Il lavoro qui presentato prende spunto dall'analisi di alcuni poeti: Baudelaire, Pascoli, D'Annunzio. L'analisi poetica ha evidenziato in essi la presenza di più figure retoriche, legate principalmente al fonosimbolismo: si tratta di figure di suono, le stesse di cui si servono compositori contemporanei ai poeti presi in esame. Cambiano i codici espressivi, ma il risultato, la musicalità, invece, resta identica: l'ascolto di alcuni brani contestualmente all'analisi testuale ha permesso di capire meglio gli artifici retorici. L'avvio all'esperienza estetica, mediante la lettura e lo studio di opere letterarie e l'acquisizione di un metodo di analisi testuale attraverso la conoscenza degli aspetti strutturali, metrici e retorici rappresentano due fondamentali obiettivi disciplinari per il biennio (A.S. 2010/2011) L'insegnante di italiano della classe – Barbara Marabini SARA BIGHINI 2° A, LICEO SCIENTIFICO Introduzione Partendo da ciò che Baudelaire esprime nella sua poesia “Corrispondenze”, ho deciso di analizzare come il Simbolismo e quindi il Fonosimbolismo si siano fatti strada in Italia tramite due rappresentanti di eccellenza quali D’Annunzio e Pascoli. Giovanni Pascoli nell’ultima strofa de “La mia sera” scrive: “Don … Don … E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi! sussurrano, Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra … Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com’era … sentivo mia madre … poi nulla … sul far della sera.” Robert Schumann, a circa un minuto dalla fine della dodicesima variazione del suo componimento “Papillons op.2”, lascia parlare la musica ottenendo il medesimo effetto: un “ LA” ribattuto diventa un’onomatopea rievocando il rintocco delle campane, mentre in contemporanea si staglia un’altra linea melodica che si accorcia sempre più fino a diventare una pausa, incarnando una climax discendente. Estratto dal finale dell’opera “Papillons” di Robert Schumann ( 1810-1856) Come un poeta, scrivendo, opera sia una selezione di significanti sia una combinazione di significanti, un musicista provoca lo straniamento tramite la scelta e la combinazione degli strumenti. Un esempio lampante è l’opera scritta da Gabriele D’Annunzio e musicata da Claude Debussy “Le martyre de Saint Sébastien”, in particolare, il brano “Je fauchais l’epi de froment” che rimanda in maniera evidente ad atmosfere mistiche, surreali, paesaggi fantastici e immersi nella natura, come se si stesse dando la voce a quel sentimento panico tanto presente in opere quali “La sera fiesolana” o, in maniera ancor più evidente, ne “La pioggia nel pineto” dello stesso D’Annunzio. La scelta di utilizzare in apertura fiati dal timbro acutissimo, il canto di un soprano piuttosto che quello di un tenore, non sono altro che trasposizioni in musica delle allitterazioni e delle assonanze adottate dal “poeta-vate”. Claude Debussy (1862-1918) Per quanto riguarda D’Annunzio, si parla infatti di un amore per la musica radicato in lui fin dall’adolescenza; egli non si trattiene mai dall’inserire in ogni suo componimento un qualche riferimento alla musica, fu assiduo frequentatore di concerti, iniziò a studiare pianoforte scontrandosi, però, con numerose difficoltà tecniche e, elemento più rilevante per la sua poetica, si avvicinò alla cosiddetta musica verbale, come si puo’ vedere da ciò che scrive dopo aver ascoltato dall’opera “ Tristan und Isolde” di Richard Wagner, nel secondo atto , “O sink hernieder, Nacht der Liebe”: “Nell’orchestra parlavano tutte le eloquenze, cantavano tutte le gioie, piangevano tutti i dolori, che mai voce umana espresse. Su dalle profondità sinfoniche le melodie emergevano, si svolgevano, si interrompevano, si sovrapponevano, si mescevano, si stemperavano,si dileguavano, sparivano per riemergere. (…) (…) Nell’impeto delle progressioni cromatiche era il folle inseguimento d’un bene che sfuggiva ad ogni presa pur da vicino balenando. Nelle mutazioni di tono, di ritmo, di misura, nelle successioni di sincopi era una ricerca senza tregua, era una bramosia senza limiti, era il lungo supplizio del desiderio sempre deluso e mai estinto.” Richard Wagner (1813-1883)