La disapplicazione della normativa sulle Cfc (2)
La prova contraria e la prassi dell’Amministrazione
L’introduzione di una disciplina Cfc nel nostro ordinamento
Dopo un approfondito iter legislativo, e in ottemperanza a quanto raccomandato dall’Ocse nel 1998,
nel rapporto “Harmful tax competition – an emerging global issue”, l’articolo 1 della legge n. 342
del 21 novembre 2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 276 del 25 novembre 2000 (S.O. n.
194), ha inserito nel Tuir l’articolo 127 bis, recante “Disposizioni in materia di imprese estere
controllate”. La previsione di legge ha introdotto nel nostro ordinamento, alla pari di molti altri
Stati industrializzati, una normativa relativa alle “Controlled foreign companies”, ovvero alle
società controllate estere residenti o localizzate in Stati o territori a fiscalità privilegiata, i c.d.
“paradisi fiscali”.
Ai fini della norma in esame, sono elencati dal decreto 21 novembre 2001, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 273 del 23 novembre 2001 (detto anche “black list”). La norma antielusiva è
efficace dal periodo d’imposta successivo all’adozione della black list, ovvero, per i soggetti con
periodo d’imposta coincidente con l’anno solare, a partire dal periodo d’imposta 2002.
Al soggetto residente, che si trovi in una posizione di controllo (ex articolo 2359 codice civile)
relativamente a tali società, imprese o altri enti (il testo della norma ricomprende tutte le possibili
forme di autonomi soggetti passivi d’imposta) sarà imputato, proporzionalmente alla
partecipazione, il reddito da essi conseguito.
Per soggetto residente, si precisa nella norma, si intendono indicare sia le persone fisiche, che i
soggetti elencati nell’articolo 5 del Tuir, le società di capitali, le cooperative, gli enti pubblici e
privati e gli altri soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lett. a), b) e c) del Tuir; il controllo può
essere esercitato anche tramite società fiduciarie o per interposta persona.
La normativa Cfc, come noto, intende combattere il tax deferral, ovvero il rinvio a tempo
indeterminato della distribuzione degli utili (e della loro conseguente tassazione sotto forma di
dividendi nel Paese del soggetto controllante), effettuato dalle controllate estere localizzate nei
“paradisi fiscali”. Ulteriore obiettivo è favorire il ritorno nello Stato dei capitali investiti all’estero
al solo scopo di ottenere un “passive income” detassato (ovvero un reddito di capitale, royalties,
canoni di locazione, ecc.).
All’imputazione diretta del reddito (una sorta di trasparenza del soggetto estero) vi è una rilevante
eccezione: essa non avrà luogo nel caso in cui il soggetto controllante dimostri all’Amministrazione
finanziaria che la società o ente controllato non è stato delocalizzato allo scopo di eludere la
normativa fiscale nazionale.
La disapplicazione della norma antielusiva: spunti transnazionali
Analizzando più in particolare l’istituto della disapplicazione dell’articolo 167 Tuir, attivato negli
ultimi anni da centinaia di soggetti controllanti, si evidenzia che esso non costituisce una peculiarità
del nostro ordinamento, ma è adottato, con differenti modalità, in molti Paesi Ocse in cui vige una
normativa Cfc.
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A tale proposito il Rapporto Ocse “Studies in taxation of foreign source income – Controlled
Foreign Companies Legislation” del 19961, al Capitolo IV, evidenzia che in svariati ordinamenti,
specie in quelli che adottano il c.d. jurisdictional approach (ovvero identificano una serie di
“paradisi fiscali” sanzionando qualsiasi categoria reddituale ivi prodotta, al pari del sistema italiano
e di quello francese), esistono una serie di esimenti che impediscono l’imputazione del reddito della
controllata estera.
Le varie tipologie di esimenti possono trovare applicazione:
• quando la società controllata estera distribuisce una certa percentuale dei propri utili
realizzati nell’esercizio (c.d. distribution exemption o acceptable distribution policy). Questa
esimente è utilizzata nel Regno Unito, con percentuali diverse a seconda che la controllata
svolga o meno attività commerciale (trading company).
• quando la società controllata ha come propria attività principale una effettiva attività
industriale o commerciale (c.d. effective business activity). Questa esimente mira
solitamente a verificare sia la natura dell’attività svolta che le modalità dell’insediamento
nel paradiso fiscale (con l’utilizzo di una struttura operativa, ecc.), e la natura del reddito
percepito dal soggetto estero. L’esimente opera, in particolare, per i Paesi che adottano il
jurisdictional approach, dato che quelli aderenti al c.d. transnactional approach (ad
esempio Stati Uniti, Canada, Australia, Germania, Norvegia) attraggono a tassazione i
“passive income” ovunque prodotti, escludendo in partenza dalla operatività della propria
legislazione Cfc il reddito derivante da una effective business activity.
• quando la localizzazione della società controllata non ha avuto lo scopo principale di
sfuggire alla tassazione del Paese a fiscalità ordinaria. L’esimente utilizzata, ad esempio, nel
Regno Unito è di difficile applicazione alla luce delle complesse regole necessarie per la
valutazione.
• quando la società controllata è quotata in un mercato regolamentato (c.d. public quotation
exemption). Anche questa esimente è utilizzata nel Regno Unito e trova origine dalla
osservazione che una società, le cui quote sono detenute da investitori terzi, adotterà una
ragionevole politica di distribuzione degli utili. L’esenzione, articolata con modalità
particolarmente restrittive, è utilizzata raramente, dato che le società quotate sono spesso
nelle condizioni di dimostrare la sussistenza di altre esimenti, quali la effective business
activity.
• quando gli utili della controllata non superano un certo ammontare (c.d. de minimis
exemption). L’esimente è utilizzata da svariati ordinamenti di common law (Regno Unito,
Australia, Stati Uniti) oltre che dalla Germania. Il Rapporto Ocse segnala che alla sua base
figurano esigenze amministrative di praticità e semplificazione.
Nel nostro ordinamento, l’articolo 167 comma 5 del Tuir ha regolato due esimenti alternative (sulla
cui alternatività un certo orientamento dottrinario dubitava con riferimento alla precedente
formulazione della norma2). L’imputazione del reddito non avrà luogo se:
a) la società o altro ente non residente svolga un’effettiva attività industriale o commerciale, come
sua principale attività, nello Stato o nel territorio nel quale ha sede;
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Si rinvia al sito Internet http://www.oecd.org.
Il comma 5 dell’abrogato articolo 127bis Tuir recitava: “le disposizioni del comma 1 non si applicano se il soggetto
residente dimostra che la società o altro ente non residente svolga un’effettiva attività industriale o commerciale, come
sua principale attività, nello Stato o nel territorio nel quale ha sede; o dimostra altresì che dalle partecipazioni non
consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori in cui sono sottoposti a regimi fiscali privilegiati di cui al
comma 4”.
L’attuale testo dell’articolo 167 dispone invece: “Le disposizioni del comma 1 non si applicano se il soggetto residente
dimostra, alternativamente, che…”.
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b) dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori in cui sono
sottoposti a regimi fiscali privilegiati (identificati da apposita black list contenuta nel decreto
ministeriale del 21 novembre 2001).
Al fine del riconoscimento di una delle due esimenti il soggetto controllante deve interpellare
preventivamente l’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’articolo 11 della legge 27 luglio 2000,
n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente).
L’articolo 5 del decreto attuativo n. 429 del 21 novembre 2001 ha inoltre precisato:
•
con riferimento alla natura dell’attività rileva il fatto che “l'impresa, la società o l'ente non
residente svolge effettivamente un'attività commerciale, ai sensi dell'articolo 2195 del
codice civile, come sua principale attività nello Stato o nel territorio con regime fiscale
privilegiato nel quale ha sede, con una struttura organizzativa idonea allo svolgimento della
citata attività oppure alla sua autonoma preparazione e conclusione”.
L’articolo non ha soltanto precisato che le attività rientranti nell’esimente sono quelle
contemplate dall’articolo 2195 del codice civile ma ha anche indicato, come criterio
principale di valutazione, l’esistenza di una congrua struttura organizzativa sita nel
“paradiso fiscale”, spia evidente di una attività diversa dalla mera percezione di passive
income. A tale proposito la circolare n. 18 del 12 febbraio 2002 ha evidenziato che
“l’attività industriale o commerciale…deve intendersi nella più ampia accezione
contenuta nell’articolo 2195 del codice civile”, comprendente quindi anche “le istituzioni
finanziarie, bancarie e assicurative”.
La prova inerente l’attività realizzata e la struttura organizzativa è quella che è stata fornita
più spesso dai contribuenti istanti, ed è stata approfonditamente regolamentata dalla prassi
dell’Amministrazione.
•
la seconda esimente viene maggiormente esplicata dal decreto, che articola il concetto di
“localizzazione del reddito” utilizzato dalla norma antielusiva.
Per dimostrare la mancata localizzazione, infatti, rileverà “il fatto che i redditi conseguiti da
tali soggetti sono prodotti in misura non inferiore al 75 per cento in altri Stati o territori
diversi da quelli di cui all'articolo 127 bis, comma 4, del testo unico delle imposte sui
redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, ed
ivi sottoposti integralmente a tassazione ordinaria”. Se ad essere localizzata in un paradiso
fiscale è la stabile organizzazione di un proprio soggetto estero controllato, sarà considerato
rilevante, ai fini della disapplicazione, anche il fatto “che i redditi della stabile
organizzazione risultano sottoposti integralmente a tassazione ordinaria nello Stato o
territorio in cui ha sede l'impresa, la società o l'ente partecipato” (quest’ultimo sarà
residente, infatti, in uno Stato o territorio estero a fiscalità ordinaria; in caso contrario il suo
reddito, compreso quello riferito alla stabile organizzazione, verrebbe complessivamente
imputato al soggetto controllante italiano).
La disapplicazione nella prassi dell’Agenzia delle Entrate
La circolare n. 18 del 12 febbraio 2002 è stata pubblicata poco dopo l’attuazione dell’articolo 167
del Tuir (già articolo 127 bis). Nel descrivere la procedura di interpello, la circolare ne evidenzia la
peculiarità rispetto all’interpello “ordinario” ex articolo 11 delle legge 212 del 2000.
In effetti, si può osservare che se la procedura è la medesima (disciplinata, nel dettaglio, dal decreto
ministeriale n. 209 del 26 aprile 2001, cui rinvia anche l’articolo 5 del decreto ministeriale n. 429
del 21 novembre 2001), con la rilevante possibilità del silenzio-assenso, muta però la natura
dell’analisi richiesta all’Amministrazione finanziaria. Nell’interpello ordinario l’esame verte,
principalmente, sull’interpretazione di una norma giuridico-tributaria (anche con l’ausilio di
documentazione allegata dall’istante, che rifletta la fattispecie concreta). Nell’interpello “Cfc”
l’analisi verte sulla valutazione di fatto dei documenti allegati (anche con l’eventuale risoluzione di
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questioni di diritto), e sulla loro corrispondenza ai requisiti richiesti dall’esimente invocata
dall’istante.
Viene comunque mantenuta la necessaria “preventività” dell’interpello, rispetto al comportamento
del contribuente. E in questo senso la circolare chiarisce che l’istanza di interpello deve essere
formulata prima della presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta per
il quale si chiede la disapplicazione dell’articolo 167 del Tuir. Prima di tale data dovrà essere
notificata all’istante anche la risposta dell’Agenzia, dato che “l’eventuale accoglimento
dell’istanza… potrà valere solo a partire dal periodo d’imposta cui si riferisce la dichiarazione
presentata dopo la comunicazione della risposta resa dall’Agenzia”.
La prova documentale a sostegno dell’esimente
Uno dei punti nevralgici della disapplicazione riguarda, evidentemente, la prova documentale da
fornire a sostegno dell’una o dell’altra esimente. Con riferimento alla prima (effettiva attività
industriale o commerciale), la circolare n. 18 del 2002 ha esemplificato la “relazione descrittiva
della struttura organizzativa dedicata allo svolgimento della attività principale della controllata
estera o della stabile organizzazione … con adeguata documentazione di supporto (normativa e
delibere disciplinanti gli organi sociali e la loro attività, contratti di lavoro, descrizione delle
mansioni svolte dai dipendenti di qualifica più elevata, autorizzazioni delle autorità locali,
disponibilità di locali ad uso civile o industriale, utenze, etc.)”.
Con riferimento alla seconda esimente, la circolare ha evidenziato che costituirebbero presupposti
per la disapplicazione:
1- “documentazione contabile e fiscale (bilancio, dichiarazioni dei redditi, perizie, etc.) idonea a
dimostrare che i redditi conseguiti dalle cfc sono prodotti in misura non inferiore al 75 per cento in
Stati o territori non inclusi nella black list ed ivi sottoposti integralmente a tassazione ordinaria”
(in virtù di quanto previsto dal citato decreto ministeriale 429 del 2001);
2- “documentazione attestante che i redditi della stabile organizzazione risultino sottoposti a
tassazione ordinaria nello Stato o territorio in cui ha sede l'impresa la società o l'ente partecipato,
qualora il soggetto controllato non residente opera in uno degli stati o territori compresi nella
cosiddetta black list per il tramite di stabili organizzazioni”.
Alla luce della frequenza con cui è stata attivata la prima esimente, l’Agenzia ha ritenuto di
effettuare una ulteriore specificazione, in modo da evitare la formulazione di richieste documentali
ai soggetti istanti, interrompendo i termini della procedura di interpello (come previsto dal decreto
ministeriale n. 209 del 2001, inerente l’esercizio del diritto di interpello ordinario).
In particolare la circolare n. 29/E del 23 maggio 2003 ha sottolineato, con esclusivo riferimento alla
prima esimente, che “la prova del collegamento fisico di una struttura commerciale o industriale
con il territorio Cfc deve essere fornita anche attraverso la produzione” di documenti, relativi alla
controllata estera o alla stabile organizzazione, tra cui:
bilancio;
certificazione del bilancio;
prospetto descrittivo dell'attività esercitata;
contratti di locazione degli immobili adibiti a sede degli uffici e dell’attività;
copia delle fatture delle utenze elettriche e telefoniche relative agli uffici e agli altri
immobili utilizzati;
contratti di lavoro dei dipendenti che indicano il luogo di prestazione dell’attività lavorativa
e le mansioni svolte;
conti correnti bancari aperti pressi istituti locali;
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estratti conto bancari che diano evidenza delle movimentazioni finanziarie relative alle
attività esercitate;
copia dei contratti di assicurazione relativi ai dipendenti e agli uffici;
autorizzazioni sanitarie e amministrative relative all’attività e all’uso dei locali.
Inoltre, per permettere all’Amministrazione di valutare l’effettiva principalità dell’attività
commerciale o industriale richiesta dalla norma, “qualora la controllata estera svolga una pluralità
di attività ovvero operi in più Paesi”, l’Agenzia ha ritenuto opportuno verificare “la ripartizione
quali-quantitativa delle diverse attività condotte e l'eventuale dettaglio distintamente per i diversi
Paesi in cui l'attività venga svolta”.
Una esposizione così dettagliata, da parte dell’Agenzia, dei documenti necessari per fruire della
prima esimente non deve essere ritenuto un onere aggiuntivo o particolarmente complesso rispetto a
quanto originariamente richiesto dalle norme di legge (articolo 167 Tuir e articolo 5 del decreto
ministeriale n. 429 del 2001).
Premesso che l’istante, nel caso di mancata produzione di tali documenti, potrà agevolmente
giustificarne i motivi (ad esempio, la legislazione di un particolare Stato potrebbe non prevedere la
necessità di autorizzazioni sanitarie relative all’uso dei locali) l’esistenza di un elenco (una sorta di
“checklist”) finisce per agevolare anche la sua attività di ricerca e produzione, e, come si è
osservato, rende improbabile, se rispettato, l’interruzione dei termini per la richiesta di ulteriore
documentazione.
Con riferimento alla veridicità delle attestazioni formulate, come alla integrità e originalità delle
copie prodotte dall’istante, l’Amministrazione non può che basarsi sul principio di affidamento,
ribadito peraltro dall’articolo 10 della legge 212 del 2000, fermo restando che il nostro ordinamento
prevede un’ampia serie di sanzioni, sia amministrative che penali, relative ad eventuali casi di
irregolarità.
E che il procedimento di disapplicazione si risolva in uno “scambio” documentale tra le parti
interessate, senza la possibilità di verifiche in concreto da parte dell’Amministrazione finanziaria, è
caratteristica inevitabile di tutti i casi di “exemption” sopra esemplificati a livello internazionale,
alla luce delle note difficoltà relative allo scambio di informazioni con i “paradisi fiscali”.
Due effetti della nuova normativa Cfc in Italia sono comunque incontestabili:
• il primo è che le attività “operative” svolte nei paradisi fiscali non sono state sanzionate dalla
normativa né dalla sua applicazione concreta ad opera dell’Agenzia, ricevendo anzi piena
legittimazione nell’ottica di una libera pianificazione fiscale;
• il secondo è che molti soggetti controllanti, anziché scegliere la strada della disapplicazione,
hanno percorso quella della dismissione delle proprie attività detenute in Stati o territori a
fiscalità privilegiata; attività che evidentemente presentavano natura elusiva non facilmente
dissimulabile alla luce della vigente procedura.
Gli effetti perseguiti dalla norma sono quindi stati raggiunti.
Antonio Karabatsos
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