima, in America, si manifestano esigenze simili di annullamento e semplificazione della forma geometrica ridotta a puri segnali nello spazio. Si parla di Minimalismo, o di arte dell’ABC, o ancora, di Strutture primarie, dove quest’ultimo termine viene proposto nell’accezione […] per indicare una discesa verso livelli di esperienza originaria205. Si parla di Donald Judd, Dan Flavin che usa l’illuminazione al neon come fatto concreto, oppure di Robert Morris che, già dal 1964, crea volumi geometrici elementari, una sorta di grado zero volto ad annullare il superfluo fino ad arrivare alle «caratteristiche reali (fisiche, plastiche, spaziali) di quelle […] strutture primarie, le quali quindi contavano per 203 Giampaolo Babetto, Milano, Skira, 1996, p. 10. L’idea di un ornamento mobile mi ricorda, tra i tanti riferimenti, un certo modo di creare gioielli di Jacqueline Ryan (Finchley, 1966). Le sue opere riproducono in modo lenticolare, con uno spirito giocoso, il mondo della flora e della fauna. Alcuni suoi gioielli sono formati da una struttura portante cui sono applicati piccoli elementi colorati, mobili. In questo modo, una volta indossato, il gioiello diviene delizia per gli occhi ma anche piacevole accompagnamento sonoro (fig. n. 76). Il movimento però non è creato per soddisfare esigenze di tipo cinetico. 205 R. BARILLI, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Milano, Feltrinelli, (1984) 2005, p. 314. 204 G. CELANT, 76 il grado di ingombro, di volume occupato»206. In un’operazione simile, di purificazione della forma geometrica come puro segnale, Babetto crea spille, anelli e bracciali di sofisticata purezza segnica207. L’accettazione di un grado zero e a priori del fare riduce l’oggetto a un’entità neutra all’estremo del banale. È da questo limite che le ricerche di Babetto, dal 1977, cominciano a operare per assolutizzare ulteriormente il concetto di gioiello come entità semplice e autonoma, estranea a ogni riflesso soggettivo e simbolico che non sia il processo stesso della sua costruzione208. L’unica concessione al lirismo è l’alternanza materico-cromatica di oro, ebano o niello. Sembra quasi che voglia negare la funzionalità stessa dell’ornamento in un gruppo di anelli del 1976-1977, anelli che infatti non sono rotondi ma quadrati, quasi a voler affermare la propria indipendenza rispetto a regole e consuetudini che lo adattano alla forma delle dita209. A partire dai primi anni Ottanta, il gioiello si riappropria dello spazio intorno, le superfici slittano, si declinano in piani e volumi inconsueti come gli anelli dalle forme circolari incompleti di una fetta (1983), come una torta (fig. n. 78), o gli anelli che si sviluppano in lunghezza, proponendo cubi schiacciati (fig. n. 77). L’artista comincia a usare anche i colori. Sono i colori base (nero, bianco e rosso) delle resine sintetiche210. La superficie 206 Ivi, p. 315. Alcune idee mi ricordano ornamenti simili creati da Therese Hilbert. Giorgio Cecchetto (Padova, 1958), allievo e collaboratore di Babetto, attento alla purezza della forma minimale della geometria, non svuota i volumi ma, anzi, li rende visibili in tutta la loro presenza plastica. I suoi gioielli sono condensazioni di materia. Le sue collane sono formate da moduli geometrici solidi, pieni, come nel caso delle collane dei primi anni Ottanta. Le ultime ricerche puntano sullo studio della texture delle superfici metalliche, graffiate e segnate. Le forme si sono fatte più lievi, ma anche più incisive, tagliando lo spazio come nel caso dell’anello del 2002, in oro giallo, semplice fascia incrociata attorno al dito. 208 G. CELANT, Giampaolo Babetto… cit., 1996, p. 11. 209 Negli anni Ottanta, Diego Piazza (Padova, 1950-1995), ha sviluppato una ricerca orafa in cui i gioielli (anelli, spille e orecchini) erano creazioni plastiche inserite in matrici scultoree, spesso in ferro. L’oggetto, una volta staccato e indossato diveniva un gioiello, la matrice, “privata di un pezzo”, diveniva un’opera altra. Riuniti, i due oggetti ritornavano a essere opera d’arte di valore proprio, indipendente dalla persona. Come per Babetto, anche per Piazza, il gioiello diventa un’opera d’arte che vive di vita propria e non ha bisogno di essere ornamento per avere un senso (fig. n. 82). L’operazione di Piazza mi ricorda un ornamento progettato e realizzato dal Hermann Jünger nel 1990. Tale gioiello era composto da un contenitore in cui erano inseriti degli elementi geometrici in argento e pietre (i pezzi di una collana). In base alle preferenze di chi indossava la collana, si sceglievano i vari pezzi e si creava ogni volta un monile diverso. Il contenitore, con i pezzi riposti ordinatamente al suo interno, assumeva il valore di opera scultorea. 210 Babetto fu tra i primi artisti italiani a utilizzare sostanze di produzione sintetica (resine acriliche e, a partire dal 207 77 materica viene graffiata o segnata con un crescente interesse per l’effetto pittorico. Nel momento di massimo sviluppo della poetica minimalista, nel 1989, Babetto «è folgorato dal grande pittore Jacopo Carrucci, detto il Pontormo» (1494-1557)211. Dai cicli di affreschi eseguiti dall’artista fiorentino tra il 1519 e il 1528, Babetto isola un particolare che può essere una foglia, come un angelo o un paggio e lo trasforma in un anello, una spilla e così via (fgg. nn. 79-80). Le forme non vengono rielaborate212. La sperimentazione dell’immagine sia naturalistica che di figurazione umana aveva arricchito il suo bagaglio conoscitivo con l’impiego di nuovi metalli, oltre l’oro e, soprattutto, con l’uso delle terre colorate dall’accentuato valore espressionistico 213. Si ricordano allora le opere di questo momento, forme di una ritrovata geometrizzazione, apparentemente minimalista, realizzate con un unico foglio metallico elaborato con piegature che vanno a costituire le volumetrie segnate ai lati e alle basi di scuri nielli214. Con gli anni Novanta, la resina blu, che ricorda sia il blu dei monocromi di Yves Klein, sia i cieli stellati di Giotto (che, secondo Klein, dimostrano già una primitiva volontà monocroma215), viene utilizzata per riempire l’interno di gioielli geometrici che ora aprono le loro forme allo sguardo curioso dello spettatore, svelando un animo di colore emozionante nel suo potere evocativo. Il vuoto e il pieno dialogano costantemente come nelle installazioni dell’anglo-indiano Anish Kapoor che scava le pareti o i pavimenti delle 2000, anche metacrilati traslucidi e colorati). Già Pinton aveva realizzato un anello formato da un cubo di plexiglas inserito in una fascia d’oro ad anello (1988). 211 G. FOLCHINI GRASSETTO , Sette. La sperimentazione oltre il modello geometrico. Gli anni Ottanta, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, p. 92. 212 In tale occasione, quasi a ribadire il suo costante interesse per il design, progetta l’armadio-credenza in legno laccato e foglia d’argento realizzato nel 1991 dove, su una della due ante, la sagoma del ragazzino strappato da un affresco di Pontormo funge da maniglia (fig. n. 81). 213 G. FOLCHINI GRASSETTO , Nove. Nuove dialettiche nella elaborazione geometrica dagli anni Novanta a oggi, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, p. 116. 214 Ibidem. 215 Cfr E. PRINCI, Le misure della funzione, in Giampaolo Babetto. Gioielli di cultura… cit., 2002, p. 52. 78 gallerie216. È questo il momento in cui le forme geometriche si riducono in piani di superficie sovrapposti o incastrati gli uni con gli altri, in un atteggiamento neoplastico (Tatlin) che Babetto definisce “decostruttivista”217 (fig. n. 83). Le sezioni auree di materia piana sono personalizzate dalla presenza lirica del colore poroso del niello o denso della resina. Negli ultimi anni, Babetto interseca i piani metallici messi ora in aperto dialogo con piani di metacrilato trasparente e colorato. La luce che filtra attraverso il metacrilato crea effetti di un colorismo diffuso che movimenta i piani delle lastre. I colori non sono più contenuti dalle forme (fig. n. 84). Le ricerche più recenti portano Babetto a creare matasse di fili d’oro, spesso cosparse di minimi diamanti, snodandosi da superfici rettangolari da cui si dipartono, includono in sé, disseminati come reperti, minime tracce dei solidi disgregati218. Sembra quasi che nel bracciale del 1976, (in oro e niello) il groviglio di ellissi planetarie tridimensionali e concatenate si siano smaterializzate e abbiano inglobato pezzetti di materia. Babetto ha quasi sempre lavorato su forme di base geometrica, prima di tutto per il piacere di lavorare con «forme semplici»219, minime. Le forme di Babetto raccontano storie personali dell’artista, manifestano tensioni di domande dalle risposte non univoche che spesso lo portano a reinterpretare moduli espressivi già sperimentati (fig. n. 85). Le forme di Babetto sono l’artista. Graziano Visintin (Pernumia, 1954), allievo di Pinton, Pavan e Babetto, è da più di trenta anni docente al Selvatico. Negli anni Ottanta, Visintin interpreta l’essenzialità della volumetria geometrica di Babetto, svuotandola della massa. I suoi gioielli sono contorni di geometrie, linee, «vettori 216 La stessa operazione è progettata da Babetto per il Marunouchi Building di Tokio (2002). Nel pavimento della hall, Babetto incide dei tagli profondi «coperti da piani trasparenti» e riempiti di ghiaia di vetro colorata e illuminata ( L. VINCA MASINI, Gioielli di cultura, in Giampaolo Babetto. Gioielli di cultura… cit., 2002, p. 22). 217 P. NICKL, Il linguaggio delle forme, in Giampaolo Babetto. Gioielli di cultura… cit., 2002, p. 85. 218 G. FOLCHINI GRASSETTO , Nove. Nuove dialettiche nella elaborazione geometrica dagli anni Novanta a oggi, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, p. 124. 219 P. NICKL, Il linguaggio delle forme, in Giampaolo Babetto. Gioielli di cultura… cit., 2002, p. 85. 79 di energia»220. Ad esempio, la collana del 1989 (fig. n. 86) non è altro che un semplice esagono d’oro. La sua è un’operazione che toglie il di più di un volume per trovare la struttura originaria della forma, il suo inizio. Come disegni grafici tracciati nello spazio. I suoi non sono sviluppi ortogonali alla Pavan, ma linee solide, sembra quasi che l’operazione creativa di Visintin voglia lasciare sul corpo le tracce disegnate, bidimensionali, di una forma pensata nella sua volumetria tridimensionale. L’oro bianco e giallo è il materiale preferito da Visintin perché grazie alla sua lucentezza rende ancora più rarefatti i suoi segnali preziosi. Questa fase di contrazione formale vissuta come massima rarefazione materica fa seguito alle opere del suo esordio caratterizzate da geometrie piane221. Come le spille del 1975 che sono rettangoli di varie dimensioni, di ebano e oro, tra loro adiacenti e giustapposti in una dimensione piana; ricordano vagamente, nella sensazione di movimento che danno, la spilla tipica di Claudio Mariani (Pesaro, 1936) concepita come superficie bidimensionale sulla quale compone disegni geometrici con l’incrostazione di pietre dure di numerose varietà e tonalità cromatiche222. Il movimento può essere puro effetto ottico come nel caso della spilla appena citata, oppure reale come nel caso di spostamenti «di volumi lungo traiettorie di prismi svuotati in una serie di spille»223. Alla metà degli anni Novanta, anche Visintin si discosta dal linguaggio puramente geometrico che aveva caratterizzato la sua ricerca fino a questo momento e utilizza il niello come valore pittorico (dichiarando apertamente l’influenza di Emilio Vedova) con 220 G. SEGATO, Risonanze luminose, in L. E. FRANCALANCI e G. SEGATO (a cura di), Rarefrazioni nell’opera di Paolo Sardina e Graziano Visintin, catalogo della mostra, Padova, Galleria Civica di Piazza Cavour, 28 giugno28 luglio 1991, Piazzola sul Brenta, Tipolito Franch, 1991, p. 28. 221 G. FOLCHINI GRASSETTO, Sei. Influenza della cultura minimalista su alcuni autori. Gli anni Settanta e Ottanta, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery... cit., 2005, p. 74. 222 M. C. BERGESIO , Mariani Claudio, in L. LENTI e M. C. BERGESIO (a cura di), Dizionario del gioiello italiano… cit., 2005, p. 172. 223 G. FOLCHINI GRASSETTO, Sei. Influenza della cultura minimalista su alcuni autori. Gli anni Settanta e Ottanta, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Contemporary Jewellery… cit., 2005, p. 74. 80 cui definire la volumetria di piccole spille, oppure steso a pennellate irregolari, magari insieme agli smalti, sulle superfici di spille e orecchini. In alcuni dei suoi lavori (1996) due spille dialogano tra loro sul palcoscenico del corpo, una, piatta superficie d’oro oscurata dal niello e, l’altra, piccola creazione geometrica, punto luce che la illumina (fig. n. 87). I gioielli di questi ultimi anni spingono la forma geometrica al di fuori di contorni razionali, della nitidezza segnica dei primi lavori; le lamine metalliche, piegate, saldate insieme, sono sporcate di niello e di smalti (fig. n. 88), sono graffiate, abbruttite. La certezza della geometria viene piegata alle forze liriche dell’emotività. 81 82