UNIVERSO CONSULENZA La formazione del consumatore cinese driver per la penetrazione di mercato di Francesco D’Aprile * I consumatori con alta capacità di spesa e ubicati nei Paesi asiatici (in particolare in Cina) spesso, pur essendo disponibili a comprare prodotti italiani e a pagare un premium price, non dispongono delle necessarie conoscenze e competenze per fare le differenze. Di qui la tendenza da parte di questi consumatori, specialmente in alcuni comparti come il fashion, a comprare prodotti di marca senza comprenderne gli elementi qualitativi e a trasferire lo stesso comportamento in gran parte delle loro quotidiane occasioni di acquisto. Rispetto a prodotti dove non c’è la “garanzia” di un brand riconosciuto a livello internazionale (la media impresa del nostro Paese), pur sussistendo spesso la disponibilità a comprare prodotti italiani, si cerca una “ragione” a sostegno dell’acquisto a un prezzo mediamente più alto rispetto a quello dei concorrenti. Di qui l’esigenza di mettere il consumatore nelle condizioni di poter fare le differenze, una sorta di alfabetizzazione preliminare perché capisca cosa compra e trovi una ragione per pagare il premium price richiesto. Si noti bene: in presenza di una offerta di contenuti professionale e strutturata, gli stessi consumatori sono spesso disponibili a pagare anche per acquisire quelle competenze, mettendo nelle condizioni gli operatori italiani di fare il primo business già attraverso la formazione. Una volta alfabetizzati, i consumatori locali diventano titolari di bisogni in termini di prodotti e servizi che coincidono, naturalmente, in termini qualitativi, con l’offerta di prodotti italiani. E qui scatta il secondo business, quello commerciale, gestito però in una prospettiva di market entry a medio-lungo termine, con alta fidelizzazione. Questo modello coincide con quello generalmente presente nell’offerta formativa (manageriale e tecnica) proveniente da Paesi come l’Australia (lana, vino, ...) e gli Stati Uniti (tra tutti il management...). L’offerta della media impresa italiana, pur senza brand, si caratterizza d’altro canto per una eccellenza di prodotto e una reputazione di origine prevalentemente occidentale, e cioè da mercati che già dispongono delle conoscenze e competenze utili a fare le differenze. In questo contesto la nostra media impresa non si è mai posta il problema di farsi carico della alfabetizzazione del consumatore né si è mai organizzata per arricchire, nella propria value proposition, l’offerta di prodotto con l’offerta formativa del consumatore finale. Spesso non ci sono le competenze, le risorse e i modelli organizzativi per attivarsi in questa direzione e le poche iniziative presenti vanno considerate assolute eccezioni (ad esempio, l’Accademia Barilla). Si vive in una situazione di stallo, di fronte a un mercato di sicuro interesse che però non si sa approcciare. Un consumatore ben disposto e ricco che però non trova sufficienti ragioni di acquisto. E questo, mentre viviamo nel pieno di una drammatica crisi economica, sembra un assoluto paradosso! In Cina, abituati ad avere a che fare con offerte strutturate (americane, tedesche, australiane, giapponesi...) hanno compreso il problema e reagiscono in modo pragmatico ed efficace: ho rilevato che, ad esempio, i Vocational Colleges nello Zehjiang (tessile) hanno rapporti con aziende internazionali produttrici di macchinari tessili offrendo il seguente format: • Il Vocational College acquista il macchinario, lo paga e lo gestisce in un proprio spazio (una stanza) che affitta a prezzo simbolico all’azienda produttrice del macchinario stesso; è come se l’azienda produttrice fosse localizzata anche nel college…. • la scuola inserisce la formazione tecnica all’utilizzo di quel macchinario nel programma didattico; • la scuola chiede la disponibilità dei tecnici della azienda produttrice del macchinario a fare formazione in supporto ai docenti locali (chiedendo la presenza in Cina almeno 2-3 volte nel corso dell’anno scolastico) pagandoli come docenti esterni. Lo stesso format si ritrova anche per un’altra azienda nel comparto fashion: • l’azienda chiede alla classe, supportata dai docenti, di disegnare alcuni capi della collezione; • la scuola inserisce questo progetto nel programma didattico, mettendo in condizione gli studenti (supportati dai docenti) di disegnare un numero di capi coerenti alle direttive ed ai Concept forniti dalla azienda; • l’azienda si impegna a scegliere, a suo insindacabile giudizio, un numero di capi (almeno2-3) da inserire nella collezione, dando visibilità all’allievo e alla scuola di provienenza. • l’azienda chiede di ospitare in uno showroom/negozio “all’interno della scuola” le collezioni dell’azienda, mettendo in dovuto risalto le creazioni riconducibili agli studenti della scuola. Un discorso analogo si potrebbe fare nel living design (dove i decisori degli acquisti sono i designer e gli architetti) e con cui i nostri brand (escluso il comparto illuminotecnica) non dialogano, con il risultato di essere completamente assenti da quel mercato. Al valore indiscusso riconosciuto al living design italiano, al recente insediamento di showroom di alcuni nostri top brand (Gruppo Frau) e alla significativa catena di negozi Natuzzi, purtroppo fa da contraltare l’assenza di consenso e diffusione legata al prodotto italiano. Nelle “samples room” di lussuose lottizzazioni e ville, vendute talvolta anche con un distorto e arbitrario concept italiano (“Tuscany”, ad esempio), in Hangzhou così come a Ningbo, non ho trovato nulla di riconducibile a un brand italiano, ad esclusione di una caffettiera “Alessi” in cucina. Basta sfogliare i prestigiosi libri illustrativi delle più gettonate “samples room” per rendersi conto della totale assenza dei brand italiani. Siamo assenti dove si orienta il gusto, dove il mondo professionale orienta gli acquisti. Parlare al mondo professionale è diverso che parlare al consumatore finale. 94 Harvard Business Review Ottobre 2012 UNIVERSO CONSULENZA Un’inversione di tendenza si è notata in occasione del Padiglione Italia all’Expo di Shanghai nel 2010. L’eccellenza del risultato ottenuto si deve al lungimirante approccio degli organizzatori italiani che ha previsto il coinvolgimento di un architetto cinese, Tim Yip, al quale è stato chiesto di utilizzare la propria sensibilità di artista come filtro e chiave di lettura per presentare l’offerta italiana nel mercato cinese. Quando si abbandona l’approccio autoreferenziale, ci si confronta professionalmente e si condivide il sapere, i ritorni sono eccellenti (40.000 visitatori al giorno, tra i più frequentati padiglioni in assoluto dell’Expo 2010) Esperienza analoga riguarda il food, dove la percezione di interesse per la cucina e per i prodotti italiani si accompagna al più totale assenza di conoscenza e competenza sulle qualità e proprietà dei nostri alimenti base (olio, vino,... ), dieta mediterranea e stile alimentare. In Cina olio significa Spagna (a un prezzo più economico dell’olio italiano) e vino significa Francia (a un prezzo molto più alto del vino italiano). Cercando su youTube alla voce Extra Virgin Olive Oil è facile imbattersi in anchormen americani che sostengono la qualità dell’olio spagnolo anche con pubblicità comparativa rispetto all’olio italiano, e non sempre sapendo di dire il vero… D’altro canto, è difficile trovare video in corretto inglese che si occupino dell’olio extravergine di oliva italiano. I nostri concorrenti sembrano aver ben compreso il peso che assumono la formazione e l’informazione nel sostegno alla penetrazione commerciale. Il gioco si è fatto duro e occorre comprenderne le logiche, o si è fuori. Le ragioni per investire nella formazione Occorre a questo punto focalizzare qual è, per le aziende italiane, il valore e il ritorno strategico e commerciale legato all’investimento su competenze e formazione del consumatore e, più in generale, del decision maker ai fini della penetrazione sul mercato cinese, ritorno che può essere schematizzato come segue: a) già al momento della firma di un Memorandum of Understanding, di questo tipo e prima ancora che il macchinario acquistato arrivi in Cina, la diffusione della notizia nel mondo produttivo e politico locale porta un indubbio ritorno di immagine all’azienda italiana; lo stesso si può dire per il fashion, così come per qualsiasi altro settore. Se già oggi le aziende cinesi vogliono investire, è ovvio che seguano quello che l’eccellenza formativa cinese ha individuato come riferimento e adottato nei propri programmi didattici (più fatturato nel breve); b) i beneficiari della formazione sono i futuri tecnici di domani, che esprimeranno nelle aziende dove andranno a lavorare una domanda di tecnologia/prodotti coerente con quella su cui si sono formati. Sono i futuri decisori degli acquisiti e questo significa posizionamento sul mercato in un ottica di medio/lungo periodo, fidelizzazione del cliente, innalzamento di barriere di ingresso contro i concorrenti; c) nel comparto consumer (fashion, food...) il contatto diretto con il sapere (stilisti, chef) crea il mito intorno al Brand e il consenso così creato semplifica la vita all’importatore/distributore/partner locale. Viene anche alleggerita la iniziale posizione di debolezza nei confronti dei buyer dei mall, interessati ad avere questi brand nei loro centri commerciali. Viviamo un vero paradosso perché - anche se indirettamente - è la scuola che ti promuove sul mercato! Abbinando a questa attività un progetto di market entry focalizzato su iniziative di franchising e strutturazione di JV con partner locali, si riesce a ottenere un posizionamento del brand sul mercato e un incremento di fatturato a costi relativamente bassi; d) avviare progetti che vedano come interlocutori il mondo istituzionale cinese contribuisce a rafforzare la “reputazione” della azienda italiana. In Cina non c’è business serio se non si passa attraverso un preliminare “accreditamento” reciproco, che presuppone, nell’ordine, reputazione, conoscenza, frequentazione, disponibilità e, in molti casi, anche amicizia. Sono queste solo alcune delle modalità operative a sostegno dell’internazionalizzazione delle nostre medie imprese che in modo innovativo si fondano sull’indirizzo strategico che enfatizza il valore della formazione tecnica e manageriale come driver nei processi di penetrazione strutturata nei nuovi mercati non occidentali, e in particolare sul mercato cinese. Contrariamente a quanto si potrebbe obiettare, anche i ritorni sono a breve: la formazione rende anche alle imprese; come già accennato, già il comunicare l’avvio di tali progetti pone l’azienda occidentale in una condizione di “reputazione” tale da essere percepita di sicuro interesse da altri partner/distributori cinesi da contattare parallelamente, seguendo le più tradizionali e professionali metodologie di approccio a quei mercati. Il valore dell’approccio sistemico Se un approccio di questo tipo diventa una strategia del Sistema-Paese, è l’intero sistema produttivo italiano che ci guadagna in quanto, quale leader e titolare di know how a livello globale in alcuni comparti, il brand Italia diventa la fonte di acculturamento di base perché consumatori e decision makers locali sappiano come scegliere e diventino titolare di bisogni “definiti”, aprendo così la strada alla penetrazione commerciale delle imprese del nostro Paese. * Francesco D’Aprile, CMC, Partner P&D Consulting, Chair of ICMCI (International Council of Management Consulting Institutes) - Email: [email protected]. Ottobre 2012 Harvard Business Review 95