UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI URBINO
“CARLO BO”
FACOLTA’ DI SOCIOLOGIA
Corso di Laurea in Sociologia
L’INCONTRO CON LA PERSONA SENZA DIMORA
UNA RICERCA ETNOGRAFICA PRESSO L’ACCOGLIENZA
NOTTURNA FEMMINILE “LA TRECCIA” DI GENOVA
Relatore: Chiar.mo Prof.
GIULIANO PIAZZI
Tesi di laurea di:
CLAUDIA SAMPAOLESI
ANNO ACCADEMICO 2002-2003
5
6
INDICE
INTRODUZIONE
pag. 7
PERSONE SENZA DIMORA:
ANALISI GENERALE DEL FENOMENO
1. Rappresentazioni e trattamento della povertà
urbana estrema: un excursus storico
pag. 15
2. Percorso della persona senza dimora
2.1. La casa
2.2. La famiglia
2.3. Il lavoro
2.4. La vita in strada
2.5. Il rapporto con le istituzioni
2.6. Il rifiuto o l’abbandono:
il senza casa cronico
2.7. La gestione del corpo
pag. 21
pag. 24
pag. 25
pag. 26
pag. 27
pag. 29
3. Quale povertà
3.1. Dalla povertà alla povertà estrema
3.2.Dalla povertà ai poveri
pag. 34
pag. 37
pag. 45
pag. 31
pag. 32
L’ASSOCIAZIONE S. MARCELLINO
1. Storia e costituzione
pag. 51
2. Il metodo
2.1. L’alloggiamento
2.2. Il lavoro
2.3. Socializzazione
2.4. Salute e benessere
2.5. Le dipendenze
pag. 54
pag. 55
pag. 56
pag. 57
pag. 57
pag. 57
LE DONNE SENZA DIMORA
pag. 59
L’ACCOGLIENZA NOTTURNA FEMMINILE “LA TRECCIA”
1. Nota metodologica sulla raccolta dati e loro
affidabilità
pag. 63
2. La storia della Treccia
pag. 64
7
2.1. La specificità della Treccia
pag. 65
3. Profilo delle utenti della Treccia
pag. 68
4. Descrizione della struttura
4.1. I locali della Treccia
pag. 77
pag. 77
5. Il “sogno”di una casa
pag. 82
6. Immagini della maternità
pag. 86
7. Quotidianità all’interno della struttura
e relazione tra le ospiti
pag. 88
8. Relazione tra le ospiti e gli operatori
pag. 93
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
pag. 97
BIBLIOGRAFIA
pag. 99
8
INTRODUZIONE
Soprattutto: Il mondo normale, quello della società, dei ruoli,
delle istituzioni e delle necessarie forme sociali in genere
diventa una grande metafora, spesso insopportabile.
E l’io comincia a capire perché spesso si può pensare a questo
mondo come ad un enorme artifizio.
E già: quella strana e sconosciuta condizione normativa del
corpo e della mente, che ad un certo punto ha incluso l’io,
impone all’io stesso di convincersi che l’unico, vero, grande
valore di un qualsiasi mondo è il valore della vita.
Quel qualche cosa di pervasivo e di sconosciuto che è
sembrato determinante non è altro che la vita, ciò che anche
adesso l’io confusamente chiama vita.
G. Piazzi, La ragazza e il direttore
Il mio interesse per le “persone senza dimora” è nato grazie al corso di
“Sociologia dell’ambiente”, che seguii due anni e mezzo fa circa ad Urbino,
condotto dal prof. G. Pieretti.
Ho sempre pensato al “barbone”, perché è questa l’etichetta che diamo
solitamente alle persone che si trovano in strada, come ad una figura particolare,
quasi mitica, che si trova in quella situazione perché sceglie la libertà, non accetta
nessuna regola sociale uscendo fuori da tutte quelle costruzioni, convenzioni che
noi “bravi borghesi” ci siamo fatti; oppure pensavo che chi si trovasse in strada
fosse lì a causa di problemi psichici e per questo abbandonati a se stessi; persone
che non hanno mai avuto alle spalle una rete relazionale o comunque rifiutate da
questa rete; persone fuori da quel sistema che noi “normali” viviamo.
Ma è proprio questo “star fuori” che mi ha fatto riflettere…In seguito, ho imparato
che l’uscita non è istantanea e non avviene totalmente, il percorso di “degrado” è
9
lungo, è costituito da piccole rotture e ogni rottura ha bisogno di un suo
assestamento. Ciò mi ha portato subito alla mia realtà, e agli sforzi spesso
compiuti per rimare “affiliata” ad un sistema che troppe volte diventa stretto,
insopportabile; quanti sforzi per capire chi siamo e soprattutto cosa vogliamo
essere. Doversi costruire un’identità attraverso l’assunzione di ruoli che vengono
interscambiati a seconda del contesto. Identità che si costruisce attraverso
l’interazione e la relazione con gli altri. Costruzioni su costruzioni… ma la
perenne insoddisfazione rimane!
M. Loiacono così scrive: “La società in cui si vive è sempre più una società senza
regolamentazione e normatività, una società psicotica e a brandelli, in cui ogni
individuo vive isolato nel suo delirio, preso intimamente ad ascoltare quelle voci
virtuali che gli giungono dal rimosso, da una qualità di vita non ancora
soddisfacente, da una sensazione ostile e asfissiante che si avverte pur nella
comodità della celletta o nello sballo dell’emporio.”1Una società quindi in cui per
ognuno di noi è difficile rimanere affiliati.
Nel trattare il “fenomeno” delle “persone senza dimora”, non possiamo fare a
meno di affrontarlo senza intrecciarlo con la nostra “normalità”, perché si tratta di
un disagio, certo favorito da alcuni fattori quali la mancanza di un alloggio, una
condizione economica precaria, ma gli elementi che maggiormente lo connotano e
lo definiscono, sono soprattutto, una inadeguatezza della persona di fronte alla
complessità attuale e una “tempesta” relazionale (che coinvolge affetti, fiducia,
autostima, etc.) che destabilizza la persona stessa2. Un disagio che accomuna
ognuno di noi, diffuso in quanto “indica un processo che taglia trasversalmente le
variabili tradizionali e fa un po’ piazza pulita dei luoghi comuni a cui siamo
abituati”3. Per questo nuovo disagio non valgono più i classici criteri dell’età,
dell’appartenenza ad un ceto sociale o ad una certa famiglia, della struttura della
famiglia, dell’ambiente urbano in cui si abita e tutta un’altra serie di cose che non
riescono più a spiegare quello che sta succedendo oggi. “Non c’è un ruolo o una
condizione che ci può precludere questa esperienza”4
Ma di povertà estreme, o comunque nella condizione di “senza dimora” si muore
e si muore presto, in età giovanile. Le persone “senza dimora” sono persone che
hanno perso ogni legame comunitario; il loro sistema psichico è deluso, vuole
ritirarsi, fino a lasciarsi morire.
Riporto una metafora, che mi è piaciuta molto, utilizzata da Gui ad una lezione del
corso di formazione “Operare con le persone senza dimora”, organizzato
dall’Associazione S. Marcellino5. Gui paragona la nostra vita ad una tendina
canadese, la quale sta su solo piantando picchetti e tirandoli bene. Come nella
tendina canadese anche nella nostra vita c’è bisogno di alcuni tiranti principali e
fondamentali per la sua tenuta e poi una serie di picchetti, tre o quattro per parte
che le consentano di essere ben tesa e di reggere alle intemperie. Nella nostra vita,
come nella tendina, questi picchetti talvolta saltano. Se, se ne allentano due, o
saltano due picchetti, la tendina, non precipita ma comincia ad essere un po’ in
difficoltà, con il vento si scuote, se si allenta il terzo cordino, il rischio di tenuta è
1
M. Loiacono, Verso una nuova specie, Edistampa Nuova Specie, Lucera, 2000, p. 218.
G. Pieretti, “La negazione dei diritti nel percorso di vita delle persone senza dimora”, Genova,
2001.
3
M. Loiacono, Verso una nuova specie, Edistampa, Lucera, 2000, p. 111.
4
Ibidem, p. 111.
5
La lezione è del 16/02/02.
2
10
veramente compromesso e, se tira una folata di vento un po’ più forte, tutti i
picchetti saltano. Anche nella nostra vita abbiamo ogni tanto qualche picchetto
che viene meno, ma il tempo ci permette di ripiantare quello che è caduto…Se ho
perso il lavoro, avrò una rete affettiva pronta a proteggermi, la famiglia, gli amici,
avrò comunque altri svaghi, ma se cominciano a cadere una serie di picchetti e la
mia tendina aveva già due o tre picchetti mancanti fin dall’inizio, allora la
possibilità di restare in equilibrio, la possibilità di continuare a stare in piedi è
molto compromessa. Ogni frattura ha bisogno di una sua spiegazione. Per la
persona senza dimora abbiamo un’infinità di spiegazioni, ma nascono dal nostro
punto di vista, nascono dalla nostra “definizione della situazione”. Occorre “girare
l’angolo”, scoprire altri punti di vista6 per vedere ciò che normalmente non
vediamo, occorre attraversare i nostri confini per mettersi in ascolto.
Così ho pensato di impostare la mia “ricerca”: ascoltare ed osservare, senza
invadere, con l’intento di scrivere poi ogni cosa in un quaderno - diario che ho
portato sempre con me, seguendo l’esempio dei “maestri” della “Scuola ecologica
di Chicago”.
La mia ricerca si basa su persone che si sono rivolte all’Associazione S.
Marcellino, un approccio che parte quindi dal servizio e che non può certo
esaurire la lettura del fenomeno.
Iniziamo dal principio…
Il mio primo contatto con S. Marcellino è avvenuto grazie al prof. Piazzi che,
telefonicamente, mi ha presentato D., responsabile dell’Associazione. Il 1 Marzo
di quest’anno ho incontrato per la prima volta D. all’interno dell’Associazione,
situata in via Ponte Calvi. Durante quell’incontro, D. mi ha presentato a grandi
linee l’Associazione, la sua storia, lo stile e mi ha descritto le varie strutture,
cercando allo stesso tempo di capire quali erano i miei interessi e i miei obbiettivi
di “lavoro”.
In realtà io non avevo un’idea ben precisa: quello che mi aveva spinta ad arrivare
fino a Genova era l’interesse per tutto un “mondo” a me quasi sconosciuto. Tutto
per me era nuovo: Genova, S. Marcellino e il suo operare, la tesi stessa…E come
ad ogni novità, ero assalita da un senso di paura, ma ad essa si univa la voglia di
scoprire, di sapere…Infatti ad Aprile, esattamente lunedì 7 Aprile 2003, sono di
nuovo ritornata a Genova. Ho scritto nel mio quaderno: “Inizia così la mia
settimana di perlustrazione e contatto con le strutture. La prima tappa è in via
Ponte Calvi, dove ha sede l’Associazione, luogo ormai a me familiare così come
lo è D.”
Infatti quello da cui sono stata subito colpita è stata la sensazione di avere attorno
a me delle persone conosciute da sempre.
D., a questo proposito, mi ha detto che sono tanti anni che l’Associazione viene a
contatto con le persone e l’ accoglienza è il principio guida attraverso il quale gli
operatori si muovono.
“L’esperienza relazionale con le persone che provengono dalla strada ci ha portato
a consolidare la convinzione che le relazioni che ‘funzionano’ sono quelle che
portano a cambiamenti costruttivi coloro che li vivono. Abbiamo sperimentato
6
“Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è ma per il gruppo a
cui gli accade di appartenere (…), qualcosa che non si può capire costituisce un vuoto doloroso,
una puntura uno stimolo permanente che chiede di essere soddisfatto.”, in P. Levi, I sommersi e i
salvati, Torino, Einaudi, 1991, p. 143.
11
che, incontrando l’altro, se ci lasciamo toccare un po’ in profondità, gradualmente
siamo costretti a porci questioni sulla nostra stessa vita, sullo stile delle nostre
scelte, e possiamo incominciare a fare delle ipotesi di trasformazioni nostre, della
realtà che ci circonda, della vita degli altri. Quando l’altro vive situazioni di
difficoltà o di sofferenza, questo processo misteriosamente ma concretamente si
accelera fino a divenire elemento propulsore di cambiamenti dinamici e
sorprendenti.”7
Ritornando al mio percorso, nella settimana dal 7 al 12 Aprile, ho visitato tutte le
strutture dell’Associazione: la mattina, il Centro d’Ascolto, il pomeriggio, la
Svolta e la Stiva e la cena ogni sera in un dormitorio diverso quali Boschetto,
Treccia, Gradino, Angolo, Ponte8.
Il Centro d’Ascolto è stato il mio primo punto di contatto con le persone: esso
rappresenta il punto nevralgico dell’Associazione, perché è qui che avvengono i
primissimi contatti con le persone in difficoltà ed è il primo passo verso la
comprensione del loro disagio.
Alle persone che mi hanno domandato quale fosse il mio ruolo, ho spiegato il
motivo per cui ero lì: una tesi di laurea su S. Marcellino e le sue strutture e così
ho continuato per tutto il periodo che ho trascorso all’interno delle strutture.
E’ difficile spiegare come sia stato l’impatto, sicuramente forte, toccante, ad ogni
modo positivo; allo stesso tempo però, quella settimana a Genova mi aveva creato
una grande confusione, per cui, ritornata a casa, ho cercato di mettere insieme un
po’ i pezzi che avevo raccolto e fare chiarezza.
Come impostare la tesi? Su quali strutture concentrare la mia attenzione?
Sono ritornata a Genova un mese dopo circa, per restare 15 giorni.
L’idea era quella di intervistare alcune persone, alloggiate nei tre dormitori da me
prescelti (Boschetto, Gradino e Treccia), più che una intervista, avrei dovuto
semplicemente registrare il racconto che le persone fanno della propria vita e
concentrarmi su le spiegazioni che la persona fa circa la propria situazione, a
quale “evento traumatico” collega il suo “degrado” e, nonostante quest’ultimo,
come cerca di risalire, come riesce a darsi un nuovo ordine, come razionalizza e
reinterpreta i processi di rottura: con la famiglia, con il lavoro…e come avviene il
contatto con le istituzioni.
Nei quindici giorni mi sono accorta che l’intervista non era una cosa fattibile.
Alcune persone mi hanno dato la loro disponibilità, ma in concreto, non c’è stata
nessuna registrazione. Il tempo a mia disposizione era troppo poco e non potevo
certo essere io a dettare alle persone i tempi del racconto della propria vita.
Nei giorni successivi, ho continuato ad annotare tutte le mie osservazioni nel
quaderno - diario che ho sempre portato con me, partecipando attivamente alla
“vita” all’interno delle strutture da me prescelte. La scelta del Boschetto è perché
esso non è un dormitorio, ma una comunità dove vi vengono inviate quelle
persone con le quali si è impostato un progetto da parte del Centro d’Ascolto, il
Gradino e la Treccia perché entrambi sono dormitori di seconda accoglienza, ma
una forte differenza li separa, l’uno è un dormitorio maschile, l’altro è femminile.
Soprattutto su questa differenza si sarebbe concentrato il mio lavoro al fine di
verificare l’ipotesi secondo la quale l’universo femminile racchiude in sé
7
www.sanmarcellino.ge.it.
Per quanto riguarda la presentazione delle varie strutture e le rispettive funzioni, dedicherò a tal
proposito un capitolo.
8
12
situazioni differenziate di povertà, rispetto a quello maschile. Agli utenti delle
varie strutture di S. Marcellino, con i quali ho condiviso gran parte del mio tempo,
sono stata presentata nel mio vero ruolo di studentessa che stava compiendo un
lavoro di ricerca sulle varie strutture di Accoglienza di cui l’Associazione
dispone.
Non nascondo che non mi è sempre stato semplice portare avanti il mio ruolo di
“osservatore partecipante”. Come spiega Malinowski, “Certi piccoli particolari
che fanno impressione fino a che costituiscono una novità non si notano più
appena diventano familiari”.9 E spesso è difficile essere osservatore di una realtà
alla quale si partecipa, una realtà che mi ha permesso di mettermi in discussione
ogni giorno. La mia stessa identità è entrata in gioco; mi stupiva “il pensiero che
io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, mi ero figurato d’essere. (…).
La scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per
me”.10
Ho avuto quindi, soprattutto inizialmente, molte difficoltà ad astrarmi, uscire per
un pò fuori dal contesto nel quale ero coinvolta per poterlo osservare. Talvolta poi
mi chiedevo se il mio tempo alla Svolta, al Centro d’Ascolto ogni mattina, le cene
e le indimenticabili serate nei dormitori, fosse stato abbastanza per essere definito
“ricerca”. Spesso mi sono sentita afflitta da un senso di colpa per il fatto di non
essermi occupata a riempir schede invece di occuparmi di “futilità”, il dubbio di
dover fare molte più domande, di sondare un po’ più a fondo. Il dubbio di non
essere abbastanza acuta nelle mie osservazioni…Poi, di colpo, tante cose mi
tornavano chiare e, ai sensi di colpa si sostituiva di nuovo l’entusiasmo.
Le idee, per quanto riguarda il mio lavoro di tesi, si sono chiarite definitivamente
nella mia ultima permanenza di Agosto, in cui ho fatto nove notti quasi
consecutive alla Treccia, dormitorio femminile. In quell’occasione il mio ruolo
non era più quello della studentessa, ma quello della volontaria. Ruolo che mi ha
investito di maggiori responsabilità. Ruolo che mi ha permesso di osservare la
struttura da un’altra prospettiva, ruolo che ha fatto in modo che le regole che sono
alla base della Treccia mi toccassero più da vicino.
Per cui, per non fare troppa confusione, ho concentrato il mio lavoro di ricerca
sulla Treccia, dato che, in Italia soprattutto, la letteratura che si occupa di donne
senza dimora è esigua, per cui questo è un fenomeno ancora in gran parte da
“scoprire”, ancora sommerso e invisibile. “La marginalità femminile d’altronde,
viene troppo spesso affrontata in modo assessuato, trattata in secondo luogo, come
se una marginalità femminile non esistesse o comunque non fosse così importante
da richiedere la giusta attenzione. Nasce così un’emarginazione
nell’emarginazione”.11
D., responsabile di S. Marcellino, mi ha fatto notare che alla fine ho scelto di
scrivere sulla Treccia, forse perché anch’io sono una donna. Forse…
Riassumendo le fasi della mia ricerca, dopo uno studio sul fenomeno dei senza
dimora in generale, con particolare attenzione all’emarginazione femminile, ho
raccolto personalmente altro materiale, partecipando attivamente e osservando la
quotidianità all’interno delle varie strutture, in particolare della Treccia, senza
9
B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società
primitiva, Newton Compton, Roma, 1973 (1922), p. 45.
10
L. Pirandello, Uno, Nessuno e Centomila, Demetra, Varese, 1995.
11
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, p.182.
13
tralasciare lo scambio di opinioni con i diversi operatori che lavorano all’interno
dell’Associazione. Il lavoro di ricerca ha utilizzato quindi come strumento
determinante l’osservazione partecipante che mi ha permesso di mettere in
evidenza alcuni tratti significativi dell’utenza e, soprattutto, del vissuto quotidiano
all’interno della Treccia. Per tutta la durata della ricerca ho avuto rapporti diretti,
in prima persona con le ospiti e con i responsabili e gli operatori
dell’Associazione che ruotano attorno a queste persone. La presenza quotidiana, il
rapporto diretto con le persone, lo scambio di opinione con i vari operatori, la
possibilità di osservare e partecipare ad ogni attività, come coordinamenti,
riunioni, mi hanno permesso di conoscere la realtà specifica di questa accoglienza.
Le osservazioni condotte quotidianamente all’interno della struttura sono state
trascritte e raccolte in un quaderno – diario che, successivamente, è stato utilizzato
per la lettura del fenomeno oggetto della ricerca. Le schede sociali di tutte le
ospiti che sono state presenti nel passato e di quelle che lo sono attualmente, sono
state invece il punto d’avvio della mia ricerca sul profilo dell’utenza della Treccia.
Nel corso della loro analisi ho fatto costantemente riferimento ai colloqui avuti
con il responsabile e i diversi operatori che lavorano all’interno dell’Associazione.
Nessuna intervista vera e propria, ad eccezione di una, fatta al responsabile
dell’Associazione, sulla “storia” della Treccia. Tutto ciò che ho “raccolto” quindi
durante la permanenza a Genova, costituisce il materiale empirico della mia
ricerca. Ovviamente la mia tesi tratterà solo una parte di questo materiale.
Il mio lavoro di tesi si suddivide in due parti: la prima, se così si può chiamare,
teorica, analizza il fenomeno della persona senza dimora in generale; la seconda è
concentrata sulla mia permanenza e le mie osservazioni all’interno della Treccia,
cercando di evidenziare la specificità della povertà al femminile, di cui ancora
sappiamo poco. Il primo capitolo “Le persone senza dimora, analisi generale del
fenomeno”, si propone di presentare le diverse ipotesi di lettura del fenomeno e
come queste si sono trasformate nel tempo, in seguito ho cercato di delineare, a
grandi linee, il percorso della persona senza dimora seguendo la teoria delle
micro-fratture. Essa mi ha permesso di introdurre anche il discorso sulla povertà,
concetto che nel tempo ha subito notevoli trasformazioni. La teoria delle microfratture tende a mutare radicalmente i concetti comunemente accettati fino ad oggi
e le modalità di intervento da essi derivanti.
“In passato la condizione di povertà è sempre stata interpretata come un trauma
significativo e attinente la società. Questo significava che l’ingresso nello stato di
povertà, l’acquisizione dello status di povero e il rientro stesso da una condizione
di povertà, erano segnati da avvenimenti comunemente definiti avvenimenti
traumatici. L’introduzione della teoria delle micro-fratture tende invece a
rovesciare questa concezione, in quanto la caduta in stato di povertà estrema non
avviene mai come conseguenza di un avvenimento traumatico (…). Un evento
traumatico può condurre alla povertà, ma non alla povertà estrema. Il percorso che
conduce alla povertà estrema si rivela molto più lungo, complesso, confuso,
disseminato di riassestamenti costanti nei confronti del mondo esterno”12.
La povertà estrema quindi costituisce un’area di rottura del sistema della
personalità, dei rapporti primari e del senso di appartenenza; “e necessariamente
12
P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, p.23.
14
richiede che l’intervento sia caratterizzato da un certo grado di inventiva”13. E’ un
fenomeno mutevole, sfuggente, dai mille volti e, in un sistema sociale a
“differenziazione funzionale”14, sempre più complesso, il paradigma vita/morte15
diviene un passaggio interpretativo essenziale.
Il secondo capitolo costituisce una presentazione dell’Associazione S. Marcellino,
attraverso una breve analisi delle cinque aree di intervento di cui è costituita, quali
il settore alloggiamento, lavoro salute, dipendenze socializzazione.
Il terzo capitolo presenta una breve analisi del fenomeno delle “donne senza
dimora”, mettendo in evidenza i limiti che ancora si hanno sulla conoscenza di
questo fenomeno, in quanto sono ancora pochi gli studi effettuati.
Il quarto capitolo è concentrato sulla mia permanenza a Genova, presso
l’Associazione S . Marcellino e sulle mie osservazioni all’interno
dell’Accoglienza femminile, la Treccia, cercando di costruirne la storia e di
metterne in evidenza la singolarità, anche attraverso la ricostruzione del profilo
sociologico dell’universo dell’utenza che ha usufruito di questa struttura. La
Treccia, infatti, appare ambivalente in quanto, se da un lato si propone come una
seconda Accoglienza, dall’altro, alcune particolarità, la fanno avvicinare ad una
comunità, senza però averne le basi. Per quanto concerne la quotidianità
all’interno della Treccia, si è cercato di concentrare l’attenzione sul rapporto tra le
utenti e tra queste e gli operatori, non dimenticando che le donne, con la loro
emotività, le loro paure, le loro storie spesso difficili, dolorose, sono le
protagoniste della Treccia.
Per concludere, non dobbiamo dimenticare che per riuscire a comprendere la
persona senza dimora, dobbiamo cercare di liberarci dalla nostra idea di
normalità, dobbiamo liberarci da quegli orpelli sociali quali il mondo dei ruoli e
delle prestazioni, gli oggetti di consumo, i nomi, le categorie, le aspettative, le
ambizioni…, che ci siamo costruiti e concentrarci sulla vita stessa che è il fondo
comune che sta in ognuno di noi.
“La vita non è una distinzione fra le altre. La vita è l’unica, vera, distinzione. Non
ci sono distinzioni tranne quella che stabilisce lo scarto di esistenza fra la vita e la
non vita. In particolare, non ci sono distinzioni interne alla vita stessa. Le
distinzioni interne alla vita che crediamo di osservare sono solo apparenze,
metafore, simulazioni” 16.
13
Ibidem, p.22.
N. Luhmann, Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari, 1983.
15
G. Piazzi, La ragazza e il direttore, FrancoAngeli, Milano, 1995.
16
Ibidem, p. 39.
14
15
RINGRAZIAMENTI
Non posso fare a meno di ricordare e ringraziare tutte le persone che mi hanno
accompagnata durante il mio percorso di analisi e riflessione da cui poi è nato
questo elaborato finale: Giuliano Piazzi, che per primo ha tracciato e illuminato
quel percorso; Danilo De Luise, responsabile dell’Associazione, che mi ha
continuamente sostenuta e aiutata, soprattutto nei momenti di sfiducia e di
incertezza; Padre Nicola, e tutti gli operatori e i responsabili delle varie strutture
dell’Associazione S. Marcellino che hanno contribuito alla realizzazione del mio
lavoro con i loro consigli e la loro disponibilità. Un ringraziamento particolare a
Gabriele, Luca e Massimo che, più volte, mi hanno accolta nella loro casa,
donandomi “calore” domestico.
Ringrazio tutti gli utenti e gli ospiti delle varie strutture dell’Associazione che
hanno saputo, ognuno a suo modo, farmi sentire continuamente a mio agio; in
particolare ringrazio le ospiti della Treccia, che mi hanno accolta nella loro
quotidianità all’interno della struttura.
Ringrazio Maurizio Bergamaschi che mi è stato di fondamentale aiuto.
Infine, ringrazio la mia famiglia per la sua continua presenza e Daniele,
insostituibile compagno di vita.
16
PERSONE SENZA DIMORA:
ANALISI GENERALE DEL FENOMENO
1. RAPPRESENTAZIONI E TRATTAMENTO DELLA
URBANA ESTREMA: UN EXCURSUS STORICO
POVERTA’
Vivere con l’altro, abitare con lui lo stesso spazio simbolico, ci
mette di fronte alla possibilità d’essere o non essere un altro.
L’immagine della sua diversità ci espone alla paura e al fascino
d’essere al posto suo, d’essere diversi, anzi assolutamente
differenti come lui: come lui sciolti dalla doverosità dell’uno.
In gioco, qui, non c’è una semplice, e superficiale, questione
morale di tolleranza o rifiuto. In gioco c’è molto di più. Si
tratta di sostenere la vista d’un abisso che mette in rischio
l’essere Noi.
R. Escobar, Metamorfosi della paura.
Nel trattare un tema così vasto, come quello della povertà estrema, è importante
prendere in esame la questione della povertà urbana in una prospettiva storicosociale.
Oggi, come in passato, sono alcuni stereotipi culturali ad influenzare in modo
inconsapevole l’opinione comune. “Il trattamento della povertà urbana estrema,
nella storia europea degli ultimi secoli, si è modificato e si è strutturato in
relazione alle trasformazioni più generali della società, così come le
rappresentazioni del fenomeno si sono modificate nello stesso momento in cui
l’oggetto povertà estrema si è costituito come tale.”17
La nozione di “povertà urbana estrema” appartiene al lessico contemporaneo, per
quanto riguarda il passato dovremo utilizzare termini quali mendicità, ozio,
accattonaggio, vagabondaggio, pauperismo, termini che si riferiscono quindi ad
un tipo di condotta di vita. Nonostante i termini siano cambiati, essi indicano
comunque una realtà simile, la realtà di una popolazione priva di uno statuto
definito e socialmente accettato.
Nonostante il mutamento delle rappresentazioni e delle forme della presa in carico
della povertà estrema, ciò che rimane costante, nel tempo e nello spazio, è la
17
M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storicosociale”, in P.Guidicini, G.Pieretti, M.Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in
Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 41.
17
preoccupazione di delimitare una realtà sociale e umana che appare imprevedibile
e priva di contorni. La vista della povertà estrema fa paura perché destabilizza
l’immagine dell’ordine sociale costituito.
B.Geremek localizzava così il suo oggetto di lavoro: “Noi ci occuperemo di
persone o di gruppi che sono rifiutati, o si mettono da se stessi ai margini della
vita sociale, non partecipano al processo della produzione e la cui vita resta
irriducibile alle norme di comportamento in vigore”18, ma allo stesso tempo,
scrive “nella documentazione storica, gli emarginati lasciano poche tracce: non
stabiliscono rapporti, non ereditano, non sono eroi di grandi imprese che possano
passare alla storia. Sono presenti anzitutto negli archivi della repressione, quindi
in un’immagine riflessa dove non appare soltanto la giustizia della società
organizzata, ma anche il suo timore e il suo odio. Per questo le informazioni
riguardano prima di tutto la società stessa, e solo su un secondo piano quelli che
sono oggetti di repressione”19. Per cui, inevitabilmente, in un approccio storicosociale alla questione, l’oggetto non sarà costituito dalla povertà stessa ma dalla
sua amministrazione e regolamentazione.
Le prime figure di vagabondi e mendicanti sembrano comparire già all’epoca
della decadenza di Roma dove, tra guerre e miseria, questo fenomeno trovò
l’ambiente idoneo per svilupparsi. Il mondo pagano vedeva i vagabondi come
uomini dediti al vizio e all’ubriachezza e, anche se spesso li guardava con
simpatia, li riteneva comunque dei malviventi o dei truffatori.
Con la diffusione del cristianesimo, la religione dei poveri, la povertà venne
presentata come valore spirituale in quanto portatrice di umiltà e di abnegazione.
Nel medioevo non vi sono politiche di lotta alla povertà, in quanto era la carità
cristiana che si occupava del povero. La Chiesa, infatti, aveva assunto il
monopolio del capitale caritativo con la costituzione anche di ordini specializzati
deputati alla cura dei malati e degli indigenti. Il povero aveva una propria
funzione sociale; infatti si riteneva che egli permettesse al ricco l’accesso al
paradiso tramite la carità.
A partire dal XI-XIII secolo, in seguito allo sviluppo economico delle campagne e
delle città, si ebbe un forte aumento del vagabondaggio costituito non solo da
poveri e mendicanti, ma anche da gruppi di religiosi pellegrini e di garzoni
itineranti. Il vagabondaggio, infatti, rappresentava anche una forma di
apprendistato, un sistema per imparare un mestiere.
Tra il 1480 e il 1526 L’Europa fu investita da due crisi che portarono la miseria ad
assumere una dimensione di massa: le città e le strade iniziano a popolarsi di
mendicanti, vagabondi, prostitute, poveri. Le cause di questo fenomeno di
pauperizzazione andavano ricercate soprattutto nelle campagne con la cacciata dei
contadini dalle loro terre da parte dei proprietari feudali e la loro trasformazione
in operai, ma anche nella crescita demografica e in corrispondenza a questa il
succedersi di cattivi raccolti, guerre, epidemie, aumento del costo della vita e della
fame.
18
“Nous allons nous attacher à des gens ou des groupes qui sont rejetès,ou se mettent d’euxmèmes en marge de la vie sociale,ne participent pas aux processus de production e dont la vie reste
irrèducible aux normes de comportaments en vigeur”, in B. Geremek, Les marginaux parisiens
aux XIV etXV siècle, Flammarion, Paris, 1976, p. 98.
19
B. Geremek, La pietà e la forca. Storie della miseria e della carità in Europa, Laterza, Roma,
1998, p.87
18
La crisi che sconvolse la società europea all’inizio dell’età moderna spinse ad un
complessivo ripensamento delle categorie e degli atteggiamenti con cui trattare la
mendicità. L’immagine del vagabondo venne avvicinata a quella del sovversivo e
del criminale.
Secondo Geremek20 la grande repressione contro queste fasce sociali viene
scatenata all’alba dello sviluppo industriale: con l’industrializzazione, la colpa
profonda dei mendicanti diventa proprio la mancanza di lavoro.
A partire dalla Riforma, nei territori a dominanza protestante, il nuovo
atteggiamento nei confronti dei poveri e mendicanti chiama direttamente in causa
le amministrazioni locali e affida loro il compito di una politica sociale che mira
al controllo delle frange marginali. Ma non si tratta di un fenomeno legato solo
all’etica protestante, il Concilio di Trento assumerà le stesse posizioni, e nel corso
del XVI secolo, almeno settanta città europee procederanno ad una riforma della
beneficenza pubblica che prevedeva una qualche forma di reclusione dei
mendicanti.
“L’idea che i poveri dovessero essere segregati dalla società era sorta già alla fine
del XVI secolo, ma si diffuse soprattutto nel XVII secolo (…).In tutta Europa
inizia la reclusione dei poveri in istituti che sono a un tempo ospedali, case di
correzione e talvolta opifici (…). La volontà di segregare i poveri è sostenuta, in
quasi tutti i paesi europei, da motivi di fatto e da una corrente di pensiero. I motivi
di fatto sono presto detti: i provvedimenti presi nel XVI secolo non hanno fatto
sparire la mendicità, anzi, per tutto il ‘600 questa ultima costituisce un problema
angoscioso (…). Il carattere ossessivo della miseria nell’Europa del XVI secolo
induce alla segregazione dei poveri (…). Le argomentazioni svolte sono sempre
simili. Un primo spunto, molto diffuso, consiste nel sostenere che la segregazione
ridurrà di molto i rischi di contagio. Seconda opinione, ancor più ricorrente:
bisogna segregare gli oziosi per obbligarli a lavorare (…). I sostenitori della
segregazione adducono infine argomentazioni morali e religiose. La vita condotta
da mendicanti e vagabondi è una vita da pagani. Trascorrono lunghi anni senza
accostarsi ai sacramenti; i loro figli non vengono battezzati; si accoppiano in
modo casuale, senza contrarre vincoli matrimoniali”21.
All’inizio dell’epoca moderna, in conseguenza alle numerose crisi, il numero dei
poveri diviene eccessivo per la capacità delle strutture assistenziali di far fronte
alla situazione. Inizia così la repressione. “Con il concilio di Trento (1463-1545)
assistiamo all’intensificarsi in tutta Europa della repressione contro i vagabondi e
i mendicanti. In Italia l’editto del 1561 dello Stato pontificio,considerava reato
l’accattonaggio pubblico. Si crearono case per mendicanti, ospedali ed ospizi volti
alla rieducazione di queste fasce d’emarginati. In realtà, queste strutture, di fatto,
si trasformano in veri e propri carceri e reclusori. Il compito fondamentale era
quello di creare le condizioni al reinserimento del povero nella società attraverso
l’insegnamento coatto del lavoro.”22
Nel 1601, in Inghilterra, viene approvata la prima Poor Law, la legge i cui principi
fondamentali erano la carità e l’ordine pubblico: “La carità inizia a trasformarsi in
20
Ibidem, p. 232.
M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storicosociale”, in P.Guidicini, G.Pieretti, M.Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, p.40
22
P.Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, p.29
21
19
dovere sociale ponendo così le basi dell’assistenza pubblica. Le chiese e le
istituzioni private caritatevoli non sono più le sole ad occuparsi della miseria e
della povertà; l’assistenza comincia a diventare un affare di Stato”.23
In epoca moderna si assiste quindi ad una laicizzazione della carità cristiana
medievale.
Nel corso del XIX secolo il modo di assistere i poveri cambia profondamente:
l’intervento tende sempre più a concentrarsi sul povero e ad individualizzarsi; si
ricercano le cause strutturali della mendicità tanto che la figura del povero risulta
mutata: gli internati sono considerati responsabili della propria condizione.
In questo periodo, ciò che viene a modificarsi, in tutti i paesi europei sono i
confini che delimitano i diversi tipi di povertà; viene ad approfondirsi sempre più
la linea di confine, ereditata dall’epoca moderna, tra poveri meritateveli e poveri
non meritateveli, tra classi lavoratrici e classi pericolose, tra povertà operose e
povertà oziose. La povertà continua a rimanere una caratteristica propria delle
classi popolari, ma alcuni suoi attributi saranno specifici solamente delle sue
forme estreme.
La condotta di vita dei vagabondi era ritenuta una minaccia all’ordine sociale e
quindi soggetta a sanzioni; all’interno del codice sabaudo (1895), i vagabondi
erano definiti come coloro che non avevano un domicilio fisso, né mezzi di
sussistenza, non avevano un mestiere, girovagavano di paese in paese, erano
dediti all’ozio e alla truffa guadagnando sulla credulità altrui. Se inizialmente lo
Stato sabaudo mantenne un certo grado di tolleranza nei confronti del vagabondo
in quanto si prevedeva l’obbligo di licenza alla mendicità, poi, con la legge n.
5888 del 23/12/1888 sulla Pubblica Sicurezza, si ebbe l’abolizione del permesso
di mendicare. Le persone abili al lavoro, sorprese a mendicare venivano punite
con l’arresto. Diverso trattamento per gli inabili che venivano ricoverati
obbligatoriamente in un istituto di assistenza. L’abilità al lavoro determinava,
quindi, un diverso tipo di trattamento.
Nella seconda metà dell’Ottocento inizia un approccio categoriale alla povertà.
“E’ infatti in questo periodo che emerge una forma d’assistenza specializzata che
si differenzia da quella che sarà la previdenza sociale. Mentre la prima sarà
espressione della presa in carico, da parte dello Stato, delle situazioni di povertà e
deprivazione e sarà riservata a coloro che si troveranno in stato di bisogno
dimostrabile, la previdenza sociale sarà rivolta esclusivamente a coloro che
partecipano direttamente alla sfera produttiva e cioè a chi detiene lo status di
lavoratore”.24
“Quello che si definisce è un modello di cittadinanza fondato sulla quasi totale
coincidenza dello status di lavoratore con quello di cittadino”e “questa partizione
delle forme di intervento favorisce inoltre il declassamento sociale di coloro che
afferiscono all’area dell’assistenza, la loro stigmatizzazione. (…). Ciò che cambia
è l’immagine stessa della povertà estrema, o meglio questa si arricchisce di nuovi
attributi. L’immagine della povertà urbana estrema, a partire dall’epoca moderna,
si arricchisce di nuovi attributi che si sedimentano l’uno sull’altro. Tutte le
immagini della povertà urbana estrema sono compresenti in forma stratificata. Le
23
M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storicosociale”, in P.Guidicini, G.Pieretti, M.Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, p.40.
24
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, p.31.
20
difficoltà nella lettura della povertà urbana estrema sono in gran parte da attribuire
a questa stratificazione di immagini. La figura della povertà urbana estrema
ancora oggi rimanda contemporaneamente alla prossimità con Gesù, alla
decomposizione delle relazioni sociali, ad una residualità, alla minaccia del
ritorno di situazioni di altri tempi.”25
Nella seconda metà dell’800, la scienza medica e psichiatrica in particolare,
contribuiscono alla nuova definizione della povertà urbana estrema. La scuola di
stampo positivista, in particolare, vede nel vagabondaggio una patologia, ozioso
per disposizione innata.
Quindi, a partire dall’ottocento non ci si concentra sul fenomeno povertà, vista
come costitutiva delle classi popolari, tanto che tra povertà e povertà estrema non
vi era differenza di natura, ma ci si concentra sempre più sull’individuo e sulle sue
caratteristiche fisiche e psichiche.
Nel corso del XIX secolo, le nuove forme di trattamento della povertà e la relativa
legislazione, vengono influenzate dal concetto di “pericolosità sociale”.
Con la nascita del nuovo codice penale del 1889, il vagabondaggio assume una
rilevanza penale e diviene materia di polizia. Il vagabondo è ritenuto un soggetto
pericoloso, sia che incorra o no in un reato, è quindi soggetto a provvedimenti,
anche se differenziati. “Sta qui l’imposizione al vagabondo di fissare stabilmente
la propria dimora, l’internamento del mendicante nel ricovero di mendicità,
l’imposizione di un lavoro all’ozioso”.26
Negli ultimi decenni dell’800 si assiste ad una maggiore ingerenza dello Stato
nella beneficenza, ambito coperto in precedenza da istituzioni religiose : in Italia,
con la legge n.6972 del 17/07/1890, nascono le Istituzioni pubbliche di assistenza
e le Congregazioni di Carità che avevano il compito di far fronte alle esigenze
delle fasce marginali della popolazione; con questa viene sempre più rafforzata la
responsabilità degli amministratori locali. Alla regolamentazione statale
dell’assistenza corrisponde una sempre più accentuata categorizzazione
dell’utenza titolare del diritto di assistenza: “l’assistenza diventa un diritto
categoriale mediante l’istituzione di strutture di ricovero specifiche per utenze
specifiche”.27
Lo sviluppo di queste strutture28 avvenne soprattutto nel primo cinquantennio del
XX secolo, in particolare nelle regioni con grosse concentrazioni urbane, a
conferma del carattere prettamente urbano della povertà estrema.
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, si definiscono con precisione i presupposti
per accedere nell’area dell’assistenza pubblica:
1) lo stato di bisogno,
2) la dimora
“Per stato di bisogno si intende una mancanza, anche parziale, di quanto occorre
per il benessere fisico, morale ed economico. Ciò comporta un soccorso alle classi
meno agiate, agli individui e alle famiglie che si trovano in particolari stati di
25
M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storicosociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in
Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p.48-49.
26
Ibidem, p.53.
27
Ibidem, p.56.
28
Ricordiamo alcuni di questi Ricoveri presenti nel territorio italiano a metà dell’Ottocento: asili
notturni, istituti per l’infanzia, istituti per persone anziane,ospedali per cronici, deficienti, inabili e
minorati fisici, riformatori, ricoveri per vedove, istituti per donne in gravidanza, ecc.
21
necessità, ai poveri che non hanno i mezzi sufficienti per la loro sussistenza.”29
L’aiuto consiste nella garanzia di un reddito minimo per coloro che ne sono del
tutto privi o hanno entrate al di sotto del minimo stesso. Tale misura viene
denominata minimo vitale e si rivolge a quei cittadini residenti a reddito
insufficiente. In particolare ai senza-casa il diritto all’erogazione dell’assegno del
minimo vitale è accompagnato dal dovere di sottoporsi a specifici progetti di
integrazione e inserimento sociale.
“Per quanto concerne la dimora essa si rifà al concetto di domicilio di soccorso
che rappresenta il luogo in cui la persona ha diritto al pubblico soccorso. In
pratica il diritto d’accesso all’assistenza è subordinato alle procedure
d’assegnazione del domicilio di soccorso che permettono di individuare l’ente che
dovrà farsi carico del povero. Il domicilio di soccorso si acquisisce quando la
persona ha dimorato per un minimo di due anni nel territorio dell’ente senza
notevoli interruzioni. Se non raggiunge tale periodo sarà ritenuta appartenente al
comune di nascita. E’utile ricordare anche la norma che riguarda l’obbligo da
parte della famiglia di prestare aiuto ai parenti ed affini che si trovino in stato di
bisogno.”30 In questo modo però, coloro che non rientrano in una particolare
categoria31, non potranno essere presi in carico dall’istituzione pubblica.32Di
contro, coloro che invece ottengono le prestazioni assistenziali, si ritrovano
stigmatizzati e categorizzati. Così, coloro che non vogliono accettare questo
processo di declassamento, rifiutano di rivolgersi al servizio e vivono una
condizione di isolamento e di abbandono.
“Le due situazioni di cui sopra definiscono un’area di popolazione che, pur
vivendo una situazione di deprivazione, rimane esclusa dall’intervento del welfare
system. Si può parlare di un’area di non-cittadinanza quale effetto di politiche di
welfare rivolte in modo specifico alle persone in condizione di povertà estrema.”33
29
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, p.32.
30
Ibidem, p.32.
31
Cioè coloro che non hanno una dimora, non hanno familiari tenuti ad alcun obbligo nei loro
confronti e vivono uno stato di bisogno difficile da inquadrare.
32
“L’estensione alla povertà estrema dell’approccio categoriale fa di essa una povertà inquadrata,
segmentata e istituzionalizzata in categorie corrispondenti alle differenti politiche sociali e alle
istituzioni che le gestiscono (…) La categorizzazione delle situazioni di povertà favorisce la
cristallizzazione dei percorsi di vita delle persone in condizione di povertà estrema. L’eterogeneità
delle situazioni di vita viene ricondotta, quando ciò ovviamente avviene, all’interno di categorie
definite per via amministrativa.”, in M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà
estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P.Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di),
Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p.66.
33
Ibidem, p.67.
22
2. PERCORSO DELLA PERSONA SENZA DIMORA
Dal fondo dell’armadio ho tirato fuori il mio zaino, è sporco. Ogni giorno vi
lascio una traccia. Vecchio zaino quante gite abbiamo fatto insieme! E chi di noi
due sarà il primo a stancarsi? Ti riempirò stasera e dentro di te deve trovare posto
tutto quello di cui avrò bisogno al campo: un paio di sandali, pane per il viaggio,
un lenzuolo, la mia amaca, fazzoletti, spago, biancheria, pettine, stoviglie,
spazzolino da denti, un pigiama, un asciugamano, il vestito da campo, una
federa, una carta della regione, prugne secche per lucciole, cetrioli per scoiattoli,
un taccuino, una matita, una saponetta, qualche scherzo per divertire. Mio buon
zaino sei pieno e duro come un pallone gonfiato. Sembra che la stoffa debba
cedere e spaccarsi sotto la pressione degli oggetti. Ma no! Non cedi, sei solido, ti
conosco; domani ti isserò faticosamente sulle spalle e ti appoggerai duro sulla
mia schiena e mi farai male per tutto il viaggio, ma non fa nulla, ho bisogno di
te, sei il mio vecchio compagno sporco, come sei ti voglio bene e ti voglio così.
Renzo B., Il mio zaino
Affrontando lo studio di queste nuove marginalità, il primo quesito che ci si pone
è se la condizione di senza dimora sia una scelta o una necessità. Come mai
alcune persone conducono uno stile di vita che a noi sembra assolutamente
disdicevole, sconveniente, scomodo, inconcludente, come mai continuano a
rimanere in quella condizione e, ancor più, come mai di fronte ad opportunità più
o meno grandi non accolgono l’occasione per invertire la rotta.
Dunque la presenza di queste persone nella strada, nello spazio pubblico (metrò,
stazioni, giardini) che, visibilmente, non fanno di questo spazio pubblico un uso
ordinario e normale, richiamano la nostra attenzione. “Esse utilizzano lo spazio
pubblico come uno spazio privato per dormire, preparare e consumare i pasti, per
continuare la loro vita sociale, per cercare delle risorse; ci vivono.”18
E’ opinione molto diffusa che la vita del “vagabondo” sia emblema di libertà e di
un modo di vita alternativo rispetto a quello tradizionale basato sul lavoro, la casa
e la famiglia. L’immagine del “vagabondo” che abbiamo è quella di un ribelle, di
colui che sceglie di escludersi dalla società volontariamente per contrapporsi a
regole che lo soffocano.
“Celati da questo termine, migliaia di individui diventano così invisibili: non
potendo essere compresi dalla società civile se non marchiandoli per dissimularli,
essi sono occultati dietro un nome che è indice, causa e soluzione morale della
loro condizione.”19
Nel termine “barbone” inseriamo così un mondo fatto da persone portatrici
ognuna di storie e di vite differenti, un mondo che mettiamo da parte perché ci fa
paura, perché stravolge il nostro ordine, le nostre certezze. L’unica spiegazione
18
J. F. Laé, C. Lanzarini, N. Murard, “Tra rotture e perdita del sé: l’homme à la rue”, in P.
Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, Angeli,
Milano, 1995, p.75.
19
F. Bonadonna, Il nome del barbone, DeriveApprodi, Roma, 2001, p.18.
23
che ci permette di passare tranquilli per le vie delle città e che ci permette di
ignorare queste persone è che la loro sia una scelta.
“Tante volte infatti, nel corso del lavoro sul campo, mi hanno chiesto: -Ma non
hanno scelto loro di vivere così?- (…) Basterebbe seguire queste persone nei loro
percorsi urbani per evidenziare come, con fatica, esse riescano a sopravvivere in
un ambiente così duro ed estremo. Parlare di scelta rasenta l’ insulto ed è spesso
indice di un malcelato cinismo.”20
Come inizia il percorso nella povertà estrema? Il vivere prevalentemente sulla
strada è il punto di arrivo di un percorso lungo e travagliato o la conseguenza di
un evento che ha cambiato e segnato in modo indelebile la biografia del soggetto?
“La lettura dei materiali biografici sembra confermare, ad un primo sguardo, la
seconda ipotesi. Un evento catastrofico (perdita del lavoro, morte di una persona
cara, una malattia che interrompe il continuum biografico del soggetto) è sempre
presente nei materiali biografici raccolti. L’incapacità di fare fronte a tale evento
critico rende insostenibile la riproduzione di comportamenti fino a quel momento
dati per scontati. Nelle parole del soggetto, l’evento critico segna un punto di
svolta: nulla è più come prima”.21
Questa ricostruzione della rottura biografica, operata dal soggetto, apre altri
quesiti. Uno tra questi è come mai persone diverse non reagiscono con le stesse
modalità al medesimo evento? Come mai la perdita di un familiare, una malattia
grave, la perdita del proprio lavoro o addirittura della propria casa non
determinano reazioni e percorsi simili?
“La diversa capacità di reagire ad un evento ci costringe ad approfondire l’analisi
dei materiali biografici, a leggere, fra le righe, le ricostruzioni ex post operate dal
soggetto”22.
A.K. Sen, economista indiano, utilizza i termini quali “functioning” e
“capability”: i “functioning”, i funzionamenti, sono le diverse condizioni di vita
che siamo in grado o meno di realizzare, le “capability”, le capacità, sono le
abilità a realizzarle.23
Possiamo dire, quindi, che il problema dei senza dimora non rimanda solo alla
mancanza di risorse, ma anche alla capacità di trasformare le risorse. Le persone
senza dimora non riescono a trasformare i beni in possibilità di vita.
Dobbiamo anche chiederci perché le persone che si trovano in strada danno la
colpa della loro situazione ad un solo evento catastrofico. Infatti l’evento che il
soggetto pone al centro del suo racconto è una specie di garanzia, per dire “non è
colpa mia, è successa quella cosa e io ne sono stato vittima”. In questo modo la
persona cerca di mantenere una propria dignità, cerca di conservare la stima di sé.
Ma “l’evento che il soggetto pone al centro del suo racconto, e dal quale fa
discendere tutta l’ esperienza successiva come una sequenza concatenata di
fallimenti in diversi ambiti della vita quotidiana (…), grazie ad una lettura più
attenta al contesto biografico e sociale, perde il carattere di evento unico ed
eccezionale, e viene ad iscriversi in una esistenza già segnata da diverse rotture.
(…). Nei materiali biografici ricorrono quasi costantemente gli stessi eventi, pur
strutturati e ordinati in maniera diversa : la perdita del lavoro, la malattia, un grave
20
Ibidem, p.18.
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.125.
22
Ibidem, p.125.
23
A. K. Sen, Il tenore di vita.Tra benessere e libertà, Marsilio, Venezia, 1993.
21
24
incidente, il divorzio, la perdita dell’alloggio, il consumo di alcol, ecc. L’inizio
della carriera nella strada coincide, per il soggetto, con uno di tali momenti critici
: quell’ evento dà origine ad una sequenza nella quale vengono ad iscriversi altre
rotture. L’ordine può variare, ciò che rimane costante è la presenza delle diverse
rotture.”24
Il concetto di “carriera”25 ci è sembrato pertinente, in quanto questo ci consente di
sviluppare un modello sequenziale di analisi della condizione di senza dimora che
tenga conto dei cambiamenti nel tempo26.Il concetto di “carriera” mette in risalto
l’aspetto evolutivo di una determinata condizione, delle tappe che segnano la
biografia del soggetto.
“Tale concetto evidenzia inoltre l’esistenza di una logica analitica interna a
ciascuna biografia : ciò che risulta incomprensibile in una determinata fase,
acquista un senso e una sua necessità all’interno di una carriera. (…) Le tappe
della biografia, in questa ipotesi di lettura, risultano concatenate: fattori oggettivi
e fattori soggettivi concorrono alla definizione delle scelte del soggetto ”.27
Antonella Meo28ricostruisce la carriera del senza dimora individuando tre tipiche
fasi principali, caratterizzate da tratti specifici :
1. La condizione di nuovo senza dimora
2. La fase di adattamento
3. Il senza casa cronico.
Quando una persona si trova fuori casa, di solito il suo primo pensiero è di
rivolgersi ad un amico o ad un parente che lo ospiti per la notte in via provvisoria
oppure di cercare una sistemazione in albergo. Quando l’ospitalità del padrone di
casa viene meno o non si ha più denaro per pagare una camera, ci si trova per la
prima volta in strada, costretti a pernottare all’aperto, in qualche ricovero di
fortuna o in un dormitorio : ha inizio la prima fase della carriera29.
“Per arrivare nella strada, è stato necessario abbandonare l’ultimo alloggio,
degradarlo, chiuderlo o esserne espulso. L’uomo sulla strada ne ha perso o gettato
la chiave. (…) E’ l’ultima rottura. Cio’ che scompare con l’ultimo alloggio sono i
mobili, il letto, la sedia, il tavolo, la biancheria, gli utensili della cucina, la porta
per separare il dentro e il fuori, è la chiave. L’uomo sulla strada è l’uomo senza
chiave.”30
24
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.126.
25
Il principale riferimento teorico è Goffman: “Il termine carriera è riservato abitualmente ad un
tipo di privilegi goduti da chi progredisce, secondo tappe graduali, in una professione di successo.
Si usa tuttavia lo stesso termine, in senso più ampio,per riferirsi ad una sorta di filo conduttore –di
carattere sociale- seguito nel ciclo dell’intera vita di una persona.”, in E. Goffman, Asylums,
Edizioni di Comunità, Torino, 2001, p.153
26
Per l’applicazione di questa categoria analitica è importante anche lo studio di Becker sulle
carriere devianti.
27
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.123.
28
A. Meo, “Il senza casa : una carriera di povertà. Osservazione sul campo a Torino”, in Polis, n.
2, 1998, pp. 246-261.
29
Ibidem, p.243.
30
J. F. Laè, C. Lanzarini, N. Murard, “Tra rotture e perdita del sé : l’homme à la rue” in P.
Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, p.79.
25
2.1. La casa
La casa non è solamente uno spazio fisico, ma è soprattutto un luogo di identità.
Essa implica e permette l’intimità (il voler restare soli, occuparsi di sé), la
socialità (il vicinato) e la domesticità (avere mobili, oggetti, biancheria).31
La “nostra casa” ci evoca sentimenti, immagini, ricordi, sensazioni che in qualche
modo ricompongono la nostra identità, rappresenta una nicchia protettiva,
generativa. Senza dimora dunque, non vuol dire solo o tanto senza casa, ma
assume una valenza semantica più densa : assenza di mura domestiche, ma anche
di domicilio, di rifugio, di protezione, di spazio per il sé. In lingua spagnola, non
a caso, senza dimora si dice sin hogar (senza focolare). La casa quindi è uno
spazio elaborativo, rappresenta il retroscena nel quale vengono praticate le
tecniche di gestione e preparazione della scena dove l’ “attore” mostra le proprie
abilità sociali.32
“L’alloggio, nel senso fisico, è anche il quadro in cui si iscrivono tutte le rotture
(in particolare con la famiglia).”33
2.2. La famiglia
“La famiglia è un potente agente di integrazione. Essa tenterà fino alla fine, fino a
quando non sarà totalmente sfinita e finchè egli non avrà oltrepassato i limiti
dell’inclusione”34.
Infatti il “processo di smembramento della famiglia si sviluppa nel tempo: la
rottura, l’abbandono e la separazione totale dal nucleo familiare sono figure
progressive, ma non necessariamente consecutive. Assestamenti temporanei
sembrano preludere ad una ricomposizione della frattura, che effettivamente a
volte si produce”.35
Nonostante il legame familiare si interrompa nel momento in cui viene
abbandonata la casa, esso sopravvive, è presente nell’intimità della persona che si
percepisce ancora come membro di quella famiglia.
La perdita della casa e l’allontanamento dalla famiglia, inizialmente, quindi,
vengono percepiti come momentanei, temporanei.
31
Ibidem, p. 79.
Il riferimento è al modello drammaturgico di Goffman.
33
J. Laè, C. Lanzarini, N. Murard, “Tra rotture e perdita del sé : l’homme à la rue” in P. Guidicini,
G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano,
1995, p.79.
34
Ibidem, p.80.
35
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.128.
32
26
Il “nuovo senza casa”36inizialmente rivolgerà tutte le sue energie a soddisfare i
bisogni primari di sopravvivenza. La sua preoccupazione maggiore sarà quella di
reperire un posto dove dormire. La notte, per chi si trova da poco tempo in strada,
rappresenta il momento della giornata in cui avverte maggiormente la mancanza
di una abitazione e la gravità della propria situazione. Ma la situazione che la
persona sta vivendo viene vista come momentanea, per cui egli cercherà
un’occupazione che gli possa permettere di reinserirsi nella società e soprattutto di
riprendere contatto con la propria famiglia.
Questo tipo di senza casa non fa ricorso alle istituzioni di assistenza, cioè
all’insieme delle strutture pubbliche e private, in quanto ritiene di poter contare
sulle proprie forze, egli è orientato alla società, ai valori e alle norme dominanti e
si considera membro della stessa. “Si mostra fortemente proiettato verso il
reinserimento nella società e impegnato in progetti di cambiamento in tal senso. Si
rappresenta la situazione essenzialmente nei termini della mancanza di una casa e
di un lavoro; perciò i suoi progetti prevedono innanzitutto il raggiungimento di
tali obbiettivi.”37 Egli tiene molto a sottolineare la sua diversità dagli altri senza
tetto e il carattere del tutto temporaneo della situazione in cui si trova.
“La visita costituisce un tentativo di riacquistare una posizione in seno al nucleo
familiare, di sfuggire alla nuova condizione, di dimostrare quanto i parenti si siano
sbagliati sul conto e sulle capacità del soggetto. La visita, in cui è necessario
mostrare che non si è caduti troppo in basso, sembra assicurare una continuità
nella linea biografica, la preservazione di un legame, già incrinatosi in più punti.
Può essere il momento in cui il passato ritorna a galla: quel legame, che sembrava
ricucito, in occasione del nuovo incontro, si spezza ancora. L’individuo perde
poco a poco la possibilità di fare affidamento materialmente ed affettivamente,
sulla famiglia. Questa fase può essere precoce o tardiva: quando la famiglia è stata
sfruttata fino all’estremo, quando l’individuo sulla strada è diventato un peso
insopportabile, la rottura si compie definitivamente. La famiglia può sopravvivere
solo nell’immaginazione e la sua assenza viene vissuta come realtà
onnipresente.”38
La famiglia quindi, nonostante sia sempre al centro nella ricostruzione della linea
biografica39 e pur rimanendo viva nel ricordo, non potrà più essere un punto di
riferimento certo per la persona sulla strada che non potrà più fare affidamento su
di essa in una situazione di bisogno.
In alcuni casi la rottura viene attuata dal soggetto medesimo: in questo caso sarà
affidata alla famiglia la responsabilità della “caduta” nella strada e quindi non vi è
36
A. Meo, “Il senza casa: una carriera di povertà. Osservazione sul campo a Torino”, in Polis n.2,
1998, pp.241-261.
37
Ibidem, p.245.
38
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.130.
39
La “linea biografica” rappresenta il percorso della persona senza dimora, le tappe della vita
concreta. Si parte da un livello di normalità sociale che viene messa in crisi da una serie di
rotture, “una sequenza di rotture biografiche che interessano sia la personalità che il tessuto
sociale. Esiste una sorta di soglia che potremmo chiamare area di non ritorno, che
contraddistingue l’incapacità-riluttanza di provvedere a se stessi, definibile come processo di
decomposizione e abbandono del sé. Quando un individuo oltrepassa questa soglia, significa che
egli attacca la propria vita” . P. Guidicini, G. Pieretti, “Introduzione”, in P. Guidicini, G. Pieretti,
M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995,
p.12. Vi è quindi una sorta di ritiro dal mondo esterno.
27
alcuna volontà di ricostruire una relazione con essa, pur in situazioni di bisogno e
in presenza di una famiglia che potrebbe intervenire se sollecitata.40
2.3. Il lavoro
“Vi è un legame diretto tra la disoccupazione e la povertà, ma non vi è un legame
diretto tra la disoccupazione e la strada (…). La perdita del lavoro non conduce
sulla strada”41.
Anche per quanto riguarda l’ambito del lavoro possiamo parlare di indebolimento
delle relazioni: “l’occupazione risulta infatti sempre più precaria, in quanto la
persona è sempre meno capace di gestire le relazioni sul luogo del lavoro”.42
La persona sulla strada non ha avuto una carriera lavorativa costante e solida, ma
un susseguirsi di impieghi precari e dequalificati. Dopo la scomparsa di queste
attività, viene meno progressivamente anche il desiderio di trovare una nuova
occupazione. La voglia di “mettersi in gioco” si fa sempre più debole, perché gli
insuccessi e le sconfitte cominciano a pesare troppo.
“Per essere sulla strada, bisogna che il lavoro sia progressivamente cancellato
dall’orizzonte, che cessi di essere il vettore della biografia: la memoria di un
lavoro, l’attualità di un lavoro, il progetto di lavorare (…) sono spariti
completamente. (…) Egli ha sopportato per questo delle sofferenze immense e
ripetute. E’ stato necessario che egli si sforzasse e si battesse per anni. (…) E’
stato necessario che di volta in volta tutto ciò non funzionasse. (…) Restano dei
ricordi. E la constatazione di non avere più chances in una società che proclama
l’uguaglianza delle opportunità.”43
Se il fallimento comincia ad essere presente su tanti fronti, in tante dimensioni
della vita, mano a mano l’individuo comincerà ad adattarsi ad un’altra immagine
di sé, comincerà ad evitare i terreni di sconfitta che provocano sofferenza,
adottando una specie di “adattamento per rinuncia”44
Attraverso questo meccanismo, l’individuo recede mano a mano dal rapporto con
la realtà esterna, chiudendo l’orizzonte delle possibilità e la proprie aspettative di
realizzazione.
2.4. La vita in strada
“La degradazione dello status prodotta dalla vita sulla strada è una esperienza
intensa, che mette a dura prova il soggetto. Il freddo, la fame, la paura,
l’impossibilità di nascondersi. Sopravvivere nella strada implica una conoscenza,
40
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999.
J. F. Laè, C. Lanzarini, N. Murard, “Tra rotture e perdita del sé: l’homme a la rue”, in P.
Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di ), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, p.81.
42
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.131.
43
J. F. Laè, C. Lanzarini, N. Murard, “Tra rotture e perdita del sé: l’homme à la rue” in P.
Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, pp.81-82.
44
L. Gui, conferenza a S. Marcellino, Genova, 16-02-2002.
41
28
una energia, un equipaggiamento mentale che mancano alla maggior parte delle
persone. Bisognerà ad esempio affrontare la prova della mendicità, accettare
quegli sguardi, quella sensazione molto particolare, accettare di istallarvisi.”45
Con l’aumentare del periodo di tempo trascorso in strada, quindi, nella persona si
registra una serie di cambiamenti che investono tutti gli ambiti della vita,
soprattutto gli aspetti morali della carriera, attinenti al modo in cui il soggetto si
vede, percepisce la situazione e la fronteggia.46
“I supporti tradizionali dell’identità tendono dapprima ad indebolirsi, poi a
dissolversi definitivamente. Se il loro venir meno priva l’ individuo della sua
precedente identità, la nuova vita quotidiana gliene conferisce un’altra.”47
Per quanto riguarda le modalità di sussistenza, chi si trova senza tetto da più
tempo, inizia ad elaborare forme di adattamento alla vita di strada in cui nulla è
stabile e scontato.
Lo spazio pubblico diviene la nuova dimora e per abitarlo la persona deve
elaborare strategie attive di adattamento alla nuova realtà. Durante il processo di
adattamento la persona, non solo modifica il proprio corpo, ma anche le proprie
abitudini culturali. Viene a mancare la separazione tra sfera pubblica e sfera
privata, è nella strada, nella piazza, nello spazio urbano che entrambe le
dimensioni trovano il proprio luogo.
Bonadonna48 dice che le persone senza dimora, adattandosi alla strada, compiono
e subiscono tre tipi di mutazione correlate tra loro: culturale, fisica e psicologica.
La mutazione avviene a livello culturale in quanto queste persone violano i valori
e i tabù fondanti la nostra cultura, fra tutti, il valore portante della nostra società, è
la produzione economica; altra mutazione è quella del non abitare uno spazio
culturalmente inteso e nell’utilizzare uno spazio pubblico come privato. Per
quanto riguarda la mutazione fisica, senza una dimora non è possibile una
gestione “normale” del proprio corpo, dell’ igiene, della sua cura. Vivendo per
strada quindi, il corpo subisce trasformazioni profonde e la stessa percezione dello
spazio, del clima, del divenire temporale, cambiano.
Il terzo tipo di mutazione è di carattere psichico perché la radicale trasformazione
dello spazio esterno provoca una mutazione dello spazio interno, del sé interiore,
che in stretta correlazione con lo spazio esterno elabora delle strategie di
mutazione in relazione al nuovo ambiente vitale.
Le attività quotidiane della persona senza dimora sono organizzate dallo spazio
urbano. “I ritmi di vita si strutturano in relazione al carattere pubblico del luogo in
cui vive: si sveglia prima che gran parte della popolazione si sia messa in
movimento, cammina continuamente per non essere visibile, chiede l’elemosina
nei momenti in cui le vie sono molto frequentate o all’uscita dei fedeli da una
chiesa, si apparta in luoghi isolati per mangiare.”49
45
J. F. Laè, C. Lanzarini, N. Murard, “Tra rotture e perdita del sé: l’homme à la rue” in P.
Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, p.84.
46
A. Meo, “Il senza casa: una carriera di povertà. Osservazione sul campo a Torino”, in Polis n.2,
1998, pp.241-261.
47
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.133.
48
F. Bonadonna, Il nome del barbone, DeriveApprodi, Roma, 2001.
49
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
pp.134-135.
29
In una prima fase la persona, nonostante viva in strada, vuole nascondere la
propria situazione, sottrarsi allo sguardo pubblico. “Nella stazione ferroviaria
cercherà di confondersi con i viaggiatori, nella strada con i passanti. (…) La
persona deve diventare invisibile.”50
Il senza casa cronico51 elabora un insieme di pratiche opportunistiche di
sopravvivenza che gli scandiranno giornalmente il tempo. Le sue destinazioni
rispondono principalmente ai bisogni legati alla sopravvivenza. “Le pratiche
quotidiane vanno dal reperimento di un posto all’aperto dove riposare o di un
nascondiglio sicuro dove tenere le proprie cose, dagli accorgimenti escogitati per
accedere a più di una mensa lo stesso giorno, alle varie forme di accattonaggio,
all’individuazione di un’osteria dove il vino sia a buon prezzo o di una sala corse
dove si possa trascorrere il pomeriggio al caldo senza dare nell’occhio”52.
La vita quotidiana, quindi, si organizza con regolarità attorno a ritmi definiti e le
pratiche che assicurano la sopravvivenza vengono vissute come routine e
consuetudine.
“Sulle pratiche di sopravvivenza si struttura progressivamente anche la
concezione dello spazio e del tempo. Il senza casa mappa lo spazio urbano in
funzione della distribuzione delle risorse istituzionali e non, creandosi ambienti di
vita quotidiana alternativi all’abitazione, che presentano tuttavia un minimo di
familiarità e di stabilità proprio in virtù del fatto di essere frequentati in modo
abitudinario e a cicli ravvicinati. Egli stabilisce infatti i propri itinerari nella città
sulla base della localizzazione dei centri del circuito assistenziale, dei
<benefattori>, delle osterie in cui si intrattiene a bere, dei giardini pubblici. Una
volta definiti, tali itinerari vengono ripercorsi ogni giorno.”53
Con il passare del tempo, “il circuito della sopravvivenza nello spazio pubblico” 54,
inizia a mostrare numerose falle: si viene a perdere, progressivamente, la capacità
di restare invisibili 55. La persona avverte il processo di stigmatizzazione a cui è
sottoposto.56
2.5. Il rapporto con le istituzioni
50
Ibidem, p.137.
A. Meo, “Il senza casa: una carriera di povertà. Osservazione sul campo a Torino” , in Polis n.2,
1998, pp.241-261.
52
Ibidem, pp.249-250.
53
Ibidem, p.251.
54
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999.
55
“La visibilità costituisce un fattore fondamentale. Quello che si può dire riguardo all’identità
sociale di un individuo in qualsiasi momento della sua giornata e da parte di tutte le persone che lo
incontrano ha una grande importanza per lui. La conseguenza di certe rivelazioni fatte al pubblico
in generale può essere di poca rilevanza nei contatti particolari, ma in ciascun contatto ci saranno
sempre delle conseguenze che, prese cumulativamente, possono essere di grandissima portata.” in
E. Goffman, Stigma, Giuffrè, Milano, 1983, pp.52-53.
56
Il concetto di stigma fu introdotto da Goffman il quale sostiene che “(…) elemento comune agli
svantaggiati di ogni genere è da identificarsi nell’esistenza dello stigma che tende a collocare
l’individuo in una categoria socialmente svalutata”, in E. Goffman, Stigma, Giuffrè, Milano, 1983,
p. 62. In concreto questo è un processo di categorizzazione svolto da ogni uomo come mezzo di
semplificazione in una società complessa. Lo stigma è quindi espressione di una collocazione
aprioristica da parte della società di alcuni individui all’interno di categorie.
51
30
Per istituzioni intendiamo l’insieme delle strutture assistenziali pubbliche e
private. Esse rappresentano dei punti di riferimento spazio-temporali nella
costruzione della carriera delle persone senza dimora, in quanto vengono ad
integrare, in un primo momento, “il circuito personale della sopravvivenza”57. In
una prima fase la persona senza dimora sfrutterà quelle risorse che non è in grado
di recuperare autonomamente nello spazio pubblico, provenienti dalle istituzioni
assistenziali. In seguito, invece, il rapporto potrebbe diventare esclusivo.
Si possono quindi ricostruire diverse modalità di fruizione delle strutture
assistenziali che corrispondono alle diverse tappe della carriera nella strada. “E’ a
questo circuito che chi si trova in condizioni di povertà estrema affida la propria
sopravvivenza, ma diverse e variegate saranno le modalità con le quali ciascun
soggetto utilizza le risorse presenti. L’osservazione di tali differenti modalità di
fruizione (…) suggeriscono che ogni soggetto può collocarsi in modo diverso
rispetto (…) alle strutture assistenziali presenti sul territorio”.58
La frequentazione delle strutture assistenziali, per l’uomo sulla strada,
“presuppone il superamento di un’altra prova, intensa come la prova della strada,
deve accettare la degradazione dei suoi antichi attributi”59per indossare una nuova
identità: quella del senza dimora, accettare quindi lo stigma e tutte le conseguenze
che esso comporta.
“Le strutture di accoglienza che potrebbero far dormire le persone sono tante, ma
molta gente che vive sulla strada ha avuto anche un passato e non sempre è stato
così malvagio come si crede. E tante volte, pur di non togliersi quel poco di
dignità che gli è rimasta, non casca in queste strutture, perché non vuole
degradarsi” (Peppe).60
L’avvicinarsi alle strutture assistenziali viene vissuto come una vergogna, una
discesa sociale, in quanto chiedere assistenza implica riconoscere la propria
incapacità di uscire autonomamente da una condizione problematica.
“Il discredito sociale e il sentimento di umiliazione connessi alla presa in carico,
non possono essere accettati se non si sviluppa contemporaneamente una
rielaborazione simbolica dello statuto di senza fissa dimora, una razionalizzazione
e reinterpretazione individuale del senso assegnato alla nuova condizione di
assistito”.61
L’assistenza viene così interpretata come un diritto e lo statuto di senza fissa
dimora viene giustificato o facendo riferimento ad una malattia o ad una
invalidità, o alla crisi economica e alla disoccupazione. La prima richiesta ai
servizi quindi, sarà quella di un lavoro o di una sistemazione abitativa in quanto
cittadini. Comunque “per giustificarsi nei confronti degli assistenti sociali dei suoi
colleghi (o del sociologo) per aver accettato questa identità stigmatizzata il SDF
57
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999.
Ibidem, pp.139-140.
59
P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, p.84.
60
F. Bonadonna, Il nome del barbone, DeriveApprodi, Roma, 2001, p.99.
61
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.141.
58
31
tende a distinguersi dai suoi simili più degradati 62, spiega che ha accettato
l’istituzione perché lui non vuole diventare come quelli là.”63
La presa di distanza dagli altri ha la funzione di mantenere una propria dignità, di
conservazione del sé e di ciò che resta dell’identità sociale precedente e le piccole
libertà che la persona si prende all’interno delle strutture hanno anche questa
funzione.
Queste micro-resistenze con il tempo possono divenire o sempre più marginali,
insignificanti, o al contrario si possono rafforzare fino ad allontanare la persona
dal circuito dell’assistenza. Si aprono quindi alla persona senza dimora due
percorsi: Il primo è quello del rifiuto e dell’abbandono del circuito assistenziale e
della scelta quindi di una “carriera nella strada”64, producendo un ulteriore
declassamento delle condizioni di vita. Il secondo è dato dall’accettazione, fino in
fondo e senza riserve, del nuovo statuto di assistito in quanto senza fissa dimora;
in questo modo la persona accetta di entrare a far parte del circuito dell’assistenza
e di seguire tutti i suoi percorsi (“fare carriera nell’istituzione”)65.
Descriverò a grandi linee il primo percorso in quanto è nella strada che
incontriamo l’estremo della povertà urbana, il massimo degrado; per quanto
riguarda il secondo percorso, ne parlerò nella seconda parte del mio lavoro.
2.6. Il rifiuto o l’abbandono: il senza casa cronico
In questa fase i rapporti con i servizi assistenziali vengono meno. La persona
senza dimora non è riuscito a seguire i tempi, le procedure e l’iter burocratico che
ne caratterizzano il funzionamento, per uscire dalla sua condizione è costretto a
seguire dei percorsi predefiniti e questi per lui non esistono più; e “l’istituzione
non può accettare questa cattiva volontà e tutti i segni che l’accompagnano: il
corpo segnato, pesante, sporco che emana odori. Non si è cambiato i vestiti da più
settimane ed ha rinunciato a farsi regolarmente una doccia in assenza di vestiti di
ricambio; il linguaggio è brutale, incoerente, incomprensibile, ripetitivo. Parla
forte, molto forte, reclama ciò che gli è dovuto e non comprende perché sarebbe
dovuto venire ieri o domani, tutti i giorni sono uguali per lui”66.
Per quanto riguarda l’identità, la persona senza dimora, in questa fase, sperimenta
una congruenza fra la rappresentazione di sé e l’identità sociale di barbone.67 Egli
non si considera più membro della società, né vuole diventarlo. Inizialmente egli
62
“Quando un individuo apprende per la prima volta cos’è che deve accettare come propria
condizione, è probabile, ed è il meno che possa succedere, che provi una certa ambivalenza.
Infatti, non soltanto gli altri, i suoi compagni di sventura, saranno apertamente stigmatizzati e
quindi non trattati come la persona normale che lui crede di essere, ma in più avranno anche altri
attributi con cui egli troverà difficile identificarsi.” in E. Goffman, Stigma, Giuffrè, Milano, 1983,
p.39.
63
J. F. Laè, C. Lanzarini, N. Murard, “Tra rotture e perdita del sé: l’homme à la rue”, in P.
Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi, Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano,
1995, p.85.
64
Ibidem, pp.94-99.
65
Ibidem, pp.84-93.
66
Ibidem, p.88.
67
A. Meo, “Il senza casa: una carriera di povertà. Osservazione sul campo a Torino”, in Polis n.2,
1998, pp.241-261.
32
tenta di ricostruirsi una “nuova” identità, riorganizzando il proprio sé in funzione
della “nuova” vita che viene anche definita positivamente come “vita di strada”.
A fronte di questa riorganizzazione del sé, tuttavia, mano a mano vengono a
perdersi le risorse motivazionali e la capacità di reazione, viene meno la capacità
di proiettarsi nel futuro e di prospettarsi dei cambiamenti. “Il tempo biografico
perde profondità e si appiattisce su un presente dilatato, sempre uguale a se stesso,
e sganciato dal passato e dal futuro”.68
La cronicità è un evento cruciale nella carriera della persona senza dimora. Il
processo di cronicizzazione, che si sviluppa secondo una successione di tappe che
manifestano progressivamente minori gradi di libertà e margini di uscita, struttura
lo stile di vita della persona senza dimora in modo determinante. La possibilità di
reinserimento nel tessuto sociale diminuisce mano a mano che aumenta il tempo
di permanenza in strada.
“La carriera dell’uomo sulla strada raggiunge progressivamente il suo limite,
mano a mano che la fatica aumenta. Certi giorni non riesce a mendicare. E’ troppo
stanco, non abbastanza pulito, non abbastanza digiuno, non trova più nessuno da
cui distinguersi e di cui farsi beffe. Non ha più voglia di guardarsi nelle vetrine dei
negozi. Non ha più voglia di scendere nel metrò per scaldarsi. Non ha più un
rifugio né l’energia per cercarne uno. (…) Ha raggiunto un punto dove non crede
più di poter amare o essere amato, un punto dove questa capacità è in coma
avanzato. (…) Ha vinto la sua sofferenza, non la sopporta più. Questo limite è
costituito dalla decomposizione del sé che risulta dalla perdita dell’intimità.”69
Il riferimento alla “decomposizione ed abbandono del sé” intende evidenziare un
processo di trasformazione profondo, concreto che, passo dopo passo, diviene
irreversibile. Questo processo induce un ritiro dal mondo esteriore, ritiro che
designa l’”incapacità di fare territorio”70. Gli individui coinvolti, di conseguenza,
perdono progressivamente interesse nelle relazioni umane e si allontanano sempre
più da ogni tipo di contatto, hanno perso ogni legame comunitario, sono
“dèsaffilès”71, il loro sistema psichico è deluso, vuole ritirarsi, fino a lasciarsi
morire. Quando l’individuo oltrepassa questa soglia significa che egli attenta
direttamente alla propria vita.72
Di povertà estrema, o comunque senza dimora, si muore e si muore presto.
2.7. La gestione del corpo
Senza una abitazione non è pensabile una gestione “normale” del proprio corpo,
della sua pulizia, della sua cura.
“Chi è senza fissa dimora non ha la possibilità di chiudere o aprire, a scelta, un
contatto con il mondo esterno (…) mancando la possibilità di interpretare uno
spazio tra sé e il mondo, l’io-pelle,-la pelle del bambino alla nascita, unica
68
Ibidem, p.253.
J. F. Laè, C. Lanzarini, N. Murard, “Tra rotture e perdita del sé: L’homme à la rue” , in P.
Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, p.96.
70
J. F. Laè, L’homme a la rue, ètapes et figures de l’abandon, Plan Urbain, Paris, 1993.
71
R. Castel, “De l’indigence à l’exclusion, la desaffiliation”, in Face à l’exclusion, le modèle
francais, sous la direction de J. Donzelot, Esprit, Paris, 1992.
72
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996.
69
33
protezione rispetto all’esterno-ritorna così ad essere il confine ultimo con il
mondo stesso.”73
Oltre ad una mutazione di carattere fisico, come abbiamo detto in precedenza, il
terzo tipo di mutazione che riguarda chi è senza dimora è di carattere psichico. Per
adattarsi al sistema della strada, queste persone compiono delle modificazioni
sulla propria psiche in relazione all’ambiente urbano. Psiche e ambiente si
condizionano reciprocamente, quindi una mutazione dello spazio esterno provoca
una mutazione dello spazio interno, del sé.
La modificazione fisica è interconnessa a quella psico-culturale e “per quanto
riguarda l’alterazione allucinogena psicofisica dovuta alla deprivazione del sonno
vale lo stesso discorso. Il sonno è una necessità per tutti i primati. Chi vive per la
strada è costretto a modificare spesso drasticamente le proprie abitudini del sonno
con conseguenze a volto molto gravi.”74 La modificazione del sonno, tra i senza
dimora avviene per molte ragioni,e la più frequente è la paura di subire violenze.
Anche la mancanza di sonno, alla lunga, può provocare la morte.
Abbiamo visto che in strada è impossibile mantenere un buono stato di salute; le
principali malattie che si possono riscontrare tra le persone senza dimora sono:
-malattie dell’apparato respiratorio sia acute, sia croniche con punte elevatissime
nel periodo invernale;
-malattie psichiatriche, legate all’alcolismo e al disadattamento;
-stati carenziali quali dermatosi, ecchimosi sottocutanee, ecc. dovuti ad una
alimentazione scorretta;
-problemi alla dentatura che contribuiscono ad un deficit nutritivo;
-patologie alcol-correlate.75
Comunque, trattare il tema della salute, a proposito delle persone senza dimora,
può essere abbastanza difficile dato che i servizi istituzionali deputati alla cura
della salute, sono predisposti al soddisfacimento dei bisogni del cittadino
“normale”.76
Per cittadino “normale” intendiamo colui che nei ricoveri ospedalieri, dall’accesso
a queste strutture fino alla convalescenza, ha la continua assistenza dei familiari e
una casa dove possa avvenire il suo recupero. Inoltre, per usufruire del servizio
delle prestazioni previsto dal Servizio Sanitario Nazionale, occorre essere
appartenenti ad un dato territorio, è necessario possedere una precisa
documentazione cartacea ed essere fedeli ai vari appuntamenti previsti dal
servizio stesso. Coloro che non dispongono di questi standard, e le persone senza
dimora ne sono un buon esempio, non godono dei benefici della sanità pubblica.77
Ma, anche se gli utenti, poi, sono assistiti adeguatamente dai servizi sanitari, le
lunghe ore passate all’aperto, una alimentazione scorretta, l’impossibilità di
seguire le prescrizioni mediche, e non ultima, la mancanza di una casa, rendono
inutili gli sforzi effettuati da servizi stessi.
73
F. Bonadonna, Il nome del barbone, DeriveApprodi, Roma, 2001, pp.157-158.
Ibidem, p.165.
75
A. Pagliaccia, “ Le malattie dei poveri”, in AA. VV., Avevo fame, I Martedì, Bologna, 1985,
pp.15-23.
76
L. Gui (a cura di), L’utente che non c’è. Emarginazione grave, persone senza dimora e servizi
sociali, FrancoAngeli, Milano, 1995.
77
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998.
74
34
Paradossalmente, il corpo, nel quale sono presenti diverse malattie, è l’unica
risorsa che le persone senza dimora possiedono, è l’unico luogo nel quale cercare
rifugio, è l’unico rifugio alternativo all’eccesso di spazio della metropoli e di
visibilità dati dall’essere sotto lo sguardo di tutti.
“Non avendo che la pelle, l’io-pelle, essi possono nascondersi occultando ciò che
di ultimo e prezioso possiedono, dato che è negata loro ogni tipo di dimensione
privata. Oppure possono nascondersi esponendosi alla massima potenza, non
lavandosi. La sporcizia è solo il segno dell’avvenuta desocializzazione (…), è
bensì anche un modo per coprirsi con il proprio corpo e con tutto quel che può
accumulare (…). La sporcizia diventa una maschera, (…). Alcune persone si
nascondono sotto una coltre di coperte, anche d’estate, esponendosi così, velate,
allo sguardo dei passanti. (…) Quest’autorappresentazione comune a molti senza
fissa dimora, è funzionale a coprire la pelle. Un tentativo estremo e disperato di
limitare l’incedere del mondo esterno attraverso l’abito. (…) Una protezione tra sé
e il mondo”.78
3. QUALE POVERTA’
E se credete ora
Che tutto sia come prima
Perché avete votato ancora
La sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti
F. De Andrè, Canzone del Maggio.
Parlando di povertà, è necessario chiedersi che cosa si debba realmente intendere
con questo concetto.
78
F. Bonadonna, Il nome del barbone, DeriveApprodi, Roma, 2001, p.164.
35
“Il dibattito sociologico sviluppatosi nella seconda metà degli anni settanta
intorno alla nozione di povertà in ambito urbano ha ridefinito in profondità il
quadro analitico in cui tale concetto veniva ad iscriversi.”79
Le rappresentazioni del fenomeno, che si sono consolidate negli ultimi ottantanovanta anni, si sono arricchite di nuove e spesso contrastanti modelli teorici.
Seguendo percorsi di ricerca differenziati, diversi studiosi del fenomeno sono
giunti ad una ridefinizione della nozione, che tende ad evidenziare la discontinuità
e le rotture intervenute nelle situazioni di povertà urbana emerse negli ultimi anni
. Le nuove ricerche empiriche, in particolare quelle su base locale, contribuivano
peraltro ad introdurre nel dibattito nuovi elementi di riflessione e di critica ad un
approccio consolidato.80
In Italia, la definizione culturale e politica della povertà è andata rapidamente
mutando a partire dal secondo dopoguerra e, da un punto di vista storico, bisogna
aspettare la fine degli anni sessanta perché si possa ritrovare un nuovo interesse
per tale ambito di ricerca. Sarpellon descrive questo passaggio parlando di
“povertà ignorata” dell’immediato dopoguerra81, e di “povertà riscoperta” degli
anni ottanta. Nel corso degli anni cinquanta e sessanta, i così detti anni dello
sviluppo, del “miracolo economico”, del pieno impiego e dell’aumento del potere
d’acquisto, sembravano aver reso marginale il fenomeno povertà. Ovviamente
non tutti i problemi degli italiani erano stati risolti: due in particolare attrassero
l’attenzione delle forze politiche, economiche e sociali: la condizione operaia e il
Mezzogiorno.
“Disuguaglianza e sottosviluppo presero quindi il posto della povertà non solo nei
dibattiti dei partiti e dei sindacati, ma anche nell’allocazione delle risorse. La
povertà divenne un problema ignorato e quindi un non-problema. (…). Verso la
fine degli anni settanta la parola povertà apparteneva al linguaggio fuori moda e
con essa sembrava scomparso anche il problema”.82Nonostante il persistere di
forme di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, della ricchezza e delle
chanches di vita, si riteneva che le situazioni di povertà potessero essere
riassorbite dallo sviluppo economico e sociale del Paese.
Parallela e strettamente intrecciata allo sviluppo socio-economico, è l’espansione
del sistema di welfare state che si definisce come istanza riparatrice di tutte le
situazioni di bisogno. Ma le istituzioni dello stato sociale si sono rivelate
storicamente incapaci di affrontare la specificità del problema povertà, proprio
perché l’ideologia del welfare ne presupponeva il superamento attraverso
interventi automatici e indifferenziati, caratterizzati dalla generalizzazione dei
79
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.7.
80
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.7.
81
Nel 1953-1954,decisa dalla Camera dei deputati e svolta da una Commissione parlamentare
d’inchiesta presieduta da Ezio Vigorelli, attraverso sue delegazioni parlamentari, fu svolta una
Inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla. “ Essa intendeva valutare le condizioni
di povertà e di miseria in Italia nel dopoguerra e si è articolata in indagini tecniche e in monografie
pubblicate in 14 volumi di Atti. (…). Le indagini, che usano i termini di miseria e povertà come
intercambiabili, presentava valutazioni quantitative.” (F. Martinelli, “ Studi sulla povertà urbana
nelle ricerche sociali e nell’intervento sociale”, in Sociologia urbana e rurale n.35, 1991, pp.11-28.
82
G. Sarpellon, Dalla povertà nascosta alle nuove povertà e oltre, in P. Guidicini, G. Pieretti (a
cura di), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, p.301.
36
servizi e dalla omogeneizzazione dell’accesso ad essi83. La “teoria del rientro” e
“della soglia”84, che costituiscono le linee guida dell’agire del welfare,
definiscono al contempo sia una rappresentazione della povertà, sia un’area
dell’intervento sociale : scopo del welfare è l’uscita dei soggetti da un’area
marginale per re-includerli nell’area della centralità85.
“La circolarità tra la definizione della nozione di povertà che si viene a costruire
nel secondo dopoguerra e l’insieme delle pratiche messe in campo per intervenire
nella lotta alle situazioni di deprivazione viene ad interrompersi intorno alla fine
degli anni settanta, quando la povertà acquista una nuova visibilità come
fenomeno sociale e si impone nuovamente come social problem. Nuove ipotesi e
nuove metodologie di ricerca cominciano a diffondersi e ad incrinare un
approccio consolidato”86.
Nel 1977 Giovanni Sarpellon, su una rivista di sociologia militante “Promozione
sociale”, trattava della riscoperta della povertà; ad esso viene ad affiancarsi lo
studio teorico sulla povertà e le classi sociali di Antonio Carbonaro, Elena Stagni
che esplorava in una sua accurata ricerca il “sonno dei poveri” nel dormitorio
comunale di Bologna, Renato Cavallaro e Vincenzo Padiglione, legati ad una
scuola di servizio sociale romana (Eiss), pubblicavano saggi sulla marginalità e
l’emarginazione, in contatto con la scuola di Ferrarotti che esplorava le borgate e i
borghetti di Roma, Piero Braghin procedeva ad una accurata ricognizione dei
materiali della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria degli anni
cinquanta. Oltre a queste ricerche, interveniva ad allargare il dibattito
nell’opinione pubblica un “Sondaggio sulla povertà” del Censis, pubblicato nel
1979, il quale segnalava accanto alla persistenza di una povertà tradizionale,
anche l’emergere di una povertà legata alla deprivazione di nuovi consumi indotti
e di nuove povertà derivanti dalla scarsezza di relazioni sociali.87
“La riscoperta della povertà costituì di per sé una denuncia. Erano chiamati in
causa tutti gli artefici dello sviluppo italiano (…).Padronato e classe operaia,
partiti di governo e partiti di opposizione per trent’anni avevano ciascuno svolto il
proprio ruolo nella trasformazione dell’Italia in un paese a benessere diffuso,
senza tuttavia mai rendersi conto che accanto a quello del Mezzogiorno e oltre a
quello del proletariato esisteva anche il problema della povertà.(…). Quando
un’indagine molto accurata e ricca di documentazione contraddisse la comune
credenza della scomparsa della povertà, la prima reazione che si verificò ovunque
83
P. Guidicini, “Considerazioni su di una ipotesi di ricerca empirica”, in P. Guidicini, G. Pieretti (a
cura di), Tra marginalità e povertà. Uno studio sulle politiche di intervento pubblico a Ravenna,
FrancoAngeli, Milano, 1989, pp.9-11.
84
Ibidem, p.15.
85
“La teoria del rientro (…) che parte dall’ipotesi che ogni intervento deve portare ad un
sostanziale recupero (totale o anche solo parziale dei soggetti) è uno dei prodotti più significativi
della teoria della centralità. La teoria del rientro ha, in fondo, come sua prospettiva massima il
mantenimento di un sistema sociale equilibrato ed efficiente, nell’ipotesi che ogni condizione
marginale è un elemento disfunzionale al sistema. Per cui, il massimo del risultato è quello di
trasformare situazioni di marginalità inefficiente in condizioni di centralità efficiente”. Ibidem,
p.15.
86
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p. 11.
87
F. Martinelli, “Studi sulla povertà urbana nelle ricerche sociali e nell’intervento sociale”, in
Sociologia urbana e rurale n.35, 1991, pp.11-28.
37
fu il netto rifiuto della realtà svelata”88. Sarpellon fa riferimento, nella presente
citazione, al Rapporto sulle povertà in Italia coordinato da lui stesso nell’ambito
di una grande indagine promossa dalla Comunità economica europea. Il rapporto
in Italia (1978-1982) ebbe scarsa collaborazione degli esperti degli istituti
previdenziali ed assistenziali. Il metodo di studio e di analisi della dimensione
quantitativa della povertà è stato affrontato valutando la differenziazione di
consumi famigliari in diverse zone del paese. Il rapporto di Sarpellon individuava
una linea della povertà facendo riferimento al metodo già utilizzato in Italia nel
1975 da W. Beckerman89 e il dato di riferimento era stata l’indagine campionaria
sui consumi delle famiglie del 1978.
Si considerava povera la famiglia di due persone che ha una spesa media per
consumi per abitante: ne è risultata una linea della povertà P1; successivamente si
è calcolata una seconda linea di povertà in cui si è attribuito alla famiglia tipo di
due persone l’ammontare di spesa per consumi che nella LP1 era previsto per una
famiglia di tre persone e si è denominata LP2 (o linea di indigenza).
Sono state considerate in tutto tre aree di povertà: la prima con uso della sola LP1;
la seconda con uso della LP1 nel Mezzogiorno e LP2 nel Centro Nord, considerati
equivalenti; la terza con uso della sola LP2.
Il metodo consentiva di stabilire che le famiglie povere erano in Italia nel 1978
2.590.000, pari al 15% del totale delle famiglie italiane e diversamente che
nell’Inchiesta sulla miseria del 1953 non si affiancano all’indagine statistica
condotta con metodo campionario indagini sociologiche dirette, volte a fornire
una analisi qualitativa della povertà90.
Tale indagine privilegia nella misurazione, l’aspetto economico della povertà,
aspetto significativo ma che non esaurisce lo spettro e la complessità del
fenomeno; inoltre la definizione di soglie di povertà, come criterio selettivo per la
costruzione dell’area della povertà in generale e dell’area della povertà estrema in
particolare, si rivela un approccio arbitrario in quanto la soglia viene definita dal
ricercatore, legittima in relazione al proprio ambito di ricerca, ma priva di
fondamenti oggettivi. Fissare poi una linea della povertà in corrispondenza di una
determinata percentuale del reddito pro-capite o della spesa per consumi, anziché
di un’altra percentuale, risponde molto spesso ad una opzione di natura politica.
Lo spostamento, in alto o in basso, della soglia, anche di pochi punti percentuali,
può far variare in modo significativo il numero delle persone in condizione di
povertà, o di povertà estrema.91
3.1. Dalla povertà alle povertà estreme
Nello studio della povertà estrema un altro approccio si è venuto sviluppando
negli ultimi anni. Si tratta di una prospettiva in cui il ricercatore definisce la
88
G. Sarpellon, “Dalla povertà nascosta alle nuove povertà e oltre”, in P. Guidicini, G. Pieretti (a
cura di), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, pp.302-303.
89
Il metodo era basato su tre criteri generali: a. omogeneità del tenore di vita delle famiglie; b.
equivalenza tra tenore di vita medio e tenore di vita considerato minimo per famiglia tipo; c.
differenziazione tra tenore della famiglia tipo e quello delle famiglie di maggiore dimensione.
90
F. Martinelli, “Studi sulla povertà urbana nelle ricerche sociali e nell’intervento sociale” in
Sociologia urbana e rurale n. 35, 1991, pp.11-28
91
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999.
38
povertà estrema a partire dai “target group” a cui attribuisce tale condizione
(senza fissa dimora, ex detenuti, zingari, immigrati extracomunitari,…). Anche in
questo caso l’approccio è arbitrario in quanto se da un lato si definisce la povertà
estrema basandosi su “target group” specifici, dall’altro l’iscrizione di un “target
group” all’interno della povertà estrema è decisa e operata dal ricercatore
medesimo92. Attraverso questo approccio di tipo categoriale, è possibile , o
meglio, si vuole rendere possibile l’individuazione immediata e meccanica delle
persone che rientrano in un area problematica. In proposito possiamo osservare
due percorsi, in parte differenti, ma sostanzialmente convergenti nel definire la
povertà estrema in termini categoriali: da una parte alcune istituzioni del welfare
system definiscono a priori l’insieme delle categorie globalmente identificabili
nell’area della povertà estrema, dall’altra si definisce l’area della povertà estrema
in termini residuali: tutto ciò che non rientra nell’area della povertà conosciuta e
che non corrisponde all’immagine della povertà consolidata e diffusa, rientra nella
categoria povertà estrema93. E quale è poi l’area della povertà conosciuta?
Sarpellon sostiene che, nell’impossibilità di negare e di dimenticare la povertà,
cosa che si pensava di fare grazie all’intervento del welfare system, la povertà fu
trasformata e accanto al sostantivo si aggiunse l’aggettivo “nuova”; in
combinazione con questo aggettivo la parola povertà assunse un generalissimo
significato metaforico che le permetteva di connotare ogni sorta di problema che
per la prima volta si presentava sulla scena o che , essendo problema antico, si
presentava con nuove particolarità. Fu così che nuova povertà fu chiamata la
tossicodipendenza come la condizione degli handicappati, la solitudine degli
anziani come l’emarginazione degli immigrati, la situazione dei giovani in cerca
di lavoro come quella degli espulsi dagli ospedali psichiatrici. Ogni espressione di
disagio sociale divenne nuova povertà. In questo modo la povertà diviene tutto e
niente e non si capisce più che cosa sia94.
La prima cosa quindi che diviene necessaria è chiarire di quale povertà si parla.
“Quale valenza universale attribuire, oggi, alla nozione di povertà: ecco il primo
interrogativo al quale tentare di dare risposta, in presenza di una realtà che sempre
più vede differenziarsi la povertà nei paesi ricchi dalla povertà nei paesi poveri ed
in presenza di una crescita delle povertà economiche nelle stesse società
occidentali. (…). Per questo è necessario tornare alla distinzione tra povertà
assoluta e povertà relativa da un lato e tra povertà materiali (spesso chiamate, più
o meno propriamente, vecchie povertà) e povertà simbolico-esistenziali (chiamate,
più o meno propriamente, nuove povertà).”95
Per quanto riguarda la distinzione tra povertà assoluta e povertà relativa96, molti
tra coloro che si occupano della sociologia della povertà, la ritengono ormai
92
Ibidem, pp.20-21.
Ibidem, p. 21.
94
G. Sarpellon, “Dalla povertà nascosta alle nuove povertà e oltre”, in P. Guidicini, G. Pieretti (a
cura di), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, pp.300-308.
95
G. Pieretti, “Dalla povertà ai poveri”, in P. Guidicini, G. Pieretti (a cura di), Le residualità come
valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, p.291.
96
Achille Ardigò nel 1988 mette a punto una sorta di quadrante della povertà. Divide le povertà in:
- materiali o economiche: assolute o relative;
- simboliche-esistenziali: assolute o relative.
93
39
obsoleta,cioè valida soltanto da un punto di vista storico, dando per scontato che,
in società moderne, la povertà non possa non essere povertà relativa.
Per povertà assoluta s’intende la difficoltà o l’impossibilità di riprodurre la vita
biologica; invece parlare di povertà relativa significa sottolineare anzitutto la
relatività della privazione, la povertà non è più una nozione autonoma, ma assume
valenze residuali e comparative: la povertà sembra tale rispetto a, per rapporto a.
Il rapporto viene fatto con la media dei redditi individuali o familiari. L’idea di
povertà relativa quindi è un’idea che varia naturalmente da contesto a contesto, da
luogo a luogo97. La Commissione di indagine sulla povertà valuta quest’ultima
come fenomeno relativo, “(…) cioè la povertà è sempre commisurabile sulla
inadeguata capacità di soddisfazione di un complesso di bisogni ritenuti
essenziali in un dato periodo storico e in un dato paese. La povertà è pertanto un
fenomeno cumulativo e multidimensionale”98.
La povertà quindi sia dal punto di vista “economico”, sia dal punto di vista
psicologico-percettivo (con segni di debolezza, dipendenza, rassegnazione), viene
considerata dalle scienze sociali come uno status sociale99. Ed è proprio questo il
punto che Pieretti mette in discussione.100 Poi ancora “parlare di povertà relativa
significa anzitutto sottolineare la relatività della privazione, ma questo ha un senso
sociologico finchè esistono classi o almeno gruppi sociali relativamente
omogenei, finchè esistono quindi rappresentatività sociali e finchè la povertà è
sicuramente una idea, e una pratica di vita, squisitamente macrosociologica: nel
momento in cui il sistema sociale è sempre meno caratterizzato da distinzioni
macro, di classe o di ceto, il ritenere relativa la povertà entra in discussione”101.
La nozione di povertà implicita in molti studi e ricerche è ascrivibile al modello
teorico parsonsiano102, cioè quello del “sociale dell’equilibrio e della
convergenza”103. “Si tratta appunto del considerare la povertà uno status
economico, sociale e/o psicologico, qualcosa comunque di fotografabile e
descrivibile; se ci si volesse riferire allo schema parsonsiano della gerarchia
cibernetica, povero è colui che, dal basso all’alto della stessa gerarchia dei
97
A. K. Sen, “Le ragioni del persistere della povertà nei paesi ricchi”, in P. Guidicini, G. Pieretti (a
cura di), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, pp.309-319.
98
Commissione di indagine sulla povertà, La povertà in Italia, Presidenza del Consiglio dei
Ministri, 1985.
99
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996.
100
“Il punto, o meglio il problema teorico è che tuttavia la povertà venga tuttora considerata dalla
sociologia come, appunto, uno status sociale, proprio nel momento in cui (in realtà da ben oltre un
ventennio) la sociologia stessa si interroga sui concetti, per così dire, unitari come quello di status
o condizione sociale, e sulla validità del modello teorico da cui concetti analoghi sono derivati.” in
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996, p.35.
101
G. Pieretti, “Dalla povertà ai poveri: quali implicazioni di politica sociale”, in P. Guidicini, G.
Pieretti, (a cura di ), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, p.292.
102
“Pensare la povertà attraverso tale modello significa sì pensare a dimensioni in cui l’ambito
economico è prioritario, ma in cui è inoltre presente un meccanismo di interdipendenza e di
interscambio per cui, a povertà economica, può fare riscontro povertà a livello di istruzione,
povertà nell’accesso ai servizi, ecc.” in F. Martinelli, “Nouve relazioni sociali nuovi bisogni e stato
di servizi”, in P. Guidicini, F. Martinelli, G. Pieretti (a cura di), Città e società urbana in
trasformazione, FrancoAngeli, Milano, 1985.
La povertà è considerata quindi una nozione e una condizione di vita unitaria che attraversa i
sottosistemi in cui si dipana la vita di un individuo e di un gruppo sociale: è considerata un
fenomeno cumulativo e multidimensionale.
103
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996, p. 35.
40
sottosistemi, o viceversa dall’alto al basso della stessa: è fatto, vive, si comporta,
ha atteggiamenti e credenze da povero”104.
Il problema sta sul fatto che, se uno schema di stampo parsonsiano tipico del
sociale della convergenza e dell’equilibrio poteva funzionare per descrivere una
società a “differenziazione stratificata”105, esso potrebbe risultare, soprattutto per
quanto riguarda lo studio della povertà, non esaustivo e non più adeguato per
descrivere la realtà di un sociale a “differenziazione funzionale”.
Secondo Pieretti, la teoria dell’evoluzione sociale di N. Luhmann, potrebbe essere
un punto di riferimento attraverso il quale si potrebbe tentare di sviluppare un
nuovo ragionamento sulle povertà.
“Se si considerano le moderne società, cosiddette complesse, quelle nelle quali ci
troviamo a vivere, come società a differenziazione funzionale, (…) si potrebbe
sostenere che teoria e pratica della povertà pertengano sottosistemi diversi (…). Si
potrebbe forse parlare di modi della povertà, vale a dire di stati o momenti o
condizioni afferenti sottosistemi diversi (non interdipendenti né interpenetranti)
all’interno dei quali (…) individui-soggetti e/o gruppi sociali vengono a trovarsi
poveri.
Uno schema analitico di questo tipo, all’apparenza, semplifica e complica al
contempo il lavoro di definizione e di intervento nell’ambito della povertà; lo
semplifica perché (…) potrebbe far pensare che i poveri, in quanto tali, come
categoria ben definita ed inserita in un quadro di stratificazione sociale non
esisterebbero, a rigore, più (…). La complicazione riguarda invece elementi di
carattere teorico, pratico-esperenziale, percettivo e, ultimo ma non in ordine di
importanza, etico”106 .
Infatti la tendenziale “inclusione di tutti in tutti i sistemi di funzione” 107, comporta
non soltanto un innalzamento delle aspettative, quanto soprattutto una
generalizzazione delle aspettative stesse. Ciò significa che vengono messi in
discussione i criteri di inclusione-esclusione, l’accesso di una persona ad un
determinato sistema funzionale in una società a differenziazione stratificata. “Ciò
perché, per il processo di inclusione, aumenta l’autonomia dei soggetti: essi non
appartengono più ad un solo sottosistema, con il quale è sempre più difficile
identificarsi, ma si riferiscono a più sottosistemi funzionalmente differenziati” 108.
In una società a differenziazione funzionale o complessa 109, quindi, la povertà può
difficilmente essere analizzata con linee, soglie, margini. “Oggi la povertà, a
livello aggregato, non appare più una condizione unitaria e non più definibile in
104
Ibidem, p. 36.
N. Luhmann, Sistemi sociali, Il Mulino, Bologna, 1990.
106
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996, pp.38-39.
107
N. Luhmann, Struttura della società e semantica, Laterza, Bari-Roma, 1984, cap. I.
108
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996, p. 54.
109
“La complessità di un’unità indica il fatto che non tutti gli elementi di tale unità possono essere
contemporaneamente in relazione tra loro. Complessità, quindi, significa che, per attualizzare le
relazioni tra gli elementi, è necessaria una selezione. (…) La complessità può essere osservata in
un sistema o nel suo ambiente, o anche nel mondo. (…) Il numero di relazioni astrattamente
possibili tra gli elementi di un sistema aumenta in misura esponenziale rispetto all’aumento del
numero degli elementi stessi (…). Complessità è il fatto che ci sono sempre più possibilità di
quante possano essere attualizzate come comunicazione nei sistemi sociali e come pensiero nei
sistemi psichici.” in C. Baraldi, G. Corsi, E. Esposito, Luhmann in glossario, FrancoAngeli,
Milano, 1996, p. 65
105
41
termini di fenomeno cumulativo e multidimensionale. Oggi, a rigore, non si
potrebbe più parlare nemmeno di povertà al singolare ma, di plurali e differenziate
forme di povertà intorno alle quali la città si ridisegna”110.
La povertà, in questo modo, non è più leggibile come un fenomeno unitario e
macro. Ciò comporta una nuova attenzione al livello micro sul piano
metodologico, indispensabile per una lettura del fenomeno ed una ridefinizione
della nozione stessa di povertà.
“Ad una lettura che privilegiava i fatti macro-sociali ritenuti dominanti nella
produzione delle situazione di povertà (pensiamo, ad esempio, ai fenomeni
correlati alla rapida industrializzazione del secondo dopoguerra o alle rapide
migrazioni dal Sud al Nord del Paese, ai processi di urbanizzazione e alla
conseguente formazione delle periferie urbane) si viene a sostituire un approccio
attento ad aspetti microcomportamentali, al tenore di vita dell’individuo e alla rete
di relazioni in cui questo si trova inserito”111.
N. Negri ci dice che la fenomenologia specifica della povertà comporta varie
implicazioni anche sul piano dell’elaborazione dei modelli e della definizione dei
metodi per l’analisi della povertà. In primo luogo, la piena comprensione del
senso di questa fenomenologia e del conseguente significato delle politiche di
lotta contro la povertà, implica la definizione di una cornice teorica che faccia
costante riferimento ai concetti di formazione sociale, cittadinanza, inclusione ed
esclusione sociale. L’analisi dei vincoli, privilegiata dai modelli micro-economici
standard del comportamento non è sufficiente per dar conto dei complessi aspetti
che caratterizzano le situazioni di estremo disagio: paradossalmente, dunque,
proprio quei casi in cui i problemi sembrano più dipendere dalla mancanza di
risorse e opportunità. Si può anzi ipotizzare che le sconfitte in merito alla piena
comprensione della povertà, le zone d’ombra nelle ricerche su tale problema e
nella interpretazione dei risultati raccolti, debbano essere imputate alla persistenza
di un approccio esasperatamente economico di analisi, che riduce la questione dei
poveri alla questione – pur vera- della loro scarsa disponibilità di beni112.
Alla luce dell’esigenza di implementazione del modello micro-economico
standard di comportamento, il riferimento all’individuo e alle sue “capacità” di
trasformare i beni in possibilità di vita, costituisce, in questo dibattito, un punto di
svolta importante nell’ambito della ricerca sulla povertà e della riflessione sulle
politiche di intervento.
A.K.Sen sottolinea, infatti, che per spiegare la povertà non basta considerare le
privazioni di alcune risorse fondamentali: i primary goods, ovvero i beni
“principali”. La capacità di una persona a convertire i primary goods in varie cose
di cui ha bisogno per non essere povero, dipende da circostanze che non sono
quindi pienamente caratterizzate dai primary goods medesimi: “per affrontare il
tema della persistenza della povertà nei paesi ricchi è necessario partire da un
problema basilare concernente la natura della povertà. L’approccio tradizionale
alla definizione della povertà è unicamente in termini di reddito: al di sotto di un
certo livello di reddito si è poveri, mentre, al di sopra di questo, si è al di là di
110
G. Pieretti, “Povertà estreme e povertà silenziose: il ruolo dei processi urbani”, in Sociologia
urbana e rurale n. 35, 1991, pp.177-191.
111
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p. 13.
112
N. Negri, “Storie di povertà e di incapacità”, in Sociologia urbana e rurale n. 35, 1991, pp. 4968.
42
questa condizione. (…). Questo approccio da molti punti di vista non aiuta. (…):
una persona può essere molto ricca in Etiopia, ed assai povera, con un reddito
equivalente, in un paese occidentale.”113 Le persone, dice Sen, hanno il desiderio
di raggiungere certe posizioni, di avere un tipo di vita che potrebbe essere
considerato ragionevole; ma anche lo standard di vita socialmente accettabile è in
relazione al contesto a cui ci si riferisce. Quindi piuttosto che occuparsi di reddito
e di beni Sen sostiene che bisognerebbe concentrarsi sul tipo di vita, “su ciò che
Smith stesso definisce functioning”.114 Questi sono ciò che un individuo è o fa e
concorrono in modo decisivo a determinare la qualità della sua vita: possono
essere rappresentati da un certo livello di istruzione, da una adeguata
alimentazione, una determinata condizione abitativa. L’apparato di beni e di
redditi necessari per realizzare questi functionings variano da società a società e
dipendono da quello che è uno standard di vita accettabile in quella specifica
società. Oltre ai functionings, Sen ci dice che è indispensabile considerare le
capabilities, cioè le capacità di azione del soggetto, cioè l’abilità del soggetto a
realizzare le diverse condizioni di vita. “ L’applicazione di questo approccio ci
permette di evidenziare che il possesso di un determinato paniere di beni non
assicura meccanicamente e automaticamente una condizione di vita socialmente
accettata: il problema si sposta sulla abilità e sulla capacità del soggetto di
tradurre il paniere di beni di cui dispone in funzionamenti, sulla conversione dei
beni in possibilità. (…). Le capabilities atte a realizzare certi human functionings
non costituiscono un dato acquisito e sempre presente nel soggetto: in seguito a
determinati eventi, all’interno di un percorso biografico o di fronte a certe
situazioni, queste possono scomparire. L’ipotesi che, sulla base del capability
approach di Sen, qui si vuole avanzare concerne la possibilità di perdere le
capacità in seguito ad una serie di rotture che intervengono in più punti della
biografia di un soggetto”115. La perdita delle capacità permette inoltre di spiegare
gli scostamenti dell’azione dal classico schema utilitarista mezzi/fini; in questa
ipotesi di lettura, infatti, la povertà estrema è l’esito della perdita delle capacità,
ma a sua volta, tale perdita-assenza è accentuata dalla condizione di povertà
estrema medesima. La condizione di vita caratterizzata dalla povertà estrema
costituisce quindi un doppio svantaggio: da una parte, nel possesso delle risorse,
dall’altra nel convertire quest’ultime in functinings. “Vi è pertanto una
dimensione sociale che concerne la diversa e ineguale distribuzione delle risorse e
dei beni all’interno di una popolazione e una dimensione interna relativa alle
variazioni interpersonali nella conversione delle merci in capacità”116.
Nonostante si sia prodotta una differenziazione all’interno della realtà della
povertà, le forme tradizionali persistono e, probabilmente, si diffondono in
relazione alle maggiori difficoltà, ad esempio, che si incontrano nell’accesso al
mercato del lavoro117, “ma ciò che risulta nuovo è la presenza, all’interno o ai
margini dei diversi circuiti della sicurezza sociale di persone e famiglie che,
113
A. K. Sen, “Le ragioni del persistere della povertà nei paesi ricchi”, in P. Guidicini, G. Pieretti
(a cura di), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano,1993, p. 309.
114
Ibidem, p. 310.
115
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
pp. 33-34.
116
Ibidem, p. 35.
117
Commissione d’Indagine sulla Povertà e l’Emarginazione, Secondo rapporto sulla povertà in
Italia, FrancoAngeli, Milano, 1992, pp. 48-49.
43
inserite fino ad un determinato momento nella vita sociale e professionale,
progressivamente si trovano a confrontarsi con situazioni di precarietà, di
disoccupazione e di vulnerabilità”118.
Analizzata quindi in termini generali, la povertà
sembrerebbe esigere
concettualizzazioni ed interventi specifici rivolti a particolari fasce di cittadini
che, se non possono essere definiti “poveri” tout court, sperimentano, almeno per
dei tratti della loro esistenza condizioni di povertà sia di tipo quantitativo e quindi
economica, sia di tipo qualitativo e quindi di natura esistenziale; condizioni di
povertà profonde e degradanti.
Da un punto di vista strettamente metodologico, poiché è sempre più difficile
stabilire paradigmi generali univoci di definizione della povertà, allora, la
categorizzazione dei poveri, quale strumento di comprensione, è posta in crisi. In
questo modo salta l’apparato strumentale dell’ideologia forte del welfare state
costituito dalle categorie a rappresentanza consolidata e garantita119. Secondo tale
ideologia, la povertà è un fenomeno esclusivamente macro, determinato dalla
stratificazione sociale e che, proprio per questo motivo, riguarda solo particolari
strati sociali. Le categorie, proposte come soluzione al problema dell’intervento,
adeguate (forse) ad una società a differenziazione stratificata oggi possono
risultare addirittura di ostacolo all’intervento. “Quindi fare riferimento alle
categorie, significa operare inadeguatamente rispetto alla complessità, ma anche
in modo discutibile rispetto ai diritti di cittadinanza. Infatti le persone che non
appartengono alle categorie, se in stato di bisogno, sono ancora più povere: non
riconosciute nel loro bisogno dall’ente erogatore di sevizi, non possono
beneficiare di alcuno intervento”120.
A soluzione di ciò non basta solo un discorso di abbassamento di soglia, di
accesso o altro, ma è necessario riflettere di nuovo intorno al concetto di
cittadinanza, di comunità e di uguaglianza stessa121.
“Oggi pertanto, non è più possibile parlare di povertà al singolare, ma si deve
parlare di plurali e differenziate forme di povertà, che spesso si calano all’interno
di contesti urbani sempre più indifferenziati e di difficile lettura”122.
Proprio perché non è più possibile parlare di povertà al singolare, ci si può
legittimamente chiedere se ha ancora una dimensione universalistica la nozione di
povertà. E’ necessario quindi ritornare alle nozioni di povertà assoluta e
relativa123. Se si considerano i paesi del Terzo o del Quarto mondo, è
relativamente semplice trovare una dimensione universalistica: in questi paesi
sussistono problemi di nutrimento, di mancato raggiungimento del fabbisogno
calorico elementare124. In questo caso è di povertà assoluta che si parla e finchè si
parla di povertà assoluta, possiamo dire che nella nozione di povertà c’è una
dimensione universalistica.
118
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p. 13.
119
P. Guidicini, G. Pieretti (a cura di), I volti della povertà urbana, FrancoAngeli, Milano, 1992
(2° ed.).
120
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996, pp. 66-67.
121
Per quanto riguarda il concetto di uguaglianza, ne riparleremo in maniera più approfondita nei
prossimi paragrafi.
122
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996, p. 67.
123
Ibidem
124
A. K. Sen, “Le ragioni del persistere della povertà nei paesi ricchi”, in P. Guidicini, G. Pieretti
(a cura di), Le residualità come valore, FrancoAngrli, Milano, 1993. pp.309-319.
44
Parlare di povertà relativa, invece significa anzitutto sottolineare la relatività della
privazione, ma questo ha un senso sociologico finchè esistono classi, finchè
quindi esistono rappresentatività sociali. Ma nel momento in cui il sistema sociale
diventa sempre meno caratterizzato da distinzioni macro, di classe o di ceto, il
ritenere relativa la povertà entra in discussione125. Considerare poi la povertà come
povertà relativa rinvia inevitabilmente alla società del welfare state che, in quanto
tale, appare oggi superato.126 Pieretti, ci dice infatti che il welfare state è uno
strumento equilibratore ed inclusivo connesso ad una società a differenziazione
stratificata; strumento che entra in crisi nel momento in cui la forma prevalente
della differenziazione sociale è la differenziazione funzionale della società.127 “In
una società differenziata funzionalmente, le categorie, su cui l’agire del welfare si
fonda, non rappresentano più gli individui, la cui realtà non è più semplificabile
tramite appartenenze generiche a gruppi, ma esige di essere capita in termini
articolati, contestualizzati e soprattutto non rinvianti al <tipo medio>”128.
L’equazione individuo = gruppo che aveva un senso pieno in una società a
differenziazione stratificata perde senso in una società a differenziazione
funzionale. “La povertà a cui ci si deve riferire è quindi la povertà assoluta129,
anche perché riguarda l’individuale e non il sistema sociale”130. Infatti nelle nostre
società non è più possibile parlare di povertà come nozione sociologica macro, ma
di poveri, “cioè di individui che, per qualsiasi motivo che di volta in volta e caso
per caso andrà analizzato, non sono dentro al flusso della nostra società”131.
Ritornando alla specificità del fenomeno “povertà urbana estrema”, parlare di
povertà estreme, non significa considerare il gradino ultimo e più deprivato delle
forme tradizionali di povertà, vuol dire che sono le forme di povertà più
disperate, tendenzialmente quelle meno reversibili con interventi di tipo
tradizionale; esse fanno parte dell’orizzonte della “desaffiliation”132 e richiedono
specifiche politiche di intervento. La povertà urbana estrema riguarda una
sequenza di rotture biografiche (microfratture)133 che interessano sia la
personalità, sia il tessuto sociale. La “decomposizione e abbandono del sé”, cioè il
carattere distintivo della povertà urbana estrema, è connessa con il progressivo
ritiro che l’individuo porta a termine nei confronti del mondo esterno, della
propria famiglia, degli amici.
125
G. Pieretti, “Dalla povertà ai poveri: quali implicazioni di politica sociale” in P. Guidicini, G.
Pieretti (a cura di), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, p.291-299.
126
Ibidem
127
N. Luhmann, Potere e codice politico, Feltrinelli, Milano, 1982.
128
G. Pieretti, “Dalla povertà ai poveri: quali implicazioni di politica sociale”, in P. Guidicini, G.
Pieretti (a cura di), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, p.293.
129
A. K. Sen dice in proposito: “in ultima analisi la povertà deve essere considerata primariamente
un concetto assoluto, sebbene la specificazione dei livelli assoluti debba essere fatta in modo del
tutto differente che in passato. (…). La deprivazione assoluta in termini delle capacità di una
persona è in relazione con la deprivazione relativa in termini di beni, redditi e risorse” in A. K.
Sen, Risorse, valori e sviluppo, Bollati-Boringhieri, Torino, 1992.
130
G. Pieretti, “Dalla povertà ai poveri: quali implicazioni di politica sociale” in P. Guidicini, G.
Pieretti (a cura di), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, p. 293.
131
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996, pp. 89-90.
132
R. Castel, “De l’indigence à l’exclusion, la désaffiliation”, in Face à l’exclusion, le modale
francais, suos la direction de J. Donzelot, Ed. Esprit, Paris.
133
Il concetto di microfratture evidenzia come il processo di isolamento, il quale guida il soggetto
attraverso condizioni di progressiva povertà estrema, si produce secondo micro-variazioni che
difficilmente vengono percepite sia dal soggetto che dall’esterno.
45
I soggetti in condizione di povertà urbana estrema sono sempre più lontani dai
percorsi tradizionali di inserimento sociale distaccandosi progressivamente dalle
istituzioni e dal welfare system. Inoltre non vi sono servizi disponibili per coloro
che hanno abbandonato ogni relazionalità. Oltre tutto chi è dentro all’ “area del
non ritorno” non chiede servizi, non chiede più alcun aiuto a nessuno.
Le povertà urbane estreme quindi non sono uno stato quanto piuttosto un
processo. “Un processo di rotture biografiche molteplici, che ha un inizio e una
fine, il cui presupposto iniziale, tuttavia, è la mancanza della società dentro gli
individui (E. Durkheim): questo è uno degli elementi focali delle povertà
estreme”134. Altro tratto specifico è costituito dalla sua diffusione: “non vi sono
gruppi sociali, fasce d’età, professioni, situazioni familiari, livelli di
scolarizzazione, ecc. garantiti sempre e comunque dal rischio dell’impoverimento
estremo”135; ed infine, ad una sostanziale omogeneità dei percorsi di
impoverimento e nelle situazioni di vita si sta sostituendo una eterogeneità
massima136.
3.2.Dalla povertà ai poveri
Vita/non vita.
Umile distinzione
Assoluta, però.
L’unica distinzione davvero creativa.
G. Piazzi, Il Principe di Casador.
Nelle pagine precedenti abbiamo analizzato, evidenziandone la disomogeneità, le
varie definizioni di povertà che di volta in volta i vari studiosi hanno elaborato,
fino a concludere che, per la definizione della povertà, in quanto fenomeno
sociale, non si può prescindere dal contesto in cui è inserita. Essa infatti può
trovare una propria definizione solo nella considerazione della forma di
differenziazione sociale nella quale emerge. Se assumiamo la prevalenza nel
nostro sociale della forma funzionale della differenziazione, allora oggi “non è più
possibile, nel nostro sociale, collocare una persona all’interno di un determinato
sottosistema”137. Infatti, se consideriamo le moderne società cosiddette
“complesse”138, nelle quali ci troviamo a vivere, assistiamo ad una progressiva
“inclusione di tutti in tutti i sistemi di funzione”139. Ciò significa che vengono
messi in discussione “i criteri di inclusione – esclusione che condizionano, in una
134
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996, p. 25.
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p. 25.
136
Ibidem.
137
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996, p. 53.
138
N. Luhmann, R. De Giorgi, Teoria della società, FrancoAngeli, Milano, 1992.
139
N. Luhmann, Struttura della società e semantica, Laterza, Bari-Roma, 1984, cap. I.
135
46
società a differenziazione stratificata, l’accesso di una persona ad un determinato
sistema funzionale”140. Ciò perché, per il processo di inclusione, aumenta
l’autonomia dei soggetti: essi non appartengono più ad un solo sottosistema, con il
quale è sempre più difficile identificarsi, ma si riferiscono a più sottosistemi
funzionalmente differenziati. Il paradigma evolutivo luhmanniano, nel momento
in cui il modello parsonsiano utilizzato fino ad oggi più o meno consapevolmente,
negli studi sulla povertà, appare in crisi, risulta quindi utile per capire la
trasformazione del fenomeno della povertà nel passaggio da una società a
differenza stratificata ad una società a differenziazione funzionale; ma, la teoria
luhmaniana, applicata all’ambito della povertà, nonostante consenta di compiere
molti passi in avanti sul piano analitico, nonché sul piano dell’impostazione delle
policies, non permette forse di riscontrare una idea generale della povertà.141 E’
difficile, oggi, trovare un elemento unificante della povertà: “esso, a ben guardare,
difficilmente può discostarsi dall’ambito dell’etica (…). E’ solo con un
irrobustimento di carattere etico che la teoria luhmanniana dell’evoluzione sociale
può risultare praticamente vera, proprio in una società differenziata
funzionalmente”142. Il rinvio al modello di G. Piazzi, paradigma vita/morte143,
diviene qui un valore primo e imprescindibile che permea ogni altra valutazione,
un passaggio interpretativo essenziale dentro ad una realtà in rapido mutamento.
“L’essenzialità di questo paradigma scarnifica e riduce all’osso il concetto di
povertà ripulendolo e liberandolo da quelle sovrastrutture definitorie che rischiano
di confonderci le idee”144.
Piazzi riconosce il paradigma luhmanniano nel quale ad un sistema sociale inteso
come un “tutto” composto di “parti”, in cui ogni individuo è membro della
comunità ed è portatore di norme e valori condivisi, si va tendenzialmente
sostituendo una società caratterizzata da un crescente grado di astrazione di quelle
rappresentazioni sociali. Ad una “appartenenza” di tipo “socio–culturale”, in cui il
livello psichico e sociale si identificano, si sostituisce quindi quella che Piazzi
chiama “appartenenza logica”. Ovviamente, così come la differenziazione
funzionale è prevalente, ma non esclusiva nel sociale attuale, così pure il
passaggio dal tipo “socio- culturale” al tipo “logico” di appartenenza va inteso
nella sua dinamicità: non è né lineare né scontato: non c’è un momento definito e
ben delimitato nel tempo nel quale si assista all’annullamento della “individualità
razionale”. In particolare, Piazzi, mette in evidenza che, nonostante la vita sia un
sapere, un “Tutto-idea”, “condizione specifica di globalità, armonia ed
equilibrio”145, la società, qualsiasi tipo di società, nel corso della storia, chiede alla
vita di non essere se stessa, di non funzionare completamente come intero. “La
condizione umana nasce lacerata”146; l’uomo è destinato a soffrire perché, da
sempre, “l’uomo è stato destinato ad avere una mente trapiantata dall’esterno” 147.
140
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996, p. 54.
Ibidem, p. 56.
142
Ibidem, p. 56.
143
Si veda G. Piazzi, Teoria dell’azione e complessità, FrancoAngeli, Milano, 1984; G. Piazzi, La
ragazza e il direttore, FrancoAngeli, Milano, 1995.
144
P. Guidicini, “Presentazione”, in G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli,
Milano, 1996, p. 12.
145
G. Piazzi, La ragazza e il direttore, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 342.
146
G. Piazzi, Il principe di Casador, Quattroventi, Urbino, 2000, p. 279.
147
G. Piazzi, La ragazza e il direttore, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 318.
141
47
Il sé mentale è opposto al sé bio-psichico; quest’ultimo rappresenta il “modo del
tutto particolare ed isolato con cui ciascuno di noi si distingue nei confronti di ciò
che precede il formarsi stesso della vita, ossia nei confronti del pre-vitale e prebiologico”148; mentre il sé mentale “nasce e si sviluppa soltanto in una
relazionalità con gli altri che è anche, e necessariamente, differenza dagli stessi”1
49
. Più la società è di tipo consistente, più essa sarà in grado di assicurare la
solidarietà fra bios e logos. “L’Errore sarà meno palese, i danni minori e minore
sarà la sofferenza. Almeno quella conscia”150; Invece, più il sociale151 è allo stato
puro, più verrà a mancare questa solidarietà. “L’Errore sarà sempre più palese, i
danni sembreranno maggiori e la sofferenza sarà certamente conscia”152.
Tornando alla differenza tra “appartenenza socio-culturale” e “appartenenza
logica”, il presupposto dell’ “appartenenza socio–culturale” è la relazione di
appartenenza che lega le persone ad un determinato contesto socio – culturale; le
persone si identificano in quel contesto, sia esso una razza, una cultura, una
classe. Per capire cosa s’intende per “appartenenza socio–culturale” è necessario
“richiamare l’immagine della società semplice, ritornare cioè alla situazione in cui
i segmenti sono ancora chiusi”153. Ritornare all’immagine di una società di tipo
“consistente”, capace di dare imprinting e di istruire ogni singolo corpo cervello154: la Comunità. “Il fatto è che, fino ad un certo punto, la singola materia
che vive e la comunità non sono affatto mondi estranei fra loro. Appartengono
allo stesso codice evolutivo. Alla stessa linea strategica. Entrambe sono incluse
nell’ordine della materia e della qualità. In ognuna di loro c’è lo spessore di una
memoria storico-evolutiva”155. Tutto questo però finisce; infatti, con l’emergere
della differenziazione funzionale, quell’insieme di rappresentazioni sociali, fino
allora fortemente condiviso, diviene astratto. “Le pareti diventano permeabili ed i
segmenti si aprono”156. La singola materia che vive continuerà comunque ad
essere educata da fuori. “Ma adesso è una violenza”157.
Vengono quindi a mancare i presupposti strutturali quali l’interfacciamento
univoco, inequivocabile, tra sistema specifico e ambiente specifico. “D’ora in poi
non c’è più compatibilità. In un senso, c’è la materia che vive e che adesso vuole
essere in sé e per sé. In senso opposto e a partire da una Comunità conservatrice,
ci sono e ci saranno le varie forme di ciò che vuole ancora trascendere la vita.” 1
58
Causa e scopo della comunità era riprodurre un rapporto organico fra sé e la
singola materia che vive. “Poi il declino (…). Interviene una nuova strategia
evolutiva. Economia mercantile. Valore di scambio. Capitale. La quantità. (…).
148
G. Piazzi, “Salute e malattia nel quadro della differenziazione funzionale della società: aspetti
etici”, in Sociologia urbana e rurale, n. 29, 1989, p. 23
149
Ibidem, p. 22.
150
G. Piazzi, La ragazza e il direttore, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 320.
151
“Il Sociale è generalizzazione. E’ superamento incessante di qualsiasi forma di identità,
particolarità, localismo, confine qualitativo. E’ negazione della specificità.”, in G. Piazzi, La
ragazza e il direttore, p. 95.
152
Ibidem, p. 320.
153
M. Bosi, Le incerte povertà, FrancoAngeli, Milano, 1992, p. 81.
154
“La società consistente è una società che penetra dentro”, in G. Piazzi, La ragazza e il direttore,
FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 191
155
G. Piazzi, Il principe di Casador, Quattroventi, Urbino, 2000, pp. 286-287.
156
M. Bosi, Le incerte povertà, FrancoAngeli, Milano, 1992, p. 81.
157
G. Piazzi, Il principe di Casador, Quattroventi, Urbino, 2000, p. 287.
158
G. Piazzi, Il Principe di Casador, Quattroventi, Urbino, 2000, p. 288.
48
Per il Capitale sia il lavoro sia la vita sono ambiente umano da bonificare”159 e il
modo con cui lo fa è questo: “rendere astratti sia il lavoro sia la vita. Cioè rendere
entrambi una funzione del plusvalore di quantità”160.Ma la singola vita non ci sta,
non vuole essere un ambiente da bonificare, “adesso, la singola vita vuole essere
una funzione di sé. In funzione esclusiva di sé, dell’individuale. Sempre meno alla
dipendenza di un qualche cosa che sta fuori di lei, e che non è materia che vive.
Che è il Sociale”161. Nell’ “appartenenza logica” il livello psichico e il livello
sociale sono distinti: da una parte le persone che rientrano nella categoria dello
psichico; dall’altra le istituzioni e i gruppi che appartengono alla categoria del
sociale; livelli che non sono più “interpenetranti”, in quanto un vuoto irriducibile
li separa. Se il livello psichico è irriducibile al livello sociale e se il sociale è
ambiente per il sistema psichico (e viceversa), in quanto “sono ambiente l’uno
per l’altro”162, il sociale non può più essere determinante per la formazione e lo
sviluppo dello psichico, l’unica funzione che si troverà a svolgere sarà di tipo
promozionale, cioè non interverrà direttamente, in modo determinante su
formazione e sviluppo dell’individualità, ma porterà la persona a ricercare la
propria individualità in modo nuovo. Con il passaggio da una funzione formativa
ad una funzione promozionale, si assiste al passaggio da una “individualità
relazionale”163 ad una “individualità non relazionale”164. Ciò significa che la
formazione e lo sviluppo della persona, quale appartenente alla categoria dello
psichico, non scaturisce più dalla relazione con il sociale. In questo modo, il
sistema psichico può ricercare la propria individualità solo nella propria
specificità, nel proprio modo di essere vita, distinguendosi da ciò che non è vita .
“Nella e con la distinzione che dà origine alla vita, si forma la condizione
necessaria per l’autodeterminazione nella crescita di ciascuna singolarità. Anzi: la
distinzione è questa stessa condizione. In base a ciò, la vita possiede in Sé la
competenza a replicarsi proprio in quanto distinzione, come dislivello forte, di
Valore. Per mutare o per evolvere, la vita non ha alcun bisogno di informazioni
determinative provenienti dall’esterno. E non può essere altrimenti perché
l’esterno è, a seguito della rilevanza catastrofica propria della separazione, il non
essere. La vita ha solo bisogno di Essere quello che lei è già fin dal momento della
159
Ibidem, pp. 297-315.
Ibidem, pp. 317-318.
161
Ibidem, p.303.
162
G. Piazzi, “Salute e malattia nel quadro della differenziazione funzionale della società: aspetti
etici”, in Sociologia urbana e rurale, n. 29, 1989, p. 35.
163
La relazionalità propria di una società consistente, è una relazionalità forte. “Relazionalità
consistente vuol dire che, negli incontri (scambio) o nei contatti empirici, reali, quotidiani fra vite
dove altrimenti regnerebbe l’incertezza della doppia contingenza, il cervello (già orientato alla
specificità per via dell’imprinting ad opera delle differenze di valore) riesce invece a darsi un sé
della mente, ad attenuare tale incertezza e a darsi una specificazione concreta (non più soltanto un
orientamento alla specificità). E questo succede perché, attraverso quegli incontri e contatti fra
vite, il cervello riesce ad elaborare i conseguenti input in modo tale da registrare sui suoi nastri
chimici dei confini di valore più precisi, che gli consentano, poi, di osservarsi empiricamente come
diversità in più e in meno rispetto ad altri. Sempre, anche nelle circostanze più banali.” In G.
Piazzi, La ragazza e il direttore, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 192.
164
“La singola vita è oggi, realtà virtuosa in maniera autonoma. E’condensazione dei valori di
specie sia biochimici sia spirituali. Lo è sempre più. Senza avere più dentro di sé il senso dovuto
alle differenze interne alla condizione umana.”, in G. Piazzi, Il Principe di Casador, Quattroventi,
Urbino, 2000, p. 411.
160
49
distinzione”165. Per cui, ogni individualità, poiché specifica, è inadatta al
confronto. L’aspetto da valorizzare si sposta quindi da uno “status funzionale più
o meno adatto, alla pura “esistenza”166. L’unico valore positivo possibile è quello
dell’esistenza. La vita è tale in quanto si separa dalla non vita, ma, al di là delle
specificità della costruzione delle singole individualità, la vita è un’esperienza che
riguarda tutti. Ciascuno di noi trova la propria specificità profonda, le proprie
qualità più autentiche nella strategia per mantenersi in vita. Si tratta di una
strategia particolare, propria di ogni individuo. “Ogni singolarità compie un suo
decorso cieco per rendere esplicito l’implicito. Ogni singolarità è, al suo interno,
varie unità concrete di vita con le quali la distinzione originaria si autoreplica. Si
tratta di una diversificazione all’interno di ciascuna singolarità. Una volta che è
sorta in quanto distinzione originaria, ogni singolarità autoreplica, in maniera
cieca, tale distinzione secondo modalità interne fra loro diverse. Ogni singolarità
si distingue (nasce) e, poi, continua ad autodistinguersi dall’inorganico. Ma,
questa autodistinzione assume, all’interno di ciascuna singolarità separata dalle
altre, varie modalità tra loro diverse”167. Nello stesso tempo però, ogni persona,
elaborando una modalità propria di distinguersi dalla non vita, traccia un
collegamento con le altre persone perché “non ci sono distinzioni interne alla vita
stessa (…). Per quanto riguarda la vita e le diversità per cui essa è, ne esiste solo
una Ed è quella della distinzione vita/ non vita . Una volta consolidatasi, la vita è
perchè ci sono diversi modi di essere l’Essere, che così è ogni singolarità”168; ma
la differenza fra singolarità appartenenti alla stessa specie è una diversità e non
una distinzione. “Non c’è sopravvivenza del più adatto, c’è sopravvivenza
dell’adatto, senza più”169. Da ciò emerge allora una nuova concezione di
cittadinanza. Nella concezione di cittadinanza elaborata dai “classici”, riferendomi
agli autori più noti nell’ambito della sociologia, quali T. H. Marshall, J. Rawls, R.
Dahrendorf, che implicitamente si riferiscono al modello di Parsons, la
cittadinanza nasce dal giusto equilibrio tra libertà ed eguaglianza. Più
precisamente l’eguaglianza per i “classici” è di secondaria importanza rispetto alla
libertà. Comunque, anche nella versione più democratica dei “classici”,
l’eguaglianza si rende tale nelle “pari opportunità”. Si tratta di una concezione che
mira a rendere paritarie le condizioni di partenza, nella convinzione che ogni
cittadino abbia capacità e “talenti” non naturali, ma sociali, tali da ottenere eguali
risultati. “In altre parole, all’interno di questo approccio, si assume che i cittadini
siano tutti egualmente dotati e motivati all’achievement, così come richiesto dal
sistema acquisitivo di stampo meritocratico”170. Secondo Piazzi, è la stessa
differenziazione funzionale a richiedere una nuova cittadinanza che, secondo lo
stesso autore, si realizza nell’ “idea di vita”. “Il paradigma vita/ morte costituisce
un nuovo schematismo binario intrinsecamente connesso con lo sviluppo della
società ad elevata complessità”171. Questo delinea un progressivo distacco etico e
fattuale dal principio della selettività naturale che ha retto in particolare lo
165
G. Piazzi, La ragazza e il direttore, FrancoAngeli, Milano, 1995, pp. 41-42.
G. Piazzi, “Salute e malattia nel quadro della differenziazione funzionale della società: aspetti
etici”, in Sociologia urbana e rurale, n. 29, 1989, p. 37.
167
G. Piazzi, La ragazza e il direttore, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 45.
168
Ibidem, p. 49-50.
169
Ibidem, p.52.
170
M. Bosi, Le incerte povertà, FrancoAngeli, Milano, 1992, p. 128.
171
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, FrancoAngeli, Milano, 1996, p. 63.
166
50
sviluppo delle società occidentali moderne. Così la differenza ego-alter non
assurge a valore, mentre l’unica differenza significativa è quella che distingue la
vita dalla morte. Emerge qui chiaramente lo stretto rapporto tra eguaglianza e
povertà, dove l’eguaglianza è intesa non più come categoria concettuale giuridicoformale, bensì come categoria antropologica: garantire la non povertà in un
sociale complesso, significa preoccuparsi della “vita reale” di tutti. Per cui
l’intervento orientato ad assicurare la non povertà richiede la comprensione delle
differenziate modalità di riproduzione della “vita reale”, cogliere tale diversità,
diviene una condizione necessaria affinché siano rispettati i diritti di cittadinanza
di tutti, “verso un nuovo universalismo etico”172. Interpretare la povertà, nelle sue
molteplici dimensioni, avvalendosi di lenti differenziate, appare coerente con la
tutela dei diritti di cittadinanza di tutti, anche delle persone che non rientrano nei
schemi precostituiti degli enti assistenziali, così come di coloro che, portatori di
visioni del mondo diverse dalla dominante, non si rivolgono ai servizi sociali pur
avendone bisogno173. Partire dal paradigma vita/non vita significa quindi partire da
ciò che viene prima di ogni sua trasformazione in simboli, concetti, nomi,
aspettative, ambizioni, differenze socio-culturali; significa dare valore agli
individui concreti, alle storie concrete di vita, alle specificità concrete, ai disagi
concreti, in uno ai “fenomeni vivi”174.
172
M. Bosi, Le incerte povertà, FrancoAngeli, Milano, 1992, p. 130.
Ibidem, p.130.
174
M. Loiacono, Verso una nuova specie, Edistampa Nuova Specie, Foggia 2000, p. 369.
173
51
L’ASSOCIAZIONE SAN MARCELLINO
1.
STORIA E COSTITUZIONE
Le origini storiche dell’Associazione si riallacciano all’attività di un padre
gesuita, p. Paolo Lampedeosa che, nel 1945, fondò la Messa del Povero, appunto,
e scelse di collocarsi nel cuore del Centro Storico Genovese decidendo di aprire la
porta della piccola chiesa di San Marcellino in Sottoripa. Un terzo del Centro
Storico era stato distrutto durante la guerra, quindi c’erano molte persone rimaste
senza casa. In questa piccola chiesa così p. Lampedosa decide di iniziare una sorta
di attività di accoglienza, di punto di incontro, per le persone che avevano perso la
casa nell’ultimo periodo della guerra.
L’opera di p. Lampedosa dal 1963 venne continuata da p. Giuseppe Carena il
quale dovette far fronte alle nuove necessità di aiuto ad interi nuclei familiari, per
lo più provenienti dall’Italia meridionale in cerca di occupazione, che si erano
stabiliti nel centro storico per i bassi costi delle abitazioni. “In questo luogo si
sono in qualche modo dato appuntamento le persone in difficoltà della città di
Genova per tanti anni, a partire appunto da chi aveva perso la casa durante la
guerra, in quanto il Centro Storico di Genova è un po’ il luogo dove vive la gente
a basso prezzo, in quanto le case costano poco, sono fatiscenti, sono malridotte,
l’ambiente quindi è degradato e tutto questo insieme ha fatto sì che da allora fino
ad oggi una grossa fetta del nostro Centro Storico sia ancora occupata da persone
che hanno poche risorse. (…)Il Centro Storico è anche il luogo dove le persone
che vivono per strada più facilmente si ritrovano perché è un po’ la casa di tutti, è
la casa dove tutti possono stare e dove, in fondo, chi sta in disagio ci si può
52
trovare senza essere messo fuori e magari dove può trovare dei piccoli agganci di
sopravvivenza attraverso il contatto con la delinquenza di giovani-adulti.”34
L’intervento sviluppato in tutti questi anni ha avuto comunque una matrice
tipicamente assistenziale, fornendo prestazioni e servizi tesi talvolta a sopperire
all’intervento dell’Ente Pubblico e più spesso ad integrarlo. Accanto a questo
impegno assistenziale, però, è sempre stata presente una cultura di attenzione alla
persona nella sua globalità, ai suoi valori, alla sua dignità. “(…), c’era un sistema
di adescamento molto semplice: era una chiesa dove, al contrario delle altre
chiese, dove uno lascia delle offerte, lì si prendeva un offerta, cioè tutti quelli che
venivano si prendevano mille lire all’uscita, quindi c’erano quattrocento,
cinquecento persone. Era , evidentemente, una impronta vecchiotta di
impostazione, di avvicinamento alla gente, ma comunque molto sana dal punto di
vista del creare una occasione per incontrare della gente in difficoltà (…). Allora
noi siamo partiti un po’ da questo retroterra, che aveva dietro tutta una serie di
altre cose, per focalizzare la nostra attenzione su questo scenario di tanta gente e
abbiamo deciso nell’86 appunto, fine ‘86, di concentrarci sulle persone che
stavano per strada e quindi abbiamo cominciato per uno, due anni a fare un lavoro
di filtro e di conoscenza, di ascolto, di avvicinamento un pochino più a stretto
contatto con le persone che vivevano lì e cominciando a proporre a queste persone
non più le mille lire ma una serie di possibili servizi e opportunità.”35
Dall’’87 ad oggi l’Associazione ha rivolto un’attenzione particolare
all’accoglienza e alla comprensione “di quella fascia di persone di cui poco si
parla ma che nelle statistiche di oggi e sulle strade delle grandi città occidentali
assume una visibilità sempre più rilevante con la sua silenziosa sofferenza: le
Persone Senza Dimora”36.
Oggi S. Marcellino è una associazione di volontariato, iscritto all’Albo Regionale
che si avvale di una ventina di operatori stipendiati e di circa 450 volontari.
Dal punto di vista economico si avvale del sostegno di alcuni interventi pubblici
anche tramite una convenzione con il comune di Genova per circa il 40% delle
uscite; dal ’94 esiste una campagna per il reperimento di Sponsor (privati, gruppi,
enti, imprese, etc.) che si impegnano a versare una cifra annuale per creare un
fondo slegato dai finanziamenti pubblici spesso precari.
Nel luglio ’91 è stata costituita la “ Fondazione San Marcellino “ per creare un
ente giuridico cui intestare gli immobili di cui si serve l’Associazione: i locali di
via Ponte Calvi, sede della stessa e del Centro d’Ascolto, quelli di Vico Neve sede
dell’ “Angolo”, quelli di Vico Guarchi, sede del “Gradino”, l’immobile di Piazza
Embriaci, sede dell’ “Archivolto” e quello di Piazza del Campo, sede della
“Svolta”, dei “Lavatoi” e di altri alloggi assistiti. (vedi fig. 1)
Scopo della Fondazione è inoltre quello di coadiuvare l’Associazione nei suoi
compiti formativi e di sensibilizzazione.
E’ utile a questo punto riportare alcuni stralci dello statuto che regola
l’Associazione:
Denominazione e sede
34
P. Alberto Remondini, corso di formazione “Operare con le persone senza dimora”, S.
Marcellino, Genova, 19/01/2002.
35
Ibidem.
36
Internet: www.sanmarcellino.ge.it.
53
Articolo1° - E’ costituita l’Associazione “San Marcellino”.
Articolo2° - L’Associazione ha sede in Genova, Via al Ponte Calvi 2/4.
Finalità
Articolo 5° - L’Associazione ha carattere volontario; essa sceglie, nello spirito di
fedeltà ai valori cristiani, di prendere le parti, senza preclusione alcuna di razza,
nazionalità o professione religiosa, di quegli uomini e di quelle donne che, per
ragioni diverse, si trovano nelle situazioni più difficili, quali senza fissa dimora,
soli, senza riferimenti di aiuto, privi dei più elementari mezzi di sussistenza, per
farsene concretamente carico con diverse forme di intervento – anche in
collaborazione con altri Enti pubblici e privati – e nei vari ambiti della vita
sociale.
Scopo della Associazione è perciò quello di promuovere a livello individuale,
sociale e spirituale, la dignità umana di queste persone, per aiutarle a rientrare e a
partecipare a pieno diritto e con possibilità di espressione al contesto sociale in cui
vivono.
Ciò comporta l’impegno da parte dei soci di farsi carico delle diverse forme di
intervento dell’Associazione curando anche una adeguata formazione personale e
sensibilizzazione a vasto raggio mediante possibili ricerche, studi e dibattiti sui
problemi e sulle cause che generano il disagio sofferto da queste persone.
L’Associazione intende inoltre stimolare gli Enti pubblici e privati interessati
affinché operino delle scelte non emarginanti, indicando eventualmente anche
soluzioni alternative.
L’Associazione non ha finalità politiche né scopo di lucro.
L’Associazione potrà utilizzare forme diverse di finanziamenti, pubblici o privati,
per il raggiungimento dei propri scopi.
FONDAZIONE
VOLONTARI
ASSOCIAZIONE
ASSEMBLEA DI SOCI
CONSIGLIO DIRETTIVO
PRESIDENTE
CONSIGLIO ESECUTIVO
DIREZIONE
AMMINISTRAZIONE
RESP. SERVIZI
CONSULTA
RESPONSABILI
AREA
AREA
AREA
AREA
AREA
ALLOGGI
EDUCAZ.
C.D.A.
PRONTA
ANIMAZIONE
LAVORO
(fig. 1)
54
ACCOGL.
L’Associazione, pur essendo a tutti gli effetti un’associazione di privato-sociale,
mantiene un atteggiamento positivo e di integrazione con il welfare locale
pubblico. Ciò deriva da un’impostazione che riconosce nei diritti di cittadinanza
un elemento nodale da tutelare. Anche le persone senza dimora, ovviamente,
vanno considerati cittadini a tutti gli effetti: essi vanno pertanto supportati
dall’Associazione, che tuttavia è ben consapevole del ruolo decisivo del sistema
pubblico di assistenza quanto alla tutela di cittadinanza delle persone senza
dimora. Per cui l’Associazione non vuole sostituirsi al sistema pubblico, ma vuole
integrarsi ad esso, in un’immagine di welfare mix e non certo di welfare residuale.
2. IL METODO
L’approccio tradizionale alle persone in difficoltà, quello cioè che coglie la
persona nel momento apicale della sua crisi e tenta di risolverla nel contingente,
dando il buono mensa, l’asilo notturno, il vestito, i soldi, ecc., non viene
aprioristicamente rifiutato, ma viene piuttosto integrato dall’intento di avvicinare
la persona anche al di là del problema. Questo permette di vedere non la persona
senza casa, senza lavoro, ecc., ma semplicemente la persona, con quelle che sono
le sue debolezze ed i suoi bisogni ma anche con le sue risorse non mobilitate e a
volte addirittura dimenticate. Permette inoltre, attraverso un contatto costante e
con modalità diverse, di fare progetti il più possibile personalizzati capaci quindi
di cogliere la diversità e la specificità della persona.
“Accanto all’approccio più tradizionale, si è andato affiancando quindi il
tentativo, sempre meglio delineato, di organizzare interventi che consentissero di
riportare queste persone ad una maggiore autonomia e dignità di vita. La continua
rilettura dell’esperienza fatta ci ha suggerito come sia fondamentale, nel lavorare
con queste persone, non prefigurare al loro posto il cambiamento, non avere una
meta da raggiungere attraverso un cammino progressivo e standardizzato, (…),
ma porsi in un atteggiamento di continua ricerca”37. La richiesta dell’utente quindi
difficilmente risulta aperta ad un'unica interpretazione, ogni situazione è diversa
dall’altra, così come lo è ogni persona.
“Questo approccio più neutrale, più aperto al cambiamento, meno carico di
aspettative (nostre e dell’utente) ci pare permetta di essere più attenti ai bisogni
delle persone, più disponibili all’ascolto e consente di liberare meglio le risorse
delle persone che incontriamo”.38
Il lavoro di relazione, inteso in questo senso, diventa quindi un lavoro di grande
indeterminatezza, per molti aspetti pericoloso per l’operatore in quanto non è
difficile cadere nelle trappole dell’estreme polarizzazioni della relazione di aiuto:
la collusione e l’invischiamento oppure la delega totale, la rinuncia. “Ci troviamo
a lavorare in situazioni nelle quali ogni volta, prima di muoverci, siamo chiamati a
fare il punto della situazione, sapendo che le coordinate sono ogni volta diverse.
E’ un livello in cui per lavorare bene bisogna essere disposti a lasciare emergere
tutte le potenzialità di cui si può disporre, sia quelle tecnico-professionali sia
37
38
www.sanmarcellino.ge.it.
Ibidem.
55
quelle più genericamente umane. E’ come se, affrontando situazioni diverse,
dovessimo ogni volta accettare di essere diversi dalla volta precedente. Questo
richiede la necessità di rimettersi continuamente in discussione”39.
Nel lavoro pratico, l’Associazione risponde ai bisogni delle persone secondo
proposte su cinque ambiti:
- ALLOGGIAMENTO,
- LAVORO,
- SOCIALIZZAZIONE,
- BENESSERE E SALUTE,
- DIPENDENZA DA SOSTANZE.
Fondamentale è l’azione del CENTRO d’ASCOLTO che opera su due fronti:
accoglienza e accompagnamento sociale coadiuvando il percorso delle persone
all’interno dei cinque ambiti citati attraverso il lavoro di gruppo con gli operatori
degli altri settori. Esistono infatti due coordinamenti settimanali cui partecipano
gli operatori delle varie strutture (accoglienze notturne, comunità, laboratori,
alloggi, centri diurni…) e del C.d.A., per condividere e discutere il percorso che le
persone intraprendono con l’Associazione.
Il CENTRO d’ASCOLTO è uno dei servizi più antichi dell’Associazione, una
delle prime risposte affiancate ai servizi, il primo passo verso la comprensione del
disagio delle persone, il luogo dove si accompagnano con incontri periodici,
magari per molti anni.
Per quattro mattine alla settimana è aperto dalle 9 alle 12 con la funzione di:
- ascolto di chi si rivolge per la prima volta e per i colloqui di chi è già
inserito,
- prima accoglienza con distribuzione di posta, fotografie, buoni doccia,
servizio diurno…Ad ogni nuovo contatto viene compilata una scheda
attraverso la quale si ricostruisce l’identità della persona.
2.1.L’alloggiamento
Per quanto riguarda l’alloggiamento, oltre alla disposizione di un dormitorio di
prima accoglienza: l’ “Archivolto”, capace di ospitare 12 persone, l’Associazione
dispone di 5 strutture capaci di dare risposte differenziate.
L’ “Angolo”, situato in Vico Neve, quindi al centro storico della città, è una
accoglienza notturna di primo livello, capace di ospitare per la notte 8 persone ed
aperta tutti i giorni dalle 19:30 alle 8:00; nel servizio, oltre al posto letto, sono
compresi una cena serale e la colazione al mattino preparate da volontari.
L’accoglienza impegna al rispetto di tre regole quali puntualità, sobrietà e pulizia
personale, che vengono verificate con l’ospite al C.d.A. al momento del rinnovo
del tesserino che permette l’accesso all’accoglienza per la settimana. Tale rinnovo
è subordinato anche alle osservazioni fatte dai volontari e riportate dai
responsabili che partecipano al coordinamento settimanale dei servizi.
La stessa funzione viene svolta dal “Gradino”, altra accoglienza notturna di
primo livello.
39
Ibidem.
56
La “Treccia”è una accoglienza notturna esclusivamente per donne, è situata in via
Mylus, piazza Carignano. Al suo interno può ospitare 6 persone e le sue modalità
di funzionamento sono analoghe a quelle dell’”Angolo” e “Gradino”.
“Queste accoglienze rappresentano un importante spazio in cui, rispondendo ad
una urgenza, si comincia a conoscere la persona ed a farsi conoscere, per poter
impostare un rapporto più continuativo che vada oltre alla durata prevista del
pernottamento che solitamente è stabilita attorno ai tre mesi, rinnovabili a seconda
dei casi”.40
Il “Boschetto” è, invece, una comunità, situata in via della Crocetta, che può
accogliere 8 ospiti. Vi vengono inviate quelle persone con le quali si è impostato
un progetto da parte del C.d.A.. E’ aperto a tempo pieno nei giorni festivi e nei
giorni feriali dalle 18:00 alle 8:00. Gli ospiti versano un contributo spese di 15
euro mensili e partecipano alla gestione della casa occupandosi delle pulizie, della
stesura della lista spese, della preparazione della cena che consumano insieme.
Eventuali proposte o problemi inerenti l’andamento della casa o i rapporti degli
ospiti fra loro, vengono discussi settimanalmente durante la riunione di un gruppo
gestito dall’operatore responsabile della struttura.
Il “Ponte”, anch’esso situato in via della Crocetta, è una residenza comunitaria
protetta che ospita fino a 8 persone; “è nata per coloro che non sembrano in grado,
dopo un percorso riabilitativo, di condurre una esistenza completamente autonoma
e necessitano di sostegni per mantenere la qualità di vita raggiunta e non tornare
sulla strada”41; il periodo di permanenza è indeterminato e la gestione della
struttura viene affidata agli ospiti, il tutto supervisionato da un direttore che
gestisce la struttura. “Lavori di manutenzione e di gestione del quotidiano
vengono svolti dagli ospiti prevalentemente al mattino, così come la gestione della
cucina e della casa; pranzo e cena sono in comune ma l’elasticità caratterizza
questa struttura che non vuole soffocare gli ospiti”42.
Gli alloggi assistiti sono appartamenti individuali la cui organizzazione e
composizione è modificabile sulla base delle differenti esigenze degli ospiti,
secondo il programma concordato con ognuno. La persona in alloggio continua
comunque i colloqui al C.d.A.
2.2. Il lavoro
L’obbiettivo del settore lavoro è quello di offrire la possibilità di fare esperienze
di educazione al lavoro, intendendo con ciò “particolari situazioni in cui le
persone dovranno provare a costruire capacità e abitudini che costituiscono la
struttura e i vincoli del lavoro: capacità di organizzare il proprio tempo intorno ad
un impegno, relazionarsi con i propri pari in una attività strutturata, comprendere
la funzione della gerarchia e dell’autorità, gestire situazioni conflittuali”43.
L’Associazione ha scelto prevalentemente lo strumento dei laboratori:
- pulizie,
- lavanderia,
40
www.sanmarcellino.ge.it.
Ibidem.
42
Ibidem.
43
www.sanmarcellino.ge.it.
41
57
- manutenzioni,
- kambusa.
Esiste inoltre la possibilità, dopo un’esperienza proficua nei laboratori, di attivare
stage di formazione professionale in azienda mediante lo strumento della borsalavoro.
2.3. Socializzazione
Per socializzazione si intendono tutte le attività ricreative organizzate
dall’Associazione che permettono, in primo luogo, l’incontro tra le persone.
L’appuntamento “storico” è quello della Messa domenicale, ad essa si aggiungono
le vacanze estive a Rollieres, le gite e le feste e la “Svolta”, accoglienza
pomeridiana aperta tutti i giorni feriali dalle 15:00 alle 18:00, “una sorta di bar
analcolico dove le persone possono incontrarsi, giocare e consumare bibite a
pagamento. Questa struttura costituisce un importante momento di incontro e
rappresenta da una parte uno strumento di osservazione delle modalità relazionali
delle persone accolte, dall’altra un’occasione per le stesse persone di conoscere
meglio la proposta del Centro senza essere troppo coinvolti”.44
2.4. Salute e benessere
L’Associazione dispone di un ambulatorio medico e di una farmacia aperti tutte le
domeniche. Altro servizio sono le visite in ospedale per le persone seguite. E’
inoltre prevista la distribuzione di alimenti alle persone che, pur possedendo un
alloggio, non sono economicamente autonome.
2.5. Le dipendenze
La maggior parte delle persone che entra in contatto con il C.d.A. presenta
disturbi di salute psichica e/o fisica e disagi relazionali dovuti all’alcolismo. Per
rispondere a tali esigenze l’Associazione si è avvicinata ai Club degli Alcolisti in
Trattamento (C.A.T.). I Club, nati nel 1964 a Zagabria e ideati da Vladimir
Hudolin, sono comunità composte da un numero limitato di famiglie (al massimo
12) con problemi alcolcorrelati che condividono problemi ed esperienze al fine di
maturare un nuovo stile di vita e, in molti casi, consolidare l’astinenza dall’alcol..
Quando il C.A.T. raggiunge le 12 famiglie dà vita ad un nuovo C.A.T. Non vi
sono regole fisse salvo la regolare partecipazione, la puntualità e l’astinenza dal
fumo alle riunioni (circa h. 1.30, una volta alla settimana). Hodolin era convinto
della necessità di affrontare i problemi alcol-correlati attraverso l’approccio
ecologico-sociale secondo il quale bisogna difendere la qualità della vita
dell’uomo e della comunità. Il programma dei C.A.T. infatti, viene definito psicomedico-sociale in quanto affronta il disturbo alcolismo nei suoi molteplici aspetti
44
Ibidem.
58
dato che le problematiche alcol-correlate sono considerate una conseguenza di
diversi fattori, di origine biologica, culturale, psicologica e sociale. D.,
responsabile dell’Associazione, così descrive l’importanza della collaborazione
con i C.A.T.: “L’ incontro con i Club ha segnato, nella storia di S. Marcellino, una
svolta importante, perché abbiamo cambiato il nostro punto di vista nel
considerare i problemi alcol-correlati, ma, soprattutto, perché siamo cambiati noi,
abbiamo incontrato nuovi compagni di viaggio, attivi in altre realtà. Questi
incontri hanno creato contaminazioni importanti che hanno arricchito tutti e tutte
le rispettive realtà di provenienza”
Dal momento che i Club prevedono la partecipazione di tutto il nucleo familiare,
difficilmente ciò è stato possibile con i senza dimora poiché nella maggior parte
dei casi i loro rapporti con le famiglie sono interrotti o molto complessi. A tal
proposito, P. Remondini, sottolinea che “Ci sono anche situazioni nelle quali le
persone non riescono a vivere con la vita di un Club (…) se il metodo dei Club è
una proposta fatta a famiglie, quando abbiamo a che fare con persone sulla strada,
le famiglie normalmente non ci sono (…) qualche volta questo tentativo è stato
fatto, però normalmente questo non avviene”45. Così l’Associazione ha cercato un
secondo sistema, ossia reperire un accompagnatore al di fuori del Club, per
esempio un operatore o un volontario della Associazione stessa. Per gli Alcolisti
senza dimora comunque il solo lavoro dei C.A.T., pur importantissimo, non
potrebbe essere sufficiente. Questo soprattutto per la mancanza, reale o fantastica
della famiglia; mancanza della famiglia intesa non tanto e non solo dal punto di
vista anagrafico, quanto sostanzialmente. Oltre tutto “Gli alcolisti senza dimora
presentano spesso una tale complessità e multiformità di problematiche che,
difficilmente, si possono considerare come un gruppo uniforme di persone. La
sofferenza di questi soggetti, dovuta a più fattori e ad esperienze relazionali
gravemente disturbate, rende spesso molto complicato l’intervento degli operatori
dei nostri centri.(…) Nonostante la nostra pluriennale esperienza non è possibile
per gli operatori individuare una traccia sicura, una metodologia che garantisca
un’azione efficace e un miglioramento effettivo. Possiamo dire che non esiste una
traccia, un modo di agire od un percorso, ce ne sono molti e ciascuno si può
adattare con maggiore o minore successo al singolo soggetto in difficoltà”.46
45
46
Progetto europeo “Il sogno di Vladimir”, p. 9
www. sanmarcellino.ge.it.
59
LE DONNE SENZA DIMORA
Le donne portano la responsabilità del
proprio genere nella situazione di homeless
Burt Cohen
Le persone sulla strada sono soprattutto di sesso maschile per vari motivi:
“1) Nei casi di rottura familiare, è quasi sempre la donna che tiene i bambini. I
bambini sono i veri pilastri della famiglia. Essi obbligano la madre a conservare
una vita domestica. E’ per questo che la donna sulla strada è anche una donna a
cui i bambini sono stati allontanati o sono stati affidati;
2) nella famiglia, la perdita del lavoro ha conseguenze più pesanti per l’uomo che
per la donna. L’uomo disoccupato ha più difficoltà a conservare il suo posto nel
focolare domestico. Spesso non può avere un alloggio familiare a suo nome
perché la prestazioni assistenziali sono tradizionalmente assegnate alla donna;
3) i centri di accoglienza sono più esigenti nei confronti degli uomini, di cui
sempre si suppone che non vogliano lavorare e uscire da una tale condizione. Le
donne sono più facilmente percepite come vittime. Più deboli, suscitano più
facilmente la compassione;
4) infine il degrado femminile non è culturalmente ben accettato. Le donne sanno
che nella strada la forza fisica pesa il doppio, sanno che la loro relativa debolezza
rispetto agli uomini, ha delle conseguenze due volte più grandi. Esse eviteranno
dunque, con tutti i mezzi, di finire sulla strada”.47
Supponendo infatti che la donna sia maggiormente protetta dalla famiglia, poiché
i legami con essa permangono con più frequenza e con più continuità rispetto alla
controparte maschile, l’aspetto di genere del problema povertà estrema viene
47
J. F. Laè, C. Lanzarini, N. Murard, “Tra rottura e perdita del sé: l’homme à la rue.”, in P.
Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, p.77.
60
spesso trascurato; e anche se gli studi sulla povertà, sembrano affrontare in
maniera asessuata questo tema, non significa che non esista.
In Italia, soprattutto, la letteratura che si occupa di donne senza dimora è esigua,
per cui questo è un fenomeno ancora tutto da “scoprire”, ancora sommerso e
invisibile. Nonostante ciò, negli ultimi anni, sempre più spesso si parla di una
femminilizzazione della povertà, intesa come quel “fenomeno per cui le donne
costituiscono una porzione sempre più elevata degli assistiti e dei poveri, o, più
correttamente, il fenomeno per cui un numero crescente di poveri è oggi costituito
da donne”.48
Negli ultimi 20 anni il numero delle donne che si sono ritrovate in una situazione
di povertà, è estremamente aumentato. Le cause principali possono essere
attribuite all’aumento di famiglie con referente donna, famiglie con redditi
inadeguati in conseguenza di divorzi, della morte del coniuge, del
pensionamento49.
A partire dagli anni Settanta, infatti, grandi mutamenti, hanno determinato
situazioni di sempre maggiore vulnerabilità per nuove fasce della popolazione; e
dopo gli anni Settanta, si sono verificati una serie di crisi economiche e di
processi di ristrutturazione economica che hanno determinato situazioni di
maggiore precarizzazione delle relazioni di impiego e una maggiore esigenza di
flessibilità lavorativa. Conseguentemente si è verificata una crescita della
disoccupazione ed una riduzione, soprattutto per le donne e i giovani, delle
possibilità di inserimento lavorativo a carattere stabile.50
Inoltre, la profonda crisi dell’istituzione familiare ha esposto ad un rischio più
elevato d’impoverimento la donna in situazione di separazione, divorzio,
vedovanza e le ha messe di fronte alla “necessità di riacquisire le capacità
professionali e i ruoli sociali irrinunciabili per il loro inserimento nel mercato del
lavoro, abilità e capacità perdute nel corso della vita matrimoniale”.51 Rispetto agli
uomini, quindi, le donne risultano meno autonome e più fragili in quanto hanno
spesso minori capacità professionali e di reddito. Sono le donne, poi, ad avere la
responsabilità primaria del carico familiare e dei figli, in conseguenza di una
rottura matrimoniale e la difficoltà di trovare un lavoro o la scarsità di reddito va
associata anche alla consuetudine maschile di non adempiere agli obblighi del
contributo economico a cui ha diritto l’ex coniuge.
Quali sono le cause specifiche che portano la donna a vivere in strada?
Sembra che il percorso “deviante” della donna sia diverso da quello dell’uomo. Se
per quanto riguarda l’uomo, sembra che la via che conduce alla vita di strada sia
dovuta a fallimenti nell’ambito lavorativo, a solitudine, a tossicodipendenza ed
altro, per la donna, le motivazioni principali, riguarderebbero soprattutto “il
fallimento nei ruoli di madre e di moglie unito a problemi individuali radicati nel
tempo”.52
48
Commissione d’indagine sulla povertà e l’emarginazione, La povertà in Italia, Rapporto
conclusivo della Commissione studio istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri
(Commissione Gorrieri), Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1985, p.145.
49
“Strett-people”, in Italia Caritas, n. 6, giugno 1995, pp.14-21.
50
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, p.140.
51
Ibidem, p.140.
52
Ibidem, p.149.
61
Una delle cause principali quindi che porta la donna alla vita di strada è la
disgregazione familiare e delle relazioni parentali che diviene più determinante se
la donna non ha un lavoro, ed è per questo più dipendente dal coniuge.
Un altro elemento che sembra riguardare maggiormente la donna, è la maggiore
incidenza del disagio psichico, anche se spesso più che di un fattore congenito,
sembra si tratti di crisi provocate da problemi esistenziali. Rispetto a quella
dell’uomo, comunque, la questione dell’emarginazione femminile, risulta più
difficile da interpretare. Anche il fatto che la percentuale femminile sia minore,
porta spesso gli operatori ad affermare che l’emarginazione femminile non è
grave in quanto “sarebbero proprio la funzione di integrazione svolta nell’ambito
della famiglia e la dimensione di vita all’interno della casa a preservare la donna
dai rischi che conducono invece l’uomo alla condizione di senza dimora”.53
Questa idea della sfera privata come luogo di protezione, luogo sicuro soprattutto
per la donna, non la rende certamente immune da percorsi di emarginazione. Se
per tutti la vita in strada è molto difficile e dura da affrontare, per le donne lo è
ancora di più, esse “portano la responsabilità del proprio genere nella situazione di
homeless”54.
In strada “le loro giornate sono caratterizzate dalla fila di attesa per usufruire delle
mense, dal trascorrere il loro tempo nei bar o insieme ad altre donne nelle stesse
condizioni, a volte affiancandosi ad un uomo per avere maggiore sicurezza e
protezione”.55 A volte fra le senza dimora sono presenti giovani donne che, a
causa di crisi familiari ed individuali, si trovano senza mezzi di sostentamento.
Altre volte sono ragazze fuggite da famiglie disgregate o con patologie gravi a
causa di fallimenti di inserimento in istituti o comunità, si sono ritrovate in strada.
Quest’ultime hanno in genere problemi di tossicodipendenza o di alcolismo e
sono quelle maggiormente soggette a stupri. In particolare, le donne
tossicodipendenti, si procurano le sostanze attraverso la prostituzione. “Le donne
in questo contesto vivono quindi una situazione di degrado e marginalità derivante
sia dal loro stato di tossicodipendenza che di prostituzione, ma anche dalla doppia
condanna sociale che viene loro inflitta ( dalla famiglia e dagli stessi
tossicodipendenti)”56.
Per quanto riguarda le strutture di accoglienza, in particolare dormitori, specifiche
per le donne senza dimora, ve ne sono poche e spesso la donna viene delegata ad
altri servizi (ospedali psichiatrici, comunità…), in quanto, al contrario dell’uomo,
difficilmente viene inserita nella “categoria” senza dimora.
Il dormitorio viene vissuto dalla donna in maniera diversa rispetto all’uomo e
maggiormente peserà l’assenza di una casa in quanto, “culturalmente”, la donna
ne è considerata il fulcro.
“Dopo una giornata massacrante passata in strada, la donna arriva al dormitorio
“distrutta psicologicamente e moralmente. (…) Sente l’angoscia della giornata
appena trascorsa ed il peso di quella successiva. E’ questo un circolo vizioso che
porta a desiderare di non pensare, si perde la speranza, la forza di essere
53
M. A. Quiroz-Vitale, “La marginalità dei senza fissa dimora. Riflessioni su alcune forme di
emarginazione urbana”, in Marginalità e società, n.26, 1994, pp.122-123.
54
M. R. Burt, B. E. Cohen, “Differences among Homeless Single Women, Women with Children,
and Single Men”, in Social Problems, n. 36, 5 December 1989.
55
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, p.153.
56
Ibidem, p.157.
62
protagonisti della propria vita e di volerla cambiare. Al contrario la malinconia e
la voglia di piangere sono sentimenti sempre presenti. (…) Qualora la donna provi
a parlare per trascorrere il tempo in modo meno opprimente, viene accusata di
leggerezza e molti uomini si prendono libertà mai concesse. (…) Se ogni donna,
in generale, affronta questi problemi, a maggior ragione una persona priva di tutto
e dipendente totalmente dall’esterno può percepire la propria vita come una vera e
propria sofferenza. Deve spendere le proprie energie per sopravvivere e ciò non le
permette di fare progetti costruttivi, rimanendo così intrappolata in una serie di
azioni che soddisfano esclusivamente i bisogni primari. Questo stile di vita, in
aggiunta ad uno stato d’animo concentrato sulla depressione e sulla tristezza,
porta a percepire una maggiore insicurezza, solitudine, rassegnazione. (…) Le
donne, in particolare, vengono anche colpevolizzate per non essersi realizzate
nella loro femminilità, creando una famiglia e procreando dei figli. Raramente si
considera che ci sono donne disperate per non aver potuto tenere con sé i propri
figli a causa di problemi economici insormontabili, donne sempre più rassegnate a
vivere un’esistenza misera fatta di ricordi e di speranze infrante.”57
Dall’altra parte, nelle stazioni metropolitane, è possibile incontrare donne,
ricoperte di vari strati di abiti, che portano con loro parecchie borse di nylon.
Queste donne preferiscono dormire fuori, non si avvalgono dei dormitori. “Sono
queste, donne che hanno rifiutato completamente la società, con le sue regole e i
suoi valori, dimostrando una loro particolare dignità nel cavarsela da sole”58.
In Italia, come ho inizialmente affermato, gli studi che si occupano del fenomeno
della “donna senza dimora” sono relativamente pochi. La marginalità femminile
viene troppo spesso affrontata in modo asessuato, o trattata in secondo luogo,
come se il fenomeno non fosse così importante da richiedere la giusta attenzione o
addirittura non esistesse. “Nasce così un’emarginazione nell’emarginazione, un
tema di seconda categoria nel dibattito teorico sull’esclusione sociale e sulla
povertà estrema”59.
Dalle ricerche sul fenomeno della “persona senza dimora”, emerge comunque che
uomini e donne hanno percorsi di emarginazione differenti dovuti ad esperienze
biografiche diverse ed a necessità vitali diverse60. Queste differenze impongono
quindi un’attenzione di tipo sessuato al problema, sia in un’ottica di intervento
che di prevenzione.
57
Ibidem, pp.163-164.
G. Tagliaferri, “Donne senza dimora: il genere dell’emarginazione”, in TRA, n.4, 1/ 12/ 1991,
p.2.
59
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1996, p. 182.
60
Ibidem, p. 182.
58
63
L’ACCOGLIENZA NOTTURNA FEMMINILE
“LA TRECCIA”
La casa era piccola, le stanze poche,
ma c’erano logge, terrazze e pergole
tutt’intorno, per stare a guardare il
sole, il mare e le nuvole: l’anima
chiede più spazio del corpo.
A.Munte, La storia di S. Michele.
1. NOTA METODOLOGICA
AFFIDABILITA’
SULLA
RACCOLTA
DATI
E
LORO
Il lavoro di ricerca all’interno della Treccia ha utilizzato come strumento
determinante l’osservazione partecipante61; esso privilegia l’aspetto del contatto
diretto con il fenomeno, in questo caso le ospiti della Treccia, inoltre mi ha
permesso di raccogliere le note etnografiche, le quali comprendono anche alcuni
resoconti di vita delle ospiti. La possibilità di partecipare quotidianamente, in
generale alle attività dell’Associazione, quali il Centro d’Ascolto, la Svolta, i
coordinamenti e in particolare alla “vita” all’interno della Treccia, mi ha permesso
di venire a contatto e di conoscere una realtà e un “mondo” a me prima
sconosciuto. Per riuscire a non perdere la grande quantità di informazioni raccolte
sia dal contatto diretto con gli utenti, sia dallo scambio di opinioni con i vari
operatori, mi sono servita di un quaderno, una sorta di diario che andavo a
scrivere ogni giorno negli spazi di tempo liberi. Ovviamente il mio lavoro di
stesura di tesi si concentrerà solo su una parte di queste annotazioni, in particolare
su quella riguardante la mia presenza all’interno della Treccia.
Agli ospiti delle varie strutture sono sempre stata presentata nel mio ruolo di
studente che si apprestava a svolgere una ricerca su S. Marcellino, in particolare
sulla Treccia, dove, nella mia ultima permanenza di circa quindici giorni, ho
svolto il ruolo di volontaria.
Le informazioni sull’Associazione S. Marcellino le ho raccolte analizzando le
varie documentazioni che il responsabile mi ha consegnato. Per quanto riguarda la
61
“Osservazione in quanto implica il guardare e l’ascoltare. Ma allo stesso tempo questa tecnica
comporta un contatto personale e intenso fra soggetto studiante e soggetto studiato, un’interazione
prolungata che può anche durare anni, con un coinvolgimento (partecipazione) del ricercatore
nella situazione oggetto dello studio che ne rappresenta l’elemento distintivo. Il ricercatore
osserva la vita e partecipa della vita dei soggetti studiati . (…). Nell’osservazione partecipante il
ricercatore scende sul campo, si immerge nel contesto sociale che vuole studiare, vive come e con
le persone oggetto del suo studio, ne condivide la quotidianità, le interroga, ne scopre le pene e le
speranze, le concezioni del mondo e le motivazioni dell’agire, al fine di sviluppare quella visione
dal di dentro che è il presupposto della comprensione.”, in P. Corbetta, Metodologia e tecniche
della ricerca sociale, Il Mulino, Milano, 1999, p.367.
64
storia della Treccia, le informazioni sono state raccolte da una intervista fatta da
me medesima al responsabile dell’Associazione.
Inoltre, la documentazione che mi è stata consegnata dal responsabile
dell’Associazione, ovvero le schede sociali di tutte le ospiti che sono state presenti
nel passato e di quelle che lo sono attualmente, è stata il punto d’avvio della mia
ricerca sul profilo dell’utenza della Treccia. Nel corso della loro analisi ho fatto
costantemente riferimento ai colloqui avuti con il responsabile e con i diversi
operatori che lavorano all’interno dell’Associazione.
2. LA STORIA DELLA TRECCIA
La Treccia viene aperta il 7 Febbraio 2000.
D., responsabile dell’Associazione S. Marcellino, alla mia domanda su come sia
maturata all’interno dell’Associazione stessa, la decisione di aprire una struttura
di accoglienza solo femminile, così risponde: “Erano un po’ di anni che
pensavamo alla condizione della donna senza dimora, un po’ perché avevamo la
sensazione, soprattutto attraverso il lavoro del Centro d’Ascolto, che ci fosse
molto da scoprire, parlo di anni fa, poi via via abbiamo anche osservato un
aumento delle persone che venivano a chiedere anche se non era un aumento
consistente.(…).Eravamo abbastanza consapevoli che la nostra visibilità rispetto
al problema era scarsa per tutta una serie di motivi anche a noi sconosciuti, ma
anche perché non offrendo e non fornendo servizi per donna, alla fine non
venivano neanche a chiederceli. La prova l’abbiamo avuta dopo aprendo la
Treccia”.
Nel 1999, la Regione Liguria, in particolare la Consulta femminile, contattò
l’Associazione per effettuare una ricerca sul territorio della Liguria, che si
proponeva di far luce sul rapporto esistente tra le problematiche legate alle donne
senza dimora e le strutture. Alla fine della ricerca era emerso che l’identikit tipo
della donna senza dimora in Liguria era in preponderanza un soggetto in una
fascia d’età compresa tra i 40 e i 60 anni, con grosse problematiche psicologiche o
psichiatriche e, nella maggior parte dei casi, con figli affidati ad altre famiglie.
Riguardo alle strutture il problema evidente era la mancanza di dormitori o luoghi
di accoglienza attrezzati e con operatori che potessero dare risposte concrete ed
essere una valida alternativa alla strada. Questa mancanza veniva spesso contenuta
con l’utilizzo di istituti religiosi per accogliere i casi più urgenti di donne senza
dimora, ma tali strutture necessitavano di maggiore competenza per gestire le
complesse problematiche legate al disagio delle donne senza dimora.
Continuo con D. “Noi avevamo delle esperienze di lavoro con donne, viziate però
dalla mancanza di strumenti. Non avendo una struttura dove poter accogliere, per
molte donne il salto era quello dalla strada alla casa. Passaggio che spesso non
permette di recuperare alcuni problemi e che spesso ne crea ulteriori. Ciò maturò
in noi la consapevolezza che bisognava andare a vedere più da vicino questi
problemi e lasciarci contaminare, nello stile di S. Marcellino che è quello di
avvicinare le persone e, sulla base dell’incontro con le persone, modificare
65
progetti e costruire…e abbiamo iniziato sostanzialmente a ragionare che una
struttura esclusivamente femminile sarebbe stata necessaria, con tutti i problemi
che comportava.” Il percorso di progettazione è stato abbastanza lungo perché
aprire una struttura del quel tipo comportava, al di là dei locali e della loro
ristrutturazione, alcuni problemi di diversa natura: il primo di carattere
organizzativo, quale il reclutamento dei volontari, almeno 40, con i quali, ad uno
ad uno, D. ha avuto un colloquio e, di non secondaria importanza, trovare una
responsabile, selezionata poi tra tre candidate. Il secondo problema, sicuramente
la parte più delicata, è stato progettare la struttura, decidere se fare una comunità o
una pronta accoglienza. Utilizzo le parole di D.: “Ci siamo visti per un sacco di
tempo, io, la psichiatra che all’epoca lavorava qui e un paio di operatori
dell’Auxilium, abbiamo iniziato a ragionare da dove partire perché poi
l’esperienza con le donne era zero.” Sostanzialmente la Treccia riprende il
modello dell’Accoglienze notturne maschili quali Angolo e Gradino, facendo
qualche accorgimento sugli orari, in specifico quello d’entrata che dalle 19:30,
viene anticipato alle 19:00. “(…).Le Accoglienze notturne ci sembravano un
modello sufficientemente agile perché potevamo accogliere la gente direttamente
dal colloquio, non sono eccessivamente impegnative per gli ospiti perché le regole
sono tre, abbastanza semplici, anche se dal punto di vista di chi vive per strada
sono una domanda forte: l’igiene personale, la puntualità e la sobrietà; le persone
non sono coinvolte nella gestione della struttura e questo risolve dei problemi di
varia natura . In realtà sentiamo molto la mancanza di una prima accoglienza o di
una comunità.”
2.1. La specificità della Treccia
La Treccia si trova a svolgere, da una parte, il ruolo di una seconda accoglienza;
dall’altra parte quello di una comunità, senza esserlo, ovvero senza avere
all’interno gli strumenti presenti di solito, in una comunità. La scelta del modello
delle Accoglienze notturne maschili, agevola la “presa in carico” della persona in
quanto quest’ultima può essere accolta direttamente dal colloquio con uno degli
operatori del Centro d’Ascolto che è uno dei principali punti di riferimento per le
utenti. Il Centro d’Ascolto, infatti, è un punto nevralgico perché qui avvengono i
primi contatti con le persone che si rivolgono all’Associazione, è qui che si cerca
di costruire un dialogo con esse, si cerca di comprendere la loro situazione e poi si
inseriscono nelle accoglienze. Queste persone, una volta inserite, vengono seguite
dagli operatori del Centro d’Ascolto. Gli utenti, alloggiati presso le strutture,
hanno l’obbligo di recarsi al Centro d’Ascolto una volta a settimana per farsi
timbrare il tesserino. Quest’ultimo è uno strumento che rappresenta un’occasione
per mantenere un rapporto costante con l’utenza, permette di dare continuità al
dialogo e al progetto di recupero che si tenta di costruire62.
62
“Sulla esperienza che stiamo conducendo con alcuni che hanno cambiato stile di vita e che sono
riusciti a recuperare una propria autonomia personale, miriamo, quando è possibile, ad offrire alla
persona occasioni diversificate per riprendere in mano la propria vita, affrontare i motivi che
l’hanno portata a vivere per strada, ripromettere un futuro dignitoso, valorizzando tutto quanto di
positivo appartiene alla sua storia. Questo è un lavoro che richiede tempo, spesso svariati anni,
pazienza, fiducia reciproca. Per questo riteniamo di grande importanza l’accoglienza verso tutti,
perché abbiamo una tenace speranza che qualunque persona che si trova in difficoltà possa essere
66
La Treccia non è stata pensata come una comunità perché quest’ultima sarebbe
stato per alcune persone un salto troppo lungo rispetto alla strada. La comunità
viene utilizzata come strumento efficace per le persone con le quali
l’Associazione ha aperto un dialogo e un percorso riabilitativo da parecchio
tempo, infatti esso è uno strumento impegnativo rispetto alle persone che ci
vivono dentro perché chiede molto: gruppi settimanali, la partecipazione alla
gestione della “casa” occupandosi delle pulizie, della stesura della lista spese,
della preparazione della cena, ecc. Strumento quindi molto forte per chi arriva
dalla strada e non riesce a stare “dentro” situazioni che coinvolgono troppo, in
quanto promuovono, in primo luogo, un forte impegno individuale, in secondo
luogo, un coordinamento e una gestione di gruppo. Ma all’interno della Treccia ci
sono persone che è da alcuni anni che vi alloggiano.“Persone come G., che è da
tre anni e mezzo che vive lì e si è adattata in quella struttura quasi come se fosse
una comunità o la sua casa, senza però avere gli strumenti né lei, né chi ci lavora
dentro, per governare dinamiche come si userebbero in una comunità, mi riferisco
a gruppi settimanali, un certo tipo di verbalizzazione, di richiesta e di scambio nei
confronti degli ospiti, si vede che è un percorso faticoso. D’altro canto per chi
arriva dalla strada, magari con un po’ di problemi anche di socializzazione,
trovarsi ad impattare con persone che sono lì da anni e fanno abbastanza muro,
non è certo un’esperienza di accoglienza eccezionale”. Se una ospite quindi,
desidera farsi gli affari propri, lo può fare, perché la Treccia non è una comunità.
Dovrebbe essere un dormitorio, ovvero un luogo di passaggio, ma non lo è perché
per alcune tende a diventare una sorta di sistemazione definitiva. Per cui la
precarietà si lega alla stabilità, alla ritualità quotidiana. In questo modo però la
Treccia non può accogliere le donne con estremo disagio, le persone più
“scassate” (parola usata da un operatore), in quanto non è una Prima Accoglienza,
non lo può essere perché troppo piccola come struttura; al suo interno infatti può
accogliere sei persone, e un numero così basso penalizza, se pensiamo ad una
Pronta Accoglienza, in quanto inevitabilmente crea legami, contatti troppo
personalizzati, spesso soffocanti per alcune persone63. Oltre ciò, dice D. “Un’altra
cosa che emerge come dato problematico è la percentuale molto più alta, rispetto
agli uomini, di problemi psichiatrici. Per cui, essendo la struttura di soli sei posti,
capita di avere un concentrato di persone con problemi psichiatrici, rischiando di
diventare una comunità per psichiatrici, con tutto quello che comporta. (...).Ci
siamo anche resi conto che tante donne assieme stanno assieme appunto in
maniera diversa rispetto a tanti uomini assieme”.
La Treccia è un’Accoglienza esclusivamente femminile, ed è anche questo a
renderla specifica, particolare, in quanto non possiamo fare a meno di toccare i
problemi legati all’esperienza della maternità. Quasi tutte, all’interno della
struttura hanno avuto dei figli, anche se alcune sono giovanissime. Continuo con
le parole di D.:“ Se durante la permanenza alla Treccia, qualcuna si trova in
gravidanza, noi non abbiamo la possibilità di accompagnarla in questo percorso,
aiutata a scoprire in sé le risorse per cambiare e migliorarsi.” in internet: www.sanmarcellino.ge.it.
63
“ La decomposizione ed abbandono del Sé, cioè il carattere distintivo della povertà urbana
estrema, è connessa con il deciso, ma progressivo, ritiro che l’individuo estremamente povero
porta a termine nei confronti del mondo esterno, della propria famiglia, degli amici: Le persone in
condizione di povertà estrema sono in primo luogo caratterizzate dal ritiro dal mondo esterno.” In
P. Guidicini. G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, pp. 13-14.
67
mi sembra che questo sia un grosso limite perché accogliere le donne vuol dire
anche essere in grado di accogliere questo tipo di esperienza e, vissuta per strada è
un’esperienza problematica per la persona che la vive, ma anche per le altre che si
trovano in qualche modo a rivivere e a proiettare su questa persona la loro storia,
le loro difficoltà, le loro tristezze”.
Altro aspetto da affrontare ,è quello legato ai rapporti di coppia. Nel mondo delle
Accoglienze notturne maschili sono quasi sempre sfumate, mentre invece quasi
tutte la ragazze che sono alla Treccia hanno un fidanzato, o un marito e
chiaramente questo è un fatto funzionale allo stare per strada, avere una
protezione da un comando e, quando va male, al limite le buschi solo da uno, a
volte va bene, non necessariamente tutte le coppie che si formano per strada sono
coppie patologiche, certamente c’è questo aspetto”.
La Treccia si presenta quindi come una struttura, nel genere unica, nel territorio
genovese, essa si colloca come un’esperienza sperimentale nel tentativo di
comprendere e tutelare le donne senza dimora proponendosi, inoltre, di far
emergere e dare visibilità ad una specifica problematica che spesso non veniva
colta, quale l’emarginazione femminile. Attualmente, la Treccia è diventata, nel
contesto genovese un punto di riferimento, rischiando a volte di diventare un
rifugio al femminile di tanti disagi genovesi, perchè non ci sono altre risposte sul
territorio; per cui spesso l’Associazione si trova a dover selezionare tra un numero
elevato di domande a cui la struttura non è sempre in grado di fornire una risposta
adeguata, anche in relazione al numero limitato dei posti letto disponibili.
Alla domanda, se nel tempo è cambiato e come è cambiato il progetto della
Treccia, D., mi riferisce che fino ad ora sono rimasti abbastanza attaccati all’idea
iniziale, “anche se non ci piace. Ci sono stati dei cambiamenti significativi, ma
non determinanti dal punto di vista dell’impianto e cioè un po’ di lavori di
ristrutturazione.(...). Abbiamo provato a fare anche un anno di verifica sulla
Treccia, però siamo bloccati dal fatto che ci mancano dei pezzi prima e dopo, cioè
il ragionamento non tanto va fatto sulla Treccia, ma sul sistema e, per fare un
ragionamento sul sistema, ci vogliono delle risorse, che noi per il momento non
abbiamo. Per sapere meglio dove andare con una Treccia, bisognerebbe fare un
ragionamento su un sistema, ma per fare un ragionamento su un sistema,
bisognerebbe anche poter iniziare a sperimentare un qualche cosa sul sistema e
questo diventa problematico”.
3. PROFILO DELLE UTENTI DELLA TRECCIA
68
Qual è il nostro reato? Quello di non riuscire a correre
al ritmo di questa società? Allora siamo colpevoli.
Piazza Grande, ottobre 2003
Dal momento dell’apertura (Febbraio 2000), ad oggi (Ottobre 2003), sono passate
dalla Treccia 21 donne. In questo capitolo intendo esaminare le informazioni
disponibili relative alle ospiti.
I dati che andrò ad analizzare sono stati ricavati direttamente dalle cartelle sociali
delle ospiti, cartelle che mi sono state fornite da D., responsabile
dell’Associazione. Le cartelle analizzate, complessivamente, sono vent’uno. Non
è un numero particolarmente significativo, ma va rapportato al fatto che la Treccia
è una struttura di accoglienza relativamente recente e dotata di soli sei posti letto.
I dati disponibili ricavabili dalla lettura delle schede concernano: la permanenza
alla Treccia, il luogo e l’anno di nascita, le motivazioni all’ingresso, l’ente
inviante, le problematiche prevalenti, la situazione lavorativa, la situazione
familiare e il tempo complessivo di permanenza.
Non tutte le cartelle sono complete a causa, anche, a volte, della breve
permanenza della persona. Una cartella non presenta il luogo di nascita
dell’utente, molte non presentano notizie sul titolo di studio e sulla condizione
professionale. Per quanto riguarda problemi legati alla tossicodipendenza, in tutte
le vent’uno schede appare “n. r.”.
Le tabelle che seguono, riportano, in ordine, il periodo di permanenza alla Treccia
(tab.1), l’età delle ospiti (tab.2), il luogo di nascita (tab.3), le problematiche
prevalenti (tab.4), la situazione familiare (tab.5) e la condizione lavorativa (tab.6).
TABELLA N. 1: permanenza alla Treccia
Permanenza alla
Treccia
0-30 giorni
31-60 giorni
60-120 giorni
120-180 giorni
1 anno
Più di un anno
Percentuale
%
19 %
4,7 %
28,6 %
14,3 %
4,7 %
28,6 %
La TABELLA N. 1 presenta il periodo di permanenza delle utenti nella struttura.
Si può osservare innanzitutto che le percentuali più alte si registrano nelle
permanenze di 60-120 giorni e in quelle che superano un anno. Quest’ultime,
soprattutto, ci testimoniano la specificità della struttura in esame. Il 28,6 delle
ospiti che vi risiedono da più di anno e la presenza di alcune utenti dal momento
69
dell’apertura, ci fa capire chiaramente che la Treccia non può essere definita una
prima accoglienza, ma più correttamente una seconda accoglienza, in quanto
intorno alla persona accolta è stato costruito un progetto che la segue nel tempo.
Per alcune, che ci vivono da quando è stata aperta, la struttura diviene una specie
di comunità, o addirittura la loro casa. Ma la Treccia è un dormitorio e il 19% che
permane nel periodo di trenta giorni lo dimostra. La struttura è quindi un ibrido
fra i due tipi di accoglienza, da una parte vi sono persone che vi sono rimaste per
un breve periodo, dall’altra vi sono persone che sono rimaste per lunghi periodi e
che sono tuttora presenti.
TABELLA N. 2: età delle ospiti della Treccia
Età
Percentuale %
18-24 anni
24-30 anni
30-36 anni
36-42 anni
42-48 anni
48-54 anni
54-60 anni
Oltre 60 anni
14,3%
14,3 %
4,7 %
28,6 %
14,3 %
9,5 %
9,5 %
4,7 %
La TABELLA N. 2 presenta i dati relativi all’età delle ospiti. Le fasce di età più
diffuse sono quelle comprese tra i 36 e i 42 anni, seguono 18-24 e 42-48. Lo
studio delle fasce d’età presenti mostra come sia eterogenea l’utenza che
usufruisce della struttura. L’età media delle donne risulta più bassa rispetto a
quella degli uomini, anche perché ci sono alcuni casi che abbassano pesantemente
la media. Dalle percentuali vediamo la presenza di un 14,3 % di donne con una
fascia d’età compresa tra i 18 e i 24 anni. Giovani che spesso hanno avuto alle
spalle storie difficili, figli. “Giovani donne che, a causa di crisi familiari ed
individuali, si ritrovano senza mezzi di sostentamento. Altre volte sono ragazze
fuggite da famiglie disgregate o con patologie gravi, che in conseguenza di
fallimenti di un loro inserimento in istituti o comunità, si sono ritrovate sulla
strada”64. Queste ultime sono anche coloro che più facilmente si rivolgono ad una
vita di tipo criminale.65
Le giovani donne, nel rivolgersi alla struttura, possono avere avuto una esperienza
di strada relativamente breve. Se consideriamo invece la fascia d’età compresa tra
i 36 e i 48 anni, possiamo ipotizzare che alcune di queste donne, abbiano avuto
alle spalle anni di esperienza di strada, per cui avranno maggiori difficoltà ad
attivare risorse da mettere in gioco in un percorso di recupero. Per quanto riguarda
la fascia d’età compresa tra i 48 e i 60 anni, possiamo notare una presenza del 9,5
% di donne. P. Donadi, ipotizza che quest’ultime possono essere “ donne che
64
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, p.153
65
G. Torre, E. Sperati, “La criminalità femminile minorile”, in Marginalità e Società, n. 15,
1990, p.31.
70
hanno vissuto solamente in funzione della famiglia, del marito, o donne che,
vivendo da sole, hanno trascorso una vita svolgendo lavori saltuari, nel terziario,
anche prostituendosi e si ritrovano senza più risorse”66.Non dobbiamo dimenticare
che un’altra variabile importante che porta molte donne alla vita di strada è la
violenza domestica e i maltrattamenti subiti. Ovviamente queste sono tutte ipotesi,
in quanto è molto difficile racchiudere la storia di ogni persona all’interno di
categorie precise. Dai dati rilevati, già da queste prime analisi, possiamo osservare
che all’interno della Treccia confluiscono situazioni caratterizzate da una
eterogeneità di percorsi biografici e ciò conferma l’impossibilità di costruire
carriere e percorsi definiti. Continuando con la nostra analisi dei dati, possiamo
notare che per oltre i 60 anni, vi è una presenza del 4,7 %. La percentuale ridotta
di donne anziane all’interno della popolazione della Treccia, si può spiegare con il
fatto che, da una parte, per questa fascia di popolazione sono state predisposte
negli ultimi anni soluzioni alternative, dall’altra, che la durata della vita sulla
strada è breve, in quanto questa condizione condanna la persona ad una morte
precoce.67
TABELLA N. 3: luoghi da nascita delle ospiti
Luogo di nascita
Nord Italia
Centro Italia
Sud Italia
Liguria
Genova
Percentuale %
14, 3 %
14,3 %
23,8 %
/
38 %
La TABELLA N. 3 evidenzia la distribuzione geografica del luogo di nascita
delle ospiti. Il dato che subito appare in assoluto è che la maggior parte delle
persone che sono passate alla Treccia è nata a Genova. Questo dato ci indica che
sono persone ben radicate nel territorio genovese. “(…) l’utenza della struttura si
percepisce come una componente interna alla città”68.Oltre a ciò, ci rivela anche
che le donne, a differenza degli uomini, hanno maggiori difficoltà a spostarsi. Il
territorio comunque ci dice molto riguardo le “rotture” subite dalla persona, esso
ha un rapporto stretto con la sua biografia69. Altro dato da non trascurare è la
66
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, p. 153.
67
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FranoAngeli, Milano, 1999,
p.94.
68
Ibidem, p.97
69
“Quale rapporto vi è tra il luogo in cui si trova l’uomo sulla strada e la sua biografia? La risposta
a questa domanda permette di misurare l’intensità della rottura: A volte il rapporto è stretto:
l’individuo vive nella strada, ma all’interno del comune o del quartiere dove è nato, nel luogo dove
ha trascorso la sua infanzia, nel luogo in cui ha costruito la propria famiglia, o nel luogo in cui ha
lavorato per qualche anno. Talvolta è solamente il luogo di un ricordo, un posto dove è venuto in
vacanza o in visita. A volte è solamente il luogo dove ha incontrato un proprio collega (un altro
uomo sulla strada), ha trovato un mercato (dove recupera del cibo), una chiesa accogliente (dove
mendica), uno squat, un rifugio, un giardino pubblico, una panchina ecc. E a volte è solamente il
luogo in cui si è fermato perché non era più in grado di spostarsi, perché era troppo affaticato. Il
71
presenza di un 23,8 % di persone che provengono dal Sud Italia; si tratta di donne
abituate agli spostamenti, oppure scappate da situazioni di vita insostenibili,
oppure emigrate in cerca di fortuna, ma che hanno avuto dei seri problemi di
inserimento. Soprattutto non dobbiamo dimenticare che Genova negli anni ‘60 ha
conosciuto una forte immigrazione dal Sud, essendo una delle più grandi città
industriali insieme a Milano e Torino. Dal Nord e dal Centro, infatti, si registra
un valore abbastanza basso (14,3 %), forse anche perché rispetto al Sud, sono
zone in cui la rete dei servizi è più sviluppata. Oltre tutto, Genova, essendo una
città portuale, favorisce un elevato movimento di persone.
TABELLA N. 4: problematiche principali
Problematiche
Senza dimora
1 = sì
(%)
100 %
2 = no
(%)
O%
Psichiatrico
61,9 %
38,1 %
Alcol correlati
14,3 %
85,7 %
La TABELLA N. 4 evidenzia la distribuzione delle principali problematiche fra le
utenti. Innanzitutto si può osservare che sono tutte persone senza dimora. Fra
queste sono comprese anche quelle che, per brevi periodi, hanno vissuto presso
fratelli, sorelle, compagni incontrati, camere in affitto, dormitori di gruppi
religiosi, ma alcune hanno “vissuto” in strada o in stazione anche per sei o sette
anni. Comunque
tutte le biografie sembrano accomunate da situazioni
alloggiative precarie. A tal proposito D. mi riferisce che “Le donne contattate,
molte, prima di perdere la casa hanno fatto salti mortali, usando tutta una serie di
reti che vanno da quelle più istituzionali, per esempio se hanno figli minori,
intervengono i sevizi con sussidi, si sbattono di più per andare nelle parrocchie,
poi c’è tutto il percorso della prostituzione...”. Tra le altre problematiche, quelle
che risultano affliggere maggiormente queste persone, sono quelle legate a disagi
psichiatrici. Un confronto con l’universo della popolazione che si rivolge al
Centro d’Ascolto di S. Marcellino fa emergere un dato interessante: le percentuali
di problemi psichiatrici femminili sono circa il doppio rispetto a quelle
riscontrabili tra gli uomini, sempre senza dimora, che chiedono aiuto al Centro
d’Ascolto. Tra le ospiti della Treccia c’è chi viene seguita regolarmente dai Centri
di Salute Mentale e assume altrettanto regolarmente psicofarmaci, oppure c’è chi,
solo durante la permanenza, ha portato alla luce i suoi gravi disturbi psichiatrici.
problema del territorio dell’uomo sulla strada è collegato alla dinamica urbana. E’ soprattutto nelle
piccole o medie città che si trovano sulla strada individui che hanno uno stretto rapporto con il
territorio. Vi sono nati, vi hanno vissuto, vi hanno lavorato. Nel centro delle grandi città, al
contrario, la distanza è massima: non ha radici. Il territorio è dunque un indicatore affidabile delle
rotture successive. Ogni volta che si allontana dalla sua storia, interviene un cambiamento
d’alloggio.”, in J. F. laè, C. Lanzarini, N. Murard, “Tra rotture e perdita del sé: l’homme a la rue”,
in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa,
FrancoAngeli, Milano, 1995, pp. 78-79.
72
Purtroppo non esistono in Italia ricerche sulle donne senza dimora che ne
prendano in considerazione in maniera specifica i frequenti disagi psichiatrici.
Uno studio svolto da Marshall e Reed, realizzato nel 1986 negli ostelli per poveri
di Londra, ha individuato le caratteristiche socio-demografiche nonché lo stato di
salute fisica e mentale di un campione di 70 donne. I risultati di questa ricerca
hanno evidenziato che le donne senza dimora sono, rispetto agli uomini, più
giovani, hanno maggiori contatti con la famiglia d’origine, più spesso sono state
sposate ed hanno avuto figli, hanno lavorato in media per un periodo di 15 anni.
Di queste, il 60 % ha avuto almeno un ricovero in strutture psichiatriche, di cui il
45% con diagnosi di schizofrenia. Le motivazioni di questa prevalenza sembrano
ricondursi a situazioni antecedenti al ricovero, dato che la dimissione da un
ospedale psichiatrico non comporta necessariamente una vita di strada70. Altri
elementi invece, come l’alto costo delle abitazioni e la maggiore dipendenza
sociale ed economica possono portarle a richieste anche improprie di ricovero71.
Anche secondo un rapporto del 1985 dell’American Psycological Association, le
donne senza dimora mostrano un tasso più elevato di malattie mentali della
controparte maschile. In più le malattie mentali possono essere un incentivo allo
sfruttamento e alla violenza sessuale. Una malata cronica e senza tetto è esposta
ad un rischio triplo per quanto riguarda questi pericoli72.
Le problematiche legate a disagi psichiatrici sono un campanello d’allarme nella
gestione dei contatti con le donne senza dimora nonché nelle modalità di
attivazione dei progetti per il loro recupero verso l’autonomia.
Per quanto riguarda le problematiche alcol correlate, vediamo che non sembrano
essere particolarmente diffuse all’interno dell’utenza femminile accolta dalla
Treccia. L’alcol non sembra mai essere la causa principale dell’essere “senza
dimora”; esso appare piuttosto come una conseguenza delle situazioni
problematiche in cui si trovano i soggetti. Per i problemi legati all’uso di alcol, S.
Marcellino propone il metodo ecologico – sociale dei Club degli Alcolisti in
Trattamento (C.A.T). Durante il trattamento, in particolare nella fase iniziale, è
prevista l’assunzione giornaliera di una compressa di “antabuse”, un farmaco
passivo utile per rafforzare il proposito di non bere.
Per quanto riguarda la partecipazione ai C.A.T, tra le persone che sono passate
alla Treccia abbiamo una percentuale del 4,7 %. Dato che forse non ci dice molto,
ma che mette in evidenza quanto la partecipazione a questi gruppi sia un passo
molto forte, per alcuni molto difficile, perché presuppone l’impegno di portare
avanti un progetto. Una ricerca svolta all’interno di un progetto europeo, “Il sogno
di Vladimir”, incentrato sulle problematiche alcol-correlate delle persone senza
dimora in tre realtà europee quali S. Marcellino (Genova, Italia), Emmaus di
Forbach (Francia) e S. Martin de Porres (Madrid, Spagna), per quanto riguarda la
realtà di S. Marcellino, mette in evidenza che su un campione di persone
(corrispondente a 112 persone) inviate ai C.A.T. dall’Associazione stessa nel
periodo compreso tra Gennaio 1988 e Dicembre 2000, di esse 108 sono maschi, 4
sono femmine. Di queste, sono ancora in contatto con l’Associazione 32 persone,
70
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1996, pp. 154-155.
71
Caritas Ambrosiana (a cura della), Barboni. Per amore o per forza? Senza dimora, esclusione
sociale, povertà estreme, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996, p. 105.
72
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1996, p. 156.
73
di cui 2 sono donne. E’ evidente la bassissima percentuale di presenza femminile,
confrontata con quella maschile. Nonostante ciò, non possiamo comunque
trascurare questo dato. Infatti, anche per quanto riguarda il problema alcol, è
necessario affrontarlo in modo sessuato, mettendo in evidenza le differenze di
approccio e di risposte al problema tra un universo maschile e femminile.
Purtroppo, anche per quanto riguarda queste problematiche, in particolare per la
donna, sappiamo ancora poco.
Il materiale qualitativo della ricerca “Il sogno di Vladimir”, mette in luce il
percorso, spesso tortuoso e fatto di ricadute , del rapporto con i C.A.T. “(…) una
specie di continui alti e bassi, di miglioramenti e di ricadute, ricadute e
miglioramenti che danno in pieno il senso dell’autentica processualità della vita e
che contraddistinguono ogni immagine di stabilità o di risultato (positivo o
negativo) permanentemente acquisito.”73 Ciò non significa che i passi avanti che
vengono compiuti dai soggetti in carico non portino comunque, per loro, a dei
benefici effetti: ma bisogna ben capire che i risultati positivi si acquisiscono nel
tempo, con molto tempo e ciò non riguarda soltanto il problema alcol. “Diverse
volte, leggendo i verbali degli incontri e dei colloqui tra gli operatori di S.
Marcellino e gli alcolisti senza dimora, si potrebbe sovrapporre, quasi in
fotocopia, un resoconto – mettiamo – dal 1990 con uno del 1997, relativo allo
stesso utente”74. Questa sensazione, provoca reazioni molto diverse: la prima,
diciamo così pessimistica, che non si muove, che non si sta muovendo nulla e che
quindi il tempo che passa, ed il lavoro che si svolge, serva davvero a poco. La
seconda reazione, forse più ottimistica, consiste nella comprensione del fatto che,
all’interno di un cammino evolutivo, i tempi sono lunghissimi e che la staticità, la
ripetizione, da parte dell’utente, rappresenta la messa in campo di un più che
normale meccanismo di difesa75. “Tale meccanismo è imputabile alla paura che i
cambiamenti che il soggetto ha messo in atto lo destabilizzino, non gli consentano
cioè più di affrontare la vita tramite risposte note. (…) Tanto forte è la paura del
dolore e il bisogno di mantenersi entro binari quotidiani di prevedibilità che quei
momenti di crisi, dolorosi, (…) vengono rimossi”76. A tal proposito, ricordo che
G., una ospite della Treccia, raccontandomi dei suoi problemi con l’alcol mi ha
detto: “Sono 2 anni che non bevo più, ormai che ci vado a fare ai C.A.T., si
dicono sempre le stesse cose. Quando andrò a vivere nella mia casa non ci andrò
più!”.
73
Progetto europeo “Il sogno di Vladimir”, p. 18.
Ibidem, p. 19.
75
Sigmund Freud, in un saggio scritto nel 1937, Analisi terminabile e interminabile, si interroga,
senza pervenire ad una risposta standard, sulla durata del trattamento psicoanalitico, e anche sulla
possibilità di pervenire a una totale guarigione, nonché sulle resistenze che ogni paziente presenta
allo stesso trattamento. Nell’ambito delle terapie afferenti il people processing, guarigione e durata
della terapia assumono un significato fortemente individualizzato, variano da persona a persona
perché il contributo soggettivo del paziente è assolutamente decisivo. Infatti, ogni paziente, anche
il migliore dei pazienti, oppone delle resistenze al trattamento, resistenze che lo porterebbero ad
accontentarsi di risultati parziali e provvisori. Scrive infatti S. Freud nel saggio citato:
“L’esperienza analitica ci ha mostrato che il meglio è sempre nemico del bene e che in ogni fase
del processo di guarigione dobbiamo lottare contro l’inerzia del paziente che lo indurrebbe ad
accontentarsi di una soluzione incompleta.” In S. Freud, “Analisi terminabile e interminabile”, in
S. Freud, Opere, vol. X, Boringhieri, Torino, 1979, p.514.
76
Progetto europeo, “Il sogno di Vladimir”, p. 20.
74
74
TABELLA N. 5: situazione familiare
Situazione
familiare
Presenza di
figli
Rapporti con la
famiglia d’origine
Divorzio
1 = sì
(%)
42,8 %
2 = no
(%)
57,2 %
20 %
80 %
39 %
61 %
La TABELLA N. 5 descrive la situazione familiare delle utenti della
Treccia. Si può osservare innanzitutto che gran parte delle utenti (80%) non ha più
rapporti con la famiglia d’origine. Generalmente, per quanto riguarda il 20% di
persone che mantengono ancora dei rapporti, quest’ultimi possono essere con
qualche fratello o sorella, oppure telefonicamente con uno dei due genitori.
Comunque si tratta di rapporti molto deboli.
Di conseguenza la “distanza dalle reti primarie e/o secondarie riduce la possibilità
di reinserimento e, d’altro canto, agisce come fattore propulsivo in relazione ai
processi di désaffiliation. (…). E la sopravvivenza delle reti sociali non assicura
comunque, meccanicamente, un supporto e un sentimento di appartenenza”77.
Dai dati emerge anche che un 39 % delle donne che sono passate alla Treccia ha
avuto un divorzio alle spalle. P. Donadi sottolinea che una delle cause principali
che porta la donna alla vita di strada è la disgregazione familiare e delle relazioni
parentali che diviene determinante se la donna non ha un lavoro ed è perciò più
dipendente dal coniuge e dalle relazioni connesse al matrimonio. La rottura del
matrimonio e la difficoltà di trovare un lavoro qualificato, soprattutto per le classi
sociali più basse, aumenta la probabilità di questo rischio78.
Continuando ad esaminare i dati a nostra disposizione, notiamo che un 42,8 % ha
figli dati in affidamento o adottati. Alcune di loro riescono a mantenere dei
rapporti, altre no. Questo è sicuramente uno dei problemi più forti legato alla
“donna senza dimora”. Per quanto riguarda la struttura, l’accogliere le donne,
vuol dire anche essere in grado di accogliere l’esperienza della maternità e di
questo la struttura non è in grado di occuparsene. Purtroppo, come mi ha più volte
riferito il responsabile dell’Associazione, questo è uno dei limiti della Treccia.
Dall’analisi dei dati circa la situazione familiare della donne alla Treccia, sono
emersi alcuni elementi di riflessione, in particolare “l’assenza di legami forti e la
distanza dai propri mondi vitali. Tale condizione sembra rilevante rispetto ai
processi di désaffiliation poiché, da una parte, le possibilità di fare fronte
adeguatamente agli eventi critici sono direttamente proporzionali all’ancoraggio,
all’ampiezza e all’intensità delle strutture reticolari, intese come risorse, e
77
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
pp. 97-102.
78
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Motefeltro, Urbino,
1998, p. 149.
75
dall’altra, la mancanza di appartenenze specifiche accelera e aggrava il processo
di désaffiliation”79.
TABELLA N. 6: condizione lavorativa
Condizione
lavorativa
1 = sì
2 = no
Lavoro in
passato
(%)
38 %
62 %
Lavoro
attuale
(%)
42,8 %
57,2 %
LA TABELLA N. 6 evidenzia le capacità lavorative fra le utenti 80. Innanzitutto si
può osservare che gran parte delle utenti non ha avuto attività lavorative in
passato (62 %). Tra le attività svolte da coloro che hanno lavorato in passato (38
%), primeggiano occupazioni poco tutelate (lavori stagionali, orari ridotti,
contratti a termine), attività come colf , operaie generiche, ecc., per cui emerge
una maggiore difficoltà d’inserimento in fasce lavorative più qualificate ed elevate
rispetto agli uomini. Questo può essere spiegato da un mercato del lavoro che
tende a privilegiare la figura maschile e lascia ai margini quella femminile. Da ciò
emerge una maggiore debolezza e discontinuità lavorativa e una maggiore
dipendenza economica della donna nei confronti del coniuge e spesso, per quanto
concerne la sfera privata, le separazioni e i divorzi sono un’ulteriore causa di
impoverimento per le donne che investono maggiormente nel matrimonio81.
Altro dato da non sottovalutare è il 42,8 % delle donne che attualmente lavorano.
Possiamo pensare che per molte di loro il cambiamento è avvenuto grazie
all’inserimento nei laboratori di S. Marcellino, finalizzati a far riprendere una
capacità lavorativa e a cercare di dare un senso alla parola “lavorare” in queste
persone, o semplicemente grazie alla “crescita” avvenuta durante la permanenza
alla Treccia.
In conclusione, dobbiamo ricordare che è difficile tracciare un profilo standard
della donna senza dimora in generale e delle ospiti della Treccia in particolare.
“La mobilità delle situazioni concrete di vita va colta nella sua irriducibilità a
categorie pre-definite o definite a posteriori: ciò che rimane è lo specifico
79
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p. 102.
80
La nozione di désaffiliation che ho presentato per quanto riguarda la situazione familiare delle
ospiti, non rimanda unicamente alla densità relazionale, questa è definita anche dalla dimensione
economica e dalla non-integrazione occupazionale. “In questo modello l’accento cade sulla rottura
del legame sociale, assicurato, all’interno di una società in cui la forma prevalente di
differenziazione è quella stratificata, dal lavoro e dal sentimento di appartenenza. Il lavoro risulta
vettore di integrazione sociale non in quanto attività, tra le altre, che assicura un reddito, che pur
necessario per guadagnarsi da vivere è in sé insufficiente per lo scopo, ma in quanto fonte di
identità, di appartenenza sociale, di attività produttrice di senso per sé e per gli altri.”, in M.
Bergamaschi, “Rottura dei legami sociali nei sistemi urbani complessi: un’ipotesi di lettura”, in P.
Guidicini, G. Pieretti (a cura di), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, p.117.
81
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, p. 141.
76
biografico individuale, le sue rotture, le sue strategie, ecc.”82. Sicuramente ciò che
è importante sottolineare in generale è la diversità del percorso di deriva sociale
tra gli uomini e le donne. Uomini e donne “hanno percorsi di emarginazione
diversi dovuti ad esperienze biografiche diverse ed a necessità vitali diverse”83.
Per quanto riguarda le ospiti della Treccia, in particolare, esse sono donne con
situazioni di vita alquanto problematiche, con un’età compresa tra i 20 e i 45 anni.
Quasi tutte hanno dei rapporti con la famiglia d’origine molto deboli o addirittura
inesistenti, dato che dimostra un’assenza di legami forti. Il loro stato civile è, nella
maggioranza dei casi, riassumibile in una situazione di divisa-separeta-divorziata,
dato che evidenzia le difficoltà di reggere e sostenere una famiglia o meglio un
rapporto di coppia stabile e continuativo. E’ conseguente al loro stato civile la
riflessione sulla situazione familiare che si trovano a vivere. La maggior parte
risulta vivere da sola e con dei figli che sono stati dati in affidamento ad altre
famiglie. Altro dato comune è la minima esperienza lavorativa e in ultimo, non
per ordine di importanza, la presenza di problemi psichiatrici spesso causati da
una forte instabilità affettiva.
Nel cercare di ricostruire le biografie delle ospiti della Treccia, non possiamo fare
a meno di soffermarci sul concetto di “carriera”. “Il termine carriera è riservato
abitualmente ad un tipo di privilegi goduti da chi progredisce, secondo tappe
graduali, in una professione di successo. Si usa tuttavia lo stesso termine, in senso
più ampio, per riferirsi ad una sorta di filo conduttore, di carattere sociale, seguito
nel ciclo dell’intera vita di una persona”84. “Il concetto di carriera mette in risalto
la dimensione temporale, vale a dire l’aspetto evolutivo di una determinata
condizione, il susseguirsi delle tappe che segnano la biografia del soggetto”85. Le
ospiti della Treccia presentano carriere molto articolate, ogni caso è diverso
dall’altro, ma gli aspetti che spesso accomunano le varie storie di vita, sono il
succedersi di esperienze traumatiche dall’infanzia in avanti, comune è il senso di
precarietà, è l’aver smarrito il senso della casa, della dimora intesa come spazio
dell’anima, spazio per il Sé. Comune è l’incapacità di pensarsi come protagoniste
della loro stessa vita, l’incapacità di stare dentro “la normalità”, “il mondo
normale, quello della società, dei ruoli, delle istituzioni e delle necessarie forme
sociali”86. “Ora alcuni pensano alla relazione come ad un modo per ridare
‘normalità’ agli utenti: e, a volte, non si accorgono che le persone senza dimora
non sanno che farsene delle cosiddette competenze sociali. La relazionalità, così
come la si intende oggi nelle professioni sociali è in realtà una potenziale trappola
in cui una persona senza dimora rischia di essere ingabbiata, proprio perché non è
un ‘buon borghese’. Una persona senza dimora ha, come tutti, compresi i buoni
borghesi, bisogno di sentimenti forti ed emozioni calde per vivere, ma,
diversamente dai buoni borghesi, non possiede quegli orpelli che possono
permettergli di farne a meno. Orpelli sociali: il mondo dei ruoli e delle
prestazioni, gli oggetti di consumo, la carriera e via di questo passo. Un senza
82
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p. 86.
83
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, p. 182.
84
E. Goffman, Asylums, Edizioni comunità, Torino, 2001, p. 153.
85
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p. 123.
86
G. Piazzi, La ragazza e il direttore, FrancoAngeli, Milano, 1995, p.11.
77
dimora si è , per vari motivi, liberato da questi orpelli sociali e a volte non li ha
mai posseduti: ha bisogno assoluto, pertanto, di amare e di essere amato, più di
chiunque altro.(…). La linea alla quale ispirare l’intervento e, prima di esso, il suo
retroterra teorico e morale, consiste nel trovare la possibilità di far vivere le
persone sin hogar e di ridare loro attaccamento alla vita”87. L’attaccamento alla
vita lo può dare solo un’affettività sviluppata e una relazione che sappia
oltrepassare la corazza dei meccanismi di difesa che queste persone sono state
costrette ad indossare.
4. DESCRIZIONE DELLA STRUTTURA
“(…), è impossibile venire a prestare solo un servizio alla Treccia, sperare di
rimanere nell’ombra come testimoni silenziosi di vite più sfortunate delle nostre,
venire a fare ‘quelli bravi’, mille domande ci scavano dentro mettendoci in
discussione, una cascata improvvisa di curiosità, di voglia di conoscersi,
un’attenzione micidiale ad ogni minimo mutamento di taglio di capelli, di vestiti,
di umore…dipenderà dal fatto che le persone ospitate sono donne? Dunque
curiose per definizione?! Non credo che basti una spiegazione. Credo dipenda
dalla passione, dall’allegria e dalla serietà con cui abbiamo, sera dopo sera,
creato il clima della Treccia, un’irresistibile energia di vita che ci ha contagiati
tutti e che ha portato ogni persona accolta (parlo di tutti al di là del ruolo) a
sentirsi importante e preziosa. Per una persona che si ritrova senza casa (che di
solito ha alle spalle anni di vita fatta di solitudine, di difficoltà affettive, di
continui cambiamenti, spesso drammatici) è una esperienza di vitale importanza
scoprire che ci può essere un modo di vivere ordinato, un luogo dove le cose
sono semplici e prevedibili, dove l’affetto è gratuito e sincero. Alla Treccia
offriamo questo e in cambio riceviamo il dono ogni volta stupefacente della
fiducia, di un sorriso amico, di una storia confidata, del dolore che si stempera e
lascia spazio alla speranza, alla voglia ritrovata di vivere ed esserci.”
Anna C.
4.1. I locali della Treccia
La Treccia si trova nel quartiere residenziale chiamato “Carignano”, che è una
zona molto ambita e tranquilla, in via Mylus numero 5. La motivazione di questa
ubicazione, al di là del possedere una parte dell’edificio, per l’Associazione è stata
soprattutto quella di uscire dalla logica che le sofferenze e i disagi delle persone
non si devono vedere, eliminandone così la visibilità. La decisione di inserire una
struttura del genere in un quartiere residenziale, ha posto il problema del
superamento della logica di emarginazione, anche parziale, di alcune categorie di
87
Progetto europeo “Testa &Piedi”, supplemento al n. 4/2000 del periodico Amici di S.
Marcellino della “La messa del povero”, Genova, p. 26.
78
persone, come ad esempio le donne senza dimora. L’aspetto interessante, dice D.,
responsabile dell’Associazione, sta proprio nel fatto che la gente del quartiere si è
accorta dell’esistenza di questo dormitorio dopo molto tempo, quasi un anno
dopo.
Questa accoglienza notturna occupa il primo piano di un edificio in parte di
proprietà da tempo dell’Associazione. La porta d’ingresso, a piano terra, introduce
alla Treccia attraverso tre rampe di scale, al termine delle quali si arriva all’entrata
vera e propria della struttura. Subito di fronte alle scale, si trova la stanza dei
volontari e dei responsabili; nell’entrarvi, sono situati due letti, a sinistra una
piccola scrivania con sopra un telefono e le programmazioni mensili dei volontari
e, nel cassetto le chiavi delle varie stanze e degli armadi e un quadernone sul
quale i volontari possono annotare le loro riflessioni e impressioni personali. A
destra della scrivania c’è il citofono da cui la responsabile risponde e apre alle
ospiti che suonano il campanello al momento dell’ingresso che può avvenire, ogni
sera, tra le 19:00 e le 20:00. Al lato sinistro della stanza invece, è situato un
piccolo mobile utilizzato per contenere le medicine delle ospiti e le lenzuola dei
volontari. Nell’anta di destra, dalla parte di un letto, vi è una cassetta delle lettere
in cui ogni volontaria della notte può inserire le sue impressioni sulla notte
trascorsa e le particolari richieste delle ospiti. La cassetta delle lettere, resta
sempre chiusa a chiave e viene aperta solo dalla responsabile; essa risponde ad
una duplice esigenza: da una parte si propone di rispettare la privacy delle ospiti,
dall’altra intende consentire ai volontari un dialogo più riservato con chi leggerà
la “posta”.
All’inizio del corridoio che si sviluppa per tutta la lunghezza della struttura,
troviamo un piccolo spazio riempito da due poltrone, dove le ospiti possono
fermarsi a chiacchierare o ad ascoltare la musica. Nelle pareti sono fissate alcune
foto delle ospiti che, o abitano ancora nella struttura o vi hanno alloggiato in
precedenza e di alcune volontarie riprese in momenti di festa. Foto che danno
colore e vivacità al bianco delle pareti, rievocando immagini e ricordi. Infatti, una
delle prime sere che sono andata alla Treccia, G., mi ha mostrato le cartoline
spedite, o dalle volontarie o dalle responsabili, durante le loro vacanze, a tutte le
ospiti della struttura, poi mi ha descritto in breve, ad una ad una, le persone che
erano nelle foto: “Quella, hai capito chi è? E L’altra? Sono io, non mi
riconosci?Avevo i capelli più scuri e più lunghi. Trovi che così mi stiano
meglio?”, ancora: “ Aspetta…di quella non ricordo il nome…sono passati un po’
di anni, ma ricordo che c’eravamo divertiti… le risate!”, poi “Questa è la foto
della nostra cara E. (una delle responsabili della struttura) nel giorno del suo
matrimonio e questa è di A., la nostra responsabile a cui voglio tanto bene. Invece
questa è del mio matrimonio con il mio amore C..”. Dopo quest’ultima foto, con
un sorriso se ne è andata in camera dicendomi che doveva telefonare proprio a suo
marito, dato che nella giornata era riuscita a vederlo solo per mezz’ora, prima di
rientrare alla Treccia.
Siamo di nuovo alla descrizione fisica della struttura: la zona adibita al fumo,
quasi indispensabile per le ospiti è situata in cima alle scale, questa è la parte della
struttura più frequentata, perché la maggioranza delle ospiti fuma o comunque,
anche coloro che non fumano, si fermano lì per chiacchierare.
La sala da pranzo si trova nella prima porta a sinistra del corridoio. Prima di
agosto, quando la Treccia ha subito dei lavori di ristrutturazione, questa stanza
79
veniva utilizzata dalle ospiti come sala fumo e come luogo in cui poter giocare a
carte. La cena veniva consumata direttamente in cucina. Quest’ultima era
sicuramente una delle tante particolarità della Treccia, a differenza degli altri
dormitori maschili di S. Marcellino, dove la cucina e la sala da pranzo sono situate
in due stanze separate. Quei tavoli quindi, all’interno della cucina, avevano un
significato tutto particolare. Nel momento della cena, i sorrisi, lo scambio di
battute fra volontari ed ospiti…, tutto dava l’impressione di essere in una casa
dove si consumava una cena tra amici.
Ritornando alla descrizione della struttura, lungo il corridoio, le altre porte che
incontriamo a sinistra, sono quelle delle stanze delle ospiti. Le stanze sono tre;
ognuna contiene due letti, due armadi, due comodini ed un mobile con diversi
cassetti. Mi è difficile descrivere la loro esatta distribuzione perché ogni stanza ha
la sua particolarità, niente è impersonale: nelle stanze le ospiti creano il loro
spazio intimo28, ognuna a suo modo, attraverso foto, soprammobili, piccoli
portafortuna o addirittura attraverso il disordine, riempiendo la stanza di scarpe o
di vestiti perché un armadio non è sufficiente per contenerli. M., ad esempio, ha
portato nella sua stanza un altro armadio per poter contenere tutti i suoi vestiti,
che sono tantissimi e, oltre a questo, vi ha anche collocato un separè fra il suo
letto e quello di A. che divide la stanza con lei, creandosi così la sua personale
stanza.29
Quest’anno, ad agosto, quando la Treccia viene chiusa per quindici giorni, in
quanto le ospiti, se vogliono, possono andare in vacanza nella casa estiva di S.
Marcellino a Rollieres, all’interno della struttura, come ho in precedenza
accennato, sono stati eseguiti dei lavori che ne hanno cambiato un po’ la
fisionomia30e, in occasione dei lavori, si è fatto in modo che le ospiti riportassero
le loro stanze un po’ alle “origini”, togliendo tutte le cose “superflue”, in
particolare, facendo in modo che tutti i vestiti e le scarpe entrassero nell’armadio e
nei cassetti disponibili, ricreando un po’ di ordine.
Di questo “problema” si è discusso durante uno dei coordinamenti settimanali al
quale ho avuto la possibilità di partecipare. Coordinamenti in cui si incontrano i
responsabili delle varie strutture di accoglienza con gli operatori del Centro
d’Ascolto, supervisionati dal responsabile dell’Associazione31. L., responsabile
28
“L’insieme delle proprietà personali ha un particolare rapporto con il sé. L’individuo ritiene, di
solito, di esercitare un controllo sul modo in cui appare agli occhi degli altri. Per questo ha bisogno
di cosmetici, vestiti e di strumenti per adattarli, aggiustarli e renderli più belli; di un luogo
accessibile, sicuro, dove poter conservare queste scorte e gli strumenti di lavoro – in breve, l’uomo
ha bisogno di un corredo per la propria identità per mezzo del quale poter manipolare la propria
facciata personale.” E. Goffman, Asylums, Edizioni di Comunità, Torino, 2001, pp.49-50.
29
“ Se le persone fossero senza un sé, o venisse loro richiesto di esserlo, sarebbe naturalmente
logico non possedere un luogo personale dove poter mettere la propria roba, (…). Ma tutti hanno
un sè.” Ibidem, p.270.
30
Oltre all’aver spostato la sala da pranzo, è stata ampliata la stanza dei volontari. La descrizione
che ne ho fatto in precedenza corrisponde a quella attuale. In precedenza, essendo meno spaziosa, i
letti per i volontari erano a castello, mentre la mobilia, anche se è cambiata la sua distribuzione, è
rimasta sempre la stessa.
31
I coordinamenti vengono fatti il mercoledì, giorno in cui il Centro d’Ascolto è chiuso; dalle 9:00
alle 10: 00, partecipano i responsabile delle strutture di prima accoglienza: Gradino, Angolo,
Treccia e Archivolto e gli operatori del Centro d’Ascolto; mentre nel pomeriggio, dalle 15:00 alle
16:00, partecipano i responsabili del Boschetto (comunità), del Ponte (comunità di vita), degli
alloggi assistiti, il responsabile dell’Educazione al lavoro e gli operatori del Centro d’ascolto,
entrambi con la supervisione del responsabile dell’Associazione. Questi coordinamenti avvengono
80
della Treccia, aveva da poco assunto questo ruolo, dando il cambio ad A.; il primo
lavoro, secondo lei da fare era quello di ricreare nelle stanze ordine, in quanto,
quest’ultimo, fa parte delle poche ma indiscutibili regole che le ospiti debbono
rispettare, “La Treccia è un dormitorio, non una casa o una comunità, non è
possibile che M. addirittura abbia portato un armadio in più!” .
Per L. comunque, sarebbe stato un compito molto difficile riferire alle ospiti di
ricreare “ordine” nelle proprie stanze. Questa richiesta, fatta direttamente da L., da
poco alla Treccia e, come ho già accennato, al posto di A., con la quale la struttura
è nata, avrebbe creato sicuramente ostilità tra lei e le ospiti. Così F., responsabile
del settore alloggi, ha concluso la riunione, dicendo che avrebbe parlato lui con le
ospiti, mettendo loro in evidenza che ad agosto, nella struttura sarebbero stati fatti
dei lavori, per cui dovevano essere liberati tutti gli spazi. Infatti ad Agosto, al
ritorno dalla vacanza di Rollieres ogni stanza era completamente in ordine. Ciò
che le ospiti non sono riuscite a far entrare nei propri armadi, ognuna di loro, lo ha
sistemato in una valigia. Tutte le valigie sono state messe poi in un armadio
collocato in cima alle scale d’ingresso. Dopo pochi giorni dal rientro delle
vacanze però, ogni stanza ha ripreso la sua particolare caratteristica: alcune scarpe
a terra, vestiti appoggiati in un borsone, sempre presente. Una sera, entrando nella
stanza di G. e S., ho notato un po’ di confusione; S. mi ha subito detto “Guarda
che gran casino che ho fatto già! Devo assolutamente mettere a posto, altrimenti
L. si arrabbia e chi la vuole sentire poi!”. Così ha infilato un po’ di cose in un
borsone. Un borsone che manifesta la provvisorietà dello stare lì, ricorda che
quella situazione non è per sempre.
Ritorno alla descrizione fisica della Treccia: alla destra del corridoio, c’è un
grande armadio contenente bagnoschiuma, shampoo, detersivo, assorbenti, phon,
ferro da stiro, asciugamani e lenzuola. Questi oggetti, tranne asciugamani e
lenzuola, che vengono cambiati un giorno prestabilito a settimana, possono essere
richieste dalle ospiti, alla responsabile o alla volontaria di turno.
Nell’ultimo tratto di corridoio, in fondo, ci sono i bagni: quello a destra è riservato
ai volontari, mentre quello a sinistra è riservato alle ospiti. Sempre lungo il
corridoio, a sinistra, dopo le stanze da letto, è situata la cucina. La zona cucina si
sviluppa a destra con due lavelli e due blocchi di fornelli. I pensili riportano sopra
scritto cosa contengono tramite delle etichette (pasta, sugo, tovaglioli di carta,
piatti e bicchieri di carta, pentole, ecc.,…).
La pulizia e il riordino della cucina vengono , di solito, eseguite dal volontario/a
cuoco/a presente in quella serata, mentre le pulizie dei locali della Treccia
vengono svolte ogni mattina dal gruppo – laboratorio di pulizia di S. Marcellino.
Nella cucina poi, c’è una grande porta finestra per andare in terrazzo che è molto
ampio e viene utilizzato dalle ospiti per stendere il bucato o indumenti. La cucina
viene chiusa a chiave, per motivi di sicurezza, poco prima delle 22:30, orario in
cui obbligatoriamente le ospiti si devono recare nelle loro stanze per il riposo.
La cena alla Treccia, così come nelle altre strutture, che ho frequentato per alcune
sere, rappresenta per eccellenza, il momento di incontro e di condivisione.
in un’ampia sala, la cosiddetta saletta delle riunioni, con al centro una tavola in cui è collocato un
foglio con su scritto l’elenco dei nomi delle persone da discutere, in base ai diversi ruoli degli
operatori presenti. Attraverso i coordinamenti quindi, i vari operatori possono confrontarsi e
discutere sulle varie persone seguite dall’Associazione, cercando di stabilire una “definizione della
situazione” comune.
81
Durante la cena, spesso attraverso l’intervento dei volontari, si è quasi sempre
riuscito a creare un clima “leggero”, allegro, in cui spesso si chiacchiera di cucina,
di ricette. La cena rappresenta anche il momento in cui alcune ospiti possono
fare le loro lamentele sul menù. M., ad esempio, non mangia mai pasta con il
pomodoro, così a lei viene data sempre pasta in bianco, nonostante ciò, ogni tanto
si lamenta perché c’è troppo olio, o la pasta è scotta, o il formaggio non ha più un
buon odore. G., da quando ha ricominciato a mangiare, il mercoledì non fa altro
che lamentarsi perché c’è il merluzzo che, secondo lei fa cattivo odore, mentre S.
ne è addirittura allergica. A. e E., invece, non si lamentano mai della cena, così
vengono prese in giro da G. e S.: “A voi va sempre tutto bene, ma non avete
qualche preferenza? Non sentite i sapori?!”.Anche questo può essere inteso come
un modo attraverso il quale la persona cerca di mantenere una propria dignità e
soprattutto una identità.32Attraverso le lamentele le ospiti “impongono” la loro
presenza, fanno sentire la loro particolarità, cercando “ciò che resta dell’immagine
precedente al fine di preservare una immagine accettabile. (…). Queste microresistenze possono essere lette come un tentativo di creare, almeno per un breve
periodo, un’immagine di sé che differenzi la persona dai suoi pari”33.
Lo spostamento della sala da pranzo, attuata per ragioni di igiene, ha in un certo
senso dato maggiormente alla Treccia le sembianze del dormitorio, anche se
questo è solo un particolare. Molti volontari, al primo impatto quindi, hanno visto
il cambiamento negativo, per alcuni la cucina era il particolare più significativo
della Treccia perché la faceva sembrare una casa. Ma la Treccia è un dormitorio!
Le regole che le ospiti devono rispettare lo ricorda, come ad esempio gli orari di
entrata (dalle 19:00 alle 20:00) e di uscita il mattino (8:00) che sono tassativi così
come l’orario della cena (20:30), del riposo (22:30), della sveglia (7:00) e della
colazione (dalle 7:20 alle 7:40). Oltre al rispetto di questi orari, alle ospiti si
richiede l’igiene personale e l’ordine della propria stanza, sobrietà, di non fumare
al di fuori degli spazi consentiti e di non portare cibo o alcolici nel dormitorio, per
cui nelle stanze non è consentito mangiare, così come in tutta la struttura al di
fuori degli orari di cena e colazione.
Queste regole si propongono di evitare che la persona si adagi in questa
situazione, sperando che con il tempo arrivi ad una autonomia dalla struttura.
Spesso però, in molte strutture di accoglienza, “Contrariamente a tali aspettative,
tuttavia, la persona tende ad adattarsi al circuito e a sviluppare forme di
dipendenza. Le tracce di autonomia (capacità di fare affidamento sulle proprie
forze) progressivamente scompaiono, mentre i bisogni legati alla sopravvivenza
sono soddisfatti unicamente dal circuito. (…). E’ questo un motivo ricorrente nei
discorsi degli operatori: una volta istallatosi, il senza fissa dimora rifiuta di
autonomizzarsi, si adagia nella nuova condizione, pur avendo a volte la possibilità
di costruirsi un proprio percorso. (…). E’ il dilemma in cui si trovano gli
operatori: si accetta di prendere in carico la persona, ma si teme paradossalmente
di rafforzare con ciò la sua condizione di povertà.”34
32
“Essere poveri di identità significa non soltanto soffrire ma anche veder diminuire la propria
capacità di sopravvivere.” In G. Jervis, La conquista dell’identità, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 37.
33
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p. 144.
34
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.149-150.
82
5. IL “SOGNO” DI UNA CASA
La vostra casa è il vostro corpo più grande.
K. Gibran, Il profeta.
La Treccia, come ho più volte riferito, è un dormitorio di prima o, se vogliamo di
seconda accoglienza. Come negli altri dormitori maschili, quali Angolo e
Gradino, le persone possono restare per un periodo di tre mesi che possono essere
rinnovati a seconda del caso. Alla Treccia G. è da tre anni presente, è lì da
quando la struttura ha aperto. E’ stata sicuramente una delle figure femminili che
ho conosciuto per prima e con la quale ho passato molto tempo: la mattina ,
quando veniva al Centro d’Ascolto, il pomeriggio alla Svolta, per fare una partita
a carte ed infine alla Treccia. G. conosce alla perfezione ogni regola e ha vissuto
tutti i cambiamenti della struttura. Rappresenta la figura leader e difficilmente le
altre ospiti si ribellano alle sue richieste. Diverse volte, infatti è stata sorpresa
dalla responsabile a farsi stirare i vestiti da una compagna della struttura e ogni
volta si è scusata con L. dicendo “Secondo te non mi sto comportando bene?
Pensi che io non sia pronta per una casa?”. Infatti G. sta aspettando una casa che
dividerà con suo marito, alloggiato presso un’altra struttura di S. Marcellino; è
importante quindi che si responsabilizzi anche sulle piccole e quotidiane azioni
domestiche come lo stirare e il lavare!
Gli ultimi giorni che ho passato alla Treccia, G. mi è sembrata molto più nervosa
del solito. Una sera, che era abbastanza giù, mi ha confidato che non vedeva l’ora
di lasciare la Treccia per trasferirsi nella sua casa; dove avrebbe potuto fare
entrare solo chi voleva lei , dove avrebbe potuto mangiare quello che le andava e
quando le andava “a differenza di qui che si mangiano sempre le stesse cose!”.
Così ha iniziato a lamentarsi del menù ed infine della responsabile, facendo il
confronto con la precedente. Mi ha detto di non sopportare la nuova responsabile
perché con lei non è mai riuscita a confidarsi, a sfogare la sua rabbia e di non
fidarsi di lei perché è da poco tempo che è alla Treccia, “Ho imparato a non
fidarmi di nessuno! Ho paura di essere cacciata da qua”.
Anche la sera successiva ha continuato a lamentarsi della cena e mi ha chiesto se
per favore al posto del pesce poteva mangiare il formaggio. Dopo che le ho
risposto che non era possibile, si è arrabbiata dicendo di essere stanca di stare lì e
che tutto cambierà quando sarà nella sua casa. Non potendo sostituire il pesce con
il formaggio, ha voluto, al posto del pane, crecker e, finita la cena, è rimasta
seduta non permettendo di sparecchiare la tavola perché doveva finire di bere.
Dopo cena sono rimasta a chiacchierare sul pianerottolo con G. e S.. G. mi ha
detto che sono due anni e mezzo che non ha più problemi con l’alcol, “non ci
credi? Sono stata brava! Poi lavoro tutti i giorni!”. Così si è messa a raccontare del
suo lavoro nel laboratorio di lavanderia di S. Marcellino, “lavoriamo molto ed è
per questo che la sera sono stanca!”. Parlando un po’ con il responsabile del
laboratorio di lavanderia invece, ho scoperto che anche al lavoro G. dice di essere
sempre stanca, delegando i lavori più pesanti agli altri . Dalle parole di G. ho
83
avuto la sensazione che per lei è normale che ci sia sempre qualcuno che deve fare
qualcosa per lei, e non lei stessa, le cose le sono dovute, così come la casa: “con
mio marito siamo andati a sentire per l’affitto di un appartamento, ci hanno
chiesto 350 euro, ma che sono scemi! Io non ce li ho tutti quei soldi!”.
La discussione poi si è spostata su altri argomenti perché S. ha cominciato a
parlare della sua giornata, trascorsa per la maggior parte in biblioteca a leggere.
Alle 22:30 ho fatto in modo che andassero al letto, e non sempre mi è stato facile
( mi riferisco a S. e G. che condividevano la stessa stanza, perché le altre
solitamente alle 22:00 erano già a letto). Infatti appena ho detto loro che era l’ora
di andare a dormire, G. si è subito accesa una sigaretta dicendomi “ tu puoi andare
a dormire, non ti do fastidio, io non ho sonno!”, intanto S. è andata nella sua
stanza. A quel punto inquietandomi un po’, le ho ricordato che si trovava in un
dormitorio in cui bisognava rispettare delle regole precise. Finita la sigaretta, G.
alzandosi mi ha chiesto se ero arrabbiata e, dopo averle risposto che andava tutto
bene, mi ha abbracciata e dato il bacio della buona notte (come ogni sera).
In quei nove giorni che ho passato alla Treccia, G. non ha fatto altro che parlare
della sua ipotetica casa. La sera veniva in cucina a guardarmi mentre lavavo i
piatti e per un po’ di mattine ha insistito per apparecchiare la tavola per la
colazione.
Sembrerebbe tutto molto semplice, fra un po’ di tempo, non so quanto, potrebbe
anche essere un anno, G. e suo marito avranno una casa tutta loro. Nella realtà non
è così scontato. Spesso ciò che accomuna le persone che per molto tempo hanno
vissuto in strada è l’incapacità di stare dentro una realtà medio – normale. “Il
processo di impoverimento che conduce gli individui a vivere sulla strada non
consiste unicamente in una deprivazione crescente in più sottosistemi (abitativo,
delle risorse economiche, delle relazioni primarie e secondarie, ecc.), ma comporti
innanzitutto la perdita della capacità di assolvere a determinate funzioni”35.
La capacità di rispettare alcune regole apparentemente basilari quindi, non può
essere data per scontata e in certi casi vanno ricostruite perché non esistono. E’
proprio per questo che i tempi di permanenza alla Treccia, si sono sempre
individualizzati. Come ho già ricordato G. è tre anni che si trova alla Treccia e
sono molti di più gli anni con cui ha contatti con S. Marcellino. La casa è qualcosa
di più che quattro mura, racchiude tutto un progetto di vita, racchiude la storia e
l’identità delle persone che vi abitano. Possedere una casa implica delle
responsabilità. A questo proposito voglio riportare una parte di un discorso di
Pedro Meca, fatto a Genova ad un corso di formazione: “Non è indispensabile
comunque passare dalla strada direttamente ad un appartamento, perché a volte
non viene neanche sopportato questo: è troppo e non si sa come viverci. Quello
che per me è importante è proprio educare le persone a vivere dentro una casa,
perché vivere dentro una casa vuol dire anche instaurare dei rapporti con i vicini.
E spesso quello che si fa è introdurre la strada in una casa, e non lasciare la strada
ed entrare in casa.(…). Per dare un’idea, una persona che noi chiamiamo Gesù,
tramite un’associazione riusciamo a trovargli un monolocale. Un giorno arriva al
la Moquette con le chiavi dell’appartamento e dice : < ho già una casa.> Io gli ho
detto: < Nascondi le chiavi, non metterle in mostra troppo.> Lui mi chiese il
perché. Io risposi < perché se no tutte le persone vorranno venire lì e tu non li
35
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999,
p.34.
84
farai entrare, quindi mettile via.> Lui mi ha detto: < Sì, è casa mia> e mi invitò ad
andare lì. Io gli risposi che sarei andato quando sarebbe stata davvero casa sua. E
lui: < No, è mia, ho le chiavi!> Io gli dissi : < Non ancora: cosa c’è sui muri?> E
lui < No, non c’è nulla!> Allora gli risposi che doveva mettere qualcosa che
dicesse che quella casa era veramente la sua”36 Dopo tanto tempo che si vive nella
strada, si porta il modo di vivere nella strada in questa casa, e quindi “è un modo
che non sta contro la persona stessa ma contro tutto il mondo esteriore (…). Si
dice che la gente della strada non sa vivere. Come si può saper vivere se non ci
sono le condizioni? Questo chiaramente presuppone uno sforzo con se stessi per
riuscire ad avere dei rapporti, come si dice, normali. Perché ci sono delle cose che
si perdono, e invece cose che si apprendono per vivere nelle diverse condizioni”37.
Nonostante G. sia da più di tre anni alla Treccia, prima di passare direttamente ad
una casa, avrebbe avuto bisogno di vivere all’interno di una casa- comunità, in cui
oltre al rispetto di alcune regole, si costruisce un percorso di crescita grazie, ad
esempio, alla presenza di riunioni settimanali, la partecipazione alla gestione della
casa, occupandosi, ognuno, a turno, delle pulizie, della stesura della lista spese,
della preparazione della cena, ecc. Percorso in cui ogni ospite “impara” a
responsabilizzarsi e a divenire autonomo. La Treccia è un dormitorio di seconda
accoglienza, per cui non ha le caratteristiche di una comunità, la provvisorietà si
sostituisce alla stabilità. Le ospiti al suo interno devono rispettare alcune regole,
ma non possono partecipare alla gestione della struttura; ciò sicuramente diviene
penalizzante per coloro che vi alloggiano da molto tempo. In questo modo c’è il
rischio che le persone che sono all’interno della Treccia da molto tempo (anni),
come G., si adattino a vivere in questa struttura come se fosse una comunità, o
addirittura la loro casa, adattandosi e adagiandosi alle sue regole, con il rischio di
rimanere per sempre in quella situazione divenuta “normalità”. Quello che a noi
può sembrare scontato o banale, per queste persone non lo è, come anche pagare
una bolletta e svolgere tutte le piccole pratiche che una casa richiede. Anche il
risparmio del proprio denaro è una cosa alla quale queste persone devono essere
educate, come progettare il proprio futuro. Riportando ancora l’esempio di G. e di
C., suo marito, mi viene in mente uno dei coordinamenti settimanali ai quali ho
partecipato, in cui si parlava del fatto che fossero in graduatoria per
l’assegnazione di una casa, ma nessuno dei due, nonostante il lavoro, aveva da
parte dei soldi. Di questo me ne ha parlato poi anche G., dicendomi che, per
risparmiare, ogni mese, lei e suo marito, lasciano dei soldi all’operatore del
Centro d’Ascolto che si occupa di ognuno di loro cercando di limitare alcune
spese superflue. Ha aggiunto che suo marito però non è molto d’accordo su questa
cosa: “I suoi soldi se li vuole gestire lui perché non si fida!”. Il non fidarsi è un
atteggiamento ricorrente tra le persone senza dimora. Anche questo atteggiamento
può essere considerato come una micro-resistenza che la persona attua nei
confronti del circuito38 dell’assistenza, esso manifesta anche il rifiuto della
persona a riconoscere, a se stessa e agli altri, “la propria incapacità di uscire
autonomamente, con le proprie forze, da una condizione problematica e critica” 39.
Oltre a ciò, dobbiamo ricordare che la vita sulla strada è un’esperienza intensa,
36
Pedro Meca, corso di formazione “Operare con le persone senza dimora”, Genova, 12/04/2003.
Ibidem.
38
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, FrancoAngeli, Milano, 1999.
39
Ibidem, p. 141.
37
85
che mette a dura prova il soggetto. “< Ma non c’è solidarietà di strada?>, gli
chiedo. <E’ una cazzata questa della solidarietà tra i barboni. Molti sono cani
randagi, scappano da tutto e da tutti a partire da se stessi. Hanno scelto la libertà
assoluta, vogliono stare soli, non chiedono carità, ma solo di essere lasciati in
pace. E questi sono i meno peggio, si fanno i cazzi loro. I peggiori sono i topi,
gente che non è degna di nulla>. <A chi ti riferisci?>. < A quelli che ti rubano le
scarpe appena t’addormenti! Qui devi sempre dormire con un occhio solo e con
un bastone in mano. Appena si avvicinano, colpisci! Con me non ci provano più.
Ma posso resistere finchè sono giovane e forte. Quando la strada mi indebolirà,
allora forse qualche sorcio m’ammazzerà. E’la legge della strada>”40.
Ritornando alla specificità della donna senza dimora, P. Donadi dice che per
quanto riguarda la donna, essa viene difficilmente inserita nella “categoria” del
senza dimora e spesso viene inserita presso altre strutture di accoglienza, come ad
esempio ospedali psichiatrici, comunità…, proprio perché “culturalmente” è
considerata il fulcro della casa, della famiglia41. Utilizzando le parole di D.,
responsabile di S. Marcellino, “Dal punto di vista culturale è come se la donna
prima di trovarsi nella situazione di senza dimora, dovesse stare di gran lunga
peggio di un uomo”.
Secondo i dati rilevati da Paci in una recente indagine, la differenza di genere
nell’uso del tempo nella vita quotidiana speso per il lavoro familiare sono
notevoli 42. Se consideriamo poi la presenza della donna nel mondo del lavoro,
vediamo che ciò ha aperto il tema “della necessità di servizi sociali sostitutivi del
suo compito in famiglia per la cura dell’essere umano non autosufficiente
(neonato, bambino, vecchio, ammalato): ed è stato richiesto che il luogo lasciato
dalle donne venisse ricoperto da donne, per cui si è avuta quasi solo presenza
femminile nei compiti di aiuto domestico e si è avuta la nascita delle professioni
di servizio ancora ad alta prevalenza femminile, dove l’eventuale presenza
maschile necessita di venir precisata.(…). Il compito in famiglia è divenuto
dunque le nuove professioni del sociale: puericultrici, maestre d’asilo, assistenti
sociali, educatrici d’infanzia: in questi compiti una presenza maschile è tutt’oggi
marginale, quasi deviante43. Nonostante siano cambiate sia la posizione della
donna nella società, sia la sua presenza nelle professioni, entrambe però
“mantengono un’attribuzione sessualizzata al compito: non si dice ad alcuno che
una donna impegnata in una professione anche pulisce la casa, cucina, si prende
cura del bambino, ma si infirma qualora anche l’uomo lo faccia, asserendo con ciò
la caratterizzazione impropria del compito”44.
Per quanto riguarda le donne senza dimora, penso che in un certo senso le storie di
alcune possano mettere in discussione lo stereotipo della donna legata
istintivamente alla casa e alla famiglia. La maggior parte delle ospiti che
alloggiano alla Treccia, nonostante siano ognuna protagonista di storie diverse,
hanno in comune il senso di precarietà e l’aver smarrito il senso della casa.
Quest’ultimo, lo si sviluppa maggiormente crescendo in una famiglia e molte di
loro non l’hanno mai avuta, altre hanno vissuto un’infanzia in un clima di
40
F. Bonadonna, Il nome del barbone, DeriveApprodi, Roma, 2001, p. 115.
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1996, p. 153.
42
M. Paci (a cura di), Le dimensioni della disuguaglianza, Il Mulino, Bologna, 1993.
43
Ibidem, p.34.
44
Ibidem, p.34.
41
86
violenza e disamore; Il senso della casa quindi, come quello della famiglia
sembrano essere anch’essi delle competenze culturali che, una volta perse e
soprattutto, se mai possedute, sono difficili da recuperare.
6. IMMAGINI DELLA MATERNITA’
Dipingi rose…
O madre affranta,
in ogni petalo
metti il tuo coraggio
in ogni foglia una speranza.
Sola non sei…
Chi ti amava ancora ti ama
Il tuo dolore selvaggio
scioglie nel sole
di quel fiore nascente.
Renzo B., Fiore nascente
Alla donna viene inevitabilmente accostata l’immagine della maternità, la madre
istintivamente viene legata al proprio bambino. A questo proposito P. Donadi così
scrive: “La donna si dice ha bisogno di essere madre, il suo legame con il figlio è
diverso da quello paterno culturalizzato, è un legame naturale, istintivo, viscerale;
la donna ha bisogno di un uomo che la protegga e, se pur impegnata in attività
professionali, si sente bene dentro la casa, nei compiti di accudimento della prole.
In questa confusione concettuale/semantica del significato di bisogno e di istinto,
alla donna è attribuita anche una vocazione ai compiti cui sarebbe istintivamente
legata: e il suo istintivo prendersi cura della prole in termini vocazionali si estende
molto al di là del bisogno di quest’ultima, ove per bisogno si intenda un analogo
del bisogno di cure materne di un animale”45.
Se nel nostro immaginario riusciamo ad accettare il fallimento dell’uomo
nell’essere padre, ci è molto più difficile farlo per quanto riguarda la donna. A tal
proposito D., responsabile di S. Marcellino, mi ha riferito che nel corso dei lavori
dei progetti europei sul come operare con la persona senza dimora, si sono spesso
interrogati sulle differenze di approccio che gli operatori hanno nei confronti delle
persone di sesso femminile, “ (…) in particolare vedevamo che c’era una certa
ricorrenza di alcuni aspetti: la difficoltà a trattare problemi sulla sessualità in
generale e, in particolare per le donne, la difficoltà a trattare i problemi legati ai
figli, alla famiglia; questo indipendentemente dal sesso dell’operatore. La battuta
che girava a quell’epoca era che se ognuno di noi riuscisse a reggere e a prendere
in considerazione il fallimento della figura paterna, quella materna no!”.
45
P. Donadi, I luoghi della salute delle donne, FrancoAngeli, Milano, 1996, pp.28-29.
87
P. Donadi, afferma invece che: “Come avviene per ogni altro momento della vita
umana, anche la riproduzione è un avvenimento che trova culturalmente, e non in
un istinto geneticamente determinato, il proprio significato e il proprio
avverarsi.”46
Per quanto riguarda le donne che per molto tempo hanno vissuto in strada, così
come viene meno il concetto di dimora, spesso viene meno anche l’ “essere
madre”, a causa delle storie pesanti che molte di loro hanno vissuto.
Alla Treccia, ho scoperto che molte delle ospiti hanno figli alle spalle; alcune ne
parlano, altre no.
Confrontarsi con questa esperienza, dal punto di vista della struttura di
accoglienza, risulta problematico, come emerge dalle parole di un responsabile:
“Un grosso limite della Treccia è che è una struttura femminile monca, perché
nell’esperienza femminile c’è anche la maternità; si accompagnano a vicenda
nelle differenti forme. Tante di loro hanno figli alle spalle che sono stati tolti e
sono sparsi per il mondo. Una di loro è rimasta incinta durante la sua permanenza
alla Treccia e noi l’abbiamo accompagnata per un po’ fino a quando non è
diventato più possibile. La donna ha con sé la maternità ed è per questo che la
Treccia è monca, non ha attrezzature per farvi fronte”.
Un giorno S. mi si è messa a raccontare di quando andava, con il suo compagno,
in istituto a trovare il loro bambino. Mi ha toccato molto quando mi ha detto che,
per motivi che non mi ha spiegato, per un po’ di tempo non è potuta andare in
istituto e quando è andata e a preso il suo bambino in braccio, questo si è messo a
piangere, non la aveva riconosciuta. Accanto a questo triste episodio, me ne ha
raccontati altri, momenti felici, passati assieme a giocare, momenti in cui lo aveva
con sé, il cambio dei pannolini, la preparazione dei pasti…
Anche G. mi ha parlato di suo figlio, ora ha 19 anni. Mi ha fatto vedere una sua
foto “mi assomiglia, non è vero?”. Una domenica, dopo essere rientrata alla
Treccia mi ha raccontato della giornata passata con suo figlio, mi ha descritto
dettagliatamente come era vestito: pantaloni militare e una maglietta elasticizzata,
capelli tenuti con il gel, “Sai come sono questi giovani!”. Insieme hanno fatto una
passeggiata e si sono presi un gelato. “Poi, lui se ne è tornato a casa ed io qua.”
Un’altra sera invece, G., dopo aver ricevuto una telefonata, è rimasta per molto
tempo in silenzio. Successivamente mi ha confidato che al telefono era suo figlio
che le aveva detto di non voler più stare con i genitori adottivi perché lo trattano
male. “Non lo vogliono più!”.
Io non sapevo cosa dirle, le ho soltanto detto che quella è un’età in cui
inevitabilmente si entra in conflitto con i propri genitori, poi passa. G. ha concluso
il discorso dicendo che la sua era “uno schifo di vita.”Siamo rimaste in silenzio a
fumare, poi G. è andata a letto.
“Le donne in particolare, vengono anche colpevolizzate per non essersi realizzate
nella loro femminilità, creando una famiglia (…). Raramente si considera che ci
sono donne disperate per non aver potuto tenere con sé i propri figli a causa di
problemi economici insormontabili, donne sempre più rassegnate a vivere
un’esistenza misera fatta di ricordi e di speranze infrante. (…) è quindi
comprensibile che le donne senza dimora possano vivere grandi conflitti interiori,
depressioni e frustrazioni”47.
46
Ibidem, p.28.
88
7. QUOTIDIANITA’ ALL’INTERNO DELLA STRUTTURA E RELAZIONE
TRA LE OSPITI
E’ difficile descrivere una serata – tipo all’interno della struttura. Ogni giorno è
diverso dall’altro, anche se a volte intercorrono solo minime sfumature. Sono le
ospiti con la loro emotività, con le loro delusioni, amarezze, silenzi, sorrisi, voglia
di raccontare…, sono i volontari, ogni sera diversi, con le loro personalità, è la
responsabile, che rendono ogni serata particolare, unica. Sicuramente l’esperienza
di agosto, quando come volontaria ho preso servizio alla Treccia per nove notti,
quasi tutte consecutive, mi ha permesso di inserirmi nella quotidianità della
struttura e di avere maggiori contatti e confidenze con le ospiti.
Nelle pagine che seguono, cercherò di descrivere la “vita” all’interno della
struttura, mettendo in evidenza le particolarità che la caratterizzano.
La prima volta che sono entrata alla Treccia è stata ad Aprile, un mercoledì. Il
primo impatto… molto strano, ho avuto una sensazione di freddezza; nonostante
A., la responsabile, mi avesse descritto la Treccia come un ambiente accogliente,
caloroso. “Vedrai, sai come sono le donne, chiacchierone! E poi vogliono sempre
tante attenzioni!”, mi disse.
Invece E. se ne stava seduta nella poltrona in sala ad ascoltare la musica con lo
walkman, sguardo fisso, sigaretta, una dietro l’altra; M., dopo essere arrivata, se
ne è andata in camera, così come A. e A.; P., seduta nella poltrona, in silenzio a
fumare; G.,dopo aver fumato anche lei una sigaretta, mi ha chiesto di giocare a
carte (scala 40), io gli ho rivelato di non esserne capace; ha voluto giocare lo
stesso, mi avrebbe insegnato lei. Nel frattempo A., la responsabile, ha chiarito
loro il motivo per cui ero lì: una tesi di laurea su alcune strutture di S. Marcellino.
Nessuna domanda.
Ripensando poi a quel mio primo giorno alla Treccia, mi sono resa conto, quanto,
nonostante fosse stata di per sé una serata un po’ tesa, i miei timori, la mia
chiusura, abbia influenzato il mio stesso giudizio. Non potevo sentirmi in un
ambiente caldo, accogliente, proprio perché io, per prima, non ero ancora pronta
ad accogliere.
Successivamente, ho imparato a conoscere e a prendere familiarità con la
struttura, con i suoi tempi, le sue regole, ho imparato ad intrecciarmi con le ospiti
e a capire il loro disagio, la loro sofferenza. E’ facile e allo stesso tempo difficile
comprendere a pieno il dolore e la sofferenza degli altri; ciò è possibile solo
cogliendo e analizzando la nostra personale sofferenza e il nostro dolore. Per
capire il disagio che attraversa queste persone quindi, è necessario partire dal
proprio disagio, è necessario mettersi in ascolto…E’ sicuramente una delle prime
cose che ho imparato venendo a contatto con S. Marcellino. Porre tante domande,
spesso anche le più banali, come il chiedere come stai possono toccare e
infastidire. Una sera, ho chiesto a G. come mai la mattina non fosse venuta al
Centro d’ascolto, “che t’importa? Io lavoro, non lo sai?”, mi ha risposto irritata.
Così ho sempre lasciato che fossero loro a iniziare il racconto della loro giornata o
47
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, pp. 163-164.
89
delle loro esperienze. Spesso alcune hanno una gran voglia di raccontare, di
renderti partecipe del loro vissuto, dei loro problemi. Una sera S. mi ha raccontato
delle peripezie vissute con il suo ragazzo quando per un po’ di tempo hanno
dormito nei vagoni dei treni, esordendo con: “adesso ti faccio morire dalle
risate!”. Abbiamo passato tutto il dopo – cena , io e G., ad ascoltare le sue
avventure. Un’altra sera, invece, mi ha raccontato dei momenti felici della sua
infanzia, dei suoi genitori adottivi e di suo fratello, più piccolo di lei di due anni.
Sicuramente S. era tra le ospiti, la più “chiacchierona”. G., invece non lo era, ma
non l’ ho mai vista starsene da sola nella sua stanza; alle 19:00, ora in cui le ospiti
possono entrare nella struttura, G., dopo aver salutato con un bacio la
responsabile, me e le volontarie della cucina, si sedeva nella “zona” adibita al
fumo, si accendeva una sigaretta e ascoltava i discorsi che le altre o i volontari
intavolavano: solitamente si parlava della giornata trascorsa e ad Agosto, in
particolare, del caldo soffocante; G. la sera diceva sempre di essere stanca per il
lavoro e sbuffava per i dolori che spesso aveva allo stomaco, era una costante; E.,
invece, quando non ascoltava lo walkman, non faceva altro che parlare del suo
lavoro che consisteva nel pulire le spiagge e si lamentava perché trovava sempre
tutto sporco; ai suoi racconti G. e S. si guardavano tra loro e sbuffavano, tanto che
un giorno G., sorridendo mi riferì di essere annoiata dai discorsi di E. perché non
faceva altro che parlare di lavoro. A., non restava mai a chiacchierare con le altre,
dopo essere entrata, aver salutato tutte in modo sempre pacato, dolce, usava il
tempo a disposizione prima della cena, o per lavare qualche suo indumento, o per
farsi una doccia per poi riposare un po’ nel letto; M., certe volte, restava con le
sue compagne a chiacchierare o a farsi una partita a carte con G., altre volte,
preferiva starsene sola nella sua camera a ricamare o a pulire perché aveva la
fobia dello sporco. Spesso ho avuto la sensazione che queste persone fossero da
sempre alla Treccia, come se fosse la loro casa, la loro “normalità”, come se
niente potesse cambiare. Ma ogni volta che ritornavo a Genova, mi trovavo di
fronte a dei cambiamenti e questo non solo vale per la Treccia, ma anche per le
altre strutture: persone che se ne erano andate dal dormitorio, che per un po’ non
si sono più presentate al Centro d’Ascolto ed altre che al loro posto si sono
inserite, persone nuove o persone che già da anni l’Associazione conosceva.
Ritornando alla specificità della Treccia, le persone descritte precedentemente,
erano le ospiti presenti ad Agosto. Fino a metà Giugno tutte le sei stanze erano
occupate, ma a metà Luglio A. è stata sospesa Con A. e la sua insofferenza a
rimanere “dentro” la realtà della Treccia, si ripresenta di nuovo il discorso sulla
specificità di questa struttura. Come ho già in precedenza detto, la Treccia si trova
a svolgere, da una parte, il ruolo di una prima accoglienza; dall’altra, quello di una
comunità, senza esserlo, ovvero senza avere all’interno gli strumenti presenti, di
solito, in una comunità. A., è stata sospesa proprio perché i suoi problemi psichici,
le sue fobie le rendevano la struttura soffocante e allo stesso tempo i suoi
atteggiamenti mettevano a repentaglio il “quieto vivere” delle altre ospiti,
soprattutto di quelle che da molto tempo vi alloggiavano. Se un ospite desidera
farsi gli affari propri, lo può fare, perché la Treccia non è una comunità, è un
dormitorio, ma tutto il sistema di “regole secondarie”, spesso difficile da
percepire, creato dalle ospiti stesse, non sempre lo permette. All’interno della
struttura, ogni ospite è informata sulle altre, “tutte sanno tutto di tutte”. Il fatto che
A., avesse tagliato ogni contatto con le altre, creò un clima di tensione, ogni suo
90
movimento era tenuto sotto controllo. Una sera, dopo la cena, mentre stavamo
chiacchierando, ho notato M. che in continuazione guardava verso il corridoio e
ad un certo punto mi ha consigliato di controllare la cucina perché il giorno prima
aveva visto A. rubare un pezzo di formaggio dal frigorifero. Allora G. è
intervenuta dicendo di non sopportare più A. “e’ una pazza, non fa altro che
trattarci male, noi non le abbiamo fatto niente!”, E. , sua compagna di stanza, ha
continuato lamentandosi perché A., tutte le sere puliva la camera continuando a
dire che c’era sporco da tutte le parti e ciò non le permetteva di dormire, “non ce
la faccio più, io la mattina mi sveglio alle sei per andare a lavoro!”. Il mattino
seguente, ho sentito M. e A. litigare vicino la porta della cucina, ho chiesto loro
che cosa stava succedendo, così hanno cominciato ad insultarsi l’una con l’altra:
M. accusava A. di essere una ladra, A. si difendeva dicendo a M. di farsi gli affari
propri, “come ti permetti di accusarmi, sei forse la responsabile? La devi smettere
di starmi sempre addosso!”. M. continuava dicendo che in quella struttura non era
la sola a viverci, per cui non si poteva permettere di rubare le cose che non le
appartenevano, mettendo a repentaglio la sicurezza di tutte. Io ho cercato di farle
smettere e per fortuna dopo un pò ci sono riuscita; A. ha preso la sua borsa, una
valigia con la quale, da un po’ di tempo, usciva tutte le mattine e se ne è andata;
M. ha continuato dicendo che gliela avrebbe fatta pagare. Mentre A. e E. se ne
erano già andate, G., ha ascoltato tutto in silenzio, ha aspettato M., e alle 8:00
sono uscite insieme.
Se, ad un primo impatto, ho avuto la sensazione che tra le ospiti, ci fosse
indifferenza. “Ognuno pensa per sé, ho imparato a non fidarmi di nessuno”, sono
le parole di G., alcuni episodi confermano il contrario. Una sera M., dopo essere
rientrata, si è subito ritirata nella sua stanza a piangere. Visto ciò, G. e S. mi
hanno chiesto di andare a vedere che cosa era successo. Ho aspettato un po’, poi,
prima di cena sono entrata nella stanza di M. per sapere come stava. M. mi ha
confessato che stava piangendo perché tutto il giorno non aveva fatto altro che
pensare a sua madre, morta mesi addietro, era stata assalita da una profonda
nostalgia 48.
A cena, M. ha cercato di non piangere e S., E. e G. hanno tentato di consolarla
provando a farla sorridere. M. le ha ringraziate, ma subito dopo aver mangiato, ha
chiesto il permesso di alzarsi per andare nella sua stanza. L’ho sentita uscire dalla
sua camera diverse volte durante la notte. Il mattino seguente, era ancora giù di
morale, le altre le hanno chiesto se andava meglio. M. ha risposto loro che prima o
poi sarebbe passata e le ha ringraziate. Dopo aver fatto colazione in fretta, è uscita
ad un quarto alle 8:00.
Ad esso si possono unire altri piccoli episodi, come il preoccuparsi se qualcuno
sta male, il parlare tra loro dei propri fidanzati, scambiandosi consigli…G. e S.
erano sicuramente, all’interno della struttura, le più “impiccione”. Grazie a loro
sono venuta a conoscenza di tanti piccoli pettegolezzi: di E. che aveva un ragazzo,
lei non me ne aveva mai parlato, di G., ospite di un’altra struttura di S.
48
A tal proposito scrive P. Donadi: “ Dopo una giornata massacrante passata in strada, la donna
arriva al dormitorio “distrutta psicologicamente e moralmente. (…): Sente l’angoscia della
giornata appena trascorsa ed il peso di quella successiva. E’ questo un circolo vizioso che porta a
desiderare di non pensare, si perde la speranza, la forza di essere protagonisti della propria vita e di
volerla cambiare. Al contrario la malinconia e la voglia di piangere sono sentimenti sempre
presenti”, in P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro,
Urbino, 1998, p. 153.
91
Marcellino, che durante le vacanze estive a Rollieres, ha fatto la corte ad A., “Li
ho visti baciarsi!”, mi ha detto S., mentre G. sorrideva divertita. Ovviamente a me
hanno fatto un sacco di domande in particolare sul mio fidanzato: ogni volta che
mi squillava il telefonino G. mi chiedeva se era “il mio amore”. Così facevo con
loro, quando le sentivo squillare i cellulari. Ciò non le infastidiva, anzi, G., ogni
volta che chiamava C., suo marito, lo faceva tranquillamente davanti a me, spesso
me lo passava, così S..
Tra le ospiti, tutte hanno un uomo, alcune lo stesso da molto tempo, come S. che
sono sei anni che ha una relazione con S. con il quale ha avuto due bambini e G.,
sposata da tre anni con C. Molte di loro hanno relazioni con uomini possessivi,
spesso violenti. S. ad esempio, alcune volte si lamentava della gelosia del suo
ragazzo. Ma spesso è proprio quella gelosia che fa sentire alcune di loro amate,
considerate e protette. P., un’ospite che ho conosciuto alla Treccia a Giugno, è
stata sospesa perché per molti giorni non è rientrata a causa di una relazione con
un uomo, violento, da cui è stata più volte picchiata. Una delle mie sere di Giugno
alla Treccia, P.. senza che io le chiedessi niente, si è messa a raccontare della sua
relazione, il suo compagno non voleva che lei stesse alla Treccia. Mi diceva di
non amare quell’uomo, ma continuava la relazione perché voleva aiutarlo; ma
ormai era decisa, lo avrebbe lasciato definitivamente, perché restare alla Treccia
era troppo importante per lei…Non l’ho più rivista.
Le donne sono le protagoniste della Treccia, con la loro emotività, le loro paure,
le loro storie spesso difficili, dolorose, le loro malinconie; ma, nonostante ognuna
di loro porti all’interno della struttura il proprio vissuto personale, la Treccia
mantiene comunque la propria essenza, un proprio ritmo. Così A., la precedente
responsabile, descrive la struttura: “Non ho mai pensato alla Treccia come a un
dormitorio, mi è sembrata da subito una dimensione speciale in cui vite diverse
hanno l’occasione di intrecciare e di scambiare quel patrimonio unico e irripetibile
che ognuno porta con sé. (…). Ogni volontaria (volontario) quando arriva, apre un
nuovo capitolo, porta un suo modo unico di stare in relazione, e quando alcune
volontarie hanno, per diversi motivi, lasciato la Treccia, di nuovo l’hanno
cambiata. Così le persone ospitate. All’inizio questo era molto evidente, due o tre
ospiti nuove ricreavano il gruppo e mi sembrava ogni volta di ricominciare da
capo. Poi ad un tratto la Treccia ha come assorbito un ritmo, un clima, le ospiti
andavano e venivano, i volontari cambiavano un po’ e la Treccia restava la
Treccia. Un luogo accogliente, allegro, difficile, caratterizzato dal bisogno di
trovare modi per tradurre l’affetto. Un luogo caldo, vivo, dove si respira gratuità.”
Affrontando il discorso sulla quotidianità all’interno della Treccia, mi è stato
impossibile non trattare della relazione e del rapporto tra le ospiti. Tra esse, non ci
sono sempre relazioni positive, non è facile una continua convivenza sotto lo
stesso tetto, spesso si crea un clima teso, ostile, momenti di tensione. Le stanze
poi sono doppie e, se alcune creano legami più solidi, altre mantengono una totale
indifferenza. G. e S., ad esempio, che condividevano la stessa stanza, si sono
legate molto. Spesso alle 19:00 rientravano insieme, restavano, prima di cena, a
chiacchierare e a fumare nella saletta, a tavola, si sedevano vicine (G. a capo
tavola e S. alla sua sinistra), la sera, andavano a letto allo stesso orario,
difficilmente prima delle 22:30 (orario del riposo), il mattino erano le prime a
sedersi a tavola ad aspettare la colazione e puntualmente facevano il bis; S. voleva
sempre che io servissi per prima G.. Una mattina, per il bis di colazione, ho dato il
92
caffè rimasto prima a S. e lei subito mi ha detto che anche G. ne voleva, per cui
avrei dovuto per primo servire lei. Alle 8:00 uscivano quasi sempre insieme, per
aspettare l’autobus, poi, ognuno per la sua strada, fino la sera, di nuovo insieme
alla Treccia.
G., con la scusa di essere sempre stanca, alcune volte si faceva lavare la
biancheria da S., si faceva stirare i vestiti e altri piccoli favori del tipo prenderle
l’acqua perché non aveva voglia di alzarsi, le sigarette in camera…Piccoli favori
che spesso anch’io le ho fatto!
Continuando con la mia descrizione sulla quotidianità della struttura, è
fondamentale che vi parli della cena. Quest’ultima rappresenta il momento in cui
tutte le ospiti sono riunite insieme. La cena viene preparata, seguendo un menù
settimanale fisso, dalle volontarie o volontari e servita in piatti di carta. Il tempo
che si trascorre a tavola è dalle 20:30 alle 21:00 circa. Alcune cene sono
silenziose, altre molto più allegre e vivaci e spesso sono proprio i volontari a
renderle tali. I posti delle ospiti sono fissi, non è una regola, ma le ospiti in un
certo senso fanno in modo che lo sia. G. a capo tavola, S. alla sua sinistra, M. alla
sua destra, vicino a E., poi A., anche se alcune volte tra loro si sedevano i
volontari, la responsabile a capo tavola, di fronte a G. Questo avviene anche
quando si gioca a carte. Un giorno mi sono seduta al posto di G.; subito mi ha
ripresa dicendo che quello era il suo posto, per cui dovevo spostarmi, l’ho fatto,
anche se, secondo L., la responsabile, non avrei dovuto. Oltre ai posti a sedere che
sono fissi, le ospiti spesso sono ancorate ad altre mansioni di routine, tipo il modo
di apparecchiare la tavola. La prima mattina alla Treccia, distrattamente per la
colazione apparecchiai con la tovaglia di carta, subito S. mi riprese dicendomi che
la mattina, la tovaglia non si doveva mettere. Piccole cose che creano un senso di
stabilità, come
le regole che le ospiti devono rispettare; quest’ultime
rappresentano una costante, una sicurezza e una protezione per le ospiti. La
routine che si crea all’interno del dormitorio, diviene molto importante per queste
persone che per diverso tempo hanno vissuto condizioni di bisogno estremo. Essa
crea dei punti di riferimento spazio – temporali, ritmi definiti, che sono altri da
quelli della strada49.
Il sabato e la domenica, alla Treccia, si respira un clima un po’ diverso. Certe
volte alcune ospiti non sono rientrate (ovviamente avvisando prima la
responsabile), S., ad esempio, perché è restata con il suo ragazzo, A. da sua zia, E
da suo padre,…
Altre volte invece sono state tutte presenti; le volontarie della cucina o della notte,
in questi due giorni possono portare dei dolci, per cui spesso lo fanno, creando un
clima di festa, maggiormente rilassato.
La sveglia della domenica, facendo un piccolo strappo alla regola, è alle 7:30,
anziché alle 7:00, così come l’uscita che, invece di essere alle 8:00, è alle 8:30. La
prima volta che ho fatto la notte il sabato, quindi la sveglia la domenica, non
sapevo questa cosa, perché non è una regola vera e propria, così ho svegliato tutte
al solito orario (le 7:00). G. e S., si sono alzate lamentandosi e subito dopo hanno
preteso la colazione pronta, A., dopo essersi alzata senza dire niente, mi ha chiesto
come mai avevano tolto quella piccola concessione, “almeno, uscita da qui , posso
andare subito a S. Marcellino, a messa, se esco alle 8.00 non so come passare la
49
A. Meo, Vite in bilico. Sociologia della reazione a eventi spiazzanti, Liguori, Napoli, 2000, p.
143.
93
mezz’ora prima della messa.” Così ho spiegato ad A. che sarebbe potuta uscire
alle 8:30 e che non c’era stato nessun cambiamento, solo un mio errore. G. e S. mi
hanno ricordato questo errore per altri due o tre giorni, ovviamente scherzando.
8. RELAZIONE TRA LE OSPITI E GLI OPERATORI
Rumori di rumori
Rumori di silenzi
Come il rumore soffoca il silenzio
Il silenzio sveglia il rumore.
Rumore grandioso
Silenzio maestoso,
più profondo è il silenzio
più rumore si sente.
Suoni squillanti
Rumori eccitanti
Utili suggerimenti
Voci segrete.
Attraverso le orecchie
Giungono ai nostri cuori
Dove il silenzio ci porta
E si trasforma in rumore.
Ascoltiamo il rumore del silenzio
E facciamo silenzio
Durante il rumore
Renzo B., Rumori e Rumori
Nei dormitori di seconda accoglienza dell’Associazione, l’organizzazione degli
orari e del tempo è molto rigida50, questa impostazione è funzionale allo scopo che
si propone l’accoglienza, quello di un’autonomia parziale o totale degli ospiti e,
soprattutto, per ricordare loro, che non possono adagiarsi, ma devono stare dentro
al percorso che stanno seguendo; inoltre rappresenta un tentativo per cercare di far
riprendere le abitudini perse o mai avute, attraverso regole che adattano la persona
50
Ricordo di nuovo le regole che sono alla base della Treccia:
• entrata: dalle 19:00 alle 20:00
• uscita: entro le ore 8:00
• riposo: ore 22:30
• sveglia: ore 7:00
• colazione: dalle 7:20 alle 7:40
Si richiede:
• rispetto degli orari
• igiene personale
• sobrietà
• è vietato fumare al di fuori degli spazi consentiti e portare cibo e alcolici nel dormitorio.
94
ad un certo ritmo, una certa routine. Lo stare insieme all’interno di una stessa
struttura, permette alla persona di condividere la sua esperienza con le altre,
facendola uscire “da una condizione di autismo”51.
Anche alla Treccia queste regole debbono essere rispettate, ma, per quanto
riguarda il rispetto della sobrietà, su certi casi, possiamo notare un diverso
atteggiamento degli operatori nei confronti dalle donne rispetto a quello tenuto nei
confronti degli uomini.
Lasciare fuori dal dormitorio una donna, è per alcuni molto più difficile. “Per tutti
la strada è molto violenta, per le donne lo è ancora di più” 52. Una donna sulla
strada, difficilmente riesce a sopravvivere senza gravissimi danni, essa è esposta
in primo luogo a rischi di stupro. Lasciare per una notte fuori una donna, ubriaca,
significa sottoporla a tutti i rischi della strada. A., ex responsabile della Treccia,
mi ha raccontato che una delle ospiti una sera è arrivata ubriaca. Nonostante ciò,
l’ha fatta entrare; anche E. una sera è arrivata ubriaca; l’operatore presente non
voleva farla entrare, ma E., disperata, si è messa a piangere attaccandosi al
corrimano delle scale. E’ entrata. “In quei momenti hanno molta paura”, mi ha
riferito la responsabile.
E’ difficile stabilire cosa sia “giusto” fare in quei momenti. Spesso, nonostante la
regola sia quella di lasciare fuori la persona, se arriva ubriaca, soprattutto per
quanto riguarda la donna, la decisione di farlo dipende dall’operatore, dal suo
punto di vista. Ovviamente a questo dobbiamo intrecciare lo stereotipo della
donna come un essere fragile, indifeso, sottoposto a maggiori pericoli rispetto
all’uomo53.
Attraverso la regola della sobrietà, si cerca di aiutare l’ospite ad avere un
approccio con l’alcol diverso da quello tenuto in precedenza, si cerca di presentare
un altro punto di vista. A tal proposito, D., responsabile dell’Associazione, dice
che la sobrietà è una delle regole principali da rispettare perché “ in questo modo
l’ospite capisce che l’alcol è un problema, se non lo era fino ad allora, lo diventa,
in questo modo è come dire all’ospite che se per te entrare ubriaco non ha nessun
significato, per noi lo ha, l’alcol è un ostacolo tra te e la struttura!”. Per quanto
riguarda il discorso sull’alcol e il personale approccio con esso, è anche
l’operatore stesso ad essere chiamato in causa, in quanto è necessario che
anch’egli si metta in discussione, che analizzi il suo rapporto con l’alcol. Se un
ospite arriva alla struttura con l’alito che ha il sapore d’alcol, ma non è ubriaco, è
molto difficile lasciarlo fuori, se si considera che è una cosa “normale” bere una
piccola dose giornaliera di alcol.
Ritornando alla specificità della Treccia e alle sue regole, le utenti hanno ognuna
il proprio modo di porsi di fronte alle regole e soprattutto sanno quando possono
non rispettarle pienamente. La responsabile in proposito sostiene: “ le tensioni
scoppiano sempre quando io vado via (…) perché loro dopo non si sentono più
51
G. Pieretti, “Povertà estreme e interventi di matrice comunitaria”, in TRA, n. 1, 1999, p. 10.
P. Donadi, Emarginazione e invisibilità delle donne senza fissa dimora, Montefeltro, Urbino,
1998, p.153.
53
Thomas e Znaniecki affermano che la causa di un fenomeno sociale o individuale non è mai un
altro fenomeno sociale o individuale, ma è sempre una combinazione di un fenomeno sociale e di
uno individuale. Facendo riferimento ai loro concetti di valore e atteggiamento, possiamo dire che
la causa di un valore o di un atteggiamento non è mai soltanto un atteggiamento o soltanto un
valore, ma è sempre una combinazione di un valore e di un atteggiamento. Il contadino polacco in
Europa e in America, Comunità, Milano, 1968
52
95
controllate”. Le ospiti sanno bene quali sono le regole da rispettare e vedono la
responsabile come colei che le rappresenta. Difficilmente fanno richieste fuori
luogo, richieste che invece si possono permettere con i volontari, ovviamente me
compresa. Spesso G. mi ha chiesto di andare a prendergli l’acqua, perché essendo
stanca per il lavoro, non ne aveva voglia; il mercoledì, in cui a cena c’era il
merluzzo, di darle al suo posto il formaggio, di aiutarla a rifare il letto, di darle
una sigaretta…Richieste che non faceva assolutamente alla responsabile e
nemmeno in sua presenza. La responsabile mi ha riferito che la cosa importante
per le ospiti è quella di dimostrarsi a lei “brave”e spesso lo fanno parlando male
delle altre ospiti, mettendosi a confronto. Nelle serate che ho trascorso alla
Treccia non ho mai visto un’ospite ribellarsi direttamente alla responsabile, alcune
di loro poi si lamentano, in sua assenza con i volontari, in particolare G. che, ogni
qual volta veniva rimproverata da L., restava in silenzio facendole la faccia da
disapprovazione alle spalle54. In sua assenza non faceva altro che lamentarsi,
dicendomi che la precedente responsabile era molto più “buona” e lei le voleva un
gran bene: “ L. è troppo dura con noi! Non siamo mica in un carcere!”. L., la
responsabile, dovendo io trascorrere diverse notti nella struttura, mi ha consigliato
di stare attenta e di non permettere loro di prendere il sopravvento su di me :
“Sono molto furbe!”. A tal proposito mi ha raccontato che all’inizio del suo
incarico, persino A., un’ospite che solitamente fa pochissime richieste, le ha
domandato un lenzuolo pulito, sapendo benissimo che non era giorno di cambio;
G. un giorno è arrivata dieci minuti prima delle 19:00, ha suonato il campanello,
sapendo benissimo che prima delle 19:00 non si poteva entrare; si è giustificata
dicendo che la responsabile precedente alcune volte lo ha permesso; era una
bugia. Durante i primi giorni alla Treccia, le ospiti, quando non ero con loro, o
perché in cucina, o perché nella stanza volontari, mi facevano in continuazione
richieste: dell’acqua fresca, la carta-igienica, il detersivo, il ferro da stiro…G. e S.
poi, ogni sera, cercavano ogni modo per non andare a letto alle 22:30: l’ultima
sigaretta, l’ultima cosa da raccontare… Non essendo il mio ruolo, quello della
responsabile, e soprattutto, essendo alla Treccia da poco tempo, in assenza di L.,
la Treccia, diveniva la loro “casa” a tutti gli effetti.
Questo vale anche per le volontarie, soprattutto per le nuove. Infatti, come nei
miei confronti, le ospiti, con le nuove volontarie, inizialmente si pongono in modo
distaccato, osservano, come in difesa del proprio spazio e allo stesso tempo fanno
molte richieste perché sanno che “la nuova”, non è ancora padrona della
situazione. In questo modo poi, le ospiti vogliono sondare quanto sia stretto il
rapporto tra volontari e responsabili. Più li sentono uniti e concordi, più sono
coscienti che non possono prendersi molte libertà e allo stesso tempo ciò le fa
sentire maggiormente protette. Il volontario, infatti, deve avere ben chiare le
54
“Se la funzione degli adattamenti secondari è quella di innalzare una barriera fra l’individuo e
l’unità sociale di cui si presume faccia parte, dovremmo supporre che alcuni adattamenti secondari
non offrano un guadagno intrinseco, e funzionino semplicemente per esprimere una distanza non
autorizzata – il rifiuto di coloro che ti rifiutano – che serve alla propria tutela personale. La cosa
sembra verificarsi nel caso di forme molto comuni di insubordinazione rituale, come per es. il
brontolamento e le lamentele che in realtà non ci si aspetta portino a dei mutamenti. Attraverso
l’insolenza diretta che non incontra un’immediata correzione, o osservazioni quasi non udite
dall’autorità, o gesti fatti alle spalle, coloro che sono subordinati esprimono un distacco dal luogo
loro ufficialmente accordato.”, in E. Goffman, Asylums, Edizioni di Comunità, Torino, 2001,
p.331.
96
regole non dimenticandosi di mettere al primo posto l’accoglienza, deve saper
stare in ascolto e non rischiare di sommergere le persone, rispettando il desiderio
delle ospiti (negli orari tra la cena o tra la colazione), a volte, di nascondersi e
riposarsi nelle proprie stanze; a volte è importante rispettare anche i silenzi. Per
questo occorre stare sempre in ascolto di tutto ciò che accade. Per cui, il
“compito” di ogni volontario/a, oltre che fare in modo che in assenza della
responsabile, le regole vengano rispettate e che tutto proceda in maniera
tranquilla, è anche quello di relazionarsi con le ospiti, creare nel miglior modo
possibile un clima rilassato, accogliente, caldo. Ogni volontaria/o quindi,
all’interno della struttura, porta la propria specificità. Il ruolo del volontario è
importante, da non sottovalutare, in quanto, spesso, attraverso un buon piatto, una
parola divertente durante la cena, una partita a carte, o semplicemente un sorriso,
si riesce a stemperare momenti di tensione.
Una sera, alla sede dell’Associazione, ho assistito alla riunione volontarie/i della
Treccia, fatta anche in occasione del cambio della responsabile della struttura. F.,
responsabile del settore alloggi, mi aveva anticipato che la partecipazione delle
volontarie/i alle riunioni sulla Treccia, era la migliore. C’è stata infatti
un’adesione quasi totale: una trentina di donne e tre uomini i quali possono
svolgere soltanto la funzione di cuoco. Alla riunione è stato richiesto alle
volontarie/volontari di descrivere le sensazioni e le impressioni per quanto
riguarda il proprio approccio con la Treccia. La cosa che maggiormente è uscita
fuori è che, se all’inizio si fa volontariato alla Treccia con l’idea di aiutare, poi si
scopre che l’aiuto maggiore lo si da a se stessi.
A tal proposito voglio citare alcune considerazioni di Pedro Meca: “Quando
parliamo dell’incontro con delle altre persone, innanzitutto bisogna tener presente
che l’incontro più importante è quello che facciamo con noi stessi (…), noi diamo
un’identità a queste persone: tu sei quello che non hai, (…), questo è il lavoro
sociale: riempire ciò che manca. E’ un lavoro sociale utile, ma non è umano, (…):
non è un rapporto tra persona e persona, ma tra persona e bisogno. Se non c’è
reciprocità, non c’è rapporto umano.(…). Bisogna accettare il fatto che anche
l’altro possa aiutare me, che si possa parlare delle cose quotidiane della vita come
due esseri viventi normali (due persone). E questo è quello che io credo sia
fondamentale dire alle persone che vengono come volontari: non solo essere
disposti a dare qualcosa, ma anche a prendere e a ricevere”55.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Dopo un’analisi bibliografica del fenomeno e, soprattutto, dopo aver partecipato
attivamente alla quotidianità vissuta all’interno delle varie strutture
55
Pedro Meca, Corso di formazione “Operare con le persone senza dimora”, S. Marcellino,
Genova, 12/04/2003.
97
dell’Associazione e, in particolare, della Treccia, possiamo concludere col dire
che la povertà estrema costituisce un’area di rottura del sistema della personalità,
dei rapporti primari, e del senso di appartenenza, e necessariamente richiede che
l’intervento sia caratterizzato da un certo grado di inventiva. Il fenomeno della
povertà pare quindi estremamente colpito da questi cambiamenti e, se da un lato il
fenomeno in sé balza in primo piano con significati quantitativi inediti, dall’altro,
la povertà è una realtà che è stata sottoposta a profonde trasformazioni interne.
“Partendo dall’ipotesi dei cambiamenti sostanziali, è nostro convincimento che
dovrebbero essere adottate nuove strategie di intervento nell’intento di dominare
un fenomeno le cui differenziazioni ed articolazioni sembrano aumentare in
maniera decisa. Parlare di articolazione significa riconoscere che una situazione
che in passato presentava un alto livello di omogeneità, allo stato attuale evidenzia
situazioni dissimili, fra le quali quella comunemente definita come estrema
povertà appare senza dubbio specifica. Il presupposto sul quale vorremmo basarci
è che la povertà non dovrebbe più essere vista come una realtà omogenea ed
unitaria; perciò anche gli interventi dovrebbero differenziarsi, cercando di
introdurre alcune procedure maggiormente mirate allo specifico fenomeno”88.
In particolare, abbiamo osservato che, all’interno della Treccia, confluiscono
situazioni caratterizzate da una eterogeneità di percorsi biografici, a partire
dall’età, dai tempi di permanenza presso la struttura, dai luoghi di provenienza,
dalla condizione lavorativa, dalle problematiche e dalla situazione familiare. C’è
molta eterogeneità nell’età; si spazia dai 18 anni ai 60. Per quanto riguarda i
luoghi di provenienza, abbiamo notato invece che molte, tra le utenti della
struttura, hanno sempre avuto la residenza a Genova, altre sono provenienti dal
Sud d’Italia. La problematica psichiatrica è molto diffusa tra le donne senza
dimora e la solitudine e le rotture familiari sono altri fattori dominanti tra le utenti,
oltre la presenza di figli, quasi tutti in affido o in adozione. Altro problema è la
mancanza di un lavoro nella storia di queste donne. Ciò è imputabile in parte ad
un mercato lavorativo che privilegia il lavoratore maschile e lascia quasi esclusa
la figura femminile. In relazione alla eterogeneità dell’utenza presente nelle varie
strutture dell’Associazione in generale e nella Treccia in particolare, i progetti
sono il più possibile personalizzati, le persone non vengono omologate, ma
rispettate nella loro specificità e diversità. Sta proprio in questo la particolarità di
S. Marcellino.
Accanto alla notevole eterogeneità di percorsi biografici delle utenti della Treccia,
possiamo però trovare un comune denominatore che sta nell’assenza di legami
forti, nel senso di precarietà e nell’aver smarrito il senso della casa, della dimora
intesa come spazio dell’anima, spazio per il Sé. Comune è l’incapacità di pensarsi
come protagoniste della loro stessa vita, l’incapacità di stare dentro la “normalità,
il mondo “normale”, quello della società, dei ruoli e delle forme sociali.
Essendo le donne, le protagoniste della mia ricerca, non possiamo ignorare la
specificità della povertà al femminile e le differenze di percorsi rispetto a quella
maschile. E’ certamente vero che sulla strada gli uomini sono di gran lunga più
numerosi delle donne, come evince da tutte le ricerche, ma questo dato non può
autorizzare la cancellazione e il confronto con la povertà femminile che spesso
sembra non incontrare risposte specifiche. Infatti la marginalità femminile viene
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Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, pp. 14-15.
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troppo spesso affrontata in modo asessuato, facendo nascere così
un’emarginazione nell’emarginazione. La Treccia, all’interno del territorio
genovese, ha svolto e sta svolgendo un compito importante che è quello di aver
dato e di dare maggiore visibilità al problema della donna senza dimora che è un
volto della povertà che, come ho detto in precedenza, rimane spesso nascosto e di
difficile accettazione.
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universita` degli studi di urbino