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La coronarografia è una tecnica eseguita ormai da molti anni. Lo scopo originario
era esclusivamente diagnostico con visualizzazione delle coronarie. A partire dalla
fine degli anni Settanta la coronarografia è diventa una tecnica non solo
diagnostica, ma anche terapeutica, per la possibilità di eseguire angioplastiche
semplici o di inserire strutture metalliche (stent) in grado di mantenere pervia
l’arteria.
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È credo comune che le coronarie siano due, ed è vero, ma di fatto, dato che
dopo il tronco comune la coronaria sinistra si biforca in due vasi
(l’interventricolare anteriore – IVA – detta anche discendente anteriore, e la
circonflessa – CX), le coronarie di fatto sono tre.
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In questo esempio di coronarografia si osservano appunto la presenza del tronco
comune (TC) e l’emergenza dell’IVA che va verso la punta del cuore (l’apice) e,
in basso, l’emergenza dell’arteria CX che si dirige lateralmente lungo il margine
del cuore..
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Durante questo esame è quindi possibile evidenziare eventuali placche all’interno
delle arterie coronarie, la loro sede e l’eventuale grado di stenosi o di occlusione
delle stesse. Spesso durante la coronarografia si osserva un’occlusione completa
dell’arteria coronaria che può essere vicariata da un flusso eterocoronarico (il
flusso arriva all’arteria coronaria occlusa da un’altra arteria coronaria).
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Andreas Gruentzig iniziò i suoi lavori a Zurigo nello scetticismo generale, in
quanto il credo comune di allora era che un’arteria coronaria non potesse essere
“manipolata”. Va detto che quando nel 1978, a un congresso mondiale di
cardiologia negli Stati Uniti, presentò i primi quattro casi di angioplastica
coronarica, gli fu riservata un’ovazione prolungata da parte della platea di
cardiologi presenti.
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Il limite della coronarografia prima dell’intuizione di Gruentzig era che si riusciva
a vedere ostruzioni anche severe ma non vi era possibilità di trattarle e quindi
era difficile modificare la terapia e la prognosi di questi pazienti. Con un semplice
palloncino espansibile fatto in casa fu quindi possibile vedere e poi trattare
(dilatare) ostruzioni anche severe. Inizia l’era del cardiologo interventista.
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A sinistra l’immagine originale ottenuta da Gruentzig su un paziente di soli 38
anni che presentava una severa ostruzione dell’IVA. Ventitré anni dopo lo stesso
paziente fu sottoposto a una seconda coronarografia: l’angioplastica eseguita nel
1977 funzionava ancora e il vaso era perfettamente aperto. Peccato che
Gruentzig non abbia potuto vedere questa immagine, essendo deceduto
tragicamente nel 1985.
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Per anni i radiologi interventisti (ad es., Dotter) avevano tentato di manipolare le
arterie ristrette in modo da favorire il passaggio di flusso attraverso le stenosi.
Per vari motivi le intuizioni non furono seguite dalla possibilità pratica di una
dilatazione. Gruentzig per primo dimostrò che si poteva con un palloncino evitare
di aprire il torace per superare una stenosi.
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I vasi arteriosi vengono di fatto impiegati come “autostrade”: numerosi device
metallici (stent) possono essere posizionati in modo relativamente semplice nel
cuore per ovviare ad anomalie congenite (ad es., forame ovale pervio, difetti
interventricolari o persistenza del dotto di Botallo), nelle carotidi interne per
risolvere ostruzioni severe o nelle arterie degli arti inferiori ove siano presenti
ostruzioni. Infine, le nuovissime tecniche di impianto diretto attraverso l’arteria
femorale di stent che proteggono da aneurismi dell’aorta addominale
prevenendone la rottura.
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Dopo un iniziale fervore per la tecnica di angioplastica e l’uso estensivo che ne
venne fatto cominciò a emergere la possibilità che dopo un’angioplastica il vaso
potesse andare incontro a una restenosi, essendo il vaso stesso costituito anche
da fibre muscolari soggette a spasmo. Inoltre questa complicanza si verificava
più spesso nei pazienti complicati, ad esempio gli ipertesi, i diabetici o quelli con
insufficienza renale, che di fatto rappresentavano buona parte di quelli trattati
con un’angioplastica. Da ultimo, sempre di più venivano descritti casi di
dissezione del vaso coronarico, complicanza questa che divenne la più comune e
la più temuta dopo un’angioplastica.
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Fu Dotter, un radiologo interventista, il primo a impiegare il termine stent per
identificare una struttura metallica applicata nel vaso trattato con
un’angioplastica convenzionale e innestata con lo scopo di prevenire la restenosi
o la dissezione del vaso.
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Si crede comunemente che il termine stent derivi dal dentista Charles Stent, che
era solito innestare nella radice del dente devitalizzato una struttura che la
tenesse aperta. In realtà sin dal Quattrocento venivano usati dai pescatori dei
pali attorno ai quali venivano tese le reti al ritorno dalla pesca. Questi pali
venivano chiamati stent, per indicare una struttura in grado di tendere le reti.
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Ancora una volta fu un medico europeo, Sigwart, uno svizzero che lavorava a
Ginevra, ad aprire una nuova via innovativa. Come si vede nell’immagine a
sinistra, poco dopo il tronco comune l’arteria coronaria interventricolare anteriore
presenta una stenosi marcata evidenziata dall’asterisco rosso. L’immagine di
destra evidenzia la completa apertura del vaso, anche se lo stent non si vede.
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In questa immagine si osservano a sinistra il vaso coronario con una stenosi da
placca calcifica e a destra il vaso nelle dimensioni originali con impiantato lo stent
a maglie.
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In questo lavoro, apparso sul New England Journal of Medicine nel 1987, ossia
alcuni mesi dopo il primo impianto di uno stent, Sigwart abbastanza umilmente
suggerisce che l’impianto di uno stent potrebbe offrire in futuro un metodo utile
per prevenire i due problemi ben noti dopo un’angioplastica, ossia l’occlusione o
la restenosi (e, come abbiamo visto, anche la dissezione).
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L’uso estensivo di stent metallici in arterie coronarie effettivamente, come aveva
previsto Sigwart nel 1987, era in grado di risolvere i due problemi (dissezione e
occlusione del vaso), ma emerse subito chiaramente che lo stent metallico era
un corpo estraneo e come tale il nostro organismo lo trattava.
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I cardiologi si resero conto che l’impianto dello stent presentava vantaggi
immediati, ma poteva presentare svantaggi a distanza e, come Giano bifronte,
presentava due aspetti dello stesso problema.
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Una percentuale elevata di pazienti (circa il 10%) presentava una trombosi intrastent subacuta entro un tempo assai breve dall’impianto, ossia in genere tra i 10
giorni e il primo mese. Questo problema, ovviamente, si presentava in pazienti
non più ricoverati e quindi “vulnerabili” in caso di complicanza.
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La prima contromossa abbastanza ovvia fu di ritenere la trombosi intra-stent
secondaria alla cascata coagulativa, quindi i cardiologi tentarono di scoagulare il
paziente con l’uso di inibitori della vitamina K, ma questo atteggiamento
terapeutico non dimostrò alcun vantaggio, anzi si dimostrò controproducente.
Con il tempo si comprese che le piastrine erano il vero “colpevole”.
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La combinazione di una superficie metallica (le maglie dello stent) e il flusso
assai veloce che i supporti dello stent incontrano determina una deviazione nella
direzione del flusso ematico che cagiona come secondo episodio l’arrivo di
piastrine, la loro attivazione e da ultimo la loro aggregazione, con conseguente
restenosi tra le maglie dello stent.
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Come ovvia conseguenza si iniziò a trattare i pazienti sottoposti a impianto di
stent metallico con l’uso di farmaci in grado di inibire la cascata piastrinica; il più
usato fu ovviamente l’ASA. Contrariamente alle aspettative, pur impiegando l’ASA
si osservò che il numero di restenosi precoci restava pericolosamente alto e il
problema non veniva risolto del tutto.
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Furono fatti vari tentativi di trattare uno stent metallico nudo (BMS) con sostanze
che fossero in grado di prevenire la restenosi piastrinica. Dopo un breve periodo
in cui si tentò di irradiare lo stent e nel quale si comprese che questo tipo di
terapia (brachiterapia) poteva essere pericoloso per l’incolumità del paziente, fu
impiegato sirolimus, farmaco immunosoppressore che veniva già impiegato dai
nefrologi per prevenire il rigetto del rene dopo un trapianto (sirolimus è in grado
di bloccare la mitosi.) L’idea era che pretrattando uno stent metallico con
sirolimus si riuscisse a prevenire la trombosi intra-stent piastrinica. Questa
famiglia di stent fu da allora denominata stent medicato (DES).
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L’attuale tecnologia permette di applicare uno strato doppio di sirolimus alle
maglie dello stent metallico, ottenendo quindi un’elevata concentrazione del
farmaco localmente. Si è osservato che sirolimus si scioglie (eluting) nel giro di
circa un mese e mezzo, determinando peraltro una concentrazione ematica di
farmaco molto bassa (quindi non pericolosa).
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Di fatto, questa tecnologia sembrava in grado di prevenire completamente sia la
stenosi del vaso coronario, mediante l’azione dello stent metallico, sia la
restenosi precoce intra-stent, mediante l’uso di stent medicati, ad esempio con
sirolimus. Ma Giano bifronte è sempre presente sulla scena medica, e nuovi
problemi si profilarono all’orizzonte.
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Marie-Claude Morice presentò lo studio RAVEL al congresso ESC di
Stoccolma nel 2001. Lo studio RAVEL aveva valutato 120 pazienti con uno
stent metallico e un placebo nel follow-up, come era consuetudine allora,
e 118 pazienti trattati invece con uno stent DES (chiamato anche Cypher).
I risultati di questo studio all’osservazione dodici mesi dopo parevano
sconvolgenti. Infatti la restenosi nel gruppo dei pazienti trattati con stent
metallici nudi (BMS) era come atteso del 26%, mentre i pazienti trattati
con stent medicato (DES) presentavano a un anno di distanza una
recidiva pari a 0%.
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Quando il RAVEL fu presentato nel 2001 si ritenne che lo stent medicato DES
potesse risolvere completamente e definitivamente i problemi della restenosi
precoce intra-stent (entro un mese) che avevano afflitto i cardiologi per circa 15
anni. Da notare che nello studio RAVEL ai pazienti veniva somministrata per la
prima volta una DAPT (ASA + clopidogrel), ma che la durata della stessa era di
soli due mesi in quanto si sapeva che la diluizione di sirolimus dallo stent
sarebbe avvenuta entro 6 settimane.
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Dopo la presentazione del RAVEL i cardiologi si convinsero che l’uso dei DES era
in grado di risolvere definitivamente il problema della placca coronarica e che
dopo l’impianto di tale stent il vaso era da considerarsi sigillato per sempre.
L’impianto dei DES crebbe a dismisura e in modo incontrollato e talora incongruo.
Attualmente vi sono addirittura 22 tipi di DES certificati e che quindi possono
essere impiegati.
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Piano piano ci si rese conto che l’entusiasmo frenetico (e gli interessi commerciali
che ne stavano talora alla base) era fuori luogo. Il vaso non era sigillato in modo
definitivo e cominciò ad apparire una nuova patologia: la restenosi tardiva dello
stent, ossia la possibilità che a lunga distanza dall’impianto del DES il vaso
potesse improvvisamente richiudersi, con pericoli seri per il paziente.
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Al congresso mondiale di cardiologia vennero per la prima volta riportati
apertamente gli effetti avversi secondari connessi all’uso dei DES, e cioè la
possibilità che tardivamente (fino a un anno di distanza) lo stent potesse
improvvisamente andare incontro a trombosi. Inoltre veniva adombrata la
possibilità che l’uso di sirolimus potesse incrementare l’incidenza di tumori in
varie sedi dell’organismo.
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I cardiologi si stavano rendendo conto che involontariamente si erano create due
nuove patologie, sconosciute prima del 1986: la stenosi intra-stent precoce, che
poteva verificarsi entro il primo mese dopo l’impianto di uno stent BMS, e la
trombosi intra-stent tardiva, che poteva verificarsi entro il dodicesimo mese
dall’impianto di uno stent DES. Pertanto, il paziente cui veniva applicato un DES
andava giocoforza trattato per almeno 12 mesi con due farmaci antiaggreganti,
con le implicazioni del caso.
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Per mettere ordine a questi problemi apparvero nel 2010 le linee guida congiunte
ESC/EACTS: in esse si consigliava che uno stent DES dovesse essere applicato di
prima scelta in ogni caso e con una DAPT da prescriversi per almeno 12 mesi. Il
DES andava sconsigliato (e quindi era consigliato l’uso di un BMS) in caso di
controindicazione assoluta all’uso di DAPT o in caso di preoccupazione riguardo il
suo impiego (scarsa compliance del paziente).
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L’emodinamista, spesso, nell’emergenza (ad es., shock cardiogeno) può avere
difficoltà a ottenere un’anamnesi accurata, pertanto in queste circostanze
preferisce impiantare uno stent BMS che richiede una DAPT più breve. Va
valutata anche la scarsa aderenza terapeutica di alcuni pazienti. Inoltre, talora è
previsto a breve un intervento chirurgico (ad es., patologie mammarie o
prostatiche). Altri pazienti presentano diatesi allergica. In questi casi è meglio
non impiegare uno stent DES, per la necessità di una DAPT.
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Gli emodinamisti considerano sempre una restenosi coronarica in base all’evento
clinico e non, per esempio, quella che si ottiene durante una coronarografia di
controllo. Di fatto gli emodinamisti considerano la TVR (target vessel
rivascularization), ossia la percentuale di reintervento su vaso coronario già
trattato, come il parametro più affidabile per valutare una restenosi coronarica.
Valutando appunto la TVR, questa mastodontica metanalisi apparsa nel 2009 su
Circulation ha dimostrato che di fatto impiegando uno stent DES la percentuale
di vasi da ritrattare praticamente si azzera, evidenziando quindi un’indiscutibile
superiorità dello stent DES sullo stent BMS.
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Di fatto, quindi, se il paziente riesce ad assumere regolarmente per almeno 12
mesi una DAPT, lo stent DES dimostra un’efficacia e sicurezza pressoché totali e
non paragonabili a uno stent BMS. Purtroppo lo scotto da pagare è
un’antiaggregazione con due farmaci che deve durare almeno 12 mesi, nei quali
il paziente è soggetto alle complicanze della terapia (sanguinamenti) e
all’incertezza sul futuro (ad es., necessità di biopsie o interventi).
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Nel 2008, sempre in Svizzera, fu iniziato lo studio ABSORB su soli 30 pazienti, per
il momento. In questo studio lo stent impiantato è di materiale plastico, che
dovrebbe essere in grado di auto-assorbirsi. Evidentemente è una prospettiva
futura attraente riguardo alla complicanza della restenosi. Ma, come Giano
bifronte, dobbiamo essere cauti e attendere lo sviluppo di questo studio o studi
similari.
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In questa slide riassuntiva vengono illustrate in ordine cronologico le varie
soluzioni che negli anni sono state proposte onde evitare l’apertura del
torace, la cardioplegia e l’inserimento di un by-pass per un’ostruzione di
pochi millimetri in un’arteria coronaria. Si inizia con l’intuizione di
Gruentzig, si prosegue con la prima posa di uno stent BMS nel 1986, si
continua con uno stent DES nel 2000 e si iniziano a osservare i problemi
connessi (trombosi intra-stent tardiva). Ciò determina la necessità di una
prolungata DAPT e obbliga, per prevenire il sanguinamento, l’uso
prolungato di un IPP. Il futuro (forse) risiede negli stent di plastica BVS
interamente riassorbibili. Vi sarà una nuova malattia? Il tempo ce lo dirà.
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È stata fatta molta strada dal primo palloncino fatto in casa nel 1977. I
cardiochirurghi hanno ridotto notevolmente il numero degli interventi. Però sono
state create nuove e del tutto inattese patologie che hanno messo a dura prova
l’intelligenza dei medici e la sopportazione dei pazienti. Questo ha portato alla
necessità di un’interazione tra diversi specialisti.
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La ricerca medica è in continua evoluzione e prestissimo dabigatran sarà
disponibile, secondo le indicazioni che gli studi RENOVATE, REMODEL, RECOVER
e RE-LY ci hanno dato nei riguardi della profilassi e della cura della TVP e (il RELY) nella prevenzione dell’ictus nel paziente fibrillante. Per quanto riguarda gli
inibitori del fattore Xa la futura messa in commercio di rivaroxaban, apixaban ed
edoxaban metterà a disposizione nuovi farmaci in grado di soppiantare gli antichi
inibitori della vitamina K. Questi farmaci sono stati studiati nei vari RECORD,
EINSTEIN-DVT, ROCKET-AF, ADVANCE, AMPLIFY, ARISTOTILE, HOKUSAI ed
ENGAGE-AF con le stesse indicazioni cliniche degli inibitori diretti della trombina.
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Prasugrel viene già prescritto da alcuni mesi dalle cardiologie dopo la posa di uno
stent DES, seguendo le indicazioni dello studio TRITON-TIMI 38 che ha
dimostrato una riduzione significativa degli endpoint principali rispetto a
clopidogrel e in particolare una riduzione della trombosi intra-stent anche tardiva
(1,1% per prasugrel e 2,4% per clopidogrel). Prasugrel viene prescritto dopo
una dose di carico a 10 mg al dì in associazione con ASA 100 mg/dì. Ticagrelor è
stato studiato nello studio PLATO, non è una tienopiridina, e il blocco del
recettore piastrinico P2Y12 è reversibile. Inoltre non è un profarmaco e quindi
non presenta i problemi usuali delle tienopiridine.
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Dove stiamo andando?
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È da sottolineare la lentezza di azione degli antagonisti della vitamina K, cosa
questa che richiede all’inizio una doppia terapia, ad esempio con enoxaparina
sottocute. Le frequenti variazioni genetiche nel metabolismo rendono il dosaggio
di warfarin molto variabile da un soggetto all’altro. Le note interazioni con il cibo
(ad es., insalate a foglia larga) e i farmaci (ad es., i FANS) richiedono frequenti
monitoraggi della coagulazione con disagio per il paziente, e da ultimo, la stretta
finestra terapeutica richiede anch’essa continui monitoraggi della coagulazione.
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È il primo farmaco di una nuova classe, ossia gli inibitori diretti della trombina.
Deve essere somministrato sotto forma di profarmaco, che viene rapidamente
trasformato dalle esterasi ematiche in farmaco attivo: dabigatran.
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Poco dopo la somministrazione il farmaco raggiunge un picco ematico
soddisfacente e ha un’emivita lunga. Di fatto, in clinica, viene somministrato due
volte al dì per via orale.
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L’evidente vantaggio di non avere interferenza con il cibo assunto e la quasi
totale assenza di interazione con altri farmaci (a differenza quindi degli inibitori
della vitamina K) rende dabigatran liberamente somministrabile.
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Questo farmaco è un inibitore diretto del fattore Xa somministrabile per os,
fortemente biodisponibile, con un’emivita che lo rende somministrabile due volte
al dì. Bisogna stare molto attenti al contemporaneo uso di antifungini, per
quanto sopra osservato.
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È un farmaco con un profilo clinico alquanto similare a quello di rivaroxaban,
ossia è un inibitore diretto del fattore Xa e può essere somministrato per os. Ha
una biodisponibilità diretta però inferiore a rivaroxaban. Va evitato l’uso con gli
antifungini.
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Terzo farmaco con inibizione diretta del fattore Xa, somministrabile per os con
picchi plasmatici assai rapidi e con il vantaggio di poter essere somministrato una
volta al dì.
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Dabigatran è stato testato nella profilassi della TVP in pazienti operati
successivamente per interventi ortopedici (anca e ginocchio), e questo nei due
studi RENOVATE e REMODEL. Il farmaco è stato altresì studiato nel trattamento
del tromboembolismo nello studio RECOVER, rispetto a warfarin. In questi studi
dabigatran è risultato non inferiore. Dabigatran è stato altresì studiato nello
studio RE-LY (oltre 18.000 pazienti), che considerava pazienti fibrillanti e aveva
tra i vari endpoint finali la prevenzione dell’ictus vs warfarin. Lo studio ha
dimostrato un esito di non inferiorità con 110 mg bid e ha evidenziato una
superiorità, ossia una riduzione degli eventi ischemici, con 150 mg bid a fronte di
un lieve aumento degli eventi emorragici.
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Sono stati condotti quattro studi RECORD, che differivano solamente per la
durata della profilassi della TVP postoperatoria in pazienti ortopedici operati
(anca e ginocchia). Basandosi sui risultati del programma RECORD, rivaroxaban è
stato approvato nell’UE e nel Canada e in altri Paesi in giovani adulti per questo
tipo di intervento. Il farmaco viene somministrato 10 mg una volta al dì, e la
prima dose viene somministrata 6-8 ore dopo la procedura chirurgica. Il
trattamento è continuato per almeno 10 giorni nella procedura al ginocchio e per
30 giorni per quella dell’anca. Nello studio EINSTEIN-DVT e nel ROCKET-AF il
farmaco in esame si dimostra non inferiore a warfarin con le indicazioni cliniche
come sopra esposte. Di recente, sul New England Journal of Medicine sono stati
pubblicati i risultati definitivi dello studio ROCKET-AF, che ha considerato oltre
14.000 pazienti studiati con rivaroxaban, 20 mg una volta al dì vs warfarin,
avendo come obiettivo la prevenzione dell’ictus in pazienti con fibrillazione atriale
non valvolare. Lo studio ha dimostrato una non inferiorità del farmaco in oggetto
rispetto a warfarin, senza aumenti degli eventi emorragici, anzi dimostrando una
riduzione delle emorragie intracraniche, fatto questo che sembra aprire un nuovo
scenario per questi farmaci inibitori diretti del fattore Xa.
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Apixaban è stato studiato estensivamente nei tre studi ADVANCE in cui si
studiava la prevenzione della TVP in pazienti operati per chirurgia ortopedica.
Nello studio ADVANCE2 apixaban si dimostrò superiore a enoxaparina 40 mg una
volta al dì per la prevenzione della TVP e di tutte le cause di mortalità. APIXABAN
è in studio nella profilassi della TVP medica (pazienti non chirurgici) nello studio
ADOPT vs enoxaparina 40 mg al dì in pazienti medici molto complessi. Lo studio
AMPLIFY ha terminato la randomizzazione ed è tuttora in corso.
Per quanto riguarda lo studio ARISTOTILE è stato pubblicato il 15 settembre
2011 sul New England Journal of Medicine con editoriale dal tiolo “Una nuova era
dell’anticoagulazione nella fibrillazione atriale”. Sono stati studiati 18.201 pazienti
con fibrillazione atriale e almeno un fattore di rischio addizionale per ictus
paragonando apixaban 5 mg bid rispetto a warfarin con target INR 2,0/3,0.
Apixaban si è dimostrato superiore a warfarin nel prevenire un ictus o un
embolismo sistemico e ha causato meno emorragie e minore mortalità.
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Edoxaban è attualmente studiato al dosaggio di 30 o 60 mg una volta al dì. La
randomizzazione dei due studi è conclusa e si attendono i risultati.
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Considerando che warfarin fu posto in commercio nel 1947 come veleno per topi,
si può osservare che tanto tempo è passato prima che si affermassero nuovi
anticoagulanti orali che di certo modificheranno in maniera significativa la storia
dell’anticoagulazione.
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Prasugrel ha un meccanismo d’azione identico alle tienopiridine note,
esplicandosi essenzialmente con un blocco irreversibile del recettore P2Y12
dell’aggregazione mediata dall’ADP.
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Come clopidogrel, è un profarmaco che segue una via di assorbimento similare a
clopidogrel. Il dosaggio di prasugrel è diverso da quello di clopidogrel, in quanto
dopo una dose di carico si somministrano 10 mg al dì (invece di 75 mg al dì).
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La somministrazione in associazione con ASA di prasugrel 10 mg al dì ha ridotto
fortemente (dal 12,1% con clopidogrel al 9,9% con prasugrel) l’incidenza tra gli
endpoint primari. Questa differenza essenzialmente riguarda la comparsa di IMA
non fatale post-PTCA e ha fortemente colpito gli emodinamisti, che sono sempre
preoccupati per la trombosi intra-stent post-procedurale. In effetti la trombosi
intra-stent si è verificata in meno della metà dei pazienti che assumevano
prasugrel. Questo vantaggio si è però tradotto in una maggiore presenza di
eventi emorragici e ciò, certamente, per la maggiore efficacia di prasugrel nel
bloccare l’aggregazione piastrinica ADP-dipendente.
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In questa slide si sottolineano i vantaggi di ticagrelor rispetto a una tienopiridina
convenzionale: il blocco dell’aggregazione piastrinica mediata dall’ADP è
reversibile (minore incidenza della durata di sanguinamento) e le interazioni
farmacologiche sono assenti.
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Ticagrelor presenterebbe tre evidenti vantaggi rispetto alle tienopiridine
attualmente in commercio. Primo, la rapidità di azione antiaggregante, secondo
la reversibilità del blocco del recettore ADP, fatto questo che rende meno gravi gli
eventuali eventi emorragici, e, terzo, l’assenza di metabolismo epatico che rende
la dose somministrata prevedibile.
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In questa slide si evidenzia come il blocco dell’aggregazione piastrinica ADPdipendente dipenda da un’inibizione del recettore P2Y12 della piastrina. Il blocco
è irreversibile con le tienopiridine (bisogna cioè aspettare 7-10 giorni affinché
vengano create nuove piastrine non bloccate in caso di evento avverso), mentre
il metabolismo epatico mediato dal citocromo P450 rende per certi versi variabile
la quantità di farmaco effettivamente assunta nel caso di assunzione di
ticlopidina, clopidogrel e prasugrel. L’assorbimento delle tienopiridine è
relativamente lento per clopidogrel, mentre è più rapido per prasugrel. Da
sottolineare che se il paziente dovesse essere sottoposto a chirurgia maggiore
(ad es., un by-pass) vi è un evidente vantaggio con l’uso di clopidogrel e
ticlopidina e ticagrelor rispetto all’uso di prasugrel.
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