Da Il Corriere della Sera dell’11 gennaio 2014
Tutto cominciò con i boxer color Padania
Nello scontrino in nota spese l’inizio della frana per Cota
di GIAN ANTONIO STELLA
Maledette quelle mutande verdi. Potete scommettere che Roberto Cota
rimpiangerà a lungo d’aver comprato, mettendoli in nota spese, quegli slip dai
colori cari ai padani. Certo, aveva avuto delle grane anche prima, a partire dalle
polemiche sulla Parentopoli leghista alla Regione Piemonte e la sua eccessiva
devozione al Senatur.
Ma sarà quello scontrino, probabilmente, a essere ricordato come l’inizio della
frana. La sentenza del Tar del Piemonte che ieri, dopo quattro anni di
tormentone, lo ha azzoppato come governatore, è arrivata nella scia di una lunga
serie di rovesci. Su tutti il rapporto della Finanza sui rimborsi elettorali che,
consegnato alla magistratura l’11 luglio 2012, finì sui giornali qualche settimana
fa. Un rapporto da cui emergevano, per citare La Stampa , molte spese non
sempre, diciamo così, istituzionali. Dai «quattro chili di pasticceria per 126 euro
a Torino» a «quattro pacchi di Pall Mall azzurre», dal «regalo di nozze da 380
euro “per rappresentanza”, all’assessore Michele Coppola» a scontrini per
«cravatte, argenteria, un caricabatterie. Deodorante, spazzolino, Marlboro da
20. Una cornice. Una valigia. Un dvd. Cipster, taralli, M&M’s, arachidi».
Fino ai più sconcertanti: «Ventidue coperti da Celestina ai Parioli, con cinque
ricevute diverse nello stesso giorno. E poi, il 20 aprile 2011: nove pasti con tre
scontrini, fra Roma, Torino e un bar dell’aeroporto. Totale: 25.410 euro».
Che il presidente fosse dotato del dono dell’ubiquità, come San Filippo Neri o
San Pietro d’Alcántara, era infatti ignoto anche a chi lo amava per avere sconfitto
i «comunisti» strappando loro la «rossa» Torino. Eppure questo dice la nota dei
finanzieri che hanno messo a confronto gli scontrini con le celle telefoniche via
via agganciate dai due cellulari cotiani: «Su un totale di 592 report, in 115 casi
non vi è corrispondenza fra quanto segnalato dalla cella relativa,
alternativamente, alle utenze 335/.... e 348/..., e l’unificazione dell’esercizio
commerciale indicato sulle fatture e ricevute consuntive del consigliere Cota...»
Traduzione: per almeno 115 volte il governatore non era dove furono emessi gli
scontrini.
Una grana. Tanto più per il segretario regionale (eletto con uno stupefacente
93%) di un partito nel quale era entrato giovanissimo proprio perché entusiasta
delle urla di battaglia «moralizzatrici» di un Senatùr che minacciava furente:
«Sbatterò via tutti i dirigenti che hanno la gotta per le troppe bistecche
mangiate».
Si innamorò del Carroccio, avrebbe raccontato in un’intervista a Barbara
Romano, di Libero , nel 1987. Quando aveva 19 anni: «Sono il più vecchio della
generazione di quelli che hanno sempre votato solo Lega». Entrò nel partito tre
anni più tardi nel sottoscala di un bar: «Il bar “Otello” di Novara. Andai lì con il
mio amico Giorgio Ferrari e l’Otello ci sussurrò: “Sì sì, per la Lega. Ma andate nel
sottoscala, sennò perdo i clienti”. Da quel giorno iniziai a mangiare pane e
Lega». L’anno successivo conobbe l’Umberto: «La prima volta che venne a
Novara, nel ’91. Io facevo la gavetta. Andammo con altri della Lega ad aspettarlo.
Lui ci caricò tutti sulla sua Citroën rossa, e noi, dai sedili dietro, gli indicavamo
la strada».
Prima e ultima volta, si capisce. Da quel momento la strada gliel’avrebbe
indicata il Senatur, del quale sarebbe diventato il più fedele dei fedelissimi. Così
adorante da descrivere il «suo» leader come uno statista più grande di Churchill:
«Tutto ciò che Bossi ha detto e gli scenari che ha tracciato si sono rivelati sempre
lucidi e precisi».
Tanto era cotto del partito e del leader che quasi non si accorse di Rosanna: «Io
prendevo la tesi un po’ sotto gamba perché lei era un’assistente alle prime armi e
in me era già esplosa la passione per la Lega. Quindi cercavo di sfangarla. Finché
un giorno lei non mi richiamò all’ordine: “Guardi che, se lei non sistema la sua
tesi, non l’ammettiamo alla prossima sessione di laurea”». Lui rispose con una
pianta e un biglietto: «All’assistente più simpatica». Si sposarono dopo un
fidanzamento interminabile: nove anni. Lei fa il giudice. «C’è rimasta male la sua
consorte quando Berlusconi ha detto: “L’unico difetto di Cota è di avere una
moglie magistrato”?», gli chiese la Romano. Risposta: «Ma ha aggiunto che è
una persona per bene». Ah, ecco...
Consigliere comunale poi segretario provinciale e infine regionale («Bossi mi
chiamava tutte le notti per darmi suggerimenti», ha raccontato a Vittorio
Zincone, «Ogni tanto la mattina mi svegliavo e pensavo d’aver sognato. Non
ricordavo che cosa mi aveva detto. Poi presi l’abitudine di andare a letto tenendo
sul comodino un blocco per gli appunti»), sottosegretario in un paio di governi e
poi capogruppo del Carroccio alla Camera, rischiò un ruzzolone quando,
candidato a governatore, inciampò a «Un giorno da pecora» dove non riuscì a
ricordarsi quali fossero tutti i confini del Piemonte e sbandò pericolosamente
alla domanda sulla vetta più alta: «Il Cervino». Precipitosa retromarcia: «No,
scusate, il Monte Rosa».
Rimasto sempre indissolubilmente legato al Senatùr, si sbilanciò amorevole in
elogi spropositati perfino sull’erede designato, il Trota: «Renzo è un talento
politico. Per ora si sta occupando, bene, dello sport». Una devozione totale. Al
punto che, eletto governatore, si fece beccare in una foto mentre reggeva il
posacenere al Capo. Massimo Gramellini lo fulminò: «Quando era soltanto un
leghista, Roberto Cota poteva reggere il posacenere di Bossi o sostituirsi a esso
con mani d’amianto. Poteva persino sventagliare la nuca del suo signore come
uno schiavo nubiano». Ma ora no: «Per quanto possa sembrargli strano, Cota
incarna un’istituzione. Quindi via le camicie, le cravatte, i fazzolettini verdi. E i
posacenere, per favore, sul tavolino».
Poi, ha cominciato ad andargli tutto storto: la battaglia giudiziaria con la Bresso,
il crollo del Senatùr e lo sfascio del «Cerchio magico», le accuse alla Lega d’aver
riempito la Regione di parenti, le polemiche sulla scelta di vivere a Milano alle
quali rispose tirando in ballo la necessità di non spostare la figlioletta dato che la
moglie a Milano vive, le ironie sulla sua confessione di non conoscere i dialetti
piemontesi, il fallimento del disegno di un «asse padano» con Maroni e Zaia...
A tutto però avrebbe potuto sopravvivere, forse. Non alla notizia di quei boxer
verde-kiwi, modello «Chappytrunk», taglia L, comprati a Boston il 6 agosto 2011
per 40 euro messi in nota spese. Dice lui che si trattò solo di un errore della
segretaria montato ad arte da «feticisti della penna». Ma si sa, più che un attacco
politico o perfino una sentenza può uccidere il ridicolo...
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