Cristina
Giudici
Estratto distribuito da Biblet
Pada
nia
per
duta
Che ne sarà della Lega
dopo Bossi?
NorDeSt trA CrISI e SvILuPPo
Estratto della pubblicazione
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Dall’ascesa territoriale al logoramento governativo, dalla
guerra intestina al declino, cominciato con una piccola
questione morale che si è trasformata in uno scandalo senza
precedenti. Per la Lega si è aperta una fase nuova: la parabola
del Senatùr si è conclusa ed è iniziata quella di Roberto
Maroni che punta tutto sul rinnovamento generazionale per
riconquistare la fiducia degli elettori. Ma riuscirà davvero
Bobo a traghettare il partito verso un nuovo assetto oppure i
pretoriani di Umberto Bossi si metteranno di traverso? La lotta
sarà impervia e l’esito non è per nulla scontato. Tranne che per
un fatto su cui non ci può essere alcuna incertezza. Ciò che si
è perso è il mito della Padania. Perduta, questa sì per sempre.
Cristina Giudici, giornalista milanese che da anni scrive di Lega Nord. Collabora con Il Foglio, Linkiesta, Grazia
e Panorama per reportage e inchieste di attualità. Si è occupata di carcere, terrorismo, multiculturalismo,
crisi economica, questione settentrionale. Nel 2005, con L’Italia di Allah, ha vinto il Premio Maria Grazia
Cutuli. Ha già pubblicato Leghiste (Marsilio).
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Padania perduta
In collaborazione con
Estratto della pubblicazione
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Nordest tra crisi e sviluppo
Padania p erduta
Ch e n e sa rà d e l l a L e g a d opo Bos s i?
Cristina Giudici
© Cristina Giudici
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IMPAGINAZIONE
Estratto della pubblicazione
Cristina Giudici
Padania
perduta
Che ne sarà della Lega dopo Bossi?
Nordest tra crisi e sviluppo
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Finirà così
Andrà a finire così (forse). Che la Lega Nord, orfana del Senatùr, per
oltre vent’anni chiamato il Capo da tutti i leghisti, leader indiscusso e
indiscutibile - quasi fosse un assioma più che una persona -, ora deve
trasformarsi per non disperdere il proprio patrimonio politico. Logorata dalla malattia del Capo, dalle guerre intestine, dalle pressioni
familiari di Bossi, che hanno trasformato il movimento padano in un
partito a conduzione domestica. Dove valeva di più ciò che si diceva
nel tinello della villetta di Gemonio (e si sussurrava nell’orecchio di
Bossi) che ciò che si decideva in via Bellerio. Indifferente alla rabbia
dei militanti che avevano mal digerito l’alleanza con Silvio Berlusconi, cieco di fronte ai malumori della base territoriale di sindaci e
amministratori - la vera cassaforte del Carroccio -, che hanno fatto
la guerra al rigorismo indiscriminato dell’ex ministro dell’Economia,
Giulio Tremonti. Al punto che quelli che spingevano Roberto Maroni a uscire dalla stanza del Viminale per impedire la deriva leghista,
hanno cominciato a usare un concetto, fino a poco tempo fa considerato blasfemo: circonvenzione di incapace. Ossia sfruttamento
della malattia e della stanchezza del Capo per favorire gli interessi
personali di un ristretto gruppo di persone, che hanno frammentato
l’identità del Carroccio.
Andrà a finire così (forse). Che Bobo, dopo aver rimandato per
anni il duello finale con il suo padrino politico, perché recalcitrante
a interpretare il ruolo di Bruto, per paura di fare la fine di Giuda, è
stato messo in un angolo del ring. Con una sorta di fatwa che lo voleva emarginare, dopo l’incoronazione da parte della base del partito
sul sacro prato di Pontida un anno fa. E come un pugile suonato si
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Pa da n i a p e r duta
è rialzato per cercare di salvare la pelle. Trasformandosi da placido
negoziatore in un condottiero che, alla guida dei suoi “barbari sognanti”, ha lanciato un’Opa per creare la Lega 2.0.
Andrà a finire così (forse). Che incassata la benedizione (sottoscritta da Bossi), Maroni diventerà il nuovo segretario federale della
Lega. Affiancato dagli altri colonnelli, quelli della nuova generazione, che dovrebbero aiutarlo a traghettare il movimento padano per
trasformarlo in un partito democratico e ricominciare da capo. Un
nuovo corso dal quale potrebbe essere estromesso l’ex ministro per
la Semplificazione, Roberto Calderoli, che ha fatto da pontiere fra la
Lega e il Pdl. Quello che nel momento più duro dello scontro fra le
diverse anime del partito aveva detto ai sindaci ribelli che puntavano
il dito contro il federalismo mancato «Polvere siete e polvere ritornerete». Quei sindaci che, nonostante la débâcle alle elezioni amministrative e l’indagine giudiziaria (che potrebbe rivelare ancora delle
brutte sorprese), rappresentano la cura per evitare l’eutanasia della
Lega. Come ho raccontato nei miei articoli per tre anni dedicati a
descrivere la peculiarità del Carroccio, più simile a una tribù o a una
comunità che a un partito tradizionale, la Lega ha attraversato tre fasi:
l’ascesa territoriale, le guerre intestine con il logoramento governativo
(basato sulla dicotomia fra la Lega di lotta e di Governo) e il declino.
Cominciato con una piccola questione morale che poi si è trasformata
in uno scandalo senza precedenti nel Carroccio. Ancora non si sa cosa
dimostreranno i magistrati riguardo ai finanziamenti pubblici distratti
per chetare l’avidità di quello che è stato definito il Cerchio Magico.
Non si sa fino a che punto sia arrivata la loro avidità per la “roba” né
fino a che punto si siano spinti i traffici illeciti dell’ex tesoriere della
Lega Francesco Belsito. E forse non è neanche importante saperlo.
Non solo per il garantismo che si conviene davanti ad ogni indagine giudiziaria, ma perché la malattia del Carroccio è andata di pari
passo con quella di Bossi, che un giorno sapeva spiazzare avversari e
alleati e il giorno dopo faceva marcia indietro, dimostrando incoerenza e creando instabilità politica all’interno del suo “popolo”. Quando
nel 2010 scrissi il libro sull’avanzata politica delle donne leghiste nel
partito che aveva inventato il misogino “celodurismo”, ho scoperto
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Finirà così
un movimento ideologico solido e robusto. Non potevo immaginare
una svolta così drastica. Quando scrissi l’articolo per Panorama “Lady
B, l’imperatrice della Padania”, che sollevò troppa polvere riguardo al
contenuto dell’articolo, non potevo prevedere fino a dove si era già
spinta la deriva della Lega. Avevo solo messo il dito nella piaga, profonda, della sua questione morale.
Ciò che conta ora però è una sola cosa: la “parabola” della Lega
di quello che è stato più volte definito un “animale politico”, il Senatùr, si è conclusa. E anche se celebrare i funerali del Carroccio in
anticipo potrebbe rivelarsi azzardato, è inevitabile porsi il seguente
dilemma: “Cosa farà Maroni con i cocci della Lega?” Tutto sarà deciso ai congressi regionali, le prime vere primarie della Lega, ai primi
di giugno, pochi giorni dopo l’uscita di questo libro, dove dovrebbero venire stabiliti dei parametri democratici della Lega 2.0. Perché
colui che ha costruito un movimento sul culto della personalità, ha
dovuto fare un passo indietro. Dimostrando, piaccia o meno, ancora
una capacità di saper fiutare gli umori del suo popolo. In ogni caso
lo psicodramma leghista, che ha il sapore di un’opera buffa, con
maghe, cartomanti, che hanno sostituito i riti pagani dell’ampolla
raccolta alle sorgenti del Po, non è ancora finito. Il trauma subito dai
militanti, che ora si sono affidati al rito catartico della ramazza, simbolo della pulizia interna ma anche di emarginazione delle vecchia
guardia padana, non è ancora stato elaborato. Tutto dipenderà da ciò
che accadrà ai congressi regionali. Se in Lombardia sarà probabilmente eletto un maroniano, pur avendo contro molti delegati che
fanno ancora riferimento al Cerchio Magico o meglio ai pretoriani
di Bossi, in Veneto il processo di rinnovamento sarà più conflittuale.
Ed è improbabile che Flavio Tosi, per anni sulla lista nera della famiglia e malvisto da Bossi per la sua oltraggiosa indipendenza, che
ora ha salvato il Carroccio dalla debâcle alle elezioni amministrative, possa essere il candidato unico per conquistare la segreteria
nazionale della Liga Veneta. Perciò, nonostante Maroni sia riuscito
a trovare un accordo con Bossi, che tutela il fondatore della Lega e
sottrae alla famiglia il controllo sui beni del partito, pare, la partita
definitiva sarà ancora decisa in Veneto, dove la vecchia guardia non
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Pa da n i a p e r duta
vuole arrendersi.
Andrà a finire così (forse). Che Maroni affiancato da Flavio Tosi,
Luca Zaia, Matteo Salvini, Giacomo Stucchi e altri esponenti della nuova generazione, potrebbe salvare la Lega. E fare emergere la
nuova classe dirigente, giovani che non hanno bisogno di comprarsi
le lauree a Tirana, perché alle spalle hanno una discreta formazione
culturale e una gavetta sul territorio. Sapendo però che potrebbero
rimanere ai margini del sistema politico, soprattutto se non cambierà la legge elettorale e che ci metteranno molto tempo a risalire la
china. Tutto dipenderà ancora una volta da Bossi che, davanti alla
perdita del 67% di consenso elettorale alle ultime elezioni amministrative, ha deciso di lasciare alla base l’ultima parola. E lo ha fatto
con uno stratagemma in salsa padana. E cioè con dei coupon allegati
alla Pravda del Carroccio, La Padania, attraverso i quali i militanti possono scegliere il nuovo segretario federale. Se Bossi manterrà
questa posizione per salvare l’unità della Lega e darà la sua benedizione a Maroni, il partito rimarrà unito, ma molti pensano che il
Senatùr, il quale ha perso legittimità e carisma, non potrà evitare
comunque una divisione perché il Cerchio Magico, sia quello del
tinello di casa Gemonio, sia quello della vecchia guardia rappresentata dal sindaco di Treviso, Gianpaolo Gobbo, non si arrenderanno.
Inoltre la Lega, dopo aver avuto in mano il pallino, ed essere stato
l’ago della bilancia all’interno del governo Berlusconi, è tornata a
casa a mani vuote. E Bossi, che ha avuto il merito di sollevare con
metodi poco convenzionali la “questione settentrionale”, ha fallito il
suo obiettivo. Difficilmente la Lega ritroverà l’innocenza perduta. Il
muro di Berlino è crollato e Maroni dovrà traghettare il Carroccio
verso un assetto democratico che, però, snaturerà il dna della Lega.
Il muro di Berlino è crollato e nessuno ha la forza e il carisma di tenere unito un movimento basato sul culto della personalità del Senatùr. Un movimento che non è composto solo dai barbari sognanti
o dal Cerchio Magico, ma anche da militanti che sono cresciuti a
pane e xenofobia e da quelli più giovani, che invece vogliono solo
costruire uno stato federalista e diventare, questo l’obiettivo di Maroni, un partito egemone al nord ispirato al modello bavarese della
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Finirà così
Cdu. Tornando, quindi, al progetto originario delle macroregioni di
Gianfranco Miglio. Se Maroni ce la farà, ma davanti allo sgabuzzino delle ramazze c’è una lunga lista attesa di chi attende di essere
messo fuori gioco, espulso o emarginato, si dovrà cambiare completamente l’assetto della Lega. E forzare anche le casseforti del partito,
che sono in buona parte nelle mani di Bossi e della sua famiglia. La
lotta sarà impervia, soprattutto in Veneto, il cui esito non è per nulla
scontato. Tranne per un fatto sul quale non ci può essere alcuna incertezza. E cioè che in questo travaglio, ciò che si è perso davvero è
il mito della Padania. Perduta, questa sì, per sempre.
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L’ascesa territoriale
della Lega e i suoi
paradossi
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L’ascesa territoriale della Lega e i suoi paradossi
Lega Santa e diavolo Bresso
A Torino l’atmosfera è concitata. La posta in gioco è la conquista del trono di Mercedes Bresso, la zarina, e tutti sanno che la
presidentessa del Piemonte è avversata anche da molti suoi stessi
correligionari: la considerano una governatrice molto temuta, ma
poco amata. Molto simile, per usare un’allegoria fiabesca, alla regina
di cuori di “Alice nel paese delle meraviglie”. Sempre pronta a tagliare la testa a chiunque la contrasti, senza esitazione, e per di più
chiusa in una roccaforte che non le permette di sintonizzarsi sulle
frequenze radio dei suoi cittadini.
Una sfida politica, e non solo amministrativa, quella al trono
del Piemonte, diventata ancora più importante dopo l’appello del
presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, per un voto contro l’aborto e in difesa della vita, in cui è palese il riferimento alle
posizioni di Emma Bonino nel Lazio e, appunto, di Mercedes Bresso.
E infatti ieri Silvio Berlusconi è tornato nel capoluogo piemontese,
mentre Umberto Bossi e Pier Luigi Bersani concluderanno a Torino
la campagna elettorale venerdì prossimo. Bersani lo farà all’alba, di
fronte ai cancelli della Fiat di Mirafiori, dove da mesi però i leghisti
lo hanno preceduto con una presenza vigile e costante. L’aria che si
respira a Torino, negli ultimi giorni di campagna elettorale, è anche
molto incerta e nessuno qui osa fare previsioni. Tutti sono consapevoli che, in caso di vittoria della Lega in Piemonte, cambieranno
gli equilibri politici nazionali all’interno del centrodestra, e il movimento di Bossi si trasformerà nel primo, insindacabile, protagonista
del nord d’Italia. E nel Pd ci sarà un ulteriore resa dei conti. Se è
vero come dicono alcuni esponenti del Pd che ci hanno elencato
tutte le fragilità del mandato Bresso che la gara nel quartiere popolare della Barriera di Milano è già stata vinta dalla Lega.
Qui i suoi militanti da mesi ogni sabato presidiano il territorio. Distribuendo gadget, volantini, consigli, promesse concrete
ai suoi abitanti: quasi tutti operai immigrati o figli di immigrati
meridionali. Il nostro tour elettorale parte proprio da qui, dal mercato di piazza Rebaudengo, alla Barriera di Milano, dove Enrico
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Pa da n i a p e r duta
Scagliotti, operaio dell’Avio Fiat di Rivalta, ogni mattina, finito il
turno notturno in fabbrica, dedica le sue giornate alla militanza
padana. Discreto, accoglie al suo banchetto gli abitanti della sua
circoscrizione: anziani, giovani, operai, ma anche medici, professionisti. E donne, tante donne, che non gli chiedono «di mandare a
casa gli immigrati» come potrebbero immaginare quelli che ancora
non hanno intuito la mutazione della Lega nord ma si limitano a
chiedergli che cosa faranno i leghisti per difendere i posti di lavoro,
per impedire la chiusura delle fabbriche in crisi, per contrastare la
delocalizzazione. «Una vita in tuta blu». Si presenta così Scagliotti
ai cittadini, usando questo motto: «Io posso dire di essere un operaio, e di conoscere i reali problemi all’interno delle fabbriche».
Al Foglio spiega che sono soprattutto i giovani operai ad avvicinarlo, per sostenerlo, per dirgli vai avanti, siamo con te. Appena
arriva il candidato dell’Italia dei valori che grida al megafono, senza riuscire ad attirare l’attenzione della gente, Scagliotti affronta
con spirito pacato un improvvisato confronto con l’aggressivo candidato dipietrista, che parte a testa bassa per dire: «Lo sappiamo
che il figlio di Bossi lavora al ministero», anche se non sa bene di
quale figlio e soprattutto di quale ministero si tratti. «Certo, tutti
quelli che entrano nel mulino si sporcano di farina», esclama un
medico in pensione, che ha deciso di votare la Lega, «ma per ora
voi non siete ancora infarinati. Ecco perché ci fidiamo, ma state
attenti…», avverte. «Se vinciamo, alziamo la voce con Berlusconi»,
aggiunge una signora, commerciante, anche lei sostenitrice della
Lega. «Mandiamo a casa la Bresso, non ne possiamo più. Non si è
mai curata dei lavoratori», incalza un’altra signora. Lavoro, lavoro e
ancora lavoro. È questo l’unico argomento che interessa ai torinesi.
E infatti non è una caso che alla Fiat di Mirafiori la Lega ci vada
tutti i giorni da mesi a volantinare per conto di Roberto Cota. Così
come non è un caso che due anni fa il Carroccio piemontese abbia
aperto una sezione del partito a Mirafiori e a Moncalieri: terra di
frontiera (e ora di caccia elettorale) per ottenere il consenso delle
fasce sociali più vulnerabili, che hanno cominciato a strizzare l’occhio alla Lega dell’Umberto.
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L’ascesa territoriale della Lega e i suoi paradossi
Alla conferenza stampa di bilancio della campagna elettorale,
Elena Maccanti, giovane e brillante deputata del Carroccio, candidata nel listino di Roberto Cota, qualche giorno fa ha fatto l’elenco
delle imprese che la regione Piemonte non è riuscita a tenere aperte,
come la Motorola e la Telecom. Puntando il dito contro la Fiat che,
nonostante i finanziamenti governativi, non riesce a dare garanzie a
lavoratori piemontesi. La Maccanti è una figura simbolo della nuova
Lega che avanza, grazie anche alla presenza massiccia delle donne
all’interno del partito, che stanno emergendo. Moderata, concreta,
determinata, è l’unica donna diventata segretaria cittadina all’interno della Lega, a Torino, dopo anni di silenziosa militanza. Nella sede
di un comitato elettorale, risponde alle insistenti domande di una
militante che chiede dubbiosa: «Ma sulla sicurezza, non fate più
nulla?». Una domanda che spiega molte cose di questa campagna
elettorale piemontese, forse l’unica che non si è fatta distrarre da
intercettazioni ed escort, ed è rimasta pragmaticamente con i piedi
ancorati alla politica. O meglio alle richieste dei cittadini. Una domanda che fa capire perché Repubblica abbia definito lo sfidante
leghista «il morbido Cota», anche se nei giorni scorsi dalle pagine
locali del quotidiano di Ezio Mauro è arrivato un inequivocabile
segnale d’allarme per avvertire i suoi (e)lettori a non sottovalutare
l’ascesa della Lega, che in Piemonte nel 2009 ha già conquistato
quattro province su cinque. «Il Piemonte si risveglierà più leghista»,
ha osservato Ettore Boffano su Repubblica, «il vento del Nord di
Umberto Bossi soffierà forte e non potrà essere sminuito né nascosto, neppure da un’eventuale vittoria di Mercedes Bresso. Gli scenari
sono difficili da spiegare, addirittura da immaginare…».
La morbidezza di Roberto Cota, il giovane leghista capogruppo
a Montecitorio, potrebbe essere il suo cavallo di Troia per la scalata
all’Olimpo della Bresso, un obiettivo politico ritenuto improbabile
solo fino a qualche settimana fa. E infatti non è un caso che in terra sabauda, dove morigeratezza e austerità sono considerate valori
etici, la Lega abbia una sezione, una delle più forti, proprio nella
casbah di Porta Palazzo, dove la maggior parte dei soci sostenitori
del Carroccio sono immigrati. Grazie all’impegno di Luigi Sinato15
Estratto della pubblicazione
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Pa da n i a p e r duta
ra. «Sinatora a vita», si definisce per sottolineare il suo volontariato
sociale per la Lega. «Io sono calabro-padano», precisa lui che ogni
giorno apre la sezione per assistere anziani, pensionati, immigrati
a risolvere i loro problemi quotidiani. «A cominciare dalla richiesta
del permesso di soggiorno», spiega Senatori al Foglio, mentre mostra
le tessere dei nuovi soci sostenitori e i moduli compilati dagli immigrati per regolarizzare la loro presenza. «Ho distribuito 400 tessere
in un anno», giura, anche se il capolista alla regione, il geometra
Mario Carossa sembra un po’ perplesso. Mario Carossa, consigliere
regionale, ha fatto un esposto alla magistratura perché le infrastrutture costruite dalla giunta Bresso per le Olimpiadi invernali, costate
circa 350 milioni di euro, verranno ora appaltate a una ditta per
i prossimi trent’anni, al costo di circa centomila euro all’anno. È
considerato troppo moderato anche dagli esponenti del Pd, che lo
hanno incitato ad essere più deciso sul tema della sicurezza. In corso Giulio Cesare, dove ci ha portato per incontrare i commercianti
che hanno costituito i comitati per la sicurezza per contrastare lo
spaccio di stupefacenti e la presenza delle attività commerciali degli
immigrati, tutti affermano di desiderare un cambiamento, ma sembrano anche un po’ esitanti. «Quando mi sono candidato nel 2006
a Torino abbiamo preso il 2,3 per cento, mentre alle ultime elezioni nel 2009 abbiamo conquistato il 10 per cento», spiega Carossa.
«Siamo realisti: a Torino non possiamo aspirare a un consenso elettorale che superi la soglia del 15 per cento», anche se i militanti più
convinti continuano a ripetere che questa sfida è epocale, non basta
crescere, bisogna vincere, si deve mandare a casa la Bresso.
Nella lista dei candidati di Roberto Cota è scritta la forza sociale della Lega: insegnanti, operai, piccoli imprenditori, avvocati, ambientalisti. Molti cattolici. Nulla è lasciato al caso in questa gara che
sta innervosendo parecchio Mercedes Bresso. Almeno a giudicare
dai duelli, l’ultimo è avvenuto lunedì sera, con lo sfidante Cota che
cercava di metterla in difficoltà puntando dritto su argomenti solidi:
il deficit della regione, 2.500 euro pro capite secondo Cota; l’aumento della spesa sanitaria da 6 a nove miliardi di euro; lo scandalo delle
tangenti all’ospedale delle Molinette (sabato scorso la Guardia di Fi16
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L’ascesa territoriale della Lega e i suoi paradossi
nanza ha emesso due mandati di arresto per due dirigenti dell’ospedale torinese in un’inchiesta sulle forniture all’ospedale Molinette
per una presunta tangente da cinquantamila euro. E ancora: i finanziamenti dati al premio Grinzane Cavour che hanno mandato in
carcere Giuliano Soria (la Lega ha distribuito migliaia di opuscoli
con la foto di Mercedes Bresso che pesta l’uva con l’ex patron del
premio Grinzane Cavour) e l’incapacità della regione di rilanciare
un adeguato piano di sviluppo economico. A cominciare dalla Tav,
mai realizzata, che secondo i leghisti mai si farà, visto che nell’ampia
coalizione della Bresso ci sono anche esponenti della sinistra radicale
contrari all’Alta velocità. Numeri, dati, argomenti spinosi che hanno
fatto perdere le staffe alla governatrice davanti alle accuse del suo
sfidante. Soprattutto sull’aumento della spesa sanitaria, che lei nega.
Un nervosismo interpretato come un segno di debolezza anche dai
suoi sostenitori e che aumenta l’incertezza per i risultati di una contesa politica che potrebbe mutare radicalmente la scena torinese.
Dati, cifre, argomenti usati dalla Lega sono gli stessi citati anche da
alcuni militanti del Pd, che continuano a ripetere : «La competizione è dura». Interpellati dal Foglio, scuotono la testa, perché non
sanno cosa pensare, che previsioni fare. E si chiedono come faccia la
governatrice, una politica di lungo corso, a farsi mettere in difficoltà
dal giovane e «morbido» Cota. Difficile sapere come andrà a finire,
i sondaggi ufficiali che forniscono i dirigenti del Pd danno vincente la zarina di tre punti, ma quelli ufficiosi registrano solo mezzo
punto in più di vantaggio per la governatrice. Ma su un punto sono
tutti d’accordo: Mercedes Bresso sembra in difficoltà. «Stiamo sottovalutando il pericolo di una sconfitta», spiega al Foglio Roberto
Placido, vicepresidente del Consiglio regionale, apprezzato forse più
dai suoi avversari che nel partito, all’interno del quale combatte da
anni una battaglia per riportare il Pd laddove dovrebbe essere, fra
la gente, e non laddove invece si trova: nei salotti eleganti, radicalchic di una città dove anche la sinistra si è adagiata troppo sullo
spirito elitario della ex capitale del regno sabaudo e automobilistico. Placido è considerato un dirigente «scomodo», nonostante alle
ultime regionali sia stato il più votato, con undicimila preferenze.
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Pa da n i a p e r duta
Poco allineato con la squadra di potere che governa la regione, è uno
dei pochi militanti del Pd a fare una campagna elettorale “leghista”
perché lui che è lucano, popolarissimo fra le comunità di immigrati
meridionali, da mesi batte come i militanti del Carroccio, mercati e
piazze dei quartieri popolari. Cercando di intercettare il voto popolare, che invece potrebbe dare la vittoria alla Lega. «Io prendo sempre il pullman», ci dice, e ai comizi ricorda con ironia l’importanza
della famiglia, visto che lui è parente dell’attore Michele Placido.
«In questi cinque anni non abbiamo fatto niente», ci hanno detto
altri esponenti critici del Pd. «Non siamo stati capaci di costruire un
polo sanitario, né di fare una politica per l’ambiente. Non siamo stati
capaci di rilanciare lo sviluppo della regione né di ridurre gli sprechi della politica». Le stesse parole usate da Cota che ormai, tranne che sulla Juventus (lui tifa per il Novara) si pronuncia su tutto.
Nessuno sa come andrà a finire, ma è probabile che a marcare la
vera differenza sia il voto dei cattolici, divisi fra quelli ancorati alla
lista di Cota (esponenti di Cl, Alleanza cattolica) e l’Udc, alleata alla
Bresso. Questa almeno è l’opinione del consigliere regionale Giampiero Leo, punto di riferimento di Comunione e Liberazione, ma
sufficientemente ecumenico da sperare di attirare i voti dei cattolici
delusi dalla mancanza di dialogo con la Bresso, che anche in campagna elettorale non ha lesinato asprezze sulla chiesa. Inoltre, c’è il
nodo dirimente della posizione dell’Udc. Che in Piemonte ha fatto
arricciare il naso, o peggio, a molti cattolici. «L’alleanza della Bresso
con l’Udc, propiziata dal cambio di sponda di Michele Vietti, è stata
considerata da molti credenti un tradimento», afferma senza girarci
intorno Leo al Foglio «e ha scompaginato lo schieramento cattolico.
La Bresso ha sempre maltrattato la chiesa. Ha definito il cardinale
Poletto un ayatollah, ha detto in modo sprezzante che i cattolici
sono incapaci di avere una cultura politica. Inoltre le sue intransigenti posizioni sulla bioetica sono note a tutti: in teoria i credenti
non dovrebbero votarla (la presenza di esponenti dell’Udc nel listino
della presidentessa ha indignato anche molti militanti del Pd, ndr)».
La candidata del Pd è ancor di più in difficoltà dopo la forte indicazione di Bagnasco per un voto contro l’aborto, anche se ieri
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L’ascesa territoriale della Lega e i suoi paradossi
ha minimizzato senza troppa convinzione, per cercare di evitare la trappola bioetica: «Non mi risulta che esistano coalizioni di
cattolici e di laici, al massimo la presa di posizione di Bagnasco
può spostare voti all’interno delle coalizioni». Ma Roberto Cota
ieri non si è lasciato sfuggire l’occasione. Ha subito rammentato
il braccio di ferro «fra la governatrice Bresso che voleva somministrare la pillola abortiva Ru486 e il Consiglio superiore della sanità», e ha difeso Bagnasco: «Gli attacchi alla Cei sono fuori luogo, se non parla di difesa alla famiglia, di cosa dovrebbe parlare?». «Probabilmente se avessimo avuto un candidato del Pdl, ce l’avremmo fatta», ragiona Giampiero Leo, indicato come possibile assessore
alla Cultura in caso di vittoria del centrodestra. Apprezzato a tal
punto dai suoi avversari che un noto imprenditore simpatizzante
del Pd ha inviato una lettera ai suoi dipendenti per invitarli a votarlo, insieme al suo avversario Roberto Placido. «È ovvio che con un
leghista, seppur preparato ed equilibrato, sarà più difficile. In ogni
caso secondo me andrà a finire così: se perdiamo si aprirà una resa
dei conti all’interno del Pdl, che non ha intuito quanto fosse alta
la posta in gioco in Piemonte, ma se invece perde la Bresso, Sergio
Chiamparino, sacrificato sull’altare della governatrice, darà fuoco
alle polveri. Lui avrebbe preso una maggioranza bulgara: su questo
punto nessuno a Torino ha dei dubbi». Davanti all’incertezza, alle
esitazioni, alle paure di entrambi gli schieramenti, si ha la sensazione
che la forza della Lega sia un po’ sopravvalutata, almeno a Torino.
Ma siccome il diavolo sta nei dettagli, a noi è piaciuto questo dettaglio: alcuni candidati del Pd, esclusi dal team di potere della Bresso,
finiti i loro comizi, in cui hanno spiegato senza troppa convinzione
perché la Bresso ha governato bene, poi ci hanno mostrato cosa avevano nel taschino della loro giacca: uno dei gadget più apprezzati
della campagna elettorale della Lega, un lecca lecca verde Padania.
Il Foglio, 24 marzo 2010
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I segreti dello Zaiastan
Per parlare di lui l’attore Marco Paolini, nel suo spettacolo “Bisogna” (preparato per il Festival delle città impresa “La cultura ci fa
ricchi”), pochi giorni prima del suo primo Consiglio regionale a palazzo Balbi, ha evocato ironicamente la figura di Zorro: perché è alto,
atletico, va a cavallo e si presenta come un supereroe che cambierà
il mondo. Per riderci un po’ su, per dire e non dire, visto che tutti
si attendono molto, forse troppo, dal nuovo governaore del Veneto:
Luca Zaia. Che sta in bilico sulle onde dell’oceano come un provetto surfista, ma che avendo visto parecchie volte il film “Un mercoledì da leoni” sa bene che dentro il vortice di aspettative, che è riuscito
a creare con magistrale capacità comunicativa può essere travolto
dalla grande onda. Zaia intanto, con attenzione dorotea, dimostra di
aver prestato molta cura nel rispettare gli equilibri all’interno della
sua coalizione e anche all’interno del mondo imprenditoriale: nella
pancia, nello stomaco, e nella testa del nordest. Eppure qualcosa
vorrà dire, se qui in Veneto è stato già coniato il neologismo “Zaiastan” per sottolineare la democratica dittatura, cattolica, apostolica
e persino romana; operaia e borghese, laburista e imprenditoriale;
ambientalista ma anche no; localista ma anche global; illuminata e
autoritaria, che Luca Zaia sta cercando di costruire per strappare la
sua regione alle paludi dell’immobilismo. Dopo che lunedì scorso
si è insediato il Consiglio regionale, fra l’emozione dei parenti degli
esordienti e numerose telecamere pronte a immortalare l’impatto
dell’onda verde sulla capitale della rimpianta Serenissima. E forse
non è sbagliato chiamarlo Zaiastan, anche se il suo modello è più
simile a quello dell’impero asburgico: visto che il governatore punta
su una “macroregione” che guardi alla Mitteleuropa, e non certo a
un esotico governo talebano. Dove ha deciso di concedere a tutti un
po’ di spazio, ma puntando sul voto di fiducia, sul cambiamento del
regolamento del Consiglio regionale per non essere intrappolato dai
conflitti di bottega, per poter decidere e comandare. E allargare il
consenso popolare che è riuscito a raccogliere durante la campagna
elettorale. Infatti al suo primo Consiglio gli esponenti del Pdl, un
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Estratto distribuito da Biblet
L’ascesa territoriale della Lega e i suoi paradossi
po’ smarriti dalla magra performance elettorale, orfani di Giancarlo
Galan, dopo giorni di incontri di autocoscienza per progettare la
rivalsa parlavano come fossero esponenti dell’opposizione, con l’aria
stordita dei pugili suonati. «Siamo qui per i veneti, non per Luca
Zaia», diceva il consigliere Alessandro Tessarin, al quale forse verrà
affidato il delicato compito di presiedere la commissione sullo Statuto della regione che Zaia vuole riscrivere per sancire l’autonomismo. «Dobbiamo rimontare o questi ci cancellano», chiosava senza
remore. «Prima di esprimere un giudizio netto, dobbiamo vedere il
programma di governo di Zaia», aggiungeva Dario Bond, altro consigliere del Pdl, come se non sapesse bene quali sono le priorità del
nuovo governatore, quasi che non ne fosse un alleato. Semplicemente perché Zaia, per evitare divisioni e litigi, non ha ancora sottoposto agli alleati il suo programma di governo della giunta veneta.
«Dobbiamo tornare a fare politica sul territorio», ha aggiunto un
altro consigliere regionale, come se fosse facile calarsi nel ruolo dei
leghisti che raccolgono consensi grazie all’uso e all’abuso del gazebo.
«La Lega ascolta il territorio, intuisce la malattia ma non sa qual è
la cura», ci ha detto invece il capogruppo dell’opposizione, Laura
Puppato, sindaco di Montebelluna, votatissima esponente del Pd.
Su Zaia lei si limita a dire che a Treviso dove è stato presidente della
provincia sarà ricordato solo per una lunga serie di rotonde (450 per
l’esattezza), come se non fosse consapevole, che Luca Zaia a Treviso
ha soprattutto costruito un nuovo centro di potere. Il sindaco fa poi
una considerazione ragionevole: cioè che Zaia vuole adottare il voto
di fiducia per tenere a bada i sudditi, leghisti e pidiellini, non per
sconfiggere il Pd (un partito che notano i leghisti «ormai viaggia su
un treno regionale mentre il nordest si batte per l’alta velocità e il
federalismo della banda larga»). E vorrebbe realizzare le aspirazioni
del popolo veneto: coniugare l’autonomismo con una dimensione
globale che non guarda a Roma, se non per battere i pugni e chiedere ciò che pensa gli spetti, ma ai corridoi economici che porteranno il Veneto in Europa. Un programma difficile da realizzare se il
governatore, condizionato dalle dinamiche governative (dai veti di
Fini, dagli azzardi di Bossi), non riuscirà prima a dotarsi di un nuo21
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Padania perduta