N
O
BOLOGNA
E
S
COSA C’E’
NEL
PIATTO?
l’etichettatura
degli alimenti
destinatinati
al consumatore
finale
GUIDA PRATICA
GUIDA PRATICA
> A cura di Dott. Piero Magnavita
COSA C’E’
NEL
PIATTO?
l’etichettatura
degli alimenti
destinatinati
al consumatore
finale
GUIDA PRATICA
INDICE
Quello che amo
Mi ha detto
Che ha bisogno di me
Per questo ho cura di me stessa
guardo dove cammino e
temo che ogni goccia di pioggia
mi possa uccidere
Bertolt Brecht
Premessa .....................................................................................
Le carni .........................................................................................
Le carni di pollame..................................................................
Uovo in guscio ............................................................................
I prodotti ittici .............................................................................
I prodotti ortofrutticoli freschi............................................
Il formaggio parmiggiano reggiano .................................
I preincarti ...................................................................................
I prodotti alimentari
in confezione originale ...........................................................
Denominazioni di vendita......................................................
Le bevande ..................................................................................
Le denominazioni di origine ................................................
L’etichettatura nutrizionale..................................................
OGM ................................................................................................
Sedi federconsumatori bologna.........................................
Appunti ..........................................................................................
p.5
p.7
p.15
p.17
p.23
p.26
p.27
p.30
p.33
p.35
p.42
p.43
p.44
p.45
p.47
P.48
PREMESSA
PER UN CONSUMO CONSAPEVOLE
he cosa mangiamo? È una domanda che sempre più spesso ci facciamo. Aumenta la consapevolezza che, anche da ciò che si mangia,
dipende la nostra salute e che il cibo deve essere non solo di buona
qualità ma anche preparato, confezionato e conservato con cura.
Ci sono quindi grandi responsabilità dei produttori delle materie prime,
dell’industria alimentare nella preparazione e confezione del prodotto e
della distribuzione per garantire sicurezza in ogni fase della commercializzazione.
Anche il consumatore può essere un responsabile ed attivo nei confronti
dei prodotti alimentari, controllando attentamente l’etichetta e osservando una scrupolosa igiene in cucina.
È però necessario per un consumatore responsabile essere informato di
tutte le normative esistenti ed essere esigenti.
Obiettivo di questo opuscolo è fornire una conoscenza delle normative
esistenti riferite all’etichettatura degli alimenti e fornire uno strumento di
facile consultazione per un consumo sempre più consapevole.
C
L’ETICHETTATURA
DEGLI ALIMENTI DESTINATI
AL CONSUMATORE FINALE
L’
etichettatura fornisce delle informazioni sul prodotto alimentare.
E’ regolata da norme.
Il fine è quello di tutelare l’interesse del consumatore ad avere conoscenza di ciò che acquista e a favorire la confrontabilità tra prodotti simili.
Sono quindi state stabilite indicazioni obbligatorie per i vari alimenti e
regolato il modo in cui devono essere stese anche le indicazioni facoltative ammesse.
Pertanto una Ditta non può scrivere quello che vuole o meglio crede su
un prodotto alimentare ma deve seguire delle regole.
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Queste regole, oltre che proteggere i consumatori, tutelano così anche la
correttezza delle operazioni commerciali e sono a presupposto della libera circolazione dei prodotti alimentari nell’ambito dell’Unione Europea.
L’insieme delle norme sull’etichettatura riguarda il diritto tecnico-commerciale, non contengono prescrizioni di carattere igienico sanitario. La
sicurezza alimentare viene regolata da altre fonti, ed è considerata un
pre-requisito essenziale per ogni prodotto che venga presentato al commercio, ogni prodotto etichettato.
D’altra parte bisogna considerare che una corretta etichettatura è il presupposto per una agevole tracciabilità del prodotto (origine, provenienza,
condizioni tecnologiche in cui è stato ottenuto), pertanto non solo favorisce ma è condizione necessaria per l’efficacia di qualsiasi controllo connesso alla attività degli organi deputati alla verifica dei requisiti igienico-sanitari.
Le norme che riguardano l’etichettatura dei prodotti alimentari destinati
al consumatore finale sono molto complesse, vi sono regole comuni a
tutti i prodotti alimentari, accompagnate da norme specifiche per ogni
alimento.
Per rendere pratica la leggibilità dell’informazione sulla materia abbiamo
pensato di illustrare in primo luogo l’informazione dovuta sui principali
prodotti freschi venduti sfusi. Quindi di presentare il tema dei preincarti,
oggi quanto mai diffusi non solo nei supermercati ma anche in piccoli
esercizi al dettaglio. Poi di trattare i prodotti venduti in confezione originale.
Non sta qui dire cosa sia buona o cattiva alimentazione, dipende dalle
caratteristiche fisiche e dalle attività sociali dei singoli individui, è importante la consapevolezza delle proprie esigenze e la conoscenza di ciò che
si acquista, è appunto a questa conoscenza, all’aiuto ad un acquisto consapevole e informato che mira questa illustrazione.
> Maria Grazia Galli Presidente Federconsumatori Bologna
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LE CARNI
Carni Bovine
enominazione di vendita: le categorie di legge sono due, Vitello e
Bovino Adulto.
D
L’assegnazione ad una di queste due viene fatta già al macello dove i
Veterinari Ispettori alle dipendenze della Sanità Pubblica classificano
come vitelli i bovini macellati prima dell’ottavo mese di vita, la cui carcassa non superi il peso di 185 kg e che al controllo alla macellazione
mostrano mancato sviluppo funzionale del rumine e colore rosa o bianco-rosato delle carni. (Quindi le carni di vitello,piuttosto che semplicemente le carni di un animale giovane, sono soprattutto le carni di un animale che è rimasto monogastrigo, non ha sviluppato il rumine ovvero la
capacità di utilizzare alimenti vegetali; questo è stato ottenuto con una
monodieta a base di latte, per sfruttare la quale l’animale non ha mai
dovuto sviluppare la sua naturale attività di ruminante poligastrico. Il
latte che viene somministrato è un latte ricostituito povero di ferro, pertanto la dieta dell’animale porta ad una situazione di tendenziale anemia,
da cui il colore pallido delle carni).
l banco vendita difficilmente il consumatore trova le carni bovine
rosse con la dizione “bovino adulto”. E’ pratica comune del commercio indicare dei nomi accettati nella prassi anche se solo parzialmente riferibili a categorie classificate da norme.
La normativa ufficiale identifica cinque classi annonarie.
A) Maschi non castrati di età inferiore ai due anni
B) Altri maschi non castrati
C) Maschi castrati
D) Femmine che hanno figliato
E) Altre femmine.
A
L’identificazione di categoria sopra riportata è obbligatoria negli scambi
commerciali non nell’etichettatura al consumatore dove sono accettate
dizioni entrate nella consuetudine locale o derivanti da vecchie normative nazionali sulla classificazione dei bovini da macello, ormai decadute
ma di cui alcune voci sono divenute linguaggio comune. Quali la voce
“vitellone”, comunemente usata per indicare bovini maschi del peso vivo
superiore ai 300 kg e con tutti i denti incisivi da latte (in pratica coinci7
de con la voce A della normativa comunitaria), o i termini “manza” o
“scottona” per carni di femmine che non hanno partorito e non siano gravide, con non più di due incisivi permanenti (pressoché coincidente con
la voce E della normativa comunitaria).
Una curiosità: in pratica il consumatore non troverà mai in vendita presso le macellerie, singole o nei supermercati, carne di vacca (femmina che
ha figliato), o toro (maschio intero con almeno un dente incisivo permanente), innanzitutto perché le carni di questi animali hanno un colore
molto carico tendente al bruno, che non incontra il gusto del consumatore medio, inoltre perché il rapporto tra parte muscolare e parte ossea e
grasso, quindi la percentuale tra parte vendibile come fettina o preparato e scarto, è molto più alto che in animali giovani, quindi rende i tempi
di lavorazione più onerosi per il macellaio. Le carni di vacca, molte, e dei
pochi tori (l’uso della inseminazione artificiale ha limitato moltissimo il
numero di esemplari destinati alla monta), viene utilizzata, dopo essere
stata disossata, dall’industria che produce scatolette, hamburger, preparazioni gastronomiche contenenti carni bovine in genere.
Comunque l’indicazione minima obbligatoria con cui devono venir denominate alla vendita le carni bovine è quella tra vitello e bovino adulto, in
genere quest’ultima voce è di fatto sostituita dalle indicazioni di categoria sopra elencate. L’etichettatura, in caso di vendita di carni sfuse, può
essere su ogni singolo pezzo esposto nel banco refrigerato oppure sulla
porzione di banco che contiene il tipo di carni, quest’ ultimo è il metodo
più usato. E’ inoltre prassi, poiché la carne bovina viene venduta con
prezzi differenziati per ogni singolo taglio in cui viene scomposta la car-
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cassa, indicare la denominazione del taglio su ogni singolo cartellino col
prezzo apposto sulla carne. Non è obbligo di legge indicare il nome del
singolo taglio (scamone piuttosto che filetto o noce o fesa o punta o
quanto ancora, poiché non esiste un’unica denominazione ufficiale per i
vari tipi di tagli ma consuetudini regionali e finanche di campanile), è
obbligatorio indicare il prezzo, per cui per giustificare la differenziazione
nel cartellino si inserisce anche il nome del singolo taglio.
Anche se non esiste una norma di legge che colleghi un dato muscolo o
gruppo di muscoli sezionati ad un nome commerciale, il valore della consuetudine, che associa per esempio la dizione di filetto ad un particolare
gruppo anatomico, il muscolo scheletrico psoas posto sotto il longissimus
dorsi con base ossea nelle vertebre lombari, è sufficiente a valutare come
frode in commercio l’atteggiamento del dettagliante che offra come filetto un taglio avente altra origine.
Una curiosità: i musulmani, ma anche talune macellerie in Sicilia, non
usano distinguere nella vendita i singoli tagli anatomici, ma tagliano la
carne bovina gradualmente a pezzi come se affettassero un salame o
comunque un qualcosa di omogeneo. Probabilmente perché nelle culture
del sud la carne viene consumata bollita o come “spezzatino”. La cultura
della differenziazione dei singoli muscoli in base alle loro differenze organolettiche, dell’ uso della fettina, dell’arrosto, del pezzo per il brodo è tipico della cultura gastronomica europea e di derivazione europea, non afroasiatica.
La denominazione di “carni” è inoltre riservata alle porzioni di muscolo
scheletrico; le parti viscerali dell’animale, quali il cuore, il fegato, i reni
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ecc…., assumono il termine di “frattaglie”.
Altre voci dell’ etichettatura obbligatoria: L’etichettatura delle carni
bovine (tanto di vitello che di bovino adulto) deve inoltre essere completata dalle seguenti indicazioni:
-un Numero che identifica l’animale o il gruppo di animali
-il Paese e il numero di riconoscimento dell’impianto in cui è avvenuta la
macellazione
-il Paese e il numero di riconoscimento del laboratorio in cui è avvenuto
il sezionamento
-il Paese di nascita dell’animale o del gruppo di animali
-il Paese di ingrasso dell’animale o del gruppo di animali.
Le voci di cui sopra devono essere visibili al pubblico. Non importa che
siano su un cartellino adeso ad ogni singolo pezzo di carne o frattaglie,
basta che siano fornite “per iscritto ed in modo visibile al consumatore
nell’esercizio di vendita”. Pertanto tale etichettatura può rivestire la forma
di un cartello o di un documento, stampato o compilato a mano, esposto
in modo da essere leggibile al pubblico e in posizione idonea a creare una
corrispondenza tra le carni esposte in vendita e il singolo animale o il
gruppo da cui provengono.
Quando il Paese di nascita, ingrasso e macellazione coincidono, le indicazioni vengono semplificate con la dizione:
Origine: (nome del Paese), dopo la sigla del Numero di identificazione.
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La voce “ingrasso” trova un limite nella sua importanza reale come informazione al consumatore nel fatto che è sufficiente un periodo di ingrasso (è la parte finale del ciclo di allevamento, quella del cosiddetto finissaggio, in cui l’animale è rigorosamente tenuto in stalla e alimentato con
diete ipercaloriche per consentire una adeguata infiltrazione di grasso
nelle carni) superiore a trenta giorni in un Paese per indicare quello in
etichetta. Per cui relativamente ci informa su dove e come è avvenuto
l’allevamento.
iguardo all’ elenco di voci di cui sopra, si può osservare ancora che
quando la carne è pervenuta all’esercizio di vendita al dettaglio
ancora in osso, ovvero nella forma di “quarti” con cui usualmente
le carcasse vengono divise nel macello, prima di essere trasportate verso
altre lavorazioni, ovviamente non comparirà la voce relativa al numero
di riconoscimento del laboratorio di sezionamento, dato che detto sezionamento è di fatto avvenuto presso l’esercizio stesso. Può sembrare quest’ultimo un dettaglio secondario, ma in realtà può dare un’informazione utile al consumatore (in una normativa che in generale è più ricca di
fumo che di informazioni effettivamente utili), perché gli consente di
vedere che livello di controllo reale abbia lo spaccio presso cui si serve
sulle carni di cui si approvvigiona. In pratica la qualità di una fornitura
di carne è tanto più leggibile quanto più si ha a che fare con carni ancora in osso, ovvero con muscoli scheletrici ancora integri e connessi alla
loro naturale base ossea. La conformazione, lo stato di ingrasso è così
meglio valutabile. La carne che esce da un laboratorio di sezionamento
industriale è divisa in singoli tagli sottovuoto ed più difficile dare un giudizio complessivo. Inoltre e soprattutto la carne che perviene in quarti
R
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può essere frollata: la frollatura è un processo di intenerimento delle
carni, di complessa natura enzimatico-biochimica, che si sviluppa gradualmente e progressivamente nelle carni successivamente alla macellazione dell’animale, iniziando dal terzo giorno fino a due settimane circa
dalla stessa, ma che necessita della naturale connessione tendinea tra
osso e muscolo scheletrico, non appena questa connessione manca questo processo non si sviluppa più. Per cui una carne che pervenga in osso,
contiene sulla carcassa l’informazione esatta sulla data di macellazione
dell’animale e potenzialmente concede la possibilità all’esercente di prolungare e di avere un controllo sul processo di intenerimento, scegliendo
quando disossarla; quella disossata e porzionata no. Con ciò non si vuol
dire che anche carni che pervengano in tagli anatomici da un laboratorio industriale non possano essere tenere e di alta qualità, solo che il livello di controllo sul processo è ovviamente minore, per cui l’acquisto presso un punto vendita che acquista carni ancora da disossare consente al
consumatore un rapporto più diretto con un momento importante nel
controllo della filiera.
ra le voci facoltative, che vanno dalla dichiarazione di assenza di
OGM o al non utilizzo di grassi animali aggiunti nell’alimentazione
dei bovini, alla razza di appartenenza, alla categoria zootecnica, alla
data di macellazione, al periodo di frollatura, all’IGP (denominazione
geografica protetta) o al DOP (denominazione di origine protetta), stanno
proprio le informazioni in definitiva più preziose per il consumatore. In
fondo sulla qualità della carne che mangiamo incide assai poco o nulla il
luogo di nascita o lo stabilimento di macellazione, incidono assai più la
razza (vi sono razze famose per la qualità delle loro carni, altre famose
per la qualità del latte), il sesso (ad alcuni palati le carni di femmina giovane risultano più gradite), l’intervallo di tempo trascorso tra il giorno di
macellazione e il momento in cui la carne è stata preparata per la vendita (ovvero il cosiddetto periodo di frollatura), che tanto più è lungo tanto
più migliora il sapore e la tenerezza della carne bovina. Purtroppo tutti
questi dati al momento non sono obbligatori e ben pochi e limitati sono
i circuiti distributivi che si sono attrezzati per garantire nell’etichettatura
alla vendita talune di queste informazioni.
T
Vi è inoltre la possibilità di indicazioni facoltative: tra queste vi sono
quelle forse di maggior interesse reale per il consumatore, al fine di guidarlo per l’acquisto.
Innanzitutto si precisa ancora che le indicazioni facoltative non sono
nella libera creatività della singola Ditta ma comunque devono essere
tratte da quelle comprese in un elenco esaustivo stabilito per legge.
Inoltre la loro apposizione nell’etichettatura dei prodotti è subordinata
all’applicazione di precisi Disciplinari per garantire la veridicità del contenuto delle affermazioni.
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LE CARNI
DI POLLAME
enominazione di vendita: poiché nelle “carni di pollame” sono
ricomprese le carni e i visceri di tutti i volatili domestici (polli,
faraone, anatre, tacchini, ecc…..), la denominazione di vendita deve
sempre far riferimento, oltre che al taglio o alla parte della carcassa posta
in vendita, anche alla specie animale.
D
Per “pollo a busto”, s’intende la carcassa del pollo priva di penne, piume,
zampe, testa e tutti i visceri interni. Per “pollo sfilato”, la carcassa come
sopra alla quale però sono stati lasciati i visceri interni ad eccezione dell’intestino.
E’ obbligatoria l’ indicazione, nei vari tipi di tagli (coscia, fuso, ala, ecc….)
di “con pelle” o “senza pelle”.
Per “frattaglie” si devono intendere il cuore, il fegato, il ventriglio, il
collo.
Le carni di pollame devono riportare in etichettatura l’indicazione della
classe di appartenenza alla classe A o B. In pratica tutto il prodotto ceduto al consumatore deve essere di classe A. In classe B sono classificati ai
macelli le carcasse che hanno subito traumi o ammaccature per cui non
possono essere commercializzate intere o che sono risultate sottopeso o
anche eccessivamente grasse o magre. Tali carni sono destinate alla produzioni di prodotti complessi in cui tra gli ingredienti figurano carni di
quella tale specie avicola.
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UOVA
IN GUSCIO
Come pollo va etichettato l’animale in cui la punta dello sterno (l’osso
alla base della cassa toracica) è flessibile, quindi non ossificata.
Come gallina o pollame da brodo, va etichettato l’animale in cui la punta
dello sterno (l’osso alla base della cassa toracica) è rigida, quindi ossificata.
Come cappone va etichettato l’animale di sesso maschile, castrato prima
della maturità sessuale e macellato prima dei 140 giorni di età. Dopo la
castrazione i capponi devono essere stati ingrassati per un periodo di
almeno 77 giorni.
enominazione di vendita: Possono essere vendute anche sfuse, non
solo confezionate, comunque anche nel primo caso dovrà essere
esposta al pubblico l’etichetta dell’imballaggio originale che deve
indicare: la categoria di qualità; la categoria di peso; la
sigla distintiva del produttore; il numero di identificazione del centro di imballaggio; la data della
durata minima; le modalità di conservazione
per l’uso domestico. Tutte voci che esamineremo più sotto.
Oltre al bollo sanitario (un bollo ovale in cui compare la sigla di un paese
e un numero che identifica lo stabilimento di macellazione e/o sezionamento) l’etichettatura delle carni di pollame deve inoltre riportare un
codice che identifica l’allevamento di origine e provenienza. Tale codice
è alfanumerico (fatto di cifre e lettere) e nel pollame a busto o sfilato,
sulle carcasse in pratica, è composto dalla sigla IT, nel caso il Paese sia
l’Italia, di tre cifre, due lettere, tre cifre. Le prime tre cifre sono il codice
Istat del Comune d’origine, le due lettere la sigla della Provincia, gli ultimi numeri quelli assegnati dall’ Azienda USL di quel territorio all’allevamento da cui provengono i polli.
Innanzitutto il termine “uova” identifica
le uova di gallina. Le uova di altre specie devono essere sempre accompagnate dalla identificazione della specie di
appartenenza.
Pertanto leggendo quel codice il consumatore può perlomeno capire se
quel pollo è italiano e di quale provincia.
Se le carni sono sezionate, presentate quindi al commercio in tagli, deve
essere riportata la sigla IT, se sono carni italiane, seguita dalla sigla della
Provincia dell’allevamento.
D
Tutte le uova sono classificate come
categoria di qualità, possono essere A o
B. Le uova di categoria A sono le uniche
che possono essere vendute come uova
fresche. Sull’etichetta delle uova di categoria A è anche obbligatorio che compaia la
categoria di peso, dato che nell’ambito di una
stessa specie può avere significative variazioni, ad
esempio un uovo di gallina può pesare dai 45 ai 75 grammi, per cui è importante che venga data l’indicazione del peso.
Se le carni sono di pollame proveniente da altro Paese, membro della UE
o no, deve essere indicato per esteso, tanto per carni presentate alla vendita in carcasse intere o in tagli, il nome del Paese d’origine.
Il codice di cui sopra può essere riportato sull’etichetta apposta su ogni
singola carcassa o taglio o, ed è quanto avviene più facilmente, su una
etichetta adesa all’ imballaggio con cui le carni vengono commercializzate. Comunque deve essere esposta in modo visibile al pubblico.
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La categoria di peso nell’etichetta è rappresentata da una sigla: XL, L, M,
XL grandissime di peso oltre i 73 grammi; L grandi di peso compreS. (X
so tra 63 e 73 grammi; M medie da 53 a 63 grammi; S piccole con peso
inferiore ai 53 grammi).
Le uova di categoria A sono le uniche che il consumatore vede perché
quelle di B sono tutte destinate all’industria che produce ed utilizza gli
ovoprodotti.
Per rientrare nella categoria A le uova devono avere il guscio integro,
naturalmente pulito (ovvero che si presenta tale alla raccolta, senza
necessità di interventi artificali) e caratteristiche di freschezza rilevabili
attraverso la ”speratura”. Tale operazione consiste, attraverso una intensa
fonte luminosa, nell’osservare l’interno dell’uovo in trasparenza. Tra le
altre cose si può in tal modo vedere e misurare la camera d’aria che si
forma sul polo ottuso dell’uovo man mano che questo perde di freschezza. Se la camera d’aria supera i 6 mm d’altezza l’uovo non può essere
classificato di categoria A.
Esiste anche una categoria “EXTRA”. Sono le uova di categoria A commercializzate nei primi sette giorni dalla deposizione. Ovviamente tale
data in questo caso deve essere obbligatoriamente indicata sull’etichetta.
Oltre tale scadenza temporale sono da considerarsi uova di categoria A a
tutti gli effetti.
La data di consumo preferibile per le uova di categoria di categoria A è
di 28 giorni dalla deposizione, tenendo conto di tale limite il produttore
dovrà indicare in etichetta una data minima di durata che non può esse-
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re successiva a tali 28 giorni, indicandoli con due cifre per il giorno e due
cifre per il mese. Il dettagliante è tenuto a ritirare il prodotto dalla vendita sette giorni prima del termine indicato come preferibile per il consumo. E’ un’indicazione di tutela per il consumatore, in quanto si presume
che l’uovo normalmente non viene consumato immediatamente ma conservato in casa per qualche giorno.
ome possiamo capire se un uovo è effettivamente fresco? Abbiamo
accennato alla camera d’aria. Più l’uovo invecchia più questa
aumenta di volume. Se immergiamo un uovo in acqua e sale (1 litro
di acqua e 25 grammi di sale), se l’uovo si deposita sul fondo vuol dire
che è freschissimo. Se si solleva di poco dal fondo è fresco, meno di una
settimana dalla deposizione. Se si solleva fino ad essere più in prossimità della superficie che del fondo non è più fresco, potrebbe avere attorno
ai 20 giorni dalla deposizione. Se, infine, l’uovo galleggia, non è più commestibile, è meglio non consumarlo in alcun modo e gettarlo.
C
Su ogni singolo uovo devono essere stampigliate alcuni indicazioni. In
pratica un’etichettatura alfanumerica, ovvero una sequenza di lettere e
numeri che costituisce una vera e propria carta d’identità dell’uovo. Come
va letta tale sequenza, di undici caratteri, che contiene informazioni utili
per noi consumatori?
All’inizio c’è un numero, quel numero identifica il tipo di allevamento:
1” indica l’allevamento “a
all’ aper “0” indica l’allevamento “biologico”, “1
to”, “2
2” indica l’allevamento “a
a terra”, “3
3” indica l’allevamento “iin gab bia” detto anche “iin batteria”. Segue un gruppo di due lettere, che individuano il Paese di produzione, IT sta per Italia. Oltre c’è una sequenza di
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tre numeri, è il codice ISTAT che identifica il Comune dove è situato l’allevamento. Poi due lettere che identificano la Provincia, le ultime tre cifre
identificano l’allevamento, è un numero assegnato dalla autorità sanitaria competente su quel territorio, registrato in un elenco anagrafico depositato presso la AUSL che effettua i controlli.
Sull’etichetta inoltre deve essere sempre riportato che dopo l’acquisto le
uova devono essere conservate in frigorifero. Ma queste alla vendita sono
conservate ed esposte a temperatura ambiente.
Quanto sopra può sconcertare e confondere il consumatore, vediamo di
darne la spiegazione.
L’uovo è poroso. Il guscio è cosparso di micropori, non si aprono direttamente sull’esterno ma attraverso un canalicolo serpiginoso. Tali pori sono
indispensabili per lo scambio di gas, ossigeno contro anidride carbonica,
nel caso di sviluppo del feto. Nel primo periodo dopo l’emissione una
cuticola impermeabile lo riveste, permettendo solo un minimo di scambi
gassosi e garantendo che nulla può passare dall’esterno all’interno dell’uovo. Man mano che passano i giorni tale pellicola scompare, si annulla in quindici giorni o poco più, perché la natura ha previsto che l’uovo,
se fosse stato fecondato, doveva garantire scambi gassosi sempre più
intensi per le esigenze del pulcino che si era formato, e venivano calando le esigenze di difesa man mano che s’avvicinava la schiusa.
Con la scomparsa della cuticola si sviluppa un fenomeno di evaporazione del contenuto liquido dell’uovo, è questo fenomeno che provoca il
progressivo svillupo della camera d’aria.
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Data l’esistenza dei pori, seppur nei primi giorni difesi dalla pellicola, c’è
comunque il rischio che germi patogeni dal guscio dell’uovo si trasferiscano al suo interno (non va dimenticato che non esiste negli uccelli un
condotto genitale che collega distintamente l’utero con l’esterno, ma solo
una cloaca, ovvero un unico condotto ed apertura per le uova e per le
feci, pertanto l’inquinamento del guscio dell’uovo da parte di germi enterici è pressoché certo, e tra tali germi, se la maggior parte è innocua, vi
possono essere dei patogeni come le salmonelle).
Il lavaggio dell’uovo è pertanto pericoloso, proibito in fase commerciale,
sconsigliato al consumatore-detentore, perché rischia di allontanare i
residui di pellicola protettiva nonché, inondando i canalicoli serpiginosi
che mettono in contatto l’esterno con l’interno di favorire il veicolamento di germi.
La stessa pellicola umida che si formerebbe per condensa nelle varie transazioni commerciali (se l’uovo venisse conservato in frigorifero, ogni
volta che fosse caricato o trasbordato ne dovrebbe uscire, subendo sbalzi di temperatura), sarebbe pericolosa per i motivi di cui sopra.
Pertanto l’uovo in fase di commercializzazione deve essere conservato in
luogo fresco ed asciutto.
Il consumatore o utilizzatore finale è meglio che lo conservi in frigorifero, perché si presuppone che da quello lo tragga per consumarlo o utilizzarlo. Senza quindi creare il pericolo della condensa sul guscio, ed anzi,
la conservazione al freddo, limitando le capacità di moltiplicazione dei
germi, riduce i pericoli derivanti da qualche errore nella fase commerciale precedente.
21
5°
0°
10°
5°
15°
20°
25°
30°
35°
I PRODOTTI
ITTICI
40°
4.3
Italy
45°
45°
France
2.1
Yugoslavia
Cape
Gargano
1.2
41°20’N/
8°00’E
1.1
38°00’N
Cape
Hellas
40°
Kumkale
Trapani
38°00’N
Cape
Bon
5°36’w
Tunisia
25°00’E
2.2
3.1
29°00’E
Algeria
35°
Albania
1.3
40°
23°00’E
Spain
4.2
4.1
34°00’E
enominazione di vendita: Oltre al nome della specie deve essere
precisato se si tratta di prodotto allevato o pescato (nel senso di cattura tramite pesca). Nel caso di prodotto pescato va esplicitata la
zona di mare in cui è avvenuta la cattura (Mediterraneo, Oceano Pacifico,
Atlantico, ecc…), mentre l’ indicazione di allevato deve essere sempre
seguita dal nome del Paese nelle cui acque è avvenuto l’allevamento.
D
35°
Quando si tratta di pesce d’acqua dolce, va riportato “pescato in acque
dolci” e il nome del Paese.
3.2
Lybia
Northern entrance of Suez Canal
Egypt
30°
5°
0°
5°
10°
15°
20°
25°
30°
30°
35°
40°
FAO.IV-2001
Nel mar Mediterraneo, come si può vedere dall’immagine, la zona 37,1 è stata
sudivisa in 1.1, 1.2, 1.3, che corrispondono all’area ovest; la zona 37.2 in 2.1,
2.2, che corrispondono all’area ovest; la zona 37.3 in 3.1, 3.2, che corrispondono all’area est.
Zone di cattura
Atlantico nord-occidentale
Atlantico nord-orientale
Mar Baltico
Atlantico centro-occidentale
Atlantico centro-orientale
Atlantico sud-occidentale
Atlantico sud-orientale
Mar Mediterraneo
Mar Nero
Oceano Indiano
Oceano Pacifico
Atlantico
Definizione della zona
Zona
Zona
Zona
Zona
Zona
Zona
Zona
Zona
Zona
Zona
Zona
Zona
FAO
FAO
FAO
FAO
FAO
FAO
FAO
FAO
FAO
FAO
FAO
FAO
n.
n.
n.
n.
n.
n.
n.
n.
n.
n.
n.
n.
Quanto sopra è valido per tutti i prodotti della pesca: pesci, crostacei,
molluschi, ecc…venduti freschi, decongelati o congelati, comunque tali
che non abbiano subito altro trattamento conservativo che non il freddo.
21
27
27.III.d
31
34
41
47
37.1, 37,2 e 37,3
37,4
51 e 57
61, 67, 71, 77, 81 e 87
48, 58 e 88
Non è valido per i prodotti ittici che siano stati cotti, affumicati, marinati, variati quindi rispetto alla composizione naturale delle loro carni, o
anche che siano entrati come ingredienti in preparazioni alimentari in cui
rappresentano meno del 20% del peso totale.
Per i prodotti pescati la zona di mare deve essere indicata per esteso. Non
può essere sostituita da sigle; ogni zona di mare è contrassegnata da una
sigla o numero FAO, ve ne è uno per ogni tratto di mare. Il Mediterraneo
per esempio è la zona FAO 37, a sua volta suddivisa in sottozone,
l’Adriatico è il 37.2.1. Queste sigle o numeri FAO possono essere utilizzati negli scambi commerciali, quindi sui documenti di trasporto dal grossista al dettagliante, ma non alla vendita al dettaglio dove deve essere
trascritto il nome del mare per esteso.
E’ previsto, benché il Mediterraneo sia diviso in sottozone, che sui cartellini della esposizione al dettaglio si possa scrivere genericamente
Mediterraneo. Gli operatori possono precisare più dettagliatamente se si
tratta di Tirreno, Adriatico, Mediterraneo orientale, occidentale o della
zolla africana.
23
Una curiosità: vi è un pesce, commercializzato solo confezionato per lo
più in filetti, per cui è per una disposizione ministeriale obbligatorio citare in etichetta che si tratta di carni contenenti sostanze oleose che possono sviluppare allergie o disturbi digestivi. Si tratta dei filetti di Gempylidi
(Ruvettus escolar). E’ un prodotto difficile da trovare in commercio e dato
il tipo di etichettatura previsto c’è da chiedersi chi ha voglia di fare la
cavia e perché le autorità non abbiano deciso di proibirne semplicemente
il commercio.
Anche nella gestione domestica si consiglia di utilizzarlo solo se vivo e
di non conservarlo a temperature troppo rigide che potrebbero comprometterne la vitalità.
Se qualche esercizio al dettaglio apre la confezione sigillata per venderne solo una frazione ad un cliente, è poi tenuto a conservate l’ etichetta
di tale confezione per almeno sei mesi.
Si ricorda nell’occasione che il provvedimento di cui sopra è un provvedimento specifico che riguarda solo quel prodotto. In Italia alla primavera del 2006 non è ancora stata recepita la Direttiva CE sulla etichettatura delle sostanze allergeniche o fonti di intolleranze alimentari, benché
tale direttiva risalga al 2003 e sia stata aggiornata nel 2005.
Una precisazione: i molluschi bivalvi, quali le cozze, le vongole e simili
non possono essere venduti sfusi ma solo in confezioni sigillate per assicurare la tracciabilità sanitaria di questi delicatissimi prodotti e l’identificazione dello stabilimento che li ha posti in commercio dopo la raccolta o la cattura. Questi molluschi sono pertanto presentati in confezioni
originali per motivi igienico-sanitari e non hanno una data di scadenza,
deve essere indicata solo la data di confezionamento e la dizione che il
prodotto deve essere commercializzato vivo.
Come ci si accorge se il mollusco bivalve è vivo? Le due facce della conchiglia devono essere ben adese e chiuse, a trattenere l’acqua di mare che
gli consente di respirare. Conchiglie aperte indicano che il mollusco è
morto.
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25
I PRODOTTI ORTOFRUTTICOLI
FRESCHI
PARMIGIANO REGGIANO
enominazione di vendita: Deve comprendere oltre al nome del prodotto, la
varietà, se esiste, (es: una pera può essere
una Williams o una Kaiser); la categoria, che di
fatto consiste nella calibratura del prodotto, in
categoria 1 sono le calibrature più alte, poi progressivamente decrescono; l’origine, con cui si
intende il Paese di provenienza (Italia, Spagna,
Turchia, ecc…), tale è l’obbligo di legge, ciò non
toglie che se il venditore è in grado di documentarlo può essere indicata una zona di produzione più piccola, per fornire all’ acquirente
una indicazione d’origine più precisa, es: arance siciliane, limoni di Sorrento, radicchio di
Treviso, mele di Bolzano, ecc….
D
In caso di vendita di imballaggi contenenti
diversi tipi di ortofrutticoli freschi, questi devono essere tutti della medesima categoria, vanno
indicati tutti con una lista con il nome, la varietà e l’origine di ciascuno.
Gli ortofrutticoli vengono venduti anche con
l’indicazione della gamma, diamo di tale una
spiegazione.
Prima gamma: il prodotto fresco naturale, così come raccolto.
Seconda gamma: prodotti sterilizzati commercializzati chiusi in recipienti sigillati.
Terza gamma: ortaggi surgelati.
Quarta gamma: prodotti tagliati e lavati, ceduti in vaschettte o buste.
Quinta gamma: prodotti cotti (grigiati, lessati, bolliti, ecc…) e confezionati.
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IL FORMAGGIO
In genere i latticini, o prodotti a
base di latte, quali lo yogurth, i formaggi, i gelati, non hanno esigenze
particolari di etichettatura, per cui
per essi varranno le indicazioni che
più avanti daremo per i prodotti
confezionati, preincartati o sfusi in
generale, ma vogliamo qui dare
una illustrazione di massima più
dettagliata (si perdoni l’ossimoro)
sul Parmigiano Reggiano, il principe dei formaggi in questa Regione.
Anche se ormai difficilmente il
consumatore può acquistarlo sfuso,
cioè in negozi in cui il taglio viene
fatto direttamente da una forma
intera davanti ai suoi occhi, purtuttavia giudichiamo utile dare alcune
informazioni sull’etichettatura di
tali forme, che aiutano comunque a
capire meglio anche le etichettature
commerciali.
Innanzitutto
una
forma
di
Parmigiano è costituita di due
superfici piane, o facce, e da una
superficie leggermente concava che
le raccorda, lo scalzo.
Su tale scalzo, sul formaggio ancor fresco, al momento di essere introdotto in salatura, viene impresso il marchio del Consorzio, ovvero la scritta
Parmigiano Reggiano punzonata in righe parallele dal basso verso l’alto
su tutta la superficie e, in un punto solo, il logo sotto il quale viene
impressa la data di inizio stagionatura, con tre lettere ad indicare le iniziali del mese e le cifre dell’anno, mentre sopra il logo viene impressa una
cifra che identifica lo stabilimento di produzione, il caseificio.
27
altri che devono essere venduti subito.
Il simbolo del Consorzio indica che il formaggio è stato ottenuto da latte
di mucche allevate nella zona geografica tipica e alimentate secondo un
rigido disciplinare imposto dal Consorzio stesso per assicurare le qualità
tipiche del prodotto.
Sempre sullo scalzo si possono vedere
anche dei timbri, a volte colorati, impressi dagli ispettori sanitari (sigle composte
da I, una cifra, CE) o dai casari per identificare meglio le loro forme.
Su una superficie è impressa, sempre al momento in cui il formaggio
entra in stagionatura, la cosiddetta “placca di caseina”. Sorta di superficie rotonda del diametro di pochi centimetri in cui è impressa la tracciabilità o lotto della forma, ovvero il numero di identificazione del caseificio, già riportata più in grande sullo scalzo, le lettere iniziali di identificazione del Consorzio, quindi C.F.P.R., e una cifra progressiva o un codice alfanumerico (sigla composta da numeri e lettere) che identifica la
forma. Nel caseificio un registro riporta tutti quei numeri e per ognuno di
essi indica in quale caldaia venne cotto, in qual giorno e soprattutto con
il latte proveniente da quali stalle.
Queste ultime sono le forme di cosiddetta “prima stagionatura”, che devono essere etichettate alla vendita con tale dicitura e che comunque il consumatore può riconoscere anche da un trancio come quelli normalmente
offerti sottovuoto in un supermercato o in drogheria perché si notano
delle righe parallele incise sulla crosta, disposte ortogonalmente rispetto
alle scritte “parmigiano reggiano” punzonate sulla superficie.
Questi di cui sopra, dagli addetti ai lavori definiti “rigati” sono ovviamente formaggi che hanno un valore commerciale inferiore, anche se legittimamente possono fregiarsi del titolo di Parmigiano Reggiano, perché
comunque sono stati ottenuti nel rispetto dei requisiti minimi posti dal
Consorzio. Attenti quindi alla qualità delle “offerte speciali”, controllate
la crosta!
Dopo un anno dall’inizio stagionatura le forme sono controllate, e c’è un
primo scarto rispetto alla qualità con cui è riuscita la prima parte, quella
di durata minima, della stagionatura. Vi sono formaggi idonei per affinare la qualità e pertanto proseguire la stagionatura, per due, tre anni ed
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29
I PREINCARTI
on questo termine si indicano prodotti alimentari confezionati, spesso in confezioni del tutto simili a molti preconfezionati industriali,
come ad esempio tante vaschette e buste sottovuoto o termosaldate
esposte nei supermercati o sempre più diffusamente anche nei piccoli
spacci di quartiere, che però sono state allestite nello stesso esercizio di
vendita al dettaglio e non provengono come tali dall’industria.
avvolta attorno al prodotto, giustificata sotto il profilo tecnico per la
garanzia che dà di protezione dell’alimento congelato da perdite per
sublimazione dell’umidità dei tessuti e quindi della qualità dell’alimento, tuttavia è stata causa di abusi per l’eccessiva quantità, dato l’evidente lucro di vendere acqua al peso di prodotti a volte pregiati, come
ad esempio i crostacei).
In questo modo sono da intendere le tradizionali vaschette in cui le
macellerie dei supermercati da decenni offrivano le carni fresche lavorate nell’esercizio e la variegata presentazione, per lo più di prodotti di
salumeria, ma anche di gastronomia, in mostra negli ultimi anni negli
esercizi.
Oltre, ovviamente, alle indicazioni già illustrate in precedenza per l’etichettatura di settore dei vari prodotti sfusi che ne hanno una.
C
Nati come “tagliacode”, quando soprattutto i supermercati si sono trovati di fronte a lunghe code di attesa nelle ore di punta ai banchi di salumeria-gastronomia, dove il fabbisogno di personale si riduceva drasticamente in altri momenti, questi “preincarti” sono nati con lo scopo di
garantire una protezione igienica al prodotto e una presentazione commerciale che velocizzasse l’acquisto di salumi, formaggi, gastronomia che
avessero il vantaggio di essere tagliati e preparati al momento, quindi
mantenendo intatta fragranza e qualità, accompagnandosi ad una praticità di servizio.
Sono legalmente equiparati, per le necessità di etichettatura, ai prodotti
sfusi. Pertanto, sulla superficie di tali confezioni, o su un cartello visibile applicato al recipiente che le contiene o al comparto di banco in cui
sono esposte, devono essere riportate le seguenti indicazioni minime
obbligatorie:
1) denominazione di vendita
2) elenco degli ingredienti (quando non coincida già con la denominazione di vendita)
3) modalità di conservazione per i prodotti deperibili (quando necessario)
4) solo per le paste fresche e le paste fresche con ripieno la data di scadenza
5) la percentuale di glassatura, considerata tara, per i prodotti congelati
glassati (la glassatura è il rivestimento di acqua congelato che viene
30
I PRODOTTI ALIMENTARI
IN CONFEZIONE ORIGINALE
l prodotto alimentare in confezione originale (PRECONFEZIONATO),
ovvero chiusa, sigillata, destinata ad arrivare nelle mani del consumatore così come uscita dal produttore, è quello che, ancor più che lo
sfuso, ha nella sua etichettatura la principale quando non l’unica fonte di
informazione per il consumatore.
I
La scelta d’acquisto, in questo caso, non si può orientare da osservazioni
dirette sul colore, consistenza, odore, dell’alimento ma dalle informazioni
in etichetta, nonché dalle immagini che accompagnano l’esposizione del
prodotto nei banchi o la pubblicità con cui questo viene propagandato.
Pertanto in tutta l’Unione Europea le norme che regolano l’etichettatura,
la presentazione e la pubblicità di un prodotto alimentare sono analoghe
ed affrontano in modo integrato questi tre aspetti intimamente connessi.
Vi è un principio comune che deve essere rispettato. L’etichettatura, la
presentazione e la pubblicità di un prodotto alimentare non devono:
- indurre in errore l’acquirente sulle effettive caratteristiche, qualità, composizione e luogo d’origine del prodotto;
- evidenziare caratteristiche come particolari, quando
dotti alimentari le posseggono;
tutti
i
pro-
- attribuire all’alimento proprietà atte a prevenire, curare o guarire
malattie, né accennare proprietà farmacologiche.
33
DENOMINAZIONE
DI VENDITA
Posto il precedente principio, tutti i prodotti alimentari confezionati,
deperibili e non deperibili (pertanto dalla scatoletta conservabile a temperatura ambiente al surgelato da conservarsi a -18 °C) devono riportare
in italiano (possono esserci anche altre lingue, ma le indicazioni in lingua italiana devono esserci comunque sempre) le seguenti indicazioni:
1) DENOMINAZIONE DI VENDITA
2) L’ELENCO DEGLI INGREDIENTI
3) QUANTITA’ NETTA
4) IL TERMINE MINIMO DI CONSERVAZIONE O LA DATA DI SCADENZA
5) IL NOME E LA SEDE DEL PRODUTTORE O DEL CONFEZIONATORE
6) LA SEDE DELLO STABILIMENTO DI PRODUZIONE
O DI CONFEZIONAMENTO
7) UN NUMERO O DICITURA DI IDENTIFICAZIONE DEL LOTTO
8) LE MODALITA’ DI COSERVAZIONE E UTILIZZAZIONE, QUALORA
NECESSARIE IN FUNZIONE DELLA NATURA DEL PRODOTTO
9) IL LUOGO DI ORIGINE E PROVENIENZA QUANDO L’OMISSIONE
POSSA INDURRE IN ERRORE L’ACQUIRENTE CIRCA L’ORIGINE O
LA PROVENIENZA DEL PRODOTTO
Daremo ora una breve illustrazione delle voci di cui sopra.
34
ltro non è che il nome del prodotto venduto, ed è l’indicazione
principale e forse più importante. Non può essere scelta a caso ma
secondo un ordine preciso: anzitutto la denominazione legale,
comunitaria o nazionale, se esiste; in mancanza la denominazione tradizionale, derivante dagli usi e consuetudini; altrimenti, se anche questa
mancasse, si deve ricorrere alla descrizione del prodotto; in tutti i casi la
denominazione di vendita deve essere accompagnata dalla descrizione
della natura o stato fisico dell’alimento, se necessario per evitare di confondere l’acquirente. (es.: congelato, decongelato, precotto, ecc...).
A
La denominazione legale esiste per alcuni generi, quali: carni, uova, conserve ittiche, liquori, vini, latte e derivati, grassi alimentari, paste alimentari. Pertanto nessun alimento può essere commercializzato con tal nome
se non corrisponde a caratteristiche definite per legge.
Le denominazioni legali valgono ovviamente anche quando si tratta di
compilare l’elenco degli ingredienti in un prodotto composito.
Per fare esempi: si è già detto delle uova, con tale nome possono essere
commercializzate solo le uova di gallina, le altre devono essere commercializzate con la precisazione della specie: uova di faraona, uova d’oca, ecc….
Le carni: con tale nome si intendono i tessuti muscolari scheletrici delle
specie animali macellate, per le principali di tali specie (bovine, suine, avicole) è specificato il tenore massimo di grasso e tessuto connettivo; per cui
l’etichettatura di un prodotto a base di carne in confezione originale, quale
ad esempio uno zampone, può citare tra gli ingredienti solo “carne suina”
se la presenza di grasso e connettivo suino è contenuta rispettivamente nei
limiti del 30 e 25% del totale dell’ingrediente carne, altrimenti vanno citati a parte nell’elenco degli ingredienti. Per cui attenzione alle diciture in etichetta, consideriamo che il connettivo è un tessuto si proteico ma formato
da proteine, dette di collagene, con valore nutrizionale inferiore a quelle del
muscolo rosso scheletrico, il connettivo è costituito dai tendini e da fasce
che raccolgono e sostengono la parte più nobile del muscolo, quella contrattile. Ha colore biancastro ed è tendenzialmente duro alla masticazione.
Le conserve ittiche: per caviale si intendono solo le uova di storione. Il
latte: può essere solo quello vaccino, altrimenti deve essere specificato per
intero il nome della specie animale d’origine.
Sulla denominazione di vendita del latte, uno degli alimenti più
consumati, vogliamo aprire una scheda specifica.
Per “llatte crudo” si intende il latte che non ha subito alcun trattamento termico. In genere è un prodotto che non arriva al consumatore, perché sul mercato, per precauzioni igieniche, perviene
solo latte trattato termicamente. Ora, poiché i trattamenti termici sono aggressivi sino alla distruzione del contenuto vitaminico e della stabilità delle stesse proteine del latte, più questi
saranno “leggeri”, più il latte manterrà le benefici naturali del
prodotto di partenza. Tuttavia, poiché una quota di batteri alteranti, anche se non patogeni, sopravvive a trattamenti di pastorizzazione (tecnica che sottopone il prodotto all’esposizione di
T di 72 °C per pochi secondi, sufficienti per distruggere i germi patogeni
ma non tutti i batteri presenti), i giorni di durata del latte rimasto meno
offeso nella sua componente chimica originaria saranno inferiori, la
necessità di conservarlo a basse temperature, per evitare la moltiplicazione dei batteri presenti, tanto più rigida. Ciò detto, si precisa che per latte
“ffresco pastorizzato di alta qualità”, si deve intendere quello sottoposto
ad un solo trattamento di pastorizzazione particolarmente breve (monitorato dalla scomparsa di taluni enzimi che ci indicano il raggiungimento
della sicurezza batteriologica da patogeni, dalla presenza di altri enzimi
che testimoniano che il prodotto ha comunque mantenuto una qualità
biologica altissima) ed entro le 48 ore dalla mungitura. Tale prodotto, per
motivi tecnologici, non può essere che “intero”, cioè con la materia grassa come da composizione originaria. L’assenza o la parziale mancanza di
grassi non consentirebbe il giusto mix tra tempo temperature di pastorizzazione e protezione delle sostanze biologiche più degradabili.
Proseguendo, per latte “ffresco pastorizzato” si intende il latte sottoposto
ad un solo trattamento di pastorizzazione (in genere poco oltre 70 °C per
una decina di secondi) entro 48 ore dalla mungitura. Questo latte può
parzial essere “iintero”, ovvero con materia grassa di almeno il 3,5 %, “p
mente scremato” in cui cui parte del grasso è stato asportato artificial36
mente portandone la % tre l’1,5 e l’1,8 e infine “sscremato” quando pressoché tutta la materia grassa è stata allontanata. Il latte “pastorizzato” è
come il tipo “fresco pastorizzato” sopra descrito, ma puo avere subito piùpastorizzazioni, la prima delle quali avvenuta anche oltre le 48 ore dalla
mungitura. La durata prevista è di sei giorni dal confezionamento per
tutti e tre i tipi sopradescritti, che, per i primi due, vuol di conseguenza
significare più o meno una settimana dalla mungitura. Il latte “ffresco
pastorizzato microfiltrato”, è latte trattato come il “fresco pastorizzato”,
che però ha subito prima della pastorizzazione un passaggio per microfiltri dai pori ultramicroscopici che contribuiscono a limitarne la carica
batterica: la durata è di 10 giorni dal confezionamento.
Vi è poi il latte etichettato come “p
pastorizzato a temperatura elevata” (detto
latte più giorni), dove la tecnica usata è quella di una temperatura usualmente non considerata di pastorizzazione, si utilizza una T di 130 °C, ma
per tempi brevissimi, meno di un secondo. Il trattamento di pastorizzazione deve essere uno soltanto. E la durabilità è affidata alla valutazione
del produttore, alla sua responsabilità, in genere vengono indicati 15-18
giorni.
Il latte che ha subito trattamenti più pesanti, tali da avvicinarsi ad una
sterilizzazione ma utilizzati in modo tale da lasciarne integra gran parte
del valore nutritivo e senza comprometterne i caratteri organolettici (vengono utilizzate T di 135 °C, per 5 secondi), è detto latte UHT. Questo latte
può essere conservato a temperatura ambiente ed ha una durata di tre
mesi dal confezionamento.
Il latte “sterilizzato”, è quello che è stato sottoposto ad un doppio trattamento termico, una prima volta ancora sfuso a 140-150 °C per pochi
secondi, poi, dopo essere stato confezionato in contenitore sigillato, a 120
°C per 20-30 minuti. E’ conservabile per sei mesi dal confezionamento a
temperatura ambiente.
Nell’etichetta del latte confezionato deve essere inoltre indicata l’origine
del latte crudo da cui è stato ottenuto. Se è solo italiano: ITALIA o in
alternativa la/le regione/i italiane d’origine. Se viene da un singolo Paese
membro della Unione Europea, il nome per esteso di quel Paese. Se proviene da più Paesi membri della Comunità Europea la sigla UE.
Quando non esiste, ed è la stragrande maggioranza dei casi, una denominazione locale per un alimento o un prodotto alimentare, si ricorre alla
37
denominazione data dagli usi e consuetudini, o denominazione merceologica, ovvero: pizza, gelato, succo di…., dessert alla….., granita, biscotto,
ecc….Sarà cura del produttore tra denominazioni generiche e specifiche
individuare quella più utile ed informativa.
Quando manchi sia una denominazione legale che merceologica si ricorre a nomi di fantasia, a volte brevettati da aziende per averne l’esclusività. Tanto accade ad esempio per molti prodotti gastronomici o per preparazioni alimentari complesse.
A garanzia del consumatore vi è comunque l’obbligo della citazione
dell’ ELENCO DEGLI INGREDIENTI, ovvero di qualsiasi sostanza, compresi gli additivi, utilizzata per preparare e produrre l’alimento, anche se
presente nel prodotto finito in forma modificata.
Abbiamo visto che comunque in questo elenco, che deve essere decrescente per ordine quantitativo dell’ingrediente nella composizione del
prodotto, non possono essere usati nomi di fantasia per citare alcuni tra
gli ingredienti più nobili e importanti, che hanno comunque una loro
denominazione obbligatoria di legge o formata da tradizioni merceologiche consolidate.
Nell’ etichetta del prodotto alimentare preconfezionato deve essere riportata obbligatoriamente la QUANTITÀ NETTA: ovvero la quantità di alimento al netto della tara.
Su cosa sia da considerarsi tara spenderemo due parole. Va anzitutto precisato che dizioni quali “quantità minima garantita” è assimilabile a quella di quantità netta, mentre il trovare la dizione “quantità nominale” è
assai discutibile perché con tale termine si intende una quantità media, in
massa o volume, di prodotti alimentari soggetti a tolleranze di variazione.
Vediamo quindi cos’è tara. Gli involgenti protettivi: sembra chiaro,
che siano tara ma attenzione: sono tara gli involgenti che consentono di
essere pesati separatamente dal prodotto senza che ciò alteri né l’uno né
l’altro, pertanto non sono considerati tara i budelli degli insaccati nonché
gli spaghi, corde, fascette e bolli metallici loro adesi, l’incarto dei cioccolatini e delle caramelle singoli, l’incarto esterno dei formaggi a pasta
molle. I liquidi di governo, tutti i prodotti immersi in un liquido, sia
38
olio o aceto, salamoie, soluzioni di
acqua salata o zuccherose, devono
riportare il peso totale e quello
sgocciolato. E’ consentito di riportare il peso complessivo e la percentuale del prodotto alimentare,
es: tonno all’olio di oliva, peso 160
gr, tonno 65%. Si ricordi che non è
sufficiente la presenza di modiche
quantità di liquido per far scattare
l’obbligo dell’indicazione di cui
sopra, ma il prodotto deve essere
immerso nel liquido. I liquori e gli
alcolici in genere non sono mai
considerati liquidi di governo.
Glassatura, questo è un aspetto
importante della voce involgenti
protettivi perché ultimamente sta
dando luogo ad equivoci tra i consumatori. Innanzitutto la glassatura
riguarda essenzialmente i prodotti
ittici congelati e/o surgelati. Ha una
funzione tecnologica, è uno strato
di acqua ghiacciata che avvolge il
prodotto e aiuta a preservarlo dai più immediati danni ed alterazioni dei
prodotti conservati a bassissime temperature, in particolare la perdita di
liquidi per sublimazione e l’irrancidimento dei grassi. E’ quindi importante perché preserva le qualità organolettiche e nutrizionali del prodotto, è
però in fondo acqua, che non può essere venduta al prezzo del prodotto,
è solo appunto un involgente protettivo. La normativa la prevede come
tara e pertanto prevede che venga dichiarata la percentuale di tale glassatura sull’etichetta. Purtroppo il prezzo esposto non è vincolato al peso
del prodotto al netto della glassatura, per cui se il consumatore non fa
nella propria mente il calcolo tenendo conto della quantità di glassatura
dichiarata in etichetta rischia di acquistare, credendo di risparmiare, un
prodotto che in realtà è venduto ad un prezzo molto più caro di analoghi
freschi o ceduti decongelati.
39
TERMINE MINIMO DI CONSERVAZIONE: è la durata di un prodotto alimentare intesa sotto il profilo della stabilità dei suoi caratteri organolettici (colore, consistenza, odore, sapore) e nutrizionali. Non è mai stabilito da leggi ma sempre e soltanto dal produttore, che conosce le caratteristiche chimiche, fisiche e microbiologiche di ciò che produce. Se tale
durata è da considerarsi legata ad una particolare temperatura di conservazione questa deve essere riportata in modo chiaro sulla confezione con la dicitura “da conservarsi a….”. Il termine minimo di conservazione deve essere sempre espresso con una dicitura precisa, ovvero “da consumarsi preferibilmente entro il……..” se si tratta di un’indicazione che
riporta il giorno, il mese, l’anno (e tale deve sempre essere per i prodotti
conservabili per meno di tre mesi), “da consumarsi preferibilmente entro
la fine del………”, se viene indicato solo l’anno e il mese (cosa ammessa se
il prodotto ha una conservabilità oltre i tre mesi), o solo l’anno (ammesso per i prodotti con durabilità oltre i diciotto mesi). Dicevamo che la data
di durata è a discrezione del produttore, ma anche a sua responsabilità,
se in seguito ad un controllo il prodotto viene trovato non conforme per
alterazioni microbiologiche o chimico-fisiche delle sue caratteristiche, il
produttore è soggetto a denuncia e la merce sequestrata su tutto il mercato nazionale e comunitario. Se invece il prodotto resta sul mercato,
sugli scaffali di vendita di uno o svariati esercizi commerciali oltre la data
“da consumarsi preferibilmente entro …….”, la cosa di per sé è ammessa,
dato che quella data ha un valore indicativo e non perentorio, ma in tal
caso, (a parte che il consumatore dovrebbe leggere perlomeno questa
parte dell’etichetta e abbandonare non tanto quel prodotto ma l’intero
esercizio che fa tale commercio, ripetiamo: non illegale ma per lo meno
scarsamente garantista della buona qualità commerciale della derrata),
chi risponde della eventuale alterazione di un prodotto a seguito di un
controllo è il negoziante e non più il produttore, anche di fronte a confezione integre e conservate alla temperatura indicata sulla confezione.
ne di considerare tali tutti i prodotti con una conservabilità inferiore ad
un mese. Comunque la valutazione di quali siano tali prodotti rimane in
capo esclusivamente al produttore, con molti casi che rimangono nell’ambiguità e col paradosso che nei pochissimi casi oggetto di intervento
di legge, come nel caso del latte fresco pastorizzato, vede l’Italia prevedere 6 giorni, 8 giorni in Francia, ben 10 in Germania, anche tenendo
conto delle diverse temperature medie ambientali tra questi Paesi, la cosa
si commenta da sé.
IL LOTTO: è un elemento importantissimo dell’ identificazione del prodotto alimentare ma, forse più che il consumatore, interessa, riguarda, chi
fa i controlli. E’ la garanzia che un controllo sia efficace. In un’epoca di
grandi produzioni di massa è importante che una irregolarità scoperta in
una confezione in vendita in un supermercato di Napoli comporti il blocco di tutte le confezioni prodotte in modi e circostanze analoghe ovunque esse siano state distribuite. Appunto questo è il lotto: “l’insieme delle
unità di vendita di un prodotto alimentare, fabbricate o confezionate in
circostanze praticamente identiche”. Il lotto è la conditio sine qua non per
la tracciabilità, e di conseguenza la rintracciabilità, di un prodotto. Può
essere espressa con una L maiuscolo seguita da un codice alfanumerico
(composto di lettere e numeri) oppure da una data con perlomeno giorno
e mese.
Importante che un consumatore sappia che se ha trovato alterato un prodotto alimentare confezionato una volta che lo abbia aperto, o peggio
ancora ritenga di avere sofferto di disturbi a causa del consumo, segnali
agli organi competenti, le AUSL o i Carabinieri del NAS, non solo la
marca commerciale del prodotto ma soprattutto il lotto.
Si informa che gli ortofrutticoli freschi, il pane fresco, i vini e liquori, il
sale da cucina, gli aceti, lo zucchero solido sono esentati dalla data di
scadenza.
DATA DI SCADENZA: nel caso di prodotti rapidamente deperibili sotto il
profilo microbiologico sostituisce il termine minimo di conservazione, per
cui sparisce il “ da consumarsi preferibilmente entro……”, per un più
perentorio “ da consumarsi entro il…..” accompagnato da giorno e mese.
In tal caso il prodotto non può sostare sui banchi vendita un giorno in
più di quello indicato in etichetta, altrimenti il caso di per sé già configura un reato.
Purtroppo va detto che non è mai stato stilato un elenco ufficiale di quali
dovrebbero essere i prodotti sottoposti a questa disciplina. C’è l’indicazio40
Si informa infine, sull’argomento prodotti alimentari in confezione originale, che le dizioni sulla “denominazione di vendita”, “quantità”, “termine minimo di conservazione” o “data di scadenza”, devono stare nel
medesimo campo visivo. Cosa poi si intenda con campo visivo non è
chiarissimo, si fa riferimento al fatto che in confezioni in cui l’etichetta
sia fatta da indicazioni distribuite su più facce, quelle tre siano su una
sola di tali facce, o perlomeno vi sia accanto alla denominazione di vendita e alla quantità, di solito assai visibili, un richiamo su dove trovare
anche l’altra.
41
LE BEVANDE
LE DENOMINAZIONI DI ORIGINE
(Acque minerali e vini)
utte le bevande con una percentuale di alcool superiore al 1,2% in
volume, devono obbligatoriamente riportare in etichetta tale percentuale. Si esprime con la dizione “…..%vol”, eventualmente preceduta
dalla parola alcool o dall’abbreviazione “alc”.
T
I vini ed i liquori non devono riportare il termine minimo di conservazione, le birre si.
Per i vini è importante l’indicazione della denominazione di origine, di
cui trattiamo successivamente.
Per le acque minerali è interessante notare in etichetta, tra i vari numeri che
riportano l’obbligatoria composizione analitica, quella del residuo fisso (spesso espresso come “residuo fisso a 180 °C), assai importante per il primo orientamento nell’acquisto. Se esso è inferiore a 50 mg/litro è un’acqua “minimamente mineralizzata” adatta anche per sciogliere alimenti per bambini, se il
residuo fisso è tra 50 e i 500 mg/litro si tratta di acqua oligominerale, ovvero leggera, povera di sali, pertanto diuretica e antispastica. Le acque con residui fissi superiori a 500 mg/litro sono quelle dette minerali. Sopra i 1500
mg/litro si parla di acque ricche di sali minerali. Specie quest’ ultimo tipo di
acque sono utili per chi ha particolari carenze di sali minerali, in tali casi
andrà individuata però con precisione, tra i dati analitici la presenza del particolare sale desiderato.
Si evidenzia all’attenzione che acque particolarmente ricche in fluoro, con concentrazioni superiori a 1,5 mg/litro di tale ione,
devono riportare chiaramente in etichetta la
dizione “contiene più di 1,5 mg/litro di
fluoro, non è opportuno il consumo regolare da parte di lattanti o bambini inferiori ai
sette anni”, in modo che anche il consumatore distratto verso i tanti numeretti della
composizione analitica capisca con cosa ha
a che fare.
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(DOC, IGP, DOP, STG)
i sono acronimi (DOC: denominazione di origine controllata,
DOCG: denominazione di origine controllata e garantita, DOP:
denominazione di origine protetta, IGT: indicazione geografica
tipica, IGP: indicazione geografica protetta, STG: specialità tradizionale
garantita) visibili sulle etichette soprattutto di oli e vini, ma anche di formaggi, salumi prodotti di gastronomia, che stanno a indicare la specificità, geografica o legata ad un particolare disciplinare di produzione, di
quel prodotto.
V
Si tratta di indicazioni d’etichetta facoltative regolamentate. Nel senso
che non è obbligatorio porle, ma, nel caso si intenda farlo, bisogna essersene conquistati la possibilità ottemperando a particolari regimi di produzione e sottomettendosi a controlli di verifica.
Sono una sorta di riconoscimento di specificità la cui possibilità di utilizzo è regolamentata da provvedimenti comunitari, emanati da Bruxelles,
disciplinati poi nel dettaglio dalle varie legislazioni nazionali sul modo in
cui le singole imprese possono ottenerli e mantenerli. Comunque in un
quadro in cui è la Unione Europea che stabilisce se e dove, per quali prodotti e zone esiste la possibilità di fregiarsi di questi marchi. Le singole
amministrazioni, nazionali o regionali, possono regolamentare il dettaglio dell’utilizzo, non inventarsene dei
nuovi a piacere.
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ETICHETTATURA
NUTRIZIONALE
etichettatura nutrizionale è fondamentalmente facoltativa. Può
diventare obbligatoria quando nell’etichetta o nella presentazione e
pubblicità del prodotto alimentare c’è un richiamo esplicito al valore energetico che fornisce o non fornisce o fornisce a tenore ridotto o maggiorato, oppure anche a nutrienti che esso contiene o non contiene o contiene in misura ridotta o maggiorata.
L’
a presenza di ingredienti ottenuti con la tecnica della ricombinazione genetica, cosiddetti organismi geneticamente modificati, in un
prodotto alimentare, è soggetta ad una specifica disciplina di etichettatura, stabilita a livello comunitario. In questo campo ogni singolo
Stato è impegnato a non agire per conto proprio.
Comunque, sia che siano inserite volontariamente o obbligatoriamente, le
informazioni che devono sempre essere menzionate sono (riferiti a 100 gr
o a 100 ml): il valore energetico in kcal, il tenore di proteine, carboidrati,
grassi. Tutti questi quattro valori devono essere presenti, non si può citarne uno solo ed omettere gli altri.
I Regolamenti comunitari procedono secondo due principi: riconoscono
la necessità che il consumatore sia informato sulla presenza di ingredienti OGM, ma anche riconoscono l’impossibilità di escludere una contaminazione accidentale di prodotti alimentari da minime quantità di ingredienti derivati da modificazioni genetiche di laboratorio.
Vi è un secondo schema, più completo, che prevede, oltre ai valori sopraccitati, anche la dichiarazione del tenore di acidi grassi saturi, fibra alimentare e sodio. L’imprenditore che inserisca l’etichettatura alimentare nel suo
prodotto può discrezionalmente scegliere l’uno o l’altro dei due schemi,
diviene obbligatorio adottare lo schema più dettagliato se la presentazione
o pubblicità del prodotto fa un richiamo al tenore di fibra, carboidrati o
sodio nell’alimento.
Per cui esiste, accanto all’ obbligo della dichiarazione in etichetta, anche
una tolleranza. L’obbligo scatta quando la presenza supera il 0,9 di OGM
autorizzati, o il 0,5 di OGM non ancora autorizzati ma oggetto di valutazione positiva da parte delle competenti autorità scientifiche.
Si noti che il semplice richiamo al tenore di sale alimentare in un prodotto non comporta l’obbligo della etichettatura nutrizionale, tale obbligo
scatta se c’è riferimento al tenore di sodio.
Il riferimento al tenore di colesterolo o di grassi polinsaturi comporta sempre l’obbligatorietà di dichiarare la presenza di grassi saturi, cioè l’adozione del secondo schema, a sette voci, più dettagliato.
Nei formaggi, poiché l’indicazione del tenore di grassi è obbligatoria ( infatti sono magri se hanno meno del 20% di grassi, leggeri se più del 20 ma
meno del 35%), questo non comporta la necessità di inserire la completa
etichettatura nutrizionale.
Infine nell’etichettatura nutrizionale possono essere facoltativamente
aggiunti dati sul tenore di vitamine e sali minerali, ma solo se figurano in
un particolare elenco allegato ad un Decreto legislativo e sono presenti,
nella porzione media del prodotto, in quantità non inferiore al 15% di quello che si chiama RDA, ovvero la dose giornaliera raccomandata per l’introduzione di un nutriente.
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OGM
L
La UE ha chiarito che tali tolleranze si applicano a ciascun ingrediente, il
che significa che in un prodotto alimentare complesso non c’è una tolleranza sul prodotto finito, ma tante tolleranze quanti sono gli ingredienti
che lo compongono.
Resta ferma la proibizione assoluta, in qualsiasi percentuale, di OGM non
autorizzati o non sottoposti a vaglio di positività.
Quando rientriamo nei casi di cui sopra, ovvero superamento della soglia
di tolleranza per OGM autorizzati, sull’etichetta deve essere menzionato:
“Questo prodotto contiene organismi geneticamente modificati”, oppure:
“Questo prodotto contiene…(nome dell’ingrediente)….geneticamente
modificato.
Se i prodotti di cui al comma precedente vengono venduti sfusi, l’esercente è tenuto a riprodurre in modo chiaro la dicitura sul cartello che
accompagna il prodotto nel banco vendita.
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SEDE FEDERCONSUMATORI
BOLOGNA
N
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S
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(dalle ore 8,30 alle 12 e dalle 14 alle 17)
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VIA EMILIA n. 249/B
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La Federconsumatori è presente presso le sedi municipali di molti
comuni della provincia di Bologna. Per conoscere le giornate della
nostra permanenza telefonare all’ufficio informazione del comune
che interessa.
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APPUNTI
La realizzazione dell’opuscolo si colloca all’interno del progetto
LA FORMAZIONE E LA TUTELA DEI CITTADINI-UTENTI
“Programma generale di intervento 2006/2007 della regione Emilia Romagna
realizzato con i fondi del Ministero delle Attività Produttive.
Con il contributo della Camera di Commercio di Bologna
art EXPLOIT - Via dell’Arcoveggio 82 - Tel. 051 4174511
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