PREMIO CENACOLO
EDITORIA E INNOVAZIONE 2003
Osservatorio Editoria e Comunicazione
NUOVI ASSETTI E NUOVE PROSPETTIVE
DELL’INDUSTRIA DELLA COMUNICAZIONE IN ITALIA
Primi risultati
17 novembre 2003
Il presente documento è stato realizzato grazie al contributo di:
Arturo Artom, Netsystem
Roberto Briglia, Gruppo Mondadori
Francesco Caio, Netscalibur Italia
Antonio Calabrò, Apcom, La 7
Alberto Cazziol, Etnoteam-Neta
Pierluigi Celli, ex direttore generale RAI
Fulvio Cerutti, La Stampa Interattiva
Benedetto Condreas, Ericsson
Maurizio Costa, Gruppo Mondadori
Alessandro Dalai, Baldini Castoldi Dalai
Ciro D’Aniello, Orfeo TV circuito Telestreet
Ferruccio De Bortoli, RCS
Cesare De Michelis, Marsilio Editore
Michele Ficara, Immediapress
Benedetto Habib, My TV
Roberta Lai, Radio 24
Fausto Lupetti, Lupetti Editore
Massimiliano Magrini, Google Italia
Massimo Manelli, Motorola
Francesco Micheli, e.Biscom
Romano Montroni, Feltrinelli Editore
Peppino Ortoleva, Università di Siena
Sandro Parenzo, Telelombardia
Elserino Piol, Pinoventure
Andrea Rurale, Warner Village Vimercate
Severino Salvemini, Università Bocconi
Maurizio Soverini, TIM
Pietro Tarallo, Colt Telecom
Marco Tosi, Iconmedialab
Vittorio Zambardino, Kataweb
Osservatorio su Editoria e Comunicazione (Premio Cenacolo)
NUOVI ASSETTI E NUOVE PROSPETTIVE
DELL’INDUSTRIA DELLA COMUNICAZIONE IN
ITALIA
Aldo Bonomi e Enzo Rullani
(novembre 2003)
1.
Dallo stallo competitivo ad una fase di movimento ......................................................................................................2
Industria della comunicazione: in Italia, si apre una fase di movimento ..............................................................................2
Per le banche, la “foresta pietrificata” si è, alla fine, scongelata.........................................................................................2
L’industria della comunicazione e lo stallo competitivo da superare....................................................................................3
Stabilità delle posizioni acquisite...........................................................................................................................................4
Micro-aggiustamenti delle posizioni, in presenza di un potenziale non ancora sfruttato .....................................................5
Concorrenza limitata (per compartimenti).............................................................................................................................5
2.
Novità in vista, nel cuore del sistema (la tv)...................................................................................................................7
Che cosa sta cambiando .........................................................................................................................................................7
Nella pay tv, inizia l’era Sky...................................................................................................................................................7
Concorrenza in vista, ma senza eccessi..................................................................................................................................8
Un diverso modello di consumo televisivo (forse)..................................................................................................................8
Legge Gasparri: cambiano le regole del gioco ......................................................................................................................9
Punti controversi..................................................................................................................................................................10
Aspettando Godot (il digitale terrestre) ...............................................................................................................................11
Il nuovo è in cammino, ma la marcia è lunga ......................................................................................................................13
Fattori dinamici a breve termine, da non trascurare...........................................................................................................14
La digitalizzazione spinge ancora verso la convergenza.....................................................................................................15
Uno scenario possibile: verso una riorganizzazione del sistema a tre livelli......................................................................16
3.
La tv e gli altri: sfide comuni, ma punti di partenza diversi.......................................................................................17
Nuove possibilità, in quasi tutti i settori...............................................................................................................................17
Alla ricerca di nuovi modi (più flessibili e meno costosi) per produrre contenuti...............................................................17
Il downsizing delle quantità e le filiere produttive...............................................................................................................19
Si scoprono le sinergie, nella distribuzione, tra libri e giornali ..........................................................................................20
Il peso di una distribuzione poco efficace ............................................................................................................................20
Tentativi di “democratizzazione” in corso...........................................................................................................................21
Alla ricerca di nuove formule distributive per giornali e libri .............................................................................................22
Piccoli e grandi editori: alla ricerca di nuove strategie......................................................................................................23
Un dubbio e uno stimolo: il giornale diventa un “contenitore” di materiali eterogenei.....................................................24
4.
Come si guarda al futuro ..................................................................................................................................................25
La chiave di lettura dei problemi non è più la stessa dello scorso anno..............................................................................25
I problemi precedenti cominciano ad essere visti in una prospettiva nuova ……...............................................................25
….. e, soprattutto, rimangono alcune questioni aperte ........................................................................................................27
Un’offerta che crea la sua domanda (a)...............................................................................................................................27
Il ritorno dei contenuti (b) ....................................................................................................................................................27
Convergenza e nuovi stili di consumo (c).............................................................................................................................30
Globalizzazione a medio raggio (a partire da ciò che sappiamo fare) (d) ..........................................................................31
2
1. Dallo stallo competitivo ad una fase di movimento
Industria della comunicazione: in Italia, si apre una fase di movimento
Sebbene anche nel 2003 la congiuntura sia rimasta negativa, con un calo significativo degli
investimenti pubblicitari (concentrato soprattutto su Sipra e quotidiani) 1 , l’attenzione dei
protagonisti, nel settore dell’editoria e della comunicazione, si è spostata sulle prospettive a più
lungo termine.
E’ infatti su questo terreno che stanno maturando alcuni significativi mutamenti. Per una
serie di fattori concomitanti, anche se di incerta collocazione temporale, il settore sta entrando in
una fase di movimento, che promette di cambiare le regole del gioco concorrenziale rispetto al
passato.
Sul fatto che si tratti di un movimento di assestamento o di un movimento che incide in
profondità negli assetti ereditati dal passato i pareri sono divergenti.
Per le banche, la “foresta pietrificata” si è, alla fine, scongelata
Guardando in avanti, tuttavia, può essere calzante il paragone con quanto successo nella ex
“foresta pietrificata” delle banche. Anche le banche hanno conosciuto una lunga stagione (fin dalla
legge del 1933) in cui la mobilità all’interno del settore è stata ingessata da un regime di
autorizzazione e di moral suasion (si fa per dire) da parte del regolatore. Un regime che ha
segmentato il mercato in tante settori separati e non contendibili, in cui la concorrenza si è
manifestata in forme deboli, non sufficienti a cambiare il quadro delle posizioni occupate.
Poiché il settore della comunicazione, nel suo core televisivo, ha attraversato una storia
simile (segmentazione autoritativa del mercato, condita di moral suasion da parte dei regolatori) il
paragone può risultare interessante: da quello che è successo alle banche si può avere qualche
indicazione di quello che sta per succedere all’industria delle telecomunicazioni, una volta allentate
le regole della segmentazione forzata.
Nel caso delle banche, quel che è successo è abbastanza noto.
Rotti gli argini normativi che avevano ingessato la concorrenza, nel sistema bancario
italiano non si è avuto un passaggio repentino dal bianco al nero, dal tutto-bloccato al tutto- mobile.
Ma, lentamente, qualcosa si è messo in moto.
Non c’è stato alcun rovesciamento dei poteri pre-esistenti, ma questi si sono redistribuiti,
generando una situazione inedita di alleanze, accorpamenti, crescita di scala. Le posizioni si sono
mosse e si sono stratificate in modo differente.
Nel sistema bancario, la contendibilità delle posizioni di controllo delle aziende e dei
mercati ha innescato, insomma, un movimento tellurico che, nel volgere di una decina di anni, ha
condensato un sistema, in precedenza disperso, in tre, quattro grandi gruppi di scala nazionale e con
vocazione internazionale. Dall’altra parte, è rimasto un certo numero di banche attestate sui mercati
locali, che hanno scelto di rinsaldare il loro rapporto con la singola città o la singola provincia,
facendo della piccola patria e dei suoi legami personali la fonte del proprio vantaggio competitivo
sullo specifico segmento. A metà, continuano ad operare attori regionali di una certa consistenza,
ossia network bancari insediati in aree inter-regionali e che giocano la partita a metà tra il locale e il
nazionale.
1
Si stima un arretramento, a metà anno 2003, del 5% circa, rispetto ai livelli, già non soddisfacenti del 2002.
Nella seconda metà dell’anno sembra che le cose vadano un po’ meglio, almeno per certi settori.
3
L’industria della comunicazione e lo stallo competitivo da superare
L’industria della comunicazione ha avuto anch’essa, sia pure in stagioni differenti, la sua
“foresta pietrificata”. Ma, come abbiamo detto, con una specificità: tutto è ruotato intorno alla
limitatezza “naturale” dei canali di comunicazione più pregiati, quelli via etere.
Prima il baricentro immobile intorno a cui ruotava la trasformazione degli altri media era la
RAI, che catturava audience, attenzione e tempo degli utenti, sottraendoli agli altri media. Tuttavia
finché la televisione pubblica (in monopolio) lavorava in gran parte col canone, si limitava ad
attrarre spettatori ma non risorse pubblicitarie.
C’era però un netta ripartizione del campo tra la Rai, investita del monopolio del servizio
radio-televisivo, da una parte, e l’editoria libraria e giornalistica dall’altro. Due business nettamente
separati, e anche due equilibri di mercato stabili.
Questo equilibrio stato inizialmente modificato dalla progressiva caduta del monopolio
pubblico, nel campo televisivo e radiofonico, avvenuta attraverso un progressivo emergere dal
basso prima di televisioni e radio locali, poi di networks nazionali in grado di fare concorrenza alla
Rai. Ciò ha portato ad un primo riassetto degli equilibri del sistema nel campo televisivo e della
radio.
Tuttavia, con l’avvento della tv commerciale intorno al polo Mediaset, l’equilibrio che
prende forma all’interno del mercato televisivo ha l’effetto di squilibrare i segmenti adiacenti,
grazie al fatto che la nuova offerta televisiva attrae investimenti pubblicit ari che prima
alimentavano l’editoria giornalistica. Grazie alla superiorità competitiva degli altri mezzi
nell’intrattenimento, nelle news e in altre forme di comunicazione, la moltiplicata offerta televisiva
è in grado di intercettare in breve tempo una quota crescente di audience, di tempo, e di attenzione
degli utenti, sottraendoli agli altri media (anche se una parte del consumo televisivo è addizionale, e
non sostitutivo).
Di conseguenza, la televisione ha cominciato ad intercettare la parte principale delle risorse
pubblicitarie, mettendo gli altri media in una posizione di marginalità e facendo sorgere il problema
di come correggere – politicamente – uno squilibrio che rischiava di turbare la coesistenza pacifica
della comunicazione televisiva con quella giornalistica. La legge ha finito per ratificare questa
debolezza congenita dell’editoria giornalistica, bloccando le posizioni raggiunte ed erigendo confini
tra un media e l’altro. Il duopolio televisivo è entrato, così, in una specie di stallo competitivo: dal
un lato, infatti, è bloccato (normativamente e politicamente) nelle sue possibilità di sviluppo
esterno; dall’altro, a sua volta, non è contendibile da nessuno degli attori esterni. Sottraendo il
baricentro del sistema alla dinamica competitiva, l’esito non poteva essere altro che un sistema
ingessato, fatto da una serie di posizioni abbastanza statiche, impegnate in ambiti competitivi non
decisivi. Un po’ come accadeva alle banche prima della liberalizzazione: la concorrenza c’era, ma
non poteva mordere più di tanto.
Del resto, è la struttura di questo tipo di industria che spiega questa tendenza alla
formazione di posizioni stabili, poco contendibili. Un assetto attestato intorno al predominio della
pubblicità (rispetto alle vendite dirette), e della televisione (rispetto agli altri media), come attrattore
principe di questa risorsa, non poteva – in passato – che “congelarsi”intorno ad un oligopolio
televisivo caratterizzato, per le limitazioni naturali dell’etere, da pochi, prestabiliti competitors,
sotto l’egida del potere politico che rilascia concessioni e autorizzazioni.
Data la limitata gamma di canali disponibili nell’etere pubblico, e in mancanza di
investimenti consistenti nella tv via cavo, un assetto concorrenziale realmente aperto sarebbe stato
difficilmente immaginabile e anche difficilmente gestibile (implicando la revoca o l’asta delle
concessioni/frequenze). Si sarebbe, dunque, comunque andati verso una forma di regolazione
dell’offerta, che, data la natura del settore, poteva difficilmente fare a meno delle regole e della
moral suasion di qualche istituzione pubblica. In Italia, per una serie di circostanze note,
l’oligopolio televisivo si è materializzato attraverso una forma abbastanza severa: il duopolio RaiMediaset. Una condizione che ha ingigantito lo stallo competitivo, e i suoi effetti, giustapponendo
4
simmetricamente le due forze maggiori al centro del sistema.
Infatti, per compensare il duopolio stabilito nel “cuore” del sistema, si è lasciato che gli altri
co-protagonisti – e in particolare i giornali - presidiassero territori delimitati e in qualche misura
protetti – normativamente e politicamente - da incursioni esterne. Completando in questo modo il
processo: la micro-concorrenza è rimasta, ma le posizioni occupate sono diventate difficilmente
contendibili.
L’ingresso di Telecom nella partita non va inteso come terzo polo, che allarga a tre
l’oligopolio insediato al vertice dell’industria televisiva italiana. In realtà, la strategia di Telecom
punta ad usare anche la propria presenza televisiva in una logica di multimedialità, che può
affiancare al medium televisivo anche altri mezzi e canali di comunicazione, tipici di una
compagnia telefonica, che ha le sue core competences altrove. D’altra parte, oggi il telefono sta
diventando una piattaforma multimediale: videoconferenze, MMS, tv sul telefonino, videotelefono
UMTS ecc.. In questo senso, la presenza televisiva di Telecom non cambierà più di tanto –
nell’opinione degli intervistati – la dinamica interna al duopolio Rai-Mediaset, anche se potrà
muovere il quadro del rapporto tra tv e altri media, per adesso ancora lontani dal format televisivo.
L’assetto si è rivelato abbastanza robusto da assorbire, negli ultimi anni, anche cambiamenti
rilevanti, che si sono annunc iati come rivoluzionari, ma che, guardando le cose col senno di poi, si
sono rivelati dei fuochi di paglia. Due soprattutto:
• il boom (rivelatosi poi effimero) delle ICT, in un settore che si presta particolarmente ad
essere investito dalla virtualizzazione delle informazioni, dei suoni, delle immagini, dei
video ecc.. La radicale trasformazione della base tecnologica, dai supporti cartacei (libri,
giornali) o analogici (tv, radio, dischi) al segnale digitale ha avuto soltanto qualche
embrionale manifestazio ne, avendo incidenza soprattutto nel processo produttivo dei
programmi televisivi, dei giornali, dei libri, ma senza “spiazzare” l’elettrodomestico
televisivo (la tv analogica), il giornale cartaceo, il libro materiale;
• Il processo di liberalizzazione e privatizzazione di tutti i settori caratterizzati, in passato da
forte i intervento pubblico, nel campo delle comunicazioni è andato avanti al rallentatore,
dopo qualche scossone iniziale.
L’implosione (per ora) di questi due fattori potenzialmente destabilizzanti ha finito per
consolidare l’assetto esistente, mettendolo al riparo dalle minacce più rilevanti.
Stabilità delle posizioni acquisite
All’inizio del 2003, una ricerca della Fondazione Rosselli 2 sull’evoluzione dell’industria
della comunicazione italiana negli ultimi dieci anni, metteva in evidenza la sostanziale staticità che
caratterizza il settore, nonostante i frequenti annunci di cambiamento.
In effetti, esaminando i dati statistici si nota che il settore mantiene abbastanza stabile la sua
articolazione interna. Le quote di mercato (in termini di fatturato pubblicitario) tra i diversi media,
dal 1993 al 2000, non cambiano gran che 3 : la televisione continua a fare la parte del leone, mentre la
stampa arretra leggermente. Agli altri media toccano le briciole, anche se radio, cinema e Internet
registrano tassi di crescita interessanti (ma a partire da livelli abbastanza bassi). All’interno del
mercato televisivo, poi, il duopolio Rai-Mediaset rimane un punto fermo, attorno a cui ruota tutto il
resto del sistema.
Questo equilibrio non è stato scalfito, nota la Fondazione Rosselli, nè dall’emergere di
Internet (che, in campo editoriale, si è rivelata una meteora), nè dai processi di liberalizzazione,
rimasti in gran parte sulla carta. Confrontando il settore delle Telecomunicazioni con quello
2
Istituto di Economia dei Media presso la Fondazione Rosselli.
La pubblicità televisiva aveva il 52,6% del totale nel 1993 e scende di poco (al 51,6%) nel 2000. La quota
della stampa passa dal 39,6% del 1993 al 37,2% del 2000, perdendo leggermente posizione.
3
5
dell’Editoria e Comunicazione, si può notare come nel primo c’è stato un rilevante cambiamento,
sia sul piano delle tecnologie (telefonia mobile, Internet), sia su quello dei protagonisti (iniziata la
liberalizzazione, sono arrivati nuovi protagonisti). Nel secondo, invece, i cambiamenti tecnologici
non sono stati per adesso molto incidenti; e i protagonisti non sono cambiati.
Micro-aggiustamenti delle posizioni, in presenza di un potenziale non ancora sfruttato
Questa diagnosi di stabilità o staticità, a seconda del punto di vista con cui viene guardata,
non è alterata dal fatto che, all’interno dei diversi settori si possano notare cambiamenti di qualche
peso. I dati Nielsen 1990-2002 sugli investimenti pubblicitari (relativamente ai mezzi classici),
mettono in evidenza un rafforzamento di Mediaset nel comparto televisivo (dal 34,1% del totale nel
1990 al 35,0% nel 2002, con ulteriore rafforzamento di mezzo punto percentuale nei primi quattro
mesi nel 2003). La Rai, invece, ha, alla fine del decennio considerato una posizione non troppo
diversa da quella iniziale, con un quota pari al 16,8% (nei primi quattro mesi del 2003, bisogna
mettere in conto un mezzo punto in meno rispetto al livello 2002). La stampa, nel periodo 19902002 perde un 4%, passando dal 43,3% al 39,4% (un ulteriore mezzo punto viene perso nei primi
quattro mesi del 2003). All’interno di questo settore, la perdita è imputabile soprattutto ai periodici
(dal 24,2% al 15,6%), tuttora in discesa nel 2003. Mentre i quotidiani hanno guadagnato qualcosa
(dal 19,1% al 23,8%), anche se stanno andando indietro nei primi quattro mesi del 2003 (mezzo
punto in meno rispetto ai primi quattro mesi del 2002). Gli altri media crescono dal 5,9% al 7,3%,
lungo un trend che si conferma anche nel 2003.
Nel complesso l’investimento pubblicitario è in calo, negli ultimi anni, soprattutto a causa
della crisi di settori importanti come le ICT e l’automobile. Nel panorama della crisi pubblicitaria,
nei dati 2003 il calo medio è del 1,9%, soprattutto a carico della stampa (-5% i quotidiani, -3% i
periodici). Regge la tv (-0,9%), mentre si salvano la radio, il cinema e le affissioni, tutti in crescita
(dati Nielsen-Media Research).
Intendiamoci: stabilità degli assetti non significa stagnazione. Il livello assoluto degli
investimenti pubblicitari nei media è in pratica raddoppiato, nel decennio considerato. Ma,
soprattutto, potrà salire ancora perchè, nel confronto con altri paesi, il mercato italiano mostra di
avere un potenziale di spesa pubblicitaria non ancora sfruttato: il prezzo (al minuto) della pubblicità
è infatti di 0,40 euro in Italia contro 1,03 in Gran Bretagna, 0.87 in Germania, 0,47 in Francia. Gran
Bretagna e Germania hanno investimenti pubblicitari (totali) quasi doppi rispetto al livello italiano
(dati Xpedata-Eurostat).
Concorrenza limitata (per compartimenti)
I cambiamenti, dunque, ci sono stati e ci potranno ancora essere. Ma sono stati tali da non
destabilizzare l’assetto complessivo, che si è finora rivelato solido: ciascuno ha tenuto, con
maggiore o minore successo, le posizioni occupate, sebbene ci sia chi va lentamente avanti e chi
invece viene sospinto, altrettanto lentamente, indietro. Nuovi protagonisti non possono facilmente
emergere dall’interno del sistema, visti i confini e i paletti che presidiano i diversi segmenti.
Dunque, fatto salvo il fisiologico aumento delle nuove produzioni e dei nuovi consumi, il settore
rimane assestato sugli equilibri raggiunti in passato, subito dopo la perdita del monopolio Rai, nella
radio e nella televisione, avvenuta ormai molto tempo fa.
D’altra parte, si tratta di un effetto in parte voluto. Come abbiamo detto, per contrastare lo
strapotere televisivo – reso visibile dalla grande capacità di attrazione degli investimenti pubblicitari
- i cambiamenti sono stati frenati dalla separazione, di diritto e di fatto, dei diversi segmenti di
mercato (giornali, televisione, radio, libri ecc.), e dalla scarsa internazionalizzazione del settore,
misurata sia in termini di investimenti esteri in Italia, sia di investimenti di imprese italiane
6
all’estero.
Nel rapporto da noi fatto l’anno scorso, si arrivava a conclusioni simili: nonostante il gran
parlare di cambiamenti imminenti, sono pochi i settori dell’economia che appaiono assestati su un
equilibrio durevole come quello che ha regnato nell’ultimo decennio nel settore della
comunicazione.
L’equilibrio che arriva fino ad oggi, dunque, è abbastanza collaudato, e comporta una
condizione di concorrenza particolare, tra segmenti di mercato separati, di diritto e di fatto non
contendibili.
Oggi, però, è questa condizione di non-contendibilità che sta per cambiare, anche se nessuno
immagina che a breve termine cambino le gerarchie implicite che si sono venute a formare nel
sistema. Per fattori giuridici e tecnologici, infatti, i confini tra i diversi segmenti tendono a
scomparire o per lo meno ad attenuarsi. Di conseguenza, le posizioni attuali diventano, almeno
potenzialmente, contendibili. E questo basta ad innescare un processo che può portare ad
aggregazioni, invasioni di campo, incroci tra media e canali diversi.
7
2. Novità in vista, nel cuore del sistema (la tv)
Che cosa sta cambiando
La situazione, nel “cuore” del sistema (la tv), tende a modificarsi per una serie di fattori, che
sono stati variamente valutati dagli intervistati. Tuttavia, se si guarda alla tendenza di lungo
termine, prevalgono i giudizi che mettono l’accento sugli elementi dinamici che possono svilupparsi
da alcuni cambiamenti attuali.
In particolare, tra le novità intervenute quest’anno, sono state ricordate con particolare
enfasi:
a)
l’ingresso della prima grande multinazionale estera nel gioco competitivo
della tv italiana, con l’acquisto di Tele+ e Stream da parte di News
Corporation (Murdoch), nel settore pay tv;
b)
il cambiamento atteso delle regole del gioco (legge Gasparri);
c)
lo sviluppo (atteso) del digitale terrestre.
Vediamo i tre eventi più da vicino.
Nella pay tv, inizia l’era Sky
L’ingresso di Sky Italia (News Corporation) nella pay tv porta ad operare in Italia una
grande multinazionale della comunicazione, dotata di grande esperienza e di ricchi magazzini.
E’ abbastanza condivisa l’opinione che la politica di Sky non sarà di pure e semplice
appeasement con i competitors pre-esistenti, perché l’investimento che sta facendo nella pay tv, per
rendere, deve conquistare quote importanti di audience, oltre a sconfiggere la pirateria.
L’espansione del parco clienti di Sky Italia potrà, insomma, contare su risorse e margini di manovra
più rilevanti di quelle di cui disponevano i due precedenti produttori (Stream e Tele+).
L’obiettivo di Sky, che interviene in una situazione caratterizzata da perdite strutturali del
settore (sia di Stream che di Tele+) è di raddoppiare in qualche anno l’attuale numero dei abbonati
(2,4 milioni), utilizzando come strumenti competitivi sia nuove armi contro la pirateria, sia le
economie di scala derivanti dall’aver unificato le due offerte precedenti, oltre ai vantaggi di un
magazzino di film e spettacoli rilevato dal suo circuito internazionale.
Tuttavia, l’effetto della pay-tv, versione Sky, sul mercato pubblicitario e degli ascolti
complessivo non è facile da valutare. In quanto tempo gli spettatori della pay tv cresceranno al
punto di ridurre l’audience degli altri? E’ ancora da dimostrare, del resto, che la pay tv satellitare sia
un business sostenibile, destinato ad espandersi e a rendere, tenendo conto delle possibilità della
pirateria e della probabile evoluzione – a lungo andare – delle altre forme di comunicazione
televisiva (che potranno digitalizzarsi, segmentarsi in modo più fine, vivacizzarsi sulla base di una
concorrenza che sulla tv satellitare per adesso non c’è).
Comunque, con l’ingresso di Sky nel paesaggio della comunicazione italiana, si è messo in
moto un processo di aggiustamento e di confronto tra competitors di peso, dotati di retroterra storici
culturali molto diversi:
• un’impresa multinazionale, che per ora entra in un segmento limitato e “difficile” del
mercato italiano, lasciato sguarnito dai produttori nazionali, ma che in seguito potrebbe di
lì fare altre mosse e cercare altri alleati;
• i due grandi produttori nazionali (Rai e Mediaset) del settore televisivo, che hanno già forti
radici in forme di televisione più tradizionali, ma, per ora, di dimensione molto maggiore;
• i grandi gruppi editoriali che rischiano di subire, almeno per un po’, le iniziative dei players
principali, ma che possono prepararsi ad entrare, prima o poi, nel core del sistema con
qualche canale televisivo;
• gli operatori della radio, che si trovano in una posizione particolare, potendo puntare – se
8
hanno idee - su un business ancora aperto e in espansione, in cui si rimettono in
discussione le posizioni occupate
• i piccoli produttori, degli diversi campi, che rischiano alla periferia del sistema di subire i
contraccolpi dei movimenti che si generano al centro.
Concorrenza in vista, ma senza eccessi
Se il nuovo arrivato che entra nel cuore del sistema (Sky Italia) si trova nella stringente
necessità di far crescere la sua quota, non potendo accontentarsi di quello che ha già, la prospettiva
è quella di una politica di marketing e di produzione aggressiva del servizio, tale da erodere, almeno
in parte, l’audience su cui contano adesso tutti gli altri. E ciò porta, con una certa probabilità, a
rompere la stabilità dell’equilibrio pre-esistente, con conseguenze anche per le posizioni degli altri.
Bisogna anche dire, tuttavia, che, secondo alcuni degli interlocutori che abbiamo
intervistato, è molto probabile che l’ingresso di Sky sia – almeno all’inizio - “morbido”, ossia
rispettoso delle gerarchie esistenti nel campo televisivo. E’ possibile, ma la concorrenza non è
facilmente eliminabile quando si tratta di rimettere in piedi un business rimasto, finora,
strutturalmente in perdita.
C’è anche, tra gli intervistati, chi esprime dubbi sulla qualità dell’offerta Sky, rispetto ad
esempio a quanto già faceva Tele+: un bisogno di fare rapidamente grandi numeri – soprattutto
mediante il calcio – può infatti portare il nuovo produttore ad abbassare i prezzi a scapito della
qualità. Ma, su questo terreno, siamo appena ai primi passi.
C’è concordanza generale, sia pure con le precisazioni sopra ricordate, sul fatto che Sky
riuscirà a far crescere la numerosità della sua audience pagante. La politica di penetrazione che ci
si attende – con espansione del segmento pay tv forse a scapito della tv di massa, in chiaro –
introduce un fattore di movimento nel duopolio televisivo in essere. Sollecitando i concorrenti del
duopolio a reagire, è possibile che la presenza di Sky determini una reazione fatta di programmi e
formule innovative in tutto il sistema televisivo.
Infatti, la nuova presenza di Sky è importante non solo per gli effetti quantitativi
sull’audience, ma perché introduce un prodotto di qualità a pagamento, e lo mette in concorrenza
con il prodotto gratuito, con cui i consumatori hanno imparato a non essere troppo esigenti, visto
che non devono pagarlo (se non con il canone-Rai, che tuttavia è obbligatorio). Una pay tv capace
di attrarre pubblico è un fattore di rinnovamento importante del sistema televisivo complessivo,
perché – se riesce a convincere e a consolidarsi come fenomeno di massa – promette di modificare
l’antropologia del consumo televisivo, facendo emergere il bisogno latente di qualità, di
partecipazione e di condivisione che la tv generalista di massa lascia insoddisfatto.
Un diverso modello di consumo televisivo (forse)
Un diverso modello di consumo del prodotto televisivo significa anche un diverso modello
di produzio ne (a minor costo, con maggiore flessibilità, e con maggiore interazione col cliente).
Il legame tra costi e audience è, nelle produzioni televisive, molto stringente. Sottolinea
Marco Gambero come i costi della televisione sono per almeno il 65% relativi alla realizzazione dei
programmi. Ed essendo questi costi molto elevati – anche per il trend storico che hanno alle spalle –
possono essere coperti soltanto da grandi numeri di audience, che portino un ricavo pubblicitario
adeguato.
Per andare sotto la soglia delle grandi audiences, dunque, non ci sono altre possibilità che:
ridurre i costi unitari dei programmi, senza ridurne la qualità (almeno dal punto di
vista del pubblico servito, che non sempre chiede ambientazioni sfarzose,
intrattenitori sulla cresta dell’onda o programmi complessi);
aumentare i ricavi per spettatore, puntando sull’abbonamento (pay tv) o sul prezzo
9
della singola fruizione (pay per view).
Certo, come è stato detto, il modello di business della tv generalista si è affermato lungo un
percorso di grande successo, ma ormai è arrivato al suo punto di massimo sviluppo: non potrà
crescere ulteriormente. Si valuta che in Italia ci siano, oggi, 5 milioni di individui adulti alla ricerca
di una programmazione tv piàù intelligente, e 1,1 milioni di persone disposte a pagare per averla
(Domenico Ioppolo, Iniziative Media) 4 . Tuttavia, per desiderare un prodotto ed essere disposto a
pagarlo bisogna prima vederlo, immaginarlo, provarlo: ossia bisogna dare tempo al tempo, perché il
pubblico televisivo, abituato alla fruizione gratuita e poco impegnativa, non può sviluppare
attitudini diverse senza un processo, necessariamente lento, di apprendimento delle nuove
possibilità, diverse da quelle di cui ha esperienza diretta.
La piccola rivoluzione legata alla pay tv, che rieduca il pubblico a pagare i contenuti e il
servizio comunicativo di cui si sente il bisogno e che si apprezza, fino a pagarlo, è, del resto, solo la
prima tappa di una cammino che già oggi siamo in grado di intravedere e che sposta il baricentro
dell’offerta – oggi assolutamente dominante – alla domanda pagante, non più passiva, ma chiamata
attivamente a scegliere e chiedere, non solo a pagare.
Le tappe successive (già oggi attuali, anche se minoritarie) sono:
• il consumo di programmi pay per view (a domanda);
• l’auto-costruzione, personalizzata, del programma di consumo giornaliero, fatta
direttamente dal consumatore attraverso il proprio registratore (con hard disk) o demandata
a intermediari, proprietari di media o fornitori di contenuti che possono, per lui,
selezionare dalle diverse reti quanto gli interessa.
Pur restando sullo sfondo, questa prospettiva non è da trascurare, per due ragioni di fondo:
v ristabilisce il primato del prezzo (del servizio) sulla pubblicità che lo accompagna, anche in
termini di risorse disponibili per il produttore;
v cambia l’esperienza antropologica del consumatore, che cessa di essere passivo recettore di
messaggi pre-confezionate e diventa soggetto attivo di un processo di comunicazione destinata a
diventare sempre più selettiva, interattiva, condivisa.
Intanto, in attesa di questi sviluppi a lungo termine, lo sviluppo di una più consistente
audience per la pay tv cambia comunque qualcosa, perché ha l’effetto di segmentare diversamente
il mercato televisivo e pubblicitario, dando rilievo ad un segmento di fruitori che, pagando, chiede
anche in contropartita programmi di qualità e interessanti, pur a livelli di audience inferiori.
E’ una spinta verso la riduzione dei lotti, l’abbattimento dei costi e l’assegnazione al
consumatore di un ruolo maggiormente attivo ed esigente.
Legge Gasparri: cambiano le regole del gioco
Il secondo cambiamento di fondo, che si profila all’orizzonte, è dovuto alla nuova cornice
cornice competitiva che emerge (o emergerebbe) dalla legge Gasparri, con il suo effetto collaterale
(l’accelerazione del digitale terrestre).
E’ vero che l’impianto generale della legge di riforma mira a riconoscere l’esistente,
assegnando anche ai concorrenti già insediati il diritto di sperimentare il nuovo : lo spazio per nuovi
entranti è, per adesso, abbastanza teorico e comunque a lungo termine.
Tuttavia, nelle scelte strategiche, conta anche la prospettiva a lungo termine: se si
intravedono nuovi spazi, che possono maturare di qui a cinque, dieci anni, si può cercare di
posizionarsi in modo da aumentare le chances di approfittarne o da ridurre le minacce che ne
possono venire.
Le scelte di oggi possono esserne influenzate in vari modi. Ad esempio:
o investendo risorse nell’acquisto di frequenze televisive o radiofoniche, nella predisposizione di
nuove capacità produttive nei settori che si aprono, nella riduzione dei costi o nell’aumento
della flessibilità per far fronte ad un diverso assetto della filiera;
4
Sole 24 Ore, 21 ottobre 2003
10
o diversificando e integrando il proprio sistema dei media (e dei canali) direttamente presidiati o
accessibili ai contenuti che si intende proporre;
o sviluppando alleanze che consentano di mettere insieme risorse complementari (specialmente
con produttori esteri);
o innovando nelle tecnologie, nei contenuti o nelle modalità di relazione col consumatore finale,
per competere attivamente nei segmenti di mercato destinati ad entrare in movimento.
Punti controversi
Tuttavia, le scelte strategiche sono per adesso frenate delle incognite che rimangono sui
contenuti di dettaglio della riforma, attualmente in discussione. I punti “caldi” – e controversi della riforma Gasparri (legge 2175), sono infatti molti. E ciascuno di essi ha impatti rilevanti
sull’assetto competitivo del settore.
In particolare:
1)
la quota del 20% prevista, come massimo ammissibile per ciascun concorrente, è
calcolata sul totale del SIC (Sistema Integrato delle Comunicazioni) che
comprende una gamma molto vasta ed eterogenea di attività riconducibili alla
comunicazione
(imprese
radiotelevisive,
editoriali,
cinematografiche,
discografiche e pubblicitarie, sia in quanto proprietarie dei media, sia in quanto
produttrici o distributrici di contenuti) Il SIC comprende anche le attività di
comunicazione svolte on line e con mezzi elettronici e le quote si riferiscono non
solo al fatturato “tipico” del settore, ma alle “risorse” complessivamente acquisite
dal sistema, comprese le sovvenzioni pubbliche, le prestazioni di servizi e le
sponsorizzazioni. In questa accezione così ampia, il mercato di riferimento
potrebbe arrivare fino a 25 miliardi di euro, stabilendo dunque un tetto di 5
miliardi per concorrente. Nessuno dei concorrenti attuali supererebbe, dunque, il
limite massimo ammesso, nonostante che in specifici segmenti di mercato (quelli
che l’Antit rust considera rilevanti per la tutela della concorrenza) le quote
superino notevolmente il limite del 20%. La legge prevede poi che il tetto del 20%
sia ridotto al 10% per chi abbia più del 40% dei ricavi nei servizi di
telecomunicazione (ossia per Telecom);
2)
la caduta della barriera proprietaria tra settore televisivo e editoriale, sancita dalla
precedente normativa, fino ad oggi in vigore. I concessionari televisivi potranno,
in altri termini, acquistare giornali e viceversa. Fino al 2008, rimane tuttavia il
divieto, per chi disponga di più di una rete televisiva ad acquisire partecipazioni in
imprese editoriali;
3)
vengono prorogate le attuali concessioni televisive fino al 2006, anno in cui è
previsto l’avvio del digitale terrestre e dunque l’apertura del mercato (con nuovi
canali). La proroga rende inefficace la prescrizione della Corte Costituzionale che
avrebbe costretto a spostare Rai 4 sul satellite entro il 1 gennaio 2004. La
scadenza del 2006 come avvio del digitale è tuttavia prescritta soltanto “sulla
carta”, perchè le previsioni sono per un congruo slittamento, di fatto, del termine
previsto.
4)
Dal 1 gennaio 2004, la Rai deve coprire il 50% del territorio nazionale con due
blocchi di diffusione del digitale terrestre (col traguardo al 1 gennaio 2005 di
arrivare al 70% della popolazione). Ma le frequenze digitali non potranno essere
“liberate”, di fatto, a favore delle trasmissioni digitali, fino a che non si spengono
11
del tutto le trasmissioni analogiche e queste non potranno essere spente che
quando il parco televisori, nella case degli utenti, non sarà stato adeguatamente
trasformato. Ci vorrà dunque del tempo prima che questa sostituzione (con
aumento dell’offerta) diventi effettiva. Nel frattempo le frequenze necessarie alla
trasmissioni digitali, nella fase sperimentale, possono essere acquistate sul
mercato, ma i compratori possono essere solo le tv esistenti, le sole che sono
abilitate alla sperimentazione (i nuovi entranti futuri dovranno dunque acquistare
l’accesso dai produttori pre-esistenti);
5)
Si prevede la “privatizzazione” della Rai nella forma della public company che ha
un pubblico disperso di azionisti, ciascuno dei quali non può superare la quota
proprietaria dell’1%.
Si tratta di contenuti che accendono il dibattito proprio in vista dei possibili cambiamenti, e
che non sappiamo ancora che tipo di traduzione normativa potranno avere in sede di approvazione
definitiva della riforma in discussione.
Certamente, i punti sopra richiamati sollecitano una riflessione strategica, da parte delle
imprese, sul proprio posizionamento competitivo. Ciascuno sta misurando sul proprio business i
possibili effetti della trasformazione, e studiando le eventuali finestre che si aprono in campi prima
non praticabili.
Tra i nostri interlocutori, la legge Gasparri ha dato adito a pareri e commenti diversi. Ma, al
di là del giudizio politico, c’è un sostanziale accordo su due punti:
• nel breve periodo (due-tre anni) non ci sono in vista mutamenti importanti, perché alcune
clausole della legge avranno probabilmente (se il testo attuale non cambia) un effetto
pratico di stabilizzazione dell’esistente;
• nel lungo periodo, c’è da attendersi un processo, anche se lento, di progressivo
scongelamento del mercato, oggi ingessato da una gerarchia di posizioni difficilmente
contendibile.
L’apertura di spazi di movimento maggiori degli attuali dipende da diversi fattori, che
potranno maturare in tempi diversi.
Il primo è, ovviamente, l’avvio accelerato del digitale terrestre, che potrà moltiplicare per
quattro i canali disponibili per le trasmissioni via etere (in chiaro), favorendo in questo modo
l’ingresso di alcuni newcomers destinati a rinnovare lo scenario competitivo.
Aspettando Godot (il digitale terrestre)
L’altra “mina vagante”, che, insieme alla Gasparri, incombe sugli equilibri del sistema è la
prospettiva ormai ravvicinata del digitale terrestre.
Il digitale terrestre dovrebbe portare ad un progressivo aumento dell’offerta, nella
prospettiva del 2006, data di programmata di entrata a regime del digitale secondo la legge 66 del
2001, con conseguente “spengimento” delle trasmissioni analogiche. Poiché il segnale digitale
occupa una banda più stretta di quello analogico, potendo “condensare” maggiormente i dati
necessari per riprodurre immagini e suoni, ogni canale televisivo attuale potrà essere moltiplicato
per quattro o cinque applicando un apparecchio multiplex.
La stessa legge prescrive poi che gli operatori di rete che possiedono più di un canale
analogico (come Mediaset e Telecom Italia) a cedere almeno il 40% della capacità di trasmissione
di un multiplex a soggetti esterni. Mediaset ha preferito ospitare soggetti esterni in tutti e cinque i
canali del suo primo multiplex che sarà sperimentato nella zona di Varese, e per questo ha fatto un
accordo con Bbc World per trasmettere su uno di questi canali informazione e documentari. La Rai
12
sta puntando a lanciare due multiplex digitali, di cui uno non ospiterà soggetti esterni. Telecom
Italia lancerà, a sua volta, un multiplex.
Gli investimenti e le sperimentazioni, insomma vanno avanti. Il digitale terrestre in Italia, sia
pure nella sua forma embrionale, sta diventando una realtà.
Tuttavia, dubbi permangono sul cadenzamento temporale del processo. La data di entrata a
regime, come abbiamo detto, è il 2006. Ma realisticamente, ci vorrà molto di più. Altri paesi
europei programmano il passaggio per il 2010 e dintorni.
Alcuni analisti (ad esempio Marco Gambaro, Simmaco) sono scettici non solo sui tempi di
realizzazione del digitale terrestre, ma anche sulla effettiva portata dirompente di questa
innovazione in termini di allargamento del mercato, e fanno notare come i nuovi entranti avranno,
tra diversi anni, la possibilità di entrare in un mercato già stabilmente presidiato dagli attuali
competitors. Dovranno cioè superare barriere di ingresso rilevanti in termini di investimento iniziale
e di rischio, acquistando gli accessi dagli attuali competitors, i soli a poter disporre nella fase
sperimentale delle frequenze impiegate oggi per le trasmissioni analogiche e da impiegare in futuro
per i multiplex digitali.
D’altra parte, chi saranno i nuovi entranti? Le barriere all’ingresso che frenano il cammino
dei nuovi entranti anche in un digitale a regime sono molte. Prima di tutto, dal lato del consumo, la
penetrazione opzionale del nuovo servizio (nel periodo transitorio, prima che l’analogico sia spento)
andrà a rilento per i costi e i tempi richiesti dalla conversione, sia dal lato del consumo (costo di un
nuovo apparecchio tv digitale, o di un set top box per la conversione, oltre al costo degli adattamenti
da fare all’antenna), che da quello della produzione (costo delle reti e degli impianti di
trasmissione). Dunque, non c’è da attendersi che – con tutte queste difficoltà e lentezze – che venga
presto meno l’abitudine al consumo analogico, che non ammette interattività ed è molto rigido,
riguardo ai tempi e ai programmi. E’ da vedere chi preferirà attrezzarsi subito per usufruire del
servizio digitale, nel periodo di transizione. Probabilmente la gran parte del pubblico continuerà a
preferire lo stile di comunicazione già noto e collaudato, anche in presenza di proposte innovative,
specie se queste richiedono un extra-costo che la “solita” fruizione non richiede.
Può darsi tuttavia che i tassi di “apprendimento” del sistema televisivo italiano siano più
rapidi di quelli che ci immaginiamo oggi, a partire da una situazione statica, in cui le esperienze
dinamiche sono molto ridotte e molto lente.
L’esperienza inglese, ad esempio, mostra che le potenzialità del mezzo tecnologico, per
realizzare un cambiamento in tempi rapidi, ci sono tutte. In pochi anni (dal 1998 al 2003) il digitale
terrestre ha raggiunto 1,8 milioni di famiglie, e procede a tassi di crescita accelerati. La formula ha
avuto impulso soprattutto da quando (novembre 2002) gli utenti hanno avuto la possibilità di
accedere – via set top box o con apparecchio digitale – ai 30 programmi di Freeview, di cui 7 forniti
dalla Bbc. Poiché, contemporaneamente, in G. Bretagna, Sky raccoglie ormai 6,6 milioni di
abbonati alla pay tv, anche con un trend di crescita rilevante, è facile concludere che:
• la quota del digitale (nelle diverse opzioni: pay tv e in chiaro; satellitare e terrestre; via cavo
e via etere) è arrivata ormai a 11 milioni di famiglie (il 45% del totale) e si avvia a
superare presto il 50% (dati ITC, Independent Television Commission, 2003);
• poiché l’élite dei consumatori paganti è stata già intercettata da Sky, il digitale terrestre (in
chiaro) cresce a tassi così rilevanti, attraendo consumatori non particolarmente interessati
alle novità tecnologiche e non particolarmente disposti a sostenere i costi di conversione
(che sono a loro carico), ma perché interessati alle nuove possibilità di scelta offerte da
Freeview, sempre rimanendo nella fascia del consumo gratuito.
Come sottolinea Antonio Pilati5 , l’effetto di una penetrazione così elevata del digitale, e in
tutte le fasce di pubblico, ha portato ad una notevole frammentazione dell’audience, perché sta
crescendo il numero delle cosiddette famiglia multichannel (che possono scegliere tra molti canali
tv alternativi, accessibili per via digitale o per cavo analogico), che sono ormai circa metà della
5
Sole 24 Ore, del 18.10.03
13
popolazione. In questo mercato, si sviluppano più rapidamente i programmi che partono da una
audience limitata e che stanno crescendo in numero e in proposte. La tendenza è dunque verso la
deconcentrazione dell’intero sistema.
In Italia, la situazione non è ancora giunta a questo punto di svolta e sembra che le tappe
iniziali, per quanto forzate, non possano essere abbreviate più di tanto. Dunque bisogna ragionare
con la logica dei due tempi.
In un primo momento c’è da aspettarsi che le nuove potenzialità del mezzo televisivo o
multimediale penetrino lentamente attraverso una fruizione di élite, sia perché solo una parte
limitata di persone sarà disposta a spendere per attrezzarsi volontariamente acquistando i mezzi
necessari per usufruire al meglio delle nuove possibilità tecniche; sia perché solo una parte del
pubblico ha l’urgenza culturale di liberarsi dai vincoli della tv di massa, acquistando possibilità di
scelta e di interazione maggiori.
In questa fase iniziale, i consumatori “migreranno” con una certa fatica al digitale e le
frequenze saranno liberate solo molto lentamente. Difficile che ci sia tanto spazio per i nuovi
entranti, che rischiano di non farsi una audience elevata in breve tempo. I nuovi produttori avranno,
inoltre, bisogno di pre-esistenze rilevanti per non farsi travolgere dai costi e dai rischi
dell’investimento televisivo, che sono finanziariamente ed economicamente “pesanti” per tutto il
periodo necessario alla formazione di un’audience numericamente consistente.
Ma, una volta avviato il convoglio, nella sua dinamica interna è insita una logica di
moltiplicazione dell’offerta, di riduzione dell’audience per canale, di maggior spazio per nuovi
entranti. E questa logica, come già avviene in Gran Bretagna, potrà consolidarsi se un’offerta più
differenziata, flessibile e interattiva (rispetto a segmenti selezionati di pubblico) ad incontrare una
domanda che chiede appunto queste prestazioni.
Il nuovo è in cammino, ma la marcia è lunga
Nonostante tutto, insomma, la prospettiva (a medio- lungo termine) del digitale terrestre –
insieme alla pay tv satellitare - è interessante perchè, anche a parità di protagonisti, cambia
ugualmente modalità importanti del business televisivo-radiofonico e dunque dell’assetto
complessivo del settore delle comunicazioni.
Gli effetti importanti, da questo punto di vista, sono soprattutto due:
1) il segnale digitale aumenta, in prospettiva, il numero dei canali, moltiplicando l’offerta
potenziale rivolta al pubblico per quattro. A prescindere da quali saranno le imprese
offerenti, si pone comunque un problema di riequilibrio tra un’offerta che viene
moltiplicata e una domanda che non potrà crescere nella stessa proporzione;
2) la digitalizzazione della ricezione promette di mutare l’atteggiamento di fondo del
pubblico, o almeno di una parte del pubblico, rispetto alla fruizione televisiva,
consentendo l’interattività e una auto-selezione del palinsesto, entro una gamma di
offerta piuttosto ampia (per varietà e tempi di trasmissione). Una parte del pubblico
“pagante” – la parte più attiva e più “ricca” – può anche spingersi, nella vasta offerta di
alternative digitali (compresa la pay tv satellitare) a rifiutare il ruolo di puro recettore
passivo dei programmi e degli spot, pretendendo invece di essere co-decisore, in grado
di pagare di tasca propria per le scelte fatte e di influire, per questa via, sulle scelte fatte
dalla filiera.
Le imprese non possono sottovalutare questi due trend di cambiamento che, sebbene
gradualmente, porteranno ad emergere di nuovi modelli di produzione (più flessibili e meno costosi)
per seguire il downsizing dell’audience media per canale, dovuta all’aumento del numero delle
opzioni disponibili per il singolo cliente. E che indurranno la nascita di nuovi segmenti di mercato,
caratterizzati da comportamenti e vantaggi competitivi diversi da quelli che oggi caratterizzano la
comunicazione di massa. E’ un terreno interessante per l’innovazione, che potrebbe essere raccolto
da qualcuno degli attori in gioco.
Intanto, però, anche a breve, non tutto resta fermo. La sola prospettiva di un aumento a
14
regime dei canali disponibili e di una fruizione digitale dei contenuti movimenta la strategie dei
protagonisti che cominciano ad interrogarsi sulla loro possibilità di partecipare al gioco,
riposizionando per tempo il proprio business in vista di passi ulteriori.
Fattori dinamici a breve termine, da non trascurare
Del resto, la nuova cornice contiene fattori dinamici da non trascurare:
• per la prima volta da molti anni, c’è la possibilità di modificare in profondità la
distribuzione delle frequenze televisive (congelata da tempo), grazie alla probabile
“rottamazione” – con vendita - di molte emittenti prive di risorse;
• cadono, con la Gasparri, le barriere normative che avevano, in passato, separato il mercato
televisivo da quello editoriale.
• si può procedere verso la digitalizzazione della radio, aprendo nuove possibilità di presenza
in un mezzo che è stato negli ultimi anni in rapido sviluppo e in cui si sta già mettendo in
moto un processo di razionalizzazione della rete, appoggiato alla cessione delle frequenze;
Il cammino verso il digitale terrestre comporta, nella sua preparazione, anche un processo di
redistribuzione e razionalizzazione delle frequenze, che sono state finora assegnate in modo
abbastanza casuale e che hanno perpetuato la compartimentalizzazione del mercato in segmenti
locali troppo piccoli e difficilmente unificabili.
Le frequenze analogiche attuali sono tuttavia già allocate alle trasmissione che avvengono su
base analogica, mentre i due canali di cui disponeva Tele+ sono in via di cessione da parte di Sky
(che ne è diventata il proprietaria) perchè incompatibili con suo ruolo monopolistico nel segmento
pay-tv. La liberalizzazione prevista in attesa del digitale ha effetti immediati sul possesso delle
frequenze utili alle possibili trasmissioni future ed effetti più diluiti sugli equilibri del mercato, che
potrebbe subire un rimescolamento degli assetti proprietari e pubblicitari, in vista dell’aumento del
numero dei canali disponibili.
Anche le due reti nazionali di cui dispone Telecom (La7 e Mtv) possono contribuire – con la
digitalizzazione - ad un aumento dell’offerta e del pluralismo in modo più consistente di quanto ora
facciano con la loro quota di mercato, ancora limitata. Se ai due canali analogici si applica il
moltiplicatore digitale, si possono ottenere otto canali digitali, fornendo un punto di appoggio di
qualche peso ad eventuali newcomers che consentano di uscire dalla simmetria bipolare RAIMediaset.
Importante è anche la nuova normativa che, a regime, consentirà agli editori (di libri e
giornali) di investire nel settore televisivo e viceversa, secondo il dispositivo previsto dalla legge
Gasparri (che estendendo il SIC rende possibile investimenti del genere anche ai maggiori players
attuali). E’ una prospettiva difficile, ma non impossibile, nonostante i costi e i rischi richiesti
dall’operazione.
C’è, intanto, da dire che si tratta di una liberalizzazione asimmetrica. Infatti c’è da mettere in
conto l’esistenza di una differente barriera di fatto tra i due segmenti. Infatti, è più facile per un
produttore televisivo acquistare una testata giornalistica, espandendosi anche in questo segmento di
mercato, che per un’azienda editoriale entrare nel business televisivo, che richiede notevoli
investimenti e comporta rischi di redditività molto alti, specie nei primi anni (quando non si è
ancora raggiunta un’audience sufficiente).
In ogni caso, il superamento della segmentazione del mercato basata sui media sta
nell’ordine delle cose, quando si guarda al futuro non immediato. La formazione di un gruppo
multimediale, ossia di un gruppo capace di giocare i contenuti di cui dispone su tutto lo spazio della
comunicazione multimediale (tv, libri, giornali, radio ecc.), ha dalla sua vantaggi economici
rilevanti, perché la replicazione dello stesso contenuto su una gamma articolata di media e dei
canali accessibili ha un effetto moltiplicativo sul valore economico dei contenuti di cui si dispone.
15
Già oggi, si vendono molti più libri se un autore viene coinvolto in qualche talk show, se una
storia viene ripresa in una fiction, o anche soltanto se di un libro si parla – bene o male – in tv. La
differenza di audience ha questo effetto. Ma anche nel locale, c’è un effetto rimbalzo e
rafforzamento nel passaggio dello stesso contenuto da un medium all’altro.
I gruppi che possiedono contenuti – ad esempio molte redazioni giornalistiche presso i
maggiori editori – potrebbero avere la possibilità di gestire con costi ragionevoli un canale di news e
simili, o di intrattenimento mirato ad un pubblico particolare. Se poi questo canale è alimentato da
un abbonamento pay tv, o da un prezzo pay per view, non c’è bisogno di un’audience milionaria.
Anche joint ventures con gruppi editoriali o televisivi esteri possono giustificare i grandi
investimenti richiesti per acquistare una tv nazionale di grande audience.
Tuttavia, per ora, l’atteggiamento prevalente è di cautela. Mondadori, ad esempio, non
progetta di accedere all’area dei quotidiani (per la già elevata quota di mercato detenuta nel SIC),
ma valuta anche arduo, per un editore della carta stampata, un ingresso nel business televisivo, se
non altro per gli investimenti richiesti per inserirsi in un segmento di mercato dominato da
competitors come Rai e Mediaset.
Infine, bisogna tener conto delle nuove chances che arrivano alla radio, uno dei pochi fattori
dinamici che hanno movimentato il quadro competitivo degli ultimi anni. Nel campo della radio, si
è ormai arrivati a livelli di ascolto notevoli (35 milioni di persone al giorno, specialmente in auto),
anche se gli investimenti pubblicitari non danno ancora a questo mezzo un peso paragonabile, anche
lontanamente, alla televisione.
Il digitale consentirà alla radio di avere nuovi spazi di espansione e di accentuare la
differenziazione dei generi che sono attualmente sul mercato (radio tradizionali, radio per giovani,
prevalentemente musicali, oppure radio centrate su news & talk, come è Radio 24, radio locali,
radio “libere” e “pirata” ecc.). Anche il rapporto con consumatore potrà cambiare, se non altro
perché egli stesso si sta trasformando in un soggetto multimediale, potendo ricevere la radio
attraverso Internet, attraverso il cellulare ecc.. Rimangono problemi organizzativi molto seri
relativamente alle autorizzazioni, alle frequenze e alla razionalizzazione del sistema, che potrebbero
trovare risposta proprio attraverso la riorganizzazione da attuale in occasione del passaggio dal
segnale analogico a quello digitale.
La digitalizzazione spinge ancora verso la convergenza
In definitiva, l’opinione generale è che la situazione attuale non possa durare a lungo e che
lo stallo competitivo che si è creato deve essere superato in qualche modo. Se la riforma asseconda
la tendenza di fondo verso la digitalizzazione di radio e televisione, che oggi sono ancora basate
sulla trasmissione di segnali analogic i, consente anche solo per questo di fare un passo avanti verso
il riassetto.
La digitalizzazione è di per sé una piccola rivoluzione perché consente con facilità di portare
lo stesso contenuto su diversi media, ovviamente con gli opportuni adattamenti. Questa
moltiplicazione dei canali di accesso ai contenuti non potrà che ridurre l’audience mediamente
ottenuta da ciascun canale, dato che il tempo e l’attenzione dei consumatori sono comunque limitati.
L’abbattimento delle barriere all’ingresso tende a facilitare l’ingresso di newcomers nei
diversi segmenti della comunicazione. Ma questo ingresso viene invece ostacolato da un altro
fenomeno, collegato alla moltiplicazione degli accesso: il minor ricavo ottenibile con la vendita di
contenuti o di pubblicità in ciascun canale riduce la convenienza ad investire, In questa situazione si
trovano favoriti coloro che riescono ad avere costi bassi, o perché possiedono “magazzini” e riserve
di contenuti che sono sunk costs, utilizzabili a costo marginale zero o quasi; oppure coloro che
tengono bassi i propri costi puntando decisamente sull’outsourcing dall’esterno, di notizie,
programmi, format e, in generale, contenuti. Se si ricorre a specialisti (autonomi) che vengono
messi in rete con diversi media, per valorizzare i contenuti di cui dispongono, non si hanno costi
affondati che blocchino la flessibilità e, probabilmente i costi e i rischi sono minori di quanto si
16
avrebbe ricorrendo all’auto-produzione.
Bisogna anche tenere presente l’effetto che la digitalizzazione può avere sul mercato
pubblicitario, oggi legato più alla quantità dell’audience che alla sua qualità. La digitalizzazione,
moltiplicando i canali disponibili e favorendo l’interazione pubblico/emittente, favorisce una
segmentazione più fine del pubblico, in funzione della disponibilità a pagare (se si tratta di pay tv o
di pay per view), ad accettare l’innovazione tecnologica e le innovazioni in genere, a selezionare gli
interessi su temi specifici e a seguire gli spettacoli con un maggior livello di attenzione. Tutti
elementi rilevanti per il ritorno dell’investimento pubblicitario. E’ possibile, dunque, che tecniche di
misurazione/segmentazione dei pubblici televisivi futuri diano un valore diverso ai telespettatori,
avvantaggiando in questo modo anche segmenti quantitativamente limitati come audience, ma
legati al target dello specifico investimento pubblicitario.
Inoltre la digitalizzazione può essere una base di sviluppo per una diversa cultura del
consumo, sollecitando nel consumatore un atteggiamento più attivo (deve scegliere in una gamma
vasta e complessa di programmi) e una fruizione multimediale.
Uno scenario possibile: verso una riorganizzazione del sistema a tre livelli
Possiamo immaginare – sulla base delle prospettive a lunga scadenza che ci hanno illustrato
gli intervistati - che l’industria italiana della comunicazione possa dirigersi verso un assetto simile a
quello che è alla fine emerso dallo “scongelamento” del sistema bancario. Un assetto che prevede:
v la formazione a monte tra alcuni poli di scala nazionale e internazionale, avvalendosi degli ampi
limiti consentiti dalle nuove (future) normative;
v il consolidamento di network regionali di media dimensione, specializzati nel servire bacini di
utenza ampia, ma non nazionali;
v il radicamento locale di molte iniziative di piccola scala, emergenti dal basso, che si legano ai
circuiti di condivisione delle esperienze e dei problemi locali.
Una prospettiva di movimento di questo genere, anche se non immediata, cambia il
significato che i diversi attori assegnano alla concorrenza che oggi si fanno, ancora su segmenti
limitati di una piramide che nessuno pensa di poter rimettere in discussione. Da un confronto
competitivo che assomigliava ad una “guerra di posizione”, dove ognuno bada innanzitutto a
difendere la propria trincea, si sta lentamente passando ad un confronto basato sulla capacità di
modificare precedenti equilibri.
Le imprese mirano non più a resistere su posizioni già acquisite, ma a riposizionarsi.
In questo processo di cambiamento, assume dunque maggiore importanza l’ innovazione,
ossia la capacità di interpretare rapidamente (prima di altri) le nuove opportunità che si aprono e di
usare le proprie risorse (in qualche caso esclusive, in altri da acquisire in concorrenza) per sfruttarle.
Inoltre, le innovazioni non riguardano più micro-problemi o segmenti marginali del
business, ma il core dell’attività, sviluppandosi, in prospettiva “a tutto campo”.
17
3.
La tv e gli altri: sfide comuni, ma punti di partenza
diversi
Nuove possibilità, in quasi tutti i settori
Il discorso condotto sin qui ha guardato soprattutto all’evoluzione del business televisivo,
che costituisce il baricentro dell’industria della comunicazione per la sua capacità di attrarre
pubblico e pubblicità. Ma sono proprio i cambiamenti che avvengono nella produzione e fruizione
del prodotto televisivo che influenzano tutti gli altri settori.
L’editoria giornalistica ha ovviamente i suoi trend e i suoi problemi, ma è anche
direttamente interessata ai cambiamenti che avvengono nel settore televisivo, che è il suo principale
concorrente. La possibile caduta della barriera normativa che oggi separa giornali e tv propone
all’orizzonte la possibilità per le imprese giornalistiche di “farsi una propria televisione” (con gli
investimenti e i rischi che ciò comporta) o per le imprese televisive di “farsi il proprio giornale”. E’
evidente l’importanza che eventi del genere possono avere in un settore dove le quote di mercato
sono elevate, cosicchè ogni spostamento da un settore all’altro provoca assestamenti di grande
ampiezza.
Ma anche nell’editoria libraria ci sono legami importanti con l’audience televisiva, che
traina con facilità libri di successo. Più in generale, c’è una concorrenza tra libri e tv sul terreno
dell’attenzione e del tempo che il pubblico dedica a queste due forme di comunicazione. Se la
fruizione televisiva diventa maggiormente duttile e specializzata, andando alla ricerca di pubblici
meno massificati, è probabile che l’impatto competitivo sul libro aumenti.
La radio è un concorrente molto agguerrito della tv, perchè può contare su un pubblico
particolare (ad esempio, un pubblico che si sposta in auto, che sta sulla spiaggia o che lavora). La
sua flessibilità di fruizione consente usi meno “casalinghi”. In fondo la radio anticipa, anche nelle
sue forme organizzative, il futuro di una tv che potrà essere fruita in modo flessibile senza molte
delle difficoltà che ne hanno fatto, finora, un elettrodomestico destinato ad un pubblico seduto in
poltrona. E’ anche pensabile che, forte di un’audience e di comunità di ascolto precostituite,
qualche radio possa fare da battistrada nella creazione di pubblici televisivi specializzati sui nuovi
canali. La crescita della pubblicità e degli ascolti che caratterizza la radio anche in tempi di
recessione esprime bene questo bisogno di una fruizione meno ingessata e massificata, che trova
risposta in un mezzo meno totalizzante e meno ingessato della tv dall’audience milionaria.
C’è anche da considerare con attenzione un fenome no che ribalta l’uso consuetudinario della
televisione di massa: le tv che nascono dal basso, con costi minimi, tecnologie limitate e grande uso
di volontariato e di iniziativa personale. Appoggiandosi ad una rete più evoluta e ricettiva
(outsourcing) questo tipo di sperimentazioni può fornire esempi significativi di fruizioni televisive
di tipo comunitario o di tipo tematico, rivolte a pubblici specializzati e numericamente limitati.
Alla ricerca di nuovi modi (più flessibili e meno costosi) per produrre contenuti
C’è un punto comune di novità che riguarda tutti i settori (tv compresa): la prevedibile
riduzione dell’ampiezza media dell’audience per canale, dovuta alla moltiplicazione dei canali
concorrenti.
E’ vero che alcuni canali rimarranno più seguiti di altri, e che i nuovi stenteranno a
decollare, ma è indubbio che, in presenza di una batteria di opzioni sempre più numerose
18
l’attenzione e il tempo del pubblico potenziale non potrà che progressivamente redistribuirsi tra le
maggiori opzioni offerte.
Per apprezzare il peso di questo vincolo, bisogna considerare che l’audience televisiva è
stata finora portata a livelli elevatissimi dal razionamento tecnico (scarsità di banda) e normativo
(concessioni) dell’offerta. La disponibilità di un pubblico di spettatori di cinque, dieci milioni di
persone (potenziali utenti pubblicitari) costituisce un’anomalia in un sistema economico e sociale in
cui gli stili di vita e di lavoro sono sempre più differenziati, e in cui la varietà e la volubilità delle
scelte sta sostituendo la standardizzazione e la “fedeltà”.
Il fatto è che, però, l’organizzazione industriale della televisione – che è il nucleo centrale
del business pubblicitario – si è sviluppata contando su questo tipo di pubblico e quindi su un livello
elevato di ricavi per ogni trasmissione. Costi alti, rigidità e rendite di posizione hanno dunque fatto
la storia e il costume di un settore in cui la domanda è rimasta a lungo captive del medium, ossia di
un sistema razionato di offerta, abituato ai grandi e grandissimi volumi.
Oggi che il razionamento si riduce, la prospettiva più realistica è che – in mancanza di un
aumento del tempo totale dedicato dai consumatori alla comunicazione, si riducano anche i ricavi
unitari prevedibili per canale (e per contenuto).
Di conseguenza, emergono come prioritarie le questioni relative ai costi, alla rigidità e alle
rendite di posizioni ereditate dalla situazione precedente, e non più sostenibili. Bisogna che i
contenuti costino meno, perché devono essere destinati a audiences più ridotte. Di conseguenza, è
anche ragionevole pensare che queste audiences possano essere segmentate per temi di interesse o
per appartenenze (a certi sistemi territoriali, a certe comunità, a certe linee di tendenza).
Contenuti tematici e pubblico di nicchia (sempre con volumi elevati, ma non milionari)
possono essere prodotti solo cambiando il modello di business della comunicazione, in tutti i media.
E andando verso forme di flessibilità della filiera produttiva.
La flessibilità, però, può essere ottenuta portando avanti due linee strategiche diverse e
confliggenti:
a) una linea fordista che cerca di ridurre i costi e aumentare il controllo centrale sul
processo produttivo, puntando ad una maggiore integrazione delle varie fasi e
attività, oggi lasciate agire autonomamente. La maggiore integrazione potrebbe
consentire, se bene usata, di conseguire le massime “economie di scopo”
(integrando media diversi con ri- uso degli stessi contenuti) e di rendere la linea
produttiva più reattiva rispetto ai progetti di innovazione dell’impresa e alle
istanze provenienti del mercato;
b) una linea postfordista, che, analogamente a quanto è accaduto in altri settori,
punta invece ad organizzare reti di outsourcing con fornitori esterni che sono
tuttavia chiamati stabilmente a cooperare con l’impresa committente. In questo
caso, la maggiore flessibilità deriva non solo da una maggiore gamma di scelta di
media e di contenuti, ma anche dalla possibilità di valutare e adottare le
innovazioni che altri hanno sviluppato a proprio rischio e con propri investimenti,
senza “immobilizzare” il committente in linee di produzione che si possono
rivelare sbagliate o in perdita.
Abbiamo visto che la riduzione dei costi e dei lotti, nella produzione di contenuti, è l’altra
faccia dell’aumento dei canali e della crescita delle possibilità di scelta dell’utente. Le due cose si
tengono. I media meno ingombranti e meno rigidi (le tv sperimentali, i periodici di nicchia, la radio
ecc.) possono aiutare a verificare quali siano le possibilità di fare programmi di qualità con risorse
limitate, e a quali condizioni.
Questi moduli a basso costo, e destinati ad un pubblico molto limitato e specifico, possono,
in certe circostanze, entrare in reti ampie di fruizione, alla ricerca di clienti potenziali che non sono
di vicinato, ma che sono formate da un pubblico interessato allo specifico tema o allo specifico
19
esercizio estetico contenuto nel programma.
Non si tratta di un abbattimento dei costi che necessariamente riduce la qualità della
prestazione comunicativa. Oggi, come nota Severino Salvemini 6 , quello che conta per avere idee e
prodotti innovativi è la rete dei talenti, che metta insieme individualità creative e la dinamica
interattiva delle eccellenze. Ma l’industria della comunicazione è un insieme molto eterogeneo di
settori, che fanno capo a filiera distinte: la tv, la radio, la moda, l’editoria, il design, la pubblicità. I
talenti che emergono in ciascuna filiera non trovano modo di legarsi e fare massa critica con i
talenti che emergono nelle altre. Ci vorrebbe un meta-organizzatore – magari un’iniziativa pubblica
– capace di catalizzare queste forze che, anche a Milano, sono addensate nell’area metropolitana ma
restano disperse sotto il profilo dei metodi di lavoro, dei concetti di base, degli standard di
interfaccia. Le imprese, specie le maggiori, rimangono abbastanza chiuse rispetto a questa esigenza
di organizzare la filiera e il rapporto tra filiere diverse al loro esterno, e allora è il mercato del
lavoro professionale che deborda fuori dei loro confini. Questo passaggio per il mercato è
inevitabile, ma non aiuta a legare, non consente da solo di rimettere a sistema quello che nasce
separato o disperso. Man mano che i legami una volta esistenti tra le diverse istituzioni si allentano,
il sistema perde la sua capacità di integrazione dei talenti.
Tuttavia è questa catena di persone di talento che lavorano trasversalmente tra i diversi
segmenti in cui è diviso il mercato a prefigurare il terreno su cui costruire un sistema produttivo di
contenuti che sia flessibile, poco costoso e al tempo stesso di qualità. C’è una responsabilità delle
città, in questo, perché è nei luoghi metropolitani che i talenti si addensano e si incontrano: hanno
bisogno di un punto di appoggio, di una retta di intersezione.
Il downsizing delle quantità e le filiere produttive
Con lo stesso spirito – alla ricerca di modalità per flessibilizzare la produzione, decentrare le
iniziative innovative e contenere i costi – si può pensare a filiere produttive attivate dalla grandi
imprese della comunicazione, nei diversi comparti, e irradiate sul territorio. Queste filiere possono
inserirsi negli spazi aperti dai cambiamenti che maturano nel core del business televisivo,
discendendo poi “giù per li rami”.
La produzione di contenuti, i servizi tecnici e di intermediazione, le funzioni di
progettazione e invenzione estetica sono oggi, in parte, controllati direttamente dalle maggiori
imprese, e, in parte, distribuiti in filiere in cui operano numerose imprese autonome: alcune piccole
o piccolissime; alcune innovative, altre soltanto poco pagate o precarie; alcune strutturate e altre
lasciate all’iniziativa (poco organizzata) di singole persone.
La filiera, in questa sua diramazione verso il basso e verso figure di la voro autonomo
sempre meno strutturato nelle categorie tradizionali (di lavoro dipendente o di lavoro da
professionista affermato) è fondamentale non solo per le ricadute occupazionali e territoriali che ha,
ma anche perchè fornisce flessibilità, idee e prodotti poco costosi alle imprese maggiori.
La tendenza generale che abbiamo riscontrato, con riferimento al probabile downsizing
futuro dell’audience media per canale televisivo, è quella di rendere sempre più importanti queste
funzioni della filiera e degli operatori autonomi che essa accoglie.
Se si devono ridurre i “lotti di produzione” (data l’audience a cui si “vende” un certo
contenuto) e si deve ridurre il lead time, per operare in presa diretta sulle tendenze del mercato,
diventa necessario ricorrere in modo sempre più rilevante a questo tipo di capacità che stanno
all’esterno sia delle aziende che vendono il servizio comunicativo (media), sia delle maggiori
aziende che forniscono i contenuti (come prodotti finiti). Alle loro spalle, c’è un retroterra di piccoli
produttori specializzati in funzioni minute ma eccellenti, che hanno oggi il difetto di essere poco
6
Severino Salvemini, intervista su “Milano e le imprese di comunicazione: dall’attenzione al prodotto
all’attenzione al talento”, sul Forum dell’ Osservatorio.
20
raggiungibili, poco noti e poco “in rete”. Ma queste condizioni possono cambiare, con appropriate
strategie e investendo in appropriati collanti per integrare una filiera che resta decentrata sotto il
profilo della proprietà e del potere.
Si scoprono le sinergie, nella distribuzione, tra libri e giornali
L’anno che si sta chiudendo è stato anche quello in cui sono emersi fatti nuovi, di una certa
importanza, nella distribuzione di libri e giornali. Diversi milioni di libri, comprese alcune
enciclopedie, sono transitati dalle edicole, associati in bundle con giornali che avevano un valore
unitario minore dell’allegato con cui erano venduti. C’è stato un boom delle vendite di libri,
attraverso un canale nuovo. E c’è stato un aumento delle vendite dei giornali trainati dalle
promozioni, e un aumento delle vendite dei CD e delle enciclopedie, due settori altrimenti stagnanti.
I conti economici delle aziende editoriali, in un momento di difficoltà, hanno trovato il modo di
chiudere alcune falle che si stavano aprendo. Non si tratta di cambiamenti sconvolgenti, ma
piuttosto di una nuovo atteggiamento che si comincia ad assumere verso problemi antichi. Ed è
questo nuovo atteggiamento che, forse, è più rilevante dei fatti accaduti, se avrà un’incidenza
strategica sulle scelte future.
In Italia, sia i libri che i giornali soffrono da tempo di due mali “storici”:
v una distanza culturale crescente tra i cont enuti che vengono stampati e i bisogni latenti del
pubblico, specialmente con riferimento ai potenziali consumatori che leggono saltuariamente o
non leggono per niente;
v una opacità dei canali distributivi che rendono difficile e lenta la comunicazione tra i produttori
di libri e giornali e i consumatori (potenziali) degli stessi.
I due fattori si rafforzano a vicenda. Ma non sarebbe corretto ridurre il problema della
distanza culturale tra editoria e pubblico potenziale ad una questione di sola distribuzione: il gap
culturale non nasce infatti soltanto dalla difficoltà a trovare, sul proprio percorso, una libreria o
un’edicola; né dalle difficoltà ad orientarsi tra le troppe proposte in vetrina, una volta che il punto
vendita sia stato trovato. Nasce invece, come si dice, “a monte”: nel modello di comunicazione e
rappresentazione che i giovani sviluppano a scuola e nella loro vita sociale. Se questo modello non
comprende forme comunicative e rappresentative che sono mediate dalla parola scritta, non sarà
certo la facilità di reperire materialmente un libro o un giornale a giustificare la fatica e l’impegno
che la lettura richiede, per poterne trarre una reale emozione o una reale utilità.
Tuttavia, detto questo, la distribuzione ha il suo peso, perché è il canale più importante di
relazione che i produttori hanno per contattare e coinvolgere il loro pubblico potenziale. Se la
distribuzione è sorda, cieca e muta, come spesso accade, i consumatori hanno un unico modo di
poter parlare ai produttori: con l’exit, ossia non comprando i libri e giornali che vengono offerti.
Non hanno, invece, le altre due possibilità previste da Hirschman: la voice, ossia di poter chiedere
una cosa diversa da quella offerta; e la loyalty, la possibilità di costruire una visione e un interesse
condiviso con il produttore. Una distribuzione efficiente deve essere in grado di far comunicare
produttori e consumatori attraverso tutte e tre questi canali (exit, voice e loyalty). Se la distribuzione
è opaca e poco reattiva, le due parti che mette in collegamento non riescono a parlarsi e ad
intendersi l’una con l’altra. E alla fine la diffusione ne risente.
Il peso di una distribuzione poco efficace
In un’epoca di comunicazione televisiva, dove la tv drena risorse pubblicitari, e riduce il
tempo e l’attenzione che il pubblico presta a libri e giornali, la mancata crescita della diffusione può
minare in profondità le possibilità competitive di media alternativi, come i libri e i giornali, che
utilizzano linguaggi meno diretti e meno facili. Per adesso, l’editoria si appoggia ad una base
abbastanza fedele di “lettori forti” che tiene in piedi la vendita dei libri e dei giornali, sia pure con
volumi inferiori a quelli registrati in altri paesi. Ma anche questo riferimento a “pochi fedelissimi” è
21
pericoloso e viene sentito come un limite strategico importante dai responsabili di marketing delle
aziende editoriali. I “lettori forti”, infatti, rischiano di diventare un’aristocrazia lontana dai miti e riti
della società di massa. Un gruppo elitario che rischia di trovarsi sempre più distante dai gusti del
pubblico, e soprattutto dai giovani, sempre meno disponibile ad accettare la mediazione – faticosa,
lenta – del testo scritto.
Per le vendite dei giornali le edicole sono state a lungo un vincolo, che impediva – in base
alla licenza – di accedere ai supermercati, autogrill ecc.. Per le vendite di libri le librerie sono state,
anch’esse, un filtro limitante: nei confronti del pubblico colto, lettore continuativo di libri, sono
ormai diventate troppo piccole per contenere l’offerta di titoli che viene messa sul mercato ogni
anno. Molti di quei titoli non arrivano nemmeno nelle librerie di provincia e i potenziali lettori non
ne possono fruire. Ma anche rispetto al grosso pubblico, le librerie hanno avuto un effetto inibitore,
sia perché il loro ambiente può intimidire la persona poco colta, sia perché il numero di titoli e la
gamma di autori sconosciuti po’ effettivamente disorientare e indurre a rinviare la scelta.
Tentativi di “democratizzazione” in corso
Partendo da queste premesse, l’evoluzione delle cose è andata verso l’obiettivo di
“democratizzare” l’offerta libraria e giornalistica, per intercettare il pubblico nuovo, dei lettori
deboli o dei non- lettori che normalmente ad essa si sottrae. I giornali si sono, infatti, sempre più
adattati a svolgere una funzione di packaging di gadget di vario genere o di altri libri/giornali, per
attrarre un pubblico interessato più al regalo o al supplemento che ai contenuti di base dell’editoria
giornalistica. Nello stesso senso, le librerie hanno cercato di andare incontro al gusto del pubblico,
spostandosi nei centri commerciali e abbinando ai libri altri oggetti del desiderio, come dischi,
regali, e altre varianti da megastore.
Sembrava che libri e giornali dovessero combattere la loro battaglia per una diversa – e più
efficace – distribuzione ciascuno per conto proprio: i primi razionalizzando il sistema delle librerie
(con spazi più ampi e una diversa organizzazione interna), e i secondi sfuggendo all’abbraccio
soffocante delle edicole.
Il panorama è cambiato a causa dello straordinario successo, registrato negli ultimi anni (e in
special modo quest’anno) dell’abbinamento libri- giornali proposto ai lettori dei giornali attraverso il
circuito delle quasi 100.000 edicole, capillarmente distribuite sul territorio italiano. Il pubblico che
aveva accesso all’edicola, fatto di lettori e non- lettori, ha risposto con entusiasmo all’offerta dei
libri abbinata ai giornali: circa un milione di nuovi lettori si sono avvicinati in tal modo al libro,
accettando un’offerta che aveva caratteristiche molto distanti da quella fatta, tipicamente, nel
circuito delle librerie. I libri venduti attraverso il canale delle edicole, infatti, sono libri pre-scelti
dall’editore (che non hanno richiesto una scelta da parte dell’acquirente), costano poco e sono
stampati in grandissimi volumi. In questo modo, gli edicolanti hanno finito per vendere qualcosa
come 40 milioni di libri, comprese alcune Enciclopedie.
E’ opinione degli intervistati che le vendite dei libri nei canali normali non abbiamo risentito
più di tanto della valanga di libri che, attraverso le edicole sono entrate nelle case dei consumatori.
Ne hanno sofferto un po’ le vendite a catalogo e i libri super-economici, mentre i lettori forti non
hanno disertato per questo le librerie. Gli acquirenti del libro in edicola, infatti, o sono da cercare tra
il pubblico dei non- lettori o dei lettori saltuari, che il nuovo canale aggiunge – non toglie - a quelli
che frequentano le librerie. Oppure si tratta, in una certa percentuale, di lettori abituali che, tuttavia,
acquistano una seconda copia di libri (in genere i classici) per completare la propria biblioteca o
magari per arredare la seconda casa.
Il giudizio prevalente degli intervistati su questa operazione è che questa offerta, raccolta
senza esitazione dal pubblico, ha avuto molte ricadute positive, perché:
1. ha consentito di “scoprire” un bisogno latente (di acquisto libri per lettura o per
“arredamento”) che la precedente distribuzione non riusciva ad intercettare;
2. ha portato un buon numero di libri a contatto di un pubblico più vasto di quello che
frequenta le librerie (che resta, per certi versi, un pubblico di élite);
22
3. ha consentito di fare un’operazione culturale di diffusione di libri fondamentali della
letteratura europea e italiana (come i Promessi sposi);
4. potrà indurre, nel tempo, una curiosità verso i libri, disponibili in casa, da parte delle nuove
generazioni o di non- lettori che finora non si sentivano parte del circuito della scrittura.
Per contro, i librai paventano non solo una perdita di potenziali clienti, dirottati sul nuovo
canale dalla concorrenza al ribasso dei prezzi, ma anche un impoverimento del tessuto dei lettori
forti e fedeli su cui si regge la libreria, se una parte di questi satura il suo tempo-lettura con i
maggiori acquisti fatti in edicola.
Alla ricerca di nuove formule distributive per giornali e libri
Il bisogno latente di possedere libri, e poi di leggerli, è in questo caso legato non tanto alla
“comodità” di reperimento dei libri, quando dalle caratteristiche peculiari della distribuzione
(edicole) e dell’offerta (abbinamento). Infatti bisogna considerare che:
• le edicole sono diffuse e prive di pretese intellettuali, cosa che può essere rilevante per chi
acquista);
• i libro è stato pre-scelto dall’esperto (l’editore), e non richiede un processo impegnativo di
selezione da parte dell’acquirente;
• il giornale abbinato fa da garante della qualità o dell’orientamento culturale del libro
venduto;
• il prezzo deve essere abbastanza basso da ammettere anche la possibilità che il libro non
venga poi effettivamente letto, e resti a fare soltanto “arredamento”.
Del resto anche le librerie stanno percorrendo, da parte loro, una strada che va nella stessa
direzione: quella di intercettare il pubblico seguendo le sue preferenze e i suoi luoghi di ritrovo.
Feltrinelli, ad esempio, ha affiancato alla catena delle librerie, una serie di esperienze che tolgono al
libro l’immagine sacrale che lo separa dalle nuove generazioni e dalla cultura di massa. Il libro è
portato nei megastores, che hanno ampi spazi di ricreazione e di intrattenimento, con corredo di
dischi e di libri rivolti soprattutto ad un pubblico giovanile. Inoltre, il libro può anche andare nei
piccoli centri commerciali della periferia, entrando in strutture che vendono molte altre cose
(necessarie per l’equilibrio economico dell’iniziativa) ma che tendono ad autonomizzarsi – quando
è possibile – dal resto diventando librerie embrionali.
Tuttavia, la risposta del pubblico al packaging proposto dalle edicole ha un suo intrinseco
interesse, perchè consente di vedere in modo diverso il problema della distribuzione. Oggi, negli
ambienti del marketing editoriale si comincia a negare che:
a) le edicole siano soltanto un canale arretrato, che frena la diffusione dei giornali e che
non è adatto alla distribuzione di libri o altri gadget (inventati per spingere le vendite dei
giornali). Le edicole infatti possono essere anche un mezzo di contatto e interazione col
pubblico dei potenziali lettori che non entra normalmente in libreria, ma che non è
insensibile al fascino del libro o del supplemento, allegato al giornale;
b) l’aumento di efficienza nella distribuzione libraria passa appoggiarsi esclusivamente al
canale librerie (debitamente razionalizzate e ingrandite), con qualche appoggio esterno
(le vendite online). Bisogna in realtà pensare ad utilizzare simultaneamente diversi
canali, facendo proposte editoriali differenziate (e complementari) per ciascuno di essi.
L’esperienza è degli abbinamenti sta anche cambiando la natura del prodotto editoriale, dal
punto di vista dei produttori di giornali quotidiani e periodici, che hanno beneficiato del “traino”
legato agli abbinamenti. Anche i giornali hanno aumentato le tirature e “incontrato” nuovo pubblico
attraverso la sollecitazione del supplemento o del gadget gratuito, dello sconto su giornali abbinati,
della cassetta, del CD o del libro allegati. Le vendite sono cresciute, avendo anche ricadute
pubblicitarie interessanti sui ricavi. Lo stesso vale per i produttori di CD musicali e enciclopedie:
abbinando il loro prodotto al giornale hanno avuto risultati di vendita che non avrebbero avuto nei
23
canali dedicati.
Si sta dunque realizzando, nella distribuzione, una forma di convergenza di canale che
sostituisce, in una certa misura, l’attesa (e non ancora avvenuta) convergenza digitale tra i media.
La convergenza di canale avviene nel momento in cui giornali, libri, CD musicali e altri oggetti
affluiscono verso lo stesso canale (quello delle edicole, o quello delle librerie, ad esempio). E nel
momento in cui i canali non si specializzano più in funzione dell’oggetto trattato (il giornale, o il
libro, o il disco), ma si specializzano in funzione del segmento di pubblico con cui sono in contatto,
facendo in modo di vendere a questo pubblico tutti la gamma degli oggetti che prima erano
acquistabili solo in canali differenti.
Questa nuova logica distributiva, per affermarsi, avrà bisogno di una riorganizzazione
profonda degli spazi espositivi delle edicole, delle librerie e dei negozi di CD musicali, in modo da
rendere facile l’esposizione e l’acquisto di una gamma ampia di articoli al pubblico che li frequenta.
E ha anche bisogno di una diversa, e più integrata, rete di distributori locali, capaci di interagire con
il sistema delle edicole, delle librerie e dei negozi di CD musicali. Ma, col suo procedere, finirà per
portare nuovamente in evidenza il fatto che la convergenza essenziale è quella che permette al
consumatore finale di entrare in contatto facilmente, e col minimo di barriere, con tutta l’offerta di
comunicazione che gli interessa, a prescindere dalla sua natura e dal medium impiegato per
comunicare. L’elemento strategico di questa riorganizzazione, dunque, è il rapporto col cliente: da
questo rapporto, che deve essere il più diretto e fluido possibile, devono dipartirsi canali, media,
programmi- contenitore di varia natura, che sono di volta in volta attivati dal consumatore in
funzione delle sue esigenze di personalizzazione della comunicazione.
Ciò non toglie che, per una fascia di pubblico che risulterà più o meno vasta (non lo
sappiamo), la comunicazione standardizzata di massa, con canale e medium prefissato, sia ancora la
prima scelta. Per tutti gli altri, tuttavia, c0è bisogno di fare evolvere il sistema attuale che non dà al
consumatore ancora una facoltà di scelta e di attivazione facile delle comunicazioni desiderate.
Piccoli e grandi editori: alla ricerca di nuove strategie
La produzione stessa ha bisogno di riorganizzarsi per aderire a questa nuova rete di contatto
col le diverse fasce di pubblico.
Nell’editoria libraria, ad esempio, i piccoli editori hanno problemi rilevanti di contatto col
pubblico che dovrebbero idealmente servire. Da un lato, faticano ad avere spazio nelle librerie (il
canale delle edicole ha in genere precluso dal tipo di libro che viene venduto, in grandi volumi e di
contenuto classico). Dall’altro perdono gli autori più promettenti perché non sono in grado di
offrire, come i grandi, passaggi televisivi, rapporti con giornali o traduzioni cinematografiche. Fino
a che la multimedialità non diventa una rete accessibile a tutti, da basso, e resta appannaggio di
pochi grandi gruppi, la crescita di peso dell’intersezione tra i media aumenta il vantaggio
competitivo dei grandi nei confronti dei piccoli. Il terzo anello debole è dato dai distributori –
lavorando con i grandi o dipendendo da essi - che fanno condizioni onerose ai piccoli editori.
Per uscire da una tendenza che non li avvantaggia, i piccoli ha nno la chance, avvertono i
nostri intervistati, di cavalcare la tigre del cambiamento, invece di rintanarsi in difesa. Ossia di
cominciare – anche consorziandosi o cercando alleati – a ricercare canali più ampi di rapporto col
pubblico e con gli autori, ad esempio con l’uso di una pluralità di canali in cui i contenuti possono
essere adattati. I piccoli editori potrebbero, in altri termini, diventare content producers, affiancando
gli autori nella valorizzazione dei contenuti dei libri su più canali e su più pubblici.
Non ci sono all’orizzonte novità che promettano un allenamento delle difficoltà economiche
dei piccoli editori, perché la trasformazione intravista è comunque difficile e non potrà essere
avviata da tutti. Per adesso i piccoli devono affidarsi alla capacità di trovare autori e pubblici di
nicchia, che possano espandersi ma senza richiamare competitors più forti sul loro segmento. La
scoperta dei “comici”, ad esempio, è stata un evento inatteso che ha dimostrato l’esistenza di
domande insoddisfatte in questi campi. E ha anche chiarito che esiste una domanda di massa
soprattutto per libri facili, di immediata leggibilità. I libro nella sua forma canonica resta, in Italia,
24
un fenomeno di élite.
I grandi editori, probabilmente, continueranno ad avere una capacità di attrazione verso quei
piccoli che non riescono a consolidare un rapporto con il loro pubblico di nicchia. Ma anche se il
processo di fusioni e acquisizioni andrà avanti, forse la soluzione ideale per un grande gruppo è
quella di mantenere una pluralità di identità, e dunque di linee editoriali, in funzione dei marchi e
delle case che entrano nella sua orbita, in modo da poter aderire alla nuova geografia del consumo,
più stratificata e differenziata che in passato.
Un dubbio e uno stimolo: il giornale diventa un “contenitore” di materiali eterogenei
Si è trattato di un’evoluzione, in qualche misura necessaria per allargare la base di
diffusione e competere con il potere di attrazione della televisione. Tuttavia, come hanno segnalato
alcuni degli intervistati, si tratta anche di un’evoluzione che comporta qualche elemento di
preoccupazione, perché segna la trasformazione del giornale in un “contenitore” di materiali
eterogenei. Spesso il contenuto giornalistico del package venduto è meno importante (per chi
acquista) del gadget o del libro/supplemento a cui è abbinato.
Questa tendenza tende a cambiare anche l’ottica editoriale con cui viene prodotto il
giornale-contenitore, sempre più attenta alle esigenze di marketing che vadano incontro al pubblico
addizionale (il pubblico dei non- lettori), col solo limite di non scontentare troppo i lettori
tradizionali, affezionati al contenuto giornalistico. La ricerca di redditività a breve termine, con pure
operazioni di marketing (abbinamenti ecc.), può andare a scapito della qualità a lungo termine,
legata al contenuto giornalistico del “contenitore” venduto. In questo caso, l’espansione della
quantità, deteriorando la qualità del contenuto, può mutarsi a lungo termine in disaffezione verso il
giorna le dei lettori maggiormente fedeli, con un danno irreversibile, perché i nuovi lettori, attratti
dai gadget o dai supplementi, e spesso sollecitati dalla logica del gratuito o del quasi- gratuito, sono
quelli più difficili da trattenere, trasformandoli in lettori disposti a pagare per i contenuti.
25
4. Come si guarda al futuro
La chiave di lettura dei problemi non è più la stessa dello scorso anno
I cambiamenti emersi nel corso dell’anno hanno mutato, in modo sensibile, la prospettiva
con cui gli operatori guardano al proprio business.
Nell’indagine fatta lo scorso anno, i nostri interlocutori erano consapevoli di trovarsi in una
situazione abbastanza assestata, in cui le quote di mercato dei diversi operatori potevano mutare
solo marginalmente. Non a caso, tutti i ragionamenti ruotavano intorno ai fattori capaci di incidere
sui ricavi ritraibili da un mercato sostanzialmente dato.
Soprattutto due erano i fattori rilevanti su tale terreno:
v il calo della pubblicità, che essendo ineguale spostava la posizione dei diversi segmenti e dei
diversi gruppi;
v la diffusione della cultura del gratuito, ossia l’abitudine del consumatore di avere a disposizione
spettacoli, notizie, informazioni senza doverle pagare di tasca propria.
Calo della pubblicità e espansione dello spazio del gratuito possono, infatti, incidere
notevolmente sui ricavi ritraibili dal sistema.
La pubblicità infatti non diminuisce per tutti gli operatori della comunicazione allo stesso
modo: in momenti di difficoltà, infatti, sono soprattutto alcuni settori a tagliare il budget
pubblicitario e i tagli ricadono più su certi media che si altri, più su certi operatori che su altri.
Lo stesso vale per l’espansione del consumo gratuito o semi- gratuito di comunicazione. Un
consumo che non è neutrale rispetto ai diversi segmenti in cui è diviso il mercato delle
comunicazioni. In alcuni casi il gratuito è addizionale; in altri è, almeno in parte, sostitutivo di
prodotti venduti a pagamento.
Questo fenomeno di spiazzamento si è già in passato verificato per l’espansione vertiginosa
della pubblicità fatta sulla tv commerciale, dove il prodotto gratuito televisivo ha fatto aumentare le
audiences, catturando così gran parte degli incrementi pubblicitari.
Il prodotto offerto gratuitamente e finanziato dalla pubblicità è remunerativo, per chi offre,
solo se l’audience è così elevata da fruttare ricavi pubblicitari rilevanti, tali da sopravanzare i costi.
Il finanziamento pubblicitario, in questo senso, non è nemico della qualità, ma piuttosto è vincolato
a grandi bacini di pubblico: dunque non può offrire prodotti personalizzati, mirati; né prodotti di
qualità nella misura in cui questi sono rivolti a segmenti limitati di mercato.
D’altra parte, il consumatore di un prodotto che riceve gratuitamente o quasi sa di non poter
essere molto esigente in termini di qualità o di personalizzazione con qualcosa che non paga (o,
meglio, che paga solo con il tempo e con l’attenzione prestata). Lo sviluppo di massa della tv
commerciale ha abituato gran parte del pubblico al consumo gratuito e non troppo esigente di
prodotti della comunicazione.
Questo atteggiamento – non pagare, accettando anche prodotti che non corrispondono
pienamente alle proprie esigenze – ha finito poi per diffondersi a macchia d’olio. I consumi gratuiti
della maggior parte dei servizi forniti via Internet, la free press e gli inserti gratuiti nei giornali
hanno esteso la cultura del gratuito a tutti i media. In parallelo, la ricerca della comunicazione
gratuita ha alimentato una rilevante pirateria televisiva (specialmente tra il pubblico degli sportivi) e
audio-visiva (tra i giovani).
I problemi precedenti cominciano ad essere visti in una prospettiva nuova …….
Abbiamo provato a riproporre le due questioni sopra richiamate (calo della pubblicità e
inclinazione al gratuito) ai nostri interlocutori, ma ne abbiamo ricavato l’impressione che oggi
26
questi temi non siano più centrali come l’anno passato. I cambiamenti strutturali che si intravedono
nei prossimi anni suggeriscono infatti di pensare non a come ripartire diversamente un monte di
risorse dato, ma a come innovare prodotti e posizionamento, aumentando, insieme, la grandezza
della torta e la quota di spettanza.
La raccolta pubblicitaria, infatti, è ancora in calo, ma quello che più interessa, al di là della
congiuntura negativa, è il fatto che essa possa essere, nel prossimo futuro. fortemente influenzata
dal cambiamento (atteso) della regolamentazione del mercato (legge Gasparri), accoppiata
all’avvento del digitale terrestre e della nuova pay tv di Sky-Murdoch.
Anche la questione del gratuito, pur non essendo superata, sta cambiando natura. Non è più
soltanto vista come una decurtazione (negativa) del monte-ricavi, ma diventa espressione di una
domanda latente (e insoddisfatta) di comunicazione, che si fa strada solo attraverso le finestre di
sperimentazione a basso costo di cui i consumatori dispongono grazie al gratuito o al semi- gratuito.
La soluzione, cioè, non è di respingere questa domanda latente nel ghetto del non-consumo,
privandoli della comunicazione non pagata, o di abbandonarli al deterioramento qualitativo che
quasi inevitabilmente si accompagna al non-pagamento. Ma di recuperare la loro disponibilità a
fornire tempo e attenzione alla comunicazione, educandoli lentamente al valore che questa può
avere per le loro esigenze.
La domanda di comunicazione, in altri termini, viene ora vista come una domanda
stratificata, sia in termini di disponibilità a pagare, sia in termini di esigenze di
qualità/personalizzazione del prodotto richiesto. La parte bassa della piramide – prodotti a gratuiti o
a basso costo – ha il compito di mantenere il contatto con il pubblico meno interessato alla fruizione
di forme complesse di comunicazione: un pubblico che, dovendo pagare, probabilmente si
ritirerebbe dal mercato, o rifluirebbe in circuiti illegali (pirateria). La gratuità del consumo agisce
come fattore di sensibilizzazione e di esperienza, che immette comunque in un circuito o in
un’abitudine.
La scommessa delle imprese è di utilizzare questa esperienza pregressa di milioni di persone
per indurre una parte di esse a pagare per prodotti di qualità/personalizzazione più elevata. E questo
può avvenire educando progressivamente il pubblico ad un diverso rapporto col consumo di notizie,
intrattenimento, fiction ecc..
Comincia, dunque, a circolare una nuova visione del problema: c’è una scalarità nel
bisogno di comunicazione che non deve essere ignorata. La latitudine del bisogno va da un servizio
povero, cui si può dedicare tempo e attenzione solo non pagando (o pagando poco), a un servizio
qualitativamente più ricco, interessante, personalizzato, per il quale si è disposti a fornire il proprio
tempo, la propria attenzione e anche a pagare.
In effetti, sul fronte televisivo si attende, da quest’anno, il rilancio della pay tv in forme che,
probabilmente, potranno educare un segmento di pubblico abituato al gratuito a chiedere maggiore
qualità in cambio del prezzo pagato. E’ la stessa via che si sta percorrendo per ricostruire la
credibilità dei servizi ricavati da Internet, in cui la disponibilità a pagare implica, per contropartita,
un valore aggiunto elevato del servizio da acquistare.
Usando il concetto di scalarità del bisogno, si può dire che il giornale gratuito non è in
concorrenza con il giornale a pagamento, perché si rivolge ad un pubblico diverso. Allo stesso
modo, la vendita quasi- gratuita di libri o, addirittura, di enciclopedie in edicola, in associazione ai
giornali, non è necessariamente in concorrenza con la vendita dei libri (a prezzo più elevato) ne i
canali commerciali ordinari (librerie, supermercati, vendite online): si tratta di prodotti/servizi
diversi, che, sul mercato, possono essere additivi, non sostitutivi.
Fenomeni come quello del bookcrossing (il “dono” di un libro abbandonato su una panc hina
perché un altro lo possa leggere) mettono in evidenza la rilevanza dei significati che il
“consumatori” di libri danno alla loro esperienza. E’ da questi significati che bisogna partire per
comprendere anche la diversa disponibilità a pagare per contenuti e contesti di comunicazione
diversi.
27
….. e, soprattutto, rimangono alcune questioni aperte
Dalle interviste emergono, in conclusione, quattro questioni chiave, che, per i nostri
interlocutori rimangono aperte, suscettibili di sviluppi e interpretazioni differenti:
a)
mutamenti nella geografia dell’offerta, che possono cambiare anche l’atteggiamento della
domanda;
b)
il ritorno dei contenuti al centro della concorrenza tra canali distributivi, media
tecnologici e programmi-contenitori;
c)
lo sfuocarsi della convergenza tecnologica, tra i diversi media, che tuttavia comincia ad
alimentare nuove forme di segmentazione del mercato, non più in funzione dei media, ma
del tipo di pubblico a cui ci si rivolge;
d)
la possibilità di una globalizzazione a medio raggio, rivolta ai paesi europei (e in
particolare ai nuovi paesi dell’Est-Europa), e appoggiata alle specificità nazionali di
maggior successo (cibo, moda, arte ecc.) o a competenze originali sviluppate, nel nostro
paese, nell’uso dei canali, nella costruzione di format, nell’elaborazione di contenuti.
Un’offerta che crea la sua domanda (a)
La domanda che il pubblico attuale rivolge ai canali, ai media, ai programmi-contenitori e ai
produttori di contenuti è adattata a quanto l’offerta produce e propone.
Un’offerta bloccata in una struttura settoriale vincolata ai media impiegati (tv, giornali, libri
ecc.) e controllata – nei vari settori - dai maggiori protagonisti ha creato, nel tempo, una domanda
captive che, in gran parte, si rivolge alla tv generalista e gratuita, in parte minore acquista giornali e
in parte ancora minore consuma libri o audio-visivi, con un elevato livello di fedeltà.
In una situazione del genere, i cambiamenti nell’offerta vanno valutati anche per gli effetti
“liberatori” – di iniziale disorientamento e di successivo ri-orientamento – che hanno sulla
domanda. Se cominciano a muoversi i confini tra settori e se, in ciascun segmento, comincia a
mutare l’offerta degli operatori maggiormente in vista, la domanda può essere indotta ad assumere
un atteggiamento meno fedele o tradizionale, reclamando un maggior ruolo nella co-produzione del
consumo di comunicazione.
Come abbiamo detto, ci troviamo di fronte alla prospettiva di un’offerta che – per varie vie promette di rendere accessibile al pubblico una gamma di programmi molto più ampia e
differenziata di quella attuale. Aumentando la gamma delle proposte di fruizione tra cui scegliere, il
cambiamento dell’offerta tende a generare un atteggiamento diverso nella domanda, che da una
fruizione passiva, come l’attuale, viene sollecitata a scegliere ed eventualmente a pagare, ossia ad
assumere un atteggiamento più attivo ed esigente.
Il ritorno dei contenuti (b)
Nella visione di molti degli intervistati, i contenuti – come abbiamo detto - stanno tornando
al centro del sistema di produzione, potendo, una volta prodotti, essere valorizzati su una pluralità
di canali distributivi, di media tecnologici, di contenitori-prodotto (programmi televisivi, testate
giornalistiche, collane editoriali ecc.).
Alcuni degli intervistati, per la verità, non vedono in futuro un’evoluzione che rafforza i
produttori di contenuti nei confronti degli utilizzatori degli stessi (proprietari dei programmicontenitore, dei media e dei canali distributivi). L’argomento è che i contenuti, ormai, sono
diventati commodities: specialmente nel mercato delle grandi audiences (televisivi), i contenuti
sono ottenuti da format standard e vanno incontro a gusti medi, secondo modelli prefabbricati. In
altre parole, sono facilmente sostituibili.
28
Perché i contenuti possano contare, nel mass market dove tutti si assomigliano, bisogna
differenziali con un brand, con un marchio, che li renda facilmente riconoscibili al pubblico. La
commercializzazione dei contenuti, che investe nel marchio e che tiene i contatti con i destinatati
dei contenuti, ha una forza superiore a quella dei produttori di contenuti, armati solo di buone idee o
di buone strutture produttive, flessibili e a basso costo. Se il cliente finale non riesce a riconoscere il
contributo particolare, unico, dello specifico produttore di contenuti, questo è completamente
dipendente da chi controlla la relazione (il programma, il canale, il medium) o di chi controlla il
brand.
Tuttavia, non tutto il mercato della comunicazione è necessariamente mass market, e non
tutti i prodotti devono nascere già con un’audience pre- garantita. In una comunicazione meno
ingessata e più bilaterale, ci possono essere prodotti sperimentali che si affermano gradualmente e
che non devono necessariamente appoggiarsi ad un brand costoso, o ad un canale che intercetta
tutto il valore aggiunto. Il tipo di gioco competitivo che viene giocato nella filiera dipende anche
dalla domanda del pubblico: se il pubblico diventa maggiormente attivo e intelligente, chiedendo
idee nuove e contenuti personalizzati, allora i produttori di contenuti possono occupare nicchie
riconoscibili e servire in modo flessibile un mercato che viene a dipendere dalla loro velocità di
risposta e flessibilità di adattamento.
Non c’è un solo “pubblico”. I pubblici sono tanti e ciascuno desidera contenuti e linguaggi
diversi. Il produttore che diventa identificabile nella produzione di contenuti per un determinato
pubblico acquista una competenza distintiva e un vantaggio competitivo (Severino Salvemini) 7 . I
talenti stessi possono essere fonte di ricchezza per chi li ingaggia: una scuderia di talenti che
crescono nel corso del tempo, consente di produrre contenuti che possono essere avviati a media e
destinatari differenti. Ma sempre avendo ben presente qual è il segmento specifico di pubblico – e
quindi di linguaggio, di aspettative, di consumo – a cui ci si vuole riferire.
E’ forse possibile immaginare che anche nell’industria della comunicazione si riproduca la
dinamica distrettuale che si è realizzata per la produzioni materiali – con molti piccoli produttori
assemblati da una divisione del lavoro flessibile – e capaci di muoversi attivamente nei canali che li
proiettano verso i clienti e verso il consumo finale. Da questo punto di vista, un limite importante
per le nostre produzioni è la barriera linguistica, che riduce le capacità di esportazione e dunque le
possibilità di specializzarsi flessibilmente in funzione di una domanda mondiale di contenuti, che
sottrae i produttori alla dipendenza da pochi committenti, che controllano il rapporto col mercato
italiano.
Comunque sia, ci sono alcune buone ragioni che rendono i contenuti più importanti che in
passato.
Prima di tutto, perché devono intercettare un pubblico che, grazie alla maggiore possibilità
di scelta, diventa più mobile, potendo spostarsi con facilità da un canale distributivo all’altro, da un
media ad un altro, da un contenitore all’altro. Fino a poco tempo fa, il pubblico era, per abitudine e
per fidelizzazione, ripartito in modo assolutamente prevedibile tra i diversi canali, media e
contenitori. Cosicché i contenuti erano “prigionieri” di canali, di media e di contenitori prestabiliti,
potendo raggiungere il proprio pubblico potenziale solo attraverso la mediazione di un canale, di un
medium e di un contenitore specifico. Con un pubblico che torna ad essere mobile, il modo con cui
canali, media e contenitori possono intercettarlo è quello di dotarsi di quei contenuti che certi
consumatori preferiscono ad altri e che consentono di differenziare la propria offerta.
Nella produzione di contenuti, è possibile con limitati investimenti predisporre fin
dall’inizio l’uso multimediale di quanto si produce (notizie, fiction, intrattenimento ecc.),
immaginando un successivo uso televisivo (vari canali), radiofonico, giornalistico, e anche nella
nuova telefonia. Ovviamente si tratta di convertire un certo contenuto in testi, immagini, sonoro,
filmati ecc. che vadano su media differenti. Aumentando il bacino di uso con costi di poco superiori
si può innovare il modo di produrre contenuti, aumentando i margini, se fin dall’inizio la
7
Intervista su “Milano e le imprese di comunicazione”, per il Forum dell’Osservatorio.
29
prospettiva della multimedialità non è solo un auspicio, il frutto di una rete di canali predisposta in
partenza.
Il produttore di contenuti, a sua volta, non deve auto-produrre da solo il programma da
proporre al cliente, ma deve contare su una rete di outsourcing fatta di persone e imprese
competenti in aspetti diversi, che possano essere attivate a seconda del bisogno. Ogni impresa di
questa rete deve avere ben chiara la sua specificità, ossia la fonte del suo (eventuale) vantaggio
competitivo rispetto ad altri concorrenti: è da questa specializzazione di campo che nasce la
necessità di avere una rete di relazioni cooperativa con altri, e di allargare al massimo il bacino di
vendita di quanto si fa e si assembla. Le imprese italiane che operano in questo campo possono
avere competenze specifiche sugli oggetti di cui si occupano, ma hanno anche specificità e vantaggi
legati alla conoscenza del nostro paese: delle sue specificità culturali, delle sue fobie e del suo modo
di interpretare il mondo. Le notizie che provengono dalle grandi agenzie internazionali non sono
immediatamente fruibili dal pubblico italiano, che preferisce avere un servizio capace di
interpretarle e adattarle in partenza ai nostri interessi e schemi di lettura. Senza dire che ci sono
alcuni argomenti in cui l’Italia ha sviluppato originalità che possono interessare – e interessano – il
pubblico di altri paesi e che devono essere rilevate all’origine, per essere immesse nella rete della
comunicazione e rielaborazione internazionale.
Dunque, ci sono spazi per far crescere una rete di produttori autonomi di contenuti che
cerchi in certe competenze distintive la propria ragione di esistenza.
Inoltre, i contenuti possono acquistare maggiore autonomia dai media perché la
comunicazione è strettamente legata alla condivisione sociale di linguaggi e di problemi. Questa
condivisione è stata, finora, artificialmente creata dai media (“si può discutere al bar, con gli amici,
al lavoro della partita vista il giorno prima in tv, grazie al fatto che tutti o quasi l’hanno vista). Ma
col progressivo rafforzarsi delle comunità tra abitanti interessati ad un certo sistema territoriale,
consumatori possono emanciparsi dalla mediazione preventiva del mezzo tecnologico e creare il
proprio linguaggio e la propria sfera di condivisione prima di essere messi in contatto dal mezzo
televisivo. Ad esempio si possono formare comunità tra consumatori che hanno la stessa passione
(per lo slowfood, per lo sci, per il giardinaggio, per le moto ecc.), tra professionisti che si danno una
mano a coltivare lo stesso mestiere, o tra volontari che si dedicano allo stesso bisogno. La
condivisione sociale di un linguaggio e di un problema può, in tutti questi casi, precedere la
comunicazione televisiva e vincolarla a quel linguaggio, a quel problema.
E’ quanto vediamo ad esempio, nello sport. La televisione in certi casi aderisce e
rappresenta un circuito di condivisione sociale che già esiste, e che piega il mezzo alla sua
specificità locale e alla sua scala. Ma in altri casi, è la televisione trasforma la partita di calcio in un
evento fruibile da un bacino di pubblico più ampio, ridefinendone i significati iniziali.
Anche in media, in questo senso, si stratificano in una piramide caratterizzata dalla
scalarità. Alla base stanno i circuiti comunicativi emergenti dalla spontaneità sociale, appoggiati a
media comunicativi leggeri, decentrati, flessibili, tali da aderire alle pieghe di una comunicazione
molto personalizzata. Al vertice si trovano invece i circuiti comunicativi forti, che hanno
interiorizzato storie sociali inizialmente personali e locali per farne paradigmi ed eventi nazionali o
internazionali. Nel mezzo, i media che fanno la spola tra le due sponde, cercando di essere
abbastanza permeabili da assorbire i fenomeni emergenti, ma anche abbastanza rigidi da farli
proprie, rilanciandoli nei grandi bacini di utenza standardizzata a cui si rivolgono.
In un sistema di media caratterizzato dalla scalarità, i contenuti dotati di valore (per gli
utenti) possono essere:
• locali, ossia legati ad uno specifico territorio, come fanno le tv o i giornali locali;
• glocali, che fanno da ponte tra locale e globale, nel senso trasformano contenuti locali in
notizie, programmi, storie che possono essere replicate a scala globale, previa traduzione
in ciascun specifico contesto locale di uso;
• modulari e standardizzati, che consentono di riprodurre lo stesso format (a basso prezzo) in
molti paesi, con pochi adattamenti e poca originalità;
30
• auto-organizzati, col contributo attivo del fruitore, che si pone in posizione di pro-sumer. E’
quanto emerge nel fenomeno interessante, anche se per ora marginale, delle “tv di strada”
(che, con pochi mezzi e con molto vo lontariato, trasmettono semi- legalmente in un
caseggiato o in un quartiere).
Convergenza e nuovi stili di consumo (c)
La previsione della convergenza tra i diversi media, in ragione della digitalizzazione, non
sembra – dopo la crisi della new economy – più immediata. Tv, giornali, libri, radio continuano ad
essere segmenti diversi e ben distinti: con un proprio pubblico, con propri canali di
distribuzione/diffusione, con proprie aree di insediamento, con propri contenuti e contenitori.
Tuttavia, la convergenza rimane una forza sotterraneamente all’opera. Infatti, grazie alla
digitalizzazione dei suoni e delle immagini, ogni comunicazione può facilmente arrivare ai
potenziali fruitori attraverso una pluralità di media (multimedialità), che danno accesso, in genere,
anche a pubblici differenti o in differenti condizioni (in casa, in ufficio, in auto, ecc.). Ciò comporta
una conseguenza economica molto rilevante: lo stesso contenuto aumenta di valore man mano che il
suo bacino di destinazione si estende, con l’aiuto di più media.
Questo incremento di valore induce le imprese ad attraversare i confini tra un medium e
l’altro, incrociando in vari modi offerta televisiva, giornalistica, libraria, cinematografica, audiovisiva e virtuale (online). Un libro, ad esempio, può essere pubblicizzato in una trasmissione
televisiva e reso popolare se viene tradotto in un film di successo. Il film (o la tv) retroagiscono sul
mercato librario, spingendo le vendite del libro e delle successive opere dell’autore in funzione
della notorietà acquisita.
Fino a poco tempo fa, si parlava di convergenza immaginando che essa potesse avvenire
affiancando alla comunicazione tradizionale la sua forma online (il giornale online, il libro
elettronico, la tv in rete, la musica e le videocassette accessibili via Internet ecc.). E’ una strada che,
con la crisi di Internet, si è rivelata assai più impervia di quanto sembrasse.
La convergenza tra reale e virtuale, dunque, è regredita, disaccoppiando, in una certa misura,
i media tradizionali dall’online, e ristabilendo le distanze. Ma la digitalizzazione non è venuta
meno, e sta anzi progredendo: la sovrapposizione tra i media nasce dal fatto che – anche a
prescindere dal virtuale - è diventato facile e poco costoso il trasferimento dello stesso contenuto da
un medium all’altro. La caduta dei confini da i diversi media, sia dal lato dell’offerta che da quello
della domanda, è destinata ad aumentare anche se procede lentamente nel tempo.
La convergenza, in questo senso, si materializza prima di tutto presso il consumatore, che
sta abituandosi ad usare una pluralità di media. Il processo trainante è la lenta modificazione delle
abitudini di consumo, non solo nel senso che il consumo diventa multimediale, ma anche nel senso
che – grazie ai nuovi mezzi – si sviluppano possibilità di interazione e di auto-organizzazione della
fruizione che in precedenza non erano possibili.
Questa tendenza dà crescente importanza all’attrezzatura presente a casa dell’utente (o nel
luogo di lavoro) perchè la comunicazione viene rielaborata in modo attivo dal consumatore,
attraverso una propria attrezzatura e una propria intelligenza di scelta: del tempo di fruizione, del
tipo di programma, del package in cui deve essere contenuto. Ad esempio, un’élite di consumatori
potrà presto acquistare un ricevitore di segnali con hard disk che gli consente di ricevere, registrare
e montare ciò che gli interessa ascoltare, scegliendolo da un’ampia gamma di programmi trasmessi
o stoccati (in file audio- video). In alternativa, l’utente può sviluppare un sistema di relazioni con
comunità peer to peer, intermediari, consulenti che gli consente dare valore al prodotto
comunicativo in quanto prodotto condiviso con altri.
Diventano critici i mezzi di relazione con cui le imprese offerenti di contenuti e di servizi di
comunicazione entrano in contatto con questo tipo di consumatori, che appartengono in parte alla
fascia ad alto reddito e ad alta educazione, ma in parte anche alle fasce giovanili, maggiormente
31
sensibili al nuovo, alla ricerca di stili di vita inconsueti e alle mode. La comunicazione, lentamente,
sta cambiando di significato e il consumo assegna allo spettacolo televisivo, al libro, al giornale una
funzione differente rispetto alle proprie esigenze e alla propria organizzazione di vita. La tendenza
verso l’uso massificato e gratuito di una parte importante della comunicazione ha diseducato il
pubblico, che, per seguire i nuovi trend (più differenziati e partecipativi) deve aumentare l’intensità
delle emozioni e dei significati assegnati alla fruizione.
La multimedialità abbassa le barriere tra i media e riduce il peso della segmentazione del
mercato in funzione dei media. I “contenuti”, in altre parole, si liberano dai “contenitori” che li
hanno finora tenuti prigionieri e vincolati ad un medium specifico. Perso il vincolo mediatico, i
contenuti possono fluire su più media, utilizzare canali multipli per raggiungere il cliente, ed essere
valorizzati in modo maggiore, perché – sommando media e canali differenti – possono raggiungere
un bacino più vasto di potenziale pubblico. Certo che, a questo punto, si pone il problema di quale
tipo di pubblico.
In precedenza, il pubblico era, in un certo senso, definito dal medium impiegato: la tv
generalista ha un certo pubblico, abituato al genere di prodotti che sulla tv generalista tiene elevata
l’audience (niente di focalizzato o tematico potrebbe vivere in quel contesto). I produttori di
contenuti sono forzati ad adeguarsi a quel tipo di pubblico, e dunque ad allinearsi alle esigenze del
mezzo.
Nella prospettiva multimediale e della moltiplicazione dei canali di contatto col pubblico
non è più così. Poiché il pubblico non è più “prigioniero” (o fedele) ad un solo medium, i contenuti
possono raggiungerlo senza necessariamente essere standardizzati e normalizzati dalle esigenze del
particolare medium impiegato. Fruitore e produttore di contenuti possono trovare modo di
comunicare in modo flessibile, senza barriere o vincoli troppo pesanti da parte dei media che
impiegano. Questa è la base per una ri-segmentazione dei contenuti in base alle visioni ed esigenze
dei vari gruppi di clienti-consumatori, e non più dei media che veicolano la comunicazione.
Appare, all’orizzonte, un’ inversione di pesi e di gerarchie: i media e i canali diventano
sostituibili, man mano che si mettono in concorrenza tra loro per “catturare” contenuti interessanti.
Mentre i contenuti aumentano di valore grazie alla replicazione (a basso costo) che ne allarga il
bacino di fruizione e grazie alla possibilità di propagarsi creativamente, cambiando qualcosa di un
format originale elaborato in un altro contesto.
I giovani, ad esempio, sono abituati ad avere un accesso multimediale al mondo della
comunicazione, avvicinandosi ad una notizia o ad un evento attraverso la tv, il telefonino, la radio,
le fonti audio-visive e anche (sia pure raramente) la carta stampata. Ma è una tendenza che, in una
certa misura, non lascia esenti nessuno. Quanto più il consumatore di abitua ad usare una pluralità
di media, a seconda della sua inclinazione o della sua convenienza del momento, tanto più l’offerta,
se non vuole “perderlo” deve attrezzarsi per vendere gli stessi contenuti – in formato ovviamente
diverso - su canali e media differenti.
La nuova segmentazione del mercato non separa più i contenuti e i clienti in funzione delle
caratteristiche del medium impiegato, ma in funzione del tipo pubblico a cui la comunicazione si
rivolge. La scelta è tra:
• canali di comunicazione (multimediali) che si rivolgono ad un pubblico indifferenziato (di
massa), con contenuti “generalisti”, e
• canali di comunicazione (multimediali) che si rivolgono, invece, a segmenti differenziati,
ciascuno ancorato ad un proprio tema, e dunque a contenuti “tematici” specializzati.
Se gli attuali canali generalisti manterranno parte del loro pubblico, è indubbio che i nuovi
canali di comunicazione potranno più facilmente svilupparsi, ottenendo l’attenzione di un pubblico
particolarmente interessato a certi temi (per i quali è anche disposto, in certi casi, a pagare).
Globalizzazione a medio raggio (a partire da ciò che sappiamo fare) (d)
L’arrivo di Sky-Murdoch segna, come abbiamo detto, un passaggio importante
32
nell’internazionalizzazione del nostra industria della comunicazione, perché mette direttamente il
mercato italiano in contatto con prodotti e metodi elaborati e collaudati a scala internazionale.
Si tratta però di una internazionalizzazione passiva, non attiva, per il nostro paese. Tuttavia,
gli intervistati non hanno mostrato alcun dubbio sulla positività di questo ingresso, che promette di
rendere dinamico un mercato fin troppo assestato e, di conseguenza, poco innovativo. C’è da
aspettarsi una ripresa della concorrenza e dunque dell’investimento in creatività da parte di tutti gli
operatori che vogliono restare in gioco.
Certo, bisogna fare in modo che questa creatività abbia anche la possibilità di innescare
processi di internazionalizzazione attiva, in cui le nostre aziende possano valorizzare le competenze
distintive acquisite su un bacino più esteso del mercato italiano.
I produttori televisivi italiani hanno difficoltà ad assolvere questo ruolo, anche se Mediaset
ha fatto diversi tentativi in questa direzione. I maggiori editori di giornali e di libri, invece, hanno
già intrapreso processi rilevanti di internazionalizzazione. Mondadori, ad esempio, considera
l’internazionalizzazione come l’unica via di crescita praticabile, non potendo espandersi
ulteriormente nel mercato italiano mediante l’acquisizione di altre imprese, per non superare i limiti
consentiti a chi si trova in posizione dominante. La sua area principale di espansione, attraverso i
periodici, e verso la Bulgaria, la Romania, la Grecia e il Far East. RCS guarda a Francia, con cui ha
già un rapporto molto solido, e a Spagna.
Tuttavia, si osserva, le imprese italiane sono ancora troppo piccole per potersi muovere con
successo su mercati molto grandi e impegnativi. Soprattutto, tra gli intervistati c’è un certo
scetticismo sul fatto che le imprese italiane possano penetrare in mercati esteri che sono già saturi e
ben presidiati. Difficile è, anche per ragioni linguistiche, un decollo verso il mercato globale, per il
quale forse non ci sono finanziamenti e vantaggi competitivi adeguati.
Chi crede che gli italiani abbiano “inventato” qualcosa di originale pensa che esistano in
Italia competenze “esportabili” – per la loro carica innovativa – anche in altri paesi. La cerchia di
questi possibili destinatari delle nostre proiezioni commerciali in campo televisivo, giornalistico o
librario non è troppo ampia, perché le competenze e i capitali italiani possono avere buone chances
di successo soprattutto in paesi che sono relativamente nuovi (e arretrati) in questo campo.
Si tratta, in altri termini, di immaginare una globalizzazione a medio raggio, un po’ come
hanno fatto le nostre banche, che si sono espanse penetrando in particolare ai paesi dell’Est
europeo, ossia in paesi particolarmente nuovi. Le direttrici possibili sono state identificate dagli
intervistati soprattutto in due aree in cui sia possibile far valere le nostre specificità distintive:
Ø l’area dell’Europa latina (Spagna, Francia, Italia) in cui ci sono fondamentali affinità
culturali che consentono di condividere molti contenuti del lavoro editoriale;
Ø l’area dell’Europa dell’Est, in cui le imprese italiane possono propagare alcuni modelli e
format originali del fare tv o giornali.
Ø i paesi arabi, magari lavorando su questo terreno insieme con imprese francesi che hanno
una maggiore esperienza su questo campo.
La tv commerciale (gratuita), modello Mediaset; le vendite abbinate giornale-inserti o libri:
contenuti o format appoggiati a quelle specificità nazionali che sono note in tutto il mondo (cucina,
arredamento, moda, prodotti tipici, arte); eventi e fenomeni locali (come le piccole imprese, i
distretti ecc.) che hanno risonanza internazionale possono essere una dotazione utile da condividere
con partners spagnoli o francesi. Oppure per proiettarsi nella nostra area naturale di espansione:
l’Europa dell’Est e i paesi dell’Africa del Nord.
Una parte dei nuovi paesi dell’Unione e limitrofi possono sentirsi lontani dai modelli loro
proposti dai tedeschi, e preferire la comunicazione italiana per le sue caratteristiche nuove rispetto
alla situazione locale. Lo stesso vale per molti paesi arabi, in cui la cultura italiana può svolgere un
ruolo di cerniera rispetto al mondo occidentale, più “duro e puro”. Ci sono, dunque, buone
possibilità di esportazione del modello e dei contenuti, anche se servono investimenti e strategie
impegnative in questa direzione.
Scarica

nuovi assetti e nuove prospettive dell`industria della