Il ruolo delle associazioni antiracket nel processo penale per reati di mafia: da
persone offese di creazione politica a parti civili
Alessandro Quattrocchi
CRIMINALITA’
Si ricostruiscono le potenzialità delle strategie d’azione dell’antimafia sociale, con particolare
riferimento alle associazioni antiracket, suggerendo una prospettiva di riforma normativa per
rafforzare le attività di contrasto alla criminalità organizzata
1. Ambito di indagine e obiettivo della ricerca: note introduttive
Quando si parla di lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso si è soliti fare riferimento
alla cosiddetta antimafia istituzionale, della quale sono per definizione protagonisti i più tradizionali
poteri dello Stato, in special modo quello legislativo e quello giudiziario. Accanto a questa forma di
contrasto, tuttavia, negli ultimi tempi più che in passato, si sono registrate forme e modalità di
reazione al fenomeno mafioso provenienti “dal basso”, dalla gente comune “non addetta ai lavori”.
Iniziative siffatte si inquadrano nell’ambito della cosiddetta antimafia sociale, una peculiare forma
di resistenza alle organizzazioni criminali mafiose, di cui sono attori gruppi di cittadini, più o meno
formalmente organizzati, che, a vario titolo e con modalità plurime, si affiancano ai più tradizionali
modelli d’azione dell’antimafia istituzionale.
Tra le iniziative in parola, un ruolo di spicco è quello giocato dall’associazionismo antiracket, con
tale espressione alludendosi a quei movimenti di soggetti animati dalla volontà di infrangere il muro
di omertà che normalmente fa da scudo all’estorsione del pizzo, che si aggregano nelle forme della
persona giuridica (in particolare, l’associazione) per promuovere una cultura della legalità in
opposizione al fenomeno mafioso. Il fine prioritario che anima le esperienze in parola è quello di
tutelare la libertà di iniziativa economica, sciogliendola dalla morsa delle pressioni malavitose, in
modo tale da preservare e tutelare le prerogative dei cittadini-consumatori e degli operatori
economici, vittime delle distorsioni economiche che il racket delle estorsioni reca con sé.
Tra gli ambiti di intervento dell’associazionismo antiracket, un rilievo sempre maggiore ha riscosso
e continua a ricevere quello strettamente giudiziario, con riferimento al ruolo assolto dagli enti
associativi all’interno dei processi penali per il delitto di associazione di stampo mafioso finalizzata
alla commissione di estorsioni in danno agli operatori economici, imprenditori commerciali o liberi
professionisti. Come direttamente testimoniato da chi vi ha preso parte in prima persona1, iniziative
siffatte si fondano sul presupposto della titolarità, da parte dell’associazione, di una situazione
soggettiva che superi e non si limiti ad assorbire quella dei singoli aderenti.
1
GRASSO T., Contro il racket. Come opporsi al ricatto mafioso, Bari, 1992, passim.
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1 Alla luce di tali premesse, lo scopo che anima il presente contributo è quello di rendere conto dello
stato dell’arte dell’intervento processuale delle associazioni antiracket, per giungere al suo corretto
inquadramento dogmatico e alla sua esatta qualificazione giuridica. Per fare ciò, si prenderanno le
mosse dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, come stratificatosi nel tempo, non
già in una prospettiva statica e astratta, bensì in quella dinamica e concreta dell’applicazione
giurisprudenziale. E’ il vaglio applicativo, infatti, a costituire il migliore banco di prova
dell’efficacia di una legislazione rispetto agli scopi che hanno condotto alla sua adozione ed è nelle
stesse aule di tribunale che emergono i profili di criticità di un testo normativo, rendendo più
semplice intervenire in loro emenda.
Parallelamente al percorso ricostruttivo che ci si propone di intraprendere, quindi, verrà posta in
essere una lettura critica degli istituti giuridici coinvolti, costituenti il concreto strumentario a
disposizione dell’associazionismo antiracket nella sede giudiziaria. Istituti giuridici che la
giurisprudenza, in virtù di un’interpretazione adeguatrice, ha gradualmente adattato alle esigenze
operative degli enti associativi ed alle istanze civiche che essi veicolano all’interno del processo
penale, a fronte di un repertorio normativo spesso inadeguato. In epilogo all’illustrata trattazione,
pertanto, non si mancherà di rilevare l’opportunità di un intervento riformatore da parte del
legislatore, affinché intervenga sulla materia e recepisca i più avveduti orientamenti
giurisprudenziali di cui si dirà, così da consacrarli al principio di civiltà giuridica costituito dalla
certezza del diritto.
2. La costituzione di parte civile nel processo penale: diversità tra danneggiato e persona
offesa dal reato
Per introdurre adeguatamente il tema in questione, appare opportuno prendere le mosse
dall’esperienza dell’Associazione commercianti e imprenditori orlandini (A.C.I.O.), il primo ente
collettivo, in una prospettiva cronologica, ad aver intrapreso la non semplice via della costituzione
di parte civile nei processi per mafia. Difatti, soltanto a seguito di non semplici valutazioni di
opportunità, giuridica e non, con decisione del luglio 1991, il Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Patti ammise l’A.C.I.O. a costituirsi parte civile nel procedimento a carico di alcuni
esponenti della cosca mafiosa di Tortorici, dando per la prima volta ingresso ad un’associazione
all’interno del processo penale.
Nell'ordinanza del G.i.p. si apprezzano i riferimenti alle finalità istituzionali della citata
associazione antiracket ed alla natura di reato di pericolo astratto della fattispecie associativa
mafiosa, che conduce ad una presunzione di danno in capo all'ente medesimo. Danno, quest’ultimo,
che è requisito della legittimazione a costituirsi parte civile ai sensi dell’art. 74 c.p.p. ed al cui
risarcimento la medesima costituzione è normalmente finalizzata.
Il danno risarcibile cui si allude è quello di cui all’art. 185 c.p., alla cui stregua ogni reato obbliga
alle restituzioni previste dalle leggi civili. Ne consegue che, ove dall’illecito sia scaturito un
pregiudizio (patrimoniale o meno), esso deve essere risarcito dal colpevole (o dalle persone che a
norma delle leggi civili debbono rispondere per il fatto di lui). L’art. 185 c.p., pertanto, si pone
quale norma di cerniera tra le due principali aree dell’esperienza giuridica, quella penale e quella
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2 civile, disciplinando le conseguenze risarcitorie derivanti dalla commissione di un reato2. Sicché, se
da una parte la produzione di un danno costituisce presupposto della costituzione di parte civile,
dall’altra parte consente di individuare il titolare della relativa facoltà, cioè il soggetto danneggiato
dal reato, figura distinta e astrattamente separata da quella di persona offesa.
Con maggiore impegno esplicativo, va rilevato che il vigente codice di procedura penale, nel
complessivo intento di riordinare i ruoli dei soggetti intervenienti nel procedimento giudiziario, ha
distinto il danneggiato dal reato, di cui è facultata la costituzione nella compagine processuale a
titolo di parte civile e titolare della pretesa risarcitoria o restitutoria, dall’offeso dal reato, titolare
dell’interesse giuridico tutelato dalla norma penale incriminatrice. Soggetto danneggiato e soggetto
offeso possono coincidere, ma, sebbene questa rappresenti la normalità della casistica, non ne
costituisce la regola: si faccia il caso del reato di omicidio, laddove soggetto offeso, all’evidenza, è
il defunto, mentre danneggiati ne risultano i prossimi congiunti.
In un contesto siffatto, con riferimento precipuo agli enti rappresentativi degli interessi lesi dal
reato, il legislatore si è posto il problema del loro ruolo e della loro attitudine partecipativa al
processo penale. In questa prospettiva, agli enti associativi, subordinatamente al soddisfacimento di
certe condizioni, sono stati attribuiti gli stessi diritti e le stesse facoltà proprie della persona offesa
dal reato, venendogli per tale via riconosciuta la possibilità di intervenire nel procedimento penale,
affiancando la persona offesa dal reato e divenendo, come quest’ultima, soggetti del processo
penale e, si badi, non già parti processuali.
Tale precisazione terminologica non costituisce mero esercizio linguistico o dogmatico, atteso che il
codice di rito riconduce a ciascuna delle due distinte categorie di parte e di soggetto del
procedimento penale un diverso novero di diritti e di facoltà.
In particolare, la persona offesa dal reato, nella sua qualità di soggetto del procedimento, può
esercitare i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge ai sensi dell’art. 90, co.
1, c.p.p., riconducibili essenzialmente a quattro categorie:
1) In primo luogo, vengono in considerazione dei poteri meramente sollecitatori dell'attività
dell'autorità inquirente, come la presentazione di memorie o l’indicazione di elementi di
prova nel corso del procedimento;
2) In secondo luogo, l'offeso gode di poteri di carattere informativo: egli riceve l'informazione
di garanzia (art. 369 c.p.p.), inviata dal pubblico ministero quando stia per compiere un atto
garantito nei confronti di un indagato; al pari dell'indagato, ha un potere di accesso al
registro delle notizie di reato, mediante apposita richiesta al pubblico ministero (art. 335 co.
3 c.p.p.); inoltre, nei casi nei quali il pubblico ministero proceda al compimento di un
accertamento tecnico non ripetibile, avvisa l'offeso (nonché l'indagato e i difensori) del
giorno, del luogo e dell'ora del conferimento dell'incarico, informando, altresì, della facoltà
di nomina di un consulente tecnico di parte (art. 360 c.p.p.). Ancora, la persona offesa vanta
ulteriori diritti di informativa: deve essere avvisata della data e del luogo nel quale si
2
Giova puntualizzare che l’art. 185 c.p. non vanta un’efficacia costitutiva del diritto alle restituzioni e al risarcimento
del danno, limitandosi piuttosto a dettare regole integratrici dei generali principi di cui agli artt. 2043 e 2059 c.c. In
questo senso, Cass., VI, 21 gennaio 1992, Dalla Bona, in Cass. pen. 1992, 2376; Cass., VI, 4 maggio 2006, Battistella e
altri, ivi 2006, 3576.
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3 svolgerà l'udienza preliminare (art. 419 co. 1 c.p.p.) e deve esserle notificato il decreto che
dispone il giudizio (art. 429 co. 4 c.p.p.);
3) In terzo luogo, si prospettano poteri di partecipazione al procedimento, esercitabili dalla
persona offesa che abbia nominato un difensore. Quest'ultimo può limitarsi ad assistere ai
pochi atti di indagine per i quali è ammessa la sua presenza (che si riducono, in definitiva,
all'accertamento tecnico non ripetibile), oppure può attivarsi fino a svolgere le investigazioni
difensive di cui all’art. 327 bis c.p.p. Ancora, tra i poteri partecipativi, la persona offesa
(personalmente o per mezzo del difensore) può chiedere per iscritto al pubblico ministero di
promuovere un incidente probatorio, nel quale venga assunta una prova non rinviabile al
dibattimento. In ogni caso, se l'incidente si svolge (sia a seguito di tale sollecitazione, sia su
autonoma richiesta del pubblico ministero o dell'indagato), il difensore della persona offesa
sarà preavvisato, potrà parteciparvi e, altresì, chiedere al giudice di rivolgere domande alle
persone sottoposte ad esame (art. 401 co. 5 c.p.p.);
4) Infine, alla persona offesa sono riconosciuti poteri di tipo prettamente penalistico, che
tendono a tutelare il suo interesse ad ottenere il rinvio a giudizio dell'imputato e che si
concretizzano in una forma di controllo sulla eventuale inattività del pubblico ministero.
Non essendo attribuita all’offeso una vera e propria azione penale, quel potere proprio della
pubblica accusa di chiedere al giudice il rinvio a giudizio dell'indagato, in compenso gli
sono conferiti poteri di controllo, che gli consentono di mettersi in contatto con il giudice
per le indagini preliminari e presentargli le proprie conclusioni in due delicate ipotesi:
quando il pubblico ministero abbia chiesto al giudice la proroga delle indagini (art. 406 co. 3
c.p.p.) ovvero quando gli abbia chiesto l'archiviazione (art. 408 co. 2 c.p.p.). Nei due casi,
l'iniziativa del pubblico ministero deve essere resa nota soltanto alla persona offesa, che in
precedenza abbia formalmente chiesto al medesimo di esserne informata.
Diverso dal concetto di soggetto sinora tratteggiato è quello di parte, tradizionalmente correlato alla
nozione di azione. Non a caso, sono parti del processo il soggetto attivo e quello passivo dell'azione
penale. Pertanto, si può definire parte processuale colui che abbia chiesto al giudice una decisione
in relazione all'imputazione e colui contro il quale tale decisione sia richiesta. Con riferimento
all'esercizio dell'azione penale, dunque, sono parti (necessarie) il pubblico ministero e l'imputato.
Tuttavia, come precedentemente prospettato, in seno al processo penale il danneggiato dal reato può
esercitare l'azione civile tendente ad ottenere la condanna dell'imputato al risarcimento del danno
derivante dal reato (a mente del combinato disposto degli artt. 185 c.p. e 76 c.p.p.). Il danneggiato,
segnatamente, ha facoltà di esercitare l'azione civile costituendosi parte civile in un momento
successivo a quello in cui il pubblico ministero ha esercitato l'azione penale (art. 79 c.p.p.).
Peraltro, l'esercizio dell'azione civile in sede penale è solo eventuale, in quanto subordinato ad una
scelta meramente facoltativa del danneggiato. In tal senso, la stessa parte civile è una parte definita
eventuale: parte poiché chiede al giudice una decisione in relazione all'imputazione; eventuale
perché la sua esistenza deriva da una scelta libera e discrezionale.
Risultano evidenti i vantaggi incontrati dal danneggiato nel caso in cui si determini a esercitare
l'azione civile in seno al processo penale: egli non anticipa le spese del procedimento né deve
affaccendarsi nella ricerca delle prove, potendosi affidare all’attività investigativa condotta dal
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4 pubblico ministero; inoltre, gode dei tempi più celeri che normalmente connotano la giustizia
penale.
Alla stregua di tali considerazioni, si può osservare come alla persona offesa il codice abbia
riconosciuto un ruolo prettamente penalistico, vale a dire un interesse ad ottenere la persecuzione
penale del colpevole del reato; viceversa, al danneggiato che si sia costituito parte civile, il codice
ha voluto riconoscere un ruolo prettamente civilistico, intendendo tutelarne l'interesse ad ottenere il
risarcimento del danno derivante dal reato. L’effettività di un risultato siffatto alla prova dei fatti
non è facilmente apprezzabile, perché nella prassi giudiziaria la parte civile si comporta come
un'accusa penale privata e, viceversa, la persona offesa è presente nel procedimento, il più delle
volte, al fine di stimolare l'accusa nella ricerca di quegli elementi di prova sui quali,
successivamente, la medesima persona offesa valuterà se fondare la richiesta di risarcimento del
danno.
3. Le associazioni antiracket in seno al processo: qualificazione giuridica e disciplina
Tanto posto a titolo preliminare e propedeutico, è ora possibile prendere in considerazione il peso
specifico vantato dagli enti collettivi in seno al procedimento penale e, segnatamente, indagare
quale qualificazione, tra quella di parte e quella di soggetto del procedimento, sia loro più
confacente.
A beneficio degli enti e delle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, come si diceva,
il codice di rito, ai sensi dell’art. 91 c.p.p., ha attribuito il diritto di intervento e il connesso esercizio
dei diritti e delle facoltà riconosciuti alla persona offesa (soggetto e non parte processuale). Trattasi
di una previsione rispondente al duplice fine, da un lato, di soddisfare l’esigenza di riconoscimento
di spazi di tutela penale agli interessi diffusi e collettivi nel processo e, dall’altro, di porre fine ai
diffusi orientamenti giurisprudenziali, che, forzando i presupposti per l’esercizio dell’azione civile
nel processo penale e travalicandone i limiti, postulavano la personificazione delle situazioni diffuse
ed ammettevano la costituzione di parte civile degli enti che ne fossero portatori, permettendo una
sorta di azione penale collettiva a supporto e controllo di quella pubblica3.
L'ente o associazione rappresentativa di un interesse leso dal reato, alla luce della vigente
normativa, è stata opportunamente qualificata come persona offesa di creazione politica4, con ciò
volendosi evidenziare l’assimilazione ope legis dell’organizzazione alla distinta e autonoma figura
della vera e propria persona offesa dal reato tradizionalmente intesa ex art. 90 c.p.p.
3
Nel previgente testo codicistico del 1930, infatti, ricorreva una vistosa sfuocatura tra la pretesa risarcitoria in senso
stretto e l’interesse dei soggetti collettivi a partecipare al procedimento, tutelabile solo attraverso la costituzione di parte
civile. Tale diritto veniva sostanzialmente riconosciuto in forza del fenomeno dell’“incorporazione” dell’interesse
collettivo nello scopo dell’ente: perché l’azione fosse ammissibile, si sosteneva, occorreva che il reato avesse leso un
interesse coincidente con un diritto reale o comunque soggettivo del sodalizio e, quindi, anche se offeso fosse l’interesse
perseguito in riferimento ad una situazione storicamente circostanziata, dal sodalizio assunta statutariamente a ragione
della propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto assoluto ed essenziale dell’ente. Ciò sia a causa
dell’immedesimazione tra l’ente e l’interesse perseguito, sia a causa dell’incorporazione dei soci nel medesimo
sodalizio, sicché quest’ultimo, in forza dell’affectio societatis verso l’interesse prescelto e per il pregiudizio a questo
arrecato, patisce una offesa e, per l’effetto, anche un danno non patrimoniale da reato.
4
Terminologia utilizzata da TONINI P., Manuale di procedura penale, Milano, 2010, p. 158.
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5 Addentellato normativo della riferita disciplina è costituito dall'art. 91 c.p.p., a mente del quale
l'ente può esercitare in ogni stato e grado del procedimento i diritti e le facoltà attribuiti alla persona
offesa dal reato. Ne discende che l'associazione è soggetto del procedimento, non già parte di esso,
e, in quanto tale, si colloca come accusatore a fianco del pubblico ministero, senza tuttavia poter
esercitare né l'azione penale né l'azione civile di danno.
L’ente associativo, quindi, risulta collocato in posizione subalterna rispetto alla pubblica accusa,
della quale è alleato, ed assoggettata alla volontà determinante dell’offeso. Soluzione, quest’ultima,
che tenta di conciliare le esigenze di tutela degli interessi collettivi con la necessità di evitare lo
squilibrio tra accusa e difesa, che potrebbe conseguire alla proliferazione delle parti private.
Il codice, peraltro, permette l'intervento degli enti collettivi subordinatamente al soddisfacimento di
rigidi requisiti, che hanno (o dovrebbero avere) la funzione di evitare che venga violato il principio
di parità delle parti, canone informatore del processo penale. Quale primo requisito, pertanto, si
richiede che l'ente collettivo sia riconosciuto in forza di legge e che tale riconoscimento sia
intervenuto anteriormente alla commissione del reato. Quale secondo requisito si pretende che l'ente
sia rappresentativo, cioè abbia come finalità la tutela dell'interesse (collettivo o diffuso) leso dal
reato e, viceversa, che non abbia scopo di lucro. Infine, quale terzo requisito, è postulato il consenso
della persona offesa dal reato (art. 92 c.p.p.), laddove identificabile. Quest'ultima può prestare il
proprio consenso a non più di un ente e può, altresì, revocarlo, col limite di non poter più prestare
un nuovo consenso, né al precedente organismo né ad altri.
L'ente che soddisfi i predetti requisiti può presentare all'autorità giudiziaria procedente un atto di
intervento. In tal modo viene ammesso all’esercizio, in seno al procedimento penale, dei
summenzionati diritti e facoltà, che il codice attribuisce alla persona offesa dal reato, conseguendo
la qualifica di persona offesa di creazione politica, adempiente le predette funzioni coadiuvanti alla
pubblica accusa.
Diversamente, una certa legislazione speciale ha attribuito a taluni enti rappresentativi di interessi
lesi dal reato specificamente individuati la legittimazione a costituirsi quali vere e proprie parti
civili. Così per le associazioni e le fondazioni riconosciute per la prevenzione del fenomeno
dell’usura nei giudizi relativi a tale reato, ex art. 10 L. 108/1996, trattandosi di enti iscritti in
apposito elenco tenuto dal Ministero del Tesoro, il cui scopo di prevenzione, perseguito attraverso
forme di tutela, assistenza ed informazione, risulti dall’atto costitutivo e dallo statuto. A ben vedere,
la norma in parola costituisce una deroga ai principi generali dettati dai succitati artt. 74 e 91 c.p.p.,
il cui mancato richiamo consente di ritenere che i soggetti collettivi in parola siano titolari di un
potere autonomo, il cui esercizio prescinde dal consenso della persona offesa e, soprattutto,
dall’effettivo danno subito. La deroga in parola va ricondotta alla scelta legislativa di consentire una
sorta di azione civile parallela a quella del danneggiato del reato, in linea con la volontà di conferire
maggiore incisività alla lotta all’usura ed offrire una maggiore tutela al soggetto usurato, che
statisticamente evita di costituirsi parte civile per timore di possibili ritorsioni.
Se così stanno le cose, è legittimo interrogarsi sull’opportunità dell’introduzione di una previsione
analoga, che legittimi la costituzione di parti civili delle associazioni antiracket, operanti in un
ambito, quello del racket delle estorsioni, in cui si rinvengono le stesse esigenze e criticità che
hanno giustificato la scelta legislativa rispetto alle associazioni antiusura. Le occasioni per
interventi siffatti di certo non sono mancate, essendo stati molteplici i provvedimenti legislativi
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6 emanati in materia (da quello di costituzione di un Fondo di solidarietà per le vittime dell’estorsione
a quello che lo ha accorpato con il Fondo di solidarietà alle vittime dell’usura).
Proprio ravvisando in tale mancata previsione una occasione perduta da parte del legislatore,
determinante un vulnus di tutela in tale specifico ambito, è stato intrapreso un articolato percorso
ermeneutico, che, in funzione di vicaria del silenzio legislativo, ha ugualmente condotto, in forza di
una interpretazione adeguatrice e costituzionalmente orientata, all’ammissione in seno al processo
penale degli enti impegnati nel contrasto all’estorsione, le associazioni antiracket, a titolo di parti
civili e non più di mere persone offese di creazione politica.
4. Il quadro normativo di riferimento al banco di prova della giurisprudenza: casistica di
un’interpretazione adeguatrice
Rispetto al profilo da ultimo evocato, occorre richiamare l’art. 212 disp. att. e coord., con cui si
stabilisce che, al di fuori delle ipotesi indicate nell’art. 74 c.p.p., non è ammessa la costituzione di
parte civile degli enti esponenziali, cui, invece, è riservato il solo intervento disciplinato dall’art. 91
c.p.p. A dispetto della chiarezza del dettato legislativo, che sbarrerebbe la strada della costituzione
di parte civile da parte delle associazioni, la giurisprudenza ha revocato in dubbio tale conclusione,
lamentando l’impostazione eccessivamente restrittiva e formalistica della citata normativa e
rilevando l’inadeguatezza dell’intervento ex art. 91 c.p.p., a titolo di persona offesa di creazione
politica, a soddisfare le esigenze di rappresentatività degli enti associativi in seno al processo
penale, frustrando l’effettività della tutela delle istanze collettive di base che essi veicolano.
Infatti, come si è già detto, l’art. 91 c.p.p. pone, quale indefettibile presupposto per l’ammissibilità
all’esercizio nel processo penale dei poteri previsti in favore degli enti collettivi, che a questi ultimi
siano state riconosciute legislativamente5 finalità di tutela degli interessi lesi dal reato. Tale
requisito preclude la possibilità di un autoriconoscimento da parte degli stessi enti, sottraendo,
altresì, tale accertamento alla discrezionalità del giudice e garantendo che legittimati all’intervento
siano solo gli enti associativi dotati di un sufficiente grado di stabilità e serietà, tale da farne degli
attendibili interlocutori processuali. Se la ratio di fondo risulta apprezzabile, il rigore di tale
disciplina, tuttavia, appare superfluo allo scopo, atteso che il favor all’intervento degli enti
istituzionalizzati si traduce in una discriminazione irragionevole delle altre formazioni sociali.
Anche gli altri requisiti, che la legge impone a garanzia dell’affidabilità oggettiva dell’associazione
che aspiri a intervenire nel processo, quali l’assenza di scopo di lucro e l’anteriorità del
riconoscimento delle finalità di tutela degli interessi lesi al fatto di reato, sarebbero diretti ad evitare
che l’ente esponenziale persegua scopi obliqui all’interno della compagine processuale,
inquinandola con obiettivi estranei al soddisfacimento delle istituzionali istanze repressive6. In
particolare, l’anteriorità del riconoscimento delle finalità di tutela degli interessi lesi rispetto alla
commissione del reato per cui si procede appare ispirata a ragioni di trasparenza, coerenza e rigore,
5
Si ritiene sufficiente, altresì, il riconoscimento avvenuto in forza di legge regionale ovvero in forza di fonte
subprimaria, come regolamenti o atti amministrativi, purché in esecuzione di previsioni di legge.
6
AMODIO E., Persona offesa dal reato, in Commentario al nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, p. 557.
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7 intendendo prevenire la costituzione strumentalizzata di nuovi soggetti collettivi, che potrebbero
sortire effetti distorsivi sui delicati equilibri esistenti tra accusa e difesa nel processo penale7. In
senso contrario, però, si è rilevato come, in concreto, gli enti formatisi a seguito della commissione
del fatto siano spesso quelli maggiormente idonei a rappresentare gli interessi lesi dal reato8.
Infine, l’ultimo requisito richiesto per l’intervento è il consenso della persona offesa dal reato, al
quale è dedicato l’intero art. 92 c.p.p. Esso intende salvaguardare la posizione e le prerogative della
persona offesa dalle eventuali interferenze dell’ente associativo ma, ciononostante, si traduce in un
potere preclusivo ultroneo rispetto allo scopo perseguito e, inoltre, presuppone in modo assoluto la
prevalenza dell’interesse di cui è portatore il singolo soggetto rispetto a quelli collettivi e diffusi
dell’associazione, che abbisognerebbe, viceversa, di maggiore flessibilità valutativa.
Sulla scorta di tali ordini di ragioni, i riferiti limiti oggettivi e soggettivi per l’intervento degli enti
esponenziali nel procedimento penale ai sensi dell’art. 91 c.p.p.9, accompagnati alla minore
incisività delle facoltà conseguenti all’assunzione del ruolo di mero soggetto processuale rispetto ai
più penetranti poteri propri della parte civile, hanno indotto la giurisprudenza, animata dalla volontà
di esaltare la tutela giurisdizionale degli interessi superindividuali lesi in conseguenza del reato, al
recupero delle elaborazioni sviluppatesi sotto il previgente codice di rito del 1930, che avevano
ammesso la costituzione di parte civile degli enti. Le opzioni ermeneutiche effettuate dai giudici, in
questa specifica materia, tradiscono la tendenza ad ignorare il menzionato art. 212 disp. att. e
coord., ponendosi, per l’effetto, in netto contrasto con il dettato legislativo.
Ciononostante, è per tale via eminentemente pretoria che si è pervenuti a ritenere sussistente la
legittimazione alla costituzione di parte civile di un ente, anche al solo fine di ottenere il
risarcimento del danno rappresentato dalla lesione del diritto soggettivo riguardante lo scopo
perseguito o la sua personalità10, pur non essendo mancate decisioni più aderenti al dettato
normativo, che hanno escluso la legittimazione alla costituzione di parte civile degli enti collettivi,
rilevando che l’istituto deputato alla tutela degli interessi diffusi nel processo penale sia il riferito
intervento ex art. 91 c.p.p.11.
Ad ogni buon conto, l’orientamento interpretativo favorevole ad ammettere la costituzione di parte
civile degli enti ha trovato accoglimento anche in talune significative pronunce della Corte di
Cassazione, la quale, previa equiparazione tra il pregiudizio di un interesse qualificabile come
collettivo e la lesione di un vero e proprio diritto soggettivo dell’ente, ha più volte ammesso la
costituzione di associazioni o organizzazioni ritenute rappresentative di interessi lesi dalla condotta
criminosa12.
7
CHILIBERTI A., Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 1993, p. 75.
RIVELLO P.P., Riflessioni sul ruolo ricoperto in ambito processuale della persona offesa dal reato e dagli enti
esponenziali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 622.
9
La norma fa ricorso ad una fictio iuris tale per cui gli enti, pur non essendo titolari del bene giuridico protetto dalla
norma penale, ai fini del ruolo loro attribuito di accusa penale sussidiaria ed accessoria, vengono considerati come se lo
fossero. Eppure non formulano conclusioni, non propongono domande e non sono ammessi al deposito di liste
testimoniali: trattasi di meri soggetti processuali privi della qualità di parte.
10
Cfr. Cass., III, 29 agosto 1996, Perotti, Arch. n. proc. pen. 1996, 871.
11
Trib. Milano 19 dicembre 2005, Foro ambr. 2005, 433.
12
Con precipuo riferimento al reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, si è ritenuto che lo stesso ente
territoriale comunale riveste il ruolo di soggetto rappresentativo degli interessi della collettività danneggiata e sia per
ciò stesso legittimato alla costituzione di parte civile. Cfr. Cass., I, 7 agosto 1985, Aslan, Cass. pen. 1986, 822.
8
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8 La legittimazione all’azione risarcitoria dell’associazione in sede penale mediante costituzione di
parte civile, secondo questa giurisprudenza13, sussiste ove dal reato sia derivato causalmente un
danno a un suo diritto reale ovvero soggettivo e, quindi, anche se offeso sia un semplice interesse
perseguito in riferimento ad una situazione storicamente circostanziata, assunto statutariamente a
ragione stessa dell’esistenza e dell’azione associativa, in quanto tale oggetto di un diritto assoluto
dell’ente. A tale conclusione si perviene tanto a causa dell’immedesimazione fra l’ente e l’interesse
perseguito, quanto per effetto dell’incorporazione fra sodalizio e suoi membri, sicché esso, per
l’affectio societatis verso l’interesse prescelto e per il pregiudizio a questo arrecato, patisce
un’offesa e, perciò, anche un danno non patrimoniale da reato.
Rispetto alle conclusioni da ultimo evidenziate, significato dirimente hanno avuto le evoluzioni
giurisprudenziali in tema di danno non patrimoniale, quello consistente nelle sofferenze fisiche e
psichiche patite a causa del reato ai sensi dell’art. 2059 c.c. . Trattasi di un danno non quantificabile
per equivalente, non essendo possibile ripristinare la situazione anteriore alla sua verificazione, che,
perciò, viene calcolato con modalità di tipo satisfattivo, tali per cui il giudice, in via equitativa,
determina una somma di denaro che possa risarcire le sofferenze patite (non a caso si parla,
tradizionalmente, di pecunia doloris). Inoltre, secondo l'interpretazione costituzionalmente orientata
dell'art. 2059 c.c., affermatasi nell’ultimo decennio, il danno non patrimoniale è risarcibile in due
ordini di ipotesi: in primo luogo, quando la risarcibilità è prevista in modo espresso dalla legge
(come nel caso paradigmatico di cui all’art. 185 c.p.); in secondo luogo, quando, pur in assenza di
una previsione normativa, il danno non patrimoniale deriva dalla lesione di diritti inviolabili della
persona riconosciuti dalla Costituzione.
In questa generale cornice dogmatica va contestualizzata la prassi delle associazioni, in specie
quelle antiracket, di fare statutariamente proprio lo scopo di promozione di una cultura della legalità
e di una solidarietà civica e sociale, in opposizione al fenomeno delle organizzazioni criminali di
stampo mafioso e, in particolare, all’estorsione del pizzo, ambendo a ideare, progettare e sostenere
iniziative, attività ed interventi finalizzati a promuovere la nascita di un movimento antimafia e
antiracket tra i cittadini e gli operatori economici del territorio, di diffondere ed organizzare le più
efficaci iniziative per il contrasto al racket delle estorsioni, di prestare assistenza e solidarietà a
soggetti che svolgono attività economica e sono vittime di richieste estorsive, anche attraverso la
propria costituzione di parte civile nei procedimenti penali14. Perciò, alla luce di quanto
opportunamente premesso, non può disconoscersi che la consumazione dei più tipici reati di
criminalità organizzata, quale l’associazione di stampo mafioso ex art. 416 bis c.p. e l’estorsione ex
art. 629 c.p. aggravata dal fine o dal metodo mafioso (art. 7 D.L. n. 152/1991), cagioni un danno in
spregio all’ente associativo.
Nella fattispecie, si tratterebbe di un danno non patrimoniale azionabile ai sensi dell’art. 2059 c.c.,
poiché i citati reati di mafia attingono alla libertà commerciale ed imprenditoriale, bene giuridico
tutelato costituzionalmente ex art. 41 Cost. sub specie di libertà di iniziativa economica. Questa
ultima, già diritto soggettivo delle parti offese, quando assunta tra le finalità perseguite
13
Cass., Sez. VI, 10 gennaio 1990, n. 59, Monticelli, Giust. Pen., 1990, II, 204.
Cfr. Art. 2, co. 1 e 2 dello Statuto dell’associazione Comitato AddioPizzo, consultabile all’indirizzo
http://www.addiopizzo.org
14
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9 dall’associazione, diventa anche diritto soggettivo dell’ente collettivo che si prefigge di tutelarla e,
in questa diversa seppur contigua prospettiva, è suscettibile di una ulteriore lesione dante luogo a un
autonomo diritto al risarcimento.
Ad avvalorale l’illustrato excursus ricostruttivo, merita di essere segnalata una casistica
giurisprudenziale sempre più attenta e frequente nel riconoscere un ruolo alle associazioni, in specie
antiracket, non di semplici enti esponenziali di un mero interesse diffuso, ma di centri di
imputazione e contitolari di un vero e proprio diritto alla libertà di commercio e imprenditoria.
Casistica, questa, che restituisce alla società civile un chiaro segno positivo, che saluta
favorevolmente le iniziative di antimafia sociale di tal fatta.
Tra queste pronunce giurisprudenziali, senza pretesa di esaustività, si vogliono ricordare:
− la sentenza n° 1675/04 R.S., con cui il Tribunale di Napoli Uff. XVIII G.U.P., in data
15/07/04, ha condannato gli imputati al risarcimento del danno alle costituite parti civili
“Pianura per la Legalità” e F.A.I. “Federazione delle Associazioni Antiracket ed Antiusura
Italiane”, nonché al pagamento delle spese processuali;
− la sentenza n° 1697/06 R.S., con cui il Tribunale di Napoli XI coll. B, in data
27/02/06, ha condannato l’imputato al risarcimento del danno morale alle costituite parti civili
“Pianura per la Legalità” e F.A.I.;
− la sentenza n° 484/06 R.S. con cui il Tribunale di Napoli Uff. XIV G.U.P., in data
23/02/06, ha condannato gli imputati al risarcimento del danno alla costituita parte civile
“Coordinamento Napoletano delle Associazioni Antiracket”, nonché al pagamento delle spese
processuali;
− la sentenza n° 2671/05 R.S., con cui il Tribunale di Napoli Uff. XXX G.U.P., in data
23/11/05, ha condannato gli imputati al risarcimento del danno causato alle costituite parti
civili “Imprese Edili per la Legalità”, “Coordinamento Napoletano delle Associazioni
Antiracket”, “Pianura per la Legalità” e F.A.I., nonché al pagamento delle spese processuali;
− la sentenza n° 1448/05 R.S., con cui il Tribunale di Napoli Uff. XXII G.U.P. ha
condannato gli imputati al risarcimento del danno causato alla costituita parte civile “Pianura
per la Legalità” nonché al pagamento delle spese processuali;
− l’ordinanza con cui il G.U.P. del Tribunale di Messina nel procedimento c.d.
“Romanza”, in data 23/01/04, ha ammesso la costituzione di parte civile dell’“Associazione
Commercianti ed Imprenditori Brolesi” - A.C.I.B.;
− l’ordinanza con cui il G.U.P. del Tribunale di Messina, in data 29/01/04, nel
procedimento c.d. “Alba chiara”, ha ammesso la costituzione di parte civile dell’
“Associazione Antiracket Messina” – A.S.A.M.;
− l’ordinanza con cui il Tribunale di Patti, in data 22/12/00, ha ammesso la costituzione
di parte civile della “Federazione delle Associazioni Antiracket ed Antiusura Italiane” –
F.A.I.;
− la sentenza n° 27/91 R.S. con cui il Tribunale di Patti, nel processo contro le
associazioni di stampo mafioso di Tortorici, ha condannato gli imputati al risarcimento del
danno causato alla costituita parte civile “Associazione Commercianti ed Imprenditori
Orlandini” (A.C.I.O.), nonché al pagamento delle spese processuali;
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10 − l’ordinanza con cui il G.U.P. di Patti in data 09/01/96, nel procedimento n° 260/95
R.GIP, c.d. “Operazione Castello”, ha ammesso la costituzione di parte civile
dell’“Associazione Commercianti ed Imprenditori Brolesi”- A.C.I.B.;
− l’ordinanza con cui il G.U.P. del Tribunale di Messina, in data 22/04/97, nel
procedimento n° 669/93 c.d. “Mare Nostrum”, ha ammesso la costituzione di parte civile
dell’“Associazione Commercianti ed Imprenditori Brolesi” - A.C.I.B., dell’ “Associazione
Commercianti ed Imprenditori Orlandini”- A.C.I.O. e dell’ “Associazione Commercianti
Imprenditori ed Artigiani Pattesi” - A.C.I.A.P.;
− l’ordinanza con cui il G.U.P. di Barcellona, nel procedimento n° 2069/97 R.G.N.R.
relativo ad episodi di estorsione avverso imprenditori di Terme Vigliatore, ha ammesso la
costituzione di parte civile della “Libera Associazione Commercianti Artigiani Imprenditori”
di Terme Vigliatore L.A.C.A.I.;
− l’ordinanza con cui il Tribunale di Messina Uff. G.U.P. p.p. n° 1496/97 N.R. e
6502/97 G.I.P., in data 23/01/04, ha rigettato le eccezioni della difesa sulla ammissione della
costituzione della parte civile dell’Associazione Antiracket A.C.I.B. di Messina;
− l’ordinanza con cui il Tribunale di Messina Uff. G.U.P., in data 22/05/98, ha rigettato
le eccezioni della difesa sulla ammissione della costituzione delle parti civili delle
Associazioni Antiracket A.C.I.B., A.C.I.O., A.C.I.A.P., A.C.I.S. di Messina;
− l’ordinanza con cui il Tribunale di Messina p.p. 161/96, in data 20/06/96, ha rigettato
le eccezioni della difesa sulla ammissione della costituzione della parte civile
dell’Associazione Antiracket “A.L.I.L.A.C.C.O. S.O.S. Impresa Messina”;
− l’ordinanza con cui il Tribunale di Messina, in data 05/12/97, ha rigettato le eccezioni
della difesa sulla ammissione della costituzione della parte civile dell’Associazione
Antiracket A.C.I.P.A.C.;
− l’ordinanza con cui la Corte di Assise di Messina, in data 27/04/99, ha rigetta le
eccezioni della difesa sulla ammissione della costituzione della parte civile del Comune di
Patti e Capo d’Orlando, nonché delle Associazioni Antiracket A.C.I.B., A.C.I.O., A.C.I.S.,
A.C.I.A.P.;
− l’ordinanza con cui il Tribunale Monocratico di Termini Imerese, in data 25/09/06, ha
rigettato le eccezioni della difesa sull’ammissione della costituzione della parte civile della
F.A.I. in un processo per violenza privata a danno della persona vittima di un estorsione
debitamente denunciata;
− l’ordinanza con cui il G.U.P. del Tribunale di Caltanissetta, in data 04/10/06, nel proc.
n. 646/05 R.G.N.R.- D.D.A., ha rigettato le eccezioni della difesa sull’ammissione della
costituzione della parte civile del Comune di Gela, della locale Associazione Antiracket
“Gaetano Giordano” e della F.A.I.;
− l’ordinanza con cui il G.U.P. del Tribunale di Caltanissetta, in data 27/10/06, nel proc.
n. 1499/03 R.G.N.R.- D.D.A. (“Operazione Odessa”), ha rigettato le eccezioni delle difese
sull’ammissione della costituzione della parte civile della F.A.I.;
− l’ordinanza con cui il G.U.P. del Tribunale di Palermo, in data 06/12/06, nel proc. n.
14854/05 R.G.N.R. D.D.A. – n. 2774/06 R.G. G.I.P (estorsioni alla Focacceria San
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11 Francesco), ha rigettato le eccezioni delle difese sull’ammissione della costituzione della parte
civile della F.A.I.;
− l’ordinanza con cui il G.U.P. del Tribunale di Caltanissetta, in data 27/10/06, nel proc.
n. 1185/05 R.G.N.R. D.D.A. (Operazione Uragano), ha rigettato le eccezioni delle difese
sull’ammissione della costituzione della parte civile della F.A.I. e del Comune di Milena;
− l’ordinanza con cui il G.U.P. del Tribunale di Palermo, in data 12/01/07, nel proc. n.
3208/06 R.G.N.R. D.D.A., ha rigettato le eccezioni delle difese sull’ammissione della
costituzione della parte civile della F.A.I.;
− l’ordinanza con cui il G.U.P. del Tribunale di Palermo, in data 16/01/07, nel proc. n.
10720/06 R.G.N.R. D.D.A., ha rigettato le eccezioni delle difese sull’ammissione della
costituzione della parte civile della F.A.I.
5. Conclusioni: dai risultati conseguiti alle prospettive di riforma
Alla luce di tale dato, il persistente ricorso alla figura della parte civile sembra attestare la difficoltà
del modulo partecipativo dell’intervento ex art. 91 c.p.p. a trovare ingresso nell’odierna realtà
giudiziaria. Ad un'attenta analisi della riferita rassegna giurisprudenziale, infatti, non sfuggono le
profonde motivazioni della prescelta soluzione di matrice squisitamente giurisprudenziale, alla
stregua delle quali il ricorso alla parte civile ha finito con l’imporsi come rimedio tipico alla
mancanza del riconoscimento dell’associazione preteso quale requisito impreteribile dal citato art.
91 c.p.p.
Di ciò si ha indiretta conferma nella lettura della relazione alla proposta di legge, presentata il 20
luglio 1992 dal deputato Grasso, in tema di norme per la lotta alle estorsioni e riconoscimento
giuridico delle associazioni aventi la medesima finalità, ove si denunciava che l'art. 91 c.p.p.
permetterebbe l’intervento in sede processuale a un novero eccessivamente ristretto, per ciò stesso
insufficiente, di associazioni antiracket, a fronte di un contesto sociale e giudiziario che
abbisognerebbe del massimo contributo possibile da parte di quella che si è definita antimafia
sociale.
Quanto fin qui prospettato mette in luce una ineludibile esigenza di riforma della disciplina vigente,
la quale, sulla scorta delle suesposte ragioni di opportunità, utilità e convenienza del riconoscimento
legislativo della facoltà di costituzione di parti civili agli enti associativi, codifichi i risultati
raggiunti interpretativamente dalla giurisprudenza, in modo tale da sfuggire alla rigida alternativa
tra una corretta applicazione delle norme processuali e la frustrazione dell'esigenza partecipativa
degli stessi enti antiracket alla compagine processuale.
Tale conclusione, oltre a fondarsi sull’esigenza del rispetto del fondamentale principio di civiltà
giuridica rappresentato dalla certezza del diritto e dalla sua corretta applicazione giurisprudenziale,
radica la propria ragion d’essere su ulteriori motivi di opportunità. Arricchire il repertorio
dell’azione antimafia con nuovi strumenti di reazione, infatti, significa accrescere le prospettive e le
possibilità dell’attività di contrasto alla criminalità organizzata.
Come si è detto in apertura, negli ultimi tempi il tradizionale modello di antimafia istituzionale è
stato affiancato dall’innovativa strategia d’azione dell’antimafia sociale, di cui le istanze
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12 associative, in specie quelle antiracket, costituiscono istanza paradigmatica. Era questo, d’altronde,
l’obiettivo che le campagne di sensibilizzazione promosse contro le mafie e a favore di una cultura
della legalità hanno auspicato fin dai tempi della stagione stragista: l’instaurarsi di una sinergia
capace di mettere in comunicazione le istituzioni, per definizione vocate a questo impegno, e la
società civile dove esse sono chiamate ad operare. Dopo tanto tempo ed ingenti risorse, umane ed
economiche, investite nella causa, è possibile intravedere, ed è doveroso riconoscere, i primi frutti
di un raccolto che promette di essere generoso, se continuerà a ricevere il sostegno ed a mantenere
la credibilità che ha saputo guadagnarsi finora.
Per tali ordini di ragioni il ruolo delle associazioni antiracket, anziché imbrigliato da una rigida
normativa ingessata da eccessive esigenze garantiste, andrebbe riformato in una prospettiva di
potenziamento, risultando quanto mai opportuno che il legislatore, lo stesso che da ultimo ha varato
importanti interventi di riordino della normativa antimafia con l’adozione di un corpo codicistico a
ciò deputato, prenda consapevolezza delle potenzialità e del peso determinante dell’antimafia
sociale, incoraggiandone le iniziative e implementando gli strumenti giuridici che ne permettano
una più pratica ed efficace realizzazione.
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