LE MUTAZIONI Le mutazioni sono cambiamenti improvvisi che avvengono a livello del materiale ereditario, cioè del DNA. La modificazione che inducono è pertanto definitiva e, nel caso colpisca cellule germinali, può essere trasmessa alla progenie. Le mutazioni sono eventi molto rari (altrimenti non potrebbe essere garantita la continuità della vita), improvvisi e casuali. Le mutazioni naturali rivestono tuttavia una enorme importanza, in quanto sono alla base dell’evoluzione. A seconda della quantità di materiale genetico coinvolto dall’evento, le mutazioni si dividono in genomiche, geniche e cromosomiche. Mutazioni genomiche Nelle mutazioni genomiche viene alterato il numero di cromosomi: la cellula, cioè, acquista oppure perde interi cromosomi. Ricordiamo che, di norma, ogni individuo è costituito da un determinato numero di cromosomi, presenti in duplice copia (di origine, rispettivamente, paterna e materna). Tale situazione si definisce diploide e si indica con 2n, ove n è in pratica il corredo cromosomico gametico, costituito cioè da cromosomi tutti diversi tra di loro. Le mutazioni genomiche si dividono ulteriormente in mutazioni euploidi ed aneuploidi. Nelle prime, pur in presenza di un numero alterato, viene rispettato l’equilibrio tra i vari cromosomi: essi sono cioè presenti tutti nello stesso numero di copie, benchè, ovviamente, diverso da due. Avremo così individui aploidi (un cromosoma per tipo, cioè numero totale uguale a n), triploidi (3n), tetraploidi (4n) e così via. La situazione aploide (normale per i gameti) riveste scarsa importanza pratica: gli individui sono infatti deboli e crescono in maniera molto stentata. Essi sono inoltre sterili, in quanto non possono chiaramente produrre gameti normali, data l’impossibilità di procedere ad un corretto appaiamento dei cromosomi omologhi (che mancano) durante la divisione meiotica. I poliploidi (termine generico in cui vengono raggruppati tutti i casi in cui il numero di cromosomi omologhi è superiore a due) sono invece più importanti. Anzi, molte specie spontanee sono poliploidi, in quanto pare che tale situazione conferisca una maggior adattabilità: la presenza, infatti, di un numero di alleli superiore a due, consente agli individui di avere una maggior quantità di informazione genetica. I triploidi, inoltre, trovano anche alcune applicazioni pratiche. Essi, come tutti i poliploidi dispari, sono sterili, in quanto non in grado di produrre gameti con cromosomi bilanciati (essendo tre, durante la formazione dei gameti si avrà una ripartizione ineguale, che porta a uno sbilanciamento tale da causare la non funzionalità dei gameti stessi). La sterilità può tuttavia essere, in talune circostanze, un fattore positivo. Si pensi ad esempio alle banane, che sono prive di semi proprio perché triploidi. Individui triploidi si ottengono facilmente incrociando un tetraploide (che produce gameti 2n) con un normale diploide (gameti n). I poliploidi pari (soprattutto i tetraploidi) possono invece essere fertili, in quanto in grado di produrre gameti con contenuto cromosomico bilanciato. Molte specie che rivestono una grande importanza per la specie umana sono poliploidi: si pensi al frumento (quello duro è tetraploide, mentre quello tenero addirittura esaploide), alla patata, all’erba medica. Le mutazioni aneuploidi sono invece quelle in cui si ha una modificazione del numero cromosomico tale da sbilanciare la quantità dei singoli cromosomi. Avremo, in pratica, acquisizione di uno o pochi cromosomi, oppure, all’opposto, la loro perdita. Le mutazioni aneuploidi portano quasi sempre a situazioni di profondo squilibrio genetico e gli individui colpiti sono più o meno profondamente anormali. Non rivestono, pertanto alcuna importanza pratica in agricoltura. Citiamo solo il caso dell’uomo, in cui la presenza di un ulteriore cromosoma n. 21 (che porta così il totale a 47) determina l’alterazione nota come sindrome di Down Mutazioni geniche Le mutazione geniche (chiamate anche puntiformi) hanno per oggetto un singolo nucleotide. Questo può essere sostituito da un altro, oppure si può avere una aggiunta o una perdita di un nucelotide. Nel primo caso le conseguenze genetiche della mutazione variano in funzione del tipo di sostituzione: se, infatti, la tripletta che si forma a seguito della mutazione codifica per lo stesso aminoacido di prima, non avremo alcun effetto e potremo accorgerci dell’avvenuta mutazione solo andando a studiare la sequenza di nucleotidi nel DNA. A volte, invece, può capitare che la tripletta dopo la mutazione codifichi per un aminoacido diverso da quello precedente: in questo caso anche il prodotto finale, e cioè la proteina, sarà modificata più o meno profondamente. È ciò che succede ad esempio quando le triplette GAA e GAG (corrispondenti all’acido glutammico) mutano rispettivamente nelle triplette GUA e GUG (che codificano per la valina) nell’ambito del gene che produce l’emoglobina: la nuova proteina, infatti, perde parte della sua funzionalità nel trasporto di ossigeno e gli individui risultano colpiti dalla malattia nota come anemia falciforme. Altre volte ancora la tripletta che si forma a seguito di mutazione è una di quelle che non codifica per alcun aminoacido: in tal caso, ovviamente, amche la funzionalità dell’intera proteina risulta del tutto annullata e ben difficilmente l’individuo potrà sopravvivere alla mutazione. L’addizione o la perdita di un nucleotide hanno invece sempre effetti molto vistosi. Infatti, dal punto in cui avviene la mutazione in avanti tutte le triplette risultano sfasate e, di conseguenza, anche la sequenza aminoacidica della proteina viene radicalmente mutata, come si può osservare nell’esempio riportato qui di seguito. • prima della mutazione: ATT CCG GCA GCT TTC CGA • mutazione (eliminazione di un nucleotide contente citosina): ATT CCG GCA GCT TTC CGA • dopo la mutazione: ATT CGG CAG CTT TCC GA... Le mutazioni geniche sono di solito recessive e spesso sono negative, se non addirittura letali. Tenderanno quindi a scomparire con la morte degli individui colpiti. Soltanto se arrecano qualche vantaggio evolutivo vengono conservate e possono anzi diffondersi tra gli individui che costituiscono una popolazione. Mutazioni cromosomiche Le mutazioni cromosomiche hanno per oggetto parti di un cromosoma. Tali parti possono andare perdute (delezioni), oppure venire replicate (duplicazioni), oppure ancora trasferirsi da un cromosoma ad un altro non omologo (traslocazioni). Chiaramente, le delezioni hanno quasi sempre effetti deleteri, mentre le duplicazioni e le traslocazioni possono anche risultare vantaggiose e venire quindi conservate. Mutagenesi Poiché le mutazioni creano variabilità genetica, esse possono venire utilizzate per migliorare le caratteristiche delle piante coltivate. Si tratta, in pratica, di fare in modo che le mutazioni avvengano nel materiale che ci interessa ad un tasso molto più frequente di quello naturale. Sarà così possibile valutare le modificazioni indotte e conservare solo quelle che presentano caratteristiche di interesse. Tale tecnica, che prende il nome di mutagenesi, è stata applicata comunemente negli anni successivi all’ultima guerra mondiale ed ha prodotto numerose varietà ancora oggi coltivate. Attualmente, il ricorso alla mutagenesi è notevolmente ridimensionato, soprattutto a seguito dello sviluppo di tecniche di miglioramento genetico più mirate, quali ad esempio la trasformazione genetica (vedi più avanti). Le cause che possono indurre mutazioni sono numerose, ma raggruppabili in due grandi categorie: i mutageni fisici e quelli chimici. Tra i primi abbiamo i cosiddetti shock termici, quali ad esempio forti e rapide escursioni tra basse ed alte temperature. Tuttavia, i mutageni fisici di gran lunga più utilizzati sono le radiazioni. Queste possono essere di tipo non ionizzante, quali i raggi ultravioletti: essi, tuttavia, sono poco penetranti, essendo dotati di un modesto livello di energia. Vengono pertanto utilizzati soprattutto per indurre mutazioni su strutture semplici e delicate, quali granuli pollinici o cellule coltivate in ambiente controllato. Le radiazioni ionizzanti sono invece molto più ricche di energia, tant’è che il loro uso può risultare pericoloso per un operatore che non prenda le adeguate protezioni. Radiazioni ionizzanti sono i raggi x (che vengono prodotti da sostanze radioattive naturali), i neutroni, i raggi α e quelli β, ma soprattutto i raggi γ. Questi ultimi vengono liberati da elementi radioattivi quali il radio e il cobalto e sono quelli maggiormente utilizzati nel campo della mutagenesi vegetale. Le radiazioni ionizzanti risultano particolarmente efficaci sulle cellule che si stanno dividendo: questo è il motivo per cui vengono anche impiegate, sia a pure a dosi più elevate, nella lotta contro i tumori. I mutageni di natura chimica sono numerosissimi ed appartengono a svariate categorie. Abbiamo in primo luogo i cosiddetti analoghi della basi, cioè sostanze che hanno una struttura chimica simile a una base azotata (di cui possono prendere il posto), ma funzionalità di una base diversa. Un esempio è quello del 5 bromo-uracile, che può sostituire la timina, ma che però si appaia con la guanina. Altri mutageni chimici sono i reattivi degli acidi nucleici, sostanze cioè in grado di interferire con la struttura chimica del DNA, modificandola in modo più o meno ampio. A questa categoria appartengono l’acido nitroso, l’etil-metan-sulfonato, l’idrossilamina. Abbiamo poi perossidi ed ipossidi, carbammati, acridine, ecc. per un elenco che potrebbe essere molto lungo. Per quanto concerne infine gli organi da trattare durante la mutagenesi, è evidente come sia assolutamente necessario modificare le cellule che origineranno le strutture riproduttive: in caso contrario la mutazione risulterà limitata all’individuo che la ha subita, ma non potrà trasmettersi alla sua discendenza. I trattamenti mutageni vanno quindi eseguiti su semi, piante le cui cellule si trovano in divisione meiotica, granuli pollinici oppure gemme. Solo nel caso di piante a propagazione vegetativa (ad esempio la maggior parte dei fruttiferi) sarà possibile conservare mutazioni che colpiscono cellule somatiche.