DALLA POTESTÀ ALLA RESPONSABILITÀ GENITORIALE:
UNA RICOGNIZIONE DELLA GIURISPRUDENZA
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Titolarità della potestà sul minore: il caso degli affidatari familiari – 3. Potestà e obbligo
di mantenimento – 4. L’obbligo di convivenza – 5. Tutela dell’integrità psicofisica dei figli minori – 6. Potestà e diritti
personalissimi del minore – 7. Atti di ordinaria e straordinaria amministrazione nell’interesse del minore – 8.
L’autorizzazione alla vendita dei beni oggetto del fondo patrimoniale in presenza di figli minori – 9. L’esercizio della
potestà nell’affidamento condiviso – 10. L’esercizio della potestà nell’affidamento esclusivo – 11. Rapporti tra
provvedimenti del giudice della separazione e provvedimenti ex art. 333 c.c. – 12. Il confine applicativo tra legge n.
154/01 e artt. 330-333 c.c. nel caso di abusi ai danni di minori – 13. Il minore come soggetto processuale
1. Premessa
L’istituto della potestà1 – pur affondando le sue origini nel diritto romano, ove indicava il potere
del pater familias all’interno della famiglia – ha resistito alle numerose e successive riforme in
materia di famiglia ed è stato anche recentemente disciplinato dalla riforma sull’affidamento
condiviso, che ne ha riproposto la nozione e regolato il profilo dell’esercizio.
Proprio alle sue antichissime origini si deve, verosimilmente, l’assenza, nel Codice Civile, di una
definizione normativa di «potestà» (come, peraltro, già nel Codice del 1865) e ciò ha consentito
l’adattamento della categoria alle evoluzioni del costume, nonché della concezione e della
regolamentazione delle relazioni familiari. E’ stato sollevato, tuttavia, in dottrina2, l’interrogativo
circa la permanente attualità di una nozione, quale quella di “potestà”, che appare niente di più di un
termine di sintesi per indicare «quel complesso di poteri-doveri, attribuito …ad entrambi i genitori,
nell’interesse esclusivo dei figli, ai fini dello sviluppo della loro personalità», prospettando come
più adeguato il riferimento ai singoli poteri-doveri, cura, custodia, amministrazione del patrimonio
dei figli, rappresentanza, usufrutto legale, ecc. La giurisprudenza aderisce, peraltro, alla più
moderna concezione della potestà, che si concreta nell'attribuzione ai genitori non di un diritto
soggettivo, bensì di un munus di diritto privato, comportante un potere, nella sua più limitata
accezione di potere-dovere, di curare determinati interessi privati e pubblici del minore
La nozione di potestà è assente, del resto, non soltanto nella Costituzione – ove si menziona il
«dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli» − ma anche nella normativa di
diritto europeo. Invero, la Carta dei diritti fondamentali UE (ora parte integrante del Trattato di
Lisbona) sancisce la preminenza dell’interesse del minore e il suo diritto alla protezione e alle cure
necessarie per il suo benessere (art. 24). Il Regolamento CE n. 2201/03 preferisce la diversa nozione
di “responsabilità genitoriale” che è definita come «i diritti e doveri di cui è investita una persona
fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore
riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di
affidamento e il diritto di visita».
1
Nella vastissima bibliografia in argomento, senza pretesa di completezza, si vedano: BUSNELLI, Capacità e incapacità
di agire del minore, in Dir. famiglia, 1982, 55; DOGLIOTTI, La potestà dei genitori e l’autonomia del minore, in Tratt.
Cicu-Messineo, Milano, 2007; DOGLIOTTI, La potestà dei genitori, in La Famiglia, Tratt. Lipari-Rescigno, II, 2009,
561; L. FERRI, Della potestà dei genitori, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988; GIARDINA, La condizione
giuridica del minore, Napoli, 1984; GIORGIANNI-PELOSI, Della potestà dei genitori, in Comm. Cian-Oppo-Trabucchi,
IV, Padova, 1992, 285; RUSCELLO, La potestà dei genitori. Rapporti personali, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano,
2006; SESTA, Genitori e figli tra potestà e responsabilità, in Riv. dir. priv., 2000, 219; RUSCELLO, Potestà dei genitori e
rapporti con i figli, in Tratt. Ferrando, Bologna, 2007, 75; STANZIONE, Capacità e minore età nella problematica della
persona umana, Camerino-Napoli, 1975; TRABUCCHI, in Comm. Carraro-Oppo-Trabucchi, Padova, 1976, 2644;
VERCELLONE, La potestà dei genitori, in Tratt. Zatti, II, Milano, 2001, 992; VILLA, Potestà dei genitori e rapporti con i
figli, in Il diritto di famiglia, III, in Tratt. Bonilini-Cattaneo, Torino, 2007, 51.
2
DOGLIOTTI, La potestà dei genitori, in La Famiglia, Tratt. Lipari-Rescigno, cit., 562.
1
La potestà è estranea anche alla Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo (resa
esecutiva con l. 27 maggio 1991 n. 176)3, ove si sancisce l’obbligo degli Stati di «assicurare al
fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei
doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, ed a
tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi ed amministrativi appropriati». A sua volta, la
Convenzione di Strasburgo − adottata dal Consiglio d’Europa nel 1996 e ratificata dall’Italia con l.
20 marzo 2003 n. 77 – definisce come «detentore di responsabilità di genitore» i genitori ed altre
persone o organi abilitati ad esercitare in tutto o in parte, responsabilità di genitore.
Nonostante questa tendenza “recessiva” all’interno dell’ordinamento, l’istituto della potestà
presenta ancora una fondamentale importanza sia nel rapporto tra genitori e figli sia nella relazione
tra gli stessi genitori con riguardo alla suddivisione dei compiti e dei doveri nei riguardi della prole.
Frequenti sono, invero, le questioni giudiziarie concernenti la decadenza o la limitazione della
potestà genitoriale, che presentano non poche problematiche di particolare delicatezza processuale.
Non sono mancati, inoltre, ulteriori recenti interventi legislativi che, all’istituto della potestà, hanno
ricollegato effetti giuridici di indubbio rilievo.4
2. Titolarità della potestà sul minore: il caso degli affidatari familiari
La potestà spetta ai genitori, siano essi legittimi, naturali o adottivi. Nel caso di riconoscimento di
figlio naturale, la potestà si acquista automaticamente (art. 261 c.c.).
L’esercizio della potestà spetta anche all’affidatario nel caso di affidamento familiare (artt. 2-5, l.
n. 184/83). L'affidatario deve accogliere presso di sé il minore e provvedere al suo mantenimento e
alla sua educazione e istruzione, tenendo conto delle indicazioni dei genitori per i quali non vi sia
stata pronuncia ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., o del tutore, ed osservando le prescrizioni stabilite
dall'autorità affidante. E’ previsto, infatti, che si applichino, in quanto compatibili, le disposizioni
dell'art. 316 c.c.. In ogni caso, l'affidatario esercita i poteri connessi con la potestà parentale in
relazione agli ordinari rapporti con la istituzione scolastica e con le autorità sanitarie e deve essere
sentito nei procedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità relativi al
minore affidato.
In virtù dell’ampiezza della previsione normativa, è stata riconosciuta, ad esempio, la
legittimazione degli affidatari a costituirsi parte civile per il minore vittima del reato di violenza
sessuale commesso dal genitore5.
3. Potestà e obbligo di mantenimento
Può escludersi che il “contenuto” della potestà possa essere ricavato dalla norma che sancisce il
dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto della capacità,
dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli (art. 147 c.c.). Certamente, infatti, l’obbligo di
mantenimento sussiste indipendentemente dalla potestà, come è stato ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza da una pluralità di punti di vista.
A) In primo luogo, è consolidato l’orientamento6 secondo cui, mentre gli obblighi di educazione e
istruzione si estinguono con il raggiungimento della maggiore età, l’obbligo di mantenimento
perdura fino al momento in cui i figli raggiungano una propria indipendenza economica, ovvero
3
Corte cost. 3 gennaio 2002 n. 1, in Fam. dir., 2002, 229 ss., con note di F. TOMMASEO, ha affermato che la
Convenzione di New York è dotata di efficacia imperativa diretta nell'ordinamento interno
4
In particolare, la l. 8 luglio 2005, n. 137, ha introdotto il numero 3 bis all’art. 463 c.c., stabilendo che è escluso dalla
successione come indegno « chi, essendo decaduto dalla potestà genitoriale nei confronti della persona della cui
successione si tratta a norma dell’art. 330, non è stato reintegrato nella potestà alla data di apertura della successione
della medesima».
5
Trib Fermo 14 giugno 1999, Arch nuova proc pen., 1999, 546.
6
In questo senso, tra le pronunce più recenti, Cass., 14 aprile 2010, n. 8954 e Cass., 26 gennaio 2011 n. 1830.
2
versino in colpa per non essersi messi in condizione di conseguire un titolo di studio o di procurarsi
un reddito mediante l’esercizio di un’idonea attività lavorativa
La giurisprudenza che ha approfondito il regime dell'obbligazione dei genitori di concorrere tra
loro al mantenimento dei figli maggiorenni, è pervenuta ai seguenti principi, più volte ribaditi:
1) il giudice di merito non può prefissare un limite temporale a tale obbligo di mantenimento,
atteso che il limite di persistenza dello stesso va determinato, non sulla base di un termine astratto
(pur se desunto dalla media della durata degli studi in una determinata facoltà universitaria e/o dalla
normalità del tempo mediamente occorrente ad un giovane laureato, in una data realtà economica,
affinchè questo possa trovare impiego), bensì sulla base (soltanto) del fatto che il figlio, malgrado i
genitori gli abbiano assicurato le condizioni necessarie (e sufficienti) per concludere gli studi
intrapresi e conseguire il titolo indispensabile ai fini dell'accesso alla professione auspicata, non
abbia saputo trame profitto, per inescusabile trascuratezza o per libera (ma discutibile) scelta delle
opportunità offertegli; ovvero non sia stato in grado di raggiungere l'autosufficienza economica per
propria colpa;
2) configurandosi quest'ultima quale fatto estintivo di una obbligazione ex lege, spetta al genitore
interessato alla declaratoria della sua cessazione, fornire la prova di uno status di autosufficienza
economica del figlio, consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla professionalità
acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato; ovvero che il mancato
svolgimento di un'attività lavorativa dipende da un suo atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto
ingiustificato7;
3) il relativo accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente
ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post-universitario del soggetto ed
alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto
abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione, investendo impegno personale
ed economie familiari8;
4) la prova dell'indipendenza economica può fondarsi su presunzioni, quali esemplificativamente i
mezzi economici di cui il figlio si avvale unitamente al suo tenore di vita, l'essere stato avviato ad
attività lavorativa con concreta prospettiva di indipendenza economica, o comunque posto nelle
concrete condizioni per poter addivenire alla autosufficienza economica, di cui egli non abbia, poi,
tratto profitto per sua colpa; o ancora, il matrimonio e la convivenza in altro autonomo nucleo
familiare9;
5) il matrimonio del figlio maggiorenne, già destinatario del contributo di mantenimento a carico
di ciascuno dei genitori, ne comporta l'automatica cessazione, per effetto degli obblighi e dei diritti
che derivano dal matrimonio, nonché per la ragione fattuale che, con la costituzione del nuovo
nucleo, i coniugi attuano una comunione materiale e spirituale di vita realizzando i molteplici effetti
stabiliti dalla legge (art. 143 c.c.)10;
6) una volta legittimamente cessato l'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne – per avere
espletato attività lavorativa, ovvero per altre cause che hanno determinato il venir meno del relativo
presupposto (matrimonio o altro) – esso non può risorgere che nella forma del più ristretto dovere
degli alimenti, fondato su condizioni sostanziali e procedurali affatto diverse11.
B) L’obbligo di mantenimento è conseguenza, altresì del riconoscimento del figlio naturale e, per
il suo carattere essenzialmente patrimoniale, esula dallo stretto contenuto della potestà genitoriale,
in relazione al quale, pertanto, non rileva − come, invece, avviene con riguardo a quest'ultima, a
norma dell'art. 317 bis c.c. − la circostanza che i genitori siano o no conviventi, incombendo detto
obbligo su entrambi, in quanto nascente dal fatto stesso della procreazione. Al genitore che abbia
7
Cass. 407/2007; 15756/2006; 8221/2006
Cass. 23673/2006; 4765/2002
9
Cass. 24498/2006
10
Cass., 26 gennaio 2011 n. 1830
11
Cass. 22477/2006, - 26259/2005, - 12477/2004
8
3
provveduto al mantenimento del figlio, integralmente o comunque al di là delle proprie sostanze,
spetta il diritto di agire in regresso per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le
regole generali del rapporto tra condebitori solidali (ciò si desume, in particolare, dall'art. 148 c.c.,
richiamato dall'art. 261 c.c., che prevede l'azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, e
senza, pertanto, che sia configurabile un caso di gestione di affari altrui)12.
C) Neppure la sospensione della potestà – pronunciata ai sensi dell’art. 330 c.c. – incide
sull’obbligo di mantenimento in senso limitativo, posto che essa comporta esclusivamente, a tutela
del minore, la sospensione dei poteri di rappresentanza e amministrazione del minore. L’obbligo di
mantenimento del minore permane, pertanto, in capo ai genitori pur dopo il provvedimento di
sospensione della potestà genitoriale.
Ciò vale anche nel caso di genitori adottivi, che – per effetto dell’adozione – acquistano a tutti gli
effetti la potestà sul minore (art. 48 l. n. 184/83). L'art. 50, per converso, nell'ipotesi di cessazione
della potestà da parte dell'adottante o degli adottanti, non dispone affatto il contestuale venir meno
del loro obbligo di provvedere al mantenimento dei figli adottivi, che continua ad essere regolato
dal combinato disposto del precedente art. 48 e dell'art. 147 c.c., ma devolve al Tribunale per i
minorenni il potere "di emettere i provvedimenti opportuni circa la cura della persona
dell'adottato, la sua rappresentanza e l'amministrazione dei suoi beni, anche se ritiene conveniente
che l'esercizio della potestà sia ripreso dai genitori" e dispone che si applichino le disposizioni
dell'art. 330 e ss. c.c. Ciò fa sì che i genitori adottivi, che siano stati sospesi dall’esercizio della
potestà, sono tenuti a rimborsare le spese della struttura (ad es., casa famiglia) in cui la pubblica
autorità abbia collocato temporaneamente il minore, poiché l’obbligazione di pagamento della
relativa rettaè collegata esclusivamente al perdurare dello status genitoriale e non alla permanenza
del minore presso il nucleo familiare dei genitori ovvero alle vicende della potestà genitoriale di
questi ultimi13.
D) L’unica deroga alla permanenza dell’obbligo di mantenimento, conseguente a una decadenza o
sospensione della potestà genitoriale è prevista in materia di affidamento familiare (artt. 2-5, l. n.
184/83), ove tale obbligo è posto dalla legge a carico dell'affidatario.
E) Nel rapporto tra filiazione legittima (o naturale) e filiazione adottiva, l'obbligo di mantenimento
del figlio minore cessa per effetto della successiva adozione da parte di un terzo, poiché, in tal caso,
la potestà sull'adottato e il connesso obbligo di mantenimento spetta ai genitori adottivi.
Tuttavia, nell’adozione in casi particolari (art. 44, l. n. 184/83), la cessazione dell'obbligo di
mantenimento da parte del padre biologico non riveste carattere incondizionato ed assoluto, in
quanto tale dovere astrattamente permane e, pur sussidiario, è potenzialmente idoneo a riacquistare
attualità nell’ipotesi di cessazione dell'esercizio della potestà da parte dell'adottante, ovvero in
correlazione con l’eventuale insufficienza di mezzi del predetto e del suo coniuge 14. Gli artt. 48 l. n.
184/83 e 147 c.c. devono essere coordinati, infatti, con l’art. 300 c.c., applicabile in virtù del rinvio
contenuto nell’art. 55 l. 4 maggio 1983, n. 184, che dispone che l’adottato conserva tutti i diritti e i
doveri verso la famiglia di origine, salve le eccezioni stabilite dalla legge: tra tali eccezioni la
dottrina include la potestà genitoriale e i doveri ad essa connessi di mantenimento, istruzione ed
educazione, trattandosi di situazioni giuridiche che l’art. 48, comma 2, l. 4 maggio 1983, n. 184
accorda al genitore adottivo. Esigenze di coordinamento sistematico impongono, tuttavia,
l’applicazione della medesima regola stabilita dal legislatore relativamente all’obbligo alimentare:
in particolare, l’art. 436 c.c. stabilisce che l’adottante deve gli alimenti al figlio adottivo con
precedenza sui genitori legittimi o naturali di lui. Si ricava, dunque, la regola generale in base alla
quale il padre naturale si trova in una posizione subordinata rispetto al padre adottivo ed è tenuto ad
12
Cass., sez. I, 22 novembre 2000 n. 15063
Cass., sez. I, 11 novembre 2010 n. 22909
14
Cass., sez. I, 30 gennaio 1998, Fam. dir., 1998, 277.
13
4
intervenire solo quando il primo non possa assicurare al figlio il necessario sostegno economico,
nella forma dovuta del mantenimento e/o degli alimenti, in ragione dell’età. In definitiva, dal
quadro normativo emerge con chiarezza che, con la pronuncia di adozione, la titolarità e l'esercizio
della potestà, unitamente agli obblighi di cui all'art. 147 c.c., spettano in via primaria al genitore
adottivo, congiuntamente col coniuge (e genitore di origine); mentre, nell'interesse del minore,
l'obbligo del genitore naturale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 30 Cost.e degli artt. 147 e
148 c.c., potrebbe rivivere nella ipotesi di cessazione dell'esercizio della potestà da parte
dell'adottante o di insufficienza di mezzi dell'adottante e del coniuge -ipotesi quest’ultima che non è
stata né allegata né provata dalla ricorrente, odierna opposta.15.
4. L’obbligo di convivenza
La potestà consiste nel potere di prendere decisioni che coinvolgono la vita del figlio, in ogni
momento ed in ogni suo aspetto: non solo quando il figlio per la sua immaturità ed età non sia in
grado di prendere decisioni che lo riguardano, ma anche quando il figlio, cresciuto ma non ancora
maggiorenne, manifesti una sua volontà difforme da quella del genitore. Il genitore, dunque, ha il
potere di imporre e vietare comportamenti al figlio (ovviamente nel pieno rispetto dello sviluppo
della sua personalità e del suo diritto ad una crescita armonica e compiuta) e se il figlio si allontana
senza permesso deve richiamarlo, facendo valere la sua posizione di soggetto gravato dal dovere di
protezione dei figlio. L'art. 318 c.c. dispone, infatti, che “il figlio non può abbandonare la casa dei
genitori o del genitore che esercita su di lui la potestà” e che "qualora se ne allontani senza
permesso i genitori possono richiamarlo ricorrendo, se necessario, al Giudice Tutelare"
L'art. 318 c.c., invero, conferisce ai genitori il potere di allocazione del figlio in dimora diversa
della casa familiare, purché non vi sia una totale delega ad altri di ogni funzione educativa
integrante la situazione di abbandono, senza la necessità dell'intervento della Autorità giudiziaria
che è richiesto solo ove il figlio venga affidato stabilmente a chi non è parente entro il quarto grado
per un periodo superiore a mesi sei (art. 9 l. 184/83).
Il figlio può andare a convivere con persona diversa dai genitori, se questi sono d'accordo, essendo
previsto solo in caso di dissenso del genitore uno strumento di coercizione mediante anche il ricorso
al Giudice Tutelare per far ritornare il figlio a casa qualora questi opponga resistenza.
E’ previsto che sia il Giudice Tutelare, adito dai genitori a norma dell'art. 318 c.c., a richiedere
l'intervento del tribunale per i Minorenni per i provvedimenti di competenza a norma degli art. 330
e 333 c.c., nel caso in cui il figlio abbia espresso la volontà di sottrarsi alla potestà genitoriale e si
sia allontanato dalla casa familiare, contro la volontà dei genitori, e siano emerse le ragioni di
pregiudizio che rendano inopportune un rientro dei minore nella propria dimora, per violazione dei
doveri o abuso dei poteri da parte dei genitori.16
5. Tutela dell’integrità psicofisica dei figli minori
Rientra nel contenuto della potestà l’obbligo del genitore di tutelare l’integrità psicofisica dei figli
minori, anche prevenendo e impedendo possibili pericoli e pregiudizi provenienti da terzi. Ciò
comporta, che, in ambito penalistico, al genitore esercente la potestà sui figli minori sia stata
riconosciuta dalla giurisprudenza17 una posizione di “garanzia” in ordine alla tutela dell'integrità
psicofisica degli stessi, con la conseguenza che egli risponde penalmente, ex art. 40, comma 2, c.p.,
degli atti di violenza sessuale compiuti, ad esempio, dal coniuge sui figli, quando sussistano le
seguenti condizioni:
a) la conoscenza o conoscibilità dell'evento;
b) la conoscenza o riconoscibilità dell'azione doverosa incombente sul "garante";
15
Così, in termini, Trib. Pisa 20 ottobre 2009, est. Picardi.
Trib min Milano 11 luglio 2006 n. 1795
17
Cass. Pen. 5 marzo 2008; Cass. pen. 14 dicembre 2007; Cass. pen., 19 gennaio 2006.
5
16
c) la possibilità oggettiva di impedire l'evento.
La fonte di tale posizione di “garanzia” deve essere ravvisata nell'art. 147 c.c., che, nell'ambito dei
doveri che gravano sui genitori, prevede, in particolare, l'obbligo di tutelare la vita, l'incolumità e la
moralità sessuale dei figli minori contro eventi naturali o altrui aggressioni, anche endofamiliari,
attraverso l'adozione anche delle misure più drastiche in vista del raggiungimento di tale scopo.
In tale prospettiva, tra i "doverosi" interventi che il genitore è tenuto a porre in essere rientrano
anche i rimedi estremi, quali la denuncia dell'autore del reato e il suo allontanamento dall'abitazione
coniugale.
6. Potestà e diritti personalissimi del minore
I genitori non possono rappresentare, anche relativamente alle scelte mediche, il figlio minore
specialmente quando il minore abbia raggiunto una età prossima al raggiungimento della piena
capacità di agire, poiché diversamente opinando si giungerebbe alla privazione di diritti
personalissimi mercé la sola considerazione del dato formale rappresentato dall'incapacità legale,
giungendo al paradosso che il soggetto legalmente incapace ma naturalisticamente capace non possa
decidere della propria salute, mentre il soggetto legalmente capace ma naturalisticamente minus, per
il tramite dell'istituto dell'amministratore di sostegno, potrebbe esercitare una maggiore
autodeterminazione.
Del resto, che la rappresentanza genitoriale debba cedere il passo all'accrescersi della capacità
naturale del minore, è dimostrato dall'analisi dell'art. 147 c.c. che rappresenta la potestà genitoriale
dal lato funzionalistico il quale sta a indicare che il potere discrezionale dei genitori sui figli va
progressivamente riducendosi in rapporto al progressivo accrescersi dell'autonomia e del peso della
volontà del minore18.
La giurisprudenza ha avuto modo di pronunziarsi sull’applicabilità dei trattamenti sanitari
obbligatori su pazienti minorenni in sporadiche occasioni e con esiti contrastanti
L'interpretazione classica dell'art. 2 c.c. vede il soggetto minore di età assoggettato alla potestà
genitoriale, dunque la volontà dei soli genitori sarebbe sufficiente per la sottoposizione del figlio
minore a qualsiasi tipo di trattamento sanitario, anche di natura contenitiva ed a seguito di patologia
psichiatrica19.
Secondo altro orientamento20, sostenuto specialmente nella dottrina più recente, l'interpretazione
riferita non può essere accolta poiché essa pretermette la considerazione di ulteriori indici
normativi, anche di rango costituzionale, che debbono invece essere adeguatamente considerati,
anche in una prospettiva storica giacché il giudice è tenuto "in sede di interpretazione di una norma
giuridica rimasta immutata nel tempo malgrado sia mutato il quadro normativo di riferimento, a
ritenere il significato più possibile coerente con le disposizioni risultanti dal complesso normativo
globale in cui la norma da interpretare si trova collocata, facendo a tal fine ricorso, oltre che al
criterio letterale e logico, anche a quello sistematico"21.
Ecco i passaggi argomentativi di maggior rilievo a sostegno di tale ormai prevalente tesi22
condivisa:
) la scienza sanitaria ha da tempo abbandonato l'idea che l'atto medico sia un processo unilaterale
e di natura tecnica, a cui la volontà del paziente possa solo accedere senza recarvi alcunché di
proprio: la determinazione del trattamento terapeutico deve essere frutto di un rapporto dialettico tra
medico e paziente, costruendo così quella che è stata chiamata "alleanza terapeutica", in cui il primo
mette le proprie competenze professionali, il secondo il proprio vissuto, i propri valori, le peculiari
18
Trib Min. Milano 30 marzo 2010
Pret. Milano 18.9.1982 cit., Trib. minori Firenze 29 maggio 1968, cit.
20
Pret. Milano 7.1.1983, cit., Trib. min. Bari 7.7.1977, cit.
21
Cons. Stato, sez. VI, 31 maggio 1989, n. 717
22
Trib Min. Milano 30 marzo 2010, cit.
6
19
esigenze, per trarne, assieme, una cura che assicuri la guarigione e rispetti il vissuto del paziente, gli
fornisca cioè il "benessere", concetto non sovrapponibile alla semplice assenza di malattia;
) l'ordinamento presenta diversi indici a favore della gradualità del concetto di capacità:
- in ambito patrimoniale,
 l'incapace può compiere quegli atti che non richiedano una attività negoziale (ad esempio,
rendersi acquirente di diritti per invenzione ed occupazione o testimoniare), nonché quelli
che, pur richiedendo attività negoziale, siano di poco rilievo economico (come l' acquisto di
riviste e libri, vestiario);
 occorre valutare la sua capacità caso per caso per gli atti non negoziali, ammettendosi quelli
volti a tutelare i propri interessi (messe in mora, diffide, interruzione della prescrizione),
oppure quelli dovuti (es. l'adempimento) –
- in ambito personale,
 l'ultrasedicenne deve prestare il proprio assenso al riconoscimento tardivo (art. 250., c. 2,
C.c.),
 può chiedere al giudice la nomina di un curatore speciale per promuovere l'azione di
disconoscimento della paternità o di impugnazione del riconoscimento falso (artt. 244, c. 4,
e 264, C.c.),
 può riconoscere il figlio naturale (art. 250, c. 5, C.c.),
 può contrarre matrimonio, previa autorizzazione del Tribunale (art. 84 C.c.);
 dai quattordici ai sedici anni acquista la capacità lavorativa ( l. 67/77), sebbene non quella
per alcuni atti ad essa connessi come quietanze, rinunzie e transazioni;
 può decidere in merito all'insegnamento religioso confessionale,
 partecipare agli organi elettivi della scuola ed alla vita associativa in generale ( anche
politica );
 il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di
discernimento, deve essere ascoltato nei procedimenti che riguardano la separazione o il
divorzio dei genitori (art. 155-sexies, comma 1, c.c., introdotto dalla l. 54/06) -;
La giurisprudenza minorile23 − chiamata a verificare l'adeguatezza dell'esercizio della potestà
genitoriale in casi nei quali uno o entrambi i genitori si opponevano alla somministrazione di
determinate cure che, seppure invasive, erano ritenute scientificamente appropriate − ha dato rilievo
alla capacità di autodeterminazione del minore: concetto ormai entrato nel nostro ordinamento per
il tramite di diverse Convenzioni internazionali che sollecitano la considerazione della volontà
dell'infradiciottenne.
In altri casi, tuttavia, pur in presenza di diritti certamente personalissimi, la giurisprudenza 24 ha
espresso dubbi in ordine alla possibilità di un loro valido esercizio da parte del minore, come, ad
esempio, nel caso dell’azione per la rettificazione di sesso, rispetto alla quale è stato giudicato
inammissibile il ricorso del minore per mancanza di legittimazione attiva “in quanto proveniente da
soggetto privo della capacità di agire” ed egualmente inammissibile l'azione proposta dal genitore
esercente la potestà “trattandosi di diritto strettamente personale”.
23
Trib. min. Brescia, decr. 28 dicembre 1998, App. Brescia, decr. 13 febbraio 1999 e Trib. min. Brescia, decr. 22
maggio 1999, in Nuova giur. civ. commentata, 2000, I, 204, hanno affrontato il caso di una minore che rifiutava di
riprendere il ciclo di chemioterapia: di fronte al suo rifiuto si è ritenuto di non poter coartare la sua volontà; App.
Ancona, decr. 26 marzo 1999, in Nuova giur. civ. commentata, 2000, I, 218; Trib. minori Brescia, decr. 25 ottobre
2000, in Minorigiustizia, 2001, 197; Proc. Trib. Venezia, 2 giugno 1998 e Trib. min. Venezia, 7 ottobre 1998, in Dir.
fam. e pers., 1999, 689.
Il Tribunale Costituzionale Spagnolo – con sentenza 18 luglio 2002, n. 154 –in un caso di un minorenne che rifiutava le
trasfusioni di sangue in una maniera così ferma, vivendo con terrore ed agitazioni tali l'intervento dei medici sul proprio
corpo da convincere anche i sanitari della impossibilità di eseguire coercitivamente l'intervento, arrivando poi alla
morte, ha affermato: "al di là delle ragioni religiose[...]riveste particolare interesse il fatto che il minore, opponendosi
ad un'ingerenza estranea sul proprio corpo, stava esercitando un diritto di autodeterminazione che ha per oggetto il
proprio corpo"
24
Trib. Catania 12 marzo 2004, Giust Civ, 2005, I, 1107
7
7. Atti di ordinaria e straordinaria amministrazione nell’interesse del minore.
Certamente immanente al contenuto della potestà è il potere di rappresentanza dei genitori per il
compimento degli atti civili e di amministrazione dei beni.
Il Codice Civile distingue:
- gli atti che ciascun genitore può compiere disgiuntamente (atti di ordinaria amministrazione:
art. 320, 1° comma, c.c.);
- gli atti di ordinaria amministrazione che i genitori devono compiere congiuntamente (atti con
cui si acquistano o si concedono diritti personali di godimento: art. 320, 1° comma, c.c.);
- gli atti che i genitori possono compiere con l’autorizzazione del giudice tutelare (atti di
straordinaria amministrazione: art. 320, 3° e 4° comma, c.c.);
- gli atti che i genitori possono compiere con l’autorizzazione del tribunale su parere del
giudice tutelare (esercizio di un’impresa commerciale: art. 320, 5° comma, c.c.).
Per la distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione si è parlato di una
distinzione “labile e incerta”25. La Suprema Corte26 ha recentemente affermato che, al di fuori dei
casi specificamente individuati ed inquadrati nella categoria degli atti di straordinaria
amministrazione dal Legislatore, vanno considerati di ordinaria amministrazione gli atti che
presentino tutte e tre le seguenti caratteristiche:
1) siano oggettivamente utili alla conservazione del valore e dei caratteri oggettivi essenziali del
patrimonio in questione;
2) abbiano un valore economico non particolarmente elevato in senso assoluto e soprattutto in
relazione al valore totale del patrimonio medesimo;
3) comportino un margine di rischio modesto in relazione alle caratteristiche del patrimonio
predetto.
Vanno invece considerati di straordinaria amministrazione gli atti che non presentino tutte e tre
queste caratteristiche.
In applicazione di questo criterio, ad esempio, è stato ritenuto che la transazione avente ad oggetto
la controversia relativa al risarcimento del danno, stipulata dal genitore nell'interesse del figlio
minore, costituisce atto di straordinaria amministrazione quando abbia ad oggetto un danno che, per
la sua natura e la sua entità, possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore
danneggiato; pertanto, è necessaria, per la validità della transazione, l'autorizzazione del giudice
tutelare ex art. 320 c.c.27.
L’autorizzazione del giudice tutelare è subordinata alla necessità o utilità evidente del figlio, che
deve sussistere al momento del compimento dell’atto. Qualora, pertanto, tale necessità o utilità
venga successivamente meno, il genitore – pur dopo l’autorizzazione del giudice tutelare – non
deve compiere l’atto e, se lo compie, ne è responsabile28.
La conseguenza della violazione delle regole poste dall’art. 320 c.c. consiste nell’annullabilità
dell’atto compiuto. Recentemente, ad esempio, è stato ritenuto annullabile. in quanto sottoscritto dai
genitori esercenti la potestà senza l'autorizzazione del giudice tutelare, il contratto di
sponsorizzazione di uno sportivo minorenne, caratterizzato da un patto di esclusiva, da un patto di
opzione/prelazione, assoggettante ad un vincolo di destinazione il diritto di sfruttamento economico
della notorietà del minore, e da un patto di tacito rinnovo29.
8. L’autorizzazione alla vendita dei beni oggetto del fondo patrimoniale in presenza di figli
minori
25
DOGLIOTTI, La potestà dei genitori, cit., 587.
Cass., 13 aprile 2010, n. 8720.
27
Cass., 13 aprile 2010, n. 8720
28
Cass. 3 luglio 1952 n. 1952
29
Trib. Treviso 17 marzo 2010, Foro it., 2010, 5, I, 1616.
26
8
E’ opportuno segnalare la profonda differenza tra il procedimento di cui all’art. 320 c.c. e quello
previsto dall’art. 169 c.c. secondo cui l’alienazione dei beni del fondo patrimoniale (o la
costituzione sui medesimi di vincoli reali) è subordinata al consenso di entrambi i coniugi, nonché,
in presenza di figli minori, all'autorizzazione del giudice, da concedersi nei soli casi di necessità o
utilità evidente.
La stessa norma, tuttavia, nel suo inciso iniziale, prevede che parti possano avere "espressamente
consentito” l’alienazione dei beni nell'atto di costituzione".
È molto discusso circa lo spazio di operatività di tale deroga contenuta nell'atto di costituzione.
Secondo una prima tesi, le parti potrebbe prevedere nell'atto costitutivo:
- sia la possibilità della disposizione dei beni da parte di uno solo dei coniugi, ove a
quest’ultimo sia riservata la proprietà esclusiva dei beni (art. 168, comma 1, c.c.)30;
- sia la non necessità dell'autorizzazione giudiziaria, pur in presenza di figli minori.
Secondo altra ricostruzione, invece, la deroga all’autorizzazione giudiziaria sarebbe in ogni caso
nulla31.
La prima interpretazione appare prevalente in giurisprudenza32 e il Tribunale di Milano33 afferma
che «…anche in presenza di figli minori, l'autorizzazione giudiziale per l'alienazione o la
costituzione di vincoli reali su beni immobili compresi nel fondo patrimoniale prevista dall'art. 169
c.c. è richiesta solo nel caso in cui le parti non abbiano espressamente consentito (nell'atto di
costituzione) tali atti di disposizione sulla base del mero consenso dei coniugi costituenti».
Tale interpretazione è certamente in linea sia con la lettera della legge, sia con il principio di
autonomia negoziale, atteso che nella specie − a differenza delle ipotesi di cui all'art. 320 c.c. - i
coniugi dispongono di beni propri e non di proprietà dei figli minori.
Tuttavia, la possibilità per i coniugi di far cessare ad libitum il vincolo di destinazione sul bene
indebolisce la funzionalizzazione dei beni del fondo ai bisogni della famiglia, e crea, inoltre, un
singolare caso di previsione di autorizzazione giudiziale solo facoltativa.
Quando le parti non abbiano derogato (ammesso che esse possano, come si è detto, validamente
farlo) alla necessità dell’autorizzazione giudiziale, il Giudice34 autorizza l’alienazione, in presenza
di figli minori, nei soli casi di necessità o utilità evidente, che – secondo la giurisprudenza – deve
essere strettamente riferita alla situazione dei figli minori, senza alcuna rilevanza delle necessità dei
genitori o di quelle complessive della famiglia.
E’ stato ritenuto35, ad esempio, che «non può essere concessa a due coniugi con figli minori
l’autorizzazione all’alienazione di bene immobile facente parte del fondo patrimoniale e dagli stessi
30
Ove la proprietà spetti ad entrambi i coniugi, invero, il regime del fondo patrimoniale viene a sovrapporsi ad una
situazione di comunione legale o ordinaria, la cui disciplina resta totalmente applicabile.
31
Trib. Savona 24 aprile 2003, Fam Dir. 2004, 67; Trib Terni 12 aprile 2005La facoltà prevista dall'art. 169 c.c. in capo
ai coniugi di derogare alla disciplina degli atti di straordinaria amministrazione riguardanti i beni compresi nel fondo
patrimoniale non può essere estesa al punto da escludere la necessità dell'autorizzazione giudiziale in presenza di figli
minori, attesa la possibilità di un conflitto tra gli interessi facenti capo a questi ultimi e quelli dei coniugi: è pertanto
irrilevante in tal caso il patto di deroga contenuto nell'atto costitutivo del fondo.
32
In tal senso si sono espressi Trib. Verona 30.5.2000, Trib. Cagliari, 16.2.2001, Trib. Roma 27.6.1979 e 9.6.1998,
Trib. Ravenna 31.5.2001, Trib. Trapani 26.5.1994, Trib. Milano 1.3.2000, nonché, implicitamente, Trib. Napoli
9.10.2001 e 25.11.1998.
33
Trib Milano 17 gennaio 2006; nello stesso senso, Trib Pisa 9 novembre 2005, secondo cui «anche in presenza di figli
minori, l'autorizzazione giudiziale per l'alienazione di beni immobili compresi nel fondo patrimoniale prevista dall'art.
169 c.c. è richiesta solo nel caso in cui i coniugi, nell'atto di costituzione del fondo, non abbiano espressamente
consentito tale atto dispositivo sulla base del loro mero consenso».
34
Trattasi dal tribunale ordinario: Cass.
35
Trib Salerno 21 novembre 2006: Posto che l’autorizzazione alla vendita di beni appartenenti al fondo patrimoniale, in
presenza di figli minori, deve essere chiesta al giudice allo scopo di tutelare gli stessi figli e verificare se l’alienazione
sia fondata su necessità o utilità evidente per il minore medesimo, che può essere diretta ovvero indiretta attraverso il
soddisfacimento dei bisogni della famiglia. Non può risultare sicuramente utile per i minori, che vedrebbero il fondo
depauperato di un cespite di consistente valore, relativamente all’alienazione del quale non potrebbe neppure disporsi il
9
costituiti allo scopo di procurarsi il denaro necessario per concludere accordi transattivi con
creditori che abbiano iniziato procedure esecutive su altri immobili sempre appartenenti allo stesso
fondo».
Neppure pare ammissibile che, nonostante la concessione dell’autorizzazione all’alienazione, il
vincolo si trasferisca sull’importo ricavato dalla vendita del bene stesso, ovvero sul bene che con
detto ricavato sia stato acquistato (e ciò, in caso di alienazione autorizzata dal giudice, a seguito di
espresso obbligo di reimpiego imposto dal giudice)36.
Infatti, il potere di disporre il reimpiego non è previsto da alcuna norma in tema di fondo
patrimoniale, né può ravvisarsi – anche in tale ipotesi − alcuna analogia con la fattispecie di cui
all'art. 320 c.c. (che riguarda beni di proprietà del minore, a differenza del fondo patrimoniale).
9. L’esercizio della potestà nell’affidamento condiviso
La norma dell’art. 155, 3° comma, c.c., pone problemi di coordinamento sistematico sia rispetto
alla disciplina comune in materia di potestà, sia con riferimento all’ipotesi di affidamento esclusivo.
Come è noto, l’art. 316 c.c. stabilisce che la potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i
genitori. La regola dell’accordo potrebbe indurre a ritenere che tutte le decisione debbano essere
adottate con il concorso necessario delle volontà di entrambi i genitori. Ma vi sono in realtà
argomenti per sostenere che l’esercizio della potestà di «comune accordo» non equivalga ad
esercizio «necessariamente congiunto»
Si pensi, in primo luogo, all’art. 144 c.c., secondo cui i coniugi concordano tra loro l’indirizzo
della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle
preminenti della famiglia stessa. La norma stabilisce al secondo comma che a ciascuno dei coniugi
spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato. A fronte, quindi, di un «accordo» che costituisce
fonte dell’indirizzo familiare, gli atti che danno realizzazione all’indirizzo stesso non richiedono
l’accordo, ma possono essere compiuti dai coniugi “disgiuntamente”.
Ma anche nello stesso ambito della potestà, gli atti patrimoniali, se di ordinaria amministrazione,
«…possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore» (art. 320, comma 1, c.c.), mentre
gli atti di straordinaria amministrazione richiedono comunque l’autorizzazione del giudice tutelare.
Anche con riferimento alla rappresentanza in giudizio, la giurisprudenza applica la distinzione tra
atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, ritenendo estensivamente le ipotesi nelle quali un
genitore può essere presente in giudizio, senza la contestuale costituzione dell’altro, in
rappresentanza del figlio minore. Ad esempio.
 è sempre considerata ordinaria amministrazione l’attività di resistere in giudizio contro
azioni promosse da altri contro il minore;
 l’azione con cui si domanda il risarcimento di un danno subito dal minore è ritenuta di
ordinaria amministrazione, in quanto volta al recupero di somme nell’interesse del minore
(Trib. Cagliari 8 agosto 1989, RGSarda 1995, 53);
 anche quando non sia destinata a incidere sul loro patrimonio, l'azione giudiziale in nome e
per conto dei figli minorenni, può essere esercitata disgiuntamente dai genitori, tanto più
quando si tratti di provvedimenti d'urgenza e si voglia ampliare la sfera giuridica soggettiva
del rappresentato (Trib. L’Aquila 23 ottobre 2003, Giur. merito 2003, 2529).
Anche la nozione di «questioni di particolare importanza» è intesa dalla giurisprudenza nel senso
restrittivo che amplia automaticamente gli ambiti dell’agire disgiunto di ciascuno dei genitori. E’
stato deciso, ad esempio, che non vi è luogo a provvedere, quando, allo scopo di superare
l'opposizione (informale) dell'altro coniuge, uno dei genitori, in assenza di separazione personale,
chieda di essere autorizzato a condurre con sè, per un breve soggiorno all'estero, la prole, poiché
reimpiego obbligatorio del danaro ricavato giacché un eventuale vincolo delle somme impedirebbe ai genitori di
utilizzarle per pagare i creditori, vanificando conseguentemente l’istanza proposta.
36
Trib. Genova 26.1.1998, Trib. Modena 6.6.2001, App. Bari 15.7.1999 e Trib. Milano 1.3.2000. In senso contrario al
potere del giudice di disporre il reimpiego del ricavato, Trib. Min. Perugia, 25 gennaio 2003, Dir. Famiglia 2004, 126.
10
una breve permanenza fuori del territorio nazionale non può dare luogo ad una "questione di
particolare importanza" ex art. 316 c.c., se non vi è il pericolo che la prole possa essere sottratta al
genitore rimasto in Patria (Trib. Min. L'Aquila, 19 luglio 2000, Dir. famiglia 2001, 1029)
Anche la proposizione di una querela nell’interesse del minore non è stata considerata “questione
di particolare importanza”, ammettendo pertanto il diritto di ciascun genitore a presentarla anche in
assenza della volontà dell’altro (Cass. pen. 7 giugno 1995 n. 7595, Casatti, Cass. pen. 1997, 77).
Il legislatore è consapevole, tuttavia, che l’esercizio della potestà non possa essere regolato dalla
medesime disposizione previste per l’ipotesi di mancanza di convivenza tra i genitori. L’art. 317
c.c. prevede, pertanto, che nel caso di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda
impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della potestà, questa è esercitata in modo esclusivo
dall’altro. Con particolare riferimento alla fattispecie della separazione personale, però, la norma
rinvia all’art. 155 per la regolamentazione dell’esercizio della potestà.
Dal confronto tra l’abrogata e la nuova disciplina emergono, in particolare, i seguenti aspetti
 la legge non fa più riferimento al genitore affidatario, ma stabilisce che la potestà è
esercitata da entrambi i genitori;
 vi è continuità con riguardo alla necessità che le decisioni di “maggiore interesse” debbano
essere adottate da entrambi i coniugi (può ritenersi, invero, che l’elencazione, ora contenuta,
delle sole questioni relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sia da considerarsi
meramente esemplificativa);
 il ricorso al giudice è consentito non più al solo genitore non affidatario che ritenga che
l’altro abbia assunto decisioni pregiudizievoli per il figlio, ma ad entrambi nel caso di mero
“disaccordo”nella nuova disciplina è prevista la possibilità che, per le questioni di ordinaria
amministrazione, il giudice stabilisca l’esercizio “separato” della potestà.Sul primo aspetto
si sono formate fondamentalmente due opinioni dottrinali:
− secondo una prima tesi, in seguito alla riforma l’esercizio della potestà è disciplinato dalla
regola del «comune accordo» di cui all’art. 316 c.c., con la conseguenza, pertanto, che i
genitori debbono assumere ogni decisione “congiuntamente”, salvo che per le questioni di
ordinaria importanza il Giudice abbia espressamente attribuito l’esercizio disgiunto
− secondo una diversa impostazione, invece, la potestà continua – nonostante la cessazione
della convivenza – ad essere esercitata da entrambi i genitori, ma la fonte del suo esercizio
non è più costituita dall’accordo tra i genitori stessi, ma dal provvedimento dei giudice,
rispetto al quale entrambi i genitori ottengono legittimazione a compiere gli atti che ne
costituiscono esecuzione.
Secondo quest’ultima tesi, è evidente, infatti, che – in assenza di convivenza e, anzi, spesso in un
clima di conflittualità reciproca – le decisioni della vita quotidiana, riguardanti i figli, non possono
essere di volta in volta assunte “di comune accordo”; ciascuno dei genitori può assumere tali
decisioni disgiuntamente, sebbene in conformità alle disposizioni del giudice che, proprio per tale
ragione, è opportuno che presentino maggiore analiticità e si pongano alla stregua di un programma
educativo del minore.
Si può ritenere, invero, che, nei periodi di collocamento del minore con i rispettivi genitori,
ciascuno di essi possa adottare tutte le decisioni che non coinvolgono aspetti esistenziali interferenti
con il collocamento presso l’altro, salvo che si tratti di una “questione di maggiore interesse”.
Ad esempio, nel caso di un cui il minore sia collocato presso il padre per due giorni alla settimana,
nulla impedisce che il padre possa iscrivere il figlio alla frequenza di un corso di canto, se
l’iscrizione stessa non pone problemi sotto il profilo della salute del minore e non impone la
possibile frequenza in giorni di collocamento presso la madre. Se, però, la decisione fosse relativa,
invece, alla frequenza di un corso di indottrinamento ad altra religione, certamente si tratterebbe di
questione di rilevante interesse per l’educazione del minore, con la conseguenza che la mancanza di
“interferenza” con il collocamento presso l’altro genitore non precluderebbe la necessità del
comune accordo.
11
Le due ricostruzioni interpretative danno diverso significato all’ultimo alinea della norma,
secondo cui limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può
stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.
I sostenitori della prima tesi37, le questioni di “ordinaria amministrazione” devono essere intese
come questioni di “ordinaria importanza” concernenti la sfera personale del minore. La norma non
farebbe riferimento, cioè, alle questioni di ordinaria amministrazione nel senso patrimoniale, perché
le questioni di carattere patrimoniale continuano a essere disciplinate dall’art. 320 c.c.I medesimi
Autori sottolineano, pertanto, “l’opportunità che il giudice disponga sempre espressamente che
ciascun genitore eserciti singolarmente la potestà con riguardo alle questioni di ordinaria
importanza e, quindi, sia legittimato a decidere indipendentemente dal consenso dell’altro nel
momento in cui il figlio è collocato presso di lui”38.
La difficoltà che tale tesi presenta consiste nel giustificare la ragione per cui il legislatore avrebbe
fissato la regola dell’esercizio “congiunto” della potestà anche relativamente a questioni di ordinaria
o addirittura minima importanza in situazione nelle quali è naturalmente più difficile pervenire
all’accordo. Vi sarebbe, cioè, un’aporia sistematica nel consentire che, in costanza di convivenza,
l’attuazione dell’accordo sia rimessa all’agire disgiunto di ciascun genitore e nel richiedere, invece,
in ogni casi il comune accordo nelle situazioni di crisi relazionale tra i genitori.
I sostenitori dell’altra tesi ritengono, pertanto, che all’ultimo aliena dell’art. 155, comma 3, debba
essere attribuito il diverso significato di consentire al giudice di ripartire la potestà tra i genitori “per
sfere di competenza” cioè per materie o ambiti tematici, di talché al genitore non spetterebbe un
potere decisionale sulla generalità delle questioni, bensì su determinate questioni soltanto relative al
figlio.
La norma nasce probabilmente da un equivoco concettuale, espressamente risultante dai lavori
preparatori. Si è ritenuto infatti, erroneamente, che nel vecchio aff. cong. le decisioni che non
rivestono particolare importanza per il minore dovessero essere adottate congiuntamente da
entrambi i genitori. Al contrario, proprio come nella fisiologia matrimoniale, il potere di adottare
l’interezza delle stesse spetta ad entrambi ma ben può essere esercitato da ciascuno disgiuntamente,
poiché l’accordo di massima che caratterizza il condiviso fa presumere la corrispondenza della
decisione individuale all’indirizzo concordato e quindi all’interesse del minore, come è stato già
detto.
La norma non può interpretarsi, dunque, nel senso che “separatamente” significhi
“disgiuntamente”, perché ciò è già in iure condito, una volta che vi sia condivisione della potestà.
Invece, e sempre avuto riguardo ai lavori preparatori, pare che con l’avverbio “separatamente” si
sia inteso far riferimento al potere del giudice di ripartire tra i genitori il potere di decidere per
ambiti di rilevanza della vita del minore.
Se così è, la norma, benché nascente da un equivoco, è a suo modo logicamente coerente e
compatibile con un aff. cond. anche tra genitori in disaccordo, poiché la ripartizione “per materie”
della potestà previene una conflittualità de minimis logorante e un caleidoscopio di decisioni
quotidiane di opposto segno, che potrebbero determinare la paralisi della funzione educativa del
minore, forse assai più di quanto possa avvenire in caso di un disaccordo isolato su una questione di
maggior interesse.
In questo senso, può rivelarsi assai opportuno, che il giudice eserciti il potere di ripartire tra i
genitori le sfere di competenza.
Anche una siffatta interpretazione produce una serie di rischi, tra i quali possono individuarsene
almeno tre:
 un frequente contrasto tra decisioni quotidiane tra loro incompatibili (lo sport nell’orario dei
compiti, per esempio);
 il problema dell’efficacia e/o della validità dell’atto stipulato dal genitore “incompetente”
nella determinata materia di cui si tratta, che deve essere valutato anche alla luce del
37
38
SESTA, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: a) profili sostanziali, in Fam. dir., 2006, 4, 377
SESTA, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: a) profili sostanziali, cit.
12
principio dell’affidamento incolpevole del terzo impossibilitato a conoscere il regime di
ripartizione e quindi di competenze tra i genitori, con le conseguenze anche in termini di
responsabilità patrimoniale;
 il possibile difetto di coordinamento con il sistema di mantenimento diretto introdotto dalla
riforma: il rischio è, ad es., che il padre decide, mentre la madre paga, o viceversa.
Per quel che concerne il ricorso al giudice in caso di disaccordo tra i genitori, la legge prevede che
il giudice decida direttamente piuttosto che attribuire la decisione al genitore che, nel caso concreto,
appaio il più idoneo, così come previsto dall’art. 316 c.c. nella situazione di fisiologica convivenza
tra i genitori. La diversità della previsione è stata spiegata39 con l’attenuazione dell’esigenza di
salvaguardia dell’autonomia familiare in caso di cessazione della convivenza e con la correlativa
esaltazione del ruolo del giudice. Nulla esclude, peraltro, che in concreto il giudice possa decidere
attribuendo a uno dei genitori il potere di adottare la decisione ritenuta necessaria.
La soluzione delle controversie spetta al giudice del procedimento in corso, oppure al tribunale del
luogo di residenza del minore (art. 709 ter).
10. L’esercizio della potestà nell’affidamento esclusivo
Altro problema che vede in dottrina e in giurisprudenza una diversità opinione concerne la
disciplina della potestà in caso di affidamento esclusivo.
Secondo una prima tesi40, l’art. 155, comma 3, si applica sia all’affidamento condiviso sia
all’affidamento esclusivo: da questo punto di vista, le due forme di affidamento non si
differenzierebbero in alcun modo.
Secondo una tesi opposta41, invece, nel caso di affidamento esclusivo l’esercizio della potestà
spetterebbe al solo genitore affidatario.
Secondo una tesi intermedia42, infine, nell’affidamento esclusivo di regola l’esercizio della potestà
spetterebbe ad entrambi i genitori, salvo che il giudice, in casi particolari caratterizzati dal rischio di
un concreto pregiudizio per il minore, disponga l’esercizio esclusivo della potestà in capo al solo
genitore affidatario.
Dopo una fase iniziale in cui la tesi dell’ “indifferenza” delle modalità di affidamento rispetto
all’esercizio della potestà pareva prevalere tra i commentatori, si registra una sempre maggiore
adesione all’opzione interpretativa che diversifica nettamente l’affidamento esclusivo da quello
condiviso proprio perché caratterizzato dall’esercizio esclusivo della potestà da parte del solo
genitore affidatario.
La tesi intermedia, a sua volta, non appare fondata sul dato testuale, che non consente di evincere
alcuna “dicotomia” nell’ambito della figura dell’affidamento esclusivo.
In favore della prima tesi militano, invero, soltanto argomenti letterali o formalistici:
- in primo luogo, la collocazione dell’art. 155, comma 3, che – nel contesto dell’intero articolo
– parrebbe fare riferimento ad entrambe le forme di affidamento previste dal precedente
comma;
- in secondo luogo, l’abrogazione della vecchia previsione dell’art. 155, comma 3, e, pertanto,
la mancanza di un’espressa disciplina del contenuto e dell’esercizio della potestà nell’ipotesi
di affidamento esclusivo.
Entrambi gli argomenti non appaiono probanti: non certo quello letterale, posto che l’art. 155, pur
“enunciando” l’affidamento esclusivo come alternativa all’affidamento condiviso, è norma
39
SESTA, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: a) profili sostanziali, cit.
QUADRI, Affidamento dei figli e assegnazione della casa familiare: la recente riforma, in Familia, 2006, 395;
RUSCELLO, La tutela dei figli nel nuovo affido condiviso, in Familia, 2006, 625.
41
BALESTRA, Brevi notazioni sulla recente legge in tema di affidamento condiviso, in Familia, 2006, 655; BASINI,
Ancora in tema di affidamento condiviso della prole, in Fam. Pers. Succ., 2007, 296; PALADINI, Affidamento condiviso,
in Enc. Giur. Il Sole 24 Ore, I, 169; C. IRTI, in Comm. Scialoja-Branca, artt. 155-155 sexies, a cura di PATTI-ROSSI
CARLEO, Bologna-Roma, 2010, 232. .
42
DE FILIPPIS; in giurisprudenza, Trib Bologna 17 aprile 2008, Dir. famiglia, 2009, 215, con nota di MANERA.
13
40
generale, rispetto alla quale l’art. 155 bis, espressamente dedicato all’affidamento esclusivo, pone
una previsione speciale alla quale può essere attribuito un contenuto peculiare sotto il profilo delle
regole compatibili con tale modalità di affidamento.
Anche l’argomento dell’abrogazione della norma che disciplinava l’esercizio esclusivo della
potestà da parte del solo genitore affidatario si rivela poco significativa, posto che nell’ordinamento
è contenuta ancora una norma che descrive tale esercizio. L’art. 6, comma 4, legge n. 898/70
contiene, infatti, una norma quasi perfettamente sovrapponibile al disposto dell’abrogato art. 155,
comma 3.
Sul punto, si è obiettato l’argomento della presunta abrogazione tacita dell’art. 6, sulla quale,
tuttavia, è legittimo sollevare alcune perplessità alla stregua dei criteri che la giurisprudenza ha
tradizionalmente applicato per concludere nel senso dell’abrogazione tacita di una norma.
In senso contrario, si può osservare invece che proprio l’«eccezionalità» dell’affidamento
esclusivo, da disporre nei soli casi di manifesta e grave inidoneità di un genitore sul piano
educativo, induce a ritenere paradossale che l’esercizio della potestà continui ciononostante ad
essere congiunto. Il genitore non affidatario conserverebbe il potere di adottare e soprattutto di
eseguire decisioni concernenti la quotidianità di un figlio che, per la gran parte, non vive
materialmente con lui!
Occorrerebbe chiedersi, inoltre, in che cosa finirebbe col distinguersi un affidamento escl. da un
aff. cond. con collocamento stabile presso un genitore, se la potestà è esercitata in entrambe le
ipotesi in modo condiviso. I due istituti sarebbero la stessa cosa, distinguendosi solo nominalmente
Vi è, infine, un argomento di carattere sistematico, che consiste nella previsione dell’art. 155 ter,
secondo cui I genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni
concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della potestà su di essi e delle
eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo: la norma allude, infatti,
alla possibilità che vi sia una mancata corrispondenza tra modalità di affidamento ed esercizio della
potestà e che quest’ultimo possa costituire l’oggetto di modifiche operate dal giudice su richiesta
dei coniugi.
11. Rapporti tra provvedimenti del giudice della separazione e provvedimenti ex art. 333
c.c.
Anche sotto il vigore della disciplina predente alla legge n. 54/2006 era sorto il problema di quale
fosse la ripartizione tra la competenza del giudice ordinario in materia di provvedimenti relativi alla
prole e competenza del tribunale per i minorenni, fino al punto da rendere necessario l’intervento
delle Sezioni Unite, che avevano statuito che, alla stregua del disposto dell'art. 38 disp.att.c.c. sulla
competenza del tribunale per i minorenni, coordinato con le norme dettate dagli art. 155 e 317 c.c.,
9 della l. 1 dicembre 1970 n. 898 e 710 c.p.c., i provvedimenti di revisione delle condizioni di
affidamento dei figli minori di coniugi separati, in forza di separazione giudiziale o separazione
consensuale omologata, ovvero di coniugi il cui matrimonio sia stato annullato o sciolto, rientrano
nella suddetta competenza del tribunale dei minorenni nei soli casi in cui come causa di quella
revisione si chieda un intervento ablativo o limitativo della potestà genitoriale sulla prole, a norma
degli art. 330 e 333 c.c., mentre, in ogni caso, sono devoluti alla competenza del tribunale
ordinario.
Sennonché il problema è ancora oggi attuale e vede la questione all’esame della Corte di
Cassazione con riferimento all’ipotesi in cui, nel corso di un procedimento per la modifica delle
condizioni di separazione avanti al tribunale ordinario, emerga la necessità di assumere
provvedimenti limitativi della potestà genitoriale.
14
A fronte della trasmissione d’ufficio, disposta dal tribunale ordinario, il Tribunale per i
Minorenni43 ha proposto d’ufficio regolamento di competenza sulla base delle seguenti
considerazioni:
a)
L’art. 5 c.p.c. determina la competenza con riguardo al momento di proposizione
della domanda, sicché «l’eventuale insorgenza di elementi nuovi in corso di istruttoria,
ritenuti pregiudizievoli per il minore, non possono far venire meno la competenza a
provvedere»;
b)
Non si può escludere che il GO possa adottare provvedimenti di affidamento anche
in presenza di condotte di un genitore pregiudizievoli dell’interesse della prole, posto che
− l’art. 151, c. 2, prevede espressamente che, in sede di separazione personale, il giudice
possa verificare il “grave pregiudizio all’educazione della prole” come causa di
addebito e, pertanto, nel medesimo contesto di provvedimenti relativi anche alla prole;
− l’art. 155 c.c. rimette al giudice il potere di adottare “ogni altro provvedimento relativo
alla prole”
c)
l’art. 38 disp. att. non richiama la competenza del TM né l’art. 155 cc né l’art. 317
cc, sicché deve ritenersi che «dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione,
resa dal tribunale ordinario, competente a disporre i provvedimenti modificativi delle
condizioni di affidamento della prole dallo stesso assunti nel relativo processo sia il
medesimo tribunale ordinario»;
d)
i principi di ragionevole durata del processo e di concentrazione delle tutele rende
opportuna l’attribuzione al TO della competenza ad adottare, con “cognizione globale”,
provvedimenti sull’affidamento dei figli e sull’esercizio della potestà unitamente alla
determinazione della misura e del modo di contribuzione al mantenimento, all’istruzione e
all’educazione della prole.
Invero – in attesa che il conflitto sia risolto − alcune pronunce della SC indurrebbero a ritenere
fondata e preferibile tale impostazione. In particolare, appare rilevante il precedente con cui la Corte
di Cassazione44 ha respinto seccamente il motivo di ricorso con cui si sosteneva che «rientrerebbero
nella competenza del tribunale ordinario - in sede di separazione personale dei coniugi, di
annullamento del matrimonio o di pronunzie ex L. n. 898 del 1970, le decisioni aventi ad oggetto
l'affidamento dei minori, prescindenti dalla sussistenza di situazioni pregiudizievoli per i minori
stessi, alle quali ultime si dovrebbe (e potrebbe) ovviare solo con il richiesto provvedimento
giudiziario, di carattere cautelare», affermando, al contrario, che »i confini dei provvedimenti in
concreto assumibili - in sede di separazione o di divorzio - in materia di affidamento dei figli
minori, dal Tribunale ordinario non si arrestano sulla soglia della alternativa secca fra i due
genitori e non precludono del tutto, al giudice ordinario, di assumere provvedimenti più articolati i
quali, pur senza pretermettere radicalmente i genitori, si facciano carico del contingente interesse
dei minori stessi»
12. Il confine applicativo tra legge n. 154/01 e artt. 330-333 c.c. nel caso di abusi ai danni di
minori
Con riguardo alle misure restrittive della potestà, si è posto il problema di di cogliere la linea di
confine tra la legge n. 154 del 2001 e gli artt. 330 e 333 c.c., così come riformulati dalla novella
sull’adozione (legge 28 marzo 2001 n. 149)45. Tali norme prevedono ora, infatti, il potere del
giudice di allontanare dalla casa familiare il genitore (a carico del quale venga disposta la
43
Si veda, in particolare, Trib. Min. Brescia, ord. 9 febbraio 2010, in Fam. dir., 2010, 7, 719, con nota di C.
SPACCAPELO.
44
Cass., sez. I, 10 ottobre 2008 n. 24907
45
Per una compiuta disamina della problematica riguardante la delimitazione dei rispettivi ambiti applicativi della
normativa sugli abusi familiari e degli art. 330 e 333 c.c., così come riformati dalla l. 28 marzo 2001 n. 149, cfr.
PUGLIESE, in Gli abusi familiari (a cura di PALADINI), cit., 35 ss e RENDA, ivi, 67 ss.
15
decadenza dalla potestà o altro provvedimento conveniente) o il convivente che maltratta o abusa
del minore. Le due ipotesi normative (artt. 330 e 333, da una parte, e art. 342 bis, dall’altra)
finiscono col coincidere e col risultare entrambe astrattamente applicabili.
Per risolvere il conflitto apparente tra le norme è stato proposto46 il criterio di specialità, che,
dunque, nel caso in esame – consistente nella condotta abusiva, assunta ai danni del minore dal
genitore o dal convivente di quest’ultimo – condurrebbe all’applicazione delle sole norme degli artt.
330 e 333 c.c.
La conseguenza di tale impostazione è, però quella di ritenere che la violenza sui figli minori sia
una fattispecie esclusa dall’applicazione della legge n. 154/2001.
Sennonché, appare preferibile privilegiare l’interpretazione secondo cui tra le norme sulla potestà
e quelle sugli abusi familiari sussiste diversità di applicazione sia per quel che concerne le
situazioni concrete nelle quali fare ricorso alle misure protettive sia con riguardo al conseguente
contenuto e alla durate delle misure stesse.
Con riguardo ai presupposti oggettivi di applicazione, ai sensi degli artt. 330 e 333 può essere
disposto l’allontanamento del genitore o del convivente che maltratta o abusa del minore.
La nozione di «maltrattamento» non può che essere mutuata dall’ambito penalistico sicché pare
il tribunale per i minorenni, chiamato ad applicare la misura dell’allontanamento del genitore o del
convivente ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., deve valutare incidentalmente (e con effetti meramente
interni, limitati cioè al giudizio in materia di potestà) la sussistenza della richiamata fattispecie di
reato (art. 572 c.p.), con la conseguenza di dover verificare il requisito dell’abitualità della condotta
pregiudizievole47. è
Quando la condotta abusiva consista nel maltrattamento del minore, pertanto, non sarebbe
possibile, in astratto, alcuna paventata “sovrapposizione” tra gli artt. 330 e 333, da una parte, e l’art.
342 ter, dall’altra. Tale ultima norma riguarderebbe, cioè, fattispecie di “minore gravità” rispetto
alla fattispecie di reato (art. 572 c.p.) indicata come presupposto dei provvedimenti in materia di
decadenza o limitazione della potestà.
Diversa la soluzione da accogliere, invece, con riferimento alla nozione di «abuso» del minore,
posto che, in mancanza di una specifica definizione, il contenuto della nozione non può che derivare
proprio dalla normativa sugli ordini di protezione contro gli abusi familiari (legge n. 154 del 2001),
laddove emerge come per “abuso” debba intendersi la condotta, tenuta nell’ambito della famiglia
(legittima o di fatto), che è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla
libertà di altro componente.
Sussistono, inoltre, fattispecie per le quali sembra dubbia l’applicazione di misure ablative o
limitative della potestà, con conseguente applicabilità dei soli ordine di protezione: è il caso della
c.d. violenza “obliqua” o assistita, che sussiste nel caso di abusi perpetrati ai danni di altro
componente della famiglia, ai quali il minore sia costretto ad assistere con grave turbamento della
propria personalità48.
46
FIGONE, La legge sulla violenza in famiglia, in Fam. Dir., 2001, 357.
Ex plurimis, Cass. pen., 1.2.1999 n. 3580, Valente, Giust. pen., 2000, II, 313.
48
Trib. Reggio Emilia, decr. 10.5.2007, in Fam. Pers. Succ., 2007, 10, 843: in sede di reclamo, ha ritenuto che va
accolto il ricorso per ordine di protezione ex art. 342 bis c.c. quando la condotta di uno dei conviventi, autore di un
episodio di violenza fisica in danno dell'altro e alla presenza del figlio minore (il fatto, maturato in un contesto di
conflittualità dipendente dalla crisi del rapporto affettivo, era stato preceduto da un episodio di minacce), è causa di
grave pregiudizio all'integrità fisica e morale e alla libertà dell'altro convivente e pregiudica altresì lo sviluppo morale
ed educativo del figlio (nella specie, un bambino di età inferiore ai tre anni, che aveva assistito in casa all'aggressione
della madre ad opera del padre). Con il medesimo decreto il Tribunale di Reggio Emilia, pur affermando che
l'affidamento del figlio naturale è materia di competenza del Tribunale per i minorenni, ha ritenuto che il giudice che
adotta l'ordine di protezione può disporre l'intervento del servizio sociale territorialmente competente con l'incarico di
vigilare e regolare in via provvisoria - in condizioni di sicurezza e con modalità idonee ad evitare contatti tra gli ex
conviventi - la frequentazione del minore da parte del padre allontanato dalla casa familiare, ferma restando l'efficacia
dell'ordine di allontanamento e degli altri provvedimenti inibitori emessi nei confronti del padre, fra i quali il divieto di
avvicinarsi alla casa familiare e al nido frequentato dal minore).
16
47
Si tratta di un criterio, tuttavia, di difficile applicazione, posto che, in concreto, appare difficile
discriminare a priori tra le fattispecie configurabili come “maltrattamento” e quelle qualificabili,
invece, come “abuso”. Una simile prospettiva applicativa contribuirebbe a rendere ancora più
incerti i confini tra le ipotesi normative, con l’ulteriore pericolo di conflitti negativi di competenza
tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni in sede di repressione della violenza familiare.
differenze nel “contenuto” del provvedimento?
Non tutte le statuizioni, rientranti nella competenza del tribunale ordinario ai sensi dell’art. 342
ter, possono parimenti costituire il contenuto del provvedimento pronunciato dal tribunale per i
minorenni. Sotto questo profilo, parte della dottrina49 ha lamentato la disparità tra la protezione dei
minori e degli adulti dalla violenza familiare.
Gli artt. 330 e 333 si limitano a prevedere l’allontanamento del genitore o del convivente, sebbene
non possa escludersi che, nell’ambito di quei provvedimenti “convenienti” che possono essere
assunti ai sensi dell’art. 333, il giudice disponga l’adozione proprio di alcune delle misure descritte
nell'art. 342 ter, ad eccezione dei provvedimenti idonei a costituire titoli economici50.
Il contenuto delle statuizioni preventive degli abusi familiari è, invece, assai più ampio e, oltre
all’ordine di cessazione della condotta pregiudizievole e l’allontanamento dalla casa familiare del
soggetto che abusa, può comprendere anche – oltre all’ordine di pagamento di un assegno periodico
– la prescrizione di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima dell’abuso e, in
particolare, il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia d’origine, il luogo dell’istruzione dei figli
minori.
Differenze nell’efficacia temporale del provvedimento?
Infine, tra i provvedimenti degli artt. 330 e 333 e quelli dell’art. 342 ter sussiste diversità in ordine
all’estinzione dell’efficacia:
- per i provvedimenti degli artt. 330 e 333 non sono previsti né limiti temporali di efficacia né
cause tipiche di estinzione; nel caso previsto dalla prima delle due norme, il provvedimento perde
efficacia con la reintegrazione del genitore nella potestà; a sua volta, l’art. 333 sancisce che i
provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento;
- le misure di protezione dell’art. 342 ter hanno, invece, la durata fissata dal giudice col decreto di
adozione del provvedimento, ma essa non può essere superiore a un anno e può essere prorogata,
su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario.
differenze nella funzione del provvedimento?
Proprio da tale ultimo dato normativo si può cogliere, verosimilmente, la fondamentale differenza
funzionale tra l’allontanamento previsto dagli artt. 330 e 333 e quello oggetto degli ordini di
protezione contro gli abusi familiari:
- negli artt. 330 e 333, l’allontanamento del coniuge o convivente configura un provvedimento
strettamente accessorio a quello relativo alla potestà genitoriale, che si aggiunge o alla decadenza
del genitore dalla potestà (art. 330, comma 2) o ai provvedimenti “convenienti” in caso di condotta
pregiudizievole del genitore (art. 333, ove, infatti, si stabilisce che, oltre ai provvedimenti
convenienti, il giudice può anche disporre l’allontanamento);
- nell’art. 343 ter, invece, l’allontanamento del coniuge o del convivente è
) misura autonoma;
) direttamente funzionale alla cessazione della condotta pregiudizievole;
) essenzialmente provvisoria, perché volta a consentire ai coniugi (o ai conviventi) di riflettere
sulla tollerabilità della prosecuzione della loro convivenza (tant’è che è destinata a essere
49
SACCHETTI, Allontanamento dell’autore della violenza dalla casa familiare: un problema aperto, in Fam Dir.
2001, 6, 664.
50
Anche sulla preclusione all’adozione dei provvedimenti a contenuto economico, peraltro, è consentito sollevare
perplessità alla luce dell’orientamento giurisprudenziale espresso da Cass., ord. 3.4.2007, n. 8362 (in Diritto e
Formazione, 2007, 2, 192-198, con nota di PALADINI), in tema di competenza del tribunale per i minorenni
all’emanazione dei provvedimenti sul mantenimento della prole in seguito alla cessazione della convivenza more uxorio
dei genitori.
17
automaticamente sostituita – per manifesta sovrapposizione di contenuti – dall’eventuale ordinanza
presidenziale che autorizzi i coniugi a vivere separati).
Le descritte normative risultano, pertanto, applicabili in fattispecie parzialmente distinte, perché,
mentre l’allontanamento di cui agli artt. 330 e 333 presuppone un provvedimento principale che
incida sulla potestà del genitore, l’ordine di protezione costituisce un rimedio temporaneo a una
crisi del rapporto di convivenza, che, dal punto di vista del rapporto genitore-figlio può semmai
aggravarsi fino a rendere necessari successivi provvedimenti di decadenza dalla potestà o altri
provvedimenti “convenienti”.
13. Il minore come soggetto processuale.
La riforma del diritto della famiglia del 1975, la legge sull’adozione del 1983 e la novella sul
divorzio del 1987 avevano complessivamente ignoratola posizione processuale dei minori e
demandato la soluzione delle relative questioni alla disciplina ordinaria del codice di procedura
civile, ai sensi del quale  come è noto  sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il
libero esercizio dei diritti che si fanno valere (art. 75 cpc). Posto, quindi, che  per l’art. 2 c.c. la
capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilità una età diversa …si acquista con la
maggiore età, doveva concludersi nel senso che della necessaria rappresentanza sostanziale nel
processo da parte dei suoi rappresentanti legali (i genitori o, in mancanza, il tutore, ovvero il
curatore nel caso di minore emancipato).
Non v’è dubbio che, per le cause a contenuto patrimoniale, diverse dai procedimenti dei quali si
dirà, il regime normativo è ancora incentrato sul combinato disposto degli artt. 2 c.c. e 75 c.p.c., con
alcune doverose precisazioni compiute negli anni dalla giurisprudenza in sede di interpretazione
delle norme in materia di potestà.
In particolare, la rappresentanza è disgiunta o congiunta a seconda che l’atto sostanziale, cui si
riferisce il processo, sia di ordinaria o straordinaria amministrazione. Ad esempio, l’azione con cui
si domanda il risarcimento di un danno subito dal minore è sempre ritenuta di ordinaria
amministrazione, in quanto volta al recupero di somme nell’interesse del minore51; l'azione
giudiziale può essere esercitata disgiuntamente dai genitori, quando si tratti di provvedimenti
d'urgenza e sia finalizzata ad ampliare la sfera giuridica soggettiva del rappresentato 52; è
considerata, inoltre, ordinaria amministrazione l’attività di resistere in giudizio contro azioni
promosse da altri contro il minore.
Se i genitori intendono promuovere giudizi nelle materie indicate dall’art. 320, 3° comma, c.c.,
occorre l’autorizzazione del giudice tutelare.
Le Sezioni Unite53 hanno composto un contrasto giurisprudenziale apertosi in ordine al
raggiungimento della maggiore età verificatasi nel corso del giudizio di primo grado, prima della
chiusura della discussione (ovvero prima della scadenza dei termini per il deposito delle comparse
conclusionali e delle memorie di replica, ai sensi del nuovo testo dell'art. 190 c.p.c.), e non
dichiarato ne' notificato, specie ai fini della individuazione del destinatario della notifica
dell'impugnazione.
Secondo un primo indirizzo54, se il raggiungimento della maggiore età non sia formalmente
dichiarato o notificato ai sensi dell'art. 300 c.p.c., tale evento resta privo di rilevanza anche nelle
fasi ulteriori del processo, che prosegue regolarmente nei confronti del legale rappresentante, al
quale pertanto va notificata l'impugnazione avverso la sentenza, senza che rilevi la conoscenza
aliunde dell'evento stesso da parte del notificante.
51
Trib. Cagliari 8 agosto 1989, RGSarda 1995, 53
Trib. L’Aquila 23 ottobre 2003, Giur. merito 2003, 2529
53
Cass., sez. un., 28 luglio 2005 n. 15783
54
Cass. 2003 n. 15323; 2003 n. 1268; 2001 n. 15220; 2001 n. 1646; 1998 n. 11966; 1998 n. 5593; 1998 n. 2486; 1997
n. 6561; 1995 n. 1814; 1994 n. 9277; 1990 n. 7709; 1989 n. 2670; 1988 n. 5181; 1984 n. 4737; 1982 n. 6400
18
52
Il principio di ultrattività era già stato oggetto, però, di precisazioni e limitazioni da parte della SC:
si è affermato, infatti, che l’ultrattività è connessa all’efficacia della procura rilasciata dal
rappresentante legale, per cui se, durante il processo, sorge la necessità di rinnovare la procura alle
liti, la nuova procura deve essere rilasciata, a pena di nullità, dal soggetto che è diventato
maggiorenne (Cass., sez. III, 16 febbraio 2001 n. 2333);
Secondo un diverso orientamento, il principio di ultrattività della rappresentanza ha efficacia
soltanto nell'ambito della relativa fase processuale, con la conseguenza che le condizioni di validità
della costituzione delle parti vanno verificate in ciascuna fase successiva, e pertanto l'impugnazione
deve essere notificata al soggetto divenuto maggiorenne55. In adesione a tale orientamento si è
ritenuta l'inammissibilità dell'appello proposto dalla parte nei cui confronti si sia verificata, nel
corso del giudizio di primo grado, la perdita della capacità di stare in giudizio quale legale
rappresentante del figlio per l'intervenuto raggiungimento della maggiore età56.
Esiste ancora un filone giurisprudenziale intermedio che distingue il caso in cui la maggiore età
si a sopravvenuta dopo la conclusione del processo di primo grado, così che il relativo evento non
sia più suscettibile di dichiarazione o notificazione ad iniziativa del procuratore costituito: in tal
caso l'impugnazione notificata al rappresentante legale, piuttosto che al figlio ormai maggiorenne,
è valida o invalida a seconda che dagli atti del processo risulti che il notificante abbia ignorato
senza colpa o conosciuto o ignorato colpevolmente l'avvenuto raggiungimento della maggiore
età57. Secondo tale orientamento, che appare chiaramente ispirato dall'esigenza di contemperare le
ragioni della parte colpita dall'evento con quelle dell'altra parte senza sua colpa ignara dell'evento
stesso, il discrimine tra la validità e l'invalidità della notifica al legale rappresentante è dunque
fornito dalla rilevabilità ad opera della parte notificante del dato anagrafico, sulla base di un esame
normalmente diligente degli atti processuali.
Le SS UU hanno stabilito che il giudizio di impugnazione deve essere comunque instaurato da e
contro i soggetti effettivamente legittimati: e ciò alla luce dell'art. 328 cpc, dal quale si desume la
volontà del legislatore di adeguare il processo di impugnazione alle variazioni intervenute nelle
posizioni delle parti, sia ai fini della notifica della sentenza sia dell'impugnazione, con piena
parificazione, a tali effetti, tra l'evento verificatosi dopo la sentenza e quello intervenuto durante la
fase attiva del giudizio e non dichiarato né notificato.
L’art. 328 cpc codifica, infatti, il principio generale secondo il quale l'intervenuto mutamento
della situazione soggettiva della parte incide sulla legittimazione alla notificazione attiva e passiva
della sentenza, su quella attiva ad impugnare e quella passiva a ricevere la relativa notificazione. La
norma riconosce, in relazione ai successivi gradi del giudizio, l'automatica efficacia dell'evento
morte o della perdita o dell'acquisto della capacità della parte costituita nel precedente grado. In
ossequio a tale principio, la Suprema Corte58 ha recentemente affermato che «il ricorso per
cassazione proposto dai genitori, già esercenti la potestà sul figlio minore, è inammissibile qualora
risulti che questi abbia raggiunto, alla data di proposizione del ricorso stesso, la maggiore età e i
genitori non facciano valere pretese a titolo proprio».
La dichiarazione, comunicazione o notificazione del raggiungimento della maggiore età determina
l’interruzione del processo ai sensi dell’art. 300 cpc.
Anche nel settore patrimoniale, tuttavia, la giurisprudenza ha sottolineato che il «libero esercizio
del diritto» da parte del rappresentante legale ai sensi dell’art. 75 cpc, non equivale alla capacità di
disporre del diritto: pertanto, il rappresentante legale non può confessare in giudizio in luogo del
suo rappresentato59.
Mauro Paladini
55
Cass. 2003 n. 8827; 2000 n. 12758; 2000 n. 8380; 2000 n. 6480; 1998 n. 9175; 1997 n. 1744
Cass. 2001 n. 9387; 2000 n. 9452; 1995 n. 13041; 1991 n. 5032
57
Cass. 2003 n. 491; 2002 n. 1206; 2001 n. 3349; 1998 n. 12610; 1997 n. 10111; 1996 n. 3847; 1990 n. 8612
58
Cass., sez. III, 10 aprile 2010 n. 8551.
59
Cass., sez. II, 6 aprile 1995 n. 4015
19
56
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1. Premessa L`istituto della potestà1 – pur affondando le sue