Università Commerciale Luigi Bocconi
Econpubblica
Centre for Research on the Public Sector
WORKING PAPER SERIES
Misurabilità dei regimi di protezione dell’ impiego
Maurizio Del Conte, Carlo Devillanova, Stefano Liebman and
Silvia Morelli
Working Paper n. 96
November 2003
www.econpubblica.uni-bocconi.it
Misurabilità dei regimi di protezione dell’impiego
Maurizio Del Conte, Carlo Devillanova, Stefano Liebman e Silvia Morelli
Università Bocconi
L’indice OECD di rigidità nel mercato del lavoro: una nota
di Maurizio Del Conte, Carlo Devillanova e Silvia Morelli
I regimi di protezione dell’impiego nelle sintesi econometriche: tre domande per avviare un
dibattito
di Maurizio Del Conte e Stefano Liebman
L’indice OECD di rigidità nel mercato del lavoro: una nota
Maurizio Del Conte, Carlo Devillanova e Silvia Morelli
Università Bocconi
1. Introduzione
A partire dai primi anni novanta, nel dibattito economico si è assistito ad un crescente sforzo diretto
a quantificare i regimi di protezione dell’impiego (RPI). La traduzione del dato istituzionale in
indici numerici risponde ad almeno due esigenze pratiche. In primo luogo, la necessità di dirimere,
sul piano empirico, annose dispute teoriche circa gli effetti dei RPI sulla performance di un sistema
economico. In secondo luogo, gli indici possono essere utilizzati come strumento di policy, per
operare raffronti internazionali, individuare specifici istituti responsabili di tali rigidità e,
eventualmente, modificarli.
Vale notare che, ferme restando le incertezze sul piano teorico, la riforma del mercato del lavoro tesa all’eliminazione di fonti di rigidità in alcuni Paesi - sembra essere uno degli ambiti di
intervento in cui più ampio e diffuso è il consenso. In questo senso, e con specifico riferimento
all’Italia, possono essere letti la Legge Delega 14 febbraio 2003 ed il d.lgs. 10 settembre 2003, n.
276.
Nel 1999 l’Oecd ha elaborato un indicatore dei regimi di protezione dell’impiego, che ha
rappresentato una significativa evoluzione rispetto alle misure preesistenti, come sarà chiarito nel
prossimo paragrafo. Attualmente l’indice Oecd è indiscutibilmente il più impiegato.
Questo lavoro intende analizzare la metodologia utilizzata nella costruzione dell’indice e discuterne
validità e limiti, facendo specifico riferimento al caso italiano.
In generale, il nostro studio mette in luce la grande variabilità dell’indice, in dipendenza di scelte
talora arbitrarie ed interpretazioni quantomeno opinabili del dettato normativo. Vengono anche
avanzate alcune riserve sull’opportunità di aggregare gli indicatori parziali in un indice sintetico di
rigidità.
Il lavoro procede come segue: nel paragrafo 2 viene schematicamente ripercorsa la costruzione
dell’indice e l’informazione comparativa che se ne desume; nel paragrafo 3 ne vengono discussi
validità e limiti; infine, il paragrafo 4 conclude.
2
2. L’indice Oecd (1999)
Come si è accennato nell’introduzione, l’indice Oecd (1999) – indice Oecd, d’ora in poi rappresenta l’ultimo, in ordine di tempo, di una serie di tentativi1 volti a misurare i regimi di
protezione dell’impiego e la rigidità degli ordinamenti che regolano il mercato del lavoro. Due sono
le principali innovazioni apportate. In primo luogo, viene esteso il numero degli indicatori utilizzati
per la sua costruzione; in particolare, alla disciplina dei contratti a tempo indeterminato e non2 viene
integrata quella sui licenziamenti collettivi. In secondo luogo, il nuovo indice ha natura cardinale:
ad ogni Paese è associato un indicatore di rigidità, compreso fra zero e 6, crescente nella severità
dei RPI. Quest’ultima novità è particolarmente attraente, in quanto consente di cogliere la
variazione nel tempo dei RPI per studiarne gli effetti sul sistema economico. Infatti, prima del 1999
tutti gli indici proposti avevano natura ordinale e fornivano una classifica dei Paesi in base alla
rigidità relativa del mercato del lavoro. Un’informazione di questo tipo è potenzialmente adeguata
per operare studi cross-country, ma del tutto insoddisfacente per analisi di tipo dinamico: qualunque
riforma che lasci inalterata la posizione relativa dei vari Paesi non viene colta, per definizione, da
un indice ordinale e non permette di valutarne gli effetti. Al contrario, l’indice Oecd registra
variazioni nel tempo dei RPI e permette di operare analisi di tipo dinamico su time series e paneldata3.
Naturalmente, l’indice Oecd permette anche di ordinare i Paesi secondo la rigidità relativa. La
tabella 1 mostra l’indicatore complessivo di rigidità – seconda colonna – e la posizione relativa dei
vari Paesi. Per esempio, l’Italia, con un indice di rigidità di 3,5 si colloca fra i Paesi con mercato del
lavoro meno flessibile, insieme a Grecia, Portogallo e Turchia. All’estremo opposto Stati Uniti e
Gran Bretagna, con un valore dell’indice inferiore all’unità.
Tab. 1: Indicatore di rigidità e posizione relativa dei Paesi Oecd
Grazie ai vantaggi appena discussi, l’indice Oecd è, attualmente, l’indicatore indiscutibilmente più
utilizzato, negli studi empirici e nelle discussioni di policy. Cazes e Nesporova (2003) hanno
recentemente applicato la medesima metodologia a cinque Paesi in transizione (Bulgaria, Estonia,
Polonia, Federazione Russia e Repubblica Ceca). Inoltre, anche quegli autori che riconoscono i
limiti esplicativi di un mero indice di flessibilità/rigidità, e propongono misure più ampie per
1
Fra i contributi in questa direzione si vedano Emerson (1988), Bertola (1990), Grubb e Wells (1993), Oecd (1994).
Una precisazione terminologica si rende necessaria. Fra gli economisti italiani è ampiamente diffusa l’abitudine di
qualificare come “tipici” i contratti di lavoro a tempo indeterminato ed “atipici” i contratti a tempo determinato e di
lavoro temporaneo. In questa sede preferiamo non attenerci a questa prassi, che rischia di essere fuorviante, ed
indicheremo con l’espressione “altri contratti” o “contratti non a tempo indeterminato” i lavori a tempo determinato e
temporanei.
3
Si vedano, in particolare, Blanchard e Wolfers (2000) e Nickel e Nunziata (1999).
2
3
cogliere il ruolo di altre politiche ed istituzioni del mercato del lavoro4, si basano sull’indice Oecd
per misurare i RPI. Proprio la diffusione dell’indice motiva fortemente questo lavoro.
2.1. La costruzione dell’indice
La nozione di rigidità/flessibilità del mercato del lavoro è essa stessa una questione controversa e
presenta molteplici dimensioni. L’Oecd (1999) fornisce una nozione decisamente ampia di RPI:
“employment protection refers both to regulations concerning hiring (e.g. rules favouring the
disadvantaged groups, conditions for using temporary or fix-term contracts, training requirements)
and firing (e.g. redundancy procedures, mandated prenotification periods and severance payments,
special requirements for collective dismissals and short-time work scheme”5.
Di fatto, l’indice viene costruito a partire da 22 indicatori specifici, che vengono successivamente
aggregati. La procedura utilizzata è riportata nella tabella 2. Il primo passo consiste nell’attribuire
dei valori agli indicatori specifici della disciplina lavoristica. Questi sono riportati nell’ultima
colonna (livello 1) della tabella 2. Ad esempio, relativamente ai contratti a tempo indeterminato
l’Oecd considera dodici indicatori specifici: partendo dall’alto, i primi due (procedure
amministrative e periodo intercorrente tra dichiarazione ed effettività del licenziamento) intendono
misurare l’asprezza dei procedimenti burocratici; i sei successivi riportano i termini di preavviso
(primi tre) e la liquidazione dovuta (successivi tre) per dipendenti assunti da almeno nove mesi,
quattro anni o 20 anni, rispettivamente; alle difficoltà di licenziamento sono dedicati i successivi 4
indicatori (cause che legittimano l’interruzione del rapporto di lavoro da parte del datore, anzianità
richiesta affinché l’illegittimità possa essere fatta valere, entità del risarcimento dovuto e previsione
della possibilità di reintegro in caso di licenziamento illegittimo). In maniera analoga si leggono i
sei successivi indicatori relativi alle altre tipologie contrattuali (i primi tre riguardanti i contratti di
lavoro a tempo determinato ed i restanti tre i contratti di lavoro temporaneo). Infine le ultime
quattro celle riportano le informazioni sulla normativa relativa ai licenziamenti collettivi.
Tab. 2: Costruzione dell’indice di rigidità
L’assegnazione di un valore è immediata nel caso di grandezze misurabili – quali l’entità della
liquidazione dovuta, la durata massima di un contratto ecc. - eppure, anche in questi casi la
complessità della legislazione costringe a mediare fra istituti diversi. Nel caso di grandezze non
4
Boeri et al. (2002) propongono un indice di “adattabilità” del mercato del lavoro, che pondera la rigidità del mercato
del lavoro con misure della formazione, della mobilità e della dimensione della forza lavoro.
5
Oecd (1999), pag. 50.
4
misurabili, il dato legislativo viene tradotto in numero secondo un qualche criterio specificato. A
titolo d’esempio, alla definizione di licenziamento illegittimo viene attribuito punteggio: zero se la
capacità del dipendente o l’eccedenza di manodopera rientrano fra le cause legittime di
licenziamento; 1 se la scelta dei lavoratori da licenziare è legata a considerazioni sociali, quali età o
anzianità sul luogo di lavoro; 2 quando il licenziamento deve essere preceduto da un trasferimento
e/o formazione per la ricollocazione del lavoratore; 3 se l’inadeguatezza del dipendente non
costituisce legittimo motivo di licenziamento.
Una volta attribuito un valore, si procede a normalizzare ciascuna variabile su una scala compresa
fra zero e 6, crescente nella rigidità6.
Il passo successivo consiste nell’aggregazione degli indicatori specifici. Questo viene fatto
attraverso una media ponderata degli stessi, procedendo da sinistra verso destra nella tabella 2 - i
pesi attribuiti ad ogni variabile sono riportati in parentesi. Per esempio, ai quattro indicatori relativi
alla difficoltà di licenziamento del livello 1 viene attribuito uguale peso (1/4); a sua volta, la
difficoltà di licenziamento (livello 2) incide per un terzo sull’indice di rigidità dei contratti a tempo
indeterminato (livello 3). Dall’aggregazione degli indici di rigidità dei contratti a tempo
indeterminato e non (ambedue con peso 5/12) e licenziamenti collettivi (2/12) si ottiene l’indicatore
riassuntivo (livello 4).
Per facilitare la discussione successiva, la tabella 3 riporta i valori relativi all’Italia, così come sono
stati attribuiti dall’Oecd (1999) relativi alla fine degli anni novanta.
Tab. 3: Italia: indicatore di rigidità su dati Oecd (1999)
3. Discussione
Di seguito vengono avanzate alcune riserve sulla costruzione dell’indice Oecd. Dapprima vengono
evidenziati i pericoli insiti nell’aggregazione; successivamente viene esaminata l’assegnazione dei
valori operata dall’Oecd, con specifico riferimento al caso italiano; infine, si discute la capacità
dell’indicatore proposto di fornire una visione completa del mercato del lavoro.
6
Per la definizione dettagliata degli indici parziali e per le tabelle di conversione si rimanda a Oecd (1999).
5
3.1. L’aggregazione
In generale, l’aggregazione degli indici parziali in un unico indice sintetico comporta una perdita di
informazione, con evidenti pericoli di analisi. Nello specifico, si prospettano almeno due ulteriori
problemi metodologici.
I pesi utilizzati.
In primo luogo, i pesi utilizzati nella ponderazione sono assolutamente arbitrari, e per ciò stesso
opinabili. Per esempio, il numero massimo di rinnovi consecutivi dei contratti a tempo determinato
ha un peso di 5/96 sull’indicatore riassuntivo di rigidità, contro un peso di 5/144 attribuito al
risarcimento in caso di licenziamento illegittimo. Ora, che per le imprese il risarcimento dovuto
costituisca un deterrente a licenziare è un’affermazione ampiamente condivisibile; al contrario, si
potrebbe argomentare che i limiti ai rinnovi dei contratti a tempo determinato non siano fonte di
particolare rigidità, specialmente per alcune categorie professionali ed in Paesi, o regioni, in cui
l’elevata disoccupazione fornisce alle imprese una pressoché illimitata offerta di lavoro. A questo
proposito occorre sottolineare come in Italia i contratti a tempo determinato possano essere
prorogati solo una volta e per un periodo non superiore a quello originariamente pattuito; tuttavia, è
lecito chiedersi se tale vincolo costituisca fonte di rigidità più apparente che reale, essendo
possibile, dopo un breve intervallo dal termine del primo contratto o della sua eventuale proroga,
riassumere lo stesso lavoratore, con un nuovo contratto a tempo determinato. Questa osservazione
apre la strada ad un’ulteriore, e per certi versi più radicale critica: l’individuazione di determinati
istituti quali fonti di rigidità del mercato del lavoro è essa stessa una scelta discrezionale ed
opinabile. Sull’argomento si tornerà incidentalmente nel paragrafo 3.2, quando discuteremo alcuni
degli indicatori specifici che rientrano nella costruzione dell’indice.
Purtroppo la scelta dei pesi – e delle variabili utilizzate - non viene discussa dall’Oecd ed in questa
sede possiamo solo evidenziare il problema.
Altrettanto arbitrario è il peso attribuito nell’indicatore riassuntivo alle diverse tipologie contrattuali
(contratti a tempo indeterminato e non) ed ai licenziamenti collettivi. Questo aspetto è sicuramente
rilevante, dato che la proporzione non è uniforme fra Paesi. Per esempio, nel 2002 la percentuale di
lavoratori a tempo determinato era circa il 30% in Spagna, il 10% in Italia ed il 5% in Olanda.
Ovviare a questo problema è immediato: basta ponderare le tre tipologie contrattuali utilizzando
come pesi la loro dimensione relativa. Abbiamo fatto questo semplice calcolo per l’Italia e l’indice
di rigidità scende da 3,5 a 3,2. La ragione è dovuta al fatto che le ponderazioni utilizzate dall’Oecd
danno un peso eccessivo (5/12) ai contratti temporanei ed a tempo determinato, che in Italia
appaiono caratterizzati da una normativa particolarmente rigida (indice 3,9), ma che disciplinano
6
meno del 20% dei lavoratori dipendenti (suddivisi in maniera approssimativamente uguale fra
temporanei ed a tempo determinato7). Questo calcolo verrà raffinato nel paragrafo 3.3.
La struttura additiva dell’indice.
Il secondo problema metodologico concerne la possibile esistenza di complementarità fra gli indici
parziali8. In altri termini, l’interazione fra istituti e politiche è fondamentale nel determinare gli
effetti dei RPI sul mercato del lavoro. Questa considerazione mina alla base la possibilità di
costruire un indice aggregato come somma dei singoli indici parziali.
Il tema può essere meglio compreso attraverso un esempio. Concentriamo l’attenzione sull’indice
che misura le difficoltà di licenziamento individuale nei contratti a tempo indeterminato.
Immaginiamo tre Paesi: nel Paese A vi è una rigidissima definizione di licenziamento illegittimo
(valore 6), ma una sanzione molto debole; il Paese B prevede l’illegittimità del licenziamento solo
per fattispecie del tutto eccezionali (valore prossimo a zero), pur prevedendo per queste ultimi
ipotesi risarcimenti elevatissimi (6); infine, il paese C è in una situazione intermedia (valore 3 di
entrambi gli indici parziali). L’indice Oecd non permette di distinguere fra queste tre situazioni ed
assegna a ciascuno Paese un indice di rigidità9 di 3/2. Tuttavia, è evidente che, per come l’esempio
è stato costruito, l’effetto della rigidità sulla performance economica sarà molto differente nei tre
casi.
Naturalmente l’esempio è volutamente paradossale, ma mette a fuoco un punto assolutamente
generale e di estrema importanza. In altre parole, ed al di là della immediatezza di interpretazione di
un indice sintetico, l’utilizzazione degli indici parziali appare, per quanto detto, più appropriata.
La questione è chiaramente collegata al punto discusso in precedenza. L’uguale peso di 5/12
assegnato ai contratti a tempo indeterminato ed alle altre tipologie contrattuali costituisce infatti
un’ulteriore esemplificazione del problema. Una rigida regolamentazione dei contratti di lavoro a
termine e temporanei, associata ad una normativa dei contratti a tempo indeterminato relativamente
flessibile in termini di recedibilità del rapporto (o viceversa) non ha, presumibilmente, gli stessi
effetti sul mercato del lavoro di una legislazione che disciplina in maniera analoga le due tipologie
contrattuali. Ed infatti, l’effetto dipenderà dalla proporzione di lavoratori assoggettati alla normativa
più rigida, come argomentato in precedenza.
7
Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, Nota Flash 2002 e 2003.
Recentemente è stato documentata l’esistenza di forti complementarità fra diverse istituzioni del mercato del lavoro. Si
veda, in proposito, il lavoro di Belot et al. (2002).
9
Per semplicità, nell’esempio gli altri due indicatori relativi alle difficoltà di licenziamento individuale sono stati posti
uguali a zero.
8
7
3.2. Gli indicatori specifici
In generale, operare confronti internazionali dei RPI è un’operazione intrinsecamente difficile. Si
pensi, ad esempio, ai numerosi problemi definitori che sorgono dalle caratterizzazioni nazionali
delle varie tipologie contrattuali. Inoltre, si è già osservato come la traduzione in termini quantitativi
delle istituzioni del mercato del lavoro sia, in generale, un procedimento complesso e per certi versi
arbitrario.
Per l’assegnazione di valori numerici agli indici parziali l’Oecd (1999) si basa unicamente sulle
disposizioni normative e sui contratti collettivi10, senza alcun rimando alle pratiche
giurisprudenziali. Ciò può evidentemente creare gravi distorsioni11.
Pur limitando l’analisi al dettato legislativo ed ai contratti collettivi, la costruzione dell’indice
presenta alcuni errori, di seguito evidenziati.
I due errori più rilevanti vengono commessi nel calcolo dell’indice relativo ai licenziamenti
individuali nei contratti a tempo indeterminato.
L’entità della liquidazione.
Il primo riguarda l’entità della liquidazione. Dalla lettura della tabella 3 la normativa italiana
sembra essere particolarmente generosa nei confronti del lavoratore. Infatti l’Oecd calcola che dopo
9 mesi di servizio la liquidazione spettante al lavoratore è pari a 0,7 mensilità; 3,5 dopo 4 anni; 18
mensilità dopo 20 anni. Questi valori, normalizzati in scala da zero a 6, si traducono in un indice di,
rispettivamente, 2, 5 e 5, come si evince dalla tabella 3. Questi valori, ponderati e sommati agli
indici relativi ai termini di preavviso, spiegano il valore di 2,9 dell’indice del livello 2 relativo a
“preavviso e liquidazione”.
I valori riportati dall’Oecd corrispondono, di fatto al Trattamento di Fine Rapporto (TFR)
disciplinato dall’art. 2120 del Codice civile e dalla L. 297/82.
Al riguardo va però specificato che il diritto alla corresponsione della relativa somma spetta ad ogni
lavoratore al momento della cessazione del proprio rapporto di lavoro, sia che ciò sia determinato
da licenziamento, sia da dimissioni volontarie piuttosto che da pensionamento o per morte del
lavoratore stesso (in questo caso esso è dovuto ai familiari superstiti). Concretamente il TFR, che
finisce con l’essere una sorta
di retribuzione differita a fini previdenziali, risulta
dall’accantonamento contabile da parte del datore di lavoro, di una frazione (1/13,5) della
10
Le fonti vengono desunte da European Commission (1997), IDS (1995, 1996 e 1997), I.O.E. (1985) e Watson Wyatt
(1997). Tutti questi testi si sono caratterizzati da un’estrema sinteticità, che non da ragione della grande complessità ed
articolazione della normativa lavoristica di alcuni Paesi, fra i quali l’Italia.
11
La rigidità di un mercato del lavoro è determinata solo in parte dalla legislazione vigente: essa dipende anche
dall’enforcement, da fattori sociali, consuetudini, dal clima politico, ecc.
8
retribuzione annuale dovuta al dipendente: il credito diventa però esigibile dal lavoratore solo al
momento della cessazione del rapporto, salvo le ristrette ipotesi per le quali è espressamente
prevista la possibilità del dipendente di chiedere anticipazioni parziali del credito complessivo.
Proprio per la funzione retributiva del TFR, in attuazione di una direttiva europea del 1980, la legge
ha previsto la costituzione di un fondo di garanzia per il pagamento del TFR in caso di insolvenza
del datore di lavoro.
Per queste ragioni considerare il TFR un costo di licenziamento è, a nostro parere, una grave
inesattezza. Infatti, da un punto di vista giuridico – ed economico – il TFR rappresenta la
restituzione al lavoratore di quote della sua retribuzione accantonate nel tempo; per di più, poiché
gli accantonamenti sono remunerati ad un tasso fissato per legge12, esso costituisce una vantaggiosa
fonte di finanziamento per l’impresa.
Una prima, evidente conseguenza di questo errore è quella di accresce l’indice di rigidità aggregato,
come si illustrerà fra un attimo. Un secondo effetto è che l’entità del supposto costo del
licenziamento viene erroneamente13 a dipendere dalla durata del rapporto di lavoro.
Il licenziamento illegittimo.
Il secondo errore viene commesso nel calcolo dell’indice relativo alle difficoltà di licenziamento.
Nel caso di licenziamento illegittimo, l’art. 18 della legge n. 300 del 1970 prevede che, se il datore
di lavoro occupa più di 15 addetti per unità produttiva o più di 60 complessivamente, al lavoratore
venga assicurata la cosiddetta tutela “reale”, vale a dire la facoltà di scegliere tra il reintegro nel
posto di lavoro o, a scelta del lavoratore, una indennità sostitutiva della reintegrazione, pari a 15
mensilità. In ogni caso, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito per il mancato
salario durante periodo intercorso fra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione conseguente
alla sentenza giudiziale.
L’Oecd riepiloga questi dati come segue. Per quanto riguarda il risarcimento per licenziamento
illegittimo (calcolato per un dipendente con 20 anni di servizio), viene assegnato un valore di 32,5
mensilità, cui corrisponde un valore normalizzato dell’indice di 6. Per quanto concerne la possibilità
di reintegro, viene attribuito un indice normalizzato pari a 4, che corrisponde al caso in cui tale
12
Le somme accantonate vengono rivalutate annualmente ad un tasso fisso dell’1,5% più il 75% del tasso d’inflazione.
Solo per le imprese con meno di quindici dipendenti per unità produttiva o con meno di sessanta dipendeti nel
complesso, la legge n. 604 del 1966 prevede che il giudice, nella valutazione equitativa del risarcimento per
licenziamento illegittimo, possa avere riguardo, oltre al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, al
comportamento ed alle condizioni delle parti, anche all’anzianità di servizio del lavoratore. Inoltre, sempre in tale
contesto dimensionale dell’impresa, il tetto massimo del risarcimento, fissato in sei mensilità, può essere elevato fino a
dieci per il lavoratore con anzianità superiore ai dieci anni e fino a quattordici mensilità per il lavoratore con anzianità
superiore ai venti anni, se dipendente da datore di lavoro che occupa più di quindici lavoratori. Si tratta, evidentemente,
di casi assai rari.
13
9
opzione sia offerta al lavoratore nella maggioranza dei casi in cui il licenziamento è dichiarato
illegittimo. Entrambi meritano un approfondimento.
Innanzitutto, va precisato che la disciplina della c.d. “tutela reale” ex art. 18, legge n. 300 del 1970
ha un campo di applicazione limitato e, per conseguenza, valutare l’indice complessivo di rigidità
relativo al licenziamento riferendosi solo alla tutela reale è limitativo e fuorviante14.
In ogni caso, come ricordato in precedenza, nel campo di applicazione dell’art. 18, legge n. 300 del
1970, il risarcimento che spetta al lavoratore licenziato illegittimamente è pari al mancato salario
relativo al periodo intercorso fra il licenziamento illegittimo e la sentenza giudiziale oltre, in caso di
rinuncia del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro, una ulteriore indennità di 15
mensilità.
L’indice Oecd assegna all’Italia un costo per il licenziamento pari a 32, 5 mensilità, senza, peraltro,
dare conto della giustificazione di questo dato numerico.
Provando ad interpretare il valore così assegnato dall’Oecd, si può constatare come, sommando le
15 mensilità dell’indennità alternativa alla reintegrazione al TFR spettante ad un lavoratore con 20
anni di servizio, si ottiene il valore di 32, 5 mensilità. Ma una tale operazione non trova fondamento
nel dato normativo. Come si è detto, il TFR non può essere considerato un costo di licenziamento –
e tanto meno un risarcimento per licenziamento illegittimo. Evidentemente, per poter correttamente
determinare il valore del risarcimento dovuto in caso di licenziamento illegittimo occorrerebbe,
innanzitutto, distinguere fra le imprese sottoposte al regime dell’art. 18, legge n. 300 del 1970 e
quelle sottoposte al regime della legge n. 604 del 1966. Per il caso delle imprese sottoposte a tutela
reale, occorrerebbe, poi, effettuare una stima della durata media dei procedimenti giudiziali in
materia (peraltro caratterizzati da grande variabilità), che determina l’entità del risarcimento dovuto.
Se assumiamo – conformemente a quanto fatto dall’Oecd (1999), pag. 56 – che la durata media sia
di 6 mesi, il risarcimento scende a 19-24 mensilità15, portando l’indice normalizzato a 4.
Per quanto riguarda la possibilità di reintegro, il valore assegnato dall’Oecd è sicuramente
opinabile, visto che in Italia esso risulta essere un’ipotesi piuttosto remota16. Ma l’errore a nostro
parere più grossolano deriva dal fatto che le due ipotesi considerate, reintegro ed indennità
alternativa alla reintegrazione (15 mensilità) sono obbligazioni alternative. Sommare due
14
Per il quadro legale relativo alle imprese cui non si applica la tutela reale si rinvia alla nota 13.
Ichino (1996) svolge un esercizio simile ed ottiene un risarcimento pari a 35 mensilità, cui vanno a sommarsi le spese
legali. In questa sede occorre sottolineare come i calcoli di Ichino si avvalgano di considerazioni relative alla pratica
giurisprudenziale, esclusa nella costruzione dell’indice Oecd, e siano ottenuti assumendo una durata media del processo
di un anno, ovvero doppia rispetto a quella assunta dall’Oecd.
16
Si vedano i dati riportati in Macis (2001). L’arbitrarietà dei valori assegnati è supportata dalla circostanza che
l’analogo indice per la Gran Bretagna viene posto uguale a zero, escludendo quindi la possibilità di reintegro
nell’ordinamento anglosassone. Tuttavia, in Gran Bretagna il lavoratore licenziato può, ricorrendone le condizioni,
chiedere al giudice il reintegro o la riassunzione. Nel caso in cui il giudice imponga il reintegro o la riassunzione,
15
10
provvedimenti che si escludono a vicenda appare un procedimento assolutamente scorretto, che
accresce in maniera falsa l’indice di rigidità.
Abbiamo calcolato l’indice per tenere conto di questi due errori, rimuovendo il TFR dalla
definizione di costi del licenziamento e riconoscendo che, in caso di licenziamento illegittimo,
risarcimento e reintegro sono misure alternative. I risultati sono quantitativamente importanti. In
entrambi i casi – risarcimento e reintegro - il valore dell’indice relativo alle difficoltà di
licenziamento scende dal precedente valore 4 a 2,5; l’indicatore aggregato di rigidità passa da 3,5 a
2,9.
Se le osservazioni fin qui svolte sono corrette, la situazione dell’Italia appare profondamente
mutata. In una prospettiva internazionale, le marcate differenze con alcuni Paesi europei, quali la
Francia, si riducono drasticamente. Ma ancora più importante è che l’origine della supposta rigidità
del mercato del lavoro Italiano devono essere individuate in una normativa relativamente rigida dei
lavori temporanei ed a tempo determinato17, mentre l’indicatore di rigidità associato ai contratti a
tempo indeterminato non mostra un valore particolarmente elevato (1,6).
Altri errori.
Ai due precedenti errori si sommano alcune imprecisioni che meritano di essere evidenziate. Le
prime tre nascono da valori assegnati dall’Oecd agli indicatori che non trovano riscontro nel dettato
legislativo o nei contratti collettivi, o vengono da essi contraddetti. Vale notare che,
nell’attribuzione dei valori degli indici parziali, l’Oecd non precisi da quale dei testi adoperati sia
tratta la singola informazione ne, tanto meno, se essa sia fondata su testi di legge o su contratti
collettivi. Ciò rende sicuramente più complesso il raffronto con i nostri risultati.
Per quanto riguarda il periodo intercorrente tra dichiarazione ed effettività del licenziamento
individuale, l’Oecd lo individua in un giorno (cui corrisponde un valore zero dell’indice
normalizzato). Tuttavia, l’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori indica un minimo di 5 giorni ed il
contratto collettivo dei metalmeccanici lo pone tra i 6 ed i 12 giorni18. Coerentemente con queste
osservazioni, abbiamo accresciuto il valore dell’indice normalizzato, che passa da zero a 1, con un
aumento della rigidità relativa a questa voce.
l’imprenditore può rifiutarsi di eseguire la sentenza, ma in questo caso il dipendente può chiedere, in aggiunta al
risarcimento dovuto, un compenso aggiuntivo compreso tra le 26 e le 52 retribuzioni settimanali.
17
Naturalmente, anche in questo caso può essere calcolato l’indice ponderando le tre tipologie contrattuali con la loro
dimensione relativa: in questo caso l’indicatore aggregato di rigidità passa a 2,3.
18
In generale, i Contratti Collettivi stabiliscono un periodo superiore a 5 giorni.
11
Per quanto riguarda i contratti a tempo determinato, l’Oecd indica in 15 mesi la durata massima.
Tale dato non ha riscontro nella disciplina legale, dunque l’indice normalizzato corretto dovrebbe
essere zero.
Per i contratti di lavoro temporaneo l’Oecd assegna un punteggio di 4 al relativo indice
normalizzato sulla base di generici vincoli al rinnovo del contratto, non considerando né la
lunghezza dei singoli contratti né la possibilità di mutare alcuni elementi del contratto e, quindi
ripartire da zero. Nuovamente, il valore corretto dell’indice dovrebbe essere molto più basso19.
Come prima, abbiamo proceduto a ricalcolare l’indice inserendo tutte le correzioni discusse.
L’indicatore di rigidità dei contratti temporanei e a tempo determinato passa da 3,9 a 2,8 e l’indice
aggregato è sceso ora a 2,5.
I licenziamenti collettivi.
Un esame a parte meritano i criteri utilizzati per la costruzione dell’indice relativo ai licenziamenti
collettivi. L’indice Oecd di 4,1 segnala una forte rigidità di questo istituto. Per quanto riguarda la
definizione di licenziamento collettivo, il valore 6 della tabella 3 corrisponde all’assenza di
disposizioni specifiche in dipendenza del numero di lavoratori destinatari del procedimento; i
successivi valori di 4,5 e 3 indicano, rispettivamente, la presenza di procedure amministrative
supplementari rispetto ai licenziamenti individuali ed i tempi tecnici che esse comportano; infine, il
valore 3 attribuito ai costi a carico del datore è dovuto alla presenza di obblighi contributivi
connessi al ricorso a questi strumenti.
Due considerazioni appaiono doverose.
In primo luogo, questi valori riassumono informazioni relative ad istituti fra loro molto eterogenei, e
specificatamente la Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIG) e Straordinaria (CIGS), la
procedura di mobilità ed il licenziamento collettivo. Gli ultimi tre istituti sono applicabili ad
imprese con più di quindici dipendenti. Di fatto, nel caso della CIG e della CIGS non si configura
una cessazione del rapporto di lavoro, che rimane in essere. Esse consistono nell’erogazione da
parte dell’INPS di una percentuale prefissata della retribuzione spettante al lavoratore in caso di
riduzione di orario o sospensione dal lavoro per difficoltà contingenti (CIG) o strutturali (CIGS)
dell’impresa20. Questa natura di sostegno al reddito delineano la Cassa Integrazione Guadagni quale
vero e proprio strumento di flessibilità per le imprese, che grazie alla temporanea modifica del
rapporto di lavoro in essere non rischiano di perdere le proprie maestranze per momentanei periodi
di riduzione dell’attività. Se, di fatto, questi strumenti sono stati a volte utilizzati come alternativa
al, o vero e proprio prologo del, licenziamento, la ragione è da ricercarsi anche nella limitata
19
Nei calcoli che seguono abbiamo scelto zero.
12
generosità ed accessibilità degli schemi di protezione del reddito dei disoccupati in Italia. La
riduzione della conflittualità sociale legata alle decisioni di licenziamento può essere infatti vista
come un ulteriore elemento di flessibilità introdotto da questi due istituti.
In realtà, l’istituto dei licenziamenti collettivi rappresenta un fondamentale e largamente utilizzato
strumento di flessibilità nel dimensionamento della manodopera impiegata nell’impresa. I
licenziamenti collettivi, infatti, sono sottratti alla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali
prevista dalla legge n. 604 del 1066. In altre parole, mentre per qualsiasi licenziamento individuale
è necessaria una valida giustificazione (giusta causa o giustificato motivo), per il licenziamento
collettivo la scelta imprenditoriale di ridurre il personale è del tutto libera ed il controllo giudiziale
si limita alla verifica del rispetto formale delle procedure amministrative e di informazione e
consultazione sindacale, oltre che alla corretta applicazione dei criteri di scelta.
In questa prospettiva, imporre una rigida regolamentazione amministrativa e legare parte dell’onere
contributivo all’effettivo ricorso delle imprese alla CIG e CIGS appaiono strumenti di salvaguardia
contro plausibili fenomeni di azzardo morale, in accordo con quanto stabilito dalla teoria
economica.
Le considerazioni appena svolte non hanno portato ad alcuna revisione dell’indice.
3.3. Altre tipologie di lavoro
L’ultimo aspetto dell’indice Oecd che occorre considerare è la sua rappresentatività rispetto
all’universo del lavoro. Di seguito verranno discussi due aspetti.
La soglia dei 15 dipendenti.
In Italia la soglia numerica dei 15 dipendenti è estremamente importante nella definizione dei
regimi di protezione dell’impiego. Questo aspetto viene assolutamente ignorato nella costruzione
dell’indice, che fa riferimento esclusivamente alla disciplina applicabile ai datori di lavoro che
impiegano più di 15 dipendenti. L’omissione è tanto più rilevante alla luce del fatto che oltre il 30%
dei lavoratori dipendenti è impiegato, in Italia, in imprese con meno di 15 addetti21.
Sono almeno tre le specificità della normativa rilevanti per la costruzione dell’indice.
La prima concerne la cosiddetta tutela obbligatoria (in contrapposizione alla tutela reale ex art. 18,
legge n. 300 del 1970): in caso di licenziamento illegittimo il datore di lavoro ha facoltà di scegliere
tra il reintegro ed il risarcimento. In secondo luogo, nel caso il datore di lavoro opti per il
20
21
Legge 164/75.
Cfr. Naticchioni et al. (2002).
13
risarcimento, questo è compreso fra 2,5 e 6 mensilità22. Queste considerazioni portano il valore del
corrispondente indice normalizzato a 1. Infine, CIGS, procedura di mobilità e licenziamento
collettivo non sono applicabili. In questo caso gli indici relativi ai licenziamenti collettivi devono
essere ridotti, tuttavia l’assegnazione di un valore numerico (noi abbiamo optato per lo zero) è per
molti versi arbitrario.
Abbiamo calcolato nuovamente l’indice per tenere conto di queste specificità. Se si accolgono tutte
le considerazioni svolte nel paragrafo 3.2, l’indice aggregato per le imprese con meno di 15
dipendenti assume il valore di 1,8 (1,4 per i contratti a tempo indeterminato e 2,8 per le altre
tipologie contrattuali). Per completezza, abbiamo calcolato il valore dell’indice aggregato, senza
tenere conto di alcuna delle correzioni proposte in precedenza (2,5). Rileva notare che, a
prescindere dalle considerazioni svolte nel paragrafo 3.2, il dato mostra una marcata riduzione
dell’indice, dell’ordine del 30%, a conferma che non tener conto della dimensione dell’impresa è
improprio. Riportiamo anche l’indice per le imprese con meno di 16 dipendenti apportando solo gli
aggiustamenti relativi al TFR ed alla mutua esclusione di reintegro e risarcimento nell’ipotesi di
licenziamento illegittimo (2,1).
Lavoratori parasubordinati.
Una specificità del mercato del lavoro italiano è l’elevata proporzione di lavoratori autonomi e,
all’interno di tale categoria, di figure professionali indicate genericamente con il termine di
lavoratori parasubordinati, che non vengono considerati dall’indice Oecd.
Per quanto riguarda i lavoratori autonomi non parasubordinati, una possibile normalizzazione che
ne tenga conto è stata proposta da Boeri et al. (2002), che ponderano l’indice di rigidità relativo ai
lavoratori dipendenti (2,8) con la proporzione di lavoro dipendente (60%).
Più complesso è considerare il lavoro parasubordinato, poiché non esiste un quadro legislativo
organico e specifico che regoli la materia. Da un punto di vista quantitativo, la fattispecie più
rilevante è rappresentata dalle Collaborazioni Continuate e Continuative (CoCoCo), che
rappresentano circa il 90% dei parasubordinati ed il 10% dei contratti di lavoro. Di fatto, prima del
D.Lgs. 276/03 questa fattispecie non era regolamentata, ed al suo interno si nascondono spesso
sacche di vero e proprio lavoro dipendente. Per tenere conto della mancanza di vincoli associati a
questa categoria, si è proceduto a ponderare gli indici per la numerosità relativa delle differenti
tipologie contrattuali, che vede approssimativamente il 10% di lavoratori a tempo determinato,
temporaneo e CoCoCo. L’esercizio è stato svolto solo per l’indice relativo ad imprese con più di 15
22
Fatte salve le eccezioni di cui alla nota 13.
14
dipendenti, ma la direzione della correzione, riportata nell’ultima colonna della tabella 4, risulta
evidente e significativa.
A conclusione di questo paragrafo occorre rimarcare che esiste un evidente problema di
endogeneità della composizione del mercato del lavoro. In presenza RPI eterogenei fra fattispecie
contrattuali e dimensioni delle imprese, il mercato risponde avvantaggiandosi di quelle fattispecie
relativamente più flessibili. Tuttavia, noi riteniamo che una corretta rappresentazione della rigidità
caratteristica di un Paese non possa prescindere dall’esistenza di questa varietà e l’utilizzo di un
indicatore riassuntivo che non sia in grado di coglierla non può che dare un’immagine distorta della
realtà.
4. Sommario e conclusioni
L’ampia diffusione, in ambito accademico e nel dibattito politico, dell’indicatore di rigidità
elaborato dall’Oecd (1999) ha motivato il nostro studio. In questo lavoro abbiamo analizzato la
metodologia utilizzata nella costruzione dell’indice, e ne abbiamo discusso validità e limiti, facendo
specifico riferimento al caso italiano.
Lo studio ha messo in luce una serie di problemi metodologici, legati all’aggregazione degli
indicatori specifici. In particolare, nel paragrafo 3.1 è stata discussa l’arbitrarietà dei pesi attribuiti e
la possibilità stessa di costruire un indice aggregato come somma degli indici parziali.
Con riferimento specifico al caso italiano, lo studio ha messo in luce una serie di errori e di
imprecisioni commessi nella costruzione dell’indice, discussi nel paragrafo 3.2.
Le principali correzioni apportate all’indice vengono riassunte nella seguente tabella 4. La colonna
“Più di 15 dipendenti” riporta il valore dell’indice aggregato calcolato dall’Oecd e quello risultante
dalla correzione degli errori che il nostro studio ha individuato. In particolare, la riga “TFR + lic.
Illegittimi” corregge per l’attribuzione, da parte dell’Oecd, del TFR ai costi di licenziamento e per
trattare reintegro ed indennità sostitutiva della reintegrazione come misure cumulative. Fra parentesi
viene riportato lo scarto percentuale rispetto l’indice originario. Analoga la lettura delle due colonne
successive, che si riferiscono al fatto che l’Oecd non considera la differente normativa su RPI in
dipendenza del numero di dipendenti e il peso relativo delle varie fattispecie contrattuali. Il dato che
a noi appare più corretto è quello riportato nell’ultima riga della tabella 4.
Tab. 4: Indice corretto
Come si evince dalla tabella, il nostro studio ha condotto ad una sostanziale revisione verso il basso
dell’indice di rigidità del mercato del lavoro italiano. Tuttavia, il risultato che a noi pare
15
maggiormente degno di nota è la grande variabilità dell’indice stesso, in dipendenza delle
interpretazioni del dettato legislativo e delle peculiarità del mercato del lavoro italiano.
Questa osservazione ha importanti conseguenze sulla corretta applicazione delle informazioni
fornite dall’indice di rigidità. In particolare, l’indice Oecd, eventualmente corretto secondo le
indicazioni discusse in questa sede, è potenzialmente adeguato a descrivere solo alcune fattispecie:
il tentativo di utilizzarlo per descrivere il mercato del lavoro italiano nella sua complessità è
destinato a rivelarsi fallace23.
Il nostro lavoro evidenzia i rischi connessi della costruzione di indici sintetici dei regimi di
protezione dell’impiego che analizzano il dato normativo formale senza tenere nel dovuto conto le
prassi applicative oltre che le specifiche caratteristiche strutturali del sistema produttivo preso in
esame. Per questa ragione abbiamo voluto circoscrivere la nostra analisi all’Italia: un limite che ci
proponiamo di estendere in futuro.
23
Questa considerazione può contribuire a chiarire l’inconcludenza delle analisi empiriche che cercano di mettere in
relazione indici di rigidità del mercato del lavoro e performance economica.
16
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17
Tabelle
Tab. 1: Indicatore di rigidità e posizione relativa dei Paesi Oecd
Paese
Europa centrale e occidentale
Austria
Belgio
Francia
Germania
Irlanda
Olanda
Svizzera
Regno Unito
Europa meridionale
Grecia
Italia
Portogallo
Spagna
Turchia
Europa settentrionale
Danimarca
Finlandia
Norvegia
Svezia
Area ex URSS
Repubblica ceca
Ungheria
Polonia
America settentrionale
Canada
Stati Uniti
Asia e Oceania
Australia
Giappone
Corea
Nuova Zelanda
Indicatore riassuntivo
Posizione relativa
2,3
2,5
2,8
2,6
1,1
2,2
1,5
0,9
15
16
21
20
5
13
7
2
3,5
3,5
3,7
3,1
3,8
24
23
26
22
25
1,5
2,1
2,6
2,6
8
11
19
18
2,1
1,7
2
12
9
10
1,1
0,7
4
1
1,2
2,3
2,5
0,9
6
14
17
3
18
Tab. 2: Costruzione dell’indice di rigidità
livello 4
livello 3
contratti a
tempo
indeterminato
(5/12)
livello 2
livello 1
procedimento
burocratico
(1/3)
procedure amministrative (1/2)
preavviso e
liquidazione per
licenziamenti
individuali
(1/3)
periodo tra dichiarazione e effettività del
licenziamento (1/2)
9 mesi (3/21)
periodo di
preavviso
4 anni (3/21)
dopo:
20 anni(3/21)
9 mesi (4/21)
entità della
liquidazione
4 anni (4/21)
dopo:
20 anni (4/21)
definizione di licenziamento illegittimo (1/4)
periodo di servizio dopo il quale può esserci
illegittimità (1/4)
risarcimento per licenziamento illegittimo
(lavoratore con 20 anni di servizio) (1/4)
possibilità di reintegro dopo un
licenziamento illegittimo (1/4)
casi, oltre alle ragioni oggettive, in cui il
lavoro a tempo determinato è ammesso (1/2)
lavoro a tempo
numero massimo di contratti a tempo
determinato (1/2)
determinato successivi (1/4)
massima durata del contratto di lavoro a
tempo determinato (1/4)
attività per cui il lavoro interinale è legale
(1/2)
lavoro temporaneo restrizioni sul rinnovo del contratto di lavoro
(1/2)
interinale (1/4)
massima durata del contratto di lavoro
temporaneo (1/4)
definizione di licenziamento collettivo (1/4)
procedure amministrative extra rispetto al caso di licenziamento
individuale (1/4)
periodo necessario per le procedure extra (1/4)
altri costi associati (a carico del datore) (1/4)
difficoltà di
licenziamento
(1/3)
indicatore
riassuntivo
altri contratti
(5/12)
licenziamenti
collettivi
(2/12)
19
Tab. 3: Italia: indicatore di rigidità su dati Oecd (1999)
livello 4
livello 2
livello 1
procedimento
burocratico
1,5
1,5
indice
normalizzato
0-6
3,0
0,0
0,0
1,0
0,1
0,2
0,1
0,3
0,9
0,9
0,0
1,5
1,5
1,0
2,0
1,0
1,5
2,2
1,0
0,0
1,5
1,1
0,7
0,7
1,0
2,00
1,0
2,0
5,0
5,0
0,0
6,0
6,0
4,0
4,0
4,0
6,0
4,5
4,0
0,0
6,0
4,5
3,0
3,0
0,3
1,1
2,2
0,7
3,5
18,0
0,0
0,8
32,5
2,0
1,0
2,0
15,0
1,0
si
no limiti
4,0
1,5
44,0
1,0
livello 3
contratti a
tempo
indeterminato
2,8
preavviso e
liquidazione per
licenziamenti
individuali
2,9
difficoltà di
licenziamento
4,0
indicatore
riassuntivo
3,5
altri contratti
3,9
contratti a tempo
determinato
4,5
lavoro
temporaneo
3,3
licenziamenti collettivi
4,1
indice
originario
1,5
Tab. 4: Indice corretto.
Indice aggregato
Più di 15 dipendenti
Meno di 16 dipendenti
Indice riponderato
(più di 15 dipendenti)
3,5
2,5 (- 30%)
3 (- 14%)
TFR + lic. Illegittimi
2,9 (- 17%)
2,1 (- 40%)
2,2 (- 37%)
Tutte le correzioni
2,5 (- 29%)
1,8 (- 49%)
2,1 (- 40%)
Dati OECD
20
I regimi di protezione dell’impiego nelle sintesi econometriche: tre
domande per avviare un dibattito
Maurizio Del Conte e Stefano Liebman
(Istituto di Diritto Comparato - Università Bocconi, Milano)
A partire dai primi anni novanta, si è assistito ad un crescente impegno, da parte delle più
importanti istituzioni economiche internazionali, nella elaborazione di indicatori numerici diretti ad
attribuire una dimensione quantitativa ai regimi di protezione dell’impiego.
Predisposto un “paniere” di indicatori istituzionali - cioè, di spezzoni di disciplina legale
accomunati da un fine latamente protezionistico della stabilità del rapporto di lavoro - si è attribuito
un valore numerico convenzionale rappresentativo della “rigidità” specifica di ogni singolo
indicatore. Quindi, si è proceduto all’assegnazione di un punteggio complessivo di “rigidità” del
regime di protezione dell’impiego di ogni paese analizzato.
Tale complessa operazione è finalizzata allo scopo di consentire un raffronto quantitativo in termini
di “rigidità” del mercato del lavoro fra diversi paesi.
Il sistema di indicazione attualmente più autorevole e raffinato è quello elaborato dall’OCSE nel
1999, costruito su base cardinale e non ordinale; vale a dire in grado di esprimere valori assoluti per
ogni singolo paese e non meramente relativi nel confronto fra un gruppo definito di paesi.
Si è già analizzato in altro studio il meccanismo interno con il quale è stato costruito l’indice OCSE,
alle cui osservazioni critiche si rinvia.
In questa sede l’indice OCSE sulla rigidità del mercato del lavoro nei principali paesi
industrializzati viene ripreso al solo fine di analizzare un modello paradigmatico nell’approccio
econometrico al tema della disciplina giuridica del contratto di lavoro in una prospettiva comparata.
Affronteremo, dunque, alcuni nodi che, a nostro avviso, sono pregiudiziali rispetto alla possibilità
stessa di avviare un dibattito (e, auspicabilmente, anche un dialogo) fra giurista ed economista sul
tema dei diversi modelli di regolamentazione della flessibilità nell’utilizzo della manodopera.
La comparazione: finalità e metodo.
I nodi teorici della comparazione fra modelli ordinamentali diversi sono parte integrante della
cultura del giurista. L’accostamento di una regola a quella che ad essa corrisponde in un altro
21
ordinamento, nonché la constatazione empirica della loro concordanza o diversità, è verosimilmente
tanto antica quanto lo è la presa di coscienza del dato giuridico24.
Ma la comparazione intesa come scienza sociale pone, innanzitutto, un problema epistemologico in
ordine alla sua finalità25.
L’attuale dibattito dottrinale si attesta sulla assoluta indipendenza da ogni specifica utilità del
comparare. In quanto scienza sociale, la comparazione non ha fini di profilassi sociale. Essa non
aspira a migliorare la reciproca comprensione fra i popoli o a creare un migliore diritto
internazionale pubblico; nemmeno ha lo scopo di uniformare ed unificare le norme giuridiche né
quello di migliorare il diritto nazionale.
Come è stato autorevolmente osservato da uno dei maestri della comparazione giuridica, ciò che ad
essa si chiede è di “demitizzare strumenti di conoscenza abusivi”: di sostituirli con il dato storico ed
ottenere così una conoscenza valida. La comparazione, infatti, contesta e distrugge le
“generalizzazioni affrettate”; dissolve le “mere questioni nominalistiche”, essa non si esaurisce nel
rilievo delle differenze e delle somiglianze, ma è protesa alla ricerca delle ragioni di queste. La
comparazione cerca la law in action, non la law in the books: la prima è diritto effettivamente
vigente, realtà, soluzione sostanziale; la seconda è diritto apparente, sovrastruttura, non diritto. La
comparazione è storia e questa storia, che distrugge i falsi concetti, conduce alla conoscenza26.
Già alla luce di queste sintetiche ma dirimenti considerazioni può esser compresa la prudenza, se
non il vero e proprio scetticismo, che ha da sempre caratterizzato l’atteggiamento del giurista nei
confronti di studi econometrici cross country dei dati istituzionali27.
Ritornando agli indici OCSE sulla rigidità dei mercati del lavoro, è difficile, per il giuslavorista
comprendere il senso di una operazione di analisi e giustapposizione di testi di legge tratti da
differenti ordinamenti nazionali, al fine dichiarato di attribuire a ciascuno di essi un valore nominale
suscettibile di valutazione comparativa.
La disciplina legale può essere, in the books, molto simile in paesi diversi, eppure dimostrarsi
radicalmente diversa nella law in action.
Se, in caso di licenziamento illegittimo, la legge prevede il risarcimento del danno in misura della
retribuzione non corrisposta dal momento del licenziamento alla effettiva reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro, è evidente come la misura del risarcimento sia funzione di un tempo
che non dipende dal dato normativo, ma dalla pratica giudiziaria. La quale, peraltro, differisce non
solo fra le diverse nazioni, ma, all’interno di esse, fra le diverse aree del territorio. E, all’interno
24
R. SACCO, Introduzione al diritto comparato, 5°ed, Torino 1992, p. 6
O. KAHN-FREUND, Comparative Law as an Academic Subject, 82 LQR 81966), 40ss.
26
GORLA, Prefazione a Il contratto, Vol. I, Milano, 1954, p. VII-VIII.
27
O. KAHN-FREUND, On uses and misuses of Comparative Law, 37 MLR (1974), 1ss.
25
22
delle diverse aree territoriali, varia in funzione degli strumenti processuali in concreto utilizzati dal
ricorrente (procedimento ordinario, procedimento d’urgenza) e, quindi, dipende anche dalla
disponibilità dei singoli giudici nei confronti di un ricorso piò o meno massiccio ai procedimenti
d’urgenza. Per non parlare, ovviamente, dei diversi livelli produttività dei singoli giudici, in assenza
di un regime legale che fissi termini perentori per le fasi processuali, ivi compresa quella del
deposito della sentenza.
Ora, anche ammesso che tutte queste variabili (ed innumerevoli altre che in questa sede non è
possibile esaminare) venissero prese in considerazione nell’elaborazione degli indici numerici di cui
si discute (e chiariamo subito che ciò, nei fatti, non avviene neppure in minima parte), prima di
iniziare un qualsiasi tentativo di rendere comparabili i dati misurati in un singolo paese sarebbe
necessario confrontarsi con i problemi della comparazione che abbiamo sopra sinteticamente
esposto. Occorrerebbe, cioè, dare risposta a come tali dati possano resistere al confronto con le
diverse condizioni storiche, sociali, culturali, strutturali e sovrastrutturali dei diversi ordinamenti.
In realtà – ed è questo il punto che più colpisce il giurista - ci pare che nella pur sofisticata
elaborazione delle sintesi numeriche dei fattori istituzionali, vi sia un’inversione di metodo: la
comparazione avviene in un momento successivo alla produzione dei numeri, perchè i numeri
costituiscono il punto di partenza della comparazione.
La ragione di questa inversione di metodo ci pare di poterla cogliere nella istanza immanente ed
intrinseca allo stesso sviluppo degli indicatori numerici: produrre strumenti pratici finalizzati a
scopi pratici di comparazione.
Ecco, allora, la prima domanda che il giurista pone all’economista: è accettabile un approccio
scientifico che rinunci a misurare valori ogni qual volta considerazioni di carattere squisitamente
culturale sconsiglino di procedere ad improbabili quantificazioni? Oppure esiste una esigenza
prevalente, strumentale agli obbiettivi della ricerca econometrica, di produrre comunque valori di
comparazione?
La variabile del linguaggio.
Un’altra questione posta dalla conversione numerica dei dati istituzionali è quella relativa al
linguaggio.
Dal punto di vista giuridico, il problema ha appassionato gli studiosi della comparazione, all’interno
dei quali si è sviluppato un vastissimo dibattito che, in questa sede, non potrebbe essere sintetizzato
neppure nelle sue linee essenziali.
Alcuni termini del problema, tuttavia, vanno brevissimamente richiamati.
Per il giurista il linguaggio è strumento formale autonomo rispetto alla lingua che lo esprime.
23
Non solo: all’interno dello stesso linguaggio giuridico si possono ritrovare formule identiche con
significati diversi, vuoi per effetto dell’evoluzione dinamica del diritto, vuoi per il contesto in cui un
termine viene inserito. Ad esempio, la “buona fede” è cosa diversa a seconda che sia intesa in senso
soggettivo ovvero in senso oggettivo.
Quando all’interpretazione del linguaggio giuridico si somma l’esigenza della sua comparazione
con altri linguaggi giuridici espressi in lingue diverse, i problemi euristici, evidentemente, si
moltiplicano.
Così, se è vero che due articoli di uno stesso corpus normativo possono diversificare i significati
delle parole, è altrettanto vero che due norme di paesi diversi possono usare parole omonime con
significati diversi (si pensi, ad esempio, al diverso significato del termine francese possession, da
quello inglese possession e da quello italiano possesso)28.
Nel campo degli studi economici ci pare che avvenga un fenomeno per molti aspetti inverso: non
diversi linguaggi per diversi paesi, ma una unica lingua (l’inglese), nel suo utilizzo comune, che ha
la funzione di incorporare, e quindi di regolare, ogni aspetto della realtà, sia essa economica che
giuridica, indifferente alle variabili nazionali.
Se non v’è alcun dubbio sulla utilità di un così potente e condiviso strumento di comunicazione
globale, è altrettanto indubbio che tale strumento non potrà mai (nemmeno per i paesi anglofoni, in
quanto lingua e non linguaggio giuridico) corrispondere alle specificità dei singoli ordinamenti
giuridici.
Il problema è, nei fatti, assai rilevante.
E’ noto come all’interno della Comunità Europea esso sia stato affrontato e risolto riconoscendo
come lingue ufficiali tutte quelle parlate in ciascun Stato membro.
E ciò proprio nell’intento di non tradire le specificità - in termini di effettivo significato - di ogni
singola lingua.
Un caso emblematico che si rinviene proprio negli indici OCSE è rappresentato dalla riconduzione
forzata al termine inglese severance pay delle provvigioni che il datore di lavoro paga al lavoratore
al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Nello specifico, l’opera di uniformazione alla
lingua inglese ha prodotto l’effetto paradossale di omologare artificialmente istituti che, collocati
nelle rispettive realtà nazionali, rappresentano in alcuni casi dei costi aggiuntivi per l’impresa,
mentre in altri casi un fonte di risparmio o di pagamento posticipato ai lavoratori di somme già
entrate a far parte del patrimonio dei lavoratori.
28
O. KAHN-FREUND, Comparative Law as an Academic Subject, cit., 52.
24
Ecco, allora, una seconda questione che non può essere elusa in ogni tentativo di uniformazione dei
dati istituzionali: nella comparazione degli istituti si è tenuto in debito conto la circostanza che
espressioni lessicalmente omonime utilizzate in diversi paesi possono presentare, dal punto di vista
giuridico, significati differenti? E quindi – ancora una volta – è accettabile un approccio che rinunci
a proporre valori numerici di omologazione ogni qual volta l’analisi linguistico-giuridica di istituti
omonimi denunci rilevanti differenze di significato?
Il rapporto fra verba legis ed effettività nell’esperienza comunitaria.
L’esperienza di armonizzazione della legislazione sociale in sede comunitaria ha rappresentato una
importante occasione per verificare il livello di effettività di interventi eteronomi omogeneizzanti
rispetto a sistemi nazionali caratterizzati da profonde differenze strutturali.
Non c’è bisogno di attendere gli esiti del prossimo allargamento ad est della comunità, per
verificare quanto frequentemente l’azione comunitaria di armonizzazione venga a produrre, nel
processo di applicazione da parte dei singoli Stati, conseguenze giuridiche profondamente diverse
sul piano dell’effettività.
In realtà, proprio dal punto di vista dell’effettività a livello nazionale della disciplina sociale
comunitaria, si assiste ad un attecchimento a macchia di leopardo: in taluni Stati la normativa
comunitaria si radica con facilità e successo, in molti altri non ha reali chanches di sviluppo.
Ed è anche possibile individuare alcune ragioni specifiche di difficoltà di integrazione. Si pensi, in
particolare, alle profonde differenze nei modelli di relazioni industriali che si sono sviluppati in
seno agli Stati membri.
E’ noto che il “pilastro sociale” europeo si fonda saldamente sul precetto del dialogo tripartito.
Imprese, sindacati e rappresentanza istituzionale costituiscono il passaggio obbligato per
l’armonizzazione controllata: indirizzata, cioè, a perseguire gli obbiettivi fissati al superiore livello
comunitario.
E’ sufficiente che nella storia politica e sociale di un paese il sindacato abbia, per tradizione,
ricoperto un ruolo marginale, oppure che si sia radicato solo in realtà estremamente localizzate,
oppure, ancora, che non si sia mai sviluppata una vera cultura delle relazioni industriali, per far
venir meno le premesse essenziali allo sviluppo del dialogo sociale comunitario e,
conseguentemente, per pregiudicare qualsiasi processo di effettiva armonizzazione; sebbene a
livello formale – e questo è il dato più pericoloso e fuorviante per una analisi quantitativa del dato
istituzionale – la disciplina comunitaria possa dirsi attuata anche in quel paese.
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Inoltre, va anche osservato che, sempre volendo limitarsi all’analisi dei sistemi di relazioni
industriali, non è solo fra paesi più o meno sviluppati dal punto di vista sindacale che possono
prodursi effetti giuridici diversi a parità di dato normativo di riferimento29.
Basti pensare al confronto fra due nazioni parimenti caratterizzate da una antica e raffinata
tradizione di relazioni industriali, quali sicuramente sono Germania e Regno Unito.
E’, infatti, incontestabile che l’implementazione - cioè l’opera di riconduzione ad effettività della
normativa sopranazionale nell’ambito territoriale dei singoli Stati membri - della disciplina sociale
comunitaria abbia prodotto, proprio con particolare riferimento a Germania e Regno Unito, effetti
tutt’altro che omologanti. E, tuttavia, anche in questo caso, la disciplina comune europea può dirsi
realizzata, in quanto l’armonizzazzione non comporta l’omogeneizzazione di realtà socio-politiche
differenti, ma tende a renderle compatibili sul piano della effettività.
Dunque, in sintesi, si deve rilevare che, mentre da una lettura della mera disciplina legale si possono
individuare situazioni formalmente molto simili in diversi paesi comunitari, l’analisi della realtà
applicativa delle norme giuridiche denuncia profonde differenze nella effettiva regolamentazione
delle fattispecie concrete. O viceversa.
Tale osservazione conduce a formulare un’ultima questione: come può giustificarsi un metodo di
indagine quantitativa che attribuisca pari valore a parità di dato istituzionale, indipendentemente
dalla sua verifica sul piano dell’effettività?
Conclusioni.
Le considerazioni qui sinteticamente esposte hanno il limitato obbiettivo - nel solco del già
richiamato insegnamento che ci proviene dalla disciplina giuscomparatistica - di mettere in guardia,
nell’analisi e nella valutazione cross country di istituti giuridici astrattamente comparabili, da
generalizzazioni affrettate, cui è fin troppo facile pervenire seguendo indicazioni meramente
nominalistiche.
Per evitare tale errore crediamo sia necessaria la condivisione di un metodo comparatistico che non
si esaurisca nel rilievo delle differenze e delle somiglianze formali, ma che sia proteso alla ricerca
delle ragioni di queste; un metodo scientifico, inoltre, che accetti senza mortificazione l’ipotesi di
non condurre ad utilità pratiche, illuminato dal dubbio sulla stessa riconducibilità, sempre e
comunque, degli ordinamenti giuridici a modelli quantitativi.
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Ed in effetti certa letteratura economica si è dimostrata sensibile al problema: cfr. ESTEVEZ-ABE, TORBEN IVERSEN,
DAVID SOSKICE, Social Protection and the Formation of Skills: A Reintrepretation of the Welfare State, in P. HALL – D.
SOSKICE (eds), Varieties of Capitalism: The Challenges facing Contemparary Political Economies, Oxford Un. Press,
2001, p. 163 e ss.
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