11-10-2007 12:57 Pagina 439 Responsabilità del datore di lavoro per i danni provocati dai dipendenti Laura Lamberti Un rischio che non deve essere sottovalutato, nel quadro delle responsabilità verso terzi e degli obblighi del veterinario titolare di un ambulatorio e quindi di una propria attività, è senza dubbio quello che riguarda il comportamento dei dipendenti. La norma di riferimento, per quanto concerne la responsabilità del datore per danni provocati dal dipendente, è ancora oggi l’articolo 2049 del codice civile: questo articolo, utilizzando un vocabolario per taluni versi desueto, traccia una figura di responsabilità oggettiva affermando che del danno cagionato dal commesso o dal domestico nell’esercizio delle incombenze cui è adibito risponde il padrone o il committente. Questa responsabilità applicata ai rapporti cosiddetti di impresa sta a significare che l’imprenditore, il quale sopporta il rischio delle sua impresa, è responsabile dei danni che vengono cagionati a terzi da soggetti inseriti nell’organizzazione aziendale. Più precisamente, per la sussistenza della responsabilità dell’imprenditore ai sensi dell’art. 2049 c.c., non è necessario che le persone responsabili dell’illecito siano legate all’imprenditore da uno stabile rapporto di lavoro subordinato, ma è sufficiente che le stesse siano inserite, anche se temporaneamente od occasionalmente, nell’organizzazione aziendale, ed abbiano agito, in questo contesto, per conto e sotto la vigilanza dell’imprenditore (Cass. 09/08/04, n. 15362; Cass., sez. III, 09/11/05 n. 21685). Si prescinde quindi dalla continuità dell’incarico, nonché dal formalizzarsi di esso in contratti di lavoro, di collaborazione o simili e si considera, pertanto, committente anche chi si avvale, nell’esecuzione di un determinato lavoro, dell’attività lavorativa di 10 / 439 Veterinari e Diritto 10_ottobre_2007_DEF.qxp 10_ottobre_2007_DEF.qxp 11-10-2007 12:57 Pagina 440 Veterinari e Diritto persona che, seppur nominalmente figurante alle dipendenze di altri, debba peraltro rispondere verso di lui (o verso entrambi) del proprio operato, senza che sia necessario accertare (e qualificare) la natura del rapporto intercorrente tra l’effettivo committente ed il datore di lavoro solo nominale dell’ausiliario (Cass. 91/8668). Gli elementi costitutivi della fattispecie sono dunque i seguenti: che il danno sia materialmente attribuibile alla condotta del dipendente (cosiddetto nesso di causalità); che sussista un vincolo di dipendenza (requisito da interpretarsi estensivamente così come sopra precisato) e che, infine, sussista un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto illecito e le incombenze cui era adibito il preposto. In altre parole, in riferimento a quest’ultimo requisito, l’esercizio delle mansioni del dipendente deve aver reso possibile, o comunque agevolato, il comportamento produttivo del danno; anche se è opportuno sottolineare che non si deve individuare un preciso nesso di occasionalità necessaria, in quanto la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dal fatto doloso o addirittura dal reato del dipendente, in quanto tale fatto è strettamente pertinente al “rischio di impresa”. Pertanto, l’imprenditore deve rispondere civilmente del danno subito dal terzo anche se il dipendente ha operato oltre i limiti dell’incarico - o persino trasgredendo gli ordini ricevuti o addirittura con dolo - purché sempre nell’ambito dell’incarico affidatogli, così da non configurare una condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro, realizzata per finalità coerenti con quelle in vista delle quali le mansioni gli furono affidate e non per finalità proprie alle quali il committente non sia, neppure immediatamente, interessato o compartecipe (è stata, per esempio, esclusa la responsabilità del proponente per il fatto illecito commesso dopo la cessazione del rapporto di preposizione. Cass. 98/6691). Da un punto di vista strettamente giuridico, si precisa che, anche se il titolo della responsabilità è diverso per i commessi e domestici e per i padroni e committenti (trattandosi di colpa diretta per i primi e di colpa in eligendo e di cosiddetto rischio d’impresa per i secondi) l’unicità del fatto illecito dannoso per i terzi determina la solidarietà tra i vari soggetti obbligati verso il danneggiato. Pertanto, l’obbligo di risarcimento che grava sul datore ha lo stesso contenuto di quello dell’autore diretto del danno e pertanto si estende eventualmente anche al maggior danno che spetta al creditore a norma dell’art. 1224, 2° c., c.c. (“Al creditore che dimostra di avere subito un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento”). Altri effetti della solidarietà tra i condebitori sono poi di tipo processuale: allorquando, infatti, il danneggiato proponga la domanda di risarcimento nei confronti del solo committente non è necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’autore del fatto (Cass. 72/1343). Allo stesso modo, i condebitori ex art. 2049 c.c., i quali non abbiano partecipato al giudizio conclusosi con la condanna di alcuno di essi, possono sempre, sia nei confronti del creditore che nei confronti del coobbligato, dimostrare l’ingiustizia della decisione, poiché essi, come terzi, non sono obbligati a subirne l’autorità di cosa giudicata (Cass. 73/1267). Si segnalano, infine, relativamente al settore sanitario, delle sentenze secondo le quali del danno subito dal paziente non previamente informato dei rischi cui poteva incorrere risponde la struttura sanitaria, 10 / 440 anche nel caso in cui non sia stato individuato il medico cui incombeva tale obbligo (Cass. 97/9374); nonché si evidenziano delle massime dalle quali emerge che il soggetto gestore della struttura sanitaria (pubblica o privata) risponde altresì per i danni che siano derivati al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa, essendo irrilevante a questi fini il carattere volontario ed obbligatorio del trattamento sanitario praticato in concreto. In queste ipotesi la responsabilità può comportare un’obbligazione di risarcimento estesa non al solo danno patrimoniale (art. 1223 c.c.), ma anche al danno biologico, e cioè al danno non patrimoniale costituito dalle conseguenze pregiudizievoli per la salute derivanti dalle menomazioni fisiopsichiche prodotte dal comportamento inadempiente. E inoltre, stante la configurabilità di un reato ove la menomazione dell’integrità psicofisica si renda riconducibile ad un comportamento colposo, la conseguente estensione della responsabilità anche al danno morale (art. 2059 c.c. e art. 185 c.p.) si configurerà anche a carico del soggetto (pubblico o privato) gestore della struttura sanitaria, costituendosi a criterio di imputazione (rispettivamente sulla base degli artt. 28 Cost. e 2049 c.c.) la circostanza che l’attività sanitaria rivolta all’adempimento del contratto sia stata svolta dalle persone, inserite nella propria organizzazione, di cui il gestore si sia avvalso per renderla. In particolare, per concludere, la giurisprudenza distingue in questi casi l’ipotesi in cui il ricovero sia avvenuto presso una struttura sanitaria gestita da un ente pubblico dal quella diversa in cui il paziente si rivolga ad un soggetto privato: nel primo caso, infatti, perché si renda imputabile alla struttura la responsabilità civile conseguente del fatto-reato, si rende sufficiente che il fatto si atteggi oggettivamente come reato e che la condotta che ne contribuisca a costituire l’elemento oggettivo rappresenti una manifestazione del servizio di cui il paziente è stato ammesso a fruire, giacché, per imputare la responsabilità all’ente pubblico, basta che l’azione od omissione sia riconducibile ad un’attività di un organo dell’ente (99/9198; 04/13066).