Inserto della rivista ComunitàItaliana - realizzato in collaborazione con i dipartimenti di italiano delle università pubbliche brasiliane
Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente.
ano VII - numero 68
L’italiano
contemporaneo
Agosto / 2009
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ISSN 1676-3220
2
D
L’italiano
contemporaneo
opo alcuni numeri dedicati a questioni più prettamente letterarie, Mosaico propone in questo numero una
riflessione su un dibattito che non smette di appassionare: quello sulla lingua italiana.
La “Questione della lingua” ha diviso linguisti ante litteram
e intellettuali italiani sin dal suo sorgimento. Se prima la questione era triplice, scegliere fra latino, volgare fiorentino o toscano e fiorentino colto o popolare, dalla costituzione ufficiale
di una lingua italiana, avvenuta con la presunta unione politica
di un territorio così disomogeneo in vari aspetti come l’ Italia, la questione è diventata non meno complessa e polemica.
Quale italiano? Esiste un italiano? Gramsci afferma nei Quaderni dal Carcere che “la lingua è un [...] prodotto sociale, in
quanto espressione culturale di un dato popolo [...]. Nelle lingue [...] c’è innovazione per interferenze di culture diverse (Q
26, 1930-32); e Pier Paolo Pasolini in Nuove questioni linguistiche (1964) sottolinea la nascita di una lingua per la prima volta
unitaria, generata dalla società tecnologica con centro a Milano e Torino: “[...] la lingua tecnico-scientifica, non si allinea
secondo la tradizione con tutte le stratificazioni precedenti, ma
si presenta come omologatrice delle stratificazioni linguistiche
e addirittura come modificatrice all’interno dei linguaggi”.
Questi due intellettuali, così come tanti altri, sono intervenuti caratterizzando un dibattito che era, ed è ancora, per l’appunto, non solo linguistico, ma culturale, letterario e politico.
Oggi si continua ancora a discutere su che cosa sia l’italiano
contemporaneo: quello di Firenze, ormai non più centro culturale di riferimento dell’Italia “separata” dai leghisti, quello della
burocratica e politicizzata Roma, sempre più agonizzante, o
quello di Milano non più capitale degli yuppie, ma riferimento
della stampa e della comunicazione, della moda e soprattutto
rappresentante e rappresentata dalla classe politica al potere
nella figura controversa del suo presidente del Consiglio dei
ministri, un milanese doc, Silvio Berlusconi?
La questione rimane aperta, l’italiano è tutto questo e bene
lo illustrano gli articoli che qui presentiamo nel tentativo di
arrivare forse a un minimo comune denominatore: l’italiano
neo-standard, che unisce le varietà linguistiche e non solo (geografiche, sociali, ecc.) intorno ad una base comune. Lasciamo
ai lettori il difficile, ma affascinante, compito di risolvere il dilemma: qual è l’italiano contemporaneo?
Gli editori
Saggi
Maria Cecilia Casini
Firenze capitale della lingua italiana?
pag. 04
Elvira Federici
L’italiano contemporaneo: una foto in movimento
pag. 09
Anna Palma e Paula Garcia de Freitas
Bella! Ci 6? Allora parliamo in ‘giovanilese’
pag. 14
Elisabetta Santoro
Quale lingua insegnare? Riflessioni sull’insegnamento dell’italiano oggi
pag. 17
Massimo Fanfani
Parole della «Costituzione italiana»: opinioni politiche
pag. 22
Cecilia Santanchè
La pubblicità politica in classe
pag. 27
Patricia Peterle e Girogio de Marchis
L’esperienza del Teletandem in un seminario di traduzione letteraria
pag. 31
Rubrica
Francesco Alberoni
Chi innova e ha successo suscita sempre feroci invidie
pag. 34
Passatempo
pag. 35
“Scrittori viaggiatori fra Italia e Brasile”: pubblica il tuo testo!
Mosaico promuove un concorso per studenti universitari
La Redazione di Mosaico Italiano bandisce un concorso riservato agli studenti di università brasiliane sul tema: “Scrittori viaggiatori fra Italia e Brasile”.
Gli interessati devono inviare un articolo inedito, redatto in lingua italiana, di max. 12.000 caratteri
(spazi inclusi), in Word – Times New Roman 12, con titolo, nome dell’autore, istituzione di appartenenza, e-mail ed eventuali note a piè di pagina, entro il 1º dicembre 2009, al seguente indirizzo:
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Gli articoli devono vertere sul tema del viaggio di scrittori italiani o stranieri che abbiano avuto esperienze umane, artistiche o professionali in Brasile; o, viceversa, di scrittori brasiliani o stranieri in Italia.
Il miglior articolo, scelto dal comitato scientifico della rivista, sarà pubblicato su un numero di
Mosaico del prossimo anno, che avrà, appunto, come oggetto il viaggio.
Non saranno presi in considerazione articoli che non rispondano alle esigenze richieste e che presentino errori ortografici, grammaticali o sintattici.
Aspettiamo dunque i vostri testi e ...in bocca al lupo!
La Redazione
3
Firenze capitale
della lingua italiana?
Maria Cecilia Casini
L
a lingua italiana, come è
noto, è figlia del fiorentino, cioè della lingua della
città di Firenze. Va a Manzoni
il merito di aver riconosciuto
“[...] nel fiorentino il fondamento genetico dell’italiano
[...]” (DE MAURO, 1993, p.
329); e Ascoli scrive che “[...]
il tipo fonetico, il tipo morfologico e lo stampo sintattico
del linguaggio di Firenze si
erano indissolubilmente disposati al pensiero italiano,
per la virtù sovrana di Dante Alighieri [...]” (ASCOLI,
2008, p. 19); infine, Vitale
afferma che “[...] la lingua comune nazionale italiana è il
fiorentino, quale è venuto affermandosi e imponendosi attraverso una serie complessa
di vicende culturali e sociali
in Italia come lingua di tutta
la nazione nel corso della no-
4
(Universidade de São Paulo)
stra storia civile [...]” ( VITALE, 1960, pp. 221-2).
Ma è ancora il fiorentino, nei fatti, a rappresentare
il modello di lingua unitaria
per gli italiani? E, nel caso,
a quale fiorentino è necessario fare riferimento, quando si tratta di identificare la
filiazione dell’italiano?
La
domanda è pertinente, e la
risposta non è scontata. Non
a caso in Italia si è dibattuto
per secoli di “questione della
lingua”, restando adombrato
sotto questa espressione un
problema, oltre che linguistico, di “egemonia culturale”
(GRAMSCI, 1975, p. 2346),
cioè anche di potere politico.
Potere che da parte fiorentina
tentò di imporre per ultimo,
attraverso la pretesa superiorità linguistica, il magnifico
Lorenzo de’ Medici, a ratifi-
care il predominio della sua
città (e della sua famiglia) in
tutt’Italia; tentativo destinato
a fallire, e che segna l’inizio
dell’involuzione, politica ma
anche culturale, dell’Italia in
Europa. A metà ‘500 vanno
definendosi quelle che saranno per i secoli a seguire le
linee normative della lingua
italiana; come è noto, saranno le tesi fiorentino-arcaiche
del Bembo, che prevedono
come modelli canonici la
lingua poetica petrarchesca
e quella della prosa boccacciana, a prevalere, ancora in
gran parte contro i voti dei
fiorentini del tempo: con il
passare del tempo, infatti, la
lingua di Firenze era naturalmente mutata, e per larga
parte non corrispondeva più
al fiorentino scritto dai grandi
trecenteschi. Ma la norma-
lizzazione politica promossa
dall’avvento del granducato
(1569) investirà anche il campo della lingua; il parziale
recupero della centralità del
fiorentino dell’uso contemporaneo ad opera del Varchi non
riuscirà di fatto a ribaltare una
situazione che è già uno stato
di fatto; nel 1612 sarà pubblicato, con la benedizione medicea, il primo Vocabolario
degli Accademici della Crusca, in massima parte fedele
agli orientamenti bembiani.
Secondo i quali orientamenti la lingua modello d’Italia
è dunque il fiorentino di Petrarca e di Boccaccio (mentre
Dante rimane escluso dal canone), vissuti in quell’“aureo”
‘300 in cui la lingua di Firenze avrebbe toccato il più alto
grado di perfezione della sua
storia. A tale lingua dovrà fare
riferimento nei secoli seguenti
chiunque si cimenti in opere di
scrittura; per quanto riguarda
la lingua parlata, la questione
è più complessa, perché solo
gli appartenenti alle élite culturali potevano di fatto parlare
in toscano, e in un toscano comunque fortemente ‘inquinato’
dalle parlate locali; il resto della popolazione d’Italia si esprimeva nei vari dialetti nativi.
La maggior parte dei tratti
della lingua di Firenze passati
all’italiano moderno risalgono
dunque ad una fase assai lontana dello sviluppo della lingua,
quella del fiorentino trecentesco, denominato “aureo” per
l’estrema perfezione raggiunta.
Fra questi tratti abbiamo:
desinenze –amo, -emo, -imo
del presente indicativo;
● il passaggio da –ar a –er,
come nel futuro e nel condizionale (amarò > amerò;
amarei > amerei); parole che
presentano –ar come mozzarella denunciano l’origine
non toscana.
● l’anafonesi delle due vocali
/e/ e /o/ si chiudono in /i/ e /u/
davanti a consonante laterale
palatale (famiglia, consiglio) o
a gruppo nasale + occlusiva
velare (lingua, lungo, ecc.);
● la chiusura di –e atona in –i
(pronomi atoni mi, ti, si; MELIOREM > migliore; DE > di,
dichiarare e RE > ri, rinunciare; oggi esiste oscillazione:
deplorare, regnare);
● la vocalizzazione della vibrante dentale latina nel nesso /arjo/, con formazione del
suffisso –aio, cui corrisponde
–aro in altre parti d’Italia (macellaio/macellaro);
● l’indebolimento di /a/ pretonico nelle terminazioni
verbali;
● il dittongo spontaneo di
nuovo, piede;
● la sostituzione analogica
della terminazione della prima persona plurale del congiuntivo –iamo a quella delle
È possibile però riscontrare nell’italiano attuale anche
alcuni tratti del fiorentino più
tardo, chiamato “argenteo”
da Arrigo Castellani in contrapposizione alla ‘perfezione’ del precedente. Fra tali
tratti ricordiamo:
● il tipo breve, prova (senza
dittongo), in sostituzione del
tipo trecentesco brieve, pruova (con dittongo di è e di ò in
sillaba libera);
● le forme ragliare, teglia, risultato della palatizzazione di
ragghiare, tegghia;
● le forme verbali dia(no),
stia(no) da dea(no), stea(no);
● i numerali dieci, diciassette, diciannove, mille, da
diece, dicessette, dicennove,
milia;
● domani e stamani al posto
di domane e stamane (ma si
usa ancora, anche se raramente, stamane);
5
● il tipo me lo (dativo/accusati-
vo), da lo mi (accusativo/dativo);
● la serie glielo, gliela ecc.,
dall’invariabile gliele;
● ciliegia da ciriegia; piccione
da pippione;
● l’assenza di dittongo dopo
palatale: fagiolo, gioco, figliolo (anticamente fagiuolo, giuoco, figliuolo);
● la prima persona dell’imperfetto indicativo in –o invece che in –a (io ero e non io
era ecc.);
● le forme dell’indicativo dei
verbi irregolari dare, fare, stare, andare in sostituzione di
quelle dell’imperativo: dai,
fai, stai, vai (invece di da’, fa’,
sta’, va’); ma in presenza di
enclisi si raddoppia la consonante e si usa la vecchia forma: dammi, vacci ecc.;
● la pronuncia a, bi, ci, di...
delle lettere equivalenti, invece dell’antica a, be, ce, de...;
● la diffusione del costrutto noi
si va, invece di noi andiamo.
Ma, dando per acquisita
storicamente l’origine dell’italiano dal fiorentino (trecentesco o no), è ancora giusto,
oggi, parlare di ‘predominio’
fiorentino della lingua comune a tutti gli italiani? Esiste
ancora - se è mai esistita - una
omologazione linguistica al
fiorentino da parte dell’italiano del resto d’Italia?
Durante la sua esistenza
l’italiano, come è noto, è passato per molte crisi di crescita,
e il rapporto con il fiorentino è cambiato. Soprattutto
a partire dalla seconda metà
del secolo XVIII si comincia a
sentire l’inadeguatezza della
lingua italiana - sia nel registro orale, sia (meno) a livello letterario - come moderna
lingua di comunicazione; e il
fiorentino, come modello di
lingua unitaria d’Italia, entra
in crisi. Molti sono i fattori
6
determinanti questa situazione, nella maggior parte legati
alle sfavorevoli condizioni politiche e culturali d’Italia nel
contesto europeo dell’epoca;
ci limiteremo qui a richiamare
la lucida testimonianza di Leopardi, che comincia con una
riflessione relativa alla mancanza di una capitale in Italia:
L’Italia non ha capitale.
Quindi il centro della lingua italiana si considera Firenze [...].
In tutte le monarchie la buona
e vera lingua nazionale risiede
nella capitale. [...] Quando il
centro della lingua non è la capitale, il che non può essere se
non quando capitale non v’è,
esso non può né pretendere né
esercitare di fatto una più che
tanta influenza [...]. Di più tale
influenza, qualunque sia o sia
stata, non può essere che temporanea, dipendente dalle circostanze, e soggetta a scemare,
crescere, svanire, mutar di poco
insieme con esse. Tale influenza non derivando dall’essere
di capitale, né dall’influenza
politica, non può derivare se
non da quella influenza sociale
che è data da una maggioranza
di coltura e letteratura, e che si
esercita mediante queste. Firenze e la Toscana ebbero infatti questa maggioranza dal 300
al 500 [...]. Oggi tanto è lungi
che l’abbiano, che, lasciando la
lingua dove i toscani sono più
ignoranti che qualunque altro
italiano [...], Firenze in letteratura sottostà a tutte le altre metropoli e città colte d’Italia [...}.
Il dire che Firenze o la Toscana
debba oggi considerarsi per
centro ed arbitro della lingua
italiana perciocché più secoli
addietro fu preminente in letteratura, e che la sua letteratura
antica, le debba dare influenza sulla lingua nazionale moderna, è lo stesso che dire che
gl’italiani debbono scrivere in
lingua antica e morta, (giacché
la letteratura toscana è morta) e
quelli che seguono a considerar
Firenze per arbitra della lingua
italiana, e questa chiamano
ancora ostinatamente toscana,
sono, e non possono essere che
quegli stessi i quali considerano
e vogliono che la lingua italiana
si consideri e s’adoperi come
morta (Zibaldone, 2122-26, 19
novembre 1821). (LEOPARDI,
1998, pp. 238-40)
È noto che nel corso
dell’‘800, il secolo delle battaglie risorgimentali e della
tanto desiderata unificazione politica (1861), vennero
avanzate due possibili grandi
soluzioni al problema della
lingua in Italia: una, monolinguistica, da parte di Alessandro Manzoni, che proponeva come modello l’uso
del fiorentino parlato colto;
l’altra, da parte di Graziadio Ascoli, che caldeggiava
la formazione di una lingua
comune sovrarregionale grazie ad apporti dalle varie
parlate d’Italia (una sorta di
“teoria cortigiana” rivisitata).
La soluzione adottata, anche
a livello politico, fu, come
si sa, quella di Manzoni,
che si prestava più di quella
ascoliana ad una immediata
attuazione; il fiorentino occupa una posizione di rilievo, come lingua identitaria
e unitaria d’Italia, soprattutto
nel periodo immediatamente
successivo all’unità politica
(in particolare nei pochi anni
in cui Firenze fu capitale del
regno d’Italia, dal 1865 al
1871), e ancora nei due ultimi decenni del secolo XIX (e
in fiorentino, o toscano, sono
scritti alcuni dei primi capolavori letterari dell’Italia unita, come Pinocchio, Cuore,
La scienza in cucina o l’arte
di mangiar bene). Ma già alla
fine del secolo il fiorentino
comincia a perdere progressivamente la spinta espansiva a
farsi idioma unitario della nazione italiana, e si accentua
il suo distacco dalle altre lingue d’Italia; come a dire che
le cose per il fiorentino andavano meglio in Italia quando
questa era divisa.
Dunque, se “[...] è indubbio che l’italiano ha incorporato stabilmente i caratteri
fondamentali della varietà
linguistica di Firenze [...]”
(BRUNI, 2007, p. 41), è anche vero che soprattutto nel
corso del Novecento questa
varietà ha perso gran parte
del suo prestigio; nella prima
metà del secolo a causa, fra
l’altro, della forte opera di
promozione di Roma come
centro assoluto, anche linguistico, della nazione, portata
avanti dal regime fascista;
nella seconda metà a causa
del progressivo svincolarsi
della lingua “[...] dalla tradi-
zione umanistico-letteraria
per diventare un’emanazione
della tecnologia, strumento di pura comunicazione
elaborato non più a Firenze
o a Roma, ma nei centri industriali del Nord” (ROSSIMARONGIU, 2000, p. 108),
del sempre maggiore spazio
occupato da quello che il
linguista Tullio De Mauro ha
definito “italiano popolare
unitario” e della ripresa di
vigore dei dialetti, soprattutto
a partire dagli anni ’60. Ricordiamo la categorica affermazione della non esistenza
di una vera e propria lingua
italiana nazionale da parte
di Pier Paolo Pasolini, e alla
polemica linguistica da lui
innescata nel 1964 con la
pubblicazione della conferenza Nuove questioni linguistiche su “Rinascita”; testo
che rilanciò in termini nuovi
la vecchia questione della
lingua, riaccendendo l’attenzione di studiosi e letterati
sulle condizioni linguistiche
d’Italia e sulle modalità del
loro funzionamento.
Come conseguenza di
tanti cambiamenti molti dei
tratti del fiorentino, che in
teoria dovrebbero essere
passati all’italiano, hanno
perduto la loro condizione
di canone e sono retrocessi alla dimensione locale.
Oggi si ritrovano solo a Firenze o, dipendendo dal
caso, in Toscana; fuori dalla
Toscana sono spesso percepiti come letterari o arcaici,
e non vengono identificati
come appartenenti alla lingua standard. Per esempio,
per quanto riguarda la pronuncia, quella che dovrebbe
servire da modello a tutti gli
italiani è la cosiddetta “pronuncia fiorentina emendata”, cioè “[...] una pronuncia che rispetta le regole
7
fondamentali del fiorentino
ma è privata dei tratti specificamente ed esclusivamente
toscani, come la gorgia [...]
o le pronunce spiranti delle
affricate palatali [...]” (SOBRERO-MIGLIETTA, 2006,
p. 62); ma essa, nei fatti, non
viene assolutamente rispettata fuori dalla Toscana (e
poco, sempre meno, anche
in Toscana). Tra i tratti del
fiorentino “emendato” che
non riscontriamo nella pratica dell’italiano standard possiamo ricordare:
● la distinzione fra le e e le
o aperte e chiuse, da cui le
coppie pèsca/pésca e bòtte/
bótte;
● la distinzione fra la fricativa intervocalica dentale sorda
[s] e la fricativa dentale sonora [z], come nelle terminazioni del passato remoto e in certe parole (difesi; casa; chiuzi;
cazo);
● il raddoppiamento fonosintattico (maddai; sopraffare;
cheddici).
Nel 1999, avvicinandosi la fine del millennio, la
rivista “Italiano & oltre” si
propose di fare un bilancio
dello stato dell’italiano contemporaneo; in particolare,
nel testo d’apertura intitolato
Commenti Raffaele Simone si
poneva due domande precise: “[...] che cosa è stato del
fiorentino, cioè del grande
modello che Manzoni aveva
preconizzato adatto a tutti gli
italiani, e, in secondo luogo,
quale modello (se ce n’è uno)
gli italiani hanno, nel frattempo, adottato? [...]” (“ITA1
LIANO & OLTRE”, 1999, p.
196). La risposta, a entrambe
le domande, è “sconsolante” (“ITALIANO & OLTRE”,
1999, p. 197): secondo Simone, “Firenze non rappresenta
linguisticamente nulla per gli
italiani”, che hanno “rifiutato
compattamente” il fiorentino
“malgrado gli sforzi durati
per decenni”1 (“ITALIANO &
OLTRE”, 1999, p. 196). Questo rifiuto non avrebbe per
contro implicato l’adozione
da parte degli italiani di un
qualsivoglia altro modello di
lingua unitaria, restando eluso ancora una volta “il problema civico di una lingua
per tutti” (“ITALIANO & OLTRE”, 1999, p. 197). Il rifiuto di un “idioma federativo”
avrebbe avuto conseguenze
negative, che stanno sotto gli
occhi di tutti: “[...] una coscienza linguistica debole e
malcerta, un istinto unitario
assolutamente insufficiente,
una totale incertezza culturale e linguistica da parte dei
mass media (specialmente
la televisione), l’insensibilità
di questo problema da parte
di ministri e specialisti, una
perdurante disaffezione verso
la lettura e in genere verso la
cultura, l’inesistenza di una
letteratura nazionale capace di inventarsi e propagare
una lingua media per tutti, una pervicace resistenza
all’apprendimento universale
di una lingua straniera [...]”;
tutti questi problemi e, inoltre, la trionfante globalizzazione, che destrutturerebbe
le competenze linguistiche
“disarticolandole qualitativamente”, hanno contribuito
a fare dell’Italia “un paese
linguisticamente
mediocre
e culturalmente sconfortante” (“ITALIANO & OLTRE”,
1999, p. 197) e ad aprire il
fianco agli usi e agli abusi
di una lingua selvaggia, refrattaria a regole e a norme
d’uso. Insomma, la lezione
di Ascoli, che indicava nella
“scarsa densità della cultura”
(ASCOLI, 2008, p. 29) uno
dei principali motivi dell’impossibilità di avere anche in
Italia una lingua veramente
unitaria (e della decadenza
italiana in generale), continua ad essere quanto mai
attuale, “con o senza fiorentino” (“ITALIANO & OLTRE”,
1999, p. 197).
Riferimenti bibliografici
AA.VV. “Italiano & oltre”.
Anno XIV , n. 4, 1999.
Ascoli, Graziadio Isaia.
Scritti sulla questione della
lingua (a c. di C. Grassi).
Torino: Einaudi, 2008.
Bruni, Francesco. L’italiano
letterario nella storia. Bologna: Il Mulino, 2007.
Castellani, Arrigo. Saggi di
linguistica e filologia italiana e romanza. Roma: Salerno Editrice, 1980.
De Mauro, Tullio. Storia
linguistica dell’Italia unita,
Roma-Bari, Laterza, 1993.
Gramsci, Antonio. Quaderni del carcere (a c. di V.
Gerratana), vol. III. Torino:
Einaudi, 1975.
Leopardi, Giacomo. La varietà delle lingue (a c. di S.
Gensini). Firenze: la Nuova Italia, 1998.
Nella stessa rivista, il questionario di Neri Binazzi sembra confermare il ‘decadimento’ del fiorentino da lingua
nazionale a una varietà di lingua locale, che riconosce i “tratti forti” della sua identità in “[...] un lessico che ha stretto un
patto di ferro con l’informalità e tradizioni discorsive radicate nel profondo [...]”; La fiorentinità tipica è vitale e popolare,
ivi, p. 207. Del resto già nel 1956 Italo Calvino, nel suo lavoro di trascrizione delle principali fiabe della tradizione
italiana, Fiabe italiane, aveva ammesso di essere intervenuto per abbassare il tono linguistico di fronte alla marcatezza e
al carattere eccessivamente dialettale della lingua delle fiabe toscane.
8
L’italiano
contemporaneo:
una foto in
movimento
Elvira Federici
(Consolato Generale d’Italia in Curitiba)
Quella che parliamo, infatti, è una lingua che continuamente scorre e si rinnova, che
aderisce come una seconda pelle alla società che la usa e che di questa società segnala […]
tanto gli impercettibili mutamenti di una deriva quanto l’onda improvvisa della catastrofe.
(A. Sobrero, 1993)
N
onostante i suo tratti universali - la lingua è una
facoltà innata e innate
sono alcune procedure generative della lingua, come
ci ricorda Chomsky - sono
innumerevoli i modi di realizzare il pensiero e la comunicazione nelle diverse
lingue e, anche, all’interno
della stessa lingua. Una lingua si muove, muta, respira
esattamente come accade ai
parlanti. Possiamo ricostruirne la sua storia e la sua evoluzione nel tempo attraverso
la dimensione diacronica e
possiamo tentare di osservar-
ne una gamma di fenomeni
in un dato momento, attraverso la dimensione sincronica.
Con la descrizione sincronica
di una lingua, scattiamo una
foto di chi la parla, fermiamo
per un istante il suo fluire per
osservare più attentamente,
con il fenomeno linguistico,
9
quello dei mutamenti storici
e sociologici. La descrizione
sincronica - cosa accade simultaneamente in una lingua,
quanto alla dimensione semantica, morfologico-sintattica e pragmatica - è alla base
altresì di una storia, che si
percepisce nella dimensione
diacronica, ricostruita attraverso la sequenza dei mutamenti della lingua nel tempo.
Una lingua è un sistema integrato di sistemi, in dipendenza della storia di quella lingua
e della storia dei suoi parlanti.
L’ italiano in questo senso è una lingua emblematica
perché lingua “plurale” all’
interno degli stessi confini
italiani, per effetto della varietà di repertori linguistici a
disposizione dei parlanti. Le
ragioni sono sia di natura storica che sociolinguistica.
Come è noto l’ Italia, per
quanto da sempre “nazione”
sul piano storico, culturale e
antropologico, è stata soggetta per secoli ad una grande
frammentazione politica. Le
città, le signorie e i principati, hanno favorito, pur all’interno di una storia comune,
una differenziazione linguistica e culturale, oltre a quella
ricchezza artistico-architettonica, che è il tratto peculiare
del Paese.
Questo fatto e altre ragioni
di natura politica hanno ritardato il formarsi di uno stato
unitario che, per paesi come
la Francia, la Gran Bretagna,
la Spagna si può far risalire
invece ai primi secoli dopo
il Mille. Come Stato unitario
l’Italia si costituisce invece tardivamente, nel 1861, circa 40
anni dopo un paese del Mondo Nuovo come il Brasile.
Ciò significa che l’italiano,
per quanto già assestato nelle
fisionomie morfosintattica e
lessicale, dotato di prestigio
10
come lingua di cultura anche oltre i confini territoriali,
utilizzato nella forma scritta
su tutto il territorio, tarda a
diventare ufficialmente la lingua nazionale.
I dialetti si affiancano
all’italiano non esistendo, sul
piano linguistico-strutturale
nessuna differenza di “valore” tra lingua e dialetti e vanno a comporre il “ repertorio
di repertori” a disposizione
del parlante italiano.
Possiamo quindi dire che
il sistema linguistico italiano
è un sistema di sistemi che
hanno “[...] da tempo come
lingua guida […] l’ italiano”
(Pellegrini, 1977).
La distanza strutturale tra i
diversi dialetti riferibili all’italiano non è di molto inferiore
a quella tra le varie lingue romanze: un parlante siciliano e
un parlante bergamasco non si
capiscono più di quanto uno
italiano capisca uno spagnolo.
I dialetti dunque non sono
semplici varianti regionali
dell’italiano. Fanno, tuttavia,
parte del repertorio linguistico italiano, come l’italiano
regionale, una variante dello
standard fortemente influenzata dal dialetto.
Il repertorio linguistico degli italiani è così costituito di
una pluralità di repertori, che
includono una diglossia (uso
contemporaneo di due lingue, lo standard e il dialetto
) ma anche un’ampia gamma
di varianti dello standard.
Così, più precisamente, definisce il sistema linguistico italiano Gaetano Berruto (1987):
bilinguismo endogeno (determinatosi per fattori interni,
non dovuto a decisioni politiche o a migrazioni);
a bassa distanza strutturale (varietà dello stesso ceppo
romanzo, esposte al contagio
della lingua standard);
con dilalia (entrambi i repertori sono impiegabili in
sovrapposizione).
Cosa possiamo osservare
alla luce di questa definizione
di Berruto?
L’italiano standard, come
già ricordato, viene a costituirsi sul toscano-fiorentino
emendato, grazie al prestigio
dei tre grandi scrittori toscani,
Dante, Petrarca, Boccaccio,
che ne compiono di fatto una
sistematizzazione.
Questo modello – che
nel tardivo processo di unificazione nazionale diventa
occasione di un grande dibattito sintetizzabile ne “la questione della lingua” (si pensi
ad Alessandro Manzoni, e al
dibattito con il grande filologo Graziadio Ascoli, che
profeticamente ipotizzava un
italiano sovraregionale) - lascia tuttavia per secoli quasi
inalterata la prospettiva dei
parlanti. Il toscano-fiorentino,
che già aveva guadagnato la
sua diffusione non con l’imporsi come lingua del re, con
la spada o gli editti, ma per
il prestigio sommo dei poeti
che l’avevano di fatto sistemata morfosintatticamente e
nel lessico, era già modello
delle classi colte delle altre
regioni, al momento dell’unità nazionale. Lingua scritta,
lingua letteraria. Non ancora
la lingua parlata dagli italiani.
Una scolarizzazione ancora carente o legata al censo, la scarsa dimestichezza
con la lettura e la scrittura di
gran parte della popolazione
post-unitaria fa sì che i dialetti rimangano, localmente
e per lungo tempo la lingua
in uso, cui corrisponde l’italiano per tutte le forme scritte
e istituzionali.
Nel dialetto si realizza lo
scambio all’interno di una società che più che di cittadini
è fatta di comunità. Il dialetto
è infatti spesso l’unica lingua
degli emigranti (cosa che spiega lo strano destino della diffusione dell’italiano in paesi
come il Brasile, per esempio,
dove piuttosto trova sistemazione il Taliàn – dialetto veneto con innesti portoghesi).
Il quadro muta, e vertiginosamente, in tempi che possiamo considerare recenti. Il
boom economico della fine
degli anni Cinquanta, l’urbanizzazione, la migrazione
interna, la scolarizzazione
di massa e, non ultima, la televisione (De Mauro, 1976)
producono in pochi anni mutamenti in un contesto linguistico secolarmente immobile.
E la vera misura del mutamento sta nel fatto che l’italiano
diventa lingua parlata di tutti
e da tutti, non più solo quella codificata nella letteratura,
nella scienza, nell’amministrazione, imposta dallo Stato unitario a popolazioni sostanzialmente dialettofone, ma lingua
della comunicazione, con la
gamma di varianti che tenteremo di prendere in esame.
Se prima si parlava un
massimo di dialetti e un minimo di italiano, ora il rapporto
si inverte ovunque. Un’amplissima maggioranza italofona che sa e usa la lingua riferita allo standard in relazione
ai contesti comunicativi, si
contrappone ad una esigua
minoranza che parla solo il
dialetto (vedere in proposito il
fenomeno della convergenza
linguistica dei dialetti verso lo
standard, Sabatini, 1990).
I dialetti, sottratti alla funzione totalizzante di unica
lingua di comunicazione
cominciano a
recuperare,
una imprevista funzione di
arricchimento connotativo di
alcuni tratti culturali ( talvolta, con implicazioni etniche)
nei diversi strati sociali, come
lingua accanto all’italiano; in
questo senso: una varietà a
tutti gli effetti.
La persistenza del dialetto
si può pertanto ascrivere ad
una scelta del parlante che,
nella maggior parte dei casi,
dispone oggi di un ampio repertorio. Questo tuttavia non
può farci dimenticare che le
poche unità percentuali di
coloro che risultano parlanti solo il dialetto riguardano:
più vecchi che giovani, più
uomini che donne, più bassa
che alta scolarizzazione, più
realtà rurali e delle periferie
delle grandi città del sud.
Questa premessa, per dare
conto dell’estrema complessità del sistema linguistico
italiano: sistema di sistemi,
dicevamo, che include quattro dimensioni di variazione
sincronica, all’interno della
lingua italiana, secondo il
modello sociolinguistico di
Gaetano Berruto (1987) e una
varietà di repertori dipendente dai dialetti, di cui esistono
diversi modelli di descrizione.
Senza entrare nel merito
dell’efficacia ed esaustività
scientifica dei modelli, possiamo tuttavia prenderli a riferimento per “leggere” il sistema dell’italiano.
Se per standard intendiamo quella che per ragioni
storico-politiche e di prestigio
culturale, non certo per intrinseche qualità strutturali, diventa la lingua franca, questa sarà:
neutra, cioè non marcata
rispetto al dialetto;
normata, attraverso la codificazione in manuali e canoni;
normale, cioè statisticamente più diffusa tra i parlanti colti.
Lo standard è, alla lettera,
un punto di riferimento rispetto al quale descrivere le variazioni. Variazioni che rappre-
sentano la lingua viva, la lingua vera (senza contare che lo
stesso standard sembra essere
un bersaglio mobile, tanto è
soggetto a modificazioni)
Il fiorentino del 300 emendato e contaminato si identifica come standard, in cui
troviamo una varietà alta: a
base letteraria, italiano colto
formale, scritto e una varietà
bassa: l´italiano di uso medio o neo-standard, che, non
riguardando solo l’oralità,
rappresenta sempre più una
varietà panitaliana, usata da
parlanti di estrazione regionale, sociale o culturale diversa.
Nel modello sociolinguistico di Berruto, che tuttavia
mette in guardia dai limiti della schematizzazione, la varietà del repertorio, in dimensione sincronica, è data dalle seguenti, rispettive condizioni :
il mezzo fisico o il canale
della comunicazione, diamesia;
la situazione comunicativa, diafasia;
lo strato o il gruppo sociale dei parlanti, diastratia;
l’area geografica, diatopia.
Il modello da conto, della
varietà che si determinano se
il parlante è di questa o quella regione (diatopia); se parla
in un contesto comunicativo
formale o istituzionale o in
quello privato, colloquiale
informale (diafasia); se appartiene ad un ceto sociale più o
meno colto (diastratia); se usa
il canale verbale o comunica
attraverso altri mezzi di comunicazione, inclusa la scrittura (diamesia). Queste varietà, peraltro possono disporsi
su un continuum e solo raramente: nel caso di una lingua
scritta, scientifica, altamente
formalizzata, non mescolarsi.
La gamma dei repertori invece, se ci atteniamo alla pro-
11
posta capostipite (Pellegrini
1960) è data da:
italiano standard: non
marcato
italiano regionale: standard alto, con marche fonetiche e/o lessicali della regione;
koinè dialettale: dialetto
depurato dei tratti locali più
vistosi, che accoglie suoni e
forme dei grandi centri regionali ed è fortemente italianizzato (vedi la koinè romana,
veneta o napoletana);
dialetto locale.
Francesco Sabatini (1985),
peraltro, indica l’italiano standard e l’italiano di uso medio o
neo-standard, come le uniche
due “varietà” nazionali dell’italiano contemporaneo. Questa
affermazione quasi provocatoria, tende a rimarcare un tratto
fondamentale: che l’italiano è
la lingua universalmente parlata in Italia, a differenza di quanto accadeva fino a 50 anni fa.
Soffermiamoci sull’italiano neo-standard, che è non
solo la varietà bassa dello
standard, ma anche il repertorio che incontriamo sempre
più spesso, ad esempio, nella
comunicazione televisiva dei
talk show come delle soap.
Segno della caratteristica
“unificante” del neo-standard,, che non riduce la gamma delle realizzazioni dei
parlanti ma diventa, appunto,
un riferimento. Come tale utile per apprendenti l’ italiano
come seconda lingua.
Sabatini (1990) individua
14 tratti, dell’italiano di uso
medio o neo-standard. Ne ricordiamo alcuni:
lui lei loro in posizione di
soggetto (invece di egli, ella,
essi): loro stanno in albergo;
te usato con funzione di
soggetto, in luogo di “ tu”:
vieni anche te;
gli dativo unificato, al posto di le, loro: quando han-
12
no chiamato, gli ho detto di
passare;
l’uso pleonastico o affettivo delle particelle pronominali: a me mi piace; mi sono
fumato un sigaro;
che relativo, adottato anche per i casi obliqui (che
prevedono la preposizione +
il/la quale ecc.):
l’ anno che ti ho conosciuto;
che polivalente, connettivo generico che non consente
di precisare il valore temporale, causale o consecutivo:
vieni che ti aspettiamo;
l’indicativo in luogo del
condizionale e del congiuntivo: era meglio se studiavi (sarebbe stato meglio che avessi
studiato);
la dislocazione a sinistra:
quel vestito l’ho già messo.
Più in generale si osserva: una semplificazione del
sistema verbale dovuto a costruzioni
prevalentemente
paratattiche; la sostituzione
del congiuntivo con l’indicativo e della forma passiva con
quella attiva; l’estendersi delle concordanze a senso, es.
il padre con tutta la famiglia
erano emigrati.
Non è peraltro possibile
soffermarci sugli esiti lessicali
di questa neo-standardizzazione, data anche l’alta deperibilità di questi ultimi; ad
esempio, troppo al posto di
molto: troppo bello; assolutamente con valore affermativo:
assolutamente si!
Questi tratti danno conto di una lingua veramente
comune, soprattutto parlata
ma non solo, che si costituisce con la risalita da livelli
sub-standard, di forme prima
relegate nelle aree colloquiali o triviali ed ora accettate
nella lingua nazionale, i cui
confini sono evidentemente
aperti verso il basso (Sobrero, 1993).
In questo senso è interessante la definizione di italiano
tendenziale (Mioni, 1983) che
esplicita la tendenza dell’italiano popolare alla norma di
maggior prestigio. L’italiano
di uso medio o neo standard
sembra individuabile alla
confluenza di questo duplice
movimento: dello standard
verso il basso e del popolare
verso lo standard.
Conclusioni
Al termine di questo breve
excursus, sintetizziamo in
pochi punti la descrizione
effettuata secondo una prospettiva sociolinguistica.
Il repertorio linguistico degli italiani è costituito da:
- l’italiano standard, che
trova ovviamente spazio
maggiore nella forma scritta,
e comunque nella comunicazione più formale dell’istituzione, della scienza, dell’informazione (non possiamo
dire della letteratura, tout
court, dato l’alto tasso di
contaminazione linguistica
presente nella produzione
letteraria contemporanea);
- il neo standard o italiano dell’uso medio che,
oltre a semplificare la morfosintassi dello standard,
ingloba forme colloquiali e
triviali, che nella dimensione diatopica, (differenti aree
geografiche) rappresentano
le varianti dell’italiano regionale, determinatosi per
effetto dell’italianizzazione
del dialetto;
- i dialetti, tanto nella
dimensione regionale che
locale, utilizzati sempre più
spesso in sovrapposizionecontinuità con il neo-standard (dilalia).
Restano fuori da questa
sommaria trattazione - che
non dà conto, ad esempio
dell’italiano giovanile, del
gergo, delle lingue speciali,
peraltro virtualmente rappresentabili nel modello
di Berruto - l’italiano fuori
d’Italia, importante sia nella
prospettiva della diffusione
contemporanea sia in quella
del retaggio dell’emigrazione
e l’italiano degli attuali immigrati, interessante per registrare il mutamento della fisionomia demografica e culturale
dell’Italia stessa.
Se per l’italiano degli immigrati sono ancora in atto
studi i cui risultati non sono
consolidati, dato che il fenomeno è linguisticamente
e sociologicamente recente,
per l’italiano degli emigranti e dei discendenti esistono certamente molti studi.
Di fatto, si può dire che un
italiano degli emigranti non
esiste in quanto tale, trattandosi, come sappiamo di
fossilizzazioni del dialetto,
contaminato con la lingua
del paese di nuova residenza. Sappiamo peraltro che,
per ragioni di natura sociologica e storica – il patimento
di un generale pregiudizio
nei loro confronti- gli italiani emigrati non hanno tenuto
a conservare la lingua per i
discendenti, cercando anzi,
il massimo grado di integrazione con l´apprendimento
della nuova lingua.
Quello che rimane, nei
dialetti e dei dialetti, appare piuttosto un lessico famigliare, parlato dai nonni,
solo capito dai padri, sostanzialmente ignorato dai
nipoti (lo scrittore Osvaldo
Soriano racconta che, nella
sua esperienza di bambino,
si era fatto questa idea, sentendo i nonni parlare una
lingua solo capita e non
parlata dai genitori: più si
diventava vecchi, più si diventava italiani!). In questo
senso lo studio e la diffusione dell’italiano contemporaneo a partire dai discendenti, nonostante il forte legame
linguistico e culturale con
l´Italia, non è cosa acquisita
né dagli esiti certi.
Benché sotto la spinta di
enormi cambiamenti storicosociali, l’italiano mostra tuttavia di godere ottima salute: nella diffusione- vedere i
prestiti verso le altre lingue e
il numero di studenti, che la
pongono tra le prime quattro
o cinque nel mondo; nella
tenuta strutturale e sintattica; nella “demodiversità”1,
rappresentata dai dialetti.
Infine, nella sua base lessicale, praticamente invariata
rispetto alla sua storia secolare: il vocabolario di base
della lingua italiana (De
Mauro, 1980) è costituito da
circa:
2000 parole Fondamentali
3000 parole ad Alto Uso
2000 parole ad Alta Disponibilità.
Sono ancora quelle della
lingua di Dante.
Riferimenti bibliografici
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De Mauro,T. Storia linguistica dell’Italia unita, Bari,
1963 e 1976
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De Mauro, Mancini F.
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dell’uso medio: una realtà tra le varietà linguistiche italiane in Holtus,
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Id. Una lingua ritrovata:
l´italiano parlato, in V. Lo
Cascio (a cura di) Lingua e
cultura italiana in Europa,
Firenze, 1990
Sobrero A., Introduzione
all’italiano
contemporaneo, Roma-Bari, 1993.
1
La parola demodiversità è cominciata ad apparire come calco del neologismo “biodiversità” e sta a significare il
complesso di differenze linguistico-culturali-antropologiche all’interno di un Paese o comunque di un contesto sociopolitico definito.
13
Bella!
Ci 6? Allora
parliamo in
‘giovanilese’
I
Anna Palma e Paula Garcia de Freitas
(Universidade Federal de Santa Catarina)
l “giovanilese”, probabilmente sempre esistito, se
visto come creazione di
nuove parole ed espressioni a
partire dalla lingua standard e
di variazioni già esistenti, sta
assumendo uno spazio sempre più ampio in cui manifestarsi dentro, soprattutto, alla
comunicazione elettronica.
Dai linguisti è definito
Linguaggio Giovanile (LG),
e può essere inteso strictu
senso, come la lingua parlata dai giovani in determinate situazioni, una specie
di gergo. Coveri (1988, p.
231) lo definisce come una
varietà utilizzata quasi esclusivamente nelle relazioni di
peer group, da adolescenti e
postadolescenti (teenagers).
Si tratta, spiega Coveri, di
quella fascia di età (11-19
anni) che, dal punto di vista
linguistico, è caratterizzata
dal passaggio dal linguaggio
infantile alla competenza linguistica ‘adulta’ mentre, dal
punto di vista psicologico, è
il momento della costruzione dell’identità di sé, quando i modelli di riferimento e
di comportamento passano
dalla famiglia al gruppo di
coetanei. Ma è definito an-
14
che “[...] un italiano zeppo
di parole e locuzioni filtrate
dalle varietà di lingua parlate
originariamente soltanto dai
giovani [...]” (NOVELLI, [s.
d.]), utilizzato, pertanto, anche da altre generazioni.
Ce lo immaginiamo e ricordiamo come espressione
della lingua orale, fenomeno
locale e a volte ristretto a un
unico quartiere o a un gruppo
di amici, la verbalizzazione
dello spirito degli adolescenti, anticonformisti e desiderosi di parole o espressioni
che potessero rappresentare,
in modo efficiente ed efficace, il loro desiderio di essere
e di agire. Non possiamo dimenticarci dell’importanza
del ruolo delle radio FM in
questo senso, dove programmi musicali dedicati esclusivamente ai giovani possono
essere considerati un veicolo
delle espressioni del mondo
giovanile sia a livello locale
che nazionale. Con l’avvento
dei cellulari e dell’Internet,
prende piede anche una diffusione in larga scala della
sua variante scritta.
Il LG è stato classificato,
quindi, come una varietà diafasica, cioè, un registro utiliz-
zato dai ragazzi in situazioni
comunicative informali e prevalentemente orali (D’ACHILLE, 2006) ma, anche nello
scritto, per lo più di carattere
breve, si possono rintracciare
usi propri dei giovani, come
nei graffiti, nei messaggi sms,
blog, ecc. Si tratta di una varietà diafasica della lingua,
così come diatonica, perché
dipende da fattori geografici
e diastratica, giacché coincide fino a un certo punto
con l’italiano comune, e che
viene impiegato dai giovani
esclusivamente nelle relazioni di gruppo.
Possiamo dire che ogni
generazione tende a differenziarsi da quella precedente e
questo spiega la dinamicità
e la straordinaria capacità di
rinnovarsi del LG, che produce anche un grande ‘spreco’
linguistico: molti dei lemmi
prodotti e ‘in voga’ per qualche tempo vengono abbandonati nel giro di breve tempo – durano al massimo una
decina d’anni e poi scompaiono. Ma è ormai sempre
più una convinzione
che la lingua dei giovani è una varietà
che influisce più
che mai sull’ita-
liano contemporaneo e “[...]
che urge una descrizione
linguistica di questa varietà
tralasciata dai linguisti [...]”
(RADTKE, 1993).
In Italia, pur essendo data
una maggior attenzione al LG
della fine degli anni Ottanta
e inizio degli anni Novanta,
un uso linguistico delle generazioni più giovani si può individuare già negli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto
dopo il Sessantotto, in conseguenza anche del progressivo abbandono del dialetto
(D’ACHILLE, 2006).
Secondo Radtke (1993), a
cui si devono le più dettagliate ed esaurienti esposizioni
critiche del linguaggio giovanile italiano, questa nuova
lingua si è andata affinando
come realizzazione linguistica che sostituisce il dialetto
a livello di parlare emotivo,
affettivo e informale. Questo
perché fino agli anni 50-60
si usava l’italiano per le situazioni formali e il dialetto per
quelle
colloquial-familiari.
Da quando nel nord-ovest e
nel centro Italia il dialetto è
quasi scomparso, il bisogno
di comunicare con emotività
ha contribuito a creare il linguaggio giovanile che nel Sud
si è sviluppato con dieci anni
di ritardo e di cui ora si vedono i primi accenni.
Una caratteristica notevole del LG è l’inventività e
varietà espressiva nell’uso
ludico del linguaggio, forse
per un bisogno di espansione
linguistica, forse per il desiderio di distinguersi da tutti e da
altri gruppi coetanei. Il carattere di ludico nasce dal gioco
con gli elementi della lingua
standard da cui deriva. Da qui
anche la classificazione di
substandard che è attribuita a
questa varietà linguistica (ALBRECHT, 1993). L’intervento
linguistico avviene a tutti i
livelli linguistici. A livello fonetico, un fenomeno molto
frequente è la distorsione della catena fonica a fine tabuistico, come trullo vs. grullo,
cioè, tonto (BANFI, 1992).
Ci sono esempi di deformazioni giocose, come iao vs.
ciao, abbreviazioni di parole,
come prof per professore e un
fenomeno che va molto forte
che è il raddoppiamento, che
consiste nella reiterazione di
un vocabolo con funzione
intensiva, come ciao ciao, oppure molto molto.
A livello lessicale, il livello di analisi che più offre
elementi caratteristici e significativi, sono frequenti le
cosiddette parole macedonia, che mischiano due o tre
parole come handicapace,
da handicappato + capace),
i forestierismi, soprattutto
anglicismi come okay, love,
oops!; i termini propri di lin-
guaggi settoriali, della lingua
della pubblicità, il dialetto,
che si nutre di elementi tratti sia dal dialetto parlato in
famiglia, sia da altri, come
il milanese, il napoletano e
soprattutto il romanesco, da
cui proviene, per esempio,
fico con valore apprezzativo
(D’ACHILLE, 2006).
L’aspetto ludico si riflette
anche a livello frasale (DINALE,
2001) nei giochi di parole, nelle rime e filastrocche ed espressioni per mettere un evento in
rilievo, come non ci posso credere!, non puoi capire!, non
esiste proprio!, ti prego!, più o
meno marcate a seconda del
luogo in cui si danno.
A livello semantico si riscontrano (SOBRERO, 1993)
estensioni semantiche come
godo per ‘sono contento’,
usato quasi sempre con un
pizzico di ironia, o enorme, bestiale o pazzesco, per
‘bello, fantastico’. Ci sono
pure risemantizzazioni come
nell’uso della parola bella! nel
senso di ciao! diffusa da Milano e da Roma; spostamenti di
significato, come gasarsi per
‘darsi delle arie’ o nonno per
‘noioso, obsoleto’ e esagerazioni: spacco tutto, mi diverto
una follia, ecc. Oltre agli elementi linguistici, il linguaggio
giovanile gioca anche sugli
elementi extra-linguistici, specialmente sull’intonazione di
voce e sui gesti.
Secondo Albrecht (1993) è
possibile descrivere “[...] buona parte del linguaggio giovanile ricorrendo alla retorica,
più precisamente all’elocutio,
di cui la parte più conosciuta
è l’ornatus [...]” (p. 30). Infatti, secondo questo autore, il
linguaggio giovanile utilizza
metafore o altri tropi della retorica tradizionale.
Le tracce giovanili possono essere incontrate anche
15
nello scritto, dove si presentano come forma di comunicazione veloce e informale,
per certi versi simile al parlato. Sono la chat, il blog e gli
sms che si caratterizzano a
seconda del mezzo utilizzato, il computer o il cellulare.
La velocità di composizione
dei messaggi vincolati a questi mezzi porta a deviazioni
e a un decadimento, per così
dire, ‘autorizzati’ e poi, a
seconda del mezzo utilizzato, avremo delle peculiarità
specifiche. Di solito la grafia
utilizzata in questi mezzi è
poco curata e assolutamente
informale, tanto che ricorrono frequenti errori di demarcazione, frutto del cattivo uso
della tastiera per la fretta di rispondere on line. Compaiono
soluzioni grafemiche come
il diffusissimo K al posto del
ch dell’italiano standard – ke,
qualke, anke per che, qualche
e anche (PISTOLESI, 2004) o
l’utilizzazione di abbreviazioni inventate, molte delle
quali diventate canoniche,
come “6” per la seconda persona del verbo essere o “xke”
al posto di perché.
Il ludico giovanile si vede
nello scritto attraverso gli
Emoticon, le famose faccette
che accompagnano i messaggi, attraverso i monogrammi,
cioè, quella unica lettera (o
più lettere) che abbreviano
una parola o un’intera frase
come cmq per comunque e
nn per non o TVB per ‘Ti voglio bene’.
Se molti elementi propri
del LG hanno una vita effimera, altri hanno una durata
più lunga e possono perfino
passare alla lingua comune. È il caso, per esempio,
dell’uso della parola cioè
come segnale di apertura discorsiva, molto in uso nella
generazione post-sessantot-
16
tina che piano piano cede
il campo a niente; oppure il
caso di molte voci ed espressioni di origine dialettale o
gergale (come stare in campana = tenersi pronto, stare
all’erta) che grazie all’importante mediazione dell’uso
dei giovani sono entrate o
stanno entrando nel neostandard, perdendo così la loro
connotazione ‘giovanile’.
Per quanto brevemente
esposto in questo articolo,
possiamo concludere che il
Linguaggio Giovanile è, probabilmente, l’esempio più
“vivo” di un idioma, la fonte
più ricca e costante di rinnovamento espressivo e lessicale
di una lingua, rappresentante
dell’anticonformismo salutare
proprio dell’età giovanile. Se
negli ultimi decenni l’importanza linguistica di questo
substandard è cresciuta tanto
da richiamare l’attenzione di
specialisti, è perché l’espressività giovanile ha trovato più
spazi, rispetto alle vecchie generazioni, in cui manifestarsi
ed assumere il carattere di
una variazione linguistica di
largo uso, non più a livello locale come nei dialetti, da cui,
comunque, continuano ad
attingere. Da qui le influenze
sulle variazioni dell’italiano
standard di cui si è accennato. Tutti segnali, a nostro parere, di una più significante
attenzione, dentro la società,
del ruolo svolto dai giovani
anche, e questo non sempre
può essere visto come un
elemento positivo, dal punto di vista economico, come
consumatori a cui dirigere un
particolare interesse.
Riferimenti bibliografici
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RADTKE, Edgar. Il linguaggio giovanile in Italia: state of art, le fonti, la documentazione, la descrizione
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SOBRERO, Alberto A. Costanza e innovazione nelle
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Tübingen: Narr, 1993, pp.
95-108.
Quale lingua
insegnare? Riflessioni
sull’insegnamento
dell’italiano oggi
Elisabetta Santoro
(Universidade de São Paulo)
N
on di rado chi insegna
una lingua non materna si trova in difficoltà
nel momento in cui deve
definire qual è la lingua da
portare in classe e decidere
cosa deve essere considerato “giusto” o “sbagliato” in
quella determinata lingua.
La questione si fa ancora più
difficile quando la lingua da
insegnare è l’italiano e la
situazione linguistica si presenta complessa come in Italia dove, oltre alle variazioni determinate da normali
fattori extralinguistici, esiste
un repertorio diverso da regione a regione, influenzato
soprattutto dai diversi dialetti e dalla stratificazione
sociolinguistica dell’italiano
contemporaneo che rende
difficile l’individuazione di
una norma e di modelli a cui
fare riferimento.
“Tra
i
due
poli
“giusto”/”sbagliato” si situa una zona grigia, in cui
il parlante nativo può avere
dubbi e incertezze” afferma
Luca Serianni (Prima lezione
di grammatica, Roma-Bari,
Laterza, 2006), constatando
che per definire cos’è l’ita-
liano si parte spesso dalla
norma grammaticale, mentre
sarebbe, invece, indispensabile considerare anche le
diverse possibilità d’uso che
subentrano in seguito a modifiche delineatesi nel corso
del tempo e risultanti dalle
influenze reciproche di fattori come, ad esempio, l’oralità
e la scrittura o i diversi gradi
di formalità. Sempre secondo
Serianni, nel caso dell’italiano, le incertezze riguardano
una quantità di fenomeni
molto più estesa in relazione ad altre lingue per almeno due motivi: 1. la tardiva
affermazione di una lingua
comune e la conseguente
convivenza di più forme che
non sono state filtrate, né sottoposte al naturale processo
di stabilizzazione delle lingue parlate da molti secoli; 2. il valore attribuito alla
codificazione grammaticale
da una tradizione letteraria
molto distante dall’effettivo
uso della lingua.
Per decidere come comportarsi in questa intricata
situazione di partenza, i docenti potrebbero decidere di
ricorrere al Quadro Comune Europeo di Riferimento
per le lingue (QCER)1, che si
propone di indicare percorsi
di riflessione tanto a chi insegna, quanto a chi impara
una seconda lingua. E’ nella
sezione in cui tratta dei descrittori di appropriatezza
sociolinguistica (p. 149) che
il QCER affronta la questione dei registri e delle varietà
della lingua. Il QCER pro-
1
Il titolo completo del documento è Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue: apprendimento, insegnamento, valutazione. E’ uscito in inglese nel 2001 ed è stato pubblicato in italiano nel 2002 (La Nuova Italia, traduzione
di F. Quartapelle e D. Bertocchi).
17
pone comportamenti diversi
a seconda dei diversi gradi
di competenza e suggerisce
che solo a partire dal livello B2 si inizi a considerare
l’appropriazione dei registri
da parte dell’apprendente,
visto che ancora al livello B1
sottolinea che chi impara “è
in grado di realizzare un’ampia gamma di atti linguistici
e di rispondervi usando le
espressioni più comuni in
registro ‘neutro’”. In altre parole, l’indicazione del QCER
è che fino al raggiungimento
del cosiddetto livello soglia
gli input testuali rappresentino una varietà di lingua
neutra e non marcata e che
le produzioni orali e scritte
richieste agli studenti rispettino le stesse caratteristiche.
La lingua così com’è nella realtà potrebbe essere utilizzata in classe solo a partire dal livello B2, quando
l’apprendente “è in grado di
esprimersi in modo sicuro,
chiaro e cortese in registro
formale o informale a seconda della situazione o della
persona implicata”. Giungendo al livello C1, lo studente
“coglie i cambiamenti di registro” e avrà imparato “a riconoscere un’ampia gamma
di espressioni idiomatiche e
colloquiali”, anche se solo
al livello C2, quello più alto
secondo il QCER, “coglie
pienamente le implicazioni
sociolinguistiche e socioculturali del linguaggio di un
parlante nativo e reagisce in
modo adeguato”. La pienezza
e la complessità della lingua
che sta imparando potrebbero, insomma, essere “rivelate”
solo quando lo studente arriva a livelli di conoscenza della lingua molto elevati.
Tutto questo discorso ci
pone di fronte a una prima
questione: esiste la “lingua
neutra” di cui parla il QCER?
E se esiste, quale sarebbe? Si
potrebbe forse trattare di quella lingua che alcuni docenti si
rammaricano di non riuscire
più a trovare neanche nei film
doppiati, nella voce dei presentatori radiofonici o televisivi o nelle rappresentazioni
teatrali, visto che persino in
questi ambienti l’italiano cosiddetto standard ha lasciato
il posto a quello che è stato
definito semistandard o substandard e che ammette variazioni regionali soprattutto
a livello fonetico. Di fatto, il
“mito” dell’italiano standard
o italiano della norma che
non lascia spazio a varietà di
alcun tipo e che si “impara”
dalle grammatiche e nei corsi di dizione è stato da tempo
superato ed è stato sostituito
da un italiano che vede la
norma in modo più flessibile
e che, come nella comunicazione “reale”, ammette variazioni di diverso tipo.
Il riferimento linguistico
non è più la letteratura, che
contiene, tra l’altro, essa stessa diversi registri e consente
sempre più la penetrazione di
elementi regionali o derivati
da situazioni comunicative
di vario tipo, ma la lingua effettivamente utilizzata dalla
massa dei parlanti che usano
l’italiano e lo adeguano alle
loro necessità linguistiche,
dando origine nell’uso a variazioni che, nel corso del
tempo, vengono incorporate
o respinte e alterano quello
che, citando ancora una volta
Serianni, potremmo chiamare “comune sentimento della
lingua”, espressione coniata
sulla base di quello che nel
diritto viene definito “comune
sentimento del pudore”2. Dovrebbero essere, insomma, gli
stessi parlanti a definire cosa
si può o no ammettere nella
loro lingua e a determinare,
attraverso il loro uso della lingua, l’accettazione o il rifiuto
dei cambiamenti, superando
l’incertezza e assumendo il
ruolo di “arbitri linguistici”.
Succede, dunque, che a
voler usare in classe una lingua “neutra”, si correrebbe
il rischio di utilizzarne una
eccessivamente distante da
quella effettivamente presente nelle situazioni in cui si comunica in italiano oralmente o per iscritto. Una lingua
non marcata non potrebbe
infatti corrispondere né alla
comunicazione quotidiana
e informale, né a quella colta, burocratica o formale, ma
neanche a tutta una serie di
situazioni intermedie in cui
sono praticamente sempre
presenti elementi che difficilmente potranno essere considerati “neutri”, visto che
manifesteranno sempre le
caratteristiche di una determinata situazione comunicativa
e di una specifica comunità di
parlanti.
Va aggiunto che, se è
vero quello che abbiamo affermato finora, è anche vero
che portare in classe un testo
scritto o parlato in una lingua
“neutra” porrebbe al docente
un ulteriore problema: difficilmente potrebbe non essere
un testo creato a soli fini didattici e sarebbe, pertanto, un
testo senza lo spessore enunciativo e la dimensione culturale della comunicazione
vera. Diversamente da quella
presente nel materiale auten-
2
Il saggio di Serianni si intitola “La lingua italiana tra norma e uso” ed è apparso in MARELLO, C. & MONDELLI, G.
(a cura di) (1991). Riflettere sulla lingua, La Nuova Italia, Firenze.
18
tico, la lingua creata apposta
per l’insegnamento sopprime,
infatti, il contesto e le possibilità interpretative che ne derivano, impoverendo la comunicazione ed affidandosi ad
un’artificialità che si distanzia
dalla vita reale e non prepara
gli studenti ad affrontarla.
A quest’ultima riflessione
si collega ancora una domanda: si può “nascondere” allo
studente la lingua della realtà finché non arriva ad un livello avanzato? In che modo
reagirà un apprendente a un
contatto extrascolastico con
la lingua che studia, se non
gli si presentano già in classe le variazioni che questa
lingua contiene? Anche se
si hanno in mente studenti
che imparano l’italiano fuori
d’Italia e che probabilmente
vedranno nell’insegnante il
loro principale punto di riferimento linguistico, non si può
non considerare che questi
apprendenti possono facilmente ascoltare altre voci in
internet, in televisione o al cinema e che hanno numerose
possibilità di accesso a testi
di vario tipo. Sarà pertanto
necessario considerarli anche
in classe, analizzarli, capire e
far capire agli studenti a quali ambienti e a quali varietà
appartengono per permettere
loro di orientarsi e di imparare ad individuare le forme e
i registri che vanno utilizzati
nelle diverse situazioni comunicative in cui ci si può trovare. Se l’obiettivo è insegnare
una lingua da utilizzare nella
realtà, devono dunque essere
presi in considerazione anche
in classe i numerosi modelli
che si hanno a disposizione
e non si possono escludere
le infinite trasformazioni che
derivano dai diversi tipi di variazione.
Se pensiamo, per cominciare, alla variazione diatopica, ovvero, quella dipendente
dalle diverse influenze regionali e determinata, pertanto,
da fattori collegati alle aree
geografiche, abbiamo già alcune classificazioni che, partendo dall’italiano standard,
ci fanno arrivare fino ai diversi dialetti che contraddistinguono linguisticamente l’Italia. Come abbiamo già visto,
l’italiano standard, ovvero
quello che si ispira ai modelli
dell’italiano scritto, colto e letterario e che a livello fonetico
e fonologico segue le norme
stipulate, si può considerare
praticamente inesistente nella
vita reale. Di fatto, la varietà
di italiano di gran lunga più
frequente anche tra gli italofoni di elevato livello culturale
è quella dell’italiano semistandard o sub-standard che,
sebbene non sia facile da delimitare, può essere definito
come quella varietà di italiano che include diversi aspetti
dell’italiano standard comuni
a tutto il territorio nazionale,
ma non ignora le diversità
regionali e non è quindi una
varietà compatta ed unitaria.
Si parla poi di italiano regionale quando si pensa alla vasta gamma di fenomeni tipici
delle varie regioni d’Italia che
saranno ovviamente diversi
da regione a regione e che,
pur di provenienza dialettale,
si innesteranno sull’italiano
standard, senza alterarne la
comprensibilità e la capacità
di penetrazione nazionale.
Solo un gradino al di sopra
rispetto ai dialetti, si trovano
poi le diverse manifestazioni
di italiano popolare, proprio
degli strati sociali con un basso livello di scolarizzazione
e caratterizzato da tratti di
chiara derivazione dialettale
e fenomeni di ipercorrettismo
a tutti i livelli. Oltre alle citate varietà, è noto che fanno
ancora parte del repertorio
linguistico degli italiani, indipendentemente dal livello
di istruzione, i diversi dialetti
che, soprattutto in alcune regioni, in situazioni familiari
e informali, vengono ancora
spesso utilizzati e con cui,
quindi, sarebbe auspicabile che lo studente straniero
venisse a contatto, almeno
in alcuni momenti del suo
19
percorso di apprendimento
dell’italiano, in modo da poter conoscere appieno la realtà linguistica italiana e prepararsi alle diverse situazioni.
La distinzione che abbiamo appena visto è essenzialmente basata su caratteristiche geografiche e considera
soprattutto i possibili influssi
dei dialetti e dei regionalismi sull’italiano. Si è visto,
comunque, che in alcuni
momenti è già stato necessario ricorrere anche a fattori
come la provenienza sociale
e il grado di scolarizzazione
per poter spiegare certi fenomeni. Di fatto, la riflessione
su quella che si è soliti chiamare variazione linguistica
non si limita alle questioni
geografiche, ma considera
vari altri elementi che, semplificando, possono essere
inseriti nella variazione diastratica, diafasica, diamesica
e diacronica.
Come si è già visto, la
lingua cambia a seconda dei
gruppi sociali che la utilizzano. Si parla per questo tipo
di fenomeni di variazione
diastratica che dipende, tra
le altre cose, dall’età, dalla professione, dal sesso e
dal livello d’istruzione dei
parlanti. Visto che i parlanti
appartenenti a livelli sociali
più elevati sono quelli con
un più generalizzato accesso
all’italiano standard e di conseguenza quelli che meno
producono “forme devianti”
rispetto alla norma, si considerano in questo tipo di variazione soprattutto le varietà
“basse” come il già citato italiano popolare o, a seconda
dei casi, la lingua colloquiale di uso comune. Un altro
aspetto rilevante è, tra gli altri, quello dell’italiano giovanile che introduce trasformazioni, il cui uso viene talvolta
20
ampliato fino a diventare parte dell’italiano comune.
Esiste poi la variazione
diafasica in cui la dimensione
del cambiamento è data dalla
situazione comunicativa, così
che si configurano i cosiddetti registri e le lingue speciali
o settoriali. E’ essenziale in
questo tipo di variazione considerare i cambiamenti dovuti
alle caratteristiche dei diversi
interlocutori e al conseguente
grado di (in)formalità che ne
deriva e che influenza le scelte linguistiche di chi partecipa
all’evento comunicativo.
Un ruolo importante ha
anche la cosiddetta variazione diamesica, ovvero quella
che dipende dal mezzo in
cui la lingua viene veicolata.
Una fondamentale differenza
è quella tra la lingua parlata
e quella scritta che è un’opposizione che attraversa tutte quelle che abbiamo citato
finora e, al tempo stesso, ne
è attraversata. Di fatto, la diversa natura del mezzo utilizzato per la comunicazione
induce a scelte obbligate che
per molto tempo non sono
state prese in considerazione, visto che le descrizioni
dell’italiano sono state basate solo su testi scritti, per
di più di registro formale, e
che queste descrizioni hanno
rappresentato il punto di riferimento per decidere sulla
correttezza di un enunciato, indipendentemente dalla
situazione in cui era stato
prodotto. Negli ultimi decenni questo atteggiamento è
profondamente cambiato
e i numerosi studi condotti sulla lingua parlata hanno evidenziato
una serie di notevoli
differenze tra lo scritto
e il parlato. Solo per
fare qualche esempio,
nel parlato si verifica
la frammentazione sintattica
e si osserva la presenza di
enunciati più brevi, spesso
anche non conclusi; ci sono
evidenti pause di esitazione
per la riformulazione, riorganizzazione e autocorrezione;
viene utilizzato con una frequenza sempre maggiore il
cosiddetto “che polivalente”;
si semplifica il sistema verbale di alcuni tempi (aumenta
soprattutto l’uso del passato
prossimo a scapito del passato remoto) e modi (maggiore
uso dell’indicativo rispetto al
congiuntivo).
Menzioniamo per ultima la variazione diacronica,
ovvero quella che considera
i cambiamenti che avvengono nel corso del tempo.
I fenomeni più interessanti
sono spesso quelli che stanno avvenendo nel momento
stesso in cui la lingua viene
osservata e che verranno interpretati in modo diverso a
seconda del concetto di norma a cui si fa riferimento. La
lingua che cambia, dunque,
e che lo mostra in maniera particolarmente evidente
nel lessico che deve via via
incorporare e riflettere ciò
che si trasforma nel mondo.
Molto meno appariscenti
sono le alterazioni a livello
fonologico e morfosintattico che avvengono in modo
decisamente più lento e che
necessitano di un periodo
maggiore di assorbimento.
Sappiamo, infatti, che un
cambiamento all’interno di
un sistema linguistico non
avviene praticamente mai in
modo repentino, ma prevede
tempi anche piuttosto lunghi
di convivenza tra la forma
già consolidata e quella nuova che tende a soppiantare la
prima, occupando parzialmente o totalmente la sua
area funzionale.
La lingua è dunque sempre in movimento e viene costantemente trasformata a vari
livelli. E’ per questo illusorio
credere in una norma fissa e
immutabile che dovrebbe servire come costante punto di
riferimento per aiutarci a individuare ciò che si può o non
si può dire, nel nostro caso,
in italiano. Questa consapevolezza porta inevitabilmente
ad uno spostamento del con-
cetto di norma che si avvicina
all’uso e che riconosce e accetta il modo in cui gli italiani
effettivamente parlano e scrivono, considerando che diverse forme linguistiche possono anche convivere e che
la descrizione dell’uso deve
tenerne conto.
E’ stato a partire da considerazioni di questo genere
che a partire dagli anni ’80
diversi linguisti hanno cercato di dare un nome al “nuovo” e sempre meno rifiutato
italiano. Da una parte, Francesco Sabatini in un testo del
1985 ha proposto il concetto
di italiano dell’uso medio che
esemplificava indicando una
serie di tratti fonologici, morfosintattici e lessicali e che,
a suo parere, si candidava
“ad occupare, dopo secoli
di ostracismo, il baricentro
dell’intero sistema linguistico
italiano”. Poco più tardi, nel
1987, è stata la volta di Gaetano Berruto che, definendo
l’italiano che chiamava neostandard, sottolineava l’importanza delle varietà linguistiche presenti in Italia e la
necessità che si stabilisse fra loro un rapporto
dialettico per poter
definire un nuovo standard non
escludente che non
ignorasse il reale
uso dell’italiano.3
Possiamo ora tornare alla domanda
che ci siamo posti fin
dal titolo. Considerando tutte le variazioni e
i possibili fattori che le
influenzano, qual è l’italiano che si deve insegnare?
Che cosa si deve considerare “giusto”? Come spesso
accade, è difficile dare una
risposta univoca e valida in
tutte le situazioni. Abbiamo visto che molto dipende
dalle situazioni in cui si usa
la lingua che spesso, proprio grazie ai cambiamenti
in corso, si arricchisce e ci
mette a disposizione diverse
possibilità. Si dice spesso che
l’italiano tende ad un impoverimento che molti vedono,
per esempio, nell’apparente
perdita del passato remoto
o del congiuntivo. Non mi
pare che sia così. Non ancora, quanto meno. L’italiano
di oggi vive quella fase di
convivenza di diverse forme che offrono a chi parla
e a chi scrive maggiori possibilità di scelta e quindi di
variazioni anche espressive.
Ciò che importa, pertanto,
è che si conoscano a fondo
le possibilità della lingua e
che si impari a distinguere
quali sono le situazioni in
cui possono essere utilizzate,
i diversi contesti in cui una
forma deve essere preferita a
un’altra e gli svariati effetti di
senso che l’uso di una possibilità invece di un’altra può
creare nel testo orale o scritto
che si sta producendo. Imparare l’italiano oggi significa
insomma non solo conoscere
e saper riconoscere le varietà che possiede, ma anche la
loro posizione all’interno del
sistema linguistico. Solo così
la lingua potrà essere usata in
modo consapevole e permettere agli apprendenti di gestire la comunicazione con la
necessaria competenza.
3
Il testo di Francesco Sabatini a cui facciamo riferimento si intitola “L’italiano dell’uso medio: una realtà tra le varietà linguistiche italiane” ed è stato pubblicato in G. Holtus e E. Radtke, Gesprochenes Italienisch in Geschichte und
Gegenwart (Tuebingen, Narr, 1985). Il libro di Gaetano Berruto è, invece, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo.
Dopo la prima pubblicazione del 1987 (Roma, La Nuova Italia Scientifica), è stato ripubblicato nel 1998 dalla Carocci
Editore (Roma).
21
Parole della
«Costituzione
italiana»:
opinioni
politiche
I
Massimo Fanfani
(Università degli Studi di Firenze)
l testo della Costituzione
italiana, promulgato il 27
dicembre 1947, non solo
costituisce il documento fondativo dell’Italia repubblicana
e la pietra d’angolo della sua
legislazione, ma è una pagina esemplare anche dal punto di vista linguistico e, se si
vuole, letterario: semplice e
chiara ma insieme profonda
di memorie e di auspici, ricca di parole comprensibili a
tutti ma dette con voce seria
e quasi accorata, affinché tutti
si sentano spronati a guardare
avanti, a volgersi al bene comune. Tanto che proprio per
il suo intrinseco spessore linguistico, tale testo ha interessato anche gli specialisti: fra
l’altro, già nel 1971, l’Istituto
per la Documentazione Giudica di Firenze ne pubblicò le
concordanze a cura di Anna
Maria Bartoletti Colombo e di
recente, per la ricorrenza del
sessantesimo
anniversario,
Tullio De Mauro è tornato ad
analizzare il suo lessico con
un penetrante saggio che accompagna l’edizione stampata dalla Utet di Torino1.
Se in particolare ci si sofferma sul lessico, che assomma a soli 1357 lemmi – e per
tre quarti appartenenti al vocabolario di base dell’italiano – ci si rende subito conto
di trovarci di fronte a parole
“importanti”, decisive sia per
il valore che esse assumono
all’interno del contesto costituzionale, sia per gli echi che
provengono dalla loro storia,
talvolta di secoli. Se, ad esempio, consideriamo un’espressione che pur compare una
sola volta nella Costituzione,
“opinioni politiche”, non si
può negare che essa acquisti un riflesso particolare dal
fatto che è collocata in un articolo cardine fra quelli che
compongono la tavola dei
principî fondamentali, il ter-
zo, che recita nel suo primo
comma: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»2.
Il dettato è chiaro: s’intende proclamare in modo esplicito e solenne l’uguaglianza
di ogni cittadino, e insieme
la sua piena libertà di essere
quello che è, sia per ciò che
riguarda la sua natura (sesso e
razza), la sua cultura e le sue
idee (lingua, religione, politica), le sue condizioni (professione, classe sociale, censo).
Come l’uguaglianza non va
intesa grossolanamente, così
la libertà non è assoluta, ma
viene circoscritta dalla stessa
carta costituzionale in modo
opportuno e ragionevole,
specie quando si tenga conto
del momento storico in cui
essa fu redatta. Ad esempio,
le “opinioni politiche” che
essa ammette sono quelle
che si fondano sul metodo
democratico e non si appellano invece ad associazioni di
tipo segreto o militare (articolo 18); che sono fermamente
ancorate alla forma repubblicana (articoli 54 e 139); che
rinunciano a razzismo, separatismo, fascismo, ricorso alla
guerra (articoli 3, 5, 11; XIIª
disposizione transitoria), e
così via.
Il principio di uguaglianza
dell’articolo 3 è inoltre ben
scolpito non solo nella “costituzione formale”, il testo
promulgato allo scorcio del
1947, ma anche nella costituzione “materiale”, il comples-
1
Segnalo anche il volumetto uscito per la stessa circostanza celebrativa, Io parlo da cittadino. Viaggio tra le parole
della Costituzione italiana, a cura di Maurizio Bossi e Nicoletta Maraschio, Firenze, Regione Toscana, 2008.
2
Per la verità il termine opinioni – senza ulteriore specificazione e quindi in un senso più generale ma che comprende, com’è ovvio, anche quello delle ‘convinzioni politiche’ – è impiegato altresì negli articoli 68 e 122, nei quali
si afferma, rispettivamente, che i membri del Parlamento e i consiglieri regionali «non possono essere perseguiti per le
opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni».
22
so delle norme con cui essa è
venuta concretamente attuandosi in questo sessantennio.
Ma ancor prima è scolpito in
quella più profonda “costituzione” immateriale – se ne allude quando si parla di “pari
dignità sociale” – che ciascun
italiano si porta nell’animo e
che forma il comune sentire
di cui si alimenta la vita della
società e quella dello Stato.
La parità fra i cittadini
– pur coi loro diversi sentimenti, caratteri intellettuali
e fisici, aspirazioni morali e
materiali – è un valore generalmente diffuso e ormai così
abbarbicato nelle coscienze,
che quando vien meno ce ne
accorgiamo subito e la cosa
ci ferisce. Del resto si tratta di
un principio talmente ovvio
che vale, o dovrebbe valere,
per gli esseri umani di tutte
le nazioni; un principio che è
stato insegnato dal cristianesimo, fatto proprio dal pensiero liberale e democratico,
ma che in fondo è probabilmente compreso da qualsiasi
uomo onesto, anche se non
conosca san Paolo né abbia
mai letto una costituzione.
E il nostro caso particolare
– l’uguaglianza e la libertà
delle “opinioni” di ciascun
individuo – è sempre apparso
così banalmente scontato che
perfino nel buio del ventre
del Pesce-cane, la saggezza
parlante del “Tonno filosofo” non può fare a meno di
ricordare a Pinocchio che «le
opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate».
Tuttavia, a rifletterci bene,
son proprio le “opinioni politiche”, a differenza delle
altre caratteristiche individuali che per l’articolo 3
non debbono trasformarsi in
fattori di discriminazione –
sesso, razza, lingua, religione, condizioni personali e
sociali –, l’elemento attorno
a cui si addensano i problemi
maggiori; quello che, nonostante ogni dichiarazione di
principio, alla fine si rispetta
di meno e che talvolta può
addirittura dar luogo a disparità più o meno gravi anche
davanti alla legge oltre che
nei comportamenti quotidiani. Insomma, mentre quasi
più nessuno se la sente di
affermare la superiorità, ad
esempio, di una razza o di
una classe sociale, troppi si
credono autorizzati a sminuire, disprezzare o emarginare
le idee politiche altrui; e non
solo le idee, ma talvolta anche le persone che le professano, arrivando in certi casi
a manifestare atteggiamenti intolleranti e punitivi nei
confronti di avversari politici che, in cuor loro, alla fin
fine riterrebbero di agire per
lo stesso bene comune a cui
anche gli altri aspirano.
Di conseguenza, gli italiani – a parte i professionisti
della politica o quei pochi
che non hanno nulla da perdere o magari hanno solo da
avvantaggiarsene –, mentre
non ci pensan due volte a dichiarare le loro inclinazioni
più varie, restano abbottonatissimi sulle convinzioni politiche personali. Solo di rado,
in ambienti favorevoli e in
circostanze che lo consentono, possono lasciarsi andare
a rivelare qualche scampolo
del loro pensiero. Ma restando volentieri sul vago, accodandosi di solito all’opinione
generale, o ripetendo automaticamente le idee di quella
parte ritenuta più nobile e degna, ciò che si crede politicamente “più” corretto.
Non è un caso che le solite conversazioni quotidiane sulla politica siano quasi
sempre deludenti, proprio
perché tutti – a meno che
non si trovino fra amici fidati
o con perfetti sconosciuti –
preferiscono giocare a carte
coperte, senza quel confronto schietto e spassionato che
potrebbe condurre a una coscienza più chiara della realtà e a idee migliori. Non è
un caso che anche gli esperti,
nelle più asettiche condizioni
di anonimato, stentino molto
a stanare le preferenze politiche degli italiani, come si
vede dalle tante lucciole per
lanterne dei sondaggi politici
e degli exit poll.
Per dirla tutta, riguardo
alle opinioni politiche, più
che i principî di libertà e di
uguaglianza dell’articolo 3,
gli italiani sembra che apprezzino il principio della ri-
23
servatezza ricavabile dall’articolo 48 della Costituzione,
dove appunto si dice che il
voto è “segreto”. E così, or
più or meno a seconda delle circostanze, delle fasi storiche, dei potenti di turno,
molti di essi nascondono i
loro più intimi convincimenti politici, trasformandosi in
nicodemi o farisei, in torquatiaccetti o tartufi, pur di continuare a sopravvivere come
sosia di se stessi.
Le cause di questa particolare forma di riserbo, che così
accentuata è raro ritrovare in
altre nazioni, vanno ricondotte alla nostra storia e alla specificità stessa del concetto di
“opinione politica”; concetto
che si volle inserire nella Costituzione, fra gli elementi da
non discriminare, per marcare con forza la piena legittimità di ogni posizione ideale
e il ripudio del conformismo
proprio dell’ideologia totalitaria, dopo che nel ventennio
fascista la libertà d’opinione
24
era stata conculcata e, confiscando i beni dei fuorusciti,
si era intervenuti anche sul
piano legislativo contro gli
avversari del regime.
Si tratta dunque, proprio
per ciò, di un tassello importante della carta costituzionale, una sorta di professione
di fede nell’Italia che allora
s’incamminava sulla strada
della democrazia e della libertà. Ma un tassello che ha
un carattere e un peso diverso dalle altre condizioni potenzialmente discriminanti,
che indicano peculiarità che
non dipendono dalla volontà
del singolo, ma dalla natura
(sesso e razza) o solitamente
dall’ambiente d’origine (lingua, religione, classe sociale, professione); peculiarità
che tutti ci portiamo addosso in modo indelebile senza
poterle – se non in via eccezionale – mutare o nascondere. Invece le “opinioni
politiche” costituiscono quel
complesso di giudizi valori
aspirazioni che è il singolo
a rielaborare e costruire da
sé; derivano dalle sue esperienze e vicende personali, e
sono continuamente modificate per riadattarle alla realtà
che cambia, anche quando
sembrano restar inchiodate
ai medesimi ideali. È anche
perché sono un mutevole
sistema di idee sempre in
movimento, che si parla di
“opinioni”, e le si indicano
solitamente al plurale.
Va anche notato che le
opinioni politiche – insieme
alla fede religiosa – rientrano nella sfera più intima del
nostro essere, costituiscono
la nostra personale raffigurazione della “città terrena”
e lo strumento concettuale
con cui interpretiamo gli avvenimenti, ci mettiamo in
relazione con la comunità,
partecipando alla sua vita da
membri attivi e consapevoli.
Per questo siamo così profondamente affezionati alle nostre idee, le custodiamo gelosamente, e non le scambiamo
con quelle degli avversari se
non attraverso conversioni
lunghe e laboriose come le
conversioni religiose.
D’altra parte le opinioni
politiche sono una tessera
estremamente fragile della
libertà dei singoli cittadini,
dato che possono esser facilmente condizionate dal
potere o possono servire al
potere per condizionarli,
ricattarli, perseguitarli. Di
esempi di soprusi, discriminazioni, sofferenze a causa
delle idee politiche è piena
la nostra storia, a cominciare da Dante, che per le sue
posizioni venne condannato
a morte dai suoi concittadini
e fu costretto all’esilio. Ma
anche senza andar lontano,
casi di prevaricazione per
ragioni politiche accadono
quasi quotidianamente sotto i
nostri occhi, anche oggi che
pure viviamo in un regime
tutt’altro che dispotico e violento. Per questo gli italiani
continuano ad esser sempre
prudenti nel manifestare i
loro orientamenti, preferendo
tacere o dissimulare pur di
non correre i rischi che una
troppo scoperta sincerità potrebbe comportare.
E allora come si giustificano le “opinioni politiche”
dell’articolo 3 della Costituzione? Vista la loro specificità, si potrebbe esser tentati di metterle fra parentesi,
come uno di quegli aspetti
della carta che non sono
stati ancora realizzati, un
lontano e quasi inarrivabile
traguardo utile per misurare quanta strada resti ancora da compiere per poterci
dire una nazione veramente
libera. Tuttavia la presenza
di quell’espressione è assai
di più di una vaga e utopica
indicazione, perché ci costringe a guardare a fondo in
noi stessi e nella nostra storia e, per quanto possiamo, a
cercare di realizzare con coraggio, giorno per giorno, la
verità di quel principio di tolleranza politica che ci siamo
dati. Certi che è sempre possibile raggiungere momenti e
situazioni di autentica concordia civile, i «tempi aurei
dove ciascuno può tenere e
difendere quella opinione
che vuole» che Machiavelli
ravvisava in alcune epoche
dell’antica Roma; “tempi aurei” che sono anche davanti
a noi, a portata di mano ogni
volta che rinunciamo ai nostri pregiudizi, alle falsità
delle ideologie, agli istinti
peggiori che covano in noi:
«Se veramente volete felice
la patria – scriveva un esule
del secolo XIX –, rispettate gli
affetti e le opinioni del vostro
fratello; amatelo come amico
della comune felicità: che se
tale e’ non fosse, se nella discordia ponesse l’utilità propria e ’l vanto, non gli date
il tristo piacere di vedervi
congiurati con lui alla vergogna comune; punitelo delle
sue trame col proteggerlo,
dell’odio suo coll’amarlo».
***
Qualche ammaestramento lo possiamo ricavare dalla
stessa storia linguistica della
nostra espressione. Se infatti
opinione è un latinismo antico, anche in senso politico
(se ne è visto poco sopra un
esempio di Machiavelli), la
locuzione opinione politica emerge solo nell’ultimo
decennio del secolo XVIII,
diffondendosi in Italia nel
triennio giacobino, soprattutto sull’eco dei dibattiti che
infiammarono la Francia rivoluzionaria: in francese opinion politique è documentato
dal 1793, in italiano i primi
esempi sono del 17963.
È il nuovo modo di intendere e di vivere la politica
che si sperimenta da parte della classe intellettuale
e borghese in quegli anni
di grandi rivolgimenti; è la
consapevolezza dell’importanza delle idee e del ruolo
decisivo che assume la cosiddetta opinione pubblica
(anch’esso un concetto che
proprio adesso prende consistenza, con un valore in
certo senso contrapposto a
quello delle “private” e individuali opinioni politiche)4; è
il moltiplicarsi di nuovi mezzi per dibattere, diffondere,
manipolare gli orientamenti
delle assemblee e delle masse; è, in una parola, il nuovo clima rivoluzionario che
conferisce al termine, oltre
a una frequenza che prima
non possedeva, un rilievo
eccezionale e una connotazione
prevalentemente
positiva. Tanto che, proprio
per caratterizzare meglio tali
“nuove” opinioni di stampo
democratico e di argomento
prettamente politico, si sente l’esigenza di creare una
espressione specifica: opinioni politiche appunto.
Sono numerosi gli intellettuali che in quegli anni
ne discutono per rivendicarne i pregi e la libertà (anche
l’espressione libertà d’opinione, con libertà di stampa,
di pensiero e simili, nasce
adesso), e insieme per deprecare i regimi autoritari e
dispotici che avversano le
nuove idee creando i rei di
opinioni politiche. Scriveva
3
Vedi in particolare Erasmo Leso, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio rivoluzionario 1796-1799, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1991, dove sono riportati e illustrati numerosi
esempi delle prime attestazioni di opinione politica e di altre espressioni a questa correlate (creare le opinioni, impero
delle opinioni, fanatismo delle opinioni, fermento delle opinioni, contrasto delle opinioni, guerre delle opinioni, rivoluzione delle opinioni, urto delle opinioni, detenuti per opinioni politiche, libertà delle opinioni, ecc.).
4
Sulla storia dell’espressione opinione pubblica, oltre a Leso, op. cit., pp. 116-118, vedi il saggio in dieci puntate di
Giuseppe Aliprandi, La opinione pubblica: documentazione linguistica, in «Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di
Scienze, Lettere ed Arti», LXXVII (1965-65)-LXXXVII (1974-75). Numerosi gli studi sugli aspetti teorici e storici del concetto di “opinione pubblica”: qui mi limito a segnalare Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari, Laterza,
1971 e la limpida sintesi di Nicola Matteucci, Lo stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 169-188.
25
Cesarotti nel Patriottismo illuminato (1797): «Tutte le
opinioni sono libere: punir
alcuno per semplici opinioni politiche è atto tirannico e
attentatorio ai diritti dell’uomo». E in modo analogo
Melchiorre Gioia nella Dissertazione … Quale dei governi liberi meglio convenga
alla felicità dell’Italia (1797):
«Un altro principio incontrastabile si è, che quando
si tratta d’opinione ciascuno
ha diritto alla sua, e l’errore
il più palpabile deve essere
egualmente rispettato che
la verità più evidente; altrimenti si viene ad erigere
in massima la guerra delle
opinioni, guerra che avendo
tinto di sangue tutti i punti del globo, con ragione è
condannata dalla giustizia e
proscritta dall’umanità».
Tuttavia, al di là di queste
enunciazioni di principio, la
realtà rivoluzionaria era ben
diversa, sia in Francia che in
Italia. Accecati dal fanatismo ideologico, coloro che
si proclamavano “sacerdoti
della libertà” erano spesso
i primi a combattere l’opinione contraria o appena diversa, ritenuta naturalmente
falsa e dannosa, e a condannare a morte o alla prigione
non solo chi aveva avuto il
coraggio di manifestarla, ma
anche chi ne era solo lontanamente sospettato: bastava
aver fischiettato un motivo
che a qualcuno era parso
controrivoluzionario per finire alla ghigliottina! Abbastanza esplicito nel rilevare
tali gravi contraddizioni in
cui cadono anche i regimi
liberi, l’Alfieri nel trattato
Della tirannide: «le opinioni
politiche (come le religiose)
non si potendo mai totalmente cangiare senza che
molte violenze si adoprino,
26
ogni nuovo governo è da
principio pur troppo sforzato
ad essere spesso crudelmente severo, e alcune volte anche ingiusto, per convincere
o contenere con la forza chi
non desidera, o non capisce,
o non ama, o non vuole innovazioni ancorché giovevoli. Aggiungerò, che, per maggiore sventura delle umane
cose, è altresì più spesso necessaria la violenza, e qualche apparente ingiustizia
nel posar le basi di un libero
governo su le rovine d’uno
ingiusto e tirannico, che non
per innalzar la tirannide su
le rovine della libertà».
Del forte contrasto fra la
semantica usuale del termine e il nuovo ambito a cui
esso venne piegato dalla
violenza della realtà rivoluzionaria fu ben consapevole
il gesuita Lorenzo Ignazio
Thjulen, che nell’adespota
Nuovo vocabolario filosofico-democratico indispensabile per ognuno che brama
intendere la nuova lingua rivoluzionaria (1799), notava a
proposito del lemma opinione: «Era, ed è, nella lingua
antica vocabolo generale.
Nella lingua Repubblicana
è stato ridotto a senso ristrettissimo. Per esempio: Libertà
d’opinione, che nella lingua
comune sinora significava di
poter opinare, come ognuno
vuole, in Lingua Repubblicana significa che solo, ed
unicamente si può e si deve
opinar per Ateismo, Incredulità, Democrazia, e Libertinaggio. L’opinare altrimente,
si permette soltanto dai Repubblicani dove non possono arrivare con spoglj, esiglj
e fucilature».
Nonostante alla sua origine l’espressione fosse circondata, come si vede, da ombre
e mistificazioni, essa si venne
affermando largamente nel
dibattito politico risorgimentale come indice di libertà
di pensiero e di vera democrazia. Proprio per questo
suo innegabile carattere nel
Dizionario politico popolare,
pubblicato a Torino nel 1851
da un’associazione di patriotti liberali, si riservò ampio
spazio alla voce opinione,
con considerazioni interessanti e auspici che travalicano quel particolare momento storico: «Nei paesi retti
dall’assolutismo, dov’è incatenata la libertà del pensare,
supremo diritto dell’uomo,
l’uomo si disusa siffattamente
dal pensare ai proprii diritti civili e alle cose poltiche,
ch’egli neppure nel sacrario
della sua coscienza sa portare opinioni od idee chiare e
definite sulla politica; sicché
là non havvi né opinione individuale né pubblica. Ma
dove è bandito [proclamato]
il principio della libertà del
pensiero, l’una e l’altra necessariamente si forma. Quivi, siccome la base sociale
è la sovranità popolare e il
potere non è di diritto divino
[…], il popolo non solamente
col suffragio universale costituisce questo potere, ma esercita sopra esso una continuata pressione manifestando la
sua opinione sopra la condotta di lui. Perciò nei paesi
liberi si dice che l’opinione
è l’arbitra del potere, è il tribunale della coscienza pubblica. […] Ma tu, o popolo,
avvezzati a pensare col [tuo]
proprio capo e a vedere cogli
occhi tuoi. Non fidarti delle
lenti e dei telescopii che ti
mettono dinanzi agli occhi i
dottori della politica […]. O
popolo! Sia veramente tua la
tua opinione, ed allora sarà
vero che la voce del popolo
è voce di Dio».
La pubblicità
politica in classe
I
ntroduzione
Ad una settimana dalle elezioni europee del giugno
2009, davanti a un muro nel
centro di Roma, due gruppi
di partiti diversi si sfidavano per riempire il maggior
spazio possibile con i propri
manifesti. Ciascun gruppo
non poteva coprire il manifesto dell’altro, ma entrambi
finivano per occultare quelli
già esistenti. Il gran numero
di cartelloni, uno sull’altro,
non si deve soltanto ai tanti
candidati e partiti, ma anche
alla continua campagna elettorale, diretta o indiretta, che
diventa un tema obbligato
anche per quelli che se ne interessano poco. L’argomento
può essere stimolante anche
per chi segue l’Italia dal Brasile o, come dice il titolo, per
discutere con gli studenti in
classe, obiettivo che muove
la stesura di queste note.
La discussione politica
coinvolge in Italia argomenti
di diverso peso e interesse: il
rapporto tra Chiesa e Stato,
l’inserimento o meno degli
stranieri in Italia, le possibilità lavorative per i giovani,
la manutenzione della città
e soprattutto la corruzione,
attraverso i diversi scandali
che hanno portato in carcere
molti uomini politici. Inoltre,
la politica ha ormai rapporti
stretti e stabili con lo spettacolo, e non solo perché
persone di spettacolo, come
Cecilia Santanchè
(Università degli Studi “G. d’Annunzio”)
ormai lo storico esempio di
Reagan ha dimostrato, fanno parte del mondo politico.
Gli uomini politici partecipano sempre di più a varietà
televisivi, mentre la loro vita
privata diventa argomento di
discussione nazionale.
Dall’altra parte, i candidati si rivolgono da tempo
a grandi pubblicitari, e non
soltanto nelle elezioni presidenziali come nel caso di
Lula in Brasile o dello stesso
Obama negli Stati Uniti, ma
anche singoli politici e amministratori di vario livello si rivolgono ogni volta di più alle
agenzie per impostare una
vera campagna pubblicitaria,
tanto che la lotta politica diventa mediatica.
Va a questo punto osservato che mentre la pubblicità
usa sempre più forestierismi,
la politica è costretta ad usare
sopratutto la lingua italiana,
cioè l’italiano contemporaneo e a volte anche le varianti
gergali, per essere sempre più
vicina all’interlocutore.
Naturalmente, non crediamo che i docenti dovrebbero manifestare le proprie
opinioni in classe, ma poiché
questo argomento è di grande interesse nelle lezioni, i
professori di lingua e cultura italiana potrebbero usare
i vantaggi offerti dal mondo
della pubblicità, anche senza
avere una grande conoscenza dell’argomento, per uno
studio tanto linguistico come
antropologico.
Una continua
campagna politica
Nel 2006 Romano Prodi venne eletto come primo ministro, con un mandato che
durò meno dei quattro anni
stabiliti dalla legge. Con la
successiva campagna elettorale, nel 2008, è stato eletto
Silvio Berlusconi, ancora oggi
in carica. Nello stesso tempo si sono tenute le elezioni
in diverse città e regioni per
le varie cariche di amministratori locali (Sindaco, consiglieri regionali, Presidenti
della Regione, ecc.): a queste
vanno aggiunte le elezioni
per il parlamento europeo
con sede a Bruxelles. Questo
scritto prende spunto, in particolare, dalla compagna elettorale svolta a Roma, per le
elezioni europee, e a Pescara,
27
in Abruzzo. In questa ultima
Regione, il Presidente e il Sindaco di Pescara, sono stati arrestati in momenti diversi tra
il 2007 e il 2008; per questo,
nel mese di giugno 2009 sono
state indette nuove elezioni
per le due cariche.
In queste ultime occasioni, si è verificato spesso l’uso
di quella che potremmo chiamare “pubblicità indiretta”,
cioè messaggi di critica al
governo a nome dell’opposizione, come in un manifesto,
diffuso molto prima dell’inizio ufficiale della campagna,
che citava ogni singolo comandamento (fig.1) accompagnandolo con un esempio
negativo attuato dal governo.
Ad una scala diversa, in
un quartiere di Roma, la costruzione di una pista ciclabile nel 2009, voluta dall’amministrazione della circoscrizione retta dai progressisti, è
stata immediatamente criticata dalla destra, invitando
implicitamente – neanche
tanto - all’adesione a questo
schieramento a causa della
incapacità di governo della
parte avversa.
Il modello americano
Nelle elezioni del candidato
americano alla presidenza
degli Stati Uniti Barak Obama, si era diffusa la formula,
efficace e incisiva, Yes we
can, a significare la possibilità
di realizzare il cambiamento.
Nello stesso periodo, in Italia,
il Partito Democratico, fondato come alternativa di centrosinistra, ha diffuso manifesti
molto simili a quelli del Democratic Party statunitense,
a volte addirittura usando
traduzioni quasi letterali degli slogan americani, come Si
può fare. Un manifesto cele1
28
brava la vittoria di Obama, siglandola con un significativo
Il mondo cambia: ciò ha fatto
sì che il candidadato del PD
Valter Veltroni fosse associato
al presidente Obama. A volte
anche in negativo, come nel
caso del manifesto con la foto
di Obama e la frase Yes he
can * Sì, lui può e vicino alla
foto di Veltroni No you can’t
*No, tu non puoi.
Ma la trasposizione da un
contesto elettorale e sociale
ad un altro si è verificata anche in altri aspetti: per esempio, alcuni manifesti italiani presentavano la foto del
candidato circondato dalla
famiglia, secondo un cliché
frequente nella pubblicità
americana. Il rappresentante
dell’UDC Casini, ad esempio, ha usato questo modello
nella sua campagna (fig. 2),
anche perché veicolava con
maggiore forza i valori della
famiglia, fortemente sostenuti
dall’UDC, partito di salde tradizioni cristiane.
La professione di fede
Si tratta di un aspetto che influisce molto nelle scelte di propaganda di un candidato. Come
si è detto, il manifesto che riproponeva ciascuno dei Dieci
Comandamenti giocava anche
sul richiamo esplicito alla religione, cercando di attirare i
voti dei cattolici, anche andando contro un governo sostenuto da larga parte di questi.
Così come l’attestazione
di una fede è importante per
il candidato, manifestarsi ateo
può avere un effetto negativo
e provocare un calo di voti. La
dichiarazione di fede ha assunto quindi un forte significato
aggregante. Daniela Santanchè, nel 2008 diffuse manifesti
(fig. 3) con la sua foto accom-
Si fa riferimento a Giacomelli (2006)
pagnata dall’affermazione Io
credo, molto discussa nei blog
per l’uso disinvolto della fede
a scopi pubblicitari. Tuttavia,
questo esempio è servito come
riferimento per il candidato a
sindaco di Pescara Luigi Albore Mascia che si è presentato,
in una fase iniziale della campagna, in un atteggiamento
assertivo, accompagnato dalla
mano sul petto e dall’espressione, che abbiamo già visto, Io
credo. In una fase successiva, è
stato diffuso un altro manifesto
che specificava, più concretamente e forse più laicamente
Io credo in te rivolto ad un cittadino colto in compagnia del
candidato ed estensibile, quindi, a tutto l’elettorato.
Altre strategie per convincere
La pubblicità usa non soltanto la funzione conativa per
convincere il destinatario ma
anche quella emotiva1, come
nel caso dello stesso candidato Luigi Albore Mascia.
Albore ha infatti un comitato
elettorale ben organizzato e
interessante, piuttosto diverso
dalla media visibile presso gli
altri candidati. La sede del comitato elettorale, ad esempio,
ha sede in un ufficio luminoso, con arredi raffinati, pareti
di vetro, dettagli eleganti. A
chiunque entri è prestata la
massima attenzione e vengono offerti gadget e opuscoli.
Compaiono foto con il candidato in compagnia di giovani
ottimisti e ben vestiti; i vari
slogan sono accompagnati da
frasi che si rivolgono ai giovani, come: “[…] L’energia di
ogni giorno e i traguardi che
ci prefiggiamo sono strettamente legati all’entusiasmo
che ci mettiamo per realizzarli. Agite con entusiasmo e
sarete entusiasti!”.
Nel primo brano ci sono
parole poco usate (prefiggiamo, traguardi) ma si riesce a
trasmettere il consiglio conclusivo, che viene rivolto da
un uomo maturo ai più giovani. Il discorso in seconda persona non appare come nelle
pubblicità in forma imperativa, ma come suggerimento di un uomo esperto della
vita, concluso dalla retorica
dell’entusiasmo, in carattere
più grandi e senza maiuscola. E’ quello che ci vuole per i
giovani italiani, demotivati e
con grandi difficoltà ad affermarsi, ma che appaiono nei
manifesti eleganti e sorridenti, secondo l’immagine delle
persone di successo. Nella
sede del comitato di Albore,
viene distribuito anche un
opuscolo di quattordici pagine con il programma elettorale del candidato sindaco,
che scandisce ad ogni passo
la formula: Io credo in te. Il
fascicolo si conclude con la
frase di Martin Luther King:
“La grandezza nella vita sta
nella grandezza del Sogno in
cui si è deciso di credere”.
Va osservato che la parola
“sogno” viene scritta con la
maiuscola.
Anche altri candidati,
nelle stesse elezioni pescaresi, hanno privilegiato un
approccio amichevole, come
nel caso di Gabriella Arcieri,
candidata a consigliere, Parliamone prendendo un caffè;
analogo è il caso della candidata a consigliere comunale
Paola Marchegiani Per crescere insieme nella conoscenza; Ivan Iacobucci, anche lui
candidato a consigliere, invita
nel manifesto ad un aperitivo
con prenotazione nel quale si
discuterà sulla vita notturna
di Pescara.
Ci sono anche quelli che
hanno considerato vantaggioso non schierarsi né a destra
né a sinistra, ma stare al centro, usando diversi artifici linguistici per trasmettere il messaggio. Già nelle precedenti
elezioni nazionali, la formula
Io c’entro usava la particella
ci per indicare appartenenza
e partecipazione ma richiamando esplicitamente la parola centro e quindi inequivo-
cabilmente la posizione del
partito. Molto efficace l’uso di
ossimori, come nella formula
l’estremo centro (fig. 2), dove
l’uso di un aggettivo contrasta
con il sostantivo ed enfatizza
con grande immediatezza la
posizione tutt’altro che estremista del partito politico pubblicizzato.
Il gioco di parole continua: ad esempio con gli acronimi: dalla sigla del partito
UDC, deriva la formula Uno
Di Casa del candidato a consigliere Carlino o Un Disegno
Comune (fig. 2). L’ambiguità
della parola “comune”, che
richiama
immediatamente
l’amministrazione municipale, viene sfruttata varie volte
come in questo caso o nella
frase Un amico in Comune,
frequente in alcune campagne per sindaco anche in blog
o homepage, dove si fa riferimento al carattere amichevo-
29
le dell’uomo politico, ma anche all’incarico nel Comune
a cui il candidato aspira.
All’interno di questi giochi
linguistici, anche i cognomi
vengono sfruttati in modo
creativo. Nelle elezioni a sindaco di Pescara del 2004, un
candidato, il cui cognome era
Acerbo, aveva sostenuto la
propria campagna con lo slogan Acerbo è maturato.
In queste ultime elezioni, ancora a Pescara, Claudio
Cornacchia, detto “Corna”, ha
giocato sullo scherzo con il
proprio cognome, suscitando
inoltre intimità nell’elettorato:
“mi potete chiamare corna
come lo fanno i miei amici”,
richiamando inoltre la popolare espressione “fare le corna”.
C’è anche chi ha preferito
usare una tonalità scherzosa,
come per esempio Giovanni
Di Iacovo che illustra i suoi volantini vestito da medico che
ausculta il cuore del Comune,
o propone la somministrazione di medicinale in gocce o in
pastiglie, o addirittura l’uso di
specifici profilattici.
Come i testimonial delle
pubblicità, i candidati politici si preoccupano sempre
della propria immagine, enfatizzando le loro doti fisiche
come nel caso della giovane
candidata a consigliere di Pe-
30
scara Lea Del Greco. Il suo
volantino, per il resto alquanto tradizionale, presenta una
foto che ne mette in luce i
lineamenti e i capelli biondi
e ricci, e suggerisce “IMMAGINA…” agendo così sulla
fantasia dell’elettore per concludere “di cambiare DAVVERO”, anche grazie alla giovane età della candidata, di per
sé garanzia di rinnovamento.
Un’altra candidata a Pescara, Santroni, avendo un tipo
fisico diverso dai modelli di
bellezza, usa scherzosamente
le sue forme abbondanti per
richiamare la simpatia dell’interlocutore (fig. 4); il messaggio iconografico viene inoltre
abbinato alla taglia SX, che
sta ovviamente per sinistra,
ma evoca anche la taglia XL.
“Loro hanno subito l’immigrazione, ora vivono nelle riserve” (fig. 5): ci sono infatti anche
manifesti che rivelano la reazione profonda di alcuni italiani, soprattutto appartenenti alla
Lega Nord, contro l’immigrazione. Si tratta di un altro aspetto molto influente, di fronte al
grande flusso immigratorio in
Europa, e stante la posizione di
molti italiani che associano agli
stranieri i partiti di opposizione.
Conclusioni
La lingua italiana è stata usata nei manifesti analizzati
con una grande flessibilità e
con diverse espressioni tratte
dall’uso corrente. E’ significativo anche notare che molti
manifesti usano il presente
dell’indicativo anziché l’imperativo, storicamente più frequente. Il volantino di Stefano
Cardelli è un buon esempio:
Io ho delle idee per un nuovo
Stile Pescara. E il seguito rincalza con il futuro indicativo,
tempo meno frequente nella lingua parlata: Sosterrò il
commercio cittadino, favorirò
lo sviluppo del centro commerciale naturale.
È anche interessante considerare i facsimile delle schede
che vengono distribuiti per
guidare della scelta finale.
In questo caso, non c’è bisogno di slogan: l’elettore deve
soltanto copiare quello che
viene mostrato, poiché può
essere difficile tra tanti partiti
distinguerne uno, e si ricorre
all’iconografia perché le parole possono essere eccessive.
La diversità dei testi analizzati offre molti spunti alla
discussione: naturalmente le
considerazioni svolte sono
solo introduttive e ci sarebbero diversi temi da sviluppare,
con risvolti tanto linguistici
quanto culturali.
Riferimenti bibliografici
Berruto Gaetano, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, Carocci, 2002.
Borgarelli Bacoccoli Anna
Lo spot pubblicitario: metafore e argomentazione, Perugia, Guerra, 1995.
Desideri Paola, Teoria e
prassi del discorso politico:
strategie persuasive e percorsi comunicativi, Roma,
Bulzoni Editore, 1984.
Giacomelli Roberto, La
lingua della pubblicità, In:
Bonomi Ilaria, Masini Andrea, Morgana Silvia, La
lingua italiana e i mass media, Roma, Carocci, 2003,
p. 223- 248.
Rodendo Graça, Durão
atira miúdos contra Ferro,
In: “Revista Expresso” n.
1530, 23 febbraio 2002,
pp. 65-68.
Stringa Paola, Lo spin doctoring: strategie di comunicazione politica, Roma,
Carocci, 2009.
L’esperienza del
Teletandem in
un seminario di
traduzione letteraria
* O Professor João A. Telles da Universidade Estadual Paulista é o responsável pelo projeto
TeleTandem Brasil. Para maiores informações acesse o site: http://www.teletandembrasil.org
Patricia Peterle* e Giorgio de Marchis
L
avorare con la traduzione
e gli strumenti di questa
pratica può essere un’interessante e stimolante strategia per i corsi di laurea in
Lingue e letterature straniere.
La pratica della traduzione
è un’attività che richiede e
motiva, spesso inconsapevolmente, due tipi di riflessione:
una sulla lingua straniera e
un’altra sulla lingua madre
del traduttore. Processi, questi, fondamentali a livello accademico, che possono perfino aprire porte ancor chiuse
agli studenti universitari che
intendono imparare e conoscere una nuova lingua e una
nuova cultura. In effetti, come
si accennerà qui in seguito,
l’esperienza della traduzione trasmette non solo delle
competenze linguistiche, ma
anche, e soprattutto, culturali.
Alla luce di queste premesse, la cattedra di portoghese dell’Università di
Salerno e la cattedra di italiano dell’Universidade Estadual Paulista di Assis hanno
organizzato un seminario
(Universidade Federal de Santa Catarina – Università degli
studi di Salerno/Università degli Studi di Roma III)
italo-brasiliano di traduzione letteraria via Teletandem
che ha permesso ai partecipanti di sperimentare un
approccio cooperativo e
parzialmente autonomo alla
pratica traduttiva. I due gruppi – coordinati dai docenti
Giorgio de Marchis, per Salerno, e Patricia Peterle, per
Assis, e assistiti dalle rispettive collaboratrici ed esperte
linguistiche: Filipa Matos e
Alessandra Rondini – erano
formati rispettivamente da
quattro studenti. Il gruppo
salernitano era composto da
due studenti iscritti alla laurea specialistica (Eleonora
Cuomo e Giuseppe Napoli)
e da due laureandi del corso
di laurea in Lingue e Culture
Straniere (Sergio Standoli e
Salvatore Cerino)1; il gruppo
di Assis era, invece, formato
da quattro studentesse, due
dell’ultimo anno (Aline Fogaça e Graziele Frangiotti)
e due del penultimo anno
(Maria Amélia Dionisio e
*
Patricia Peterle, durante l’esperienza del Teletandem relazionata nell’articolo, era docente di letteratura italiana
presso l’Universidade Estadual Paulista, campus di Assis.
1
Da segnalare, inoltre, la partecipazione al seminario in forma di Tandem presenziale degli studenti Alberto Santoro
e Gisella Sacco.
31
Renata Marcon). Tutti i partecipanti sono stati selezionati
sulla base delle competenze
linguistiche (alcuni studenti
avevano, ad esempio, avuto
modo di svolgere in precedenza significativi soggiorni
in Italia, in Brasile o in Portogallo grazie ad accordi di
cooperazione internazionale
o a borse Erasmus) e al loro
rendimento nei corsi di Lingua e letteratura italiana in
Brasile e Lingua portoghese
in Italia. L’intero progetto
si è svolto nelle settimane
comprese tra il mese di ottobre del 2008 (scelta della
bibliografia teorica e lezioni introduttive) e quello di
febbraio del 2009 (revisione
delle traduzioni).
Come testi da tradurre
sono stati selezionati due
racconti: Dritto dritto negli
occhi di Valeria Parrella2, per
gli studenti brasiliani, e AA
di Rubem Fonseca3, per gli
italiani. Testi di autori contemporanei che, in modo
diverso, presentavano notevoli difficoltà da un punto di
vista traduttivo. Per quanto
riguarda il racconto italiano,
due sono state le difficoltà più evidenti: la prima di
natura culturale (a causa di
una serie di riferimenti alla
realtà sociale napoletana
non sempre immediatamente
comprensibili per degli studenti stranieri) e la seconda
prettamente linguistica, vista la presenza del dialetto
napoletano che ha sollevato
il problema di come renderlo nella lingua portoghese
- visto che il fenomeno dei
2
dialetti è una caratteristica
della realtà della penisola. Il
testo di Fonseca, invece, ha
posto, in alcuni casi per la
prima volta, gli studenti salernitani in contatto con la
variante brasiliana della lingua portoghese e i numerosi
riferimenti alla cultura rurale
del Pantanal hanno costretto
gli studenti italiani a ricorrere frequentemente all’ausilio
dei collaboratori linguisticoculturali brasiliani.
Tutti i partecipanti, prima di cominciare a tradurre,
hanno lavorato su dei testi teorici, precedentemente concordati dai docenti, al fine
di discutere, riflettere e problematizzare alcuni aspetti
e scelte del traduttore e, di
conseguenza, della traduzione.4 Conclusa la prima fase,
introduttiva e teorica, gli studenti sono stati organizzati in
coppie italo-brasiliane e hanno gestito le proprie sessioni
di Teletandem in maniera
del tutto autonoma. In questa fase, tutti i partecipanti
si sono scambiati i ruoli, in
modo che ognuno potesse
essere alternativamente traduttore o esperto linguisticoculturale a seconda del testo
su cui la coppia si trovava a
lavorare. Nel campus di Assis, gli studenti hanno avuto
a disposizione il laboratorio multimedia del progetto Teletandem Brasil, dove,
prenotando la postazione,
potevano usufruire dei vari
programmi esistenti (Skype,
Ovoo, Messanger) per entrare rapidamente in contatto
con il proprio partner. Gli
studenti dell’Università di
Salerno hanno avuto la possibilità di realizzare il seminario presso il Laboratorio di
Teletandem allestito nel Centro Linguistico d’Ateneo.
Alcuni degli studenti hanno registrato dei video delle
proprie sessioni e, in alcuni
casi, dei file audio. Tutto
questo materiale, una volta
analizzato, potrà fornire delle importanti indicazioni sulle dinamiche di cooperazio-
V. Parrella, Dritto dritto negli occhi, in Mosca più balena, Minimum Fax, Roma 2003, pp. 18-32.
R. Fonseca, AA, in A cofraria dos espadas, Companhia das Letras, Rio de Janeiro 1998, pp. 55-69.
4
R. Jakobson, Aspetti linguistici della traduzione, in Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1994 (1963), pp.
56-64 (ed. or. Essais de linguistique générale, Editions de Minuit, Paris 1963); A. Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, Quodlibet, Macerata 2003, pp. 13-64 (ed. or. La Traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain,
Seuil, Paris 1999) ; L. Venuti, L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, Armando, Roma 1999, pp. 21-72
(ed. or. The Translator’s Invisibility: a history of translation, Routledge, London 1995).
3
32
ne in una traduzione a quattro mani via Teletandem. Il
risultato dell’interazione tra
gli studenti è stato più che
positivo; in effetti, mentre
discutevano delle rispettive
traduzioni, riflettevano sulla
propria lingua, esercitandosi
al tempo stesso nella lingua
straniera.
Dal mese di novembre
in poi, entrambi i gruppi si
sono riuniti con periodicità
settimanale con i rispettivi
docenti e collaboratori linguistici, in modo da arrivare
a una versione unica e condivisa delle varie traduzioni.
I testi che ora si pubblicano
sono proprio il risultato di
questi incontri5. Alessandra
Rondini e Filipa Matos hanno
avuto un ruolo fondamentale
per quanto riguarda il buon
esito dell’intero seminario. I
tutor linguistici, infatti, hanno
risolto più di un dubbio, stimolando gli studenti a riflettere su nozioni culturali e su
determinate espressioni della
lingua italiana e portoghese
presenti nei due racconti.
Tradurre significa anche
lavorare con delle tradizioni
letterarie (quella di partenza e
quella d’arrivo). Questo atto,
il tradurre, fa sì che un testo
circoli fuori dalla propria tradizione. Abbiamo così una rilettura e una disseminazione
dello stesso testo, ma anche di
abitudini e principi che sono
lì quasi “occulti”. Come afferma Susan Bassnett, è questo
uno spazio caratterizzato dai
segni dell’interdisciplinarietà
e della dinamicità:
Non c’è, infatti, un canone universale con cui
giudicare i testi, c’è solo
una serie di canoni, che si
muovono e cambiano, con
i quali ogni testo intrattiene una continua relazione
dialettica. Non può esserci
una traduzione definitiva,
come non possono esistere una poesia o un romanzo definitivi; e ogni giudizio può essere dato solo
dopo aver considerato sia
il processo di creazione di
una traduzione sia la sua
funzione in un contesto
specifico.6
In tale prospettiva, questo
progetto di traduzione cooperativa a distanza ha arricchito
e stimolato il lavoro di quanti
vi hanno partecipato: docenti,
lettori e studenti. Non è stata
solo l’occasione per affinare
uno strumento utile, dal punto di vista linguistico, per praticare e migliorare la lingua
straniera studiata (e riflettere
su di essa), ma è stato anche
un punto di partenza per studi
futuri di alcuni aspetti di ambito letterario, in particolare,
quello della letteratura comparata che, come ha giustamente colto Armando Gnisci,
offre la possibilità di lavorare
con temi e discorsi che avvicinano due o più culture:
La letteratura comparata si propone come lo
studio e il discorso che
cercano di corrispondere a
questo potere della letteratura/letterature, come loro
compagna e pari, come il
sapere che traduce i valori
della letteratura in discorso
aperto alla pluralità, il discorso che possiamo fare
tutti insieme e alla pari del
mondo traducendoci gli
uni presso gli atri, nonostante e pure per grazia
della rete infinita delle reciprocità e delle differenze.7
5
In modo da permettere la pubblicazione di entrambe le traduzioni, esito naturale di un progetto altamente collaborativo, si è preferito rinunciare alla pubblicazione del testo a fronte in originale.
6
S. Bassnett, La traduzione. Teorie e pratica, Bompiani, Milano 1993, p. 24 (ed. or. Translation studies, Routledge,
London 1991)
7
A. Gnisci, La letteratura comparata, in Introduzione alla letteratura comparata, a cura di Armando Gnisci, ParaviaBruno Mondadori, Milano 2000, p. XII.
33
Francesco
Alberoni
Chi innova e ha
successo suscita
sempre feroci invidie
N
Sta meglio chi non fa nulla, perché così non disturba
ell’immaginario popolare
nessuno è tranquillo come
un califfo. Invece tutti coloro che occupano una posizione
di potere vengono continuamente
minac­ciati, attaccati e si devono
difendere. Il califfo è insidiato dai
parenti, dai figli che mirano alla
successione. La maggio­ranza degli imperatori romani sono morti
assassinati. Le tragedie di Shake­
speare sui re d’Inghilterra ci danno un lucido quadro della lotta
spietata e san­guinosa che si svolge attorno al trono. I dittatori,
pensiamo a Stalin, Hitler, han­no
conservato il potere sterminando
i potenziali oppositori. Ma ancora
negli ultimi anni Stalin temeva di
essere avve­lenato dai suoi medici.
La democrazia rende solo la
lotta me­no sanguinosa. Ma non
appena uno è di­ventato ministro
o presidente del Consi­glio o ha
raggiunto qualche altra carica ufficiale, incominciano gli intrighi
per farlo fallire e prenderne il posto. Ogni volta che deve affrontare
un problema i nemici lo attaccano
e alcuni suoi collabo­ratori complottano nell’ipotesi che falli­sca e
arrivi qualcun altro. Chi si propo­
ne una grande meta sa che le vere
diffi­coltà non sono mai oggettive,
ma il pro­dotto di manovre che deve rintuzzare colpo su colpo, senza distrarsi un istan­te. Va meglio a
34
chi non fa nulla, perché non disturba i gruppi di potere che vo­gliono
conservare i loro privilegi. Ma chi
vuol innovare, costruire, cambiare
disturba sempre qualcuno e, se ha
suc­cesso, suscita feroci invidie.
È stato Ales­sandro Magno a consentire all’arte, alla filosofia, alla
lingua greca di dominare il mondo
antico dal Mediterraneo all’In­dia e
alla Cina. Eppure la Grecia ha fe­
steggiato la sua morte dicendo che
era finalmente morto il tiranno. Eppure non l’aveva mai visto perché
era sempre rimasto a combattere
lontano e l’aveva inondata di ricchezze e di gloria. Per questo molti politici, molti imprendito­ri, col
passare degli anni, diventano cini­
ci. Perdono quella fiducia nell’essere umano che avevano agli inizi
della car­riera e che li portava ad incontrare nuo­ve persone, a cercare
nuovi partner, nuovi collaboratori,
ad aprirsi a nuove idee, a esplorare
strade nuove, a rischia­re, ad inventare. E si inaridiscono, smar­riscono
la loro forza creativa. Perché la
creatività è spalancarsi, guardare
il mondo con occhi sempre nuovi
e sempre stupiti, non sospettosi. La
persona crea­tiva, lo vediamo nei
grandissimi artisti, a qualunque età
conserva qualcosa del­la ingenuità
del bambino, dell’entusia­smo e dei
sogni dell’adolescente. Quan­do la
perde si spegne.
Cruciverba
SOLUZIONI
Cruciverba
Curiosità: Il primo documento in volgare della
letteratura italiana è il considdetto Indovinello
veronese: databile tra la fine del’VIII e l’inizio
del IX secolo, apparentemente parla dell’aratura dei campi, ma in realtà allude alla scrittura.
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