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Responsabilità del
datore di lavoro per i danni
provocati dai dipendenti
Laura Lamberti
Un rischio che non deve essere sottovalutato, nel quadro delle responsabilità verso
terzi e degli obblighi del veterinario titolare
di un ambulatorio e quindi di una propria
attività, è senza dubbio quello che riguarda
il comportamento dei dipendenti.
La norma di riferimento, per quanto concerne la responsabilità del datore per danni
provocati dal dipendente, è ancora oggi
l’articolo 2049 del codice civile: questo articolo, utilizzando un vocabolario per taluni
versi desueto, traccia una figura di responsabilità oggettiva affermando che del danno
cagionato dal commesso o dal domestico
nell’esercizio delle incombenze cui è adibito risponde il padrone o il committente.
Questa responsabilità applicata ai rapporti
cosiddetti di impresa sta a significare che
l’imprenditore, il quale sopporta il rischio
delle sua impresa, è responsabile dei danni
che vengono cagionati a terzi da soggetti
inseriti nell’organizzazione aziendale.
Più precisamente, per la sussistenza della
responsabilità dell’imprenditore ai sensi dell’art. 2049 c.c., non è necessario che le persone responsabili dell’illecito siano legate
all’imprenditore da uno stabile rapporto di
lavoro subordinato, ma è sufficiente che le
stesse siano inserite, anche se temporaneamente od occasionalmente, nell’organizzazione aziendale, ed abbiano agito, in questo contesto, per conto e sotto la vigilanza
dell’imprenditore (Cass. 09/08/04, n. 15362;
Cass., sez. III, 09/11/05 n. 21685).
Si prescinde quindi dalla continuità dell’incarico, nonché dal formalizzarsi di esso in
contratti di lavoro, di collaborazione o simili e si considera, pertanto, committente anche chi si avvale, nell’esecuzione di un determinato lavoro, dell’attività lavorativa di
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Veterinari e Diritto
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persona che, seppur nominalmente figurante alle dipendenze di altri, debba peraltro rispondere verso di lui (o verso entrambi) del proprio operato, senza che sia
necessario accertare (e qualificare) la natura del rapporto intercorrente tra l’effettivo
committente ed il datore di lavoro solo
nominale dell’ausiliario (Cass. 91/8668).
Gli elementi costitutivi della fattispecie sono dunque i seguenti: che il danno sia
materialmente attribuibile alla condotta del
dipendente (cosiddetto nesso di causalità); che sussista un vincolo di dipendenza (requisito da interpretarsi estensivamente così come sopra precisato) e che, infine,
sussista un rapporto di occasionalità
necessaria tra il fatto illecito e le incombenze cui era adibito il preposto.
In altre parole, in riferimento a quest’ultimo
requisito, l’esercizio delle mansioni del
dipendente deve aver reso possibile, o
comunque agevolato, il comportamento
produttivo del danno; anche se è opportuno sottolineare che non si deve individuare un preciso nesso di occasionalità necessaria, in quanto la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dal fatto doloso
o addirittura dal reato del dipendente, in
quanto tale fatto è strettamente pertinente
al “rischio di impresa”.
Pertanto, l’imprenditore deve rispondere
civilmente del danno subito dal terzo
anche se il dipendente ha operato oltre i
limiti dell’incarico - o persino trasgredendo gli ordini ricevuti o addirittura con dolo
- purché sempre nell’ambito dell’incarico
affidatogli, così da non configurare una
condotta del tutto estranea al rapporto di
lavoro, realizzata per finalità coerenti con
quelle in vista delle quali le mansioni gli
furono affidate e non per finalità proprie
alle quali il committente non sia, neppure
immediatamente, interessato o compartecipe (è stata, per esempio, esclusa la
responsabilità del proponente per il fatto
illecito commesso dopo la cessazione del
rapporto di preposizione. Cass. 98/6691).
Da un punto di vista strettamente giuridico,
si precisa che, anche se il titolo della
responsabilità è diverso per i commessi e
domestici e per i padroni e committenti
(trattandosi di colpa diretta per i primi e di
colpa in eligendo e di cosiddetto rischio
d’impresa per i secondi) l’unicità del fatto
illecito dannoso per i terzi determina la
solidarietà tra i vari soggetti obbligati verso
il danneggiato. Pertanto, l’obbligo di risarcimento che grava sul datore ha lo stesso
contenuto di quello dell’autore diretto del
danno e pertanto si estende eventualmente anche al maggior danno che spetta al
creditore a norma dell’art. 1224, 2° c., c.c.
(“Al creditore che dimostra di avere subito
un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento”).
Altri effetti della solidarietà tra i condebitori sono poi di tipo processuale: allorquando, infatti, il danneggiato proponga la domanda di risarcimento nei confronti del solo committente non è necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’autore del fatto (Cass. 72/1343).
Allo stesso modo, i condebitori ex art.
2049 c.c., i quali non abbiano partecipato
al giudizio conclusosi con la condanna di
alcuno di essi, possono sempre, sia nei
confronti del creditore che nei confronti
del coobbligato, dimostrare l’ingiustizia
della decisione, poiché essi, come terzi,
non sono obbligati a subirne l’autorità di
cosa giudicata (Cass. 73/1267).
Si segnalano, infine, relativamente al settore sanitario, delle sentenze secondo le
quali del danno subito dal paziente non
previamente informato dei rischi cui poteva incorrere risponde la struttura sanitaria,
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anche nel caso in cui non sia stato individuato il medico cui incombeva tale obbligo (Cass. 97/9374); nonché si evidenziano
delle massime dalle quali emerge che il
soggetto gestore della struttura sanitaria
(pubblica o privata) risponde altresì per i
danni che siano derivati al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa,
essendo irrilevante a questi fini il carattere
volontario ed obbligatorio del trattamento
sanitario praticato in concreto.
In queste ipotesi la responsabilità può
comportare un’obbligazione di risarcimento estesa non al solo danno patrimoniale
(art. 1223 c.c.), ma anche al danno biologico, e cioè al danno non patrimoniale
costituito dalle conseguenze pregiudizievoli per la salute derivanti dalle menomazioni fisiopsichiche prodotte dal comportamento inadempiente.
E inoltre, stante la configurabilità di un
reato ove la menomazione dell’integrità
psicofisica si renda riconducibile ad un
comportamento colposo, la conseguente
estensione della responsabilità anche al
danno morale (art. 2059 c.c. e art. 185 c.p.)
si configurerà anche a carico del soggetto
(pubblico o privato) gestore della struttura
sanitaria, costituendosi a criterio di imputazione (rispettivamente sulla base degli artt.
28 Cost. e 2049 c.c.) la circostanza che l’attività sanitaria rivolta all’adempimento del
contratto sia stata svolta dalle persone,
inserite nella propria organizzazione, di cui
il gestore si sia avvalso per renderla.
In particolare, per concludere, la giurisprudenza distingue in questi casi l’ipotesi in
cui il ricovero sia avvenuto presso una
struttura sanitaria gestita da un ente pubblico dal quella diversa in cui il paziente si
rivolga ad un soggetto privato: nel primo
caso, infatti, perché si renda imputabile
alla struttura la responsabilità civile conseguente del fatto-reato, si rende sufficiente
che il fatto si atteggi oggettivamente come
reato e che la condotta che ne contribuisca a costituire l’elemento oggettivo rappresenti una manifestazione del servizio di
cui il paziente è stato ammesso a fruire,
giacché, per imputare la responsabilità all’ente pubblico, basta che l’azione od omissione sia riconducibile ad un’attività di
un organo dell’ente (99/9198; 04/13066).
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