DIDATTICA GENERALE
Dott.ssa Santoro A.
La didattica è “la parte della teoria e dell’attività educativa che concerne i
metodi dell’insegnamento”.
G. Proverbio, nell’Enciclopedia Pedagogica (in Laeng M., 1989) definisce la
didattica “scienza e arte dell’insegnamento” e, dopo i riferimenti a Comenio
(fondatore di una didattica come teoria e metodo dell’educazione), a J.F. Herbart
(che distingue l’educazione dall’istruzione) e a O. Willmann (che ricompone il
processo nell’osmosi tra educazione e istruzione), presenta le differenti teorie
“storiche” della didattica:
a) Idealistico-gentiliana (centrata sull’insegnante e sull’insegnamento)
b) Positivistico-sperimentalista (per l’elaborazione di tecniche di insegnamento
sempre più raffinate, rigorose e convalidate sperimentalmente)
c) Attivistica (attenta alla partecipazione attiva e diretta dell’allievo, percorre il
metodo globale, i centri di interesse, l’attività spontanea,
l’individualizzazione e la socializzazione dell’apprendimento, il lavoro di
gruppo, il metodo della ricerca, l’espressività, il gioco e il lavoro)
d) Strutturalista-cognitivista (attenta all’avvicinamento progressivo, “a spirale”,
della struttura evolutiva della mente con la struttura delle discipline)
e) Comportamentistico-tecnologica (con il primato dell’istruzione programmata
e delle tecniche didattiche supportate dalle “tecnologie dell’istruzione”).
La didattica generale è una idea organizzativa che possiede la capacità di
modificarsi, pur mantenendo ben salde le strutture fondanti; si può dunque, a
ragione parlare di una didattica generale che si delinea come didattiche particolari
per far fronte alle incessanti sfide educative derivanti dalle conformazioni sociali e
culturali.
In riferimento ai singoli compiti educativi dei molteplici enti, occorre elaborare
una pedagogia particolare, in modo da precisarli sempre meglio nelle loro
caratteristiche e modalità di attuazione. In altri termini, i corpi sociali intermedi sono
richiamati ad operare pedagogicamente sui loro associati. Ciascun ente o istituzione
deve mirare ad assolvere il compito educativo che gli è proprio, identificando
specifici obiettivi, quindi, metodi e didattiche precise contro qualsiasi
generalizzazione.
In generale possiamo allora definire la didattica come un ambito conoscitivo che
si occupa criticamente dell’allestimento, consolidamento e valutazione di “ambienti
di apprendimento”, cioè di specifici contesti risultanti da opportune integrazioni di
artefatti culturali, normativi, tecnologici e di specifiche azioni umane, ritenuti atti a
favorire processi acquisitivi.
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La didattica è una delle forme in cui si analizza, si progetta, si attua, la vicenda
dell’educazione. Essa si prospetta come concentrazione riassuntiva finale in direzione
operativa dell’intero processo, attraverso il quale l’intelligenza pedagogica affronta le
problematiche della formazione in senso lato, e dell’istruzione in senso stretto.
“Scienza e arte dell’insegnamento”, come tale rientra a pieno titolo nella
pedagogia come scienza e arte dell’educazione, costituendone una sezione o branca
specifica. La didattica, pertanto, è questo: un dominio culturale che si propone di
elaborare la trasmissione della cultura, del pensare strutturato.
Da didassi = azione dell’insegnamento (in correlazione con matesi);
didattica = scienza dell’insegnamento: scienza sintetica che ha come quadro
teorico fondativo la filosofia che informa la psicologia umanistica e si avvale del
prodotto di tutte le scienze dell’educazione.
La definizione classica la vede come un insieme di regole metodologiche al di
fuori delle quali tutto è sbagliato.
Il principio fondamentale di una moderna didattica, consiste nel fatto che non
esistono procedimenti validi sempre e ovunque; ciò che importa non è tanto migliorare
i metodi, quanto realizzare le condizioni più idonee all’esplicazione dell’attività del
discente.
La didattica non è scienza autonoma, tutta protesa all’individuazione di contenuti
specifici e delle possibili tecniche della trasmissione culturale, ma è quella parte della
pedagogia che si occupa esplicitamente e organicamente degli aspetti tecnici e
strumentali dell’esperienza educativa e della loro coerenza con la “direzione
intenzionale originaria”.
Dire cultura didattica significa avventurarsi all’interno dei contenuti che la
didattica custodisce e che vanno dalla sua definizione alla individuazione degli
elementi che nella situazione didattica entrano in gioco: l’alunno, le procedure
metodologiche, gli obiettivi, le tecniche, lo stile d’insegnamento del quale è testimone
colui che compie l’azione formativa. Una cultura didattica comporta, quindi, la
conoscenza della genesi di questo sapere disciplinare, della sua storia, dei contributi di
metodo portati da chi è stato portavoce di esperienze, di studi, di ricerche che hanno
contribuito all’elaborazione di teorie, anche tra loro differenziate e, tuttavia
giustificative sul piano epistemologico di comportamenti.
E’ un sapere che parla alla coscienza di chi educa; suggerisce percorsi; indica, non
prescrive; dialoga con le altre scienze dell’educazione.
La didattica si occupa della didassi, ossia dell’insegnare, ma assumendolo nelle
sue proprie interconnessioni con l’apprendere.
Quali sono gli elementi della didattica?
Un sistema didattico comprende soggetti e oggetti; i soggetti sono gli uomini in
formazione e quelli che professionalmente aiutano gli altri a formarsi. Gli oggetti
riassumono testi, contenuti disciplinari, saperi, linguaggi, persino concettualizzazioni e
nozioni. Ogni teorizzazione didattica prevede di fornire risposte al duplice interrogativo
del “che cosa si insegna” e “che cosa si apprende”.
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Il metodo non è identificabile con le tecniche: “il metodo si ripropone nella sua
classicità come insieme di ragioni che legittimano l’intervento didattico ed educativo, e
aprono la via che conduce al successo i processi di insegnamento-apprendimento.
Collocandoci intenzionalmente in un sistema complesso in cui saper pensare e
saper porre relazioni è fondamentale, che interpretiamo la didattica:
come un complesso di saperi teorico-pratici;
scienza contemporaneamente autonoma e strettamente correlata rispetto alla
pedagogia;
dotata di una forte marcatura progettuale, metodologica, valutativa, la cui
consapevolezza critica, assunta quale guida dell’agire educativo trasforma
in azione, la riflessione sui processi educativi e culturali, per ritornare ad
essa in un processo di circolarità ricorsiva.
1) La didattica come scienza dell’educazione
In Italia all’incirca fino a metà anni ’70 con “didattica” s’intendono le azioni che
il docente compie per tradurre il programma in conoscenze (allora considerate
comprensive di sapere, saper fare e saper essere) degli alunni nell’ambito scolastico:
azioni strettamente connesse e consequenziali alla teoria pedagogica che risulta
decisamente prevalente, almeno nelle dimensioni che prende in considerazione,
sulla realizzazione pratica (che invece continua a rimanere largamente autonoma
nelle dimensioni non teorizzate pedagogicamente).
L'espressione scienze dell'educazione è divenuta comune solo da pochi decenni,
da quando lo studio della formazione si è generalizzato a tutte le scienze umane,
sociali e comportamentali. Ciò è dovuto anzitutto all’estendersi dell'interesse
sociale per i problemi formativi, sino a diventare prioritario nelle politiche nazionali
e internazionali.
I ruoli e le funzioni formative si sono ampliate, complesse e specializzate. La
pedagogia, prima di allora sostanzialmente imperniata sullo studio del bambino e
sulla preparazione del maestro, è stata spinta ad aprirsi alle diversità della vita
(educazione permanente, educazione continua, educazione della terza età), ai
differenti ambienti e situazioni dell'esistenza sociale oltre la scuola (enti e strutture
locali, strutture di assistenza, situazioni di handicap, emarginazione, devianza,
condizione giovanile, educazione della donna, formazione e aggiornamento
professionale, formazione scuola-lavoro, impatto formativo dei mass-media, tempo
libero, sport).
Nuove esigenze sociali hanno richiesto alla scuola nuovi contenuti educativi
(convivenza democratica, ecologia, pace, sviluppo, diritti umani, qualità della vita,
salute, benessere, interculturalità, informatica, culture e lingue europee, ecc.), di
nuove competenze (programmazione, lavoro in équipe e secondo un progetto di
comunità formativa, utilizzo di nuove tecnologie educative multimediali, ecc.) e di
nuove figure formative oltre alle tradizionali (educatore professionale, équipe
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psico-pedagogica, orientatori scolastici e professionali, animatori socio-culturali,
operatori formativi del territorio, ecc.).
La Didattica in quanto scienza dell’educazione comprende studi e indagini,
teorie e pratiche del processo di insegnamento, il cui fine consiste nel dar vita a
nuove forme di apprendimento.
In quanto scienza, la didattica ha un oggetto, un campo e un metodo.
L'oggetto della didattica è l'insegnamento che punta all'apprendimento, ma non lo
determina. L'azione di insegnamento, pur mirando l'acquisizione, in modo
sistematico, di conoscenze e nozioni, di capacità e abilità, di significati e valori, non
ha la pretesa di produrre direttamente effetti di apprendimento. Se così fosse, essa si
identificherebbe con l’indottrinamento. L'insegnamento, invece, costruisce le
condizioni favorevoli affinché si verifichi un apprendimento da parte del
destinatario. Si tratta di condizioni mirate a ottimizzare l'apprendere dello studente.
L'apprendimento si verifica soltanto con il consenso e la volontà di quest'ultimo.
Pertanto l'insegnante non determina l'apprendimento, ma produce soltanto lo
studenting, ovvero le mediazioni ed i mezzi per fare del soggetto uno studente.
Il campo della didattica comprende sia lo scolastico che l’extrascolastico. Tutte
le situazioni della vita in cui si organizzano azioni finalizzate intenzionalmente
all'apprendimento sono situazioni didattiche. Oggi, il settore extrascolastico è in
forte espansione: nella società della conoscenza l'apprendimento continuo, in tutte
le età dell'uomo, necessita di azioni formative efficaci e controllate. In questa sede
ci interesseremo di un particolare settore del campo didattico, quello scolastico
secondario: un settore che richiede approfondimenti specifici giustificati per un
verso dalle caratteristiche peculiari dell’utenza dell’azione formativa (gli studentiadolescenti), e per l'altro dalle caratteristiche metodologiche ed epistemologiche dei
saperi, rigorosamente sistematizzati in discipline.
Il metodo della didattica - come approccio scientifico l'insegnamento, si avvale
di procedure quantitative e qualitative, strumenti di osservazione, di analisi
comparativa, di misurazione, di descrizione, di narrazione. Metodologie
sperimentali classiche e nuovi modelli di indagine (come ad esempio la ricercaazione) sono utilizzati, con modalità integrate e/o coordinate, per valorizzare e
validare la pratica didattica e nel contempo per provare e falsificare i modelli
teorici.
2) Il rapporto tra pedagogia e didattica
È un rapporto in continua ri-costruzione, con scambi reciproci strettissimi pur
con continue rivendicazioni di autonomia scientifica e di delimitazioni di campo, tra
loro e con le altre scienze dell’educazione.
Una prima distinzione, riservava alla didattica il versante prasseologico
dell’azione educativa, e alla pedagogia il versante teoretico.
“La didattica indica l’arte di insegnare come l’attività di esporre in maniera
facilitata, con procedure adatte ai destinatari, giovani o adulti, i contenuti di
apprendimento; in ciò distinguendosi dai termini pedagogia e pedagogico che
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designano piuttosto l’attività teoretica di riflessione, fondazione e ricerca che
concernono in generale l’educazione, l’istruzione e la formazione”.
Ciò non significa che, con semplicistica equazione, la pedagogia sta alla teoria
come la didattica sta alla pratica. Come in ogni scienza, anche nella didattica la
processualità pro-attiva e retro-attiva tra azione e riflessione, tra prassi e
teoresi, supera l’antinomia teoria-pratica (detto banalmente, tra chi pensa e chi
agisce), per comprendersi in un processo di sviluppo insieme scientifico e
produttivo.
In sintesi, la pedagogia riguarda i fini, i perché dell'educazione, mentre la
didattica ha come suo campo d’indagine lo studio dell'interpretazione e la
progettazione dell'insegnamento per ottimizzarne i processi, per ottenere risultati
sempre migliori quantitativamente e qualitativamente.
LA METODOLOGIA DIDATTICA
La metodologia didattica indaga sui mezzi che si mettono in atto, sulle
condizioni che si creano, sui principi didattici e sulle strategie che si seguono nel
processo dell’insegnamento/apprendimento.
Nella sua configurazione di “scienza”, essa è un’acquisizione recente in campo
pedagogico, giacché è solo di recente che, conformemente allo spirito razionalscientifico del pensiero moderno, ha assunto configurazione di “teoria” come
riflessione critica e, pertanto, elaborazione di principi o “categorie”, che possano
servire da guida e orientamento ai metodi che si mettono in atto, in maniera
specifica, nella prassi educativa e didattica.
Tali principi rappresentano la razionalizzazione della prassi, in quanto, da un
lato permettono di svolgere in maniera razionale il processo educativo-didattico e,
dall’altro sono essi stessi razionalizzazione degli elementi desunti dalle esperienze
educative, e quindi sono da esse “astratti”.
Una riflessione sulla problematica metodologica la si è avuta sempre lungo il
corso dello sviluppo del pensiero pedagogico, ma solo in tempi moderni i suoi
principi direttivi sono stati esplicitati in maniera rigorosa, “scientifica”. Facendo
ricorso anche alla psicologia, sono state individuate le leggi che regolano
l’apprendimento e il comportamento dell’uomo, prima in generale, poi nelle varie
fasi della vita e nelle diversità individuali, e si sono quindi, date delle indicazioni
procedurali per l’insegnamento, nella consapevolezza che questo si deve adeguare
alle caratteristiche del soggetto educando.
Progressivamente si è compreso che le caratteristiche e le diversità soggettive
dipendono anche dalle condizioni socio-culturali, per cui si è fatto ricorso alle
descrizioni e interpretazioni sociologiche. Inoltre, si è compreso che il concetto stesso
di uomo e della sua formazione è relativo alla cultura sociale propria dei vari gruppi
etnici e sociali nelle varie epoche storiche, per cui si è accettato il contributo
dell’antropologia.
Così in sede di metodologia didattica è caduta la vecchia illusione che possa
esserci un metodo universale, avente validità a-storica e a-sociale; in questo, come
in altri campi del sapere si è imposto il principio della “relatività”.
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Il carattere scientifico è conferito alla metodologia didattica dalla razionalità e
generalizzabilità dei suoi principi.
I principi fondamentali, dai quali discendono tutti gli altri, sono due: quello della
congruenza del metodo con l’oggetto, con il fine e gli obiettivi che si intendono
raggiungere; e quello della sua applicabilità alle situazioni specifiche. Da ciò emerge
la formalità dei principi: le determinazioni contenutistiche del metodo si precisano
nell’atto della sua concreta applicazione alle situazioni particolari e specifiche. Ciò
significa che il punto di partenza di ogni atto educativo è l’analisi della situazione.
La metodologia è quindi, teoria formale; e in questa formalità consiste la sua
autonomia. In ordine ai contenuti, essi sono strettamente legati ai contenuti delle
cosiddette scienze umane, ivi comprese la pedagogia, la filosofia dell’educazione e le
diverse scienze dell’educazione.
Dei principi che abbiamo indicato ebbe chiara consapevolezza J.J.Rousseau.
Quest’ultimo infatti, individuò esplicitamente i criteri del metodo nella sua adeguatezza
all’oggetto e alla finalità, che egli chiamò “bontà assoluta” del metodo, e nella sua
applicabilità alle situazioni particolari che chiamò impropriamente “facilità di
esecuzione”. Egli affermò, ancora, la “formalità” della metodologia, allorché rilevò che
le situazioni particolari sono impossibili da determinare e precisare a priori, e
richiedono l’analisi delle condizioni specifiche. Con ciò stesso enunciò anche il
principio della non-neutralità o relatività del metodo. A quest’ultimo principio egli
tenne fede, tant’è che, nel tracciare il suo progetto di educazione naturale, tracciò il
modello dell’educando al quale essa era adatta: un bambino di sana costituzione, ricco,
nobile, senza famiglia, senza particolari doti e senza particolari carenze. Emilio,
appunto. E nel corso stesso del romanzo andrà modificando il metodo educativo, da
naturale, ossia adeguato alla “costituzione umana” in generale, a “individualizzato”,
allorché con la crescita Emilio andrà assumendo caratteristiche individuali e quindi, da
“indiretto” a “diretto”.
METODI DIDATTICI
"Metodo didattico" viene considerato quello sul quale si costituisce l’attività
dell’insegnante. Si tratta di un insieme di regole, consciamente ordinate, che dirigono
una attività didattica in classe. Numerosi sono i metodi, se si considera che sin dai
tempi più remoti qualcuno ha cercato di insegnare qualcosa a qualcun altro. Tra i
numerosi metodi sono da rilevare, nel campo della scienza, il metodo deduttivo e
induttivo.
Il primo, il metodo deduttivo è quello classico legato al procedimento che passa
dal generale al particolare, da una premessa a una conclusione. Il metodo deduttivo,
tipico della filosofia scolastica, venne chiamato anche "a priori", ideale, soggettivo,
sintetico.
Il metodo induttivo, che prevalse nella prima metà del secolo XVII ed è
considerato tipico della scienza (Bacone, Galilei), fu definito "a posteriori",
sperimentale, analitico. Ma vediamo l’impiego di questi metodi a scuola.
Con il metodo induttivo si cercano le leggi partendo dal particolare e ricostruendo
il tragitto (tipico delle scienze applicate); con il metodo deduttivo si parte da un
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assioma, che si dà per certo e assoluto, o da una ipotesi di lavoro, e si deducono le leggi
implicate (tipico delle leggi filosofiche e matematiche).
Ci sono anche metodi più direttamente collegati alla didattica, come quelli per
l’apprendimento della lettura e della scrittura. Di questi, i metodi più antichi risentono
di una impostazione deduttiva, mentre quelli più moderni hanno premesse di carattere
induttivo e risentono molto degli studi di psicologia dell’apprendimento.
Tra i metodi per l’insegnamento della lettura: il metodo alfabetico, o metodo
fonico, perché inizia l’apprendimento dalla conoscenza dei suoni e delle lettere
dell’alfabeto o il metodo sillabico, in quanto ritiene che la prima struttura conoscitiva
sia la sillaba, non la vocale o la consonante, separate; o il metodo proposizionale: come
dice il nome, l’apprendimento partiva dalla conoscenza mnemonica di una proposizione
che conteneva tutte le possibili composizioni dei suoni. Oggi il metodo globale, è
quello più in uso: si parte dalla parola, legata alla figura che l’allievo conosce, e si
apprende a leggere "globalmente", per l’appunto, per parole, unendo il suono al segno e
al significato; quindi non più per suoni o segni che non hanno alcun significato e
servono solo per esercizio ideofonico.
I metodi per l’apprendimento della scrittura affondano nella notte dei tempi e si
differenziano dal tipo di supporto, dallo stilo e dall’inchiostro. Ancora all’inizio del
secolo XVII l’apprendimento della scrittura iniziava riproducendo a ricalco le singole
lettere su carta o su altro materiale (sabbia, lavagna), seguendo una traccia prefissata,
lettera per lettera.
Nell’Ottocento la scrittura preferita era il corsivo pendente, come veniva chiamato
il corsivo obliquo; non mancavano studiosi che cercavano di introdurre nelle scuole il
metodo della scrittura diritta, sempre in corsivo, però, che ha continuato a dominare
fino ai nostri giorni. Soltanto quando gli studi dell’età evolutiva si sono diretti a
evidenziare come il bambino percepisce lo spazio intorno a lui e in rapporto con il
proprio corpo, si è arrivati a comprendere tutte le difficoltà che si può incontrare
nell’apprendere a scrivere.
Diversamente dall’apprendimento della lettura, in quello della scrittura s’inserisce
il fattore motorio. Allo scolaro è, in più, richiesta la capacità di una coordinazione
oculo-motoria correlata alla percezione dello spazio. Dal punto di vista cibernetico
(inteso in senso di autoregolazione), lo scolaro non deve soltanto saper cogliere
visivamente la differenza caratterizzante i diversi elementi che compongono i segni
grafici (sia la struttura delle singole lettere, sia quella più complessa della parola
intera), ma deve anche saper percepire la differenza tra i relativi schemi motori, onde
poter riprodurre tali differenze graficamente. Il problema, così stabilito, si collega: 1) ai
principi topologici, secondo le teorie psicologiche di Piaget, relativi agli elementi
grafici che lo scolaro deve riprodurre; 2) ai principi cibernetici, relativi sia alla
comprensione e misurazione dello scarto, per cui si rende necessario offrire allo scolaro
il carattere grafico più facilmente percepibile; sia al feedback e al rinforzo, per dare allo
scolaro la possibilità di rilevare lo scarto e di verificare il proprio prodotto man mano
che apprende a scrivere.
Lo studio dello sviluppo delle nozioni di spazio s’impone per più ragioni nella
psicologia dell’età evolutiva.
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Nel lavoro fondamentale su tale argomento di Piaget, è emerso chiaramente che
nell’evoluzione delle diverse forme del pensiero infantile, dal pensiero pre-operatorio a
quello reversibile, il problema dello spazio presenta un’importanza fondamentale.
Come ha osservato Merleau-Ponty, "il mio corpo non è il corpo che ho, cioè l’oggetto
dell’anatomia e della fisiologia, ma il corpo che sono, che io esperisco attualmente, che
io vivo".
Nello studio sulla rappresentazione dello spazio nel bambino, che si richiama al
grafismo come principale rivelatore della capacità da parte del bambino di cogliere tale
rappresentazione, Piaget divide lo spazio in: percettivo e rappresentativo. Lo spazio
percettivo è caratteristico dei bambini al di sotto dei due anni ed è dato solo dalle
percezioni; quello rappresentativo, inizia verso i tre anni, quando il bambino comincia
a "costruirsi" la figura percepita, a rappresentarla.
Ecco allora il punto di partenza degli esperimenti fatti da Piaget: studiare il
passaggio dalla percezione di certi rapporti spaziali alla rappresentazione degli stessi,
per comprendere quali vengano compresi per primi. Ancora una volta vediamo
presentarsi prima i rapporti topologici, quindi i proiettivi e da ultimi gli euclidei. Infatti
lo spazio del disegno spontaneo e delle prime forme geometriche si struttura
topologicamente. Accade, cioè, che il bambino, pur conoscendo già le forme euclidee
attraverso la percezione visuale, nei suoi disegni dimostra di cogliere solo i caratteri
topologici (specialmente quelli di vicinanza e separazione) di tali figure, non i loro
caratteri di "forma regolare". Quindi interviene la rappresentazione intuitiva dell’ordine
e la trasposizione dell’ordine intuitivo in ordine lineare; anche questa intuizione lineare
è basata sul rapporto topologico fondamentale della vicinanza prima di diventare
articolata (per cui il bambino riuscirà a stabilire delle corrispondenze complesse od
operatorie).
Ciò porta alla distinzione del punto e del continuo: i soggetti arrivano ad una
sintesi dei rapporti topologici che trovano la loro espressione generale nel continuo, il
quale fornisce così un fondamento razionale alle loro manifestazioni intuitive.
Le prime espressioni prospettiche, rovesciamenti e svolgimenti, sono significative
della struttura proiettiva dello spazio: solo a partire da qui il bambino giungerà ad una
strutturazione euclidea dello spazio stesso.
Cronologicamente le intuizioni topologiche si situano verso i tre anni: il passaggio
all’ordine proiettivo a sua volta non può esser considerato completo prima dei sette
anni: la costruzione euclidea infine si realizza dai sette ai nove anni. Tutto ciò significa
che tra la percezione dei rapporti spaziali intercorrenti fra parti di figure e la loro
rappresentazione corre una significativa differenza, necessaria per comprendere la
distinzione fra intelligenza senso-motoria e intelligenza rappresentativa.
Un bambino anche molto piccolo (due anni) è in grado di apprezzare differenze fra
la forma di un cerchio e quella di un quadrato, ma, anche se non vi sono particolari
difficoltà grafiche, non è in grado di riprodurre queste differenze; la spiegazione di ciò
sta appunto nella distinzione tra spazio percettivo e spazio rappresentativo.
L’apprendimento della scrittura passa tra queste difficoltà di carattere spaziale ed è
stato comprovato che l’apprendimento è possibile, dal punto di vista motorio e
intellettivo, quando la capacità intellettivo-percettiva del bambino supera la percezione
topologica e acquisisce quella euclidea.
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Si è arrivati alla conclusione che il tipo di scrittura che meglio risponde a questa
esigenza è lo stampatello.
Nella storia dell’apprendimento della scrittura i passaggi sono stati molti e alcuni
anche eccessivi: basti pensare che la cultura anglosassone si è fermata alla scrittura con
lo stampatello minuscolo, che ha molte qualità di quello maiuscolo con, in più, la
possibilità di essere usato correntemente e non soltanto durante l’età scolare, ma anche
dopo, da adulti, mentre nella nostra cultura ha inciso l’uso dell’amanuense medievale
che ha "inventato" il corsivo, che altro non è che il legame tra le lettere al fine di
accelerare la scrittura in quei tempi. Ancora oggi, sebbene sempre più raramente, il
corsivo è rimasto il carattere grafico che viene impiegato all’inizio della scolarità (a sei
anni), mentre nel medio evo era considerato la massima espressione della capacità di
scrivere. Da qui le note difficoltà.
INSEGNAMENTO E APPRENDIMENTO
Secondo i recenti orientamenti pedagogici, l’insegnamento è finalizzato non
all’acquisizione da parte del discente di contenuti, bensì della capacità di autoapprendere.
Pare opportuno rilevare che la funzione attribuita all’atto intenzionale
dell’insegnare, non solo è mutata nelle diverse epoche storiche, ma varia anche
nella stessa epoca, in funzione della cultura oggettiva esplicita (i valori sociali) e di
quella implicita, data dall’assimilazione personale di quei valori. Storicamente si è
passati dalla preminenza ascritta al momento dell’insegnare ed educare, a cui
consegue una ricezione più o meno attiva e proficua da parte del discente, riflesso di
strutture sociali verticistiche e autoritarie, alla rilevanza data al momento
dell’apprendere, che viene a configurarsi come atto soggettivo, creativo e dinamico,
che viene stimolato, non prodotto dall’insegnamento, riflesso di una società
partecipativa.
Dall’insegnamento organizzato, programmato in maniera razionale, si
distinguono quegli insegnamenti occasionali dati dall’ambiente fisico e sociale, che
producono apprendimenti spontanei. Questi esercitano un influsso indiretto sugli
apprendimenti scolari, ne costituiscono i presupposti; a loro volta gli apprendimenti
scolari ampliano quelli spontanei, in quanto ampliano la visione del mondo e fanno
recepire elementi che prima non si coglievano.
L’insegnamento è autoapprendimento anche per l’insegnante, sia perché richiede
da parte di questo un continuo aggiornamento teoretico, al fine di innovare i suoi
metodi, sia perché egli apprende dalla situazione scolare stessa. Pertanto, la
capacità di insegnare non è soltanto questione di formazione iniziale, ma anche di
formazione continua, che si realizza anche attraverso l’esperienza scolastica
quotidiana. Posto infatti, in situazioni sempre nuove per il variare dei discenti, delle
situazioni scolastiche ed extrascolastiche, l’insegnante è sollecitato dalla situazione
stessa a mettere in atto procedimenti sempre diversi, a modificare il suo
comportamento. Ammettiamo per ipotesi che l’insegnante voglia mantenere sempre
costante nel tempo il suo modo di procedere didattico (ciò avviene quando
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l’insegnamento è diventato routine): le reazioni di risposta dei discenti lo
costringono a mutare atteggiamento, anche se non in ordine ai contenuti
dell’istruzione, certamente sul piano delle relazioni interpersonali, ossia nel
rapporto docente/discenti.
Anche il mutamento delle condizioni oggettive, organizzative della scuola
induce il docente al mutamento, come induce al mutamento i discenti.
Di volta in volta, quindi, l’insegnante si adegua alle nuove situazioni. Tra
docenti, discenti, scuola si stabilisce una situazione di feedback, per cui le tre
variabili si modificano l’un l’altra per ridurre gli squilibri, ove essi si presentano. In
tal modo l’insegnante “apprende ad insegnare”.
E’ da tenere presente, inoltre, che la classe è un microgruppo pressoché
omogeneo per età cronologica, ma non omogeneo per età mentale, per caratteristiche
di personalità dei suoi membri, per problematiche sociali che si riflettono nella rete di
relazioni interpersonali che si stabiliscono all’interno di essa. Ogni individuo ha una
sua personalità che è unica e irripetibile e risente anche dello status sociale della
famiglia in cui egli è inserito, dell’ambiente fisico in cui vive, ecc.. Le relazioni che si
stabiliscono tra alunni diversi, fanno si che la classe sia sottoposta alle dinamiche di
gruppo, e fanno si anche che la classe come tale sia formativa per gli individui che in
essa convivono.
Possiamo dire, pertanto, che la prima coordinata che si presenta sul piano
metodologico-didattico è quella insegnamento-situazione oggettiva, e che qualsiasi
attività didattica non può prescindere dalla preliminare osservazione o analisi della
situazione oggettiva.
La situazione oggettiva comprende in sé molte variabili. Essa può essere
paragonata ad un campo di forze, in cui interagiscono discenti, insegnanti,
discipline d’insegnamento, scuola, richieste della scuola e della società. Ognuna di
queste forze ha una sua valenza e direzione.
La situazione varia col mutare dei discenti, ma anche col mutare del docente, sia
in ordine alla sua maturazione professionale, sia in ordine alle sue contingenti,
soggettive condizioni, che suscitano risposte diverse nei discenti: l’insegnante
agisce sul discente non solo col suo comportamento palese, verbale e non-verbale,
ma anche con i suoi atteggiamenti affettivi, consci ed inconsci.
Il comportamento infatti, di docenti e discenti è in correlazione a quanto
l’istituzione richiede e a come lo richiede; e il come dipende dal tipo di
organizzazione: se è verticistica, autoritaria o, viceversa, di tipo collaborativo,
democratico. Ed è pure in correlazione con gli spazi fisici, con gli strumenti a
disposizione.
Il comportamento scolare è in funzione della disciplina di insegnamento:
l’insegnamento/apprendimento della lingua ad es. richiede atteggiamenti diversi da
quelli richiesti dall’insegnamento/apprendimento della musica, dall’educazione
fisica, ecc.. i linguaggi, gli strumenti didattici, le prestazioni, le richieste sono
diversi in rapporto ad ogni singola disciplina, anche se possiamo dire che ci sono
atteggiamenti di fondo inerenti alla posizione di insegnante e di alunno come tale.
L’azione di ognuna di queste variabili, struttura in una certa maniera la
situazione, e la modificazione di una di esse dà una strutturazione diversa alla
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situazione globale. Tre sono le componenti fondamentali della situazione scolare:
l’insegnante, l’alunno, la scuola come istituzione ed organizzazione.
Sul piano metodologico si possono elaborare delle categorie generalizzabili, ma
esse, appunto perché categorie hanno un valore formale. Dal punto di vista del
contenuto esse possono essere riempite solo nel momento in cui vengono messe in
atto nella pratica educativa.
Se ad es. possiamo dire che l’insegnante deve adeguare il suo comportamento
alla situazione della classe, e questa tesi ha una sua universalità e generalizzabilità ,
non altrettanto universalizzabile è il discorso sul come in concreto un insegnante
deve comportarsi con i suoi discenti, con ciascuno dei suoi discenti, giacché questo
dipende dall’effettiva situazione dei discenti medesimi, e dall’effettiva, reale
situazione dell’insegnante.
Si possono indicare delle linee direttive che poi devono essere “tradotte” in
ordine allo specifico, nell’atto concreto del far scuola.
Si ripresenta sul piano metodologico la stessa tensione che si ha a livello
pedagogico, tra teoria pedagogica e prassi educativa. Nell’uno e nell’altro caso è
necessaria l’elaborazione di una teoria che si traduca in modello operativo che
sorregga e orienti la prassi, e comunque, teoria e modelli non possono essere che
formali. I modelli devono essere verificati nella prassi (e se è il caso, mutati) da
ogni singolo insegnante, in rapporto a quelli che sono i “suoi” discenti, la “sua”
scuola, ecc..
Non si può prevedere a priori quale sarà il comportamento reale di “quei” dati
alunni, in “quella” data contingenza, in “quel” dato momento della loro carriera
scolastica. Il modello generalizzato fornisce delle ipotesi, può simulare una situazione
in cui entra in campo un gioco di forze, può indicare quali di queste forze possono
variare quando ne varia una, se la nuova forza richiede o no la ristrutturazione di tutto
il campo, ma non può dire a priori quali siano le forze che di volta in volta entreranno
in gioco. Occorre, pertanto, che il docente metta in atto una preliminare indagine
ricognitiva che gli dia un quadro della situazione reale, quadro che deve essere
costantemente verificato. Un’indagine di tale tipo, in realtà l’insegnante la svolge, a
livello intuitivo tutte le volte che fa il punto della situazione della sua classe. Si tratta
di esplicitarla e organizzarla con consequenzialità razionale, cogliendo la connessione
tra le diverse variabili.
Tipi di apprendimento
In linea generale possiamo definire l’apprendimento “processo psichico che
consente una modificazione relativamente durevole del comportamento per effetto
dell’esperienza”.
L’apprendimento avviene in quattro modi principali: per trasmissione, per
acquisizione, per accrescimento e per emergenza.
La trasmissione è il metodo predominante di insegnamento, attraverso il quale
informazioni, conoscenze, idee e competenze vengono trasmesse al discente.
Nel corso di una vita esso rappresenta il metodo che incide solo per circa il 10%
nell’apprendimento generale.
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L’acquisizione è la scelta consapevole di imparare. Questo metodo è fondato sulla
ricerca e la curiosità generale che si esplicita attraverso l’esplorare, lo sperimentare,
l’auto-istruzione. Costituisce circa il 20% di quello che impariamo.
L’accrescimento, spesso inconscio o subliminale, è un processo mediante il quale
impariamo le cose, come la lingua, la cultura, le abitudini, i pregiudizi, le regole sociali
e i comportamenti. Viene anche definito apprendimento sociale e rappresenta circa il
70% di ciò che sappiamo.
Emergere è il risultato di patterning, la strutturazione e la costruzione di nuove
idee e di significati che prima non esisteva, ma che emerge dal cervello attraverso la
riflessione, il pensiero, l’intuizione e l’espressione creativa o le interazioni di gruppo.
Questa forma di apprendimento prevede capacità di sintesi, creatività, intuizione,
problem-solving. Rapppresenta solo 1-2% di ciò che sappiamo.
I DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO
I disturbi specifici di apprendimento raccolgono una varietà di problematiche
nell’apprendimento scolastico non attribuibili ad una difficoltà intellettiva generale. Ma
quali sono gli indicatori principali che consentono di individuare le difficoltà di
apprendimento ?
Un criterio per l’individuazione è il criterio della discrepanza, dove per
discrepanza si intende la differenza tra una stima delle abilità intellettive generali del
bambino e l’effettivo successo scolastico.
Altro principio chiave è il criterio della disomogeneità, ovvero, il bambino può
avere buone prestazioni nelle discipline matematiche, ma non in quelle linguistiche,
oppure anche nell’ambito della stessa disciplina può presentare delle difficoltà
specifiche solo in alcuni ambiti quali ad esempio, adeguate abilità di soluzione dei
problemi, ma difficoltà nel calcolo mentale ecc.
La dislessia
Dislessia: è un disturbo specifico dell’apprendimento che interessa il 3% della
popolazione infantile Italiana.
Un soggetto è definito in DLS quando nonostante possegga normali qualità
organico-intellettive, risulta possedere carenti capacità d’apprendimento e
comportamento in relazione alla sua età.
La DLS NON E' una malattia o un'alterazione organica; ma un alterato
apprendimento nel tempo che ha deteriorato il comportamento dell'individuo. Da ciò si
evince che un soggetto in DLS possiede normali capacità intellettive, ma non è in grado
di utilizzarle in modo appropriato; possiede normale acutezza visiva, ma non sa "dove"
guardare; possiede normali capacità di usare mani e piedi, ma non sa coordinarle, ecc.
La dislessia colpisce bambini dotati di intelligenza normale che, pur non
presentando problemi affettivi, psicologici e sensoriali, mostrano difficoltà a
comprendere il significato di ciò che è scritto. I primi segnali compaiono già in prima
elementare: l’alunno confonde le lettere che si somigliano anche se capovolte o
speculari come ad es. la “b” con la “d” o con la “p”, la “m” con la “n”. Spesso tali
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bambini leggono in modo incompleto le parole, così da renderne incomprensibile o
diverso il significato. Si ritiene che alla base di questo rallentamento nell’acquisizione
della scrittura ci sia una difficoltà nello scomporre la parola nei suoni che la
compongono e quindi, quando i bimbi devono tradurla nel linguaggio scritto, fanno
confusione. Inoltre tali soggetti hanno anche difficoltà nella memorizzazione delle
letture oltre che nella loro comprensione. E’ importante intervenire subito in quanto
l’insuccesso scolastico legato a questo deficit può diventare doloroso e frustrante sia
sul piano psicologico sia su quello sociale.
Come si interviene? attraverso attività di gioco, strutturando laboratori pensati per
favorire nei bambini la scoperta di alcuni dei principi della struttura del linguaggio
scritto, e in genere le attività ritenute importanti per l’apprendimento della lettoscrittura.
I laboratori scolastici possono offrire la possibilità di compiere osservazioni
continue e dettagliate degli stili di apprendimento dei bambini e di effettuare uno
screening per la rilevazione di eventuali comportamenti che suggeriscono un futuro
rischio di problematiche di apprendimento. Molti bambini sono vittima di un senso di
grande frustrazione nel momento in cui entrano a fare parte del sistema scolastico e tale
sentimento è spesso dovuto ad una serie di malintesi che coinvolgono insegnanti,
genitori, specialisti e gli stessi bambini.
L’insegnante si interroga sull’impegno del bambino e richiamandosi al modello di
apprendimento secondo cui l’acquisizione di una abilità è funzione della qualità
dell’esercizio, ritiene che il bambino si eserciti poco e lo invita a moltiplicare lo sforzo.
I genitori sono perplessi e spesso oscillano fra comportamenti severi e punitivi con
inviti all’impegno e lunghi periodi di attesa impotente sperando che il tempo aggiusti
ogni cosa.
Disgrafia
Disgrafia è la difficoltà di realizzare il gesto grafico. Ciò può essere dovuto a varie
cause come un difetto di percezione del movimento del braccio, della mano e della
matita, da disturbi visivi ed a difficoltà motorie o visuo-motorie legate alla
programmazione dell’atto grafico. I bambini hanno problemi nel dosare la pressione per
tracciare un segno sul foglio e la scrittura appare molto leggera o calcata. Hanno
difficoltà a controllare le dimensioni e la grandezza delle lettere, ad orientare la
scrittura sul foglio: la grafia è obliqua oppure spostata troppo in alto o in basso. Tali
soggetti hanno, inoltre, grande difficoltà nel rileggere ciò che essi stessi hanno scritto.
Nella disgrafia si trova la disortografia che rappresenta la difficoltà a tradurre in
simbolismo grafico la sequenza di suoni in cui è composto il linguaggio orale, pur
sentendolo perfettamente. Alla disortografia si associano di frequente difetti del
linguaggio verbale (disfasia) o della lettura (dislessia) che quando non sono causati da
problemi di vista, udito o intelligenza, dipendono da anomalie dei centri nervosi in cui
si forma l’espressione verbale.
Disfasia
Deficit che tendenzialmente migliora con il tempo, soprattutto se segnalato
precocemente. Si tratta della difficoltà di articolare il linguaggio verbale ed il terapista
deve lavorare sull’articolazione dei suoni, sull’espansione della frase e sul rapporto tra
contenuto e forma. In tal modo insegna ad usare il linguaggio per esprimere contenuti
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diversi. Se diagnosticata in ritardo, produce impoverimento cognitivo con alterazione
permanente del linguaggio.
La discalculia
La discalculia implica una specifica compromissione delle abilità aritmetiche, la
difficoltà riguarda la padronanza delle capacità di calcolo fondamentali, come
addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione. Le difficoltà aritmetiche che
possono presentarsi sono varie, ma tra esse sono incluse: un’incapacità a comprendere i
concetti alla base di particolari opzioni aritmetiche; una mancanza di comprensione dei
segni matematici; il mancato riconoscimento dei simboli numerici; la difficoltà ad
attuare le manipolazioni aritmetiche standard; la difficoltà nel comprendere quali
numeri sono pertinenti al problema aritmetico che si sta considerando; la difficoltà ad
allineare correttamente i numeri o ad inserire decimali o simboli durante i calcoli; la
difettosa organizzazione spaziale dei calcoli aritmetici; l’incapacità di apprendere in
modo soddisfacente le tabelle della moltiplicazione.
Si pensa che si tratti di una difficoltà a rappresentarsi mentalmente i vari passaggi
delle operazioni in uno spazio bidimensionale (il foglio) che è spesso associata ad un
problema di coordinazione motoria. Così, ad esempio, questi bambini sono spesso
distratti, possono essere goffi nel saltare gli ostacoli, non vanno bene in bicicletta e non
sanno fare i nodi (hanno anche difficoltà ad allacciarsi le scarpe).
In ogni caso, importante è sottolineare che non è sufficiente avere generiche
difficoltà in matematica per essere definiti discalculici, ma occorre che siano rispettati
alcuni specifici parametri, condivisi dalla comunità scientifica.
Iperlessia
Se un bambino impara a leggere perfettamente tra i 2 ed i 5 anni, può essere un
bambino normale che padroneggia in anticipo uno strumento di apprendimento. Ma se
questa è l’unica attività che sa fare bene, allora si potrebbe essere in presenza di un
primo segno di iperlessia. In tal caso il bambino è bravissimo nel leggere e nello
scrivere, mentre ha forti difficoltà a capire ciò che legge o scrive. C’è in pratica una
padronanza dello strumento senza alcun controllo del suo significato.
E’ difficile che l’iperlessia sia un disturbo isolato, bensì si accompagna spesso ad
altre forme di DLS o peggio a qualche ritardo mentale od ad una sindrome autistica.
Spesso ciò dipende da una forzatura fatta sul bambino affinchè impari argomenti a cui
non è ancora pronto; in tal modo ha finito per acquisire solo l’aspetto meccanico del
compito che gli veniva richiesto e non il motivo reale alla base della lettura che è quello
di leggere per sapere cosa c’è scritto.
Disprassia
Si tratta di un disturbo dello sviluppo che impedisce al bambino di compiere
attività manuali complesse. Non è un problema motorio in senso stretto, ma una
difficoltà a programmare e controllare la sequenza dei movimenti. Il segnale di questo
deficit è una goffaggine generale: i bambini svolgono faticosamente alcune azioni con
risultati scarsi rispetto ai loro coetanei. E’ disprattico un bambino di 3-4 anni che non
riesce ad imparare a vestirsi da solo o che ha difficoltà a scavalcare ostacoli, uno di 6
anni che non sa ancora allacciarsi le scarpe o che non riesce a disegnare ed a ritagliare.
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Questo disturbo si associa spesso alla discalculia. Il terapista rappresenta il movimento
con l’ausilio di giochi o attraverso la verbalizzazione, così da aiutare, con un canale
diverso da quello motorio, la programmazione del movimento. Se avviata in tempo, una
prassi educativa evita impatti emotivi e psicologici frustranti (l’essere inferiore dei
coetanei). In tal modo si recuperano le attitudini di base anche se permangono difficoltà
nelle attività più complesse. Ciò significa che seppur non diventerà un super sportivo,
da adulto non avrà alcun problema.
Disattenzione
E’ lo scarso sviluppo delle capacità di mantenere la concentrazione. Un disturbo
dell’attenzione, che alcuni studiosi imputano ad un’alterazione della biochimica
cerebrale, si rivela in genere in età scolare. In pratica i bambini hanno difficoltà a
rimanere attenti a lungo o a concentrasi su obiettivi precisi, faticano a rimanere seduti a
seguire le istruzioni. La facile distraibilità diventa un problema quando interferisce con
le altre funzioni come il linguaggio, il movimento, il pensiero e lo sviluppo cognitivo.
Non è ancora chiaro se questo problema debba essere considerato come un disturbo
specifico o se si tratta di un sintomo di altre anomalie. In questa situazione, così come
in alcune altre, alterazioni delle funzioni visive possono giocare un ruolo determinante
nella nascita e nello sviluppo di tale problematica legata all’apprendimento. Un difetto
dell’attenzione pesa poco sullo sviluppo del bambino se tale problematica è isolata; ben
più grave è la situazione quando essa è collegata ad altre anomalie. E’ per questo che
spesso si decide di consultare uno specialista solo quando, oltre al deficit di attenzione,
si riscontrano disturbi linguistici o motori.
Trattamento dei disturbi dell’apprendimento
Quando si prospetta la necessità di strutturare un percorso abilitativo ogni
intervento va commisurato al bambino prendendo in considerazione sia l’età di
sviluppo sia la tipologia della difficoltà presentata. L’intervento più utile e diffuso è
l’abilitazione delle competenze meta-fonologiche, meta-linguistiche, lessicali, grafiche
ed ortografiche sia in lettura che in scrittura, mentre, riguardo al calcolo l’intervento
sarà mirato al rinforzo delle abilità di calcolo con l’utilizzo di idonee strategie che
aiutino il bambino a compensare la difficoltà.
Trasversalmente alle varie disabilità rilevate si accompagneranno interventi
orientati al rinforzo metacognitivo, dell’autostima e della motivazione scolastica.
Gli strumenti da proporre per favorire le acquisizioni dovrebbero tenere conto sia delle
modalità di acquisizione uditiva, sia di quella visiva, per superare le difficoltà di
decodifica della letto-scrittura.
Alcuni strumenti compensativi molto validi sono quegli strumenti in grado di
trasformare un testo cartaceo in testo digitale/orale, come: lo scanner, la sintesi vocale,
il libro digitale, l’audiolibro, il libro parlato, la costruzione digitale di mappe
concettuali e di quelle mentali.
L’utilizzo della videoscrittura è importante e di efficace aiuto in quanto la
segnalazione dell’errore è concomitante all’errore stesso e la correzione avviene in
tempo reale; inoltre il computer è un segnalatore imparziale e non giudicante, quindi è
meglio tollerato dal soggetto e considerato una risorsa abilitante, non frustrante.
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L’insegnamento differenziale
Nell’insegnamento ai bambini portatori di handicap cambiando lo stato di
ricezione del soggetto educando e diversificando le finalità di esso, le confluenti
didattiche si focalizzano sull’esaltazione delle residue capacità dell’alunno, a cui si
commisurano costantemente in maniera adattiva non solo rispetto al singolo alunno, ma
perfino volta a volta. Ciò significa che in tale insegnamento, dominante è la singolarità
dell’alunno, con il quale il docente intesse un rapporto didattico tanto più
individualizzato e personalistico quanto più grave è il deficit che lo affligge e meno
efficace è il coordinamento operativo col gruppo o col gruppo classe, e comunque
l’insegnamento corale. Ovvio, infatti, che sia i fini istruttivi e gli insegnamenti formali
e mnestici, sono tanto più difficili da attuare quanto più il deficit tocca le regioni
cerebellari, e mediatamente o direttamente ne blocca le funzioni cogitative, quelle delle
iniziative riflesse e volute, e quelle delle motivazioni all’azione. In questo quadro
clinico-possibilitario il concetto stesso dell’insegnamento come trasmissione del sapere
si attenua fino a diventare in taluni casi un filo sottile più di speranza che di
realizzabilità. Allora esso ricorre, più che al metodo strutturalista, a quello
associazionista e dei riflessi condizionati, tentando graduali passaggi e costruzioni di
tessuti di sensazioni esperenziali collegate con procedimento a piccoli passi
costantemente riferiti ai dati originariamente primordiali e vitali, per passare
gradualmente a funzioni fisio-psichiche significanti di esigenze empiriche.
Qui, non appena si accende un barlume di capacità astrattiva, può iniziarsi la
sollecitazione all’esercizio cogitativo, mediante dialogo imperniato su quel concreto
che sia di possesso percettivo dell’alunno e che con domande e risposte, sulla base
delle cose, anzicchè dei loro simboli linguistici, avvia alla problematizzazione e alla
soluzione pratica.
Ma già a questo livello il grado deficitario dell’attività cerebellare si configura di
media portata e gravità, sì che l’insegnamento assume più consistente fluidità cognitiva
e può attuarsi mediante forme più varie. In questo caso, infatti, le attività di gruppo, le
modalità di drammatizzazione e più avanti ancora il problem solving possono dare un
valido impulso all’apprendimento cognitivo e allo sviluppo cogitativo del soggetto con
handicap, in cui è possibile una ricezione di contenuti che portano l’atto del docente a
un grado di apprezzabile efficacia.
Le ricompense
La ricompensa in educazione è un problema pedagogica vero e proprio, poiché gli
insegnanti hanno sempre distribuito premi e castighi.
La psicologia del comportamento si fonda su tre concetti: le azioni degli animali
(uomo incluso), nascono da funzioni vitali istintive o casuali; la psiche è un tessuto di
riflessi condizionati emersi da azioni esistenziali; l’animale apprende, conserva e ripete
le azioni rafforzate mediante ricompense, evita le azioni punite o andate a vuoto. Di qui
le due conseguenze: l’importanza fondamentale del rinforzo nell’apprendimento: ogni
azione fatta dall’alunno secondo le aspettative va rinforzata; ogni comportamento base
appreso va collegato alla richiesta di un altro comportamento, in modo da costituire una
catena ramificata di comportamenti, ovvero il tessuto dei fenomeni di cui consta la
psiche.
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Ma come rinforzare e indurre a ripetere l’azione bene accetta?
Kozloff, per il quale “le ricompense sono la parte più importante di qualsiasi
programma di insegnamento”, distingue quattro tipi di ricompense: naturali o primarie
(cibo, leccornie, acqua e simili), sociali (amorevolezza, elogi, voti e simili),
generalizzate o strumentali (denaro, buoni acquisto, premi di consumo e simili),
dinamiche o di azioni dopo delle quali sopravvengono stati di benessere (metto il
soprabito e non sento più freddo, prima lavo i piatti e poi gioco a bridge e simili).
Coi bambini con handicap egli dice di iniziare dalle ricompense primarie, e di
sostituire queste gradualmente con quelle di altri tipi, in relazione al recupero ottenuto
dall’alunno. Suggerisce poi, alcune norme da seguire attentamente nel ricompensare: a)
non dimenticare di ricompensare a momento opportuno; b) non ricompensare sempre
allo stesso modo, ma variamente, onde evitare l’assuefazione; c)evitare la saturazione
compensatoria; d) adattare la compensazione all’indole, all’interesse, al tipo di
esercizio dell’alunno; e) ricompensare prima ogni volta, poi con graduale accorta
intermittenza. Però tali indicazioni pur utilissime mostrano limiti interpretativi molto
marcati del comportamento dell’alunno. Non è la meccanica compensatoria a fare
impegnare l’alunno, ma l’interiore soddisfazione per il fatto che si sente bene accetto e
dal fatto che operando realizza un suo stato esigenziale interiore. Che tra l’altro gli
consente di esprimersi e di realizzarsi come persona che è insieme valore a sé e valore
sociale.
La valutazione: aspetti problematici
Quanto sia complesso il problema della valutazione è noto a chi è chiamato a
esercitarla, vuoi per motivi occasionali, vuoi per ragioni professionali. Esso infatti, ha
una pluralità di sfaccettature, in quanto l’atto del valutare coinvolge le variabili
soggettive di chi giudica le condizioni e gli obiettivi socio-culturali per cui la
valutazione avviene, le variabili soggettive del valutando, il profitto oggetto di esso.
Sull’incidenza della soggettività dell’esaminatore nelle conclusioni giudicative
non ci sono dubbi, dato che sono stati condotti molti esperimenti in proposito. Ed è
ovvio. La valutazione, infatti, dipende dalla storia e dalla realtà attuale
dell’esaminatore, dalle sue certezze, dalla sua cultura, dalla sua capacità problematica,
dal suo buon senso, dall’adattività e apertura della sua intelligenza, dai suoi ideali, dalla
prospettiva nella quale inquadra e vede l’esaminando.
Rilievo e base alla valutazione danno le condizioni e gli obiettivi socio-culturali
per cui essa è condotta. E’, infatti, preliminare conoscere le finalità della stessa, onde
stabilire le modalità e i contenuti dei quesiti da fare al valutando, in rapporto ai fini
della preparazione da lui dovuta. Un elemento da considerare attentamente è quello
costituito dalle condizioni socio-culturali ambientali in cui e per le quali la valutazione
avviene, allo scopo di evitare eccessività o lassismo nella conduzione degli esami e
nella valutazione finale. E’ necessario, cioè, correlare l’esame all’ambiente in cui
avviene, oltreché all’obiettivo finale.
Altra confluente da tenere in conto, sia ai fini metodologici dei procedimenti, sia
allo scopo di rendere oggettivi al possibile esami e giudizio, è la considerazione delle
variabili soggettive dell’esaminando. Una valutazione, infatti, non è mai fine a se
stessa, ma ha una funzione di attività futura del valutando; essa, pertanto, è predittiva,
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in quanto vede l’esaminando nel suo divenire, non come accumulo di cognizioni ma
come capacità noetiche, ancorché l’ampiezza dell’orizzonte cognitivo sia uno
strumento utile delle capacità operative. Questo però, presuppone che chi valuta abbia
una prospettiva dinamica degli obiettivi, di futuribilità operazionale e che sia convinto
che i dati formalmente definiti vanno commisurati sempre al fluire multiforme degli
aspetti e degli obiettivi medesimi.
In questo senso il profitto degli impegni dell’esaminando diventa strumentale
rispetto alle capacità e alle articolazioni operative specifiche che nell’esame e nella
valutazione si evidenziano, risultando così non il vero oggetto dell’esame, ma il
materiale per l’accertamento delle capacità e delle abilità acquisite dall’educando.
La valutazione docimologica
La valutazione avviene mediante un rapporto diretto tra la personalità di chi valuta
e quella del valutando, e pertanto, può definirsi personalistica. E’ evidente che la
valutazione personalistica porta impliciti i pericoli del soggettivismo, poiché in essa le
variabili soggettive di chi valuta possono inconsapevolmente avere la prevalenza su
tutte le altre concomitanti, poiché in ultima analisi il giudizio è dato dall’esaminatore,
ed è questa la ragione per la quale gli specialisti dell’argomento sono andati alla ricerca
e hanno indicato vie diverse da quelle personalistiche per realizzare una valutazione
non infirmata dal soggettivismo e dall’arbitrio di chi giudica. E’ nata così la
docimologia, scienza degli esami e della valutazione, che con strumenti oggettivi da
adottare nei riguardi di tutti gli esaminandi indiscriminatamente mira ad attuare un
esame e una conseguente valutazione quantificabile oggettivamente, sulla base del
conteggio statistico degli errori commessi dell’esaminando nel rispondere ai quesiti
proposti.
Tali quesiti non sono verbali e non vogliono risposte orali, ma sono indicati
sottoforma di asserti chiari e ben definiti, a cui l’esaminando deve far seguire un si o un
no (se ritiene o non ritiene esatto il quesito), segnando una crocetta sul quadratino del si
o su quello del no tracciati a lato di esso. Altra volta al quesito si accompagnano cinque
risposte prefatte di diverso significato; l’esaminando ne segnerà una indicandola come
a suo parere valida. Dal conteggio degli errori viene assegnato un voto numerico e/o un
giudizio, sulla base di una quantificazione valutativa degli errori già concordata e
stabilita dalla commissione esaminatrice.
Ma le prove oggettive non sono tutte quante di questo tipo; esse, infatti, sono
anche relative ad attività manuali, cinetiche, etiche, ecc. tendendo in siffatto modo a
sondare i vari aspetti della persona e della personalità.
Delle prove docimologiche si può dire che difettano del rapporto personale
esaminando-esaminatore, sì che nascondono nella loro oggettività l’incomprensione per
una valutazione in prospettiva di futuribilità del valutando; esse si attengono al una
presenzialità che dà poche garanzie per il futuro, perché del soggetto vedono ciò che ha
fatto non ciò che potrà fare in seguito. Tuttavia non mancano in essi i lati positivi, quali
per esempio l’evidenziazione della memoria, dell’impegno e del profitto, della volontà
di riuscire, dell’intuizione dell’esattezza e simili del valutando.
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Come valutare l’alunno portatore di handicap
Nella valutazione dell’alunno portatore di handicap va tenuto conto del fatto che
la valutazione oggettiva dovrà essere sempre accompagnata dal rapporto personale
dell’insegnante con il minorato. Essa, infatti, non ha scopi giuridici e formali,
giudicativi e selettivi, ma metodologici e predittivi: metodologici perché dall’esame dei
risultati l’insegnante può valutare la (non) bontà del suo metodo; predittivi perché dagli
stessi, nelle linee generali, si può prevedere il futuro andamento e profitto dell’alunno.
E’ ovvio che ora non stiamo discutendo della valutazione dell’handicap e della sua
portata, poiché essa è la conclusione della diagnosi, e appartiene pertanto, all’aspetto
clinico della minorazione. La valutazione della quale ci stiamo interessando ora, è
relativa all’attività didattica dell’insegnante e al profitto e allo sviluppo della
personalità dell’alunno.
Ai fini di una corretta valutazione scolastica del soggetto portatore di handicap è
opportuno tenere presente quanto segue:
a)
il docente deve poter disporre di una scheda dalla quale risultino l’entità
della patologia, i gradi e i tempi dell’evoluzione di essa, della personalità
e del profitto del discente, possibilmente schematizzati in uno o più
grafici. Sulla stessa egli scrive lo stato attuale dei vari aspetti ora indicati,
annotandone a lato la situazione rispetto al momento della più recente
valutazione.
b)
Il rapporto personale tra il docente e il discente durante le prove di esame
dev’essere costante e affettuosamente sollecitativo, quali che siano le
prove in cui l’alunno è impegnato.
c)
Questo personalismo non deve far pensare all’esclusione preconcetta delle
prove docimologiche che possono invece attivarsi nella misura e nei casi
in cui si ritiene utile il loro utilizzo. Bisogna però precisare che le prove
docimologiche concernenti i quesiti e le risposte sono di possibile utilizzo
solamente nei casi di alunni svantaggiati e/o disadattati, e solo per gli
aspetti cognitivi dell’andamento didattico; mentre altre sono le prove che
vanno adottate per gli handicappati medi e gravi. Indichiamo, a titolo di
esempio prove fondate su musica-canzoni, parole incrociate, costruzioni,
esercizi ritmici, richieste cinetiche, piccoli lavori, spiegazioni di immagini
(di vario tipo) e simili. Vale a dire, l’insegnante può utilizzare le attività
concernenti modi e mezzi di passatempo, non esclusi i giochi del domino,
della dama europea e cinese, dai quali non è difficile evincere la quantità
di errori e il grado di maturità acquisita, le abilità manuali e cinetiche, lo
sviluppo delle capacità raggiunte dal discente con handicap.
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Bibliografia
Piaget, soprattutto: J. Piaget, B. Inhelder, La répresentation de l’espace chez l’enfant, Paris, PUF, 1947
D. Gasparini, Da Ickelsamer a Comenio, Roma, Armando, 1984;
M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, Milano, Bompiani, 1963, p. 345
Rayala Martin – Cambiare la mente: verso una teoria di apprendimento – Wisconsin 1996
Bruno Fichera L., 1970 Pedagogia e Psicologia dell’apprendimento Musumeci Editore, Catania
F.Frabboni et Alter, Manuale di pedagogia generale, Laterza Bari 1994
Frabboni, Manuale di didattica generale, Laterza Bari 1997
FF. E. Erdas, Didattica e formazione. Armando Roma 1991
G.Catalfamo, Il globalismo, Milano, Viola, 1954
L.Smeriglio, “Il globalismo” in La pedagogia, a cura di L.Volpicelli, Milano, Vallardi, 1970
S. Mandolfo, Compendio di pedagogia speciale, CUECM, Catania ,1989
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LA RICERCA
COME ORGANIZZARE UN PERCORSO DI RICERCA?
Ogni indagine ricognitiva o ricerca, di qualsiasi tipo essa sia, pura o applicata ha
dei presupposti logico-epistemologici. Per essere efficace, essa deve seguire un
determinato svolgimento, secondo uno schema di riferimento che indica le varie fasi da
seguire, interconnesse tra di loro.
Le fasi essenziali:
definire
• L’ambito di ricerca, in maniera puntuale, sulla base di un’ipotesi formulata
• Le finalità e gli obiettivi in maniera articolata
• Il rispetto dei tempi
• Le metodologie e le procedure.
Selezionare
• Il materiale inerente all’ambito di indagine
Confrontare
• L’ipotesi di partenza con le conclusioni raggiunte
Verificare
• I risultati conseguiti
• La capacità di comunicare in linguaggi diversi i risultati, le tappe del
percorso effettuato
• La capacità di trasferire in ambiti diversi le conoscenze e le abilità acquisite
METODI E FORME DELLA RICERCA
Il dizionario specializzato di Horace B.English e di C.English dà la seguente
definizione della ricerca: “tentativo sistematico, dettagliato e relativamente
prolungato di scoprire o confermare i fatti riguardanti un certo problema o certi
problemi e le leggi o i principi che li governano”.
La ricerca quindi, potrà condurre a confermare dei fatti, che si ritiene esistano,
oppure a scoprire o rilevare fatti inosservati fino a quel momento e a stabilire delle
relazioni fra questi fatti. Così le constatazioni o i risultati dei lavori di ricerca
possono confermare, modificare o allargare il campo delle conoscenze su di un
problema.
La ricerca incide sull’attività didattica, nel senso che maggiore è il tempo dedicato
alla ricerca, maggiore potrà essere la qualità dell’insegnamento impartito. Come
scienza, del resto, la didattica è in continua costruzione tramite la ricerca. In generale
la ricerca sperimentale procede secondo un percorso già definito nel 1938 da J. Dewey
in “Logica, teoria dell’indagine” che parte con l’incontro di una situazione
problematica, procede poi attraverso le fasi di definizione del problema,
immaginazione della possibile soluzione, formulazione delle ipotesi di ricerca,
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approdando allo sviluppo dell’intervento (esperimento) e alla conseguente validazione
o invalidazione delle ipotesi. A questa procedura si possono aggiungere vari
approfondimenti: come nella fase di definizione del problema con B. Vertecchi che si
è occupato della costruzione di un sistema di variabili (assegnate, indipendenti e
dipendenti) per determinare il rigoroso controllo dell’esperimento medesimo; o con
M. Corda Costa che ha lavorato alla specificazione dello sviluppo dell’intervento,
dopo l’identificazione delle ipotesi, con l’organizzazione di una situazione
sperimentale tale da mantenere costanti tutte le diverse variabili, eccettuata quella non
dipendente che va, invece, adeguatamente manipolata per osservarne gli effetti sulla
dipendente (alla presenza di più variabili attive la costruzione dell’esperimento
sostanzialmente non cambia, ma si dovrà realizzare l’analisi della covarianza in fase
d’elaborazione dei dati).
Il termine di ricerca abbraccia una grande varietà di significati. Si va dal livello
didattico, cioè da una particolare organizzazione dei processi di apprendimento a
scuola, al lavoro degli scienziati nei vari campi, dall’attività dei progettisti e dei
tecnici a quella dei consulenti di operatori economici e politici.
In tutti questi casi l’uso del termine è corretto, ma indica operazioni,
atteggiamenti, scopi molto diversi, per cui occorre di volta in volta precisare il valore
che esso assume.
Esistono due metodi di fare ricerca:
1)
Ricerca in senso tradizionale, cioé fatta a livello universitario
all’interno delle scienze matematiche, biologiche o altre e che non ha
come obiettivo un intervento sulla realtà. In questo tipo di ricerca la
neutralità è il requisito più importante, cioè lo studioso si accosta e
studia il fenomeno dall’esterno senza influire in alcun modo, possiamo
dire, quindi, che la ricerca nella sua origine nasce neutrale.
2)
Al metodo tradizionale si contrappone la ricerca sociale, che il
sociologo Gilli definisce come: “un’attività conoscitiva di analisi e di
riflessione, che si svolge nella pratica su un problema pratico e reale e
precede un determinato intervento nella realtà”.
Le differenze tra i due metodi sono: il principio di neutralità e la possibilità di
applicazione concreta nella realtà sociale.
I personaggi della ricerca. – in ogni ricerca c’è un soggetto – il ricercatore -, un
oggetto – gli individui, meglio il gruppo sociale su cui la ricerca viene fatta. – i
committenti – la persona o il gruppo che ha commissionato la ricerca e ne metterà in
pratica i risultati: non esiste alcuna ricerca in cui non siano presenti queste figure e se
non si individuano esattamente per ogni situazione concreta di ricerca queste tre
figure, la ricerca è destinata a fallire.
Il soggetto è colui che essendo in possesso di determinate conoscenze e tecniche,
riceve l’incarico o si assume il compito di svolgere una determinata indagine.
Il committente è colui - persona o gruppo – che per prendere determinate
decisioni ha bisogno di informazioni sull’oggetto stesso e affida tale funzione al
ricercatore.
L’oggetto sono gli individui o il gruppo sociale su cui la ricerca viene fatta.
Le forme della ricerca, secondo De Bartolomeis sono:
22
1) Ricerca scientifica:
a) Storica
b) Descrittiva
c) Sperimentale
2) Ricerca tecnologica.
3) Ricerca come programmazione e realizzazione di interventi.
4) Ricerca filosofica.
5) Ricerca artistica.
La ricerca storica ha come oggetto ciò che è già accaduto, perciò essa è possibile
solo quando l’accaduto (il passato) abbia lasciato indizi e documenti di varia natura.
Compito dello storico è quello di ricostruire sulla base degli elementi a sua
disposizione.
Nell’ambito di questo tipo di ricerca, un primo problema da affrontare è quello
delle fonti, cioè quali strumenti si hanno a disposizione per poter fare una
ricostruzione. Armi, utensili, edifici, dipinti, monete ed altri oggetti oppure le
testimonianze orali e scritte di partecipanti ad un evento, possono fornire una chiara
testimonianza riguardo al passato, per cui questa tipologia di elementi viene definita
come fonte primaria.
Le fonti secondarie sono, invece, le relazioni di una persona che riferisce la
testimonianza di chi ha realmente partecipato all’evento. Di solito le fonti secondarie
sono di limitato valore, a causa degli errori che si generano quando una informazione
passa da una persona ad un’altra.
Quando si hanno a disposizione, dopo un lavoro di reperimento, dati di diversa
origine e natura, essi non vanno presi come validi e significativi, ma occorre
sottoporli ad una duplice analisi critica.
La critica esterna è volta a stabilire l’autenticità o la genuinità dei dati, mentre la
critica interna stabilisce l’accuratezza e il valore di questi dati. Solo se i documenti in
questione resistono alla prima critica, possono essere sottoposti alla successiva.
La ricerca descrittiva può essere definita come: interpretazione di eventi,
situazioni, atteggiamenti, opinioni, tendenze, sviluppi attraverso un pertinente e
controllato rilievo di dati direttamente presenti al ricercatore o ricavabili mediante
l’analisi di una documentazione statistica.
Il ricercatore non interviene, cioé non manipola o predispone variabili, ma lavora
su quello che trova e a cui si interessa in rapporto ai problemi che intende risolvere:
l’oggetto della ricerca descrittiva, lo studio di relazioni attraverso procedure che
giustificano le sue differenze dalla ricerca più propriamente sperimentale.
Si possono avere due tipi di relazioni: causale e stocastica. Si può parlare di
relazioni causali a proposito di ricerche descrittive, quando si analizzano fattori per
stabilire se tra essi c’è o no una relazione, nel senso che un fattore o un gruppo di
fattori è entrato nella determinazione di un certo evento.
Il termine relazione stocastica, sta ad indicare l’esistenza di una relazione a cui
però va attribuito un significato probabilistico, in quanto dati certi fattori non
dobbiamo aspettarci che in ogni caso ad essi se ne associno altri.
23
Naturalmente è significativa la frequenza di tale associazione per la previsione che
si può trarre.
La ricerca sperimentale vuole stabilire mediante un esperimento, se esiste o no un
rapporto, e quanto diretto esso sia, tra due ordini di fenomeni in condizioni di
controllo che sia il più rigoroso possibile, tenuto conto delle circostanze di fatto in
cui opera il ricercatore, degli strumenti di cui dispone e della natura del problema in
questione. Cioè il ricercatore deve fare il meglio che può riguardo al livello
tecnologico raggiunto dai sistemi di misurazione.
Il primo ordine di fenomeni è costituito dalle variabili indipendenti, che sono
chiamate così, perché esse nell’apprestamento sperimentale non subiscono influenze
per effetto di altre variabili.
Il secondo ordine è costituito dalle variabili dipendenti, cioé dalle modificazioni
osservabili e misurabili di comportamenti, fenomeni, eventi, situazioni che possono
conseguire alle variazioni delle variabili indipendenti.
Quando tali modificazioni si realizzano, si può descrivere la corrispondenza tra le
variazioni dei due ordini di variabili come un rapporto causale o di vario grado
probabilistico. Praticamente nella ricerca sperimentale le variabili indipendenti sono
quelle che vengono predisposte o manipolate intenzionalmente, per vedere quali
effetti connessi ad esse si producono, e quale è la dimensione di questi effetti.
In termini più formali, vengono manipolate certe variabili indipendenti e si
osserva l’effetto sopra una variabile dipendente.
Nella ricerca tecnologica, non si tratta solo di far ricorso semplicemente a
strumenti tecnologici, come ausili, ma di avere in vista l’oggetto tecnico come
prodotto, cioé come scopo specifico della ricerca. Per cui si può dire che si tratta
sempre di ricerca, perché occorre individuare bene il problema, fare ipotesi, scegliere
o produrre mezzi adatti, elaborare un piano di lavoro, procedere a prove e a verifiche.
La ricerca operativa, invece, in generale, può essere definita come uno studio per
individuare, reperire, organizzare ed applicare i mezzi e i materiali che consentano di
ottenere i migliori risultati in un determinato campo.
La ricerca operativa considera il campo di applicazione nel suo insieme, cioé
come un sistema di metodi, di materiali, di mezzi e di processi interagenti.
La caratteristica dominante di questo tipo di ricerca è l’approccio sistematico e
pianificato ai problemi, che si intendono studiare.
Ricerca filosofica ed artistica. Dal piano metodologico della ricerca non restano
esclusi settori essenziali, sia dell’inventività, sia del lavoro scolastico, quali la
filosofia, la poesia, la letteratura, le arti ed altre. Esiste, infatti, una metodologia
nell’affrontare problemi di natura filosofica: possono essere affrontati mediante
ricerca sistematica, ed esiste pure una metodologia per l’uso di valori estetici e per la
loro produzione.
24
Il processo di ricerca consiste in due procedimenti strettamente legati, che si
influenzano costantemente nello stadio della definizione del tema della ricerca e
nello stadio d’esecuzione.
Questi due procedimenti sono: uno teorico e l’altro pratico. Partendo da un
problema che merita di essere studiato, si enuncia il tema della ricerca e se ne sceglie
il campo, si riflette su questo problema, si fanno delle osservazioni e si forma un
concetto. Al medesimo tempo, ci si occupa dei dati concreti ed osservabili, necessari
sia per il lavoro di ricerca, che per i metodi di osservazione. I due procedimenti sono
strettamente correlati, ma l’uno non precede necessariamente l’altro.
Lo schema orientativo della ricerca è una definizione concettuale, strutturale del
metodo e serve a dare un’idea di insieme fissando una successione razionale di fasi.
Lo schema proposto è del De Bartolomeis, nel quale, le fasi della ricerca sono
poste in termini sequenziali per introdurre un metodo con caratteri di intenzionalità e
sistematicità:
1) Determinazione dell’argomento o del compito, cioé indicazione generale
del settore di ricerca in termini di conoscenze, di oggetti tecnici, situazioni
che richiedono interventi.
2) Individuazione e selezione del problema o dei problemi particolari da fare
oggetto di ricerca.
3) Scopi della ricerca. La soluzione dei problemi può mirare a nuove
conoscenze o interpretazioni di fenomeni, eventi, comportamenti o alla
progettazione e alla produzione di oggetti tecnici o a interventi.
4) Esame critico degli studi e delle realizzazioni precedenti nel campo in
questione.
5) Formulazione di ipotesi riguardanti la spiegazione di fenomeni, eventi,
comportamenti o la caratterizzazione degli oggetti tecnici da produrre e
degli interventi da effettuare.
6) Programma di lavoro.
7) Progettazione dettagliata come scelta metodologica.
8) Costruzione e messa a punto o studio critico degli strumenti di ricerca.
9) Raccolta dei dati, produzione sperimentale di oggetti tecnici, prova del
progetto di intervento con gli strumenti precedentemente apprestati e
secondo prestabilite modalità.
10) Tabulazione, analisi, elaborazione, interpretazione dei dati, valutazione di
procedimenti, di prodotti, di interventi.
11) Fissazione dei risultati in maniera che siano chiaramente comunicabili e
rappresentino una spiegazione o una documentazione attendibile nei limiti
dell’oggetto della ricerca e dei procedimenti adoperati.
12) Nel caso di ricerche non specificamente volte all’applicazione e
all’intervento, eventuale valutazione dei risultati, in vista di possibili
applicazioni e interventi.
RICERCA QUANTITATIVA E RICERCA QUALITATIVA
Nei due approcci è fondamentalmente diverso il rapporto instaurato tra teoria e ricerca.
25
Nel caso della ricerca quantitativa neopositivista, il rapporto è strutturato in fasi
logicamente sequenziali, secondo un’impostazione sostanzialmente deduttiva (la teoria
precede l’osservazione), che si muove nel contesto della giustificazione, cioè di
sostegno, tramite i dati empirici, della teoria precedentemente formulata sulla base della
letteratura.
Nel caso della ricerca qualitativa interpretativista, elaborazione teorica e ricerca
empirica procedono intrecciate, in quanto il ricercatore vede nella formulazione iniziale
di una teoria un possibile condizionamento che potrebbe inibirgli la capacità di
comprendere il soggetto studiato. In questo modo la letteratura ha una minore
importanza.
Anche i concetti sono usati in modo diverso dai due approcci. I concetti sono gli
elementi costitutivi della teoria, e tramite la loro operativizzazione (trasformazione in
variabili empiricamente osservabili) permettono alla teoria di essere sottoposta a
controllo empirico.
Nell’approccio neopositivista la chiarificazione dei concetti e la loro
operativizzazione in variabili avvengono prima ancora di iniziare la ricerca. Questo
metodo, se da un lato offre il vantaggio di poter rilevare empiricamente il concetto,
dall’altro comporta anche lo svantaggio di una forte riduzione e impoverimento del
concetto stesso, con il rischio ulteriore che la variabile sostituisca il concetto
(reificazione). Un ricercatore qualitativo avrebbe invece utilizzato il concetto come
orientativo (sensitizing concept), che predispone alla percezione, ancora da definire non
solo in termini operativi, ma anche teorici, nel corso della ricerca stessa. I concetti
diventano quindi una guida di avvicinamento alla realtà empirica, non riduzioni della
realtà stessa in variabili astratte.
Per quanto riguarda il rapporto generale con l’ambiente studiato, l’approccio
neopositivista non ritiene che la reattività del soggetto possa rappresentare un ostacolo
di base, e crede che un certo grado di manipolazione controllata sia ammissibile.
Viceversa la ricerca qualitativa si basa sull’approccio naturalistico, vale a dire che il
ricercatore non manipola in alcun modo la realtà in esame. I due modi di fare ricerca
trovano illustrazioni tipiche e opposte nelle tecniche dell’esperimento e
dell’osservazione partecipante.
Se passiamo alla specifica interazione psicologica con i singoli soggetti studiati, il
ricercatore quantitativo assume un punto di vista esterno al soggetto studiato, in modo
neutro e distaccato; inoltre studia solo ciò che egli ritiene importante. Il ricercatore
qualitativo invece si immerge il più completamente possibile nella realtà del soggetto e
quindi tende a sviluppare con i soggetti una relazione di immedesimazione empatica.
Ma in questo modo sorge prepotentemente il problema dell’oggettività della ricerca.
Anche l’interazione fisica con i singoli soggetti studiati è differente per i due
approcci. La ricerca quantitativa spesso non prevede alcun contatto fisico tra studioso e
studiato, mentre nella ricerca qualitativa il contatto fisico è una precondizione
essenziale per la comprensione.
Il soggetto studiato quindi risulta passivo nella ricerca quantitativa, mentre ha un
ruolo attivo nella ricerca qualitativa.
Rilevazione (disegno della ricerca)
26
Nella ricerca quantitativa il disegno della ricerca (decisioni operative che
sovrintendono all’organizzazione pratica della ricerca) è costruito a tavolino prima
dell’inizio della rilevazione ed è rigidamente strutturato e chiuso. Nella ricerca
qualitativa invece è destrutturato, aperto, idoneo a captare l’imprevisto, modellato nel
corso della rilevazione. Da queste diverse impostazioni deriva la diversa concezione
della rappresentatività dei soggetti studiati.
Nella ricerca quantitativa il ricercatore è più preoccupato della rappresentatività
del pezzo di società che sta studiando piuttosto che della sua capacità di comprendere,
mentre l’opposto vale per la ricerca qualitativa, alla quale non interessa la rilevanza
statistica bensì l’importanza che il singolo caso sembra esprimere.
Anche lo strumento di rilevazione è differente per i due tipi di ricerche. Nella
ricerca quantitativa esso è uniforme o uniformante per garantire la validità statistica,
mentre nella ricerca qualitativa le informazioni sono approfondite a livelli diversi a
seconda della convenienza del momento.
Allo stesso modo, anche la natura dei dati è diversa.
Nella ricerca quantitativa essi sono oggettivi e standardizzati (hard), mentre la
ricerca qualitativa si preoccupa della loro ricchezza e profondità soggettive (soft).
Analisi dei dati
L’analisi dei dati è completamente differente per le due impostazioni della ricerca,
a partire dall’oggetto dell’analisi.
La ricerca quantitativa raccoglie le proprietà individuali di ogni soggetto che
sembrano rilevanti per lo scopo della ricerca (variabili) e si limita ad analizzare
statisticamente queste variabili.
Il soggetto non viene quindi più ricomposto nella sua unitarietà di persona.
L’obiettivo dell’analisi sarà spiegare la varianza delle variabili dipendenti, trovare cioè
le cause che provocano la variazione delle variabili dipendenti.
La ricerca qualitativa invece non frammenta i soggetti in variabili, ma li considera
nella loro interezza, sulla base del ragionamento che l’individuo è qualcosa in più della
somma delle sue parti. L’obiettivo è quindi quello di comprendere le persone,
interpretando il punto di vista dell’attore sociale.
Le tecniche matematiche e statistiche sono fondamentali per la ricerca
quantitativa, mentre sono considerate inutili e dannose nella ricerca qualitativa.
Risultati
I risultati dei due tipi di ricerca sono naturalmente diversi. Già nella presentazione
dei dati notiamo che la ricerca quantitativa si serve di tabelle, mentre quella qualitativa
di narrazioni.
Le tabelle hanno il pregio della chiarezza e della sinteticità, ma presentano il
difetto di presentare uno schema mentale proprio dei ricercatori che può non
corrispondere alle reali categorie mentali dei soggetti; inoltre impoveriscono
inevitabilmente la ricchezza delle affermazioni dei soggetti. Le narrazioni riescono ad
ovviare a questi difetti, perché riportano le parole degli intervistati e quindi si pongono
come una “fotografia” dei loro pensieri.
27
Per quanto riguarda la generalizzazioni dei dati, la ricerca quantitativa si pone
l’obiettivo di enunciare rapporti causali tra le variabili che possano spiegare i risultati
ottenuti. La ricerca qualitativa, invece, cerca di individuare tipi ideali (nel senso
weberiano), cioè categorie concettuali che non esistono nella realtà, ma che liberano i
casi reali dai dettagli e dagli accidenti della realtà per estrarne le caratteristiche
essenziali ad un livello superiore di astrazione; lo scopo dei tipi ideali è quello di essere
utilizzati come modelli con i quali illuminare e interpretare la realtà stessa.
La ricerca qualitativa non si preoccupa di spiegare i meccanismi causali che
stanno alla base dei fenomeni sociali, cerca invece di descriverne le differenze
interpretandole alla luce dei tipi ideali. All’opposto, il fine ultimo della ricerca
quantitativa è proprio quello di individuare il meccanismo causale.
Un’ultima questione è quella della portata dei risultati. A questo proposito
notiamo che la profondità dell’analisi e l’ampiezza della ricerca sono inversamente
correlate, vale a dire che ad un maggior numero di casi esaminati corrisponde un
minore approfondimento dei singoli casi. Data la maggiore quantità di casi
necessariamente esaminati dalla ricerca quantitativa, risulta indubbiamente una
maggiore generalizzabilità dei risultati rispetto a quelli della ricerca qualitativa.
STRUMENTI DELLA RICERCA
Le principali fonti documentarie della ricerca qualitativa sono:
l’osservazione partecipante come strumento di rilevazione del dato sociale, e
mezzo per la completa immersione nel segmento di società studiata.
L’intervista qualitativa: si pone l’obiettivo di rilevare i dati interrogando le
persone e cercando di vedere il mondo descritto attraverso gli occhi dell’intervistato.
I documenti che producono gli uomini e le istituzioni: si intendono i materiali
informativi su un dato fenomeno sociale, che esistono indipendentemente dall’azione
del ricercatore.
Fra le diverse tecniche approntate ed impiegate nella ricerca sociale qualitativa si
segnalano:
storie di vita, ossia il racconto autobiografico centrato sui vissuti personali.
Diverse possono essere le modalità di raccogliere le autobiografie, di utilizzare ed
interpretare tali testimonianze.
Storie orali. In questo caso il ricorso a testimoni è motivato più dall’intenzione di
raccogliere informazioni sulla società attraversata dal soggetto, che da quella di rilevare
il suo vissuto personale.
L’approccio quantitativo alla ricerca sociale è assai più formalizzato di quello
qualitativo rispetto alla procedura di rilevazione ed analisi dei dati, alla sequenza dei
passi da compiere nell’itinerario della ricerca. Infatti le fonti più diffuse ed utilizzate
nella ricerca quantitativa sono:
inchiesta campionaria, ossia raccolta di informazioni mediante interrogazioni.
La tecnica delle scale, ossia l’insieme delle procedure messe a punto dalla ricerca
sociale per misurare l’uomo e la società.
Fonti statistiche ufficiali, ossia una fonte ineguagliabile di conoscenza sociale
nonché materiale empirico della ricerca sociale.
28
La ricerca sanitaria. – L’obiettivo della ricerca sanitaria è di rafforzare ed allargare le
conoscenze attuali riguardanti l’assistenza, al fine di contribuire al miglioramento delle
prestazioni. Essa inizia quando si vuole passare da un’assistenza semplice, basata su
tecniche e su procedure normali, ad un’assistenza complessa, basata sulla capacità di
prendere delle decisioni ponderate, partendo dalle informazioni possedute, dalle
conoscenze del proprio lavoro e la capacità di un giudizio autonomo che presuppone
doti di creatività e di iniziativa.
Oggetto di studio della ricerca sanitaria sono i problemi relativi alle varie
professionalità, mentre nella ricerca sull’assistenza, oggetto di studio sono le attività
di assistenza diretta nei diversi settori in cui si esplica.
Il ricercatore qualificato è colui che, in possesso di un dottorato, e dopo aver
seguito un corso specifico, dirige e supervisiona la ricerca, dando istruzioni a coloro,
per esempio, che raccolgono dati, ed è responsabile dell’elaborazione statistica dei
dati e dei risultati illustrati definitivamente per iscritto.
E’ evidente che questo gruppo rappresenta una minoranza.
Un secondo gruppo è composto da operatori sanitari che vivendo la realtà
operativa hanno la capacità di riconoscere alcuni problemi che meritano di divenire
oggetto di ricerca: gli operatori di questo gruppo hanno una specifica preparazione e
assistono i ricercatori nella realizzazione degli studi, come osservatori o
intervistatori.
Il gruppo dei “consumatori” della ricerca è composto da tutti i professionisti che
operano, perché sono coloro che possono applicare i risultati delle ricerche nella
pratica quotidiana.
I metodi di raccolta-dati più usati sono: l’osservazione, l’intervista, il questionario,
il test.
Il questionario, in particolare, è uno strumento metodologico di misurazione e
analisi, costruito sulla base dell’ipotesi di ricerca e consente di raccogliere le
informazioni sulle variabili qualitative e quantitative oggetto di indagine.
Bibliografia
F.L. Carroll, Linee guida per le biblioteche scolastiche, Traduzione italiana a cura dell’AIB
Commissione Nazionale Biblioteche scolastiche. Roma, Associazione italiana biblioteche, 1995
Casolo P.–Miani A.–Vetere C., 1991 L’infermiere professionale, Società editrice Universo, Roma
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INTEGRAZIONE E PEDAGOGIA SPECIALE
Premessa.
E' necessario partire dalla stima dello studio del bisogno: dal momento che esiste
il bisogno, si dovrà trovare una risposta. La prospettiva della integrazione parte da una
forte spinta egualitaria, ma questo non può portarci a dire che tutti hanno bisogno solo
di una educazione generalizzata.
L'educazione deve rispondere alle differenze, non più come omogenea e
rispondente a strutture separate, ma capace di integrarsi nelle Pedagogia di tutti, cioè
nella pedagogia generale, senza perdere le proprie specificità: dare risposte ai bisogni,
proprio là dove si trovano e non raggruppati in categorie separate.
La pedagogia speciale va ricercata in modo diverso tenendo però presente la
prospettiva della integrazione, dovrà inoltre, affrontare le differenze che derivano dalle
disabilità e dai deficit, a cui è possibile aggiungere altre differenze (di genere, di
cultura, di provenienza,….) che non sono però da confondere tra loro e tanto meno da
identificare.
La pedagogia speciale comunque non vuole rinunciare a dare risposte speciali,
però non in contesti separati.
Questo cammino dimostra che anche la Pedagogia speciale entra nel contesto
delle scienze e che è relativa ad un particolare contesto e ad un determinato tempo. Non
vuole essere una scienza stabilita una volta per tutte, ma come scienza di ricerca.
Inevitabilmente, e necessariamente ogni intervento speciale e ogni intervento
generale si intersecano costantemente.
Lo studio non può essere ridotto all'esperienza di un unico paese, ma allargato a
dimensioni più vaste, come è ormai la dimensione di ogni scienza o esperienza degna di
questo nome: la dimensione del nostro paese è ormai il mondo intero. (Le classi
differenziali e le scuole speciali in Italia, in auge alcuni decenni fa, hanno creato nel
nostro paese una cultura particole dell'handicap precisa e particolare).
La diversità alla quale guarda la pedagogia speciale è dunque quella
comprensibile su un piano genetico-funzionale, come risultante di processi mentali,
psicologici e/o comportamentali che, per la presenza di una condizione handicappante,
hanno avuto una loro strutturazione che si è allontanata dalla normalità, cioè si è
discostata dalle linee con le quali tali processi evolvono e si strutturano nel soggetto
considerato normo-dotato".
La pedagogia speciale non può dunque limitarsi a porre attenzione all’handicap
ufficialmente riconosciuto e “certificato”. Se questo è un atto dovuto, è pur vero che il
suo compito è più esteso e delicato. Senza invadere il campo della psicoterapia, il suo
compito sembra proprio quello di individuare le aree problematiche e le questioni che
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richiedono una interpretazione per mettere in atto un intervento speciale intendendo
con questo termine un intervento non comune in attesa di diventare comune, ricorrente,
e condiviso.
Sintesi.
Formazione integrale della persona.
Sia dell'operatore (insegnante, pedagogista, medico, psicologo….) sia dello scolaro, o
dell'utente in un rapporto di reciproca crescita.
Pedagogia della positività
Motivazioni e aspettative sia della persona in situazione di handicap che dell'operatore:
è necessario che la persona in situazione di handicap ha una sua dimensione globale e
aspetti molteplici e non ha solamente la dimensione dell'handicap con cui spesso è
invece identificato e che non è neppure la caratteristica principale.
Approccio sistemico.
Per una continuità di intervento è fondamentale la sostenibilità (un sistema) delle
operazioni, sia per conoscere l'evoluzione sia per un approccio di continuità: fare un
progetto, verificare i cambiamenti……..
Informazione e flessibilità.
Le informazioni non passano spesso, molte volte a causa della mancanza di
comunicazione tra gli operatori, ma anche per mancanza di flessibilità per
comportamenti rigidi, che non dovrebbero invece rimanere sempre uguali.
I compiti della Pedagogia Speciale nella realtà odierna
Come abbiamo già in parte annunciato un compito importante della pedagogia
speciale è quello di dare risposte specifiche a problemi particolari o, come dice
Montuschi, non comuni. Nella prospettiva dell’integrazione tali risposte hanno bisogno
di essere ampiamente ripensate e riformulate per poter essere maggiormente adatte alle
necessità del singolo in rapporto al contesto e allo sviluppo, quindi, della sua
interazione con il contesto. La specificità dei compiti attuali della pedagogia speciale
derivano dal fatto che proprio la Pedagogia dell’integrazione ha sempre più sottolineato
la multi causalità di una situazione di handicap. Affrontiamo in particolare la situazione
di handicap, ossia gli svantaggi, cerchiamo di ridurre gli handicap e dobbiamo renderci
conto che essi sono provocati non da una causa sola ma da più cause, e quindi esigono
più risposte. La multicausalità si collega con la multimodalità: diversi modi per
rispondere alle esigenze di un individuo.
31
La pedagogia speciale è uno degli elementi componenti di un intreccio ampio di
più aree disciplinari e l’apporto che può dare la Pedagogia Speciale è quello relativo
alla riformulazione e all’individuazione di risposte in un contesto integrato che
permetta la scomparsa dello strumento specifico. Questa forse è la peculiarità della
pedagogia speciale moderna: l’affrontare problemi non comuni e desiderare di fare
scomparire la “Specialità”; nello stesso tempo il volere, ed è questo il punto più
paradossale, mantenere la propria specificità. Probabilmente chi è molto lontano dalle
nostre tematiche può smettere di leggere, e forse siamo noi a non farci capire bene.
Potrebbe dire: ma questi cosa vogliono? E in effetti la Pedagogia Speciale vuole
esistere in quanto tale ma scomparire il più possibile nelle pratiche, riuscendo ad essere
una risposta competente nei contesti ordinari.
Se questo modo di porre il tema può sembrare solo una originalità paradossale, è
più semplice, però, rintracciarne la sua autenticità facendo riferimento alle necessità:
necessità di risposta a problemi di comunicazione che non sono riducibili alla buona
volontà. Esigono delle tecniche, esigono degli ausili, problemi di apprendimento, sia
formalizzato che informale, di comportamenti sociali, problemi che riguardano la sfera
dell’intimità, la sessualità, aspetti importanti che riguardano la differenza che può
esservi tra le conoscenze che si avevano quando molti soggetti vivevano in istituzione
chiusa e le nuove conoscenze che si devono raccogliere, negli stessi tipi di soggetti che
vivono una realtà aperta. Si pensi, ad esempio, alla Sindrome di Down. La Sindrome di
Down aveva delle caratteristiche molto legate al tipo di vita che veniva proposto, se si
può dire così, o imposto, come forse è più giusto dire, ai soggetti. Ad esempio (esempio
nell’esempio) l’invecchiamento: Qualche decennio fa non era neanche un problema
perché non esisteva, o esisteva talmente raramente da non costituire un elemento di
particolare studio e ricerca. Oggi, nel nostro mondo europeo, la presenza di persone
adulte Down che raggiungono i sessanta anni è una realtà… ed esige nuove ricerche.
Dove vanno fatte queste ricerche? Vanno fatte nella realtà di vita delle persone,
delle loro famiglie, nei luoghi di lavoro, protetto o non protetto, nei centri di
socializzazione, nelle strutture, quindi, della vita sociale che hanno molte caratteristiche
comuni a soggetti che non hanno la Sindrome di Down. Cambiano le esigenze di
ricerca, cambiano i profili dei problemi da affrontare, devono cambiare certamente
anche le risposte, ma non possono perdere quella specificità che deve essere peculiarità
della pedagogia speciale; non possono riprendere, però, la separatezza. Specificità non
equivale a separatezza. E’ per questo che riteniamo fondamentale ragionare sulle
competenze che la Pedagogia Speciale ha il dovere di avere. Come ogni compito
difficile, anche la pedagogia speciale può incontrare non pochi rischi.
IDENTITÀ, DIFFERENZA, DIVERSITÀ
Una Pedagogia della complessità, com'è senza altro definibile la Pedagogia
speciale, non può esimersi dal far riferimento ad un pensiero complesso, in grado di
non chiudere mai i concetti, di rompere gli schematismi, le simmetrie, di cogliere
possibili articolazioni fra elementi apparentemente disgiunti, di “comprendere la
multidimensionalità, di pensare con la singolarità, con la località, con la temporalità e
di non dimenticare mai le totalità integratrici”….
32
La pedagogia speciale, come pedagogia della complessità e della diversità
finalizzata alla “riduzione dell'handicap”, individua ed elabora prospettive modelli
conoscitivi che connotano e legittimano di senso il suo statuto epistemologico.
L'emergenza del bisogno educativo speciale richiede conoscenze in molteplici settori
del sapere, non escluse le pratiche legate alla quotidianità. …
L'attuale prospettiva epistemologica ha spostato l'attenzione dai procedimenti
della generalizzazione al campo delle teorie e dei modelli, ai dispositivi di
osservazione, alla esplicitazione di quadri metodologici che guidano la ricerca delle
variabili sottoposte ad osservazione, fino alla relazione esistente tra queste ed il
contesto in cui l'evento si realizza.
La complessità della pedagogia speciale scaturisce dal fatto che si tratta di una
scienza i cui contorni non sono definiti una volta per tutte, in quanto vengono
rielaborati nella incessante ricerca di possibili soluzioni, in cui la potenziata capacità di
interpretare le situazioni di deficit e di handicap rappresenta il principio basilare della
prospettiva dell'integrazione. Saper leggere le diversità significa infatti individuare le
possibilità e le risorse per ricondurle a comuni territori di appartenenza. La pedagogia
speciale si presenta come scienza di ricerca, per eccellenza scientifico-operativa, ove le
conoscenze acquistano senso il valore poiché il loro significato è connesso alla logica
dell'integrazione delle diversità. …
La pedagogia speciale si dimostra scienza che parte dall'analisi della finitezza
plurale dell'esistente, dal carattere originale, irripetibile dell'identità personale del
soggetto con “bisogni educativi speciali”, per rivalutare l'imprevisto fenomenico, inteso
come esperienza del limite ma, soprattutto, come ricchezza conoscitiva. … Si tratta,
quindi, di attivare processi di distinzione-differenziazione in teatri-sfondi interattivi,
capaci di riconoscere e di legittimare la pluralità e la diversità di esseri unici, “speciali”,
…Il raccontarsi, come capacità di accettare la propria identità nel confronto necessario
con gli altri, presuppone sempre e comunque un riconoscimento, una narrazione
elaborata in funzione di un destinatario, frutto di relazioni educative basate sulla
reciprocità e sull'assenso di accoglienza e di appartenenza, che aiutano il soggetto
“diverso” a cogliere il valore del suo “esserci nel mondo”.
La ricerca in pedagogia speciale ha bisogno di comprendere meglio i diversi,
effettivi comportamenti di ogni essere in formazione, nessuno escluso, in una
dimensione di riconoscimento reciproco a partire dal fatto che questa struttura non può
essere data una volta per tutte … ma che riemerge ogni volta come situazione
potenziale, modo di fare possibile in rapporto a una data situazione in un determinato
momento: quel momento in cui può divenire possibile un incontro.
Lo “specifico” epistemologico
Nell’incessante sforzo di pensare l'altro in termine di storie, la pedagogia speciale
assume all'interno delle scienze dell'educazione il provocatorio ruolo di “coscienza
anticipatrice ed orientante”, agendo sugli orizzonti della prossimità e della solidarietà,
come costante ed intenzionale capacità di far dialogare memoria e futuro del soggetto
“diverso”, al fine di riconoscerlo autentico protagonista del suo percorso di umana
autorealizzazione. … Il rispetto della complessità delle tematiche del deficit e
dell'handicap, prioritari oggetti di indagine della pedagogia speciale, esige la
33
conoscenza dei paradigmi interpretativi e dei molteplici modelli, secondo cui tali
diversità vengono percepite e recepite. … si tratta di adottare una pedagogia della
diversità promozionale di ricerca e di scoperta, rispettosa della complessità dei
problemi esistenti, in grado di attivare strategie di intervento educativo-didattico
realmente motivanti ogni educando, … capace di bandire ogni dogmatica, stagnante
paideia educativa, mediante l'utilizzazione di modelli di intervento che esaltano il
valore dell'autonomia personale, …
La pedagogia speciale apporta un essenziale contributo per il suo consolidato
metodo di ricerca-azione, di approccio positivo alla diversità mediante la fondamentale
esigenza di valorizzazione dei potenziali di ciascun soggetto. Il campo di indagine della
pedagogia speciale non si limita soltanto ad affrontare il problema del deficit
certificabile, che richiede interventi educativi e sociali del tutto particolari e
l'attivazione di metodologie e di tecniche incentrate, soprattutto, su approcci
rieducativo-riabilitativi, ma si allarga all'interpretazione delle esigenze formative per la
persona alle radici della sua esistenza ed alla elaborazione di qualificate risposte. La
diversità va interpretata come categoria storico-esistenziale valorizzante la vita di tutti
gli esseri umani.
La principale finalità della pedagogia speciale consiste nella “riduzione
dell’handicap”, ovvero nell'adeguata socializzazione del deficit e nella valorizzazione
del potenziale educativo, dipendenti dalla capacità dei micro e dei macro contesti
sociali di rispondere concretamente e significativamente alle esigenze partecipative del
soggetto con deficit. Il problema centrale resta, comunque, quello educativo ed il
compito specifico della nostra disciplina consiste nel rendere gli interventi educativi
sempre più speciali, senza, tuttavia, cadere in logiche psicologistiche o medicalistiche.
… Il rischio delle scienze recenti, operanti in situazioni-limite, speciali e quindi non
codificabili in modelli precostituiti, è rappresentato dalla chiusura delle conoscenze in
ambiti marginali o settoriali, autoreferenziali. La sfida, la provocazione della pedagogia
speciale avviene nella lettura dei limiti possibili della realtà e delle risorse esistenti, allo
scopo etico e storico-culturale di migliorare la qualità della vita del disabile, scoprendo
nuovi orizzonti di possibilità in grado di consentire il superamento della visione in
negativo della diversità.
Al confine per “trasgredire”
La pedagogia speciale è autentica disciplina di frontiera, di natura
interdisciplinare, ... permette di scoprire marginalità ed emergenze, di cogliere
articolazioni di significato altrimenti poco visibili o trascurate, ...
La funzione epistemologica della ragione critica [è] attenta non solo alle situazioni
limite, ma [è] in grado di leggere le possibilità della realtà conoscibile nell'intento di
scoprire e di attivare ogni azione capace di superare gli ostacoli posti dalla situazione
contingente.
Se la categoria della differenza viene indagata dall'educazione generale, le
diversità del deficit e dell'handicap rappresentano lo specifico oggetto di indagine della
pedagogia speciale. ... La cura educativa non è cura sanitaria, né terapia, ma si risolve
in un sistema in-fieri di regole comunicative, sociali, relazionali in grado di permettere
ad un soggetto di divenire ciò che può. Di formarsi, appunto. ...
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La pedagogia speciale come pedagogia del prendersi cura ... La cura è una
dimensione formativa insita nella pratica educativa ... Come relazione di aiuto
racchiude, spesso, rischiosi elementi di ambiguità ma è rivolta funzionalmente alla
progressiva emancipazione di ogni soggetto. L'attivazione di relazioni di aiuto
competenti, non compensative o addirittura invadenti, autenticamente valorizzanti il
potenziale umano, si fonda sulla capacità di collegare, nell'incontro educativo, individui
diversi, con la loro particolare storia, generando nuove trame di significato esistenziale,
in modo intenzionale e soprattutto, mantenendo viva la consapevolezza della
contestualità della richiesta d'aiuto o di cura. La ricerca-azione in pedagogia speciale
non è tanto sequenze, obiettivi, dispositivi tecnico-strumentali ma condizioni di
fattibilità realizzabili nella quotidianità dell'esperienza educativo didattica.
IL VALORE DELLA DIFFERENZA, IL LIMITE DELLA DIVERSITÀ
Il problema centrale messo in evidenza dalla discussione attorno ai temi
dell'interculturalità è quello della differenza. Il presupposto da cui partire per
comprenderne appieno gli aspetti è quello di offrire un'adeguata distinzione sulle
nozioni di “persona” e “individuo”. … Bisogna innanzitutto stabilire che l'essere
umano è sostanzialmente soggetto e sede vivente di valori i quali non possono venire
considerati strumentali, neppure per un altro essere umano. Proprio in ragione di ciò,
l'uomo è persona, vale a dire valore in sé e di per sé, portatore di valori, in qualsiasi età
e in qualsiasi stato psicofisico.
Il concetto di “persona” fa riferimento ad una realtà senza connotare tratti fisici o
corporei, mentre il termine “individuo” fa riferimento a specifiche caratteristiche
fisiche. Si può perciò dire che il concetto di persona è comprensivo del concetto di
individuo. Scrive a tal proposito Maritain: “L'uomo è sì un animale ed un individuo, ma
non come gli altri. L'uomo è un individuo che si guida da sé mediante l'intelligenza e la
volontà; esiste non soltanto fisicamente, c'è in lui un esistere più ricco ed elevato, una
sopraesistenza individuale nella conoscenza e nell'amore. E' così, in qualche modo, un
tutto e non soltanto una parte, un universo a sé, un microcosmo in cui il grande
universo può, tutt'intero, essere contenuto per mezzo della conoscenza; mediante
l'amore può darsi liberamente ad altri esseri che sono per lui come altri se stesso,
relazione questa di cui non è possibile trovare l'equivalente in tutto l'universo fisico”.
Etimologicamente “differenza” deriva da dis-ferre, che significa “portare da una parte
all'altra”, “portare oltre, in varie direzioni”, “portare qua e là”.
Proprio per la sua differenza, ogni persona deve poter realizzarsi ed espandersi in
tutta la sua originale pienezza, affermandosi come “differente” non solo dagli altri ma
anche da se stessa, dai propri limiti, dal proprio vissuto, dal proprio ambiente. Al fine di
non deteriorarsi nel conformismo e nella ripetizione, deve coltivare le proprie doti, fare
tesoro delle proprie esperienze, costruire rapporti interpersonali arricchenti, anche
impegnarsi perché l'umanità tutta possa differenziarsi dal suo modo di essere attuale.
Il concetto di “diversità” (da dis-vertere, cioè volgere in opposta direzione)
accentua quello di “differenza”. Esso richiama l'idea di dissomiglianza, di
discostamento da una norma, da ciò che è più comune, diffuso, condiviso e che, nella
sua accezione più negativa, può richiedere talora interventi compensatori.
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La diversità pertanto, ancor più della differenza, richiede riconoscimento e
rispetto, piuttosto che ambigue forme di aiuto e di sostegno, che più o meno
consapevolmente tendono all'assimilazione. …
Se riportiamo il discorso alla persona umana, definire “diverso” lo straniero,
l'handicappato, l'anormale, è ricorrere ad una categorizzazione generica per indicare
una particolare diversità etnica, culturale, fisica, facendo così torto alla sua natura unica
ed irrepetibile. …
All'interno dell'antropologia personalista cui facciamo riferimento, non possiamo
che esaltare la magnifica diversità dei simili. Ed il luogo in cui la similitudine
sorprende e si trascende nel diverso lo si trova nella magnificenza di ciò che chiamiamo
“anima”, “spirito”. Qui la differenza impera sulla ripetizione, qui il diverso sorprende e
specifica in singolarità irrepetibili. “Non c'è possibilità di scambiare la propria anima”,
scrisse a questo proposito Gilles Deleuze.
LA DIVERSITÀ È LA VERA OPPORTUNITÀ
Ogni evento umano è costruito sopra una linea ideale: quella del significato.
Pietro Giordano parlando della ricerca di significato dice che la persona “nel presente,
tende all’attuazione dei progetti individuali, calibrati secondo le attitudini personali, gli
interessi, le aspirazioni, le qualità del carattere, mediandoli con i compiti diversi e
apparentemente meno significativi che la vita ci propone nella quotidianità”.
Le opportunità, le “capabilities”, che esistono nella natura di ogni uomo,
diventano più forti, ampie e mature proprio se la persona si trova ad affrontare il
“limite”, la barriera. In questa prospettiva la diversità, la difficoltà, sono dei vantaggi e
la disabilità può essere vista in un’ottica rovesciata. E’ importante non guardare al
problema, non porre l’accento su ciò che risulta impossibile, ma accogliere il soggetto
così com’è.
Accoglienza e considerazione
Perché questo avvenga appare indispensabile che ognuno, venendo al mondo,
abbia qualcuno che si prenda cura di lui, con cui costruire relazioni privilegiate e che lo
aiuti nella scoperta dell’identità individuale.
La presenza di una realtà “diversa” può arricchire i quadri di riferimento e dare
sfumature particolari all’immaginario e al reale.
L’intelligenza rende possibile la costruzione di categorie e classificazioni, ma,
anche, il loro superamento; è uno sforzo che ognuno deve fare per giungere sempre più
a considerare la particolarità e l’unicità di ciascuna realtà umana e individuale.
Accoglienza significa anche considerare ogni individuo come persona che deve
essere salvaguardata nella dignità, che ha bisogni propri, primari e secondari, derivanti
dalla storia soggettiva; è necessario perciò tener conto del modo in cui ognuno vive il
tempo e lo spazio, perché queste sono le dimensioni essenziali in cui viene costruita la
relazione con sé, con l’ambiente, con gli altri.
Elaborazione e accettazione del “limite”
Certo, i limiti creano rifiuto, dolore, enorme frustrazione, grande fatica! Questo
sperimentano i genitori quando nasce un figlio disabile.
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Ciò vale, anche se in maniera diversa, quando un figlio sano cambia: non ha più le
capacità che aveva (a seguito di traumi, lesioni o malattie), ha nuovi limiti.
Non bisogna far finta di non vedere le oggettive limitazioni e i problemi del
disabile.
A questo si collega la necessità di una diagnosi approfondita e una buona
trasmissione di informazioni: è più facile aiutare il disabile, sia da parte dei genitori che
degli operatori, se c’è una corretta conoscenza dei limiti e delle potenzialità.
Sarebbe importante che non solo i parenti e i tecnici fossero informati delle
difficoltà e delle capacità del disabile ma che anche fossero date alla persona stessa
delle spiegazioni semplici, delicate, ma, nel medesimo tempo, realistiche, sulle sue
condizioni.
Importanza dell’esperienza
Uno dei diritti e dei bisogni che vanno riconosciuti al disabile è quello di poter
conoscere sempre più il mondo che lo circonda, di potersi sperimentare, per quanto
possibile, in nuove realtà.
Bisogna riconoscere alle persone disabili il diritto all’esperienza, a occasioni che
possono anche farle soffrire o renderle più consapevoli delle difficoltà. La realtà
contingente può essere molto difficile, ristretta e povera di stimoli, ma l’immaginare, il
fare piccoli progetti, il realizzare qualcosa che si è desiderato è sempre possibile e può
essere d’aiuto, può dare un senso diverso del tempo, creare gioia e allegria. E’
importante che il diversamente abile possa immaginarsi in una storia, in un tempo,
possa cercare il proprio ruolo; questo è l’unico modo corretto per farlo crescere, ma
deve essere l’altro a cominciare a sognare e progettare “su lui”.
Anche il diversamente abile ha il diritto di diventare adulto e di costruire la
propria storia.
Il diritto di relazionarsi
Un altro diritto è quello della relazione affettiva; è importante imparare a
distinguere tra il bisogno di affetto, di tenerezza, di riconoscimento e ciò che è, invece,
pura ricerca di soddisfazione sessuale.
E’ possibile che si creino tra i disabili delle alleanze particolari, relazioni di
amicizia e affettuosità; queste esperienze arricchiscono il mondo interiore delle persone
e vanno accolte e accettate, fanno crescere, gratificano, corrispondono a bisogni
importanti. Certo, nel campo delle relazioni affettive e sessuali, come in altri, è
necessario anche dare delle regole, fare in modo che la vita personale abbia una sua
armonia e non sia centrata solamente in una particolare forma di soddisfazione.
La sessualità è tuttavia un elemento fondamentale nella crescita e
nell’acquisizione dell’identità personale; non è possibile svilupparla senza poter
sperimentare sia i meccanismi dell’identificazione che quelli dell’opposizione.
Identificarsi e competere con il padre e la madre, cioè con le figure primarie di
riferimento del proprio e dell’altro sesso, è difficile proprio per il problema
dell’handicap, che porta a sé e all’altro dolore e crea un rapporto, a volte, molto
coinvolgente o, viceversa, lontano, magari assente. Così i disabili non imparano a
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“riconoscere” le modalità con cui possono competere, conquistare l’attenzione e cercar
piacere.
A questo si collega qualcosa di maggiormente intimo e personale: il bisogno di
rispetto, di salvaguardare i propri spazi: la privacy, il riconoscimento del pudore,
dell’intimità; quando un disabile ha bisogno costante dell’altro o è ritenuto sempre un
bambino, questi diritti essenziali, gli vengono frequentemente negati.
Il diritto di agire e proporsi
Un atteggiamento in cui il diversamente abile dovrebbe essere accettato e
riconosciuto come persona attiva è la sua possibilità di opporsi; esercitare questa
capacità lo può aiutare a sentirsi maggiormente sé stesso, a sviluppare la propria
identità, a far valere necessità, desideri e gusti.
Bisognerebbe comprendere che un valido modo per riconoscere l’identità
personale è accogliere e interpretare anche i comportamenti aggressivi e oppositivi.
Un altro bisogno importante, è quello di sviluppare il più possibile l’autonomia.
Tuttavia, per divenire autonomi è necessario conoscere realtà diverse sia riguardo al
mondo, sia riguardo a sé.
Il confronto, la consapevolezza, sono a volte faticosi, dolorosi. Ma il diversamente
abile ha diritto di sperimentarsi anche in situazioni non protette, rischiose, di provare a
sopportare attivamente la sofferenza.
Così imparerà ad affrontare gli ostacoli, a sopportare le frustrazioni, a sentirsi, a volte,
rifiutato.
Un’altra necessità che la nostra cultura riconosce poco alle persone diversamente
abili è quella di rivestire un ruolo attivo.
Molte volte, proprio perché sono messe al primo posto le difficoltà e non le
capacità, le azioni lavorative che il diversamente abile deve svolgere, e che sono state
scelte e imposte dagli altri, risultano sterili e ripetitive, non hanno un valore in sé, né
uno sbocco produttivo.
Bisognerebbe che al disabile fossero garantite alcune soluzioni perché i timori del
futuro, della solitudine, della necessità di aiuto (che aumenta con l’età), possano essere
neutralizzati; così sarebbe più facile immaginare e costruire un avvenire.
Il problema dell'integrazione.
La lettura dell'integrazione deriva dalla percezione che ognuno di noi possiede,
ed è opportuno leggere la situazione partendo dalla sofferenza di coloro che,
handicappati, vivono in una situazione di isolamento: la sofferenza di un handicappato
che si trova a confrontarsi nella scuola o in altri ambienti sociali con coloro che non lo
sono; la sofferenza di coloro che, non handicappati, vivono accanto ad un
handicappato.
Esistono molto rilevazioni su handicappati che soffrono in una situazione di
isolamento scolastico. Spesso però il problema è vissuto in maniera differente e
individuale secondo il modo in cui la scuola lo presenta e lo vive, cioè secondo la
cognizione cognitiva della scuola stessa, ma anche il modo in cui è presentato e viene
introdotto nella singola scuola.
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L'assistenzialismo dalla sua parte rischia di ridurre e anche di vanificare
l'esperienza a scuola della integrazione. Innanzitutto non si può parlare di integrazione
in senso generale, quasi fosse un dettato scientifico, o un problema filosofico, ma è da
tener in considerazione come il problema di quella bambina o di quel bambino
particolare, su cui prendere delle decisioni e assumere delle responsabilità.
Non può esistere la considerazione teorica di un problema del genere, ma come
noi siamo coinvolti direttamente o meno, e quale deve essere l'esperienza in cui
veniamo trasformati e determinati. L'esperienza personale e soggettiva entra a far parte
e in modo determinante della realtà.
Sono quindi da valutare attentamente sia l'eccesso di zelo protezionistico sia la
collocazione di abbandono in una situazione ordinaria.
Gravi e gravissimi per chi l’integrazione?
La chiave di lettura pedagogica insegna che la situazione di gravità è un concetto
sistemico, dipendente dall’intersezione di una molteplicità di fattori personali,
relazionali e contestuali, quindi non unicamente insediata nel soggetto: è certamente
riferibile all’entità della compromissione, all’età, alla capacità comunicativa da parte
del soggetto disabile, al grado di motivazione all’apprendere (…); ma anche alla
qualità e alla quantità, al grado di integrazione dei sostegni personali, familiari e sociali
e dei servizi messi a disposizione dall’ambiente, nonché alle aspettative di
quest’ultimo.
Integrazione (e integralismo).
E' necessario arrivare ad una apertura positiva verso ogni evento, verso ogni
situazione,anche verso quello che noi chiamiamo integralismo educativo, riabilitativo e
questo ci aiuta a ridimensionare la percezione che noi abbiamo dell'handicap.
Integralismo significa pretesa di unità in tutto ciò che si presenta invece
dissociato in ambiti differenti. Sono strutture integraliste quelle che vengono sotto il
nome di istituzioni totali (v. Caserme, ospedali, scuole, manicomi,….) perché sono
riservate ad alcune categorie e non possono entrare altre persone se non le "addette ai
lavori".
Razzismo è la volontà di percepire una razza o un aspetto di una razza come
fondamentale superiorità rispetto ad un'altra.
Fondamentalismo: tutti hanno bisogno di fondamenta, ma diviene negativo se si
pretende fare di un fondamento la base portante per tutti.
E' necessario uscire fuori da ogni aspetto integralista o fondamentalista. Per
esempio è inaccettabile la universalizzazione della ragione utilitaristica individuale ed è
una delle difficoltà per la integrazione in ambiente comune delle persone in situazione
di handicap.
L'eliminazione o la diminuzione del valore culturale dell'integrazione significa
aumento quasi inevitabile dell'handicap, mentre la riduzione dell'handicap significa
dare un grande apporto ad una cultura che deve avere fondamenti simbolici importanti:
è necessario mantenere la carica etica di una scelta che va al di là dell'operazione
tecnica sulle teorie del deficit.
Ridurre l'handicap significa permettere un' organizzazione flessibile dei sostegni,
che permettono una pluralità di riferimenti e di aiuti. Tutta la società dovrà essere
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coinvolta perché possa essere prevista una pluralità di sostegni con vari moduli. La
modulazione dei sostegni è necessaria per permettere alla persona in situazione di
handicap la necessaria continua evoluzione, con un conseguente cambio di sostegni
secondo le origini i tempi e gli spazi attraverso i quali la persona in difficoltà si
trasforma.
Le risposte totali o totalizzanti infatti sono sempre pericolose perché non
interessano tutti, ma solamente un numero limitato, e rischiano di chiudere ogni
possibilità di intervento ulteriore. In genere nelle istituzioni totalizzanti la risposta è
sempre monolitica, mentre la realtà è sempre molto articolata, e quindi le risposte
flessibili maggiormente aderente alla alle esigenze di una vita che è evoluzione.
Ridurre l'handicap è quindi possibile anche mettendo in atto una continua ricerca
delle risposte e scegliendo sostegni che siano rispettosi della pluralità. Per questo
riteniamo sia più giusto non tanto parlare di sostegno all'handicap, ma di sostegni al
plurale, o meglio di una pluralità di sostegni modulabili. Gli aiuti non vanno decisi una
volta per tutti, ma vanno articolati secondo le epoche, le stagioni dell'esistenza, anche
perché l'handicap è composto di vari fattori, non riconducibili tutti ad un' unità.
Si può parlare di sostegno di accompagnamento, che possa essere dare un aiuto
per affrontare una difficoltà insieme ad altri, ed è giusto limitare l'aiuto al momento
della autonomia dell'altro.
Si può parlare di sostegno di contro risposta per dare la possibilità di raggiungere
un oggetto posto fuori della portata fisica della persona in situazione di handicap.
Questa risposta può essere attuata con sostegni umani o con sostegni ausiliari
(strumenti).
Sostegno di mano anonima: la situazione occasionale di una persona che si trova
"per caso" a prestare aiuto ad una persona in difficoltà. A volte può essere
particolarmente difficile perché la non conoscenza crea diffidenza.
Reciprocità.
E' forse la proposta più difficile e si può cadere facilmente nell'artificiosità: dare
un aiuto in modo tale da poterlo anche ricevere. E' questa una indicazione educativa
importante non solo in vista di una crescita, ma anche per una educazione permanente
sia dell'insegnante che degli allievi.
Sostegno di confine.
Si intende la possibilità di creare un rapporto attraverso la molteplicità di
strumenti e di persone, però avendone uno privilegiato a cui ricorrere nei momenti di
particolare difficoltà. Può apparire un rapporto ambiguo perché spesso non si
comprende quali siano i limiti entro i quali è necessario rimanere, forse sarebbe
necessario pensare ad un limite a cui fare ritorno dopo essersi allontanati.
Sostegno di sfondo.
C'è la necessità di una struttura di riferimento per la connessione ad una pluralità
di azioni: la realtà comprende sia elementi materiali che culturali e simbolici.
Sarà necessario chiedersi:
Quale sostegno a livello professionale si ritiene necessario per il nostro intervento
di operatori? Quale intervento a livello personale? Quale sfondo sarebbe necessario per
la vita di una persona in situazione di handicap? E di quella situazione particolare di
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handicap? E di quella persona in particolare? Quale sostegno per la vita di un gruppo, o
di una classe di scuola?
Quali sono gli oggetti che fanno da sfondo integrativo? (Il bosco, il fiume, gli
animali, la strada, il traffico, il parco, il giardino, l'appartamento……)
Ogni oggetto può avere differenti consistenze simboliche, proiettive, evocative.
Altri invece preferiscono prendere come sostegno di fondo la istituzione:
come spazio di incontro, come funzione protettiva, come funzione di maternage, come
funzione di spazio potenziale o di transizione…….Comunque ogni aiuto dovrà essere
una risposta ai bisogni, ed essere consapevoli che solamente la pluralità dei sostegni
può ridurre l'handicap.
Educarsi nel rapporto con l'alterità.
Chi è l'altro, e qual' è stato il nostro rapporto con l'altro, chiunque e qualunque
cosa sia.
L'altro come storia, quando nel confronto non ci viene restituita l'immagine
speculare che abbiamo di noi stessi: le nostre categorie, le nostre certezze, che
sarebbero poi le nostre affezioni, le nostre idee e i nostri modelli. L'altro abita dentro di
noi, l'altro ci obbliga a verificare i valori con cui ci confrontiamo, ci fa scoprire i
desideri senza volto che abbiamo nel nostro intimo, la voce della speranza e dei nostri
ricordi lontani, e sono tutte componenti di una storia diversa rispetto a quella che ci
appartiene.
L'altro come irruzione o invasione, quando non è possibile sottrarsi ad una
presenza da cui non è possibile sfuggire senza conservare la traccia della presenza o
della diserzione. Non potersi sottrarre alla responsabilità è mancanza di libertà.
Il collasso educativo. La famiglia no è più punto di riferimento, ma lo sono divenuti
i bar, i mass media, il gruppo di amici, il supermercato, o il campo di calcio, che sono
ormai i luoghi dell'aggregazione. La scuola non è più luogo di aggregazione, a cui
riferirsi per avere aiuto o comprensione (v. gioco della relazione dove erano stati messi
come punto di riferimento la famiglia, il luogo di lavoro, il luogo di divertimento, e la
scuola. Ma alla scuola quasi nessuno si è rivolto per qualche problema). Il collasso
educativo lo si individua in ciò che si chiama deprivazione esperienziale, cioè "quando
l'individuo non è più radicato in una tradizione o in una esperienza viva. L'individuo
esperimenta la frattura della continuità del sapere sapienziale" .
Identità e stereotipia.
Idem, cioè sempre uguale a se stesso
Στερεο, cioè duro, solido, fisso
Τυποσ, cioè immagine, segno.
Identità plurale (o flessibile). Composizione di elementi mai rigidi e sempre
aperti a riceverne altri, e a trasformare gli esistenti. E' ben diverso trattare la sindrome
di Down e occuparsi invece di singole persone che sono colpite dall sindrome di Down:
non tutte le persone cha hanno questa sindrome hanno le stesse caratteristiche, e le
caratteristiche specifiche possono essere ridimensionate con l'aiuto, o la semplice
presenza delle caratteristiche personali.
1.
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2. Stereotipo. Non sempre è una dimensione negativa, ma a volte può essere utile per
superare certi atteggiamenti, però non può essere un elemento costante, sino a farlo
divenire l'elemento determinante di una personalità, o addirittura un assoluto. Il
tema dell'assoluto è veramente un elemento presente nella nostra cultura, e viene
normalmente usato nella quotidianità, ma viene rifiutato dalla scienza: un assoluto
nella scienza inevitabilmente chiude tutto e non permette nessuna evoluzione. Gli
stereotipi, o assoluti, sempre approssimazioni che non nascono dalla realtà, anche se
influiscono sulla realtà. La scienza, e quindi anche la scienza della pedagogia
speciale è un continuo superamento dei limiti che sembrano o sono presentati come
assoluti.
3.
La personalità si trasforma nella relazione, non è tanto l'aiuto, ma la relazione che
può cambiare e trasformare le capacità o i comportamenti. Tuttavia i cambiamenti
si ottengono nella misura in cui avvengono nella reciprocità sia di colui che
riceve l'aiuto e di colui che lo offre.
4.
Ipertrofia identitaria. Spesso si rischia di costruire una categoria e proporla con le
stesse caratteristiche di una etnia Non è vero che tutta la popolazione del mondo affetta
dalla sindrome di Down sia di una stessa valenza culturale, intellettuale o affettiva,
soprattutto per ciò che concerne le caratteristiche personali, si può parlare di analogie,
ma non è mai da vivere come una realtà. Per questo motivo non vogliamo mai usare il
termine "portatore di handicap", perché non è da identificare con il suo handicap e non
esiste una "persona in situazione di handicap" uguale ad un'altra in situazione dello
stesso handicap.
Per lo stesso motivo non possiamo accettare di annullare in un'unica denominazione
"persone in situazione di handicap" i maschi e le femmine, perché prima di tutto hanno
caratteristiche maschili e femminili con cui è necessario mettersi in relazione.
Proprio per lo stesso motivo non possiamo accettare di parlare di "mussulmani", di
"cultura mussulmana" o "cristiana" perché è ben diverso un mussulmano del Marocco e
un mussulmano dell'India o della Cina; proprio come è diverso un cristiano del Sud
America e un cristiano della Danimarca o della Russia, e della Grecia.
Abbiamo costruito identità assolute, che sono solo stereotipi innestati nei nostri
rapporti etnici o di relazione con persone che hanno una situazione di handicap, che
abbiamo purtroppo tutti identificati in un'unica categoria, escludendo le proprietà e le
caratteristiche particolari di ognuno e del singolo gruppo.
L'identità è invece
ricca di commistioni, di invasioni culturali e di
contaminazioni. Spesso ci facciamo guerra in nome delle identità fisse, e allora ogni
presenza dell'altro viene considerata sempre come una invasione, e come una minaccia
contro la nostra persona e la nostra identità culturale. L'altro diviene così una minaccia
contro noi stessi, e ogni persona estranea è vissuta come un inquinamento.
Tutto questo ci porta ad una duplice soluzione:
a.
E' bene che ognuno rimanga quello che è e come la natura l'ha fatto, escludendo
ogni intervento di miglioramento ("l'identità è quello che uno possiede") e fare in
modo che rimanga sempre uguale a se stesso.
42
b.
E' invece più opportuno impegnare tutto ciò che è possibile, mettere in atto ogni
tecnica per cancellare ogni elemento di differenza, ogni disabilità e portare
l'individuo conforme ad una immagine normativa, per lo meno ad una immagine
accettata dalla maggioranza. In questo modo non si opera per realizzare se stessi,
ma per conformare l'immagine fisa che abbiamo in un modello precostruito.
L'identità che coincide con l'elemento biologico (per handicap, per etnia, per
cultura……)rappresenta una vera e propria trappola. Il pretesto di una identità da
salvare può divenire un fatto drammatico perché opera su un fatto che non era previsto,
e potrebbe anche sfociare in una tragedia perché si realizza in una affermazione
assoluta: "IO mi affermo, negandoti".
La tecnica
Per superare il deficit fortunatamente sono state scoperte e attivate molte tecniche
che hanno potuto ridimensionare e diminuire il deficit, e hanno trasformato il deficit in
una potenzialità. Tutte le tecniche possibili vanno utilizzate per diminuire o, se fosse
possibile, annullare il deficit. Senza assolutizzare la tecnica e senza farne il testo di
riferimento per valutare la persona ("Non apprende una tecnica….., e quindi è grave!").
E se ci fosse un'altra tecnica? Se si potesse potenziare la tecnica?
La tecnica quindi, pur essendo utilissima, può divenire un nuovo pregiudizio, a cui
dobbiamo fare attenzione.
E' necessario inoltre capire che la tecnica non può significare necessariamente un
condizionamento per il nostro intervento, cioè non può essere usata come risoluzione
per qualunque difficoltà. Una cosa è infatti l'intervento per un cieco, un'altra è per un
debole mentale: c'è un limite che varia da individuo a individuo. Si tratta di accettare
forse di mettere insieme diverse tecniche per creare sempre nuove possibilità.
E' necessario avere l'apertura mentale verso un continuo superamento personale e anche
tecnologico, disponibili a notare ogni trasformazione per adattare la relazione più
opportuna e utilizzare gli strumenti adatti alla nuova situazione, e al nuovo reale.
L'attenzione alla crescita di tutti componenti del gruppo (persone in situazione di
handicap e non) dovrà essere il punto di riferimento per chi ha dei limiti come anche
per chi non è in situazione di handicap.
L'attenzione si deve trasformare in una capacità di interpretazione del simbolo: il
simbolo è la rappresentazione della realtà, e che quindi c'è un diverso modo di
rappresentarla secondo le capacità individuali di elaborare il simbolo stesso. Il simbolo
da interpretare può essere l'ironia, lo scherzo, l'opinione critica, la fragilità, che spesso
non è nient'altro che una richiesta di aiuto, o anche l'animismo con cui la persona può
rendere vivo il proprio vissuto.
Il rapporto tra identità e proposte educative può anche scivolare per costituire un
assoluto, e quindi da ridimensionare, ma questo non significa esimerci dal dover
conoscere tecniche e proposte educative nuove, ancor meglio da elaborare.
L'identità non può essere fermata ad un'unica dimensione, ma si realizza
attraverso diverse dimensioni:
1. la dipendenza da un obiettivo (o oggetto) che spinge la persona ad adeguarsi,
2. la dipendenza dagli altri
3. la dipendenza da se stesso: capacità di assumere dati e critiche per poi organizzarli.
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E' necessario costruire l' identità della persona in situazione di difficoltà partendo
dalla concretezza e dalla singolarità e dal rapporto con il reale. Partendo invece da
elaborazioni teoriche si creano dipendenze fisse e stereotipate, da cui è difficile
liberarsi.
Ugualmente si creano stereotipi quando viene considerata la variante con altri
solo in modo esclusivo, mentre le varianti creano identità più flessibili e capaci di
costruire una memoria da parte del soggetto.
Strumenti di intervento.
La memoria.
Costruire la memoria è uno strumento fondamentale per non "cominciare sempre
da capo", non è possibile intervenire come se tutto iniziasse dal nostro intervento: altri
hanno lavorato prima di noi, altri sono entrati in relazione, altri hanno usato strumenti,
che non possiamo ignorare sia per la persona in difficoltà sia per coloro che
intervengono a dare un aiuto a livello professionale.
La memoria può essere realizzata attraverso una organizzazione (i miracoli sono
rari!) di appunti, cassette, documentazione varia, schede, oggetti di riferimento,
quaderni di appunti,…. Che servono a mantenere fissa la memoria e a facilitare le
conoscenze. La costuzione di un proprio "Dossier personale" sarà fondamentale per
realizzare una memoria e una documentazione del proprio percorso formativo, una
esperienza che sarà utilissima per il lavoro futuro nella propria professione.
La memoria è autentica quando risulta trasmissibile, mentre rischia di essere
solamente falsa quando è compresa solo da chi l' ha elaborata.
La memoria giunge ad aumentare l'autonomia attraverso gli oggetti con cui
vengono trasmesse le conoscenze: la dipendenza da chi insegna infatti è continua e
costante, e se il legame con il maestro è la base di un buon apprendimento, non deve
però distruggere l'autonomia del discente, che deve saper mettersi in relazione con le
altre componenti. L'insegnante non dovrà essere il protagonista, ma il regista che sa
utilizzare tutte le proposte educative. La proposta educativa dovrà tener presente la
gestione dei limiti, che dovranno essere considerati una necessità, in modo da non
subirli, né negarli, ma convivere con essi e superarli.
Il contesto e l'individuazione degli ostacoli..
Non è possibile vivere alla giornata prendendo in considerazione gli ostacoli
solamente al momento in cui si incontrano per cercare così protezione in quel preciso
momento o dare protezione se siamo deputati a questo compito.
E' necessario tenere in considerazione la dimensione tempo, che per una persona
in situazione di handicap è inevitabilmente ridotto, anche se proprio per la sua
situazione è portato a pretendere subito e il più possibile, e non accetta invece di avere
un cammino da percorrere che a volte è faticoso e quasi senza fine.
La riabilitazione, o la diminuzione dell'handicap ha tempi lunghi, ed è necessario
portarli a conoscenza della persona in situazione di handicap come anche dell'operatore
che ha il compito di intervenire: conoscere l'handicap, il deficit e il percorso della
44
riabilitazione. Per affrontare il problema delle barriere (architettoniche o di pregiudizi)
non può essere solo un impegno meccanico o di conoscenza, ma anche di tipo culturale,
è necessario cioè comprendere la dimensione culturale delle barriere; a volte non
possono essere subito abbattute perché possono far parte di uno sfondo culturale o
storico che deve essere ripensato e ricostruito in maniera diversa, ma non totalmente
negato.
La relazione di aiuto.
E' fondamentale per tutti in funzione di poter vivere bene, anche se può essere
considerata la dominante di ogni relazione, soprattutto per le persone che si trovano in
situazione di handicap. La relazione di aiuto dovrebbe essere transitoria per lasciar
spazio all'autonomia, e la diminuzione della relazione d'aiuto potrebbe significare
riduzione dell'handicap, e questo potrebbe essere chiamato l'evoluzione dell'aiuto. Si
tratta di riflettere sulla relazione di aiuto in modo da far evolvere l'aiuto. E questo
significa toccare il tema delle responsabilità, che è uno dei punti di forza per la
costruzione dei valori simbolici senza i quali gli apprendimenti rischiano di essere
solamente di tipo meccanico e quindi senza possibilità di trasferimento.
Responsabilità significa appartenenza (ad una struttura, ad un territorio, ad una
storia, ad un tempo,…) e la responsabilità non può essere individuata solamente in vista
dell'autonomia, ma l'altro diventa fondamentale quanto l'io per realizzare una crescita
matura. L'autonomia è sempre in funzione di una relazione, e quindi di un rapporto.
Il tempo e lo spazio.
Integrazione significa anche darsi del tempo e dare del tempo a colui che deve
evolvere: tempo per scoprire le risorse che una persona in situazione di handicap ha in
se stesso, ma che deve usare per realizzare un rapporto più consono con l'ambiente e la
comunità che ha attorno.
E' necessario riflettere sulla relazione di aiuto perché possa evolvere l'aiuto stesso.
L'aiuto che viene dato in un determinato periodo o in un determinato contesto non può
rimanere uguale per sempre e uguale per ogni situazione. E' necessario che l'aiuto sia
adatto alla situazione, ma tentando che non sia un apparato solamente per la persona in
difficoltà, ma che si pone come un servizio adatto per tutti, altrimenti vorrebbe dire
una maggiore manifestazione della emarginazione.
Si tratta di realizzare la modifica dei contesti. E' infatti importante tener presente
il contesto generale: personalizzazione e ampliamento generale non sono tra loro in
contrasto, anzi devono evolvere insieme. E' necessario tener presente l'aiuto specifico,
ma in funzione dell'obbiettivo principale, che per la scuola è certamente l'alunno e non
l'insegnante e per la struttura sanitaria è certamente l'ammalato e non il medico.
Avere tempo per pensare e per riflettere. La pretesa di avere risposte e soluzioni
immediate è deleteria perché non si ha il tempo e lo spazio per prendere coscienza della
realtà nel modo appropriato e più confacente ad una persona in difficoltà.
Ammettere l'originalità.
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E' stato più volte ripetuto "l'individuo non può essere identificato con il suo
deficit", però il riconoscimento del deficit porta anche a constatare l'originalità in cui
operare per la riduzione dell'handicap.
Per fare questo è necessario un dialogo e quindi uno scambio autentico, cioè privo di
interferenze.
Le interferenze nella relazione sono sempre all'ordine del giorno:
.
accelerare i tempi (fare fretta a raggiungere un obiettivo)
.
imporre azioni per trasmettere un addestramento (sollevare una persona in
situazione di handicap, piuttosto che attendere perché faccia da solo un gradino).
Per un'autentica relazione d’aiuto è necessario capire bene la differenza tra un
aiuto e una interferenza questa attenzione è uno strumento fondamentale per ridurre
l'handicap, o almeno per non aumentarlo. Tutto questo è possibile solo in uno scambio
dialogico tra chi aiuta e chi invece è aiutato.
La persona in situazione di handicap, come tutti, ha inoltre la necessità di poter
sbagliare e mantenere così rispetto di se stesso e degli altri. Inoltre è necessario sapere
e far sapere la differenza tra errori fattibili ed errori irreversibili, cioè con conseguenze
estreme. Gli errori non sono sempre insuccessi, ma possono essere ipotesi diverse per
cui a volte diventano anche necessari per imparare a rimediarli: c'è evidentemente una
grande differenza cadere in uno spazio privo di pericoli e cadere in mezzo ad una
strada.
La necessità della documentazione
In sé il termine “documentazione” ha la possibilità passiva di essere utilizzato da
chi vuole documentare e vuole documentarsi solo secondo le proprie aspirazioni e le
proprie convinzioni. Vorremmo qui, invece, richiamare la documentazione come la
necessità particolarmente importante per la Pedagogia Speciale e la sua area
disciplinare, di vivere la documentazione come uno scambio multiplo e quindi, per
questo, l’abbiamo riferita e raccordata anche alle molteplicità dei committenti. Questa
pluralità di committenti è un elemento importante in rapporto alla documentazione. E’
difficile stabilire dei confini precisi o addirittura assoluti alla documentazione utile per
la Pedagogia Speciale. Ed è difficile anche stabilire dei confini precisi all’apporto della
Pedagogia Speciale. Questa seconda questione è meno labile perché vorremmo
ricordare il significato di Pedagogia Speciale come apporto per bisogni non comuni, e
quindi come una tematica con lo studio, riflessione, ricerca, riportata sempre al contatto
con una popolazione che si può anche definire “speciale”. Questo contatto è
importante.
Noi potremmo pensare che la documentazione è il collegamento problematico continuo
fra l’esperienza e ciò che è riportato dall’esperienza: la testimonianza, il diario di
bordo, il racconto, la storia di vita, ma anche, oggi più di ieri, le immagini, la
rappresentazione, e la documentazione formalizzata nella ricerca. E’ un collegamento,
la documentazione, fra le pratiche, e l’elaborazione teoretica.
Documentazione significa anche questo: evitare che una proposta, una ricerca,
assumano un carattere neutro ed assoluto. Per questo riteniamo importante, riferendosi
allo specifico di progetti e metodi riabilitativi, procedere a un’indagine che permetta di
avere, il più possibile, elementi di conoscenza di carattere storico e metodologico. E per
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questo riteniamo utile proporre una scheda che abbia questa caratteristica. Di ogni
proposta possiamo vagliare l’albero genealogico, la collocazione nel tempo e nello
spazio, i bisogni a cui ha cercato di dare risposta, la possibilità di ampliamento per altre
necessità e i collegamenti, oltre che le variabili. Importante è anche conoscere i punti
deboli, i limiti, le controindicazioni. E’ possibile che non si riesca ad avere tutte queste
conoscenze ma anche questo è un elemento di documentazione di conoscenza.
Abbiamo bisogno, quindi, di procedere con una curiosità che permetta di evitare
l’enfasi o il rigetto, il rifiuto di particolari indicazioni tecniche.
Scheda per le proposte riabilitative
Ecco sinteticamente i punti importanti da prendere in esame un percorso riabilitativo.
1. Il quadro storico specifico. Cioè una precisa descrizione dell’origine di ogni metodo,
del contesto in cui si è realizzato, in rapporto a quali soggetti ha avuto le prime prove
pratiche, in quale realtà istituzionale; a quali precedenti si è ispirato, ed a quali
precedenti storici può essere accostato; come è stato diffuso, o divulgato, in quali
contesti.
2. La chiarezza delle controindicazioni. Sembrerebbe superfluo – e a volte non lo è
– dire che un processo riabilitativo può dare esiti positivi per alcuni soggetti, nessun
esito per altri, ed esito negativo per altri ancora. A parte il naturale ruolo che vi è
sempre per l’imprevisto, è necessario avere una previsione la più possibile accertata.
3. La capacità di integrazioni congruenti. Vale a dire, la possibilità che vi sia un
processo di integrazione fra le attività riabilitative e le altre attività del soggetto, e che
di conseguenza possa delinearsi un progetto esistenziale che non coincida
esclusivamente e totalmente con il percorso della tecnica riabilitativa.
Questo punto può essere espresso anche attraverso due indicazioni:
a. dal punto di vista dell’educazione, è fondamentale evitare che la vitalità venga
risucchiata dall’invalidità e dalla situazione di handicap: bisogna evitare che la vita
diventi l’ombra della difficoltà; ovvero: che diventi esclusivamente riabilitazione.
b. La centralità dell’individuo non deve essere resa periferica da una presunta centralità
della situazione di handicap. Tutto questo si riassume nella possibilità di integrazioni
congruenti.
4. La chiarezza circa gli errori compatibili e la conseguente rielaborazione del percorso
riabilitativo. Questo punto indica la necessità che vi sia un margine esplicitato di
tolleranza all’errore, per evitare che il presupposto di un modello riabilitativo
idealmente perfetto colpevolizzi oltre misura il soggetto stesso che opera.
Indicatori per la riduzione dell'handicap.
E' fondamentale avere differenti punti di vista per constatare la riduzione
dell'handicap:
1. accessibilità a tutti i servizi per la persona in difficoltà,
2. accoglienza
3. evoluzione delle rappresentazioni sociali
4. differenti modelli di realizzazione
5. garanzia di aiuti tecnici
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6. monitoraggio delle situazioni
Queste indicazioni compongono il pacchetto di riduzione dell'handicap basato non sulle
situazioni individuali, ma sulla rete istituzionale. Lo sforzo individuale non può essere
lasciato a sé, ma le istituzioni devono essere sollecitate perché garantiscono una
risposta adeguata, le garanzie vengono da una rete che permette di capire
chi fa,
cosa fa
e come fa.
Tutto questo deve portare ad una rete di strutture che permetta una risposta per
tutto l'arco della vita della persona in situazione di handicap, che abbiamo quindi una
funzione permanente, che evidentemente solamente le istituzioni possono assicurare.
"Quasi come una colomba che vola leggera nell'aria e immagina di volare meglio
senza l'attrito dell'aria, e preferisce il vuoto. Ma l'aria proprio perché fa attrito le
permette di volare. Così è l'istituzione per la vita della comunità umana" (Kant)
NOTE BIBLIOGRAFICHE
M.GELATI, Pedagogia Speciale problemi e prospettive, Corso Edit., Ferrara 1996
F.MONTUSCHI, Fare ed essere. Il prezzo della gratuità nell'educazione, Cittadella, Assisi, 1997
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METODI DIAGNOSTICI E CLASSIFICAZIONE DEGLI HANDICAPS
Metodi diagnostici
Ai fini riabilitativi e pedagogici è imprescindibile che l’handicap del minorato
venga evidenziato e definito quanto prima possibile. Di tale rilevamento precoce,
l’asilo nido, ma più esattamente la scuola materna è il luogo migliore per una diagnosi
adeguata.
Le conclusioni di tale diagnosi permettono non solo l’immediato intervento
clinico-pedagogico, ma tra l’altro, di trasmettere all’insegnante della scuola elementare
indicazioni utili per valutare le capacità del bambino e, quindi, di programmare le
strategie di recupero che a questa scuola compete.
La diagnosi viene operata da un’équipe di specialisti, di cui fanno parte: il medico,
lo psicologo, il fisioterapista, l’assistente sociale, il pedagogista, ecc.
Zavalloni sostiene che “dati diagnostici per qualificare un individuo derivano
dell’informazione completa sulle sue condizioni di vita, dall’osservazione del
medesimo nella condotta quotidiana, come pure dalla sperimentazione sulle sue
attitudini personali”.
L’informazione
Sono strumenti di informazione l’anamnesi, il questionario, il colloquio ed altri.
L’anamnesi consiste nella raccolta di dati informativi sulla famiglia, sull’habitat,
sulle condizioni di vita, sulla situazione ambientale dell’alunno (anamnesi familiare); e
di dati sulla sua maturazione organica ed intellettivo-affettiva (anamnesi personale).
Il questionario può essere inteso come un’intervista fatta agli interessati per
iscritto, esso è rivolto a quanti conoscono per lunga frequenza il soggetto minorato.
Il colloquio ha una parte basilare nell’ottenere dati informativi validi, richiede
sensibilità, tatto, spirito di osservazione e spiccate capacità di intuizione.
L’osservazione
I metodi di osservazione di cui possono facilmente servirsi gli insegnanti si
distinguono in empirici e sistematici.
L’osservazione empirica è la descrizione dei fenomeni condotta senza rigore
scientifico, servendosi di annotazioni psicologiche e didattiche, autobiografie,
cronache, registri, diari concernenti il caso allo studio. Essa richiede sensibilità e
preparazione.
L’osservazione sistematica è condotta secondo criteri prestabiliti e si estende a
tutti i fattori che incidono sul fenomeno osservato, per darne una descrizione completa
ed esatta. L’alunno viene osservato in modo minuzioso, sistematico ed obiettivo per
lungo tempo, in tutti i suoi comportamenti.
La sperimentazione
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Il procedimento della sperimentazione richiede l’azione concomitante di più
specialisti. Essa si avvale di metodi e strumenti che consentono una valutazione
accurata della personalità dell’handicappato. Tra gli strumenti, i reattivi mentali
possono giungere ad una valutazione dei vari aspetti del soggetto: l’intelligenza, le
attitudini, la volontà, le motivazioni, ecc. tuttavia va evidenziato che i tests mentali,
preziosi strumenti di indagine in campo psicopatologico, non hanno mai valore
assoluto; né il loro uso è indicato per gli insegnanti, “poiché sono difficili da
interpretare e richiedono una conoscenza approfondita della psicologia del
comportamento umano”.
I tests si suddividono in due gruppi: di intelligenza e della personalità.
Tra i tests di intelligenza i più usati sono: il Terman-Stanford, il test grafico della
Goodenough (disegno dell’omino) e quello di Fay (disegno: una donna cammina e
piove)
Il Terman-Stanford consente un accertamento individuale e preciso del livello
mentale. Il test della Goodenough e quello di Fay sono utili alla determinazione dell’età
mentale del soggetto.
Tra i tests della personalità quelli più in uso per il loro indiscusso valore sono il
test di Rorschach, il Baum-test, il T.A.T. (Thematic Apperception test), le favole di
Duss. Il test di Rorchach, universalmente applicato e fra i più efficaci, serve per lo
studio della personalità, e viene condotto mediante l’interpretazione da parte del
soggetto di una serie di macchie. Il Baum-test di Koch (disegno dell’albero) e il
disegno della famiglia danno preziosi elementi rilevativi sul mondo del bambino,
attraverso le proiezioni che vi si possono osservare e valutare con adeguati criteri
psicologici. Il T.A.T. evidenzia il mondo relazionale del soggetto (i rapporti con i
familiari, bisogni, interessi allo stato inconscio). Le favole di Duss sono favolette
semplici, particolarmente adatte ai bambini, attraverso le quali si cerca di scoprire quale
tipo di rapporto lega i piccoli ai genitori e gli eventuali conflitti ad esso connessi.
Tutti i tests sopraccennati sono proiettivi; sono cioè basati sul principio di
presentare all’esaminando una situazione-stimolo, di fronte alla quale egli proietta i
contenuti inconsci della sua personalità. Gli elementi ottenuti dalle diverse proiezioni
sono rilevati, studiati ed elaborati per programmare le attività didattiche ed educative in
relazione ai bisogni ed alle possibilità di recupero dei singoli alunni.
Classificazione
La classificazione dei vari handicaps da un punto di vista teorico è utile in quanto
permette un primo inquadramento del problema, e la conoscenza delle diversità degli
handicaps che ostacolano il soggetto minorato. Tuttavia Bellomo e Ribolzi invitano a
non attenersi esclusivamente ad essa nell’attività educativa, poiché le sue
schematizzazioni potrebbero far dimenticare che ci si trova di fronte a situazioni umane
molto più complesse di quanto può risultare da una semplice classificazione.
Del medesimo avviso sono Filippini e Pangrazio, i quali affermano che spesso
nelle situazioni di disadattamento, oltre alla causa grossolanamente palese, entrano in
gioco fattori molto più complicati, di ordine emotivo, sociale, ecc.
Pertanto, le classificazioni non hanno un’importanza assoluta, servono a dare una
prima conoscenza del problema.
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Questi due ultimi studiosi a fini meramente didattici danno una distinzione delle
minorazioni dividendole in tre gruppi: minorazioni da cause prevalentemente fisiche,
da cause prevalentemente psichiche, da cause prevalentemente sociali.
Primo gruppo: minorazioni dell’udito (sordità, sordastria, ipoacusia); minorazioni
della vista (cecità, ambliopia, grave astigmatismo, ecc.); disturbi o disarmonie gravi
dello sviluppo fisico (grave iposomia, gigantismo, endocrinopatie varie, ecc.);
minorazioni motorie (mutilazioni, esiti di poliomielite, spasticità, miopatie, ecc.) e
disturbi psicomotori (disturbi prottognosici, immaturità motorie, ecc.) disturbi delle
funzioni locutorie (afasie, gravi balbuzie, ecc.); infermità somatiche di altro tipo
(cardioreumatismi, vizi cardiaci congeniti gravi, tubercolosi, malattie debilitanti, ecc.).
Secondo gruppo: insufficienza mentale vera (frenastenie cerebropatiche,
frenastenie bioptiche, frenastenia su base disendocrinia, mongolismo, ecc.); pseudo
insufficienza mentale; disturbi o immaturità della personalità (immaturità affettiva,
regressioni reattive, instabilità, disturbi nevrotici, strutture caratteropatiche, ecc.);
malattie mentali vere e proprie (schizofrenia infantile, epilessia con manifestazioni
psicopatologiche, ecc.).
Terzo gruppo: situazioni conseguenti a gravi carenze educative familiari; o ad
ambiente sociale deviante; o ad assenza di un nucleo familiare o di una struttura
sostitutiva adeguata.
Molto più analitico è il raggruppamento degli handicaps fatto da M. Agerholm,
che l’autore distingue in nove categorie, come segue: 1) handicap locomotorio:
riduzione della capacità di spostarsi; riduzione della mobilità posturale (relazione delle
diverse parti del corpo tra loro); riduzione dell’abilità manuale; riduzione della
resistenza allo sforzo. 2) handicap visivo: perdita totale della vista; diminuzione (non
correggibile) della capacità visiva; riduzione del campo visivo; disturbi della
percezione. 3) handicap dei mezzi di comunicazione: disturbi dell’udito; disturbi del
linguaggio; disturbi della lettura; disturbi della scrittura. 4) handicap organico: disturbi
dell’ingestione; disturbi dell’escrezione; orifizi artificiali; dipendenza vitale da
macchine o apparecchi. 5) handicap intellettivo: ritardo mentale (congenito); ritardo
mentale (acquisito); perdita di capacità acquisite; alterazione delle facoltà di
apprendimento; disturbi della memoria; disturbi dell’orientamento nel tempo e nello
spazio; disturbi della coscienza. 6) handicap emotivo: psicosi; nevrosi; disturbi del
comportamento sociale; immaturità emotiva. 7) handicap invisibile: disturbi del
metabolismo che richiedono un trattamento permanente (diabete, fibrosi cistica, ecc.);
epilessia e altre perdite improvvise di coscienza; vulnerabilità particolare ad alcuni
incidenti o traumi (disturbi dell’emostasi, fragilità ossea, propensione a ulcerazioni da
compressione, ecc.); disturbi intermittenti e incapacità (emicranie, asma, vertigini,
ecc.). 8) handicap di carattere repulsivo: deformità o difetto sgradevole alla vista di
una parte del corpo; anomalie o affezioni dermatologiche e cicatrici antiestetiche;
movimenti del corpo anomali (atetosi, tics, smorfie, ecc.); anomalie sgradevoli alla
vista, all’udito, all’odorato degli altri. 9) handicap collegato alla senescenza: riduzione
della plasticità; rallentamento delle funzioni fisiche e mentali; diminuzione delle
capacità di recupero.
A.Canevaro definisce “intrinseci” gli handicaps elencati da Agerholm, per
distinguerli da due altri tipi che egli definisce “esterni o secondari”; questi sono
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handicaps che derivano da altri originari, di cui il soggetto è portatore, e che sono
causati da carenze di infrastrutture emendative o da errori o etichettamenti di tecnici e
clinici preposti alla riabilitazione.
Non è fuori luogo accennare ai cosiddetti “bambini a rischio”, ancorché
l’accezione di rischio sia ampia e generica. Si tratta di bambini che, nati da
handicappati o drogati o con un parto difficile o che abbiano subito malattie e traumi; o
ancora, di bambini ignorati nei loro bisogni, che pagano con la loro sofferenza interiore
l’inconsapevolezza degli adulti, la loro crudeltà cosciente od inconscia, spesso
mascherata da sistemi educativi perversi, comportamenti e iniziative dannose,
falsamente finalizzate al loro bene, tutti questi bambini sono sospetti portatori di future
anomalie, sembrano normali o tali risultano alle diagnosi, mentre sono portatori
inconsapevoli di anomalie ereditarie o acquisite. Questi possibili handicappati vanno
attentamente seguiti e sottoposti periodicamente agli accertamenti necessari, allo scopo
di intervenire tempestivamente quando il male affiora onde evitarne il peggioramento.
IL BAMBINO HANDICAPPATO E LA FAMIGLIA
L’handicap e la persona
Consideriamo l’uomo nella completezza delle sue funzioni: è facile rilevare
l’interdipendenza degli organi che mediante la reciproca interazione si sviluppano
armonicamente, ciascuno come un a sé che cresce e si aziona per la e della funzione
degli altri, e ciascuno fonte di sensazioni sue proprie che si commisurano e
consistenziano delle sensazioni degli altri organi, costituendo così l’unità del
sentimento corporeo come esperienza percepita dall’individualità stessa, fondamento e
principio del sentimento di sé mediante cui l’individuo sente di distinguersi dal mondo
e dagli altri come essere a sé stante.
E’ implicito che il sentimento di sé non è solo dell’uomo: ne è dotato ogni
animale; nel quale diventa pensiero di sé e dell’altro nella misura specifica e particolare
delle sue capacità psicologiche, che dalle funzioni organiche partono e di esse si
contestano, sviluppandosi per il loro continuo apporto, ma altresì per un intrinseco
intersecarsi, associarsi e comporsi in unificante identità individuale. Di qui la diversità
delle specie animali, e all’interno di ciascuna specie, la diversità degli individui; nella
quale ultima è evidente, influiscono la completezza del corpo e la particolare capacità
funzionale degli organi.
In questo quadro è collocato anche l’uomo che ha una capacità estranea agli
animali, quella creativa, nella quale la completezza del suo essere si focalizza,
trasfigurando il sentimento e il pensiero di sé in autocoscienza, mediante cui
l’individuo si fa soggetto creativo che trova nella consociazione con gli altri un modo
più idoneo a progettare, creare e realizzare. L’autocoscienza è perciò l’unità creante del
soggetto, e ciò per cui egli nella sua completezza è persona.
La persona, pertanto, è il soggetto creante, nel quale si focalizzano tutte le capacità
dell’uomo in quanto afferenti dinamiche ed esperenziali dell’atto del creare; sì che in sé
considerata, è un valore unico e irripetibile che brilla e si illumina di quella particolarità
umana che è la creatività, la quale nella sua universalità specifica è dote di ogni uomo.
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E’ ovvio che se l’atto creante focalizza in sé tutte le capacità dell’individuo, una
minorazione fisica o psichica incide sull’azione del creare, sui suoi contenuti, progetti,
fasi operative; ma essa, se ne depaupera la consistenza esperienziale e realizzativa, non
ne intacca l’essenza, né svilisce pertanto, il valore a sé della persona, solamente ne
attenua il potenziale e la operatività concreta. L’handicappato, cioè è una persona nella
quale uno stato di carenza fisica o psichica attenua o limita una direzione della sua
creatività, ma non la annulla, brillando essa dentro di lui come la sua stessa consistenza
specifica umana, e ponendosi siffattamente come fonte al possibile vicariante ai fini
della migliore completezza del suo essere ed esistere.
Relatività dell’anomalia
Né solamente come soggetto creante l’handicappato è persona, identità del suo
essere come valore a sé, ma anche rispetto alle sue stesse carenze.
Queste, infatti, se naturali e non acquisite comportano l’esistenza di un individuo
le cui incompletezze o malformazioni non incidono sulla sua identità; tanto più che il
sentimento di sé e la consistenza delle sue sensazioni organiche e delle sue esperienze
meta organiche sono la filiazione normale e conseguente del suo stato reale; la sua
crescita è relativa alla crescenza delle interazioni dei suoi organi, onde la sua persona e
la sua personalità sono un unico irripetibile, e per la sua costituzione, completo.
Lo stato di anormalità, pertanto, non è un in sé naturale, essendo la natura di
quell’individuo quella che è, ma si evidenzia nel confronto con gli altri e con le
possibilità operative degli altri. E’ cioè un fatto sociale, un posticcio per l’handicappato
che viene a gravare sulla sua esperienza trasformando spesso il suo sentimento di sé in
una angosciosa coscienza delle minorazioni e dell’incapacità di fare quelle cose che gli
altri possono fare. Angoscia che nasce dalle ambasce visibilmente manifestate dai
familiari e successivamente dal rapporto diretto del portatore di handicap con
l’ambiente nel quale, lo voglia o no, lui è tratto a vivere e a relazionarsi.
L’ambiente familiare
Sull’origine di tale angoscia è evidente la responsabilità dei familiari. Questi,
infatti, non appena edotti delle carenze del figlio cadono in preda a stati d’animo e a
comportamenti contrastanti, talora per ignoranza e pregiudizi, talaltra per delusione
delle aspettative o per malcelato confronto con gli altri bambini e la creduta felicità dei
loro genitori, o per la preoccupazione del futuro del loro sfortunato bambino, o per un
errato senso di colpa, o per un frustrante sentimento di incapacità procreativa o di
imprevidenza.
Sotto la tempesta di tali stati d’animo i genitori ora si abbandonano al fatalismo,
ora diventano freneticamente ricercatori di diagnosi, di medici e di medicine, ora si
affidano alla miracolistica o alle forze occulte, ora imprecano, ora fanno passare lunghi
lassi di tempo nella trascuranza e nell’abulia. E intanto il bambino risente di tutti questi
atteggiamenti, giunge a comprenderli e psicologicamente si deteriora più di quanto non
comporti il suo male. A tutto questo si aggiunga il comportamento degli altri membri
della famiglia: il fratellino impietoso che dall’inazione o dall’inceppamento operativo
dell’altro, conclude con un sentimento di nullità e di impotenza del minorato e, di
rimando, con una sopravvalutazione e un atteggiamento di supremazia del suo essere;
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la sorella premurosa, e appunto per questo frustrante per l’eccessività delle sue
premure; i nonni affettuosi, ma in sordo rimbrotto di incapacità procreativa verso i
genitori, ecc. Si creano così, situazioni che condizionano negativamente lo sviluppo e
l’eventuale riabilitazione dello sfortunato bambino.
Cosa può fare la famiglia
Ma la famiglia, dunque, in che modo può aiutare il bambino portatore di
handicap?
Anzitutto accettandolo per quello che è e può fare, senza piagnistei, sbigottimenti
e complessi di colpa; ma anche senza illusioni e con un senso vigile del proprio
intervento. Infatti, una diagnosi precoce può aiutare il bambino o con possibili protesi o
con azioni educative di riabilitazione, a raggiungere un soddisfacente stato esistenziale
o nella vicariazione di funzioni organiche che gli consentano una gestione della propria
vita al possibile normale. In secondo luogo, consentendo al piccolo di azionare il suo
corpo, di fare esperienze possibili, di non imbrigliarlo con le eccessive premure. In
terzo luogo, sollecitandolo accortamente ad operare, sentire, a relazionarsi, ad essere
attivamente presente nel contesto familiare e sociale.
A tale fine, è opportuno avviare il bambino all’esperienza scolastica, presso una
scuola di cui si conoscono la attualità scientifica e la completezza socio-psicopedagogica e medica. Quindi, il bambino non deve mancare dell’esperienza della
scuola materna, e quindi dei vari gradi della scuola dell’obbligo.
Farà ciò che potrà, sotto la guida degli insegnanti specializzati, che ne avranno
amorevole e scientifica cura. Dalla loro parte, i familiari cureranno di coordinarsi con
l’insegnante per attuarne i consigli operativi quando il bambino rientra a casa.
Bibliografia
L. Calonghi, Sussidi per la conoscenza degli alunni, Zurigo, Pas-verlag, 1963
A. Berge, Le psicoterapie, Firenze, La Nuova Italia, 1972
S. Mandolfo, Compendio di pedagogia speciale, CUECM, Catania ,1989
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L’autismo
Noto anche come “psicosi infantile”, “autismo infantile precoce”, “schizofrenia
infantile” e simili, è una patologia caratterizzata da vari sintomi, non tutti sempre
presenti nei singoli casi. Tra tali sintomi ricordiamo: comportamento di autosufficienza;
isolamento sia nelle attività esteriori sia nei rapporti affettivi; assenza o povertà del
linguaggio; tendenza a manierismo o a comportamenti ritualistici (quali, un anormale
attaccamento a un determinato oggetto, o una pulsione a porre gli oggetti secondo linee
rette o secondo altri schemi fissi), risposte anormali agli stimoli sensoriali; stranezza
nei comportamenti e nelle attività; opposizione ai tentativi di modificare comportamenti
stereotipi; isole di normale capacità mentale in un quadro di generale insufficienza.
Le cause della malattia sono ignote. I singoli casi sono talvolta di non facile
diagnosi. Per alcuni la diagnosi di autismo può porsi solo se i sintomi insorgono entro il
secondo anno di vita.
L’adolescente autistico
Malgrado le ripetute dichiarazioni dei diritti degli handicappati e di quelli malati
tanto in campo mondiale che europeo e nazionale, gli adolescenti autisti sono respinti
con una scusa o un’altra, dagli istituti di riabilitazione e cura, che alla lauta
sovvenzione statale preferiscono piuttosto non accettarli, in effetti per inadeguatezza
delle strutture o per impreparazione degli operatori. E’ ovvio che tale rifiuto mette in
pericolo le famiglie interessate a causa dell’aggressività di alcuni soggetti, e pone una
delicata questione sociale alla cui soluzione conviene dare un avvio al più presto, sia in
senso giuridico che di metodologia terapeutica.
Il fatto è che delle cause dell’autismo a tutt’oggi non si sa propriamente nulla,
anche perché talora il paziente soffre di altri mali, quali la schizofrenia e l’epilessia
(grande o piccolo male). Pure di esso si conoscono gli effetti: rito di atti ripetitivi,
mutismo totale, buona efficienza dell’udito, se-centrazione con auto isolamento e
rifiuto dell’extrasoggettivo, perfezionismo fino alla esasperazione, ecc.
Dalla sistematica osservazione diagnostica si ha l’impressione che il fanciullo
autistico anche quando opera con oggetti, conduca un soliloquio muto, di cui sono parte
accorpata i suoi movimenti e l’utilizzo degli oggetti. La spiegazione di tale
comportamento va trovata in un prolungamento dello stadio dell’adualità, caratteristico
del neonato.
L’autista sente il mondo esterno come una continuazione del proprio essere
organico, si che oggetti, persone, animali, gesti e atti altrui, e simili cadono inosservati
nel suo mondo; ma non perché restino estranei ad esso, anzi perché con esso sono
un’unica cosa, una normalità inattraente per difetto di consapevolezza e di rilevamento
della diversità io-altro, dei contrasti, delle interazioni. Davvero, si appropria al caso il
detto hegeliano: “Di notte tutte le vacche sono nere”. E in tale uniformità se-centrata, i
55
suoni, le parole, i rumori, in genere tutto ciò che attraverso l’udito irrompe
nell’unitarietà aduale del soggetto è rifiutato e respinto; il che spiega il mutismo e la
subnormalità dell’autista, poiché l’autochiusura non gli consente di apprendere il
linguaggio e quindi di articolare il pensiero in feed-back con esso (Vigotskji e Bruner).
Ora, di tale quadro clinico sono evoluzioni particolari le due tipologie degli
adolescenti autistici, nei quali la crescenza fisica ha apportato, rispetto al bambino, uno
sviluppo di organi, funzioni ed energie che a qualunque stimolo, propriocettivo
(soggettivo) e esterocettivo (esterno), che generi disquilibrio fisiopsichico fa scattare i
meccanismi di riequilibrazione e adattamento (Piaget), talora con un’aggressività che
può avere due cause: schizofrenica o psicologica.
La schizofrenia caratterizza l’adolescente autistico nel quale persiste lo stato di
adualità sopradetto, esaltato dallo sviluppo fisico e da una acuita sensibilità agli stimoli,
vissuti come minaccia al proprio essere vitale e a cui il paziente reagisce con
aggressività esasperata.
Altro, invece, è il caso dell’adolescente autistico che ha rotto il muro dell’adualità
e si rende conto dell’esistenza a sé del mondo esterno e delle altre persone. In tale
paziente, la coscienza e l’incapacità di coordinarsi con gli altri mediante un linguaggio
(non appreso da bambino) generano stati di angoscia, soprattutto quando egli vuole
esprimere bisogni o interessi particolari, ma comprende di non potere farsi capire per
mancanza di mezzi di esternazione delle proprie intenzioni. In questi casi può reagire
aggressivamente, ma non per schizofrenia, bensì per consapevolezza della propria
incapacità o per l’incapacità altrui di offrirgli gli strumenti della sua espressione.
In genere tale aggressività esplode nell’ambito dell’ambiente in cui egli ha vissuto
lo stadio di adualità, perché lo sente come una minaccia di regressione a quello stadio,
dal quale a fatica si è distaccato e che rivive con frustrazione profonda ogniqualvolta le
condizioni esterne glielo fanno ricordare o ripresentare; mentre in altro ambiente,
nuovo alle sue esperienze, vario e più mobile, vive tranquillamente la sua vita, anche
flessibilizzandosi a un utilizzo mirato e a un apprendimento graduale che lo aiutino
nell’inter-relazione con gli altri. Ed è qui che nasce il problema sociale e metodologico
della riabilitazione di tali soggetti. E’ ovvio che il loro recupero deve avvenire in
strutture apposite, bene attrezzate e con operatori preparati alla bisogna, tenuto conto
delle loro particolarità: udito normale, mutismo, un certo sviluppo intellettivo, necessità
di un linguaggio per capire e farsi capire, di operare e farsi apprezzare, di socializzare
ed evolversi.
Metodologicamente, le vie operative per il migliore recupero possibile di detti
pazienti sono tre: la logoterapia, l’integrazione sociale e un impegno costante. Il tutto,
ovviamente, secondo una gradualità flessibile e sapiente.
Sono premesse indispensabili al buon esito: la lontananza dei familiari (per i
motivi detti sopra circa i pericoli di aggressività per paura di una regressione allo stadio
dell’adualità); la serenità dell’ambiente e degli operatori; la diagnosi e la terapia da
parte dello psichiatra di eventuali comportamenti irregolari che risalgano a
dissociazione dell’io (K. Lewin) o a spinte abreative delle frustrazioni recenti o
pregresse (psicoanalisi); da parte dello psicologo, l’interpretazione di esigenze nascoste
dietro talune azioni anomale, e suggerimenti mirati alla gradualità delle conseguenze
psichiche delle operazioni riabilitative (per es. nel campo delle ricompense indicate da
56
Kozloff); il progressivo utilizzo di una pluralità di materiali tendente a far superare al
soggetto il rito delle ripetitorie di certi atti.
Quanto alla logoterapia, che dev’essere condotta sotto la vigile sorveglianza
dell’audiologo-otorinolaringoiatra, va tenuto presente che solitamente questi soggetti
hanno talora manifestazioni foniche, che però non si articolano nella vocalizzazione.
Tuttavia un primo avvio foniatrico deve essere preceduto da operazioni di
musicoterapia e di esercizi sistematici per un preciso allenamento uditivo. Via via,
anche seguendo ove necessiti il metodo comportamentista di Kozloff o il metodo verbo
tonale di P. Guberina, il logopedista può iniziare il ragazzo all’apprendimento della
vocalizzazione prima e dell’espressione fonica compiuta dopo. A tale insegnamento va
accompagnato quello dell’espressione mediante gesto e via via mediante l’alfabeto
segnico più confacente, ancorché questo metodo sia da più parti criticato.
L’integrazione sociale va fatta nella doppia direzione: del coordinamento
consociale del ragazzo con gli altri mediante giochi collettivi, grupping, sporting, lavori
in comune, ecc. e del rapporto normativo con gli operatori, con l’ambiente
extrascolastico, tanto sociale che naturale, con animali domestici e simili. Visite a
luoghi pubblici e presenza a feste sociali possono aiutare lo sviluppo della
socialitarietà.
Infine, il giovane va tenuto costantemente impegnato, sia mediante le attività anzidette,
sia mediante un utilizzo per faccende domestiche in azioni ordinali. L’utilizzo deve,
però, essere sempre accompagnato da spiegazioni delle azioni da compiere, dei fini da
raggiungere, e dell’apprezzamento degli atti compiuti. Opportuni accorgimenti e
dinamiche di altro genere potranno corroborare quelle dette sopra e completarne
l’efficacia.
Organizzazione del trattamento riabilitativo
Trattamento in singolo: proposto in genere a paziente con bilancio comportamentale
più compromesso, per tempi limitati e numero di sedute ridotto, finalizzato alla
realizzazione dei pre-requisiti necessari all’inserimento nei gruppi oppure al passaggio
della consegna del lavoro individuale ad operatori esterni alla dimissione del paziente.
Trattamento in gruppo: ogni gruppo è costituito da 3/5 pazienti il più possibile
omogenei per quadro funzionale. L’attività si svolge con cadenza bisettimanale con
sedute di 2hr30 min. per ogni gruppo.
L’equipe coinvolta è costituita da:
•Un educatore professionale con funzione di coordinamento
•Un educatore professionale
•Uno psicologo
•Un tecnico dedicato
•Un’infermiera in organico al D.H.
•Un medico fisiatra
•Un neuropsichiatra infantile
•Una logopedista
•Un neuropsicologo
•Un fisioterapista ed un terapista occupazionale
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Sindrome di Down
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La sindrome di Down è caratterizzata da notevole variabilità nello sviluppo
comunicativo e linguistico. Ci sembra opportuno sottolinearlo evidenziando che
possono esistere situazioni eccezionalmente positive.
Basta conoscere una decina di bambini o adolescenti con sindrome di Down per
verificare che le loro prestazioni linguistiche sono molto diverse. In letteratura sono
descritti casi in cui individui con sindrome di Down hanno prestazioni linguistiche
notevoli. In contrapposizione vi sono altri individui che producono solo frasi singole.
Nella seconda infanzia e nell'adolescenza le prestazioni linguistiche sono caratterizzate
da:
permanere di carenze a livello fonologico (ancora a 10-12 anni o oltre può
succedere che certe parole siano pronunciate in modo non corretto);
un livello lessicale (quantità di parole utilizzate) inferiore rispetto alla propria età
mentale, ma migliore rispetto al livello fonologico;
carenze a livello sintattico, dato che la lunghezza e la complessità delle frasi
tende ad essere minore rispetto a quella che ci si potrebbe aspettare dall'età mentale;
discreto è comunque il livello pragmatico, dato che, in un modo o nell'altro, si
fanno abbastanza capire.
La descrizione di cui sopra non deve comunque far pensare che vi sia una specie
di arresto nello sviluppo linguistico. Di norma i progressi sono costanti, anche se lenti,
almeno fino ai 16-18 anni. Per questo motivo sono opportune sedute logopediche anche
nell'adolescenza.
Lo sviluppo sociale
Nel profilo generale dell'individuo con sindrome di Down lo sviluppo
dell'intelligenza tende ad essere meno carente dello sviluppo linguistico. A livello
generale possiamo dire che lo sviluppo sociale è di norma in pari o lievemente
superiore rispetto a quello linguistico. Pensiamo ad un ragazzo con sindrome di Down
di 18 anni.
Per una buona comprensione dello sviluppo sociale a partire dai sei anni non
bisogna dimenticare che, anche se non in modo omogeneo, il bambino con sindrome di
Down si sviluppa più lentamente. In altre parole il bambino di sei anni presenta molti
comportamenti e abilità tipiche non di tale età, ma di due o tre anni prima. E la
differenza permane o si accentua con il passare dell'età. Nello stereotipo del bambino
con sindrome di Down vi è anche il fatto di essere socievole ed allegro.
Da una ricerca condotta da Hornby nel 1995 risulta che in genere i padri di
bambini con sindrome di Down confermano tali caratteristiche anche nel periodo fra i 7
e gli 11 anni. Risultati interessanti vengono forniti anche da una ricerca condotta da
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Hodapp, Dykens,Hagerman, Schreiner, Lachiewicz, Leckman (1990), che ha
confrontato bambini con sindrome di Down e con sindrome di Williams: i primi sono
risultati complessivamente più sociali, ad esempio giocando e collaborando di più con
gli altri bambini. Freeman e Kasari (1999) hanno studiato anche i rapporti di amicizia,
trovando che la grande maggioranza dei bambini con sindrome di Down avevano
almeno un amico.
Lo sviluppo sociale a partire dai 12 anni dipende ancor più dal contesto in cui il
ragazzo o la ragazza sono inseriti. Nelle situazioni di integrazione scolastica, come
avviene per la totalità (sono ben poche le eccezioni) degli adolescenti italiani con la
sindrome di Down il contesto classe è cruciale e una influenza fondamentale è data
dall'atteggiamento degli insegnanti. Come ha evidenziato Vianello (1990), i compagni
sono spesso "specchio" degli atteggiamenti dei propri insegnanti.
Finita la scuola, dove vengono inseriti i giovani adulti con sindrome di Down?
Restano in famiglia? Vanno in un laboratorio protetto (molte sono le dizioni utilizzate
al proposito, ma con questa espressione ci si riferisce ad una realtà caratterizzata dalla
presenza di varie persone in situazione di handicap e vari educatori presenti in una
struttura finanziata soprattutto od esclusivamente da istituzioni pubbliche, in cui si
svolgono attività "lavorative" scarsamente produttive, anche se utili dal punto di vista
educativo)? Vengono inseriti in una comunità alloggio? Lavorano in una cooperativa?
Sono inseriti in un contesto lavorativo (in una bottega artigianale o in una scuola come
personale ausiliario o in una fabbrica) in cui non vi sono altre persone in situazione di
handicap (o comunque in un numero estremamente ridotto)?
Ogni inserimento condiziona in modo specifico lo sviluppo sociale. Secondo Vianello,
1990, si può ipotizzare che più l'inserimento si differenzia dalla scuola speciale o dal
laboratorio protetto e minori tendono ad essere i rischi di comportamenti disadattivi e
psicopatologici. Specificamente minori sono i rischi di depressione (mutismo o quasi,
apatia, passività).
Lo sviluppo cognitivo
La sindrome comporta ritardo di diversa intensità nella grandissima maggioranza
degli individui. In termini di Quoziente Intellettuale (QI) non sono facili indicazioni
generali, anche perché esso cambia con il progredire dell'età, nel senso che tende a
diminuire. Se prendiamo come punto di riferimento i 10-12 anni la maggioranza dei
bambini con sindrome di Down si colloca fra 30 e 55 punti di QI.
Esaminando analiticamente le prestazioni degli individui con sindrome di Down ai
test di intelligenza è possibile individuare un profilo tipico. Rispetto al punteggio
medio generale (che tiene conto delle prestazioni in vari compiti, di norma almeno una
decina di tipo diverso) emerge che nella grande maggioranza dei casi i punteggi
ottenuti nelle prestazioni che hanno a che fare con compiti visivi e spaziali sono
superiori al punteggio generale, mentre quelli riguardanti gli aspetti verbali (in modo
particolare la produzione) sono inferiori.
Una valutazione che consideri anche le prestazioni scolastiche evidenzia inoltre
prestazioni nel disegno inferiori all'età mentale.
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Considerando più in generale le prestazioni degli individui con sindrome di Down
si può sottolineare che le competenze sociali tendono ad essere migliori rispetto a
quelle cognitive in senso stretto. Questo aspetto è comunque approfondito nella sezione
che si riferisce allo sviluppo sociale.
Tipico della sindrome di Down è un precoce invecchiamento che si manifesta con
un certo declino intellettivo, soprattutto relativamente a compiti che richiedono
prontezza di riflessi, buon uso della memoria a breve termine e di lavoro, orientamento
spaziale, mentre minore è il declino relativamente alle capacità verbali e numeriche già
acquisite. Tale declino è più marcato nel caso di una vita caratterizzata da scarsi stimoli
cognitivi.
Lo sviluppo comunicativo e linguistico
Rispetto ad altri individui con lo stesso livello di ritardo mentale, quelli con
sindrome di Down si caratterizzano, in generale, per un buon livello di comunicazione
non verbale e per prestazioni inferiori a livello di comunicazione verbale. In particolare
le prestazioni verbali sono inferiori nella produzione rispetto alla comprensione. La
pronuncia e l'articolazione sono danneggiate. Tali difficoltà possono permanere anche
dopo l'infanzia. Problemi di udito frequenti e malformazioni della bocca e della cavità
orale possono ulteriormente ostacolare la produzione linguistica.
Comportamenti disadattivi e psicopatologici
I disturbi più frequenti in età minore sono: disturbo da deficit di attenzione con o
senza iperattività (Dykens et al., 2000) e comportamenti oppositori e provocatori. Con
l'età adulta sono possibili disturbi depressivi circa in un individuo su 12.
Relativamente poco frequenti sono disturbi d'ansia e autismo (1-2% secondo
Dykens e Volkmar, 1997). I dati di cui sopra si riferiscono a comportamenti
chiaramente patologici. Se consideriamo quelli problematici, anche se non gravi, le
percentuali aumentano.
Secondo Dykens, Shah, King e Rosner (1999) almeno un bambino con sindrome
di Down su due è eccessivamente ostinato, disobbediente, polemico e impulsivo.
Rispetto all'insieme degli individui con altri tipi di ritardo mentale, invece, la sindrome
di Down è meno caratterizzata da comportamenti disadattivi e psicopatologici Una
eccezione a quanto sopra è costituita dai disturbi depressivi, più frequenti (6-11%) in
caso di sindrome di Down. In questi casi può esserci mutismo (o quasi), passività,
pensiero sconnesso, disorganizzato. Molto raro è il disturbo bipolare, cioè
caratterizzato da alternanza di mania e depressione.
Complessivamente i disturbi che si presentano con maggior frequenza in queste
persone sono:
comportamenti aggressivi (7,2%), disordini da deficit da attenzione (4,2%), disordini
della condotta/oppositori (3,6%), comportamenti stereotipati (2,8%), disturbo
depressivo maggiore (2%), demenza (1,1%), autismo (1%).
Prevenzione, educazione, trattamento
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Ogni buon intervento è anche preventivo in quanto può evitare un inadeguato
sviluppo fisico e della personalità. Sono opportuni degli esempi.
Attività fisico-motoria. Una buona attività fisica (consigliata dal medico in quantità e
qualità) ha funzioni preventive non solo per una buona funzionalità fisica, ma anche
psicologica in quanto può essere fonte di benessere e soddisfare la motivazione di
competenza (sentirsi in grado di fare bene qualcosa).
Attività ludica. A volte, preoccupati per lo sviluppo cognitivo del figlio o dell'allievo,
ci si può "dimenticare" del fatto che anche le persone con sindrome di Down, come
tutti, hanno bisogno di un adeguato equilibrio fra attività di apprendimento (in cui
l'individuo utilizza le proprie energie per rispondere alle richieste che pervengono dal
mondo esterno) e attività ludiche (in cui l'individuo cerca di soddisfare, spesso in
maniera simbolica, i propri bisogni). La soddisfazione dei propri bisogni ludici ha un
valore preventivo in quanto permette di scaricare tensioni accumulate nelle attività di
apprendimento e soddisfa bisogni che altrimenti rimarrebbero insoddisfatti.
Attività cognitive intrisecamente motivate. Il piacere della conoscenza è tipico
dell'uomo. Sul piano educativo è fondamentale tenerne conto proponendo attività che
l'individuo con sindrome di Down compie non per una lode o un riconoscimento
materiale, ma per il piacere, appunto, che è intrinseco alle attività che permettono di
acquisire nuove conoscenze. Coltivare la "curiosità" ha un fine preventivo in quanto
"allena" la mente ad essere impegnata, attiva.
Attività lavorative. Prima di essere una attività volta al guadagno, ogni lavoro è volto
a soddisfare la motivazione di competenza e cioè il desiderio di dimostrare a se stessi
che si è in grado di raggiungere risultati, prestazioni importanti. Il desiderio di lavorare,
di produrre è preventivo nel senso che "allena" la mente a porsi degli obiettivi, ad avere
un futuro stimolante.
Attività sociali. Stare assieme agli altri e collaborare può aiutare a formarsi una buona
identità sociale e può prevenire rischi psicopatologici (come la depressione).
Trattamenti. Ogni trattamento ha non solo un fine abilitativo, ma anche preventivo.
Risultati a livello fisioterapico favoriscono l'attività fisico-motoria e ludica.
Una buona logopedia migliora i rapporti sociali.
Una buona abilitazione cognitiva mantiene vive le motivazioni a conoscere e a sentirsi
competenti. Fra educazione, prevenzione e trattamento (o cura) non vi è quindi un
rapporto lineare, ma di sistema, in quanto ogni attività educativa, di prevenzione o di
trattamento è sostenuta dalle altre e a sua volta le sostiene in una interazione continua.
Interventi scolastici
In questa sezione vengono considerati soprattutto i problemi relativi a quali
possono essere gli obiettivi educativi e scolastici adeguati allo sviluppo cognitivo,
emotivo, affettivo e sociale dei bambini con sindrome di Down. Essi sono considerati
in progressione, cioè dall'asilo nido, alla scuola dell'infanzia, alla scuola primaria o di
primo grado, a quella media o di secondo grado. In particolare sono considerate le
seguenti aree: sviluppo comunicativo e sociale, autonomie, gioco, disegno, lettura e
scrittura, aritmetica, ulteriori conoscenze e competenze
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Scuola secondaria di primo grado
Lettura e scrittura
L’analisi della letteratura (Vianello, 2006) suggerisce che la situazione attuale relativa
ai ragazzi con sindrome di Down iscritti alla scuola secondaria di I° grado è
caratterizzata come segue.
- L'apprendimento della lettura e della scrittura richiede una età mentale di 4-5 anni. La
grande maggioranza degli allievi di scuola secondaria di II° grado è in possesso di tali
requisiti cognitivi ed è quindi in grado di apprendere a leggere e scrivere, se vi è stato
un opportuno insegnamento per almeno 3 o 4 anni nel periodo precedente.
- Un 30% circa dei ragazzi con sindrome di Down iscritti alla scuola secondaria di I°
grado attualmente non sa leggere e scrivere o si trova in una fase che genericamente
potremmo chiamare di pre-lettura e pre-scrittura. Si può pensare che in un contesto
sociale, educativo ed abilitativo ottimale una buona parte di questi ragazzi avrebbero
potuto imparare a leggere e scrivere almeno fino al livello tipico dei bambini del primo
anno della scuola primaria.
I rimanenti, cioè la maggioranza (attorno al 70%) dei ragazzi con sindrome di Down
raggiungono un apprendimento della lettura e della scrittura approssimativamente
almeno a livello della fine del primo anno della scuola primaria. Alcuni di questi (circa
uno su due) anche nella lettura e scrittura di testi semplici hanno ancora bisogno di
aiuto da parte degli adulti. Comunque, se un po' sostenuti o almeno motivati, possono
scrivere cartoline, letterine, brevi messaggi anche senza dettatura parola per parola.
L'uso dei programmi di scrittura del computer è già possibile, anche se ad un livello
iniziale. Spesso esso è più legato agli aspetti motivazionali e alla pratica che alle
competenze (che potrebbero essere sufficienti).
Un ragazzo con sindrome di Down su quattro (25-30% del totale; si tratta di una
parte dei ragazzi di cui sopra) evidenzia prestazioni paragonabili a quelle dei bambini
di fine secondo anno della scuola primaria o superiori. Anche in questo caso è possibile
la lettura di testi semplici e motivanti, la scrittura spontanea di cartoline, letterine,
messaggi brevi e l'uso di programmi di scrittura del computer.
Alcuni ragazzi, infine, (circa il 10% del totale della popolazione con sindrome di
Down), pervengono a competenze di lettura e scrittura paragonabili a quelle dei
bambini normodotati frequentanti il secondo ciclo della scuola primaria. Questo
comporta la capacità di leggere giornalini, giornali, libri ecc. e di scrivere
autonomamente pensierini, lettere, messaggi. Sono buone le basi per l'uso dei
programmi di scrittura del computer.
Il confronto con le prestazioni dei bambini normodotati deve comunque essere
considerato come del tutto orientativo, dato che vi sono differenze qualitative molto
importanti. In particolare a parità di testo scritto sotto dettatura o spontaneamente i
minori con sindrome di Down commettono molti più errori di ortografia.
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È opportuno riportare alcuni dati di ricerca a sostegno di alcune affermazioni di cui
sopra.
Dalla ricerca di Gherardini e Nocera (2000) relativa all'anno scolastico 1998-1999
risulta quanto segue.
- Gli allievi di scuola secondaria di I° grado che non leggevano affatto erano:
11%.
- Leggeva singole parole: 89%.
- Leggeva e comprendeva semplici brani: 29%.
- Gli allievi che non sapevano scrivere erano: 11%.
- Scrivevano autonomamente singole parole: 68%.
- Scrivevano autonomamente brevi frasi: 39%.
- Scrivevano autonomamente brevi composizioni: 10%.
Da una ricerca di Stella e Biancardi (2001) risulta che più del 50% degli allievi di
scuola secondaria di I° grado avevano competenze di lettura e scrittura tipiche (come
minimo) dei bambini del primo anno della scuola primaria.
Sestili, Moalli e Vianello (2006) hanno trovato che gli allievi di scuola secondaria
di I° grado da loro considerati avevano prestazioni in lettura e scrittura superiori di uno
o due anni rispetto alla loro età mentale (fra i 5 anni e i 5 anni e mezzo). Si tratta di un
dato molto importante perché evidenzia i margini di miglioramento di un insegnamento
adeguato.
Le prestazioni nella scrittura sono nel complesso inferiori a quelle nella lettura e
solo lievemente superiori rispetto a quelle attese sulla base dell'età mentale (circa un
anno).
Si deve comunque sottolineare che sia nella lettura che nella scrittura errori di vario
tipo sono di gran lunga superiori a quelli medi dei bambini normodotati dello stesso
livello di lettura e di scrittura (a parte gli errori
Matematica
Ben poche sono le ricerche dedicate alle competenze aritmetiche e matematiche
negli individui con sindrome di Down. Da quelle a disposizione (Rynders, 1999;
Gherardini e Nocera, 2000, Biancardi, 2001; Sestili, Moalli e Vianello, 2006) risulta in
sintesi quanto segue.
Anche in questo caso la variabilità fra gli allievi con sindrome di Down è
notevole.
Nel complesso le prestazioni nelle abilità numeriche e di calcolo sono inferiori sia a
quelle relative alla lettura che alla scrittura e abbastanza coerenti con quelle prevedibili
dall'età mentale di pensiero logico.
Sono una ridotta minoranza i ragazzi con sindrome di Down che hanno prestazioni
superiori a quelle dei bambini di fine secondo anno della scuola primaria. La grande
maggioranza ha prestazioni tipiche del primo anno della scuola primaria o inferiori.
Dalla ricerca di Gherardini e Nocera (2000) è emerso che a livello di scuola secondaria
di I° grado:
- il 38% contava oltre il numero 10;
- il 51% sapeva leggere i numeri a due o a tre cifre;
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- il 10% sapeva effettuare semplici equivalenze.
Da una ricerca di Sestili, Moalli e Vianello (2006) è risultato che il 40% dei
ragazzi del secondo e terzo anno della scuola secondaria di I° grado aveva competenze
inferiori a quelle dei bambini normodotati all'inizio della scuola primaria, e che il 60%
otteneva risultati paragonabili al livello intermedio o finale del primo anno della scuola
primaria.
In considerazione di tali difficoltà si ritiene utile favorire apprendimenti o
utilizzazioni pratiche anche in assenza delle competenze concettuali necessarie; ad
esempio fornendo strategie pratiche per la lettura dell’orologio (usare uno digitale; in
quello con le lancette dare più importanza alla lancetta più piccola, ecc.), per capire
quando una cosa costa molto o poco (ad esempio “i soldi di carta valgono di più di
quelli di metallo”).
In fase iniziale si cercherà di lavorare soprattutto con monete da 1 e da 2 euro e
con i 5 euro di carta, che saranno probabilmente i tagli da loro più usati.
... è stato ideato un portafoglio particolare, strutturato nel seguente modo: è un
rettangolo di stoffa abbastanza spessa, nylon o cuoio, a cui sono state applicate 5
tasche di plastica trasparente. Su ogni tasca viene posta una targhetta con
l'indicazione del taglio contenuto. Queste tasche sono chiuse con una striscia di velcro.
Il portafoglio si chiude piegandolo sulle varie tasche e sovrapponendo poi la striscia
adesiva finale.".
Un'attività specifica che è stata già sperimentata in proposito consiste nella ricerca di
prezzi nei supermercati per poi collocarli su una retta in Euro su un cartellone ... per
poter poi fare confronti di più grande - più piccolo.
Nella lettura dei prezzi insegnare che la virgola si legge 'e'.
- Ma la cosa più importante è che se c'è un numero dopo la virgola me la posso cavare
dando un euro in più.
Altre competenze
Le attività scolastiche non si esauriscono nell’apprendimento della lettura, della
scrittura e dell’aritmetica. Basti pensare a quanto spazio viene dato nella scuola alle
conoscenze storiche, geografiche e scientifiche e alle attività espressive. A questi tipi di
apprendimento negli allievi con sindrome di Down non sono state dedicate adeguate
ricerche scientifiche. L’interesse primario, come abbiamo visto è andato
all’apprendimento della lettura e della scrittura (e in subordine all’aritmetica).
L’esperienza suggerisce che anche a questo proposito la realtà è estremamente
differenziata non solo perché le dotazioni intellettuali nella sindrome di Down sono
molto varie (ed esse condizionano notevolmente gli apprendimenti), ma anche perché
cruciale per l’apprendimento delle nozioni storiche, geografiche e scientifiche è l’aiuto
che viene fornito a scuola dagli insegnanti e a casa dai familiari. Nei casi migliori
l’apprendimento avviene attraverso la mediazione dell’adulto che in relazione con
l’allievo con sindrome di Down motiva all’apprendimento e semplifica i testi da
studiare.
Nel passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria di I° grado c’è di norma
un progresso anche nelle capacità di studio e nell’autonomia, ma esso quasi sempre
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viene vanificato dal fatto che gli argomenti da studiare sono più complessi e in
definitiva l’aiuto esterno è sempre necessario.
Per quanto riguarda le attività espressive il ragazzo con sindrome di Down
manifesta spesso una buona motivazione per la musica, la danza le attività di
drammatizzazione verso le quali può essere motivato e disponibile date le sue buone
qualità imitative.
Le prestazioni nel disegno da parte dei bambini con sindrome di Down sono di
norma inferiori rispetto alle sue capacità logiche (e all'intelligenza in generale).
Fondamentale è aiutarlo notevolmente, anche per evitare riflessi negativi sulla sua
autostima. Per farlo è necessario aver presenti le normali tappe dello sviluppo del
disegno nei bambini normodotati (almeno quelli del mondo occidentale, in quanto
influenze culturali diverse incidono in modo diverso su questo sviluppo). Esse sono
sintetizzate in un apposito approfondimento.
Le tappe evolutive della rappresentazione pittorica portano il ragazzo di 11-12
anni alla realizzazione di profili, prospettiva…
Per lui disegnare in definitiva implica sia l’utilizzo di vari processi cognitivi
(rappresentazione mentale della realtà, progettazione, esecuzione, monitoraggio,
controllo, valutazione, eventuale riprogettazione e correzione, ecc.) sia l’interazione
con gli altri comunicando su una base simbolica, che, come tale, prevede regole
comuni, ma anche possibilità di espressioni nuove ed originali
Tutto ciò non è pensabile ottenerlo da un soggetto Down, che si esprimerà nel
disegno a seconda dell’età mentale che nel suo processo di crescita ha raggiunto.
Anche in questo caso vale la "regola d'oro": proporre attività al livello di prestazione
del bambino per rinforzare le sue capacità e appena più impegnative ("sfide ottimali" in
quanto nella sua area di sviluppo potenziale) per favorire un ulteriore progresso.
L'utilità della pratica sportiva anche per i giovani con sindrome di Down è stata
evidenziata anche in una ricerca condotta da Ruiz, Gil, Fernandez-Pastor, de Diego e
Peran (2003) a Malaga. Lo studio ha valutato i benefici ottenuti nell'arco di quattro anni
di attività sportiva. Già alla fine del primo anno è stata rilevata una opportuna perdita di
peso grasso e un aumento di quello muscolare e osseo (in particolare nelle femmine).
Ovviamente sono migliorate anche le prestazioni sportive rispetto a quelle di partenza
(resistenza, velocità, salti, lanci ecc.). Effetti positivi vi sono stati anche relativamente
all'autostima, all'autonomia, all'impegno, alla perseveranza e allo spirito di gruppo.
Cosa potenziare con l’esercizio e la collaborazione delle famiglie
- sviluppo motorio,
- dell’intelligenza senso-motoria,
- comunicativo pre-verbale,
- del pensiero simbolico,
- del linguaggio,
- dell’autonomia,
- del pensiero intuitivo e di quello operatorio
- esercizi di attenzione e memoria,
- prove per lo sviluppo metacognitivo…
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Cosa fare dopo la terza media?
In una realtà migliore di quella attuale gli adolescenti con sindrome di Down dopo
la terza media dovrebbero avere la possibilità di frequentare scuole professionali con
risorse di personale e con insegnanti adeguati a favorire l'integrazione di persone con
ritardo mentale. Spesso questo non avviene e gli adolescenti con sindrome di Down
vengono iscritti in altre scuole (Licei scientifici o classici compresi).
Come ogni adulto, anche le persone con sindrome di Down provano benessere
quando riescono ad essere utili, quando vedono che producono qualcosa (motivazione
di competenza). Il lavoro può offrire questa opportunità.
Da almeno quaranta anni in Italia si sono cercate alternative ai laboratori protetti e
ai centri occupazionali. Consideriamo alcune tipiche tipologie.
- Inserimento nell'azienda commerciale, agricola, artigianale ecc. dei genitori o di
parenti stretti. Teoricamente si potrebbe pensare che in questa situazione la persona con
sindrome di Down fatica a diventare indipendente. Questo è un rischio reale. Si tratta
comunque di una situazione che può avere anche aspetti positivi. Accettazione e
flessibilità permettono di chiedere alla persona il massimo di ciò che può dare, evitando
di sottoutilizzarlo.
- Inserimento guidato in una azienda. Cruciale è il monitoraggio, con
coinvolgimento della famiglia, del datore di lavoro e dei colleghi.
- Inserimento nelle aziende pubbliche: uffici pubblici, ospedali, scuole. Si tratta di
situazioni meno monitorate delle precedenti.
Dati i fini non commerciali di queste istituzioni la persona risente meno delle
conflittualità legate al bisogno di produrre e più facilmente viene accettato ciò che sa
fare. Nelle realtà in cui vi sono bambini e ragazzi le persone con sindrome di Down
sembrano inoltre ulteriormente motivate.
-Inserimento nelle cooperative sociali. Si tratta di una realtà in progresso.
Migliaia sono i lavoratori in situazione di handicap inseriti. Tra questi molti con la
sindrome di Down.
La tipologia è estremamente diversificata. Quando il rapporto fra persone in
situazione di handicap e altri lavoratori tende ad essere paritario, si utilizza anche la
parola "integrate". I campi di occupazione privilegiata sono: agricoltura, produzione di
materiale per imballaggio, ceramica, falegnameria, manifatture, pulizie
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DIDATTICA GENERALE Dott.ssa Santoro A. La didattica