L’impugnazione e la revoca del licenziamento 6.3La decadenza dall’impugnazione e procedura di intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo Nel precedente Cap. 4, si è visto che nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro con più di quindici dipendenti (rectius, con i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, comma 8, L. 300/1970, su cui v. Cap. 7), è tenuto ad attivare la procedura conciliativa disciplinata dall’art. 7 della L. 604/1966, che vede il coinvolgimento di un soggetto terzo, quale è la commissione provinciale di conciliazione (art. 410 c.p.c.) presso la Direzione territoriale del lavoro (DTL). Si ricorda che detta procedura non trova applicazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo soggetti al nuovo regime sanzionatorio del D.Lgs. 23/2015. Tale procedura prevede, per quanto qui rileva, «due» comuni- Le «comunicazioni» della procedura ex art. 7 L. 604/1966 cazioni di licenziamento. La prima (comma 2) è indirizzata alla DTL e per conoscenza al lavoratore, con cui il datore di lavoro: —dichiara l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo; —indica i motivi del licenziamento; —indica le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato. La seconda (comma 6) segue al fallimento del tentativo di conciliazione ovvero al vano decorso del termine di sette giorni entro il quale la DTL deve convocare le parti al fine di raggiungere un accordo. Incertezze e diversità di pronunce, si sono registrate nella pratica giudiziaria, con riferimento a quale delle due comunicazioni il lavoratore deve impugnare al fine di evitare il maturarsi della decadenza. Secondo una prima impostazione «nel caso in cui la comu- Orientamenti della giurinicazione ex art. 7 comma 1 della L. 604/1966 contenga sprudenza di merito un’obiettiva volontà risolutoria e sia stata ritualmente impugnata dal lavoratore, a nulla vale la mancata impugnativa nei termini della successiva comunicazione ex art. 7, comma 6, della stessa legge, con la conseguenza che il lavoratore non può considerarsi decaduto dall’impugnativa del licenziamento» (ordinanza del Tribunale di Ravenna 6 marzo 2013). Meritano però di essere segnalate anche due sentenze del Tribunale di Padova (22 maggio e 13 giugno del 2014), secondo cui «il lavoratore decade dall’impugnazione se si limita a contestare la lettera con cui il datore di lavoro ha espresso la mera intenzione di procedere al futuro licenziamento e non quella di vero e proprio licenziamento inviata a seguito dell’esperimento dell’incombente conciliativo». A parere dei giudici di merito la lettera che il datore di lavoro indirizza alla Direzione territoriale del lavoro e al lavoratore non costituisce un atto impugna- 195 Capitolo 6 bile in quanto non rappresenta il vero e proprio licenziamento, ma la semplice intenzione di procedere allo stesso, sicché esso è un atto privo di effetti estintivi del rapporto di lavoro. Appare pertanto evidente che la procedura introdotta dalla riforma Fornero ha aperto la strada ad un «nuovo» contenzioso, dai risultati completamente incerti e dagli effetti oltremodo dirompenti. 6.4Le conseguenze derivanti dalla decadenza dell’impugnazione Nel diritto del lavoro molteplici sono i diritti sottratti alla disponibilità delle parti. L’art. 2969 c.c. stabilisce espressamente che: «la decadenza non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, salvo che, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti, il giudice debba rilevare le cause di improponibilità dell’azione». La decadenza prevista dall’art. 6 della L. 604/1966 attiene, secondo la giurisprudenza, ad un diritto disponibile del lavoratore, con la conseguenza che essa non possa essere rilevata d’ufficio dal giudice. L’apporto dato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità in tema di rispetto del termine di decadenza ex art. 6 L. 604/1966, è nella materia de qua maggiormente sentita, stante le ripercussioni gravi che dalla mancata impugnativa del licenziamento possono derivare al lavoratore. Impugnazione, decadenza e disponibilità dei diritti In tali circostanze ci si è chiesti se fosse comunque consentito al lavoratore utilizzare gli strumenti risarcitori ordinari, ossia se lo stesso avesse comunque titolo per chiedere ed ottenere il risarcimento del danno secondo il diritto comune. Secondo un risalente indirizzo giurisprudenziale «nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia verificata la decadenza dall’impugnazione è concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali che governano questa azione, sempre che ne ricorrano (e siano dal lavoratore allegati) i relativi presupposti» (Cass. 2 marzo 1999, n. 1757). Si è in proposito anche sostenuto che il fatto costitutivo generatore della pretesa fatta valere in giudizio dal lavoratore è l’inadempimento del datore di lavoro di guisa che il regime di tutela si risolve, fermo il fatto costitutivo, in una questione di scelta della norma giuridica da applicare (la disciplina speciale sui licenziamenti oppure le norme codicistiche generali) che come tale è passibile di mutamento ad opera delle stesse parti o anche del giudice, senza che ciò determini una modifica della causa pretendi (Cass. 23 dicembre 2000, n. 16163). L’orientamento più recente è invece di senso contrario e si fonda essenzialmente sulle seguenti argomentazioni, riportate nella sentenza della Cassazione n. 5545 del 9 marzo 2007, che fa proprie, specificandole, quelle espresse dalla Suprema Corte con sentenza n. 18216/2006. Strumenti risarcitori ordinari 196 L’impugnazione e la revoca del licenziamento Ad avviso della Corte, l’ordinamento prevede per la risoluzione del rapporto di lavoro una disciplina speciale, del tutto diversa da quella ordinaria, all’interno della quale, e nelle relative aree, il legislatore ha previsto un termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore «a garanzia della certezza della situazione di fatto determinata dal recesso datoriale, ritenendo tale certezza valore preminente rispetto a quello della legittimità del licenziamento». Pertanto, se il lavoratore non impugna il licenziamento entro il predetto termine decadenziale perde il diritto di far accertare in sede giudiziale l’illegittimità del recesso e di conseguire il risarcimento del danno nella misura prevista dalle leggi speciali, né il giudice può conoscere di tale illegittimità per ricollegare, di per sé, al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune. In sostanza, la decadenza «impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, nella misura in cui non consente di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del licenziamento». Partendo da tali presupposti, poiché l’inadempimento — il dedotto recesso illegittimo — «costituisce il presupposto del risarcimento dovuto dal contraente inadempiente ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’impossibilità di tale accertamento esclude anche la possibilità di riconnettere al preteso inadempimento del datore di lavoro l’obbligazione risarcitoria in favore del lavoratore». Sul piano della responsabilità extracontrattuale, è stato rilevato che pur ammettendosi che «la mancata impugnazione del licenziamento nel termine di decadenza non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro», tale circostanza non può determinare come «unica conseguenza» l’esclusione della tutela speciale. Se il legislatore ha attribuito «valore preminente alla certezza della situazione di fatto scaturita dalla decadenza e se il giudice, a seguito di questa, non può conoscere della eventuale illegittimità del licenziamento, appare evidente che neppure può conoscere di tale illegittimità al fine di integrare, di per sé, la illiceità del comportamento del datore di lavoro». In altre parole, il fatto ingiusto posto alla base della pretesa risarcitoria extracontrattuale non può consistere nella semplice illegittimità del licenziamento, non più conoscibile, ma deve integrare un comportamento illecito ulteriore del datore di lavoro ex art. 2043 c.c., che deve essere allegato e provato dal lavoratore richiedente in base ai principi generali. L’art. 2043 c.c. stabilisce che: «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno». La Corte pertanto precisa che «la decadenza dall’impugnativa del licenziamento preclude l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e la tutela risarcitoria di diritto comune, venendo a mancare il necessario presupposto, sia sul piano contrattuale (in quanto l’inadempimento del datore di lavoro consista nel recesso illegittimo in base alla disciplina speciale), sia sul piano extracontrattuale (ove il comportamento illecito dello stesso datore consista, in sostanza, proprio e soltanto nella illegittimità del recesso)». 197 Capitolo 6 La giurisprudenza ha affermato che: «il termine decadenziale di cui all’art. 6, legge n. 604/1966 non è condizione di procedibilità ma, per l’appunto, di decadenza dell’azione e si riflette, pertanto, sul merito della domanda» (Tribunale di Milano, 1 dicembre 2009); «la decadenza dall’impugnativa del licenziamento, individuale o collettivo, preclude l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e la tutela risarcitoria di diritto comune, venendo a mancare il necessario presupposto, sia sul piano contrattuale, in quanto l’inadempimento del datore di lavoro consista nel recesso illegittimo in base alla disciplina speciale, sia sul piano extracontrattuale, ove il comportamento illecito consista proprio, e soltanto, nell’illegittimità del recesso» (Cass. 10 giugno 2009, n. 13580). Ma in senso contrario si è affermato che «nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia verificata la decadenza dall’impugnazione è concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali della responsabilità contrattuale o extracontrattuale, facendo valere i relativi presupposti, diversi da quelli previsti dalla normativa sui licenziamenti e tali da configurare l’atto di recesso come idoneo a determinare un danno risarcibile» (Cass. 10 gennaio 2007, n. 245). L’orientamento prevalente è dunque nel senso che la decadenza dall’impugnativa del licenziamento non comporta la liceità del licenziamento, ma preclude al lavoratore di potersi avvalere della tutela speciale, nonché della tutela risarcitoria di diritto comune. La preclusione riguarda sia l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento sia il risarcimento del danno: tale principio è stato novellamente ribadito dalla Cassazione con sentenza 5 febbraio 2010, n. 2676. Tale orientamento è stato nuovamente confermato dalla Suprema corte con sentenza 3 marzo 2010, n. 5107 che ha così statuito: «in caso di mancata impugnazione del licenziamento entro il termine di decadenza previsto dalla legge, il giudice non può conoscere della illegittimità del licenziamento neppure per ricollegare al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune. La decadenza, infatti, impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, nella misura in cui non consente di far accertare in sede giudiziale l’illegittimità del licenziamento». In tal senso anche la sentenza 19 marzo 2010, n. 6727. Orientamento giurisprudenziale 6.5L’accettazione del TFR come rinuncia ad impugnare Accade spesso che il lavoratore licenziato sottoscriva un documento con il quale accetta quanto corrispostogli dal datore di lavoro per effetto della cessazione del rapporto di lavoro. Il comportamento evidenziato può essere «usato» dal datore di lavoro nel giudizio di impugnativa del licenziamento al fine di dimostrare che il lavoratore, accettando 198 L’impugnazione e la revoca del licenziamento le spettanze di fine rapporto, in realtà ha inteso accettare la risoluzione del rapporto di lavoro, rinunziando implicitamente all’impugnativa. Innanzitutto, come detto nel precedente paragrafo, si ritiene Disponibilità del diritto di che il lavoratore possa disporre liberamente del diritto di impugnazione impugnare il licenziamento potendone fare oggetto di rinunce o transazioni, non trovando applicazione l’art. 2113 c.c. L’interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro rientra infatti nell’ambito dei diritti disponibili, come è desumibile anche dal fatto che, in mancanza di una tempestiva impugnazione, il licenziamento, ancorché illegittimo consolida i suoi effetti (Cass. 3 ottobre 2000, n. 13134). La giurisprudenza è nel senso che la quietanza a saldo, o Irrilevanza delle cd. quieliberatoria, che il lavoratore sottoscrive a seguito della risolu- tanze a saldo zione del rapporto, accettando senza esprimere riserve la liquidazione e le altre spettanze dovutegli, non implicano di per sé l’accettazione del recesso datoriale e la rinuncia ad impugnarlo. Del resto, in generale, la cd. quietanza a saldo si risolve, secondo giurisprudenza consolidata, in una dichiarazione di scienza priva di qualsiasi valore negoziale, salvo che un’effettiva rinuncia non possa essere desunta dal comportamento complessivo tenuto dal lavoratore. La giurisprudenza ha infatti affermato che «la quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, ad una serie di titoli di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o transazione, che il lavoratore ha l’onere di impugnare nel termine di cui all’art. 2113 c.c., alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili «aliunde», che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi» (Cass. 18 aprile 2008, n. 10218). Ciò non toglie, tuttavia, che i predetti comportamenti non pos- Significato negoziale e accertamento sano però assumere tale significato negoziale. A tal fine, il giudice deve svolgere un adeguato accertamento anche di altre circostanze che — se precise, concordanti e obiettivamente concludenti — possono dimostrare l’intenzione del lavoratore di accettare l’atto risolutivo (Cass. 12 luglio 2002, n. 10193). In ogni caso «la mera accettazione del trattamento di fine rapporto ancorché non accompagnata da alcuna riserva non può essere interpretata, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinuncia ai diritti derivanti dall’illegittimità del licenziamento, non sussistendo alcuna incompatibiltà logica e giuridica tra l’accettazione di detto trattamento e la volontà di otte- 199 Capitolo 6 nere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, al fine di conseguire l’ulteriore diritto alla riassunzione o al risarcimento del danno» (Cass. 21 marzo 2000, n. 3345); «la mera accettazione del trattamento di fine rapporto non integra un comportamento tacito e idoneo a configurare acquiescenza alla cessazione del rapporto, valendo, per contro, l’impugnativa del licenziamento illegittimo a configurare ex se la volontà di prosecuzione e ad escludere una risoluzione tacita» (Cass. 15 febbraio 2008, n. 3865). 6.6La revoca del licenziamento L’istituto della revoca del licenziamento è espressamente disciplinato, in modo identico, dall’art. 18, comma 10, L. 300/1970 e dall’art. 5 D.Lgs. 23/2015. Entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione dell’impugnazione da parte del lavoratore, il datore di lavoro, infatti, può revocare il recesso. In tal caso il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dall’art. 18 L. 300/1970 e dal D.Lgs. 23/2015. Appare necessario formulare alcune osservazioni. Il D.Lgs. 23/2015, come si è detto (Cap. 1) e meglio si vedrà al Cap. 7, delinea un nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi completo, nel senso che riguarda sia i licenziamenti con un regime unitario a prescindere dai limiti occupazionali del datore di lavoro (es. orali e discriminatori), sia quelli soggetti ad un regime sanzionatorio differenziato in ragione, invece, dei predetti limiti. Pertanto, se l’art. 5 dispone espressamente che nel caso di revoca «non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente decreto», non dovrebbero esservi dubbi che l’istituto trovi applicazione sia per le imprese medio/grandi — con i requisiti dell’art. 18, comma 8, L. 300/1970 — , che piccole — senza i requisiti dell’art. 18, comma 8, L. 300/1970. Dubbi invece sorgono in relazione alla disciplina di cui all’art. 18 L. 300/1970, giacché il comma 10, in caso di revoca, esclude l’applicabilità dei «regimi sanzionatori previsti dal presente articolo». E tale articolo, salve le ipotesi di licenziamenti orali, discriminatori e nulli per i quali esiste un unico regime sanzionatorio indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, detta unicamente i regimi per le imprese medio-grandi (con i requisiti di cui al comma 8). Per le imprese piccole, il regime è invece quello dell’art. 8 L. 604/1966, il che dovrebbe far ritenere che in tale ambito non possa trovare applicazione la revoca di cui all’art. 18 L. 300/1970. C’è chi invece sostiene che, collocandosi la disciplina al comma 10, e pertanto, successivamente a quella relativa al computo delle dimensioni dei datori di lavoro (contenuta nel comma 8 che fa espressamente riferimento ai regimi sanzionatori di cui ai comma da 4 a 7, per i quali rilevano dette dimensioni), la revoca avrebbe applicazione generalizzata. Del resto, è stato osservato che l’estensione del campo di applicazione anche alle aziende fino a quindici dipendenti appare la soluzione migliore: «onde evitare discriminazioni tra «piccoli» e «medio-grandi» datori di lavoro, in una prospettiva costituzionalmente orientata (ai sensi dell’art. 3 Cost.), si deve ritenere che in tale situazione al soggetto datoriale che ricorra alla revoca non si applichi la sanzione sancita dell’art. 8 della legge n. 604/1966» (Rausei P., Tuttobene M., Il nuovo quadro regolaratorio tra incertezze e maggior potere ad libitum dei giudici, Adapt, 2012). 200 L’impugnazione e la revoca del licenziamento La prima disciplina della revoca, contenuta nella L. 300/1970, consegue alle modifiche operate dalla legge Fornero (L. 92/2012) all’art. 18, e la seconda, riportata nell’art. 5 D.Lgs. 23/2015, è la riproduzione esatta delle disposizioni del comma 10 dell’art. 18. Prima della legge Fornero, l’istituto non riceveva alcuna regolamentazione nell’ambito del diritto del lavoro, pur essendo attuato nella pratica. È stato attraverso l’elaborazione giurisprudenziale che si è Regolamentazione dell’istitupervenuti all’individuazione degli aspetti essenziali dell’istitu- to prima della legge Fornero to, quali: —la revoca del licenziamento poteva aversi sia prima che dopo l’eventuale impugnazione da parte del lavoratore; —non era necessaria la forma scritta della revoca, in virtù del principio che, salvo diversa previsione della legge (o delle parti), vige la libertà della forma degli atti. In tal senso, la giurisprudenza ha affermato che «la revoca del licenziamento del lavoratore subordinato non richiede la forma scritta, poiché i negozi risolutori degli effetti di atti richiedenti la forma scritta non sono assoggettati ad identici requisiti formali, in ragione del principio secondo cui la forma degli atti è libera se la legge (o la volontà delle parti) non richiede espressamente una forma determinata» (Cass. 1 luglio 2004, n. 12107). Veniva conseguentemente ammessa la revoca tacita. In tal senso, ha ritenuto, ad esempio, che, non costituendo la concessione del periodo di preavviso un effetto direttamente derivante dalla legge, in quanto esso deve essere indicato nell’atto di licenziamento, ne deriva che se in tale atto manca la sua espressa previsione ed indicazione, «la prosecuzione di fatto della prestazione lavorativa in data successiva al licenziamento può costituire valido elemento dal quale ricavare la sopravvenuta revoca tacita del recesso» (Cass. 23 giugno 2003, n. 9973); —il datore di lavoro doveva, tuttavia, dichiarare di essere disposto a rimuovere tutte le conseguenze pregiudizievoli derivanti dal licenziamento, non essendo sufficiente il mero invito rivolto al lavoratore di riprendere servizio; —la comunicazione della revoca, in ogni caso, non era di per sé sufficiente a ripristinare il rapporto di lavoro, essendo necessaria l’accettazione da parte del lavoratore, in quanto il licenziamento è un atto unilaterale recettizio che, esplicando i suoi effetti dal momento che giunge a conoscenza del lavoratore, richiede che lo stesso l’accetti. Si riteneva, in sostanza, che stante la natura del licenziamento, esso non potesse essere unilateralmente revocato dal datore di lavoro, rendendo perciò necessaria l’accettazione del lavoratore per produrre l’effetto di ripristinare il rapporto. Ne conseguiva che, in mancanza di accettazione, l’atto revocatorio non fosse ritenuto idoneo a rimuovere gli effetti risolutori dell’atto di recesso. L’accettazione, tuttavia, poteva essere anche tacita: «la revoca del licenziamento è valida soltanto se accettata dal lavoratore, anche per fatti concludenti» (Cass. 22 giugno 2004, n. 11638). 201 Capitolo 6 Anche in tale caso, non era necessario che l’accettazione avvenisse per iscritto, potendo essere anche tacita: «la revoca del licenziamento è valida soltanto se accettata dal lavoratore, anche per fatti concludenti, non essendo sufficiente la revoca unilaterale che, in quanto tale, non è sufficiente a ripristinare automaticamente il rapporto» (Cass. 22 giugno 2004, n. 11638). In tal senso, in mancanza di una norma che richiedesse un’accettazione espressa, la giurisprudenza ha ritenuto idonea a produrre i suoi effetti ripristinatori del rapporto di lavoro anche «la revoca del licenziamento comunicata per telefono al lavoratore interessato, se accettata dal destinatario, anche con comportamenti concludenti» (Cass. 18 novembre 1997, n. 11467). Ebbene, in questo impianto «giurisprudenziale», si è poi inserita la nuova disciplina introdotta dalla L. 92/2012 e contenuta nel comma 10 dell’art. 18 L. 300/1970. Viene così chiarito che la revoca del licenziamento deve avvenire dopo la comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del licenziamento senza necessità di accettazione da parte del lavoratore. Si è detto invece che la giurisprudenza ammetteva la revoca anche prima dell’impugnazione del licenziamento richiedendo altresì l’accettazione del lavoratore, il quale invece secondo la norma è un soggetto che dinanzi all’esercizio del potere di revoca sembra non poter far nulla. Non viene invece chiarito l’aspetto riguardante la «forma» della revoca, sicché dovrebbero continuare a valere i principi giurisprudenziali sino ad oggi espressi. Né la disposizione contenuta nell’art. 5 D.Lgs. 23/2015 apporta ulteriori chiarimenti in merito. Questioni risolte con la legge Fornero Revoca dell’atto di recesso è una facoltà del datore di lavoro effetti termine ripristino del rapporto di lavoro entro 15 gg. dalla comunicazione dell’impugnazione del licenziamento diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca 202