1
La legge: continuità e discontinuità
Lex: sostanza/forma
Tommaso d’Aquino (sec.XIII.2)
Lex: ordinamento della ragione rivolto al bene comune, proclamato da colui che ha il governo di
una comunità.
Michel de Montaigne (sec.XVI.2)
Le leggi si mantengono in credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi.
È il fondamento mistico della loro autorità; non hanno altro fondamento, ed è bastante. Spesso sono
fatte da sciocchi.
Chi obbedisce loro per il motivo che sono giuste, non dà loro l’obbedienza dovuta.
Jean Bodin (sec.XVI.2)
C’è molta differenza tra il diritto e la legge:
il primo registra fedelmente l’equità;
la legge, invece, è soltanto comando di un sovrano che esercita il suo potere.
Georges Ripert (1949)
Quando il potere politico si manifesta in leggi che non sono più l’espressione del diritto, la società è
in pericolo.
2
Tavola degli argomenti
Istituzioni
Norme
Giuristi
Pensiero
giuri-dico
Economia
V-XI
XII-XV
XVI-XVIII
XIX-XX
Alto Medio Evo
Basso Medio Evo
Età Moderna
Età Contemporanea
1. Fine dell’Impero Romano. Regni dei popoli 2. Comuni. Signorie. Regna
barbari (Longobardi, Franchi etc.)
3. Nascita degli Stati nazionali
4. Rivoluzione Francese.
Stato Borghese
7. Leggi nazionali. Consolidazioni
8. Codificazioni.
della codificazione
11. Diffusione delle università, ulteriore aumento della
circolazione del sapere giuridico a livello europeo
(stampa). Sviluppo e affermazione dei grandi tribunali.
Signori del diritto sono il professore e l’alto magistrato
12. Scuola
storica.
Pandettistica.
Scuola
dell’Esegesi. Naturalismo.
Marxismo
15. Ulteriore incremento della intrusione del potere
pubblico statuale nella regolamentazione di tutti gli aspetti
della vita dei consociati. Graduale assorbimento degli enti
dotati di autonomia normativa e giurisdizionale nelle
maglie dell’organizzazione statuale. L’Umanesimo
giuridico. Non esiste il monopolio della produzione
normativa. La scoperta di nuovi mondi mette in crisi il
diritto formatosi e sviluppatosi per l’Europa cristiana:
Seconda scolastica e Giusnaturalismo
17. Predominio assoluto della foresta e 18. Le nuove tecniche di produzione agricola e le 19. Il mercato assume dimensioni intercontinentali.
dell’incolto. Assenza o marginalità del mercato. altre innovazioni tecniche liberano ampie fasce di Compagnia delle Indie
Si produce per il proprio consumo o per una popolazione dalle campagne. Massiccio fenomeno di
urbanizzazione. Le città come luogo del mercato.
ristretta cerchia di consumatori
Corporazioni e mercanti
16. Unificazione
del
soggetto giuridico: tutti
sono uguali davanti alla
legge. Si afferma il
monopolio
della
produzione normativa
5. Compilazione giustinianea (sintesi della
tradizione giuridica romana: iura e leges). Leggi
dei barbari (Edicta longobardi, Capitolari
franchi). Consuetudini
9. Crisi della scientia iuris romano-classica. Il
diritto non è una scienza autonoma, ma è una
branca del sapere enciclopedico. Il giurista non è
una figura autonoma di professionista
intellettuale. Scarsa circolazione del sapere
giuridico. Signore del diritto è il notaio
13. Primitivismo (il diritto viene su dalle cose:
incapacità di oggettivizzare i rapporti giuridici).
Dominio della consuetudine. Sostanziale
indifferenza del potere politico per la
regolamentazione dei rapporti tra privati. Il
potere politico si limita a dare norme che
regolano le istituzioni pubbliche. Non esiste il
monopolio della produzione normativa
6. Riscoperta e restauro del diritto giustinianeo.
Collezioni private e pubbliche di diritto canonico.
Decretum, Liber Extra, ecc. Nascita del Ius
Commune. Autonomia normativa degli enti
particolari: statuti e leggi regie. Consuetudini.
10. Nascita delle Università e della scienza giuridica
con un proprio statuto epistemologico. Circolazione
del sapere giuridico (manoscritti, studenti e
professori). Signore del diritto è il professore di
diritto
14. La scienza giuridica riscopre la tradizione
giuridica romana e la reinterpetra creativamente.
Nascita del Ius Commune. Fine del primitivismo. Il
potere
politico
interviene
anche
nella
regolamentazione
dei
rapporti
tra
privati.
Consuetudine. Realtà pluriordinamentale. Non esiste
il monopolio della produzione normativa
Crisi
20. Globalizzazione
dell’economia.
Dalla
società agricola alla società
post-industriale.
Nascita
della Lex mercatoria
3
GIUSTINIANO E LA SUA COMPILAZIONE
Glossario
Molteplicità degli organi di produzione del diritto:
- LEGES: norme approvate dal popolo nei comizi
- PLEBISCITA: norme prodotte dalle assemblee dei plebei
- AUCTORITAS PRUDENTIUM: libera attività creatrice della giurisprudenza
- SENATUSCONSULTA: potestà normativa del Senato
Sistema dello Stato romano classico
Iniziatosi fin dagli albori del principato, si era andato compiendo quel processo di unificazione delle fonti del diritto
che aveva finito per portare all’affermazione del concetto nuovissimo del CAPO DELLO STATO UNICO ORGANO
DI PRODUZIONE DEL DIRITTO
Processo di unificazione delle fonti del diritto
Nell’età classica le manifestazioni normative del Princeps, considerato ancora come magistratus, rientravano nel più
lato concetto di ius honorarium, contrapposte alle leges (norme approvate dal popolo nei comizi)
LEGES= le costituzioni imperiali
IURA= l’opera della giurisprudenza
Ribaltamento della dottrina classica delle fonti del diritto
Iura
manifestazione dell’equità pretoria o di quella giurisprudenziale
Ius vetus, concentrato della tradizione
Leges
espressioni della volontà imperiale
Ius novum, aggiornamenti alle nuove
istanze
Rationes, principi normativi idonei all’applicazione nella prassi (editti
pretorii fondati sull’imperium dei magistrati e pareri dei giureconsulti)
Ius respondendi
Privilegio concesso ad alcuni giuristi dal sovrano (forse già all’epoca di Augusto) di dar pareri per la soluzione
giudiziale delle controversie.
I pareri sono formalmente non vincolanti ma dotati comunque di un’autorevolezza assai vicina a quella della legge.
La concessione del ius respondendi rendeva il giurista partecipe dell’auctoritas del concedente. Nerone ritenne lesivo
del proprio monopolio dell’interpretatio iuris il ius respondendi: ma lo stesso ius respondendi poteva essere uno
strumento per imbrigliare e controllare l’interpretatio. Anche il coinvolgimento dei giuristi nella alta burocrazia
imperiale poteva imbrigliare l’autonomia degli stessi. I giuristi dell’entourage dell’imperatore non saranno più artefici
di iura ma compilatori di leges.
Legge delle citazioni: Valentiniano III 426
Valentiniano III promulga la legge delle citazioni. Le opinioni di Gaio, Modestino, Ulpiano, Papiniano e Paolo, qualora
concordi, dovevano avere valore vincolante. Se i pareri fossero stati discordi doveva prevalere l’opinione
maggioritaria. Quando vi fosse stata parità numerica doveva prevalere l’opinione di Papiniano. Anche altri giuristi
eventualmente citati da questi 5 potevano essere allegati in giudizio purché se ne esibissero i testi originali.
La formazione della compilazione giustinianea
I precedenti
Codex Gregorianus
292-293 ambiente: Oriente, Nicomedia, Berito; costit. da Adriano (117-138) in poi
Codex Ermogenianus
293-294 rescritti dioclezianei
Codex Teodosianus
progettato nel 435 in vigore dal 439; costituzioni generali e locali da Costantino in poi.
Teodosio elimina tutte le costituzioni invise alla Chiesa; 16 libri; include la legge delle citazioni
4
L’imperatore
Giustiniano (482-565), imperatore dall’1 aprile 527 al 565, anno della sua morte
Il Programma politico
a)
codificazione per rigenerare l’ordinamento e garantire la certezza del diritto
b)
restaurazione armata dell’Impero entro confini espressivi dell’universalità secolare (vittoria cattolica su regni
barbarici ariani)
c)
unificazione del cristianesimo settario ed eretico
Le vicende della formazione
528, 13 febbraio:
529, aprile:
530, 15 dicembre:
532, 11 gennaio:
533, 16 dicembre:
533, 23 novembre:
534, 16 novembre:
535-565
incarico alla commissione presieduta dal magister officiorum Triboniano e composta da 9
giuristi (8 burocrati e un professore, Teofilo) per aggiornare i codici Gregoriano
Ermogeniano e Teodosiano
il Codice entra in vigore. Significato della legge delle citazioni di Valentiniano (426)
contenuta nel Codex: sino al 529 Giustiniano non aveva ancora deciso la compilazione dei
Digesta
Triboniano ora divenuto quaestor sacri palatii, coordina il progetto di stesura di un
templum iustitiae idealmente cinto di mura costituito da iura scelti ufficialmente e
aggiornati. Sorprende la rapidità con cui 10000 pezzi di una quarantina di giuristi scelti
non solo tra quelli dotati di ius respondendi sia stata sistemata in una imponente raccolta di
50 libri.
Probabilmente il materiale circolava già organizzato per masse omogenee (si ipotizzano una
raccolta di commenti a Sabino e una agli editti pretorii, una silloge delle opere di Papiniano
e un quarto gruppo disorganico di spezzoni)
insurrezione di Nika. Si scontra il demo verde (eretici monofisiti, borghesia cittadina e
commerciale) con quello azzurro (cattolici ortodossi, latifondisti) in occasione dello
spettacolo delle corse. La rivolta dura circa una settimana e conduce alla destituzione del
praefectus urbis Giovanni di Cappadocia (ministro dell’interno) e del quaestor sacri
palatii Triboniano (ministro della giustizia). Ma si giunge alla destituzione dello stesso
imperatore che decide di fuggire al di là del Bosforo. Teodora riesce a intervenire e a
salvare la situazione affidando il comando militare a Belisario e al capitano degli Illiri che
soffocano nel sangue la rivolta e restaurano Giustiniano.
la raccolta dei Digesta è compiuta ed entra in vigore già il 30 dicembre dello stesso anno.
Promulgazione delle Institutiones: manuale per la scuola di diritto. Sulla falsariga delle
Istituzioni gaiane l’opera fu scritta, sotto il coordinamento del solito Triboniano, da Teofilo
e Doroteo (due libri ciascuno). È un manuale con forza di legge perché venne promulgato
al pari di Codex e Digesta.
promulgazione della nuova versione del Codex, resa necessaria dalla presenza dei Digesta
che imponeva un nuovo e migliore coordinamernto tra iura e leges; inoltre negli anni tra il
527 e il 533 Giustiniano aveva prodotto nuove leggi che era importante coordinare con il
Codex.
Le Novellae, già previste nel Codex, vennero promulgate via via fino all’anno della morte
dell’imperatore (565). Ne sono pervenute tre versioni:
— la collezione greca (la più ricca), opera privata, composta da 168 pezzi (di cui 158 di
Giustiniano);
— l’Epitome Iuliani, anche essa opera di un privato, Giuliano professore a Costantinopoli,
riassume 124 costituzioni (probabilmente la prima redazione fu in lingua greca, ma la
tradizione vuole che venne tradotta in latino su richiesta della Chiesa di Roma);
— l’Authenticum, ufficiosa, in latino, composta di 134 novelle.
Giustiniano e la scuola di diritto
5
Scuola:luogo di formazione di bravi giuristi per la corretta applicazione del nuovo ordinamento.
Riforma didattica (const. Omnem del 15 dicembre 533) corso di studi in 5 anni
(1 anno di introduzione elementare, tre anni di Digesta, 1 anno di Codice)
Visione piramidale:
Base: introduzione alle istituzioni del diritto;
corpo centrale: iura tradizionali;
vertice: onnipotenza legislativa dell’imperatore.
Codex
Digesta
Istituzioni
Const. Omnem, §§. 6-7:
Agli studenti, dunque, non si nasconda niente di tutto ciò; ma, quando abbiano studiato tutti i libri composti per opera
dell’eminente Triboniano e degli altri (commissari), si riconosceranno essere oratori massimi e servitori della giustizia
(oratores maximi et iustitiae satellites): nei processi saranno egualmente ottimi come avvocati e come giudici, uomini di
successo (felices) sempre e dovunque.
Desideriamo che questi tre libri che abbiamo composto siano insegnati agli studenti, come è stato ordinato anche dai
precedenti imperatori, solo nelle città regie e nell’eccellente civitas di Berito, che bene potrebbe essere chiamata la
nutrice delle leggi, e non nelle altre città che non hanno guadagnato questo privilegio dai nostri predecessori. Diciamo
questo perché abbiamo udito che anche nella splendida città di Alessandria e a Cesarea ed altrove ci sono uomini privi
di qualificazione (imperiti) che tengono corsi non autorizzati e impartiscono una dottrina adulterina ai loro allievi.
Li ammoniamo a cessare da tali tentativi, sotto la minaccia che se oseranno compiere tali atti in futuro, e al difuori delle
città regie e della città metropolitana di Berito, saranno puniti con una multa di dieci denari d’oro e saranno espulsi
dalla città in cui violano la legge piuttosto che insegnarla.
Istituzioni di Giustiniano
1.1 pr.: La giustizia è la costante e sempre ferma volontà di attribuire a ciascuno ciò che gli spetta.
1.1.1. La giurisprudenza è la conoscenza delle cose divine ed umane, la scienza del giusto e dell’ingiusto.
1.1.3. I precetti del diritto sono questi: vivere onestamente; non offendere chicchessia, attribuire a ciascuno ciò che gli
spetta.
1.1.4: Due sono le principali divisioni di questo studio: diritto pubblico e diritto privato. Il diritto pubblico è quello che
riguarda lo stato del governo di Roma; il privato è quello che attiene agli interessi dei singoli: è da trattarsi dunque del
diritto privato che consta di tre fonti, i precetti del diritto di natura, del diritto delle genti, del diritto civile.
1.2 pr.: Il diritto naturale è quello che la natura ha ispirato a tutti gli animali: infatti tale diritto non è esclusivo del
genere umano, ma appartiene a tutti gli animali che ricevono vita in cielo, in terra e in mare.
1.2.1. ... Tutti i popoli si governano con leggi o con consuetudini. …Quel diritto poi che la ragione naturale ha stabilito
tra tutti gli uomini è in uguale osservanza tra tutti i popoli e si chiama diritto delle genti
1.2.2. Il diritto civile poi riceve la sua denominazione da ciascuna città. Così noi chiamiamo diritto civile dei Romani
quello di cui il popolo romano usa...
7
La tradizione della compilazione giustinianea
anni
292-295
529-565
sec. XII
fonti
tradizione
codici Gregoriano ed Ermogeniano
Compilazione Giustinianea
Restauro irneriano
manoscritti
1872-1895
sec. XVXVI
Vulgata Edizione critica
stampa
Tradizione manoscritta altomedievale
Littera pisana o florentina. Codici medievali
Edizioni a stampa. Incunaboli e cinquecentine. Vulgata
Edizione critica: Mommsen Krüger Schoell Kroll (1872-1895)
Digestum:
Codex:
Mommsen Krüger (1872)
Krüger (1877)
Florentina e altri 5 mss
15 mss
altre opere pregiustinianee
Institutiones
Krüger (1872)
9 mss
Lex romana canonice compta e Collectio
canonum Anselmo dedicata
Novellae
Schoell Kroll (1895)
circa 20 manoscritti
Giustiniano chiuse il dualismo tra leges e iura
Gli iura appartengono alla tradizione occidentale (si pensi al Breviarium Alaricianum e alla Lex Romana Wisigothorum ecc) anche se poi fu Giustiniano ad erigere loro il
monumento massimo: i Digesta.
Lo spostamento dell’asse ordinamentale sulle leges è invece dovuto all’Oriente: Diocleziano con Nicomedia e Costantino con Costantinopoli spostano definitivamente in Oriente il
centro dell’Impero romano: le costituzioni generali prevalgono ora sui rescritti imperiali (che evocavano un’origine magistratuale del potere imperiale). Giustiniano trasforma in
leges gli stessi iura con la promulgazione dei Digesta.
La codificazione (non in senso illuministico, ma nel senso di reductio ad codicem) consiste non nel rinnegare il passato, ma nell’aggiornarlo e modificarlo per il presente. I codici
sono collezioni di norme vecchie e nuove, quasi antologie sistemate organicamente.
Le Sententiae di Paolo confluiscono nel Breviarium Alaricianum del 506.
All’età costantiniana risalgono i Fragmenta vaticana e i Tituli ex corpore Ulpiani
Altra antologia di Iura è la Collatio legum mosaicarum et romanarum o Lex Dei (scritta da un ebreo o da un cristiano): mancano le costituzioni costantiniane. Risale o al IV o al V
secolo
Chiesa e Impero in età tardo antica
Costantino
Religione di successo come possibile cemento per tenere insieme i pezzi di un impero in disgregazione
Permette di utilizzare un culto orientale come forza centripeta da opporre alle forze centrifughe divenute micidiali per
l’Impero
La religione universale sostituisce l’ideale glorioso, ma ormai svalutatao, dell’Urbs Caput Mundi
Il cristianesimo, religione di stato dal 380, dà un’anima unitaria alla babele di lingue, di culture, di credenze in cui
l’Impero stava naufragando
Editto del 313: «…ut daremus christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset»
Nonostante il testo non c’è una indifferenza, né una neutralità dell’imperatore nei confronti della religione
Alcuni privilegi costantiniani: l’episcopalis audientia; la manumissio in ecclesia; il riconoscimento per la chiesa di
essere istituita erede (donazioni “pro anima”)
La Chiesa tra libertà di organizzazione e pericoli di cesaropapismo
Il diritto del tardo-Impero e la Chiesa
Diritto divino e diritto umano
Le fonti del diritto umano-ecclesiastico
L’organizzazione ecclesiastica
La Diocesi
LA CHIESA E LA VISIONE IDEALE DELL’IMPERO
Negli ambienti intellettuali cristiani la missione di Roma fu vista sotto una luce nuova.
L’Impero appariva come uno strumento della pace universale, come il presupposto e come il risultato del propagarsi
della parola di Cristo.
Per lo spagnolo Prudenzio, Dio aveva voluto associare popoli diversi, ma accomunati da una fede comune: “Sinora la
terra intera da oriente a occidente è stata straziata da una guerra continua. Per reprimere questa follia il Signore insegnò
alle nazioni ad ubbidire alle medesime leggi e a diventare tutte romane”
L’AMMIRAZIONE DEI CONTEMPORANEI PER LA MIRABILE COSTRUZIONE POLITICO-GIURIDICA
DELL’IMPERO ERA IN CONSONANZA CON LA MISSIONE UNIVERSALE DELLA CHIESA ROMANA
Per Ambrogio (vescovo di Milano) l’esistenza stessa dell’Impero aveva reso possibile la missione universale degli
apostoli
Istituti di origine costantiniana
Episcopalis Audiencia
Più che una vera e propria giurisdizione legittimata a sostituire la giurisdizione del giudice naturale, è un itpo di
arbitrato che il diritto romano usava accordare con maggiore o minore larghezza ai vari culti. Sono escluse le cause
penali.
Manumissio in ecclesia
Deriva dalla Manumissio inter amicos
Donationes pro anima
Consentite solo ai cattolici ed escluse per gli altri cristiani: per gli eretici e gli scismatici addirittura si negava la
capacità patrimoniale
In controtendenza- Duplicità religiosa dell’Imperatore
Festività dei dies solis
Consecratio di Costantinopoli (330) con i riti pagani
Il paganesimo restava inglobato nel diritto pubblico romano
Concilio di Nicea (325)
L’imperatore convoca il concilio e vi partecipa per opportunità politica
Il papa Silvestro è rappresentato da due preti
Il concilio però riconosce una preminenza del Vescovo di Roma e dei patriarchi di Antiochia e di Alessandria (prima
organizzazione gerarchica della chiesa universale)
La Chiesa si preoccupa di fissare i dogmi, condannando l’arianesimo (solo Dio ha natura divina, non anche il Figlio
che è creatura, pur voluta dal Padre ante omnia saecula) e sancendo la consustanzialità del Padre e del Figlio (estesa
allo Spirito Santo nel concilio di Costantinopoli del 381)
Attraverso un processo lento e travagliato, grazie a una dialettica costante espressa negli innumerevoli concili, la
Chiesa edifica il suo patrimonio dogmatico chiarendo i dubbi e combattendo le eresie che nascevano dallo spirito
bizantino, quasi morbosamente avvezzo alla discettazione sull’inconoscibile (delirio per la teologia)
L’autorità dell’Imperatore sulla Chiesa-Istituzione può riflettersi anche sul piano dogmatico
V’è un costante timore della gerarchia cattolica nei confronti del monarca. Questi è infatti in grado di attribuire la
patente di cattolicità a questa o a quella teoria dogmatica
NASCE LA RESISTENZA AL CESAROPAPISMO:
sul piano organizzativo i poteri dello stato sono indiscutibili
sul piano del dogma e del magistero va riconosciuto il monopolio della gerarchia cattolica
Per i cattolici Costantino era Episcopus externus
Per gli ariani Costante II (figlio di Costantino) era episcopus episcoporum
28 febbraio 380 Teodosio I il grande
Editto di Tessalonica: Tutti i sudditi dell’Impero devono seguire la fede che l’apostolo Pietro aveva insegnato ai
romani e devono professarla come la professano il Vescovo di Roma Damaso e il Vescovo di Alessandria Pietro. Il
cattolicesimo niceno romano diventa religione di stato
Rapporti tra Chiesa e Impero
Ambrogio e Teodosio I
L’Imperatore, non l’Impero, si colloca dentro, e non sopra, la Chiesa
Il Sacro Magistero è indipendente da qualsiasi potere e tutti (anche l’imperatore) gli sono soggetti
La Chiesa Istituzione è invece inglobata nell’Impero e deve obbedire all’Imperatore e osservarne le leggi
Ecclesia intra Imperium — Imperator intra Ecclesiam
Gelasio I (492-496)
Papato - Impero:
All’Impero sono sottomessi in temporalibus l’istituzione ecclesiastica e i fedeli; alla Chiesa sono
assoggettati tutti in spiritualibus
Vescovo di Roma - Patriarca di Costantinopoli
Nel secondo concilio Romano del 495 si fa acclamare Vicarius Christi dai vescovi per ribadire la
superiorità di Roma sul Patriarcato di Costantinopoli (messa in dubbio dal concilio di Calcedonia
del 451 che aveva esteso la dignità del Vescovo di Roma a quello della seconda Roma
Lettera all’Imperatore Anastasio (494): Duo quippe sunt quibus principaliter mundus hic regitur:
Auctoritas sacrata pontificum et Regalis potestas
Auctoritas = fonte di legittimazione degli atti (garanzia di corrispondenza del precetto eticoreligioso alla verità)
Potestas = forza giuridicamente vincolante di comportamenti esterni
GIUSEPPE SPECIALE
A proposito di retorica e diritto
Impiegherò i venti minuti, che il calendario dei lavori e il presidente mi hanno assegnato, per
provare a tracciare alcune linee, solo alcune linee, di quel complesso rapporto che lega retorica e
diritto lungo tutta la storia della nostra esperienza giuridica europea.
Secondo la suddivisione proposta da Crisippo e ripresa da Cornificio autore della Rhetorica ad
Herennium, probabilmente nel sec. I a.C., l’esposizione di una materia in un testo compiuto si articola
in tre fasi strettamente collegate fra loro: inventio, dispositio, elocutio.
• L’inventio è la ricerca e il ritrovamento delle idee, degli argomenti, dei sentimenti e delle
immagini adatti al tema da svolgere.
• La dispositio è il lavoro di scelta e di ordinamento dei contenuti offerti dall’inventio.
Già nella dispositio possono utilizzarsi figure e attuarsi mutamenti artistici dell’«ordine
naturale»: per esempio, la narrazione degli avvenimenti può disporsi in un ordine diverso da quello
dello svolgimento cronologico.
• L’elocutio è l’espressione verbale: qui intervengono le figure, con il fine di produrre effetti
di sorpresa, vivacità ed efficacia rappresentativa, gradevolezza, o in generale «straniamento», cioè
improvviso aumento dell’attenzione intellettuale ed emotiva dovuto a un’esperienza inconsueta.
Nella dispositio del mio discorso è ora opportuno fissare alcuni punti che ho individuato nella
fase, solo logicamente distinta, della inventio. Per fissare questi punti mi avvarrò di distinctiones, figure
tanto care ai giuristi e così frequenti nelle scuole medievali, utili a contrapporre e distinguere per
definire:
• Nella contrapposizione tra poetica e retorica
La poetica è l’Arte del discorso poetico. La retorica è l’Arte del discorso prosastico
• Nella contrapposizione tra discorso ordinario naturale non ornato e discorso artificioso
ornato artistico
La retorica è Arte del discorso ornato, arte innanzitutto del discorso oratorio.
• Nella contrapposizione tra retorica e ermeneutica
La retorica è Scienza della generazione del testo. L’ermeneutica è Scienza della comprensione,
dell’interpretazione del testo.
La retorica è quindi l’insieme di regole del meccanismo di generazione del testo: la retorica
pertanto è rivolta al parlante, a colui che produce, genera il testo, non all’ascoltatore. È rivolta ai
dotti che generano il testo, non alla massa che deve ascoltarli.
(Conduplicatio (nella contrapposizione…, la retorica è scienza, è arte…): ripetizione delle stesse
parole allo scopo di rafforzare il concetto e di ‘commuovere’ l’uditorio).
Queste distinzioni definitorie, sia pure elementari e semplificative, forse al limite dell’ovvietà,
quasi della banalità, questi significati che abbiamo schematicamente richiamato, ci conducono
direttamente al cuore del nostro tema e riflettono le diverse anime che la retorica ha assunto nel
corso di duemila e cinquecento anni.
La retorica, come scienza della generazione del testo, dispiega tutta la sua efficacia
nell’ordinare il testo generato. Dato un testo A, generato, è senz’altro vero che la retorica riguarda la
generazione e non la comprensione, l’ermeneutica, del testo A. Ma è altrettanto vero che riguarda,
genera e ordina anche il testo B che, eventualmente, interpreti il testo generato A. Da qui la
pervasività della retorica in quel groviglio di pratiche discorsive che danno vita all’esperienza
giuridica: prassi normative, giudiziali, interpretative etc. Tutte prassi che vivono dei testi e si agitano
nei testi. La scansione, all’interno di un testo, dei tre momenti dell’inventio, della dispositio e della
elocutio, esemplifica efficacemente la funzione ordinante della retorica e, ciò che più importa,
1
evidenzia la non neutralità di nessuno di questi tre momenti rispetto al contenuto, ai fini e alla ratio
del testo stesso.
Del resto, nello strumentario metodologico dello scienziato giurista, così come si costruisce
nella esperienza giuridica europea a partire dal secolo XI-XII, un posto assolutamente rilevante
occupano proprio le arti liberali del trivio, grammatica, dialettica e retorica, appunto. Anzi, per gli
addetti ai lavori, per gli storici del diritto, il segno della rinascita, della nascita della scienza giuridica,
è proprio il nuovo gusto per l’ars dictaminis che si riscontra nei rinnovati schemi giuridici negoziali e
processuali del secolo XI. Se vogliamo avvalerci di un esempio, può in qualche modo dirsi che nel
secolo XI il bagaglio metodologico del vecchio maestro di arti liberali entra in quello del nuovo
giurista come qualche decennio fa quello del vecchio ingegnere elettronico o del fisico o del
matematico è entrato in quello del nuovo informatico.
Ma ciò che qui voglio offrire alla vostra attenzione non è solo il dato, di facile, quasi ovvia,
constatazione, che la retorica permea di sé tutti i ragionamenti dei giuristi. Fermarsi a questa
constatazione equivarrebbe a dire: i discorsi dei giuristi, giudici, avvocati, funzionari, professori,
notai, legislatori, sono discorsi strutturati, devono esserlo, secondo i dettami della retorica. Questo è
senz’altro vero: i giuristi creano norme, le applicano, le interpretano, le interpretano comunque,
sempre. Devono convincere e ottenere il consenso della comunità, almeno il consenso degli altri
giuristi con cui interagiscono. Non possono ignorare i dettami della retorica. È un dato di fatto, è
quasi banale sottolinearlo e soffermarvisi.
Qui si vuole dire di più. Qui si vuole dire che la retorica dispiega la sua efficacia ordinante nel
discorso dei giuristi ad un livello più alto di quello che attiene alla logica formale del discorso stesso.
Qui si vuole sostenere che la forza ordinante della retorica si tramuta in qualche modo in forza
creatrice dell’interpretazione, concorre in una parola a creare diritto.
È utile che io richiami qui alla vostra attenzione alcuni significati che la poetica e la semiotica
oggi assegnano alla retorica:
• Significato linguistico
La retorica è la disciplina che riguarda le regole di costruzione del discorso a livello transfrastico, del discorso come struttura della narrazione ai livelli superiori alla frase.
• Significato semantico-poetico
La retorica è la disciplina che studia i tipi dei significati traslati, la cd. Retorica delle figure
(metafora, metonimia, sineddoche etc).
• Significato di retorica come poetica del testo
La retorica è la disciplina, branca della poetica, che studia i rapporti intratestuali e il
funzionamento sociale dei testi come formazioni semiotiche unitarie.
(Conduplicatio (significato…, disciplina…): ripetizione delle stesse parole allo scopo di
rafforzare il concetto e di ‘commuovere’ l’uditorio)
Tutti e tre questi significati, linguistico, semantico-poetico, poetica del testo, conducono
ancora una volta al complesso e unitario fenomeno della generazione dei testi.
Esistono due tipi di generatori di testi: conseguentemente esistono due tipi di testi
• Un testo discontinuo, fondato sul meccanismo della discontinuità, formato da segmenti
discontinui, ma collegati. In questo testo il principale portatore del significato è il segmento, mentre
la catena dei segmenti, il testo cioè nel suo complesso, è secondaria e il suo significato, cioè il
significato del testo, deriva dal significato dei segmenti.
• Un testo continuo, fondato sul meccanismo della continuità. In questo testo il significato
è spalmato sul testo nel suo complesso, è il testo nel suo complesso il portatore del significato, e
l’enucleazione dei segni costitutivi del testo risulta difficile e artificiosa.
Ora il giurista — il giurista inteso come l’intellettuale che per il fatto di assumere a oggetto
esclusivo della sua attenzione il diritto, si afferma come una figura professionale e intellettuale
autonoma — il giurista inteso come l’interprete del diritto — funzionario, giudice, notaio,
professore, avvocato — si trova a dovere interpretare il diritto. Si trova cioè di fronte ad un testo da
interpretare.
Meglio, si trova di fronte a DUE testi da interpretare.
• Il testo ‘A’ è il testo che contiene e descrive il diritto che deve applicarsi in quel caso.
2
• Il testo ‘B’ è il testo che descrive il fatto, la realtà che il diritto del testo ‘a’ deve andare a
regolare.
Nel mezzo il giurista.
A mediare tra due testi.
A mediare tra storia e valori.
La storia che si è sedimentata nel testo della regola e i valori che si agitano nella società, per
esempio.
Quando i due testi — ed è sempre, o quasi, così — non sono omogenei, perché uno è
fondato sul meccanismo della continuità, e l’altro è invece discontinuo, si crea una situazione di
incompatibilità e di intraducibilità. Quando si giustappongono questi due diversi tipi di testo,
all’unità precisamente designata di un testo corrisponde, nell’altro, «una macchia semantica dai
confini sfumati e con passaggi graduali nella sfera di un altro senso… in queste condizioni sorge la
situazione dell’intraducibilità, ma proprio qui i tentativi di traduzione si realizzano con particolare
tenacia e danno i risultati più preziosi. In questo caso si ha non la traduzione esatta, ma
un’equivalenza approssimativa e condizionata da un contesto psicologico culturale e semiotico
comune a entrambi i sistemi. Questa traduzione irregolare e inesatta, ma in un certo senso
equivalente, costituisce un elemento essenziale di ogni pensiero creativo. Sono proprio questi
accostamenti “irregolari” a dare impulsi per la nascita di nuovi legami semantici e di testi
radicalmente nuovi. Una coppia di elementi significanti reciprocamente inconfrontabili, tra i quali
nell’ambito di un contesto si stabilisce un rapporto di adeguazione, forma un tropo semantico. I
tropi non sono un ornamento esteriore, qualcosa che viene applicato all’idea dal di fuori, ma
costituiscono l’essenza del pensiero creativo, e la loro sfera è persino più ampia dell’arte. Essa
appartiene alla creazione in generale… Ed esattamente come nella poesia, nella scienza
l’accostamento irregolare spesso agisce come impulso per la formulazione di una nuova regolarità».
La retorica è una componente essenziale della scienza giuridica. Non è un accessorio del
giurista. Non è qualcosa di cui può fare a meno il giurista, e uso questo termine nel senso lato che
ho illustrato. Fortemente tributaria delle arti del trivio, grammatica, dialettica e retorica, appunto, la
scienza giuridica, sin dal suo nascere, assegna alla retorica un posto di tutto rispetto. Cosa è, se non
anche un’operazione retorica, l’esercitazione della quaestio disputata nelle scuole giuridiche medievali?
Cosa è, se non un raffronto tra due testi assolutamente lontani, incompatibili, intraducibili? Tra il
testo normativo giustinianeo del sesto secolo, cristallizzato e fermato nella compilazione legislativa,
e il testo descrivente la magmatica realtà dell’europa bassomedievale con i suoi nuovi soggetti sociali
e politici, con i nuovi negozi, con il nuovo mercato, di beni e capitali, di dimensione europea? E il
giurista lì, al centro, a mediare tra due testi inconfrontabili, a sforzarsi di trovare un rapporto di
adeguazione tra il vecchio diritto e le nuove istanze della società, impegnato a creare accostamenti
irregolari da cui nascono nuove regolarità, nuovo diritto.
Il fecondo rapporto tra retorica e diritto che qui brevemente si è voluto sottolineare per
esaltare la funzione poietica del diritto svolta dalla retorica con la sua efficacia ordinante dei testi e
dei discorsi non si esaurisce però solo nei termini, pur importanti, ai quali qui si è accennato. Con
persistenze e continuità, cesure e mutamenti, questo rapporto si sviluppa nella lunga durata.
Anche qui solo brevi cenni.
Delle quaestiones disputatae nelle scuole giuridiche medievali si è detto. Deve aggiungersi che lo
studio sui casi riscoprono tra Otto e Novecento giuristi del calibro di Jhering, Gianturco e Stolfi, e
che un progetto, del 1923, di riforma dell’insegnamento universitario elaborato da Piero
Calamandrei e Giorgio Pasquali, un giurista e un linguista guarda caso, assegna allo studio dei casi
un ruolo preminente tra i metodi d’istruzione giuridica. Ancora, può ricordarsi negli ultimi decenni il
ritorno sui casi di De Nova, Busnelli, Trimarchi.
Un altro sintomo dell’intima compenetrazione tra retorica e dimensione giuridica può leggersi
forse nello stilus utilizzato dai magistati europei nella stesura delle sentenze tra medio evo ed età
moderna. Pur non obbligati, poiché non erano tenuti a motivare le decisioni prese in giudizio, essi
non si esimevano dall’esporre l’itinerario logico giuridico che li aveva condotti alla decisione,
mostrando i fondamenti giuridici della decisione stessa e gli argomenti utilizzati. Aderivano così alla
concezione aristotelica della retorica. Aristotele, pur criticando la concezione sofistica della retorica,
3
a differenza di Platone, assegna alla retorica una funzione sociale positiva e una posizione
intermedia fra l’apoditticità del discorso scientifico e l’opinione soggettiva e incerta della chiacchiera:
in qualunque dei suoi tre generi, di retorica deliberativa o politica, di retorica giudiziaria e di retorica
epidittica o celebrativa, il buon oratore non cerca di capovolgere la verità, ma di sviluppare la
«maggiore forza naturale del vero e del giusto» mettendo in evidenza le circostanze e gli argomenti
più persuasivi.
E alla stessa concezione aristotelica può senz’altro ricondursi l’opera di quel gigante della
scientia iuris europea che è Giovan Battista De Luca. Impegnato, non a caso, nella traduzionevolgarizzazione-risistemazione della cultura giuridica, con il suo secentesco Dottor Volgare, si
richiama ad una dottrina dell’argomentazione probabile secondo la quale, anche quando manca la
certezza propria del giudizio scientifico, si possono raggiungere motivazioni o conclusioni
ragionevoli, mediante deduzioni sillogistiche (entimemi) o induzioni analogiche (esempi) che
partano da premesse attestate o riconosciute dall’opinione dei più (prove e luoghi comuni) oppure
da premesse giustificate da indizi o da ipotesi verosimili. E forse un filo lega il pensiero di questo
grande giurista al buon senso comune di Vico.
E, ancora, se ci si sposta nel XIX secolo, non è forse anche un’operazione retorica quella che
compiono i giuristi impegnati a rifondare il metodo delle scienze giuridiche attingendo al metodo
delle scienze biologiche rinnovato dal positivismo? Non è l’accostamento tra due sistemi
inconfrontabili e intraducibili che produce un nuovo metodo delle scienze giuridiche? Non è ancora
una volta l’accostamento cosiddetto ‘irregolare’ che fonda nuove concezioni della responsabilità, per
la prima volta anche senza colpa, della imputabilità, della pena?
E non è una volta ancora un accostamento ‘irregolare’ quello che oggi, ancora oggi, ci fa
parlare di analisi economica del diritto?
4
Apparatus: iper-testo vivo e aperto
1.
L’apparatus accursiano e il suo successo
Quando, negli anni Venti, Edouard Maurice Meijers scrisse che la scienza giuridica del secolo
XIII necessitava di un’opera organica di commento che costituisse il corredo ordinario dei testi, si
spinse ad affermare che se Accursio «non avesse aggiunto la glossa al Corpus iuris civilis, si sarebbe
innalzato a quel grado l’apparatus di Azo, di Hugolinus o di Simon Vicentinus»1.
La Glossa ordinaria costituisce il punto di arrivo della scuola dei glossatori, ma anche l’inizio
della decadenza di essa, almeno secondo un giudizio di Savigny che ha pesato sulla storiografia
giuridica2. Tuttavia deve riconoscersi che la glossa costituisce uno strumento indispensabile:
studenti, studiosi e pratici trovano nello stesso volume, accanto al testo normativo, una selezione
ragionata delle diverse opinioni dei giuristi. Il pregio dell’opera accursiana non consiste tanto
nell’originalità dei contenuti, quanto nella completezza del coordinamento di un materiale
vastissimo. Accursio utilizza nel suo apparato e ingloba nella sua opera i migliori frutti dell’esegesi
precedente: migliaia di glosse isolate o già ordinate in apparati, notabilia, allegationes, distinctiones. Al
glossatore fiorentino si deve inoltre riconoscere il merito di avere affinato il metodo del suo maestro
Azzone e di avere portato ad ulteriore compimento il programma di questi, cioè «isolare il metodo
del giurista e rivendicarne la tecnicità assoluta»3. Inoltre, non è estraneo alla fortuna editoriale della
Magna Glossa il riavvicinamento del giurista teorico al giurista pratico nei primi decenni del
Duecento. La Glossa ordinaria nasce a Bologna, nella scuola e per la scuola, quando «l’incontro della
cattedra con la vita professionale era ormai avvenuto»4: è un’opera che ha successo nella scuola e
nella prassi forense, superando le differenze tra opere per la scuola e opere per i pratici.
Uno strumento così raffinato finisce per essere utilizzato sempre, nella scuola e nel foro:
l’ordine che l’apparato ha impresso al Corpus si riflette nei momenti più significativi dell’elaborazione
teorica dei giuristi di scuola e dell’attività forense dei giuristi pratici, finendo per caratterizzare
l’intera esperienza giuridica bassomedievale. Forse proprio per questo motivo va considerato
nuovamente il giudizio critico di Savigny sulla decadenza della scuola dei glossatori e va meglio
indagata la continuità tra i glossatori e i postaccursiani5.
Alla radice del successo dell’apparato accursiano è la struttura ipertestuale dell’opera:
ipertesto ante litteram, l’apparatus si caratterizza per la struttura frammentaria e non lineare e per
l’inscindibile collegamento, anche sul piano della contiguità fisica nei manoscritti e nelle stampe, tra
glossae e testo normativo.
1 E.M. Meijers, L’università di Napoli nel secolo XIII, introduzione del volume Iuris interpretes saec. XIII (Septingentesimo
Anno Studii Neapolitani) curantibus scholaribus Leidensibus duce E.M. Meyers (Neapoli 1924), ora in Etudes d’histoire du
droit. III. Le droit romain au moyen age. Première partie: A. L’enseignement du droit dans trois universités du XIIIe
siècle; B. Histoire des sources, a cura di R. Feenstra e H.F.W.D. Fischer (Leyde 1959) 150.
2 F.C. Savigny, Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter (Heidelberg 1850, rist. anast. Bad Homburg 1962) V 279 e ss.
3 E. Cortese, Legisti, canonisti e feudisti: la formazione di un ceto medievale, in Università e società nei secoli XII-XVI. Atti del
nono Convegno Internazionale di studio tenuto a Pistoia nei giorni 20-25 settembre 1979 (Centro Italiano di Studi di
Storia e d’Arte - Pistoia; Pistoia 1983) 222; Id., Il Rinascimento giuridico medievale (Roma 1992) 36.
4 Cortese, Legisti 256 ss.; Id., Il Rinascimento 73-75.
5 In questa linea, muovendo dagli studi di Besta, Meijers e Nicolini, F.P.W. Soetermeer, Une catégorie de commentaires peu
connue. Les «commenta» ou «lecturae» inédits des précurseurs d’Odofrède, in «Rivista Internazionale di Diritto Comune» 2 (1991) 4767.
Sulla continuità e sulle cesure tra glossatori e commentatori cfr., da ultimo, E. Cortese, Tra glossa, commento e umanesimo,
in «Studi Senesi» 104 III serie 41 (1992) fasc. 3, 457-503.
5
2.
Le associazioni ipertestuali: il Memex
Il termine ‘ipertesto’ venne per la prima volta utilizzato da T.H. Nelson, che ne diede anche
una prima definizione: «Un ipertesto è la combinazione di un testo in linguaggio naturale con la
capacità del computer di seguire interattivamente, visualizzandole in modo dinamico, le diverse
ramificazioni di un testo non lineare, che non può essere stampato convenientemente con una
impaginazione tradizionale»6. Nelson riprendeva un’idea di Vannevar Bush, consigliere scientifico di
Roosvelt, che nel 1945, in un saggio dal titolo ‘As we may think’ proponeva il ricorso ad un nuovo
sistema di stoccaggio e di reperimento veloce delle informazioni, per far fronte al sempre crescente
numero di dati che sovrastavano gli studiosi di ogni campo (e i dirigenti dello stato). Il sistema,
‘Memex’, consisteva di un dispositivo elettromeccanico che consentiva di consultare i documenti,
prendere appunti e stabilire collegamenti tra due o più elementi qualsiasi in un esteso sistema
testuale. Bush scriveva: «La mente umana opera in base ad associazioni. Non si può sperare di
riuscire a duplicare appieno con mezzi artificiali questo processo mentale ma certo si può studiarlo
con profitto. Non si può sperare di uguagliare la velocità e la flessibilità con cui la mente umana
segue una serie di associazioni, ma dovrebbe senz’altro essere possibile superare la mente umana per
quanto riguarda la permanenza e la chiarezza degli elementi evocati dalla memoria»7. Scopo
fondamentale del Memex è selezionare le informazioni per ‘associazione’ anziché per
‘indicizzazione’: «Quando numerosi elementi sono stati congiunti in questo modo a formare una
pista… è esattamente come se gli elementi fisici fossero stati raccolti da fonti disparate e quindi
rilegati assieme a formare un nuovo libro… Ogni singolo elemento può essere inserito all’interno di
numerose piste… Appariranno enciclopedie di concezione radicalmente nuova dotate di una trama
di piste associative che le attraversano, pronte per essere inserite nel Memex e lì arricchite di altre
conoscenze». Dalla visione di Vannevar Bush consegue una nuova idea di testo, flessibile e aperto,
ma anche soggetto alle esigenze di ciascun lettore: il testo è la singola unità di lettura che costituisce
un’opera tradizionale; è l’insieme di queste opere; è l’insieme di documenti creati per mezzo di
collegamenti e associazioni; è forse anche solo il collegamento e l’associazione senza il documento
allegato8.
3.
L’apparato: struttura ipertestuale
Ma torniamo all’apparato accursiano. La struttura letteraria dell’apparato si coglie meglio nel
raffronto con le summae. Queste conservano una struttura lineare e, pur riferendosi al testo
normativo, circolano autonomamente da esso, rendendo meno agevole la ricerca e la gestione delle
informazioni. Nell’apparatus, poi, testo non lineare e frammentario, è difficile distinguere le parti più
importanti da quelle meno importanti: tutti gli elementi tendono a porsi sullo stesso livello
gerarchico; non così nelle summae o nella Lectura odofrediana, le cui strutture narrative lineari
inevitabilmente finiscono per segnare le parti più importanti e le parti meno significative.
L’apparato accursiano richiama la descrizione del testo ideale di Roland Barthes: «In questo
testo ideale le reti sono multiple e giocano fra loro senza che nessuna possa ricoprire le altre; questo
testo è una galassia di significanti, non una struttura di significati; non ha inizio; è reversibile; vi si
accede da più entrate di cui nessuna può essere decretata con certezza la principale; i codici che
mobilita si profilano a perdita d’occhio, sono indecidibili…; di questo testo assolutamente plurale i
6 In Getting it out of our system, in Information Retrieval: A critical review, G. Schechter ed. (Washington D.C. 1967). La
citazione è tratta da G. Mauri, La struttura degli ipertesti, in Oltre il testo: gli ipertesti, M. Ricciardi cur. [Milano 1994] 192.
7 In «Atlantic Monthly» 176 (July 1945) 101-108 (trad. ital. in Mauri, La struttura degli ipertesti 190 e in T.H. Nelson,
Literary Machines [Swarthmore, Pa. 1981; trad. ital. Padova 1992]).
8 Sull’ipertesto in generale nelle teorie letterarie e nelle nuove tecnologie cfr. G.P. Landow, Ipertesto. Il futuro della
scrittura (Bologna 1993; trad. ital. dell’ediz. Baltimore 1992).
6
sistemi di senso possono sì impadronirsi, ma il loro numero non è mai chiuso, misurandosi
sull’infinità del linguaggio»9.
Utilizzando la ricchissima eredità della scuola dei glossatori, Accursio imbriglia il testo
giustinianeo in un fitto reticolo di rinvii interni che ordina e connette le diverse sedes materiae. La
navigazione dell’utente nel mare magnum della compilazione giustinianea è costantemente orientata
dalla complessa rete di riferimenti interni e di puntuali spiegazioni che innerva il testo giustinianeo e
consente una rapida e immediata, ma non meno approfondita, conoscenza della legge. L’apparato
costituisce un intelligente e raffinato programma di reperimento e di gestione delle informazioni e
assiste costantemente il giurista nella ricognizione delle fonti. Ancora Roland Barthes: «La nostra
letteratura è segnata dal divorzio inesorabile mantenuto dall’istituzione letteraria fra il fabbricante e
l’utente del testo, il proprietario e il cliente, l’autore e il lettore. Questo lettore si trova allora
immerso in una sorta di ozio, d’intransitività, e, per dir tutto, di serietà: invece di essere lui a eseguire,
invece di accedere pienamente all’incanto del significante, alla voluttà della scrittura, non gli resta in
sorte che la povera libertà di ricevere o di respingere il testo: la lettura si riduce a un referendum.
Rispetto al testo scrivibile si definisce così il suo contro-valore, il suo valore negativo, reattivo: ciò
che può essere letto, ma non scritto: il leggibile. Noi chiamiamo classico ogni testo leggibile»10.
L’ipertesto invece scuote il lettore dal suo torpore e lo coinvolge nella lettura-scrittura, o meglio
nella lettura-riscrittura del testo: il metatesto, cioè l’insieme di documenti collegati, non ha un centro
fisso, non è organizzato lungo un asse principale, bensì può essere sempre ricentrato e riorganizzato
a seconda degli interessi del lettore. «L’ipertesto viene vissuto come un sistema infinitamente
decentrabile e ricentrabile, in parte perché l’ipertesto trasforma qualsiasi documento che ha più di
un collegamento in un centro transitorio, in un documento-indice che il lettore utilizza per orientarsi
e per decidere dove andare in seguito… Tutti i sistemi ipertestuali consentono al singolo lettore di
scegliere il proprio centro di indagine e di esperienza»11. La rete di puntatori interni dell’apparato
ordina il testo giustinianeo in modo tale da correggere errori di navigazione dell’utente-interprete: se
è facile disorientarsi e smarrirsi nel vasto Corpus Iuris Civilis, è altrettanto agevole ritrovare
l’orientamento seguendo i percorsi logico-ordinatori proposti nell’apparato. Supponiamo, per
esempio, che, in fase di ricognizione delle fonti riguardanti una data materia, il giurista muova la sua
ricerca da alcune sedes materiae non perfettamente centrate rispetto alle sue esigenze: percorrendo i
canali di connessione interni suggeriti nell’apparato in quella sedes materiae, riuscirà a trovare le fonti
di cognizione più adatte al suo scopo. Naturalmente l’apparato presenta anche gli aspetti negativi
tipici dell’ipertesto. Da un lato il cosiddetto ‘sovraccarico cognitivo’: considerata la mole di
informazioni dell’ipertesto-apparato, l’utente-giurista deve scegliere quali percorsi seguire e quali
tralasciare. Nei testi tradizionali il lettore-interprete non è chiamato a questo sovraccarico di attività
decisionale, perché l’autore, procedendo ‘linearmente’, ha già effettuato gran parte di queste scelte12.
Dall’altro la possibilità di ‘disorientamento’ per l’utente-giurista: la quantità di itinerari proposti
dall’ipertesto-apparato può far perdere all’utente-giurista la cognizione della posizione in cui si trova
all’interno della rete-corpus, o può fargli dimenticare i percorsi attraverso cui è giunto in quella
posizione, o, ancora, può confonderlo circa la scelta della direzione in cui proseguire la navigazionericerca. Il superamento della linearità testuale, caratterizzante l’ipertesto, comporta, inevitabilmente,
una modificazione dei concetti di inizio e fine di un testo. Infatti, se è vero che la caratteristica
peculiare dell’ipertestualità non è l’assenza totale di linearità e di sequenza ma, piuttosto, la presenza
di sequenze molteplici, è anche vero che essa fornisce molti inizi anziché uno solo e, di
conseguenza, molte fini. Più precisamente si può affermare che l’ipertesto offre almeno due tipi di
inizio. Quando il lettore si trova di fronte al materiale ipertestuale deve cominciare a leggere da
qualche punto, deve, cioè, scegliere da quale lessìa incominciare la sua indagine; e il punto scelto è,
9 R. Barthes, S/Z (Paris 1970; trad. ital. Torino 1973) 11.
10 Barthes, S/Z 10.
11 Landow, Ipertesto 15-17.
12 Il superamento della linearizzazione, per quanto sia un grande mutamento, è avvertito dai più come un dato
pericoloso perché costituisce l’abbandono di un fatto naturale. Tuttavia c’è chi ricorda che la struttura lineare dei libri non
è affatto naturale ma, anzi, è del tutto innaturale se ci sono voluti secoli per crearla: cfr. Landow, Ipertesto 29.
7
per lui, un inizio in un duplice senso: inizio del blocco di testo prescelto e inizio della sua
navigazione ipertestuale. È chiaro che moltiplicandosi i lettori di un ipertesto si moltiplicano i
possibili inizi di esso perché ciascun lettore può scegliere di leggere per prima una qualsiasi delle
lessìe che compongono il metatesto. Naturalmente l’ipertesto cambia anche la nostra concezione
della fine di un testo. Infatti, non solo i lettori possono scegliere diversi punti come fine del testo
ma possono, anche, espanderlo aggiungendovi ulteriori idee e concetti correlati e renderlo, in
sostanza, qualcosa di diverso da ciò che era quando hanno iniziato a leggerlo. Di conseguenza le
idee convenzionali di compiutezza e di prodotto finito non trovano riscontro nell’ipertesto. A tale
proposito Jacques Derrida osserva che una forma di testualità che superi la stampa «ci costringe ad
ampliare... la nozione prevalente di testo cosicché esso non è più un corpus finito di scrittura, un
contenuto inserito in un libro o all’interno dei suoi margini, ma una rete differenziata, un tessuto di
tracce che fanno incessantemente riferimento a qualcosa di altro da sé, ad altre tracce
differenziali»13.
3.
Un ipertesto per la scuola e per i pratici. Formazione e tradizione di un testo “vivo” e “aperto”
La Glossa ordinaria nasce a Bologna e là conosce il suo primo successo. Gli studi antichi e
recenti sull’ordine cronologico della redazione degli apparati accursiani concordano nell’affermare
che la Glossa al Codex fu completata sul finire del terzo decennio del ’20014. In quegli anni,
l’apparato, ancora in una stesura non definitiva e consolidata, venne trascritto o su manoscritti
‘nuovi’, non ancora utilizzati, che non recavano tracce di attività scolastiche precedenti, o anche su
manoscritti che si riteneva opportuno e conveniente ‘aggiornare’ con la Glossa accursiana e che già
contenevano testimonianze meno recenti dello studio del diritto15.
Tra gli esemplari del Codex corredati dell’apparato accursiano e utilizzati nelle scuole
giuridiche nei decenni tra la redazione della Glossa e la metà del Trecento si possono distinguere i
codici ‘nuovi’ dai codici ‘aggiornati’; ma è anche utile e necessario distinguere i codici che
documentano uno stato dell’apparato non ancora definito e completo e i manoscritti nei quali
l’apparato è già assurto alla dignità di un testo in forma vero e proprio16.
È ragionevole e naturale presumere, ed il problema è stato anche oggetto di studio, che
l’apparato accursiano, prima di raggiungere una sua definitiva consolidazione, abbia attraversato una
fase di ‘fluidità’ scandita da diverse redazioni; ma prima di trarre qualunque conclusione circa le
diverse redazioni e la datazione della Glossa accursiana deve riflettersi sulle tecniche di trasmissione
degli apparati e su alcuni dati offerti dai manoscritti17.
13 J. Derrida, Living on, in Deconstruction and criticism (London 1979, trad. it. ‘Sopra-vivere’, Milano 1982) 34.
14 Di tutti dà notizia P. Fiorelli, Accorso, in Dizionario Biografico degli Italiani 1 (Roma 1960) 119 nella bibliografia
completa fino al 1960. Di lì a poco vennero pubblicati negli Atti del Convegno internazionale di studi accursiani (Bologna, 21-26
ottobre 1963), G. Rossi cur. (Milano 1968) i contributi di G. Astuti, La ‘Glossa’ Accursiana 288-379, e G. Gualandi, Un
gustoso episodio della vita di Accursio 477-492. Da ultimo, V. Valentini, L’ordine degli apparati accursiani in una notizia di Angelo degli
Ubaldi, in «Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis» 53 (1985) 99-134; F.P.W. Soetermeer, L’ordre chronologique des apparatus
d’Accurse sur les libri ordinarii, in Historia del derecho privado, Trabajos en homenaje a Ferran Valls I Taberner con ocasión del centenario
de su nascimento, a cura di M. J. Peláez, X (Barcelona 1989); G. Diurni, La Glossa Accursiana: stato della questione, in El dret
er
comú i Catalunya. Actes del I Simposi Internacional, Barcelona 25-26 de maig de 1990 (Barcelona 1991) 82-87. Sul punto,
cfr. anche G. Speciale, La Memoria del Diritto Comune. Sulle ‘tracce d’uso’ del Codex di Giustiniano (secoli XII-XV) (Roma, 1994)
41 e ss.; Id., Francesco d'Accursio e la trasmissione della Magna Glossa. Un contributo dal codice di Gand, Bibliothek der Rijksuniversiteit,
21, in «Rivista Internazionale di Diritto Comune» 6 (1995) 191-215.
15 Cfr. Speciale, La memoria del diritto comune 41 e ss. e la letteratura ivi citata.
16 Cfr. M. Bellomo, Sulle tracce d’uso dei «libri legales», in Civiltà Comunale: Libro, Scrittura, Documento. Atti del Convegno,
Genova, 8-11 novembre 1988 (Genova 1989) 39.
17 Sul problema delle diverse redazioni condivido la prudente posizione di G. Astuti, La ‘Glossa’ Accursiana, in Atti del
Convegno internazionale di studi accursiani (Bologna, 21-26 ottobre 1963), G. Rossi cur. (Milano 1968) 290-310. G. Dolezalek,
8
Vi è un gruppo di codici accursiani del secolo XIII che presentano integrazioni e correzioni
all’apparato di cui sono corredati: questo ci porta a concludere che si tratta di apparati incompleti o
non definitivi, almeno rispetto all’apparato standard confluito nelle edizioni a stampa. Ma non si
dimentichi che notevoli e numerose — come è noto — sono anche le varianti tra le diverse edizioni
a stampa: per esempio tra l’edizione incunabola veneziana del 1488 e la cinquecentina Venezia
157418. Talvolta tali varianti riflettono significativamente le differenze presenti nei manoscritti.
Alcuni dei codici, pur essendo testimoni di un apparato incompleto e non definitivo,
continuano a ‘vivere’ nelle scuole per oltre un secolo. Gli utilizzatori di questi volumi sembrano
animati da due atteggiamenti distinti: da un lato sono preoccupati di integrare l’apparato presente
nel manoscritto e a tal fine aggiungono additiones che, o sono anonime, o sono chiuse dalla sigla dello
stesso Accursio o di suo figlio Francesco; dall’altro sono impegnati nel tutelare e garantire
l’autenticità dell’apparato e si adoperano per espungere glosse ritenute spurie.
Deve tenersi presente, però, che il controllo, teso ad assicurare la completezza e
l’aggiornamento o a tutelare l’autenticità dell’apparato presente in un codice, è effettuato attraverso
un’opera di collazione con altri manoscritti che per varie ragioni sono ritenuti più completi e
«fededegni»19: o perché sono stati approvati dallo stesso Accursio; o perché sono stati esemplati a
loro volta da un codice ritenuto corretto, completo e autentico per essere stato utilizzato nella
scuola di Accursio, o di uno dei suoi figli, o di un giurista comunque vicino al glossatore fiorentino.
Così, sull’apparato si interviene con correzioni, integrazioni, espunzioni. La trasmissione delle
informazioni sull’apparato è legata a strumenti e a tecniche che lasciano un ampio margine all’errore
e che non garantiscono sempre il raggiungimento dell’obbiettivo per cui ci si muove: la tutela
dell’autenticità dell’apparato. «La tradizione delle scritture esegetiche medievali — osserva
Caprioli — si pone come un processo di trasmissione nel quale non sono separati i due momenti:
della formazione d’un testo ricevuto, e dell’attestazione di quella scrittura che appunto per via di
trasmissione viene ricevuta»20. E all’inadeguatezza degli strumenti di trasmissione, di per sé
sufficiente a provocare disfunzioni, deve aggiungersi l’opera di chi volutamente cerca di gabellare
come accursiane glosse che accursiane non sono. Infatti, se da un lato l’autorità e il prestigio della
glossa accursiana muovono chi vuole integrare e garantire l’autenticità dell’apparato, dall’altro
attirano anche chi vuole inserire proprie glosse nell’apparato per farle assurgere ad alta dignità.
Tutto il lavorìo che impegna i fruitori del codice intorno all’apparato è assai interessante per
la ricostruzione delle vicende della formazione dell’apparato stesso, che certamente non possono
Repertorium manuscriptorum veterum Codicis Iustiniani, unter Mitarbeit von L. Mayali (Frankfurt am Main 1985) I 512-514
distingue varie redazioni dell’apparato accursiano che corrispondono a diversi stadi di consolidazione.
18 Si tratta, rispettivamente, di un’edizione del 1488 di Giovanni Battista de Tortis e di un’edizione del 1574 del
consorzio formato nel 1569 da Francesco De Franceschi, Gaspare Bindoni, Nicolò Bevilacqua, Damiano Zenari. I
quattro soci si individuano nel frontespizio per il marchio che appositamente si diedero per questo consorzio: in esso
sono raffigurati i simboli che contrassegnarono anche le edizioni individuali di ciascun socio. Sono la raffigurazione della
pace, una mano che regge un candelabro, la raffigurazione della pazienza, una salamandra che brucia. Nel marchio sono
riprodotte anche le iniziali dei quattro soci: F.S. G.B. N.B. D.Z. (Francesco De Franceschi soleva farsi chiamare
Francesco Senese). Quando il Corpus Iuris Civilis fu stampato nel 1574 già Nicolò Bevilacqua si era trasferito a Torino da
due anni, chiamato dal duca Emanuele Filiberto, e la sua stamperia veneziana era retta dal genero Francesco Ziletti. Sul
consorzio cfr. L. Baldacchini, De Franceschi, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani 36 (Roma 1988) 30-35.
19 Come si vedrà, il termine «fededegno» mal si presta a essere utilizzato in riferimento alla tradizione manoscritta
dell’apparato accursiano, la cui trasmissione è unitaria; in questo caso l’individuazione di testimoni più fededegni è
impossibile: così S. Caprioli, Per uno schedario di glosse preaccursiane. Struttura e tradizione della prima esegesi giuridica bolognese, in
Per Francesco Calasso. Studi degli allievi (Roma 1978) 120-122.
20 Caprioli, Per uno schedario 122. Esemplificano efficacemente la trasmissione A.M. Stickler, Problemi di ricerca e di
edizione per Uguccione da Pisa e nella decretistica classica, in Congrés de Droit Canonique Médiéval. Louvain et Bruxelles 22-26 Juillet
1958 (Bibliothéque de la Revue d’Histoire Ecclésiastique 33; Louvain 1959) 111-128; Id., La genesi degli apparati di glosse dei
decretisti presupposto fondamentale della critica del loro testo, in La critica del testo (Atti del secondo congresso internazionale della
Società Italiana di Storia del diritto; Firenze 1971) t. II 772-781 e G. Fransen, Les gloses des canonistes et des civilistes, in Les
Genres Littéraires dans les sources théologiques et philosophiques médiévales (Université Catholique de Louvain. Publications de
l’Institut d’études médiévales II série, vol. 5; Louvain la Neuve 1982) 135.
9
ridursi e costringersi nei rigidi schemi costituiti dalle diverse ‘redazioni’. Ritengo che si adatti bene
all’apparato accursiano e che sia completamente da condividere quanto Stickler ha affermato in
relazione agli apparati dei decretisti: «Il problema fondamentale particolare è di accertare non tanto
un testo definitivo ultimo, sia sotto l’aspetto della critica di origine come sotto quello della
conservazione; ma piuttosto di trovare ed accertare le varie fasi e forme di sviluppo attraverso le
quali il testo ‘vivo’ è passato fino alla forma definitiva, prima o ultima, se questa esiste. E ciò
nuovamente riguardo sia all’origine o all’autore sia alla conservazione o alla formulazione»21.
Ma la trasmissione degli apparati è di sicuro interesse anche per un aspetto più generale che
coinvolge i giuristi di scuola e gli studenti: il problema della tutela della paternità delle glosse, o, in
altri termini, il problema del plagio22.
Si può dire anzi che proprio l’attenzione per l’autenticità delle glosse costituisce un momento
importante per chiarire quale sia stato l’atteggiamento dei glossatori nei confronti dei problemi della
tradizione testuale. Convince la chiave di lettura in termini di ‘tradizione unitaria’ proposta da
Caprioli per l’età e l’ambiente dei giuristi medievali. Convince perché adatta ad un’età e ad un
ambiente ‘precritici’ e perché coerentemente fondata sulla considerazione qui sopra richiamata: cioè
l’esegesi dei maestri del diritto circola con tecniche e mezzi che non consentono di distinguere la
formazione dell’atto esegetico dalla tradizione dello stesso. Ne consegue che l’apparatus è un testo
‘vivo’, non definito, per sua natura ‘contaminato’ e quindi ‘aperto’23.
Anche per questi aspetti sembra convincente il parallelo tra apparato e ipertesto. Può anche
parzialmente estendersi all’apparato quanto George P. Landow afferma circa gli effetti dell’ipertesto
multimediale sulla concezione stessa della proprietà individuale, sul valore gerarchico del testo e del
corredo di note, sul metatesto in generale: «La presenza di molteplici percorsi di lettura, che
modifica l’equilibrio fra il lettore e l’autore, creando così il testo leggibile di Barthes, crea anche un
testo che, rispetto al testo stampato, è molto meno indipendente dai commenti e dalle tradizioni.
Questa specie di democratizzazione non soltanto riduce la separazione gerarchica fra il cosiddetto
testo principale e la nota, che ora esistono entrambi come testi, unità di lettura o lessìe indipendenti,
ma offusca anche i confini dei singoli testi. Il collegamento elettronico riconfigura così la nostra
esperienza della proprietà intellettuale e del diritto d’autore, e la riconfigurazione di queste idee
presumibilmente contagerà le nostre idee sia sugli autori (e sull’autorità) dei testi che studiamo, sia
su noi stessi in quanto autori»24. Strutturalmente l’ipertesto è un ‘testo aperto’.
«Si ha un testo aperto quando l’autore… decide sino a che punto deve controllare la
cooperazione del lettore, e dove essa va suscitata, dove va diretta, dove deve trasformarsi in libera
avventura interpretativa»25. L’autore di un testo aperto costruisce il suo lettore-modello scegliendo i
gradi di difficoltà linguistica del testo, la ricchezza dei riferimenti e inserendo nel testo chiavi,
rimandi, possibilità variabili di letture incrociate. Tutto ciò conduce, nelle aspirazioni dell’autore, ad
un risultato strategico che esalta la cooperazione attiva del lettore: per quante interpretazioni siano
possibili, l’una riecheggerà l’altra, così che non si escluderanno mai ma anzi si rafforzeranno a
vicenda. Un testo aperto, in sostanza, postula quel processo interattivo di lettura che nell’ipertesto è
una caratteristica fisiologica ineliminabile. L’assimilazione di un testo aperto all’ipertesto dipende
21 Stickler, La genesi 776.
22 Stickler, La genesi 774, riprendendo il suo studio sui Problemi di ricerca e di edizione 114 ss., chiarisce che «il concetto
di proprietà letteraria allora non era quello di oggi: oltre ad essere frutto del singolo era considerata anche frutto e
possesso di tutta la scuola e perciò non era difficile che una glossa con la sua dottrina, una volta assunta da un glossatore
posteriore, cominciasse ad essere tramandata sotto il suo nome, soprattutto se questo era una forte personalità o se aveva
una grande autorità o se era autore di una nuova opera di sintesi, di un nuovo apparato che superava, per contenuto e
forma, altre opere simili precedenti».
23 Per una completa e approfondita analisi del problema, cfr. Caprioli, Per uno schedario 120-126. Suggerimenti
fondamentali per la comprensione del processo di canonizzazione dei testi si trovano nelle classiche opere di J. de
Ghellinck, Le mouvement théologique du XIIe siècle (Bruges 19482) 472-499 e M.-D. Chenu, La théologie au douzième siècle (Paris
19662) 351-365.
24 Landow, Ipertesto 29.
25 U. Eco, Lector in fabula (Milano 1991) 58.
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dall’analogia delle loro strutture letterarie. Del resto la conferma che l’ipertesto è un iper-testo
aperto viene, anche, dall’uso che del termine nodo, proprio dell’ipertesto, si fa nella teoria testuale. I
nodi o «giunti», secondo questa teoria, sarebbero i punti del testo in cui è attesa e stimolata la
cooperazione del lettore modello. Più precisamente ad un certo punto del testo l’autore inserisce
un’espressione o un termine che sviluppano o aprono nuove prospettive narrative e che stimolano il
lettore a integrare con la sua competenza enciclopedica e la sua intelligenza il loro significato
minimo. Ne consegue che un testo strutturato a nodi si presta a diversi livelli di lettura a seconda del
grado di cooperazione che il lettore riesce ad attuare, a seconda, cioè, della capacità che ha il lettore
di rispondere allo stimolo creativo che suscita il testo quando la lettura è giunta ad un nodo. Le
teorie letterarie, inoltre, quando propongono un modello di testo ideale o tipo lo rappresentano
come una serie di nodi e lo descrivono in termini di livelli strutturali concepiti come stadi ideali di
un processo di generazione e di interpretazione. Questa nozione di livello testuale, tuttavia, ha
suscitato continue discussioni. Si è detto, per esempio, che un testo in quanto manifestazione lineare
non ha livelli e che le fasi interpretative che si attuano per attualizzare l’espressione testuale non
necessariamente riflettono le fasi generative attraverso le quali un progetto testuale è divenuto
espressione26.
Così l’accostamento dell’apparato all’ipertesto trova un’altra conferma anche da un ulteriore
punto di vista: se si guarda, cioè, non solo e non tanto alla struttura ‘finale’ dell’apparato e ai suoi
meccanismi di funzionamento, quanto alle vicende della sua formazione-tradizione. L’apparatusipertesto può considerarsi un’opera a più mani: Accursio segna dei percorsi interpretativi di corredo
alle norme giustinianee avvalendosi anche di glosse di altri glossatori. La tradizione manoscritta
dell’età ‘precritica’ fa sì che l’apparato sia – come si è già detto – un testo ‘vivo’, non definito, per
sua natura ‘contaminato’. La struttura dell’apparato produce due effetti fondamentali: uno riguarda
l’autore (Accursio o altro giurista) delle glosse confluite nell’apparato-ipertesto, l’altro il testo stesso
dell’apparato. L’autore (Accursio o altro giurista) rischia di perdere il controllo dei bordi e dei
confini del suo testo e il testo si atomizza in lessìe o blocchi di testo che sono unità di lettura
autosufficienti perché dipendono sempre meno da ciò che viene prima e dopo di esse secondo la
successione lineare della loro versione originale. L’atomizzazione del testo nella sua versione
ipertestuale comporta che ogni sua singola lessìa può essere associata ad un testo creato da altri
autori. La conseguenza di questa possibilità è che si dissolve l’idea della separazione intellettuale di
un testo dagli altri e che il testo si disperde in altri testi. Infatti, quando la lessìa di un ipertesto, per
via del collegamento a lessìe di un altro testo, perde la sua appartenenza all’ambito testuale
originario, si crea un’intertestualità che supera il concetto dell’unicità del testo e del suo autore che
sono i cardini della cultura a stampa27.
26 Sul processo interattivo nella lettura e sui livelli testuali cfr. Eco, Lector, in particolare 60 e ss.
27 Landow, Ipertesto 64-66. Il problema è ancora più acuto per i testi elettronici. Diversamente dal testo stampato, che
è caratterizzato dalla stabilità spaziale, il testo elettronico presenta continue variazioni perché di esso, in quanto
combinazione variabile di blocchi di testo, non esiste una versione finale e definitiva. Un testo elettronico, inoltre, deve la
sua dinamicità alle correzioni, agli aggiornamenti e alle altre modifiche che ad esso, in ogni tempo, possono apportarsi. Il
dato peculiare caratterizzante il testo elettronico è, quindi, l’abbandono della stabilità che caratterizza la stampa.
11
La categoria storica
del diritto commerciale
Intendo iniziare proprio trattando del diritto commerciale nell’età delle codificazioni. Per ora
non soffermiamoci sul significato del termine diritto commerciale e accontentiamoci di usare le
espressioni diritto commerciale, ius mercatorum, ius mercantile, lex mercatoria in senso lato come
sinonimi. Basti qui dire che il modello romano di regolamentazione giuridica dei fatti legati al
commercio sopravvive nell’Alto medio evo prima di essere profondamente mutato dalle nuove
realtà economiche e sociali dei secoli XI-XII nei quali si impone la cd. «rivoluzione commerciale».
Fissiamo al sec. XII il momento iniziale della vicenda del diritto commerciale come ramo speciale
del diritto e al Code de Commerce del 1807 (forse Ordonnance del 1673 o unificazione del diritto
privato inglese del 1700) il momento finale di una fase che se pure ricca di articolazioni interne può
considerarsi unitaria nelle sue linee generali. Il problema definitorio del diritto commerciale si
risolve quindi nel confronto con il dir. civile, sia nel mondo medievale che in quello moderno e
negli stessi termini si porrà nell’età delle codificazioni. Qui si confrontano due correnti di pensiero:
chi vuole conservare un’autonomia del diritto commerciale, chi vuole unificare il dirittto civile e
commerciale.
Ripercorriamo le vicende del diritto commerciale proprio a partire dall’età delle codificazioni,
dal Code de commerce del 1807. Cogliamo nelle vicende di questi due ultimi secoli le ragioni
dell’interesse per il diritto commerciale. La lex mercatoria – il diritto commerciale – non è solo una
categoria storica, non è solo una vicenda del passato da ricostruire nel rapporto con le parallele
vicende storico-politiche, storico-economiche e storico sociali, ma è anche la chiave di
comprensione di una originale realtà presente, ancora tutta da analizzare. Da qualche anno per la
crescente internazionalizzazione dei mercati e la sempre più intensa circolazione transnazionale della
ricchezza, si assiste al sorgere di quella che viene definita come una nuova lex mercatoria, dotata della
medesima vocazione universale, destinata al pari dell’antica a reggere in modo uniforme, al di là di
ogni confine nazionale, l’intero mercato internazionale.
Guardiamo allora all’età delle codificazioni.
Il Code de commerce del 1807 è il primo dei codici di commercio nell’età delle codificazioni
(anche se siavvale dei risultati di commissioni di lavoro prerivoluzionarie): già nell’iter di redazione e
approvazione si fronteggiano due mentalità: quella dei legisti civilisti che vogliono limitare la
specialità del diritto commerciale a pochi istituti, sostenendo anche che l’interesse dei commercianti
non coincide con l’interesse di tutti i cittadini e quelle dei giuristi assai vicini ai mercanti che
ritengono che l’interesse dei mercanti coincida con l’interesse generale dei cittadini.
Illustrando al corpo legislativo il primo libro del Code de commerce del 1807 il consigliere di
stato Regnaud de Saint Jean d’Angely pone in risalto che al Code de commerce si assegna un destino più
vasto che non al Code civil e sottolinea che il codice di commercio dell’Impero francese è redatto
secondo principi che gli danno una influenza e una rilevanza universale, principi adatti a tutte le
nazioni commerciali, in armonia con le grandi consuetudini commerciali, principi che abbracciano e
sottomettono i due mondi.
Regnaud esprime lucidamente il carattere della UNIVERSALITÀ del diritto commerciale,
cioè la sua asserita attitudine ad espandersi, come diritto uniforme, oltre ogni confine nazionale.
Sulla stessa scia le vicende tedesche della seconda metà dell’Ottocento: nel 1861 un codice
commerciale si rivolge a tutta l’area tedesca, inclusa l’Austria, precedendo l’unificazione dell’area
germanica sotto un comune codice civile. Negli stessi anni si procede a una sistemazione scientifica
del diritto commerciale (sul codice francese si era esercitata solo l’esegesi): sistemazione scientifica,
conoscenza storica e politica del diritto commerciale sono in questo periodo in stretto rapporto fra
loro, connessi dalla unità del disegno culturale. Levin Goldschmidt, che dominò la scena della
commercialistica tedesca della fine dell’Ottocento, attribuisce i caratteri della universalità e della
specialità sia al diritto commerciale storico, sia al diritto commerciale positivo, sia al diritto
commerciale da fondare.
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Goldschmidt propugna, sul piano della politica del diritto, la separazione del codice di
commercio dal codice civile, ritenuto strumento fondamentale e imprescindibile per le esigenze
dell’espansione economica della Germania. Alla specialità associa l’universalità, cioè l’applicabilità
universale (mentre il diritto civile non può in genere superare un certo confine territoriale). Sulla
universalità fonda il progetto di mercato mondiale, sorretto dalle norme certe e uniformi di un
diritto commerciale cosmopolita.
Abbiamo colto il carattere della UNIVERSALITÀ nelle parole di Regnaud e nel codice di
commercio tedesco.
Guardiamo ora al carattere della SPECIALITÀ. La SPECIALITÀ si coglie, in ambito
endostatuale, nei confronti della restante normazione statuale e, nell’ambito del diritto privato, nei
confronti del diritto civile.
Se osserviamo la storia del diritto non tardiamo a cogliere la frequenza con cui nell’ambito
del diritto privato a un sistema tradizionale si contrappongono istituti che concorrono con quelli del
diritto tradizionale fino a costituire eventualmente un diritto detto, nella sua organicità, speciale, nei
confronti del diritto comune. Quando si parla, in relazione a tale diritto, di «equità» l’espressione
non significa «giustizia del caso concreto» o «regola di un diritto sociale in contrapposizione allo
statale», bensì emersione, dapprima limitata, e poi storicamente sempre più ampia, di nuove
valutazioni e nuovi principi, invocati dapprima supplendi vel corrigendi gratia il diritto tradizionale e poi
in modo sempre più ampio, finché nello sviluppo storico, regole dapprima dette eccezionali, poi
sistematizzate come diritto speciale, non arrivano esse a costituire il diritto generale e comune nei
cui confronti le contrastanti regole del vecchio diritto tradizionale finiscono per assumere a volte
quasi il carattere di relitti storici, di fronte ad un sistema ormai generalmente ispirato a quelli che
all’inizio dello sviluppo erano temperamenti equitatitivi. Ius civile e ius honorarium nel diritto romano;
common law ed equity nella common law [esempi: hereditas e bonorum possessio; esecuzione specifica;
pretore e cancelliere]. La dicotomia assolve ad una precisa funzione: conciliare la rigidità, che è
anche certezza, del diritto comune, con la necessità di duttilità e adeguamento. La distinzione tra un
sistema tradizionale e istituti che concorrono con gli istituti del sistema tradizionale permette di
conciliare l’adozione di nuovi principi con un cammino lento e sperimentale, che dà modo di
saggiarli, introducendoli dapprima in alcuni settori e poi in altri, ammettendo sì, in via astratta, una
loro generale applicabilità e forza di espansione, ma applicandoli inizialmente solo là dove ne è più
vivo il bisogno. È il tempo che permetterà la lenta espansione di principi che possiamo dire
storicamente speciali (proprio perché la loro applicazione, pur essendo in via di principio possibile
in via generale, è limitata ad un ambito determinato). Tali principi poi si stabilizzeranno ed
estenderanno la loro portata fino a fondersi nel sistema generale.
La vicenda del diritto commerciale, sin dalla sua formazione, è assai significativa. Scaturito
dalle esigenze del commercio e dell’artigianato dei comuni medievali italiani, frutto dell’incontro
felice tra l’iniziativa del mercante e la fantasia creatrice del notaio nell’ambito delle corporazioni di
mestiere, il nuovo diritto con i suoi istituti… si è formato anzitutto nella vita quotidiana dei
commerci. Esso è divenuto consuetudine, e come tale si è affermato in Europa… ben prima che
leggi e dottrina lo accogliessero e lo rielaborassero… Di questa centralità della prassi — «il diritto
che viene su dalle cose», secondo la celebre espressione di Cesare Vivante — la storia stessa della
legislazione offre numerose conferme… Un aspetto tra i più significativi tra quelli che l’indagine
storica rivela, consiste proprio nella perdurante apertura transnazionale del diritto commerciale,
nella continua circolazione di modelli legislativi… avvenuta all’interno del continente…»
Il diritto commerciale di questo periodo (medioevo) — afferma Tullio Ascarelli — ci
presenta appunto l’enucleazione di una normativa il cui centro è costituito dallo scambio e dal
mercato e che già acquista (nonostante il criterio soggettivo della sua applicazione) un valore
proprio, distinguendosi così da un mero diritto di classe e dalla disciplina interna delle corporazioni
e dei suoi membri, di importanza prevalente nelle corporazioni di mestiere… La formazione,
originariamente italiana, è sostanzialmente uniforme nel campo internazionale e indipendente da
13
limiti di frontiera, sì che lo Stracca parlerà non a torto di un nuovo ius gentium». Il giurista deve
quindi ‘filtrare’ e ‘decodificare’ la dimensione economico-giuridica del mercante — e non solo sul
piano della terminologia, che pur essendo importante non è neppure il più significativo —, e
«decidere poi quello che riguarda l’essenza e la qualità delle obbligazioni, che dipendono solamente
da articoli legali… [e] ridurre il caso, che accade in pratica, a quella specie di contratto che meglio
pare adattarglisi»
A proposito dell’universalità e della specialità del diritto commerciale deve sottolinearsi la
singolare vicenda del diritto commerciale in Inghilterra. Il diritto commerciale europeo, in gran
parte elaborato e creato nelle città dell’Italia centrosettentrionale, penetra in Inghilterra, terra di
common law. Nel campo del diritto commerciale non esiste tra Inghilterra e resto dell’Europa quella
contrapposizione che esiste nel campo del diritto civile: cioè la contrapposizione tra common law,
diritto nazionale comune inglese con uno sviluppo casistico, formatosi ad opera dei giudici del re, e
diritto comune continentale a impronta romano-giustinianea. Utilizzando un’abusata espressione
può dirsi che il diritto commerciale europeo, di origine italiana, è recepito in Inghilterra, terra di
common law, e che solo nel secolo XVIII viene fuso e inquadrato nella common law (ad una prima
sistemazione inglese del diritto commerciale provvede Malynes nel 1622). Universalità del diritto
commerciale quindi se si considera la penetrazione del diritto commerciale in Inghilterra, cioè in
un’area regionale estranea e diversa rispetto a quella in cui il diritto commerciale si è formato.
Specialità del diritto commerciale se si guarda alla coesistenza nell’ambito dell’ordinamento inglese
di un sistema di common law, di forte matrice consuetudinaria e casistica (contrapposto al diritto
comune europeo di forte impronta sistematica e ‘romanistica’), e di un sistema di diritto
commerciale che per le sue origini regionali e culturali non può non considerarsi di ‘derivazione
romanistica’. Con l’espressione ‘derivazione romanistica’ non si vuole certo dire che il diritto
mercantile medievale affonda le radici nel diritto romano: piuttosto si vuole sottolineare che il
diritto mercantile medievale, lo ius novum mercantile, consuetudinario e statutario, inventato dai
mercanti medievali, dovette fare i conti con le architetture formali, le strutture logiche, i principi,
che la scientia iuris medievale elaborò studiando il diritto comune, romano e canonico.
Solo nel ‘700 si avrà una sostanziale unificazione del diritto commerciale nel sistema del
common law, cioè una sostanziale unificazione del diritto privato.
Proprio i caratteri della SPECIALITÀ e della UNIVERSALITÀ fanno sì che il diritto
commerciale si presenti come la più separata fra le partizioni del diritto, staccato dalle realtà
politiche nazionali e aggregato ad una entità puramente economica, quale è il mercato. È una
separazione che va oltre quella del diritto privato: non v’è solo una separatezza della società civile
rispetto alla società politica (alla base delle tradizionali concezioni dell’intero diritto privato). C’è
ancor più la visione di una autonoma società economica separata dalla stessa società civile.
Goldschmidt afferma: «Alla natura cosmopolita del commercio, il quale tende a una
economia mondiale con divisione internazionale del lavoro corrisponde la pronta formazione
internazionalmente uniforme del diritto commerciale ed una conseguente continuità sorprendente
dello sviluppo storico. Uniformità e continuità si fondano sull’indole propria del ceto commerciale,
che è, come a dire, senza tempo né patria».
In Italia la visione economistica di Goldschmidt fu osteggiata fortemente da Vivante che
vedeva nella specialità una lesione dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e auspicava l’unità
del diritto privato e l’integrazione del diritto commerciale nel diritto civile nell’ambito di una società
equilibrata in cui gli interesssi del ceto commerciale fossero coordinati con quelli degli altri ceti.
Anche Rocco si oppose alla specialità sul piano scientifico, condannando l’isolamento scientifico del
diritto commerciale, ma difendendo la specialità sul piano normativo. Ma la visione economistica di
Goldschmidt finirà per prevalere.
È opportuno guardare più da vicino alle obiezioni di Vivante che vuole una unificazione del
diritto privato.
Il Codice di commercio non tutela i cittadini, anzi li espone ai soprusi dei grandi mercanti a
misura dei quali è disegnato il codice stesso.
Il legislatore ha delegato ai commercianti una parte del proprio potere legislativo attribuendo
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valore di legge agli usi commerciali nei rapporti tra i commercianti e tra questi e quanti
(commercianti e non) contrattino con essi.
La duplicazione della codificazione nuoce all’esercizio della giustizia, perché a parte i
problemi di competenza, venuti meno con la soppressione dei tribunali commerciali, resta sempre
aperto e gravoso il problema di determinare se le controversie riguardino atti di commercio e
debbano essere risolte secondo il codice di commercio oppure no.
Le tesi economistiche di Goldschmidt radicano il convincimento che il diritto commerciale
altro non sia se non la sovrastruttura legale dell’economia di scambio e che nell’economia di
scambio trovi la sua ragion d’essere. E che tale sovrastruttura sia necessaria, immancabilmente
presente in ogni economia basata sullo scambio. Così si è forzata la realtà obiettiva e si è voluto
vedere un diritto commerciale anche presso i romani, i greci, i persiani, i cinesi ecc., finendo con il
ridurre la storia del diritto commerciale all’esaltazione e all’isolamento di alcuni istituti nel tentativo
di evidenziare le continuità (spesso solo apparenti o di natura terminologica), trascurando il
collegamento con le diverse strutture di organizzazione giuspolitica.
Proprio ad una rivalutazione del momento giuspolitico nella ricostruzione storica del diritto
commerciale richiama Francesco Galgano.
Galgano da un lato riconosce che la visione economistica coglie nel segno evidenziando i
caratteri della specialità e della universalità. Per la specialità la separazione dal diritto civile nelle
codificazioni del secolo scorso. Per l’universalità l’espansione a livello europeo nel bassomedioevo,
la ricerca costante, dalla fine del secolo scorso, di un diritto commerciale internazionalmente
uniforme, di un diritto commerciale europeo reso uniforme per direttive comunitarie, o di regole
oggettive del commercio internazionale. D’altra parte però per Galgano la visione economistica di
Goldschmidt da sola non spiega il carattere nazionale e fortemente caratterizzato dal punto di vista
pubblicistico del diritto commerciale nelle monarchie assolute, non spiega l’estinzione del diritto
commerciale nell’Inghilterra del Settecento, né l’unificazione italiana del 1942, né la forte resistenza
che incontra il processo di uniformizzazione del diritto commerciale degli stati membri della UE.
Bisogna allora considerare anche la politica del diritto.
Altrimenti non si spiegherebbe perché in civiltà con un commercio florido come quella
romana, non si ebbe un diritto commerciale distinto dal civile – neppure nell’ambito dello ius gentium
o honorarium – né si spiegherebbe come il diritto commerciale sia una creatura delle civiltà medievale
del sec. XII, un’età in cui dall’economia curtense feudale, chiusa e in gran parte autarchica, si passa
ad un’economia in cui gli scambi assumono dimensioni via via crescenti.
Le categorie per la conoscenza storica del diritto commerciale – afferma Galgano sulla scia di
Tullio Ascarelli – sono quelle della storia economica, ma anche quelle della storia sociale, della storia
politica: solo così posssono spiegarsi le cause di un fenomeno per cui una serie di rapporti prima
sottoposta al diritto comune, riceve ad un tratto una differenziata regolamentazione normativa e
diventa l’oggetto di un particolare diritto.
L’origine del diritto commerciale si collega per Ascarelli all’affermarsi di una civiltà borghese
e cittadina nella quale si sviluppa un nuovo spirito di intraprendenza e una nuova organizzazione
degli affari. Ma si collega anche alle trasformazioni politiche promosse da questa civiltà borghese e
cittadina. Per Thaller il diritto commerciale nasce quando i mercanti sono in grado di fondare intere
repubbliche, quando cioè il soggetto dei rapporti commerciali diventa soggetto politico oltre che
soggetto economico, capace perciò di esercitare un influsso determinante sulla regolazione
normativa di quei rapporti.
Così a Roma questo non era avvenuto, perché il commercio – come l’artiginato – era
collegato e strumentale rispetto al latifondo e non metteva capo ad una classe capace di esercitare un
autonomo ruolo politico. Il diritto commerciale nasce quando tramonta un sistema economico
(quello curtense) e un sistema politico (quello feudale) e nelle crepe di questi sistemi si aprono spazi
per la ripresa dei traffici e per una nuova classe di mercanti dotati di iniziativa economica e politica.
Il nuovo gruppo sociale dei mercanti, con le corporazioni, si dà strutture politiche attraverso le quali
sviluppare la propria condizione di classe ed esercitare una funzione dirigente sulle altre classi
sociali.
15
2.
Il mercante
Se voi qui considererete alquanto e discorrerete, riducendo a memoria quali siano essercizii
accomodati a fare roba, voi gli troverete tutti posti non in altro che in comperare e vendere, prestare
e riscuotere. E io stimo che a voi’, e’ quali, quanto giudico, pur non avete l’animo né piccolo né vile,
que’ tutti essercizii suggetti solo al guadagno potranno parervi bassi e con poco lume di lode e
autorità. Già poiché il vendere non è se non cosa mercennaria, tu servi alla utilità del comperatore,
paghiti della fatica tua, ricevi premio sopraponendo ad altri quello che manco era costato a te. In
quel modo adunque vendi non la roba, ma la fatica tua; per la roba rimane a te commutato el
danaio; per la fatica ricevi il soprapagamento… Però dicono al tutto questi come brutti e mercenarii
sono a’ liberali ingegni molto da fuggire. Ma costoro, quali così giudicano di tutti gli essercizii
pecuniarii, a mio parere errano…
Leon Battista Alberti, I libri della famiglia, (R. Romano - A. Tenenti curr., Torino 1969, pp.
170-171)
Fonti.
Statuti
Protocolli notarili
Libri di commercio
Lettere mercantesche
Pratiche di mercatura
Ricordanze personali
Cronache
Nel 1016, in Francia, Adalberone, vescovo di Laon, scrive con convinzione e compiacimento
che la società cristiana è costituita da “coloro che pregano, da coloro che combattono, da coloro che
lavorano” (oratores, bellatores, laboratores). Nella sintetica raffigurazione la società viene ripartita in tre
ordini: le aristocrazie agrarie tradizionalmente legate all’arte delle armi e della guerra e all’esercizio ed
alla responsabilità del culto; gli ambienti ecclesiastici, della città e della campagna, nelle varie
articolazioni delle gerarchie ufficiali (parrocchie, vescovati), della condizione canonicale, degli ordini
monastici; infine coloro che adoperano le braccia per far fruttare la terra, cioè i lavoratori.
L’idea del lavoro è secondaria ed è ristretta alla considerazione delle attività manuali,
principalmente del contadino (libero, o servo, o schiavo). Prevalgono altri ideali e valori: della forza
fisica, della guerra, della vita religiosa; prevale la convinzione che l’onore e il buon nome, come la
ricchezza o il benessere, si conquistano e si difendono con la spada, con la forza individuale e con
quella della masnada; che gl’interessi sostanziali vanno tutelati con l’abilità fisica, con la solidarietà
della famiglia, della parentela, del gruppo, o con l’intrigo politico; si pensa che si possa fare ricorso,
al più, agli imperativi della ragione o della morale, o agli obblighi che la fede impone ai credenti: ma
la legge, la giustizia che si fa legge e dà norma al vivere civile, e l’abile uso delle tecniche giuridiche e
la sentenza che vincola e costringe, tutto questo resta fuori dal quadro ideale, fuori dalla visione di
una società tripartita, anche se nella realtà vi sono iurisperiti e giudici e notari.
Ne restano esclusi anche l’artigianato e il commercio. Se, certo, vi sono negotiatores che da
tempo vanno costruendo le loro fortune, essi sono guardati con sospetto o con avversione. La
mercatura appare come una pratica volta ad indebiti ed illeciti guadagni, e perciò pericolosa e
dannosa per il benessere sociale e per la salute dell’anima.
In breve, a guardar la società dal punto di vista scelto da Adalberone, si vedono milites e clero
e contadini attaccati alla terra, ma non si vedono artigiani e mercanti, né giuristi e medici.
Quanto più è lucida la schematica immagine di Adalberone, tanto più essa si rivela come
l’ultimo specchio di una società che sta per entrare in una profondissima crisi di trasformazione.
Passeranno appena pochi decenni. Già nella seconda metà dello stesso sec. XI i segni del
rinnovamento radicale sono eclatanti, e ne abbiamo seguito qualche linea anche interna al mondo
ecclesiastico. Poi diventano così intensi e vasti da modellare una nuova civiltà: nella nuova società, è
naturale, continuano ad essere vivi comportamenti, attitudini, tradizioni, ideali e valori proprî
dell’età che si chiude, ma ciò avviene all’interno di processi storici, di realtà materiali e di
16
configurazioni teoriche del tutto nuovi. La ‘civiltà feudale’ si destruttura: rimane, sì, il feudo, ma non
la ‘civiltà’ come perno e centro della visione della vita; restano molti degli elementi materiali e ideali
del feudo, ma essi vengono assorbiti dalle nuove ed originali istituzioni comunali e regnicole, e
piegati ad altre funzioni rivelano differenti potenzialità.
Lo sconvolgimento e la ‘rinascita’ investono tutti gli aspetti della vita quotidiana e culturale e
tutti i settori delle attività umane. La nitida tripartizione di Adalberone può sopravvivere solo là
dove sopravvive, marginale, isolata, nelle sperdute provincie, la società che l’aveva giustificata.
Perché nelle città e nelle regioni centrali dell’Europa e nei grandi aggregati istituzionali retti a
monarchia, come nel Regnum Siciliae, tutto si modifica.
Nascono e si diffondono i nuovi ‘volgari’. Nascono così, dopo la lenta gestazione dei secoli X
e XI, le lingue italiana, castigliana, catalana, francese, tedesca, etc. Si tratta di avvenimenti
storicamente eccezionali, senza confronti nei due millenni cristiani. Si sovvertono i canoni di ogni
operazione manuale e professionale, da quelle agricole, artigianali, mercantili, a quelle dell’artista e
del letterato. Si costruiscono le grandi città di pietra e, con queste e dentro di queste, si fondano e si
alimentano le fortune economiche degli abili traffici, delle raffinate professioni, delle improvvise e
provvide rendite urbane e di mercato.
Nella città si muovono e si impongono nuovi personaggi. Sono i giuristi specializzati,
addestrati in scuole che diventano celebri e danno vita alla moderna Università. Sono i medici
(venivano chiamati allora ‘fisici’), che riprendono dal riscoperto Aristotele molte posizioni e
modalità logiche di analisi della realtà, e sperimentano e affinano la loro professionalità con
osservazioni dirette. Sono i letterati, che acquistano un peso sociale e politico crescente fino ai
maggiori livelli dell’età umanistica (secoli XV-XVI). Sono gli artisti — pittori e scultori anzitutto —.
Sono i cambiatori di denaro, i ‘cambisti’, prestigiosi e potentissimi operatori finanziari (siamo alle
origini della banca moderna), che con larghissimi giri di affari internazionali concorrono all’unità
economica e culturale della nascente Europa.
Affiora dappertutto una nuova idea del lavoro: ch’è ora non più solamente quello manuale,
ma è anche l’attività dell’intellettuale e del professionista, dell’imprenditore e del mercante. E intanto
si dismettono il vecchio sospetto e la sprezzante condanna della mercatura. Di questa si cominciano
ad apprezzare i benefici effetti, specie in tempi che condannano una regione alla carestia mentre
altre abbondano di frutti stagionali. Del commercio inoltre si comprende l’essenzialità per l’esistenza
e lo sviluppo di un mercato: perché, se questo si arricchisce di beni specializzati, può vivere solo s’è
saldamente legato ad un florido commercio internazionale, o intercittadino.
Nelle comunità urbane del sec. XII, nelle città che si ingrandiscono rapidamente per la
moltiplicazione della popolazione residente e per l’ampliamento degli spazi abitati, si formano
esigenze che sono connaturate con la crescita economica, con la specializzazione del mercato, con
l’intensificazione delle relazioni intersoggettive, con le nuove forme del potere politico.
È in queste comunità che si avverte la richiesta di modelli teorici e di strumenti pratici più
adeguati rispetto a quelli espressi dal mondo signorile, feudale, rurale. Si intravvede una nuova
concezione del potere pubblico mentre se ne sperimenta una prima pratica; si tenta di modificare il
modo consueto di definire e di interpretare teoricamente i rapporti intersoggettivi sia nel campo
delle obbligazioni sia in quello delle situazioni giuridiche reali; vi è uno spirito associativo originale
che supera e spesso travolge gli schemi feudali della gerarchia e degli status personali e familiari.
Per le sue figurae astratte e ripetibili il diritto romano, che ha peraltro una forte connotazione
cittadina, appare come una miniera di preziosissimi materiali che, se recuperati e riutilizzati, possono
servire a sostenere lo sforzo teorico che i giuristi, come specialisti che vanno arrogandosi il
monopolio della teorizzazione dei rapporti sociali, sono pronti a compiere e già con Irnerio si
impegnano ad avviare.
È perciò che nella scuola di Irnerio il lavoro di restauro e di ricomposizione dei testi di
Giustiniano si realizza con fervore e con la partecipazione di giovani e brillanti allievi: come
momento di un’esigenza del presente, per dare risposte teoriche, e con ciò collaborazione e aiuto, a
movimenti politici ed a spinte economiche che stanno ristrutturando l’assetto interno della città,
rinnovandone i legami col contado e tessendo una rete proficua tra città e città.
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Intorno al sec. XII si avvia una profonda trasformazione del ruolo del mercante, già
importante nella società altomedievale. Il mercante, da intermediario nello scambio, si fa
imprenditore, riesce a imporrre normative funzionali all’esercizio della sua attività in monopolio,
cambia status da mercante itinerante a mercante stanziale ecc.
Aelfric 275
Responsabilità della Chiesa nella condanna dei mercanti fino agli ordini francescani e
mendicanti, che per il loro forte radicamento cittadino non possono non inglobare anche i mercanti
in una visione cristiana complessiva della società. Comunque Tommaso d’Aquino scrive «il
commercio ha in sé qualcosa di vergognoso», pur riconoscendone la necessità e l’utilità sociale.
Nel sec. XIII Già la situazione è profondamente mutata: Bertoldo di Ratisbona (il più grande
predicatore francescano tedesco del secolo XIII) riconosce le varietà professionali e di ceto della
popolazione. Descrive i ceti sociali ripetendo l’immagine dei nove cori angelici utilizzata dallo
Pseduo Dionigi per descrivere gli angeli.
Nei primi tre cori (superiori e ordinati gerarchicamente) troviamo
— i sacerdoti (con a capo il papa);
— i monaci;
— i giudici laici (imperatore, re, duchi, conti signori secolari).
Gli altri sei cori (sottoposti ai primi tre) sono disposti orizzontalmente senza gerarchia
interna:
— fabbricanti vesti e scarpe;
— lavoranti con strumenti di ferro (gioiellieri, coniatori di monete, fabbri, falegnami,
muratori ecc.);
— mercanti;
— venditori di cibi e bevande
— contadini
— medici
Il decimo coro è costituito dai mestieri infimi (attori e mimi) lonatni da Dio al pari del
decimo coro degli angeli che si è allontanato da Dio e si è posto al servizio di Satana.
Nella elencazione sociale di Bertoldo è evidente l’impronta cittadina. Si noti la separazione tra
grandi e piccoli mercanti. I mercanti, pur essendo oggetto delle maledizioni contro gli avidi e i
disonesti, sono considerati necessari al funzionamento del tutto. Emerge una visione della missione
individuale del soggetto, della sua vocazione sociale. Tale visione è evidente anche nelle prediche di
Bertoldo.
Parabola evangelica dei cinque talenti:
— la nostra persona
— il servizio (la mansione) che Dio ha donato a ogni uomo predestinandolo: TUTTE LE
MANSIONI SONO VOLUTE DA DIO E TUTTE HANNO PARI DIGNITÀ SOCIALE. Si
tratta di una chiamata individuale, non di ceto. Di una RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE
DELLA PROPRIA MISSIONE SOCIALE. Vi sono però delle mansioni che non sono una
chiamata di DIO (usura, incetta, inganno e furto)
— il tempo
— i beni terreni. Vanno amministrati e usati con buon senso e moderazione. La proprietà si
acquista in modo legittimo con IL LAVORO ONESTO. Non è la disparità di distribuzione della
ricchezza, ma il cattivo uso della ricchezza la causa dei mali sociali. LA PROPRIETÀ NON È
ASSOLUTA, PASSA IN SECONDO PIANO RISPETTO ALL’UGUAGLIANZA DEGLI
UOMINI DAVANTI A DIO. I BENI SONO AFFIDATI DA DIO AL POSSESSORE ALLA
PARI DEGLI ALTRI TALENTI (PERSONA, SERVIZIO TEMPO). LA PERSONA È SOLO
L’AMMINISTRATORE DELLA SUA RICCHEZZA E DOVRÀ RISPONDERE DEL SUO
IMPIEGO.
— l’amore per il prossimo.
L’anima non è menzionata ma si può dire che è il centro invisibiledi tutta la visione sociale
del francescano di Ratisbona.
Nel pensiero di Bertoldo è evidente l’ETICA DEL LAVORO. Nella predica sui talenti
emerge la visione borghese (che pure non contrasta con quella teologica) della società: i valori della
18
persona e del servizio sono sullo stesso piano di quelli del tempo e dei beni terreni. Centralità della
CITTÀ.
Usura
tempo
exempla: asino col cadavere
peso del cadavere
predica del prete che chiama i vari mestieri per l’assoluzione
predica del prete che maledice il padre usuraio
Sistema di valori diversi tra aristocrazia, ostentarice e spendacciona e mercanti oculati e
parsimoniosi. Sotto questo punto di vista si ha un accostamento tra mercanti e giuristi: exemplum
dell’accumulatore e del dissipatore 284
Il mercante è un self-made-man che cerca di intrufolarsi tra i patrizi. Germania: ANCHE SE
IL PADRONE E I PORCI SI TROVANO SOTTO LO STESSO TETTO, CONTINUANO A
NON AVERE NULLA IN COMUNE
Politica matrimoniale, investimenti fondiari, ascesa sociale nelle professioni liberali. Il suo è
un ambiente colto. LA CULTURA DEL MERCANTE
Scuole per i mercanti aritmetica-aerismetica; lingue; diritto
Trattati di mercatura/ viaggi./
I valori del mercante Coraggio, Iniziativa, Capacità di previsione, Spregiudicatezza, Famiglia
(libri della famiglia, pittura ecc.)
Nel trattato di Paolo da Certaldo (1360 ca.) i termini con cui il mercante è descritto sono
amante del lavoro, operoso, tenace, solerte. Il denaro bisogna saperlo guadagnare, ma bisogna anche
saperlo tenere e reinvestire.
Per Giovanni di Pagolo Morfelli (1371-1444) il bene si identifica con l’utile. studio di Virgilio.
Conosce l’ammontare della dote della nuora, ma non il numero dei figli di lei, cioè dei suoi nipoti.
302 Sii sempre amico di chi sta al potere ed è più forte
Donazioni a Dio per cointeressarlo alla gestione degli affari
Melanconia del mercante, complesso di colpa, messe proanima, donazioni ecc.
Overstolz 25 volte borgomastri di Colonia nel 200 e nel 300
19
3.
Il mercante: la corporazione
Sostanzialmente il mercante medievale non è solo il commerciante, cioè colui che è dedito
all’attività di intermediazione dei beni. È invece il soggetto che in termini attuali si definisce
imprenditore, cioè chi analizza il mercat, ne studia i bisogni, o comunque crea il bisogno di un dato
bene, assume su di sé il rischio di impresa, combina i fattori della produzione e si scommette sul
mercato.
Da un punto di vista politico il mercante medievale è potentissimo. Si pensi agli statuti
comunali che sono creati ad hoc per consentire il monopolio del mercante. Divieto di esercizio di
un mestiere per i non iscritti alla corporazione; divieto di importazione o esportazione delle materie
prime. Esempio dello statuto fiorentino dell’arte della lana del 1317: tutti i lavoratori che (come
lavoratori autonomi a domicilio) intervengono nel processo produttivo sono membri della
corporazione dell’Arte della lana e sono soggetti alla giurisdizione della corporazione. All’interno
della corporazione però il peso dei lanaioli, cioè dei mercanti di lana, era di gran lunga maggiore del
peso degli altri soggetti della produzione laniera (lavoratori a domicilio con il ruolo di tessitori,
tintori, filatori, cimatori e simili): per esempio i consoli dell’arte dovevano essere eletti solo tra i
lanaioli che producessero ogni anno più di cento panni fiorentini.
Così in un’unica corporazione si costringevano mercanti lanaioli e lavoratori autonomi
coinvolti dai primi nel processo di produzione laniera. Tale unificazione sotto un’unica
corporazione era strumentale al mantenimento del ruolo egemone dei lanaioli che potevano così
esercitare il controllo sui soggetti coinvolti nella produzione, conservando il monopolio del
commercio della lana.
IN QUESTO SENSO DEVE PARLARSI DI SOCIETÀ MERCANTILE, CIOÈ DI UNA
SOCIETÀ IN CUI I MERCANTI HANNO UN RUOLO POLITICO DI PROTAGONISTI, AL
PUNTO TALE CHE LA SOCIETÀ È STRUTTURATA IN MODO FUNZIONALE AL
SODDISFACIMENTO DEI BISOGNI E DEGLI INTERESSI DEI MERCANTI. (SI
RICORDI QUANTO DETTO NELLA PRIMA LEZIONE: IL DIRITTO COMMERCIALE
NASCE QUANDO I MERCANTI SONO IN GRADO DI FONDARE INTERE
REPUBBLICHE).
Per i motivi sopra esposti non può parlarsi di un diritto commerciale presso i romani, non
perché il commercio non vi fosse e non fosse importante, non perché non v’erano i commercianti
(gli equites e i publicani), bensì perché nella società romana il ruolo predominante era affidato ai
latifondisti e il sistema giuridico romano si fondava sul rispetto degli interessi del latifondo.
Esempio della locatio conductio (schema rigidamente unitario che ingloba in sé una molteplicità di
fattispecie diverse dal contenuto economico distinto: appalto, locatio operis, locatio operarum ecc.)
tipizzata sulla locatio rei modellata sulla sua riferibilità al liber civis pater massimo stereotipo della
soggettività giuridica romana perché facente capo al massimo livello ai tre status libertatis civitatis
familiae.
20
4. La corporazione
Fonti utilizzate per dimostrare la liceità delle corporazioni
D.3.4.1pr.
ad ed. provinc. neque societas neque collegium neque huiusmodi corpus passim omnibus
habere conceditur: nam et legibus et senatus consultis et principalibus constitutionibus ea res
coercetur. paucis admodum in causis concessa sunt huiusmodi corpora: ut ecce vectigalium
publicorum sociis permissum est corpus habere vel aurifodinarum vel argentifodinarum et
salinarum. item collegia romae certa sunt, quorum corpus senatus consultis atque constitutionibus
principalibus confirmatum est, veluti pistorum et quorundam aliorum, et naviculariorum, qui et in
provinciis sunt.
D.3.4.1.1
quibus autem permissum est corpus habere collegii societatis sive cuiusque alterius eorum
nomine, proprium est ad exemplum rei publicae habere res communes, arcam communem et
actorem sive syndicum, per quem tamquam in re publica, quod communiter agi fierique oporteat,
agatur fiat.
D.3.4.1.2
quod si nemo eos defendat, quod eorum commune erit possideri et, si admoniti non
excitentur ad sui defensionem, venire se iussurum proconsul ait. et quidem non esse actorem vel
syndicum tunc quoque intellegimus, cum is absit aut valetudine impedietur aut inhabilis sit ad
agendum.
D.3.4.1.3
et si extraneus defendere velit universitatem, permittit proconsul, sicut in privatorum
defensionibus observatur, quia eo modo melior condicio universitatis fit.
Fonti utilizzate per dimostrare la liceità delle giurisdizioni delle corporazioni
C. 3. 13. 7
periniquum et temerarium esse perspicimus eos, qui professiones aliquas seu negotiationes
exercere noscuntur, iudicum, ad quos earundem professionum seu negotiationum cura pertinet,
iurisdictionem et praeceptiones declinare conari. * anastas. a. constantino pp. *<a 502 d. xv k. mart.
constantinopoli probo et avieno conss. >
C. 3. 13. 7. 1
quapropter iubemus huiusmodi hominibus nec cuiuslibet militiae seu cinguli vel dignitatis
praerogativam in hac parte suppetere, sed eos, qui statutis in quacumque militia connumerati sunt
vel fuerint seu dignitatem aliquam praetendunt, sine quadam fori praescriptione his iudicibus tam in
publicis quam in privatis causis oboedire compelli, ad quorum sollicitudinem professionis seu
negotiationis, quam praeter militiam, ut dictum est, exercent, gubernatio videtur respicere, ita tamen,
ut ipsis nihilo minus iudicibus, sub quorum iurisdictione militia seu dignitas eorum constituta est,
procul dubio respondeant.
C. 3. 13. 7. 2
his videlicet, quicumque contra eius tenorem venire temptaverint, militiae cingulo seu
dignitatis honore pro tali conamine spoliandis.
21
Il Fallimento
Se voi qui considererete alquanto e discorrerete, riducendo a memoria quali siano essercizii
accomodati a fare roba, voi gli troverete tutti posti non in altro che in comperare e vendere, prestare
e riscuotere. E io stimo che a voi’, e’ quali, quanto giudico, pur non avete l’animo né piccolo né vile,
que’ tutti essercizii suggetti solo al guadagno potranno parervi bassi e con poco lume di lode e
autorità. Già poiché il vendere non è se non cosa mercennaria, tu servi alla utilità del comperatore,
paghiti della fatica tua, ricevi premio sopraponendo ad altri quello che manco era costato a te. In
quel modo adunque vendi non la roba, ma la fatica tua; per la roba rimane a te commutato el
danaio; per la fatica ricevi il soprapagamento… Però dicono al tutto questi come brutti e mercenarii
sono a’ liberali ingegni molto da fuggire. Ma costoro, quali così giudicano di tutti gli essercizii
pecuniarii, a mio parere errano…
Leon Battista Alberti, I libri della famiglia
(R. Romano - A. Tenenti curr., Torino 1969, pp. 170-171)
Introduzione
1.
L’itinerario della ricerca
«… in hac materia plurimum pollere debet circumspecti iudicis arbitrium in bene rimando, et
perpendendo, qui actus adducantur pro decoctione latente, et qui pro decoctionis exclusione, ita ut
si illi non bene concludant decoctionem, sed sint dubii, et enervetur ex actibus gestis a mercatore,
uti adhuc negociatore, debeat inclinare… … in hoc admirati remanserunt mercatores, ac
negociatores, et bene in hoc dici potest, quod tot homines, tot sententiae, et quod in digestione
eiusdem cibi adest diversitas in stomachis diversarum personarum».
Così, sul finire del ’600, l’alto magistrato romano Francesco Maria Costantini, nel suo
commento agli statuti di Roma, descriveva l’orientamento giurisprudenziale sull’individuazione del
momento della decozione del mercante28. La decozione si ha quando lo stato di insolvenza del
mercante è qualificato dalla irreversibilità e dalla notorietà.
L’irreversibilità non è data certo da una momentanea insolvenza, bensì da una crisi
economico-finanziaria di gravità tale che il mercante non riesce più ad ottenere credito.
I caratteri dell’irreversibilità e della notorietà sono strettamente connessi: infatti, il mercato
nega fiducia al mercante in difficoltà, proprio quando il suo stato di insolvenza è notorio e quando
si diffonde la convinzione che il suo stato di crisi abbia raggiunto il punto di non ritorno.
Il decotto, dunque, è l’insolvente segnato dallo stigma dei protagonisti del mercato, i quali,
valutate le sue condizioni economico-finanziarie, gli negano nuovo credito e ne sanciscono
l’irreversibile e definitivo stato di crisi.
L’individuazione dell’insorgenza dello stato di decozione — come si vedrà — costituiva
spesso il problema centrale delle cause originate dal fallimento di un mercante: in particolare di
quelle riguardanti il pagamento delle lettere di cambio e l’azione revocatoria.
Proprio sulle vicende dell’azione revocatoria nel fallimento nell’età moderna intendo fermare
la mia attenzione: non pretendo di redigere qui e ora una distesa trattazione sull’azione revocatoria
nel fallimento, ma solo di dare un contributo per la ricostruzione dell’istituto. Sul piano della
dottrina assumo a oggetto dello studio le raffinate riflessioni e gli interessanti spunti offerti dalle
opere di Giovan Battista De Luca, Francesco Maria Costantini, Giuseppe Lorenzo Maria
28 Franciscus Maria Constantinus, Observationes forenses practicabiles, seu commentaria ad varia capita statutorum almae urbis
(Venezia 1712) I cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 3, p. 313b, a proposito del fallimento di
Cesare De Cesare: cfr. infra, cap. I, §§ 2.2 e 2.2.1.
22
Casaregi29. Si tratta solo di spunti e riferimenti sparsi perché i classici30 del diritto commerciale non
trattano in modo ‘sistematico’ l’azione revocatoria nella procedura fallimentare31. Sul piano della law
29 Su Giovan Battista De Luca cfr. gli studi degli ultimi anni e la letteratura ivi citata: A. Mazzacane, ‘De Luca,
Giovanni Battista’, Dizionario Biografico degli Italiani 38 (Roma 1990) 340-347; Id., ‘Giambattista De Luca e la “compagnia di
uffizio”’, Miscellanea Domenico Maffei dicata. Historia, Ius, Studium (Goldbach 1995) IV 655-680 (già pubblicato in Fisco,
religione, stato nell’età confessionale, H. Kellenbenz - P. Prodi curr. [Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico 26; Bologna
1990] 505-530); A. Lauro, Il cardinale Giovan Battista De Luca. Diritto e riforme nello Stato della Chiesa (1676-1683) (Storia e
diritto, Studi 29; Napoli 1991); M.G. Merello Altea, ‘Alcuni scritti inediti di Giovan Battista De Luca’, Studi in memoria di
Giovanni Cassandro (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi 18; Roma 1991) I 13-121.; A. Santangelo, La toga e la porpora.
Quattro biografie di Giovan Battista De Luca (Biblioteca federiciana 14; Venosa 1991); S. Di Noto Marrella, ‘Giudici ed
avvocati in “Lo stile legale” di Giovan Battista De Luca’, Miscellanea Domenico Maffei dicata. Historia, Ius, Studium (Goldbach
1995) IV 603-654 (già pubblicato in G.B. De Luca, Lo stile legale [Napoli 1758; rist. anast. 1993] 5-56).
Su Francesco Maria Costantini (Venarotta [Ascoli Piceno] 1639 - Roma 1713), cfr. M.A. Tallarico, ‘Costantini,
Francesco Maria’, Dizionario Biografico degli Italiani 30 (Roma 1984) 291-292 e la letteratura ivi citata: di formazione
bolognese, rivestì importanti incarichi nella Roma del ’600, quali Procuratore del sacro palazzo pontificio, Luogotenente
civile del governatore di Roma, Primo collaterale della curia capitolina, Procuratore generale del fisco e della camera
capitolina.
Su Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi cfr. V. Piergiovanni, ‘Casaregi, Giuseppe Lorenzo Maria’, Dizionario Biografico
degli Italiani 21 (Roma 1978) e la letteratura ivi citata; Id., ‘Dottrina divulgazione e pratica alle origini della scienza
commercialistica: Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi, appunti per una biografia’, Materiali per una storia della cultura giuridica 2
(1979) 289-327. Sebbene L. Goldsmith, ‘Die Werke des Casaregis’, Zeitschrift für das gesammte Handelsrecht 10 (1867) 468 ss.,
e A. Lattes, ‘Casaregi Giuseppe Maria Lorenzo’, Enciclopedia Italiana 9 (Roma 1931) 284, abbiano criticato gli scritti del
Casaregi per gli scarsi apporti sul piano della trattazione sistematica, senza dubbio l’opera può considerarsi tra i classici del
diritto commerciale, se si tiene conto del successo che ebbe presso i contemporanei e dell’influenza che esercitò
sull’elaborazione dottrinaria successiva: K.O. Scherner, ‘Die Wissenschaft des Handelsrechts’, Handbuch der Quellen und
Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte. II. Neuere Zeit (1500-1800). Das Zeitalter des gemeinen Rechts I. Wissenschaft,
H. Coing cur. (München 1977) 856 e ss. e Piergiovanni, ‘Dottrina divulgazione e pratica’ 325-327.
30 Mi riferisco, naturalmente solo a titolo esemplificativo, al De mercatura, in particolare al Tractatus de conturbatoribus
sive decoctoribus di Benvenuto Stracca (Lione 1610; rist. anast. Torino 1971) parte III, alle pp. 475-482. Il tractatus è stato
considerato il primo dei classici del diritto commerciale prima che Domenico Maffei, ‘Il giureconsulto portoghese Pedro
de Santarém autore del primo trattato sulle assicurazioni (1488)’, Boletim de Faculdade de Dereito de Coimbra 58 (1982) 703728 (pubblicato anche in Diritto Comune, Diritto Commerciale, Diritto Veneziano, K. Nehlsen von Strik, D. Nörr curr. [Venezia
1985] 39-63), spostasse indietro alla fine del quattrocento il trattato di Pedro de Santarem sulle assicurazioni. Mi riferisco,
inoltre, al De Commerciis et cambio di Sigismondo Scaccia (Roma 1619) § 2 gl. 5 nn. 329, 330, 445 pp. 383, 396b; al Tractatus
de concursu creditorum di Amador Rodriguez (Madrid 1616); ai Notabilia de decoctoribus, fortunata summa sul fallimento del
giurista napoletano Francesco Rocco, contenuta nei suoi Responsa legalia cum decisionibus ac mercatorum notabilia (Napoli 1645)
II 431-465; al Labyrinthus creditorum concurrentium di Francisco Salgado de Somoza (Lione 1665) 127-137; ai Discursus legales
de commercio (Firenze 1719) e a Il cambista istruito di Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi (Firenze 1723) pubblicati anche in
Opera omnia (Venezia 1740), rispettivamente nei volumi I e II, e nel volume III alle pp. 33-102; ai Discursus legales de
commercio et mercatura di Ansaldo de Ansaldi (Ginevra 1718) disc. 3-5 alle pp. 11-20, e al già citato commento agli statuti di
Roma di Francesco Maria Costantini. Riferimenti interessanti alla revocatoria e ad aspetti connessi si trovano anche nei
Vota decisiva civilia et criminalia et mista di Giovan Battista de Thoro (Napoli, 1634) votum XV, 64-69; in alcune parti del
Theatrum veritatis ac iustitiae di Giovan Battista De Luca (Venezia 1734): cfr., infra, passim; nel De pignoribus et hypothecis
tractatus absolutissimus una cum decisionibus magistralibus Sacrae rotae romanae di Merlino Mercuriale (Venezia 1649) libr. IV, tit.
V, quaest. 135, pp. 511-512; nel Tractatus de transactionibus di Emanuele Romano Valeron (Milano 1676) quaest. VIII, pp.
203-207; nelle Disceptationes forenses di Stefano Graziano (Venezia 1699) tom. II cap. 380 e 391 alle pp. 645-648 e 677-681.
31 Per l’età di mezzo la mancanza di una distesa trattazione del diritto fallimentare che affronti in modo sistematico
gli aspetti cruciali della disciplina è stata già evidenziato da C. Pecorella - U. Gualazzini, ‘Fallimento’ (Storia)’, Enciclopedia
del diritto 16 (Roma 1967) 220-221: «Il concorso dei creditori, o fallimento, rientra nel novero degli istituti di creazione
medioevale, di una creazione nella quale è difficile, più forse che nelle altre, sceverare quanto sia voluntas, ordine di
legislatore, e quanto sia ratio, lavorio sistematico di giuristi e giudici consulenti. Di una origine pratica, di una natura di
strumento concreto che non ha alle proprie spalle adeguato bagaglio culturale è testimonianza anche il tipo di dottrina che
intorno al fallimento si è andato nell’età di mezzo accumulando: chi scorra le citazioni trova, senza troppo stupirsene, che
23
in action, poi, analizzo alcune decisiones di grandi tribunali pubblici dei secoli XVI-XVIII32:
inevitabilmente la descrizione dei casi interrompe la continuità della ‘struttura narrativa’ e può creare
un effetto di frammentazione. Ma lo studio delle sentenze costituisce una necessaria e indispensabile
premessa per la riflessione sui problemi che emergono dagli stessi casi e per la ricostruzione
dell’itinerario logico-giuridico seguito dai giudici nelle decisioni. Ho già chiarito nella Premessa che le
sentenze sono qui utilizzate come fonti e spunto per la riflessione, rimanendo estraneo allo studio
l’interesse per la casistica o per la storia dei tribunali.
2.
Le soluzioni normative nelle legislazioni tardomedievali e moderne
Prima di giungere all’esame delle decisiones è opportuno ricordare quali erano le soluzioni
normative che le legislazioni statutarie e principesche offrivano, nell’ambito della procedura
fallimentare, per il soddisfacimento dei creditori del mercante fallito33.
L’azione revocatoria occupa un posto importante nel diritto fallimentare medievale. L’azione
mira a fare rientrare di fatto nel patrimonio del fallito «tutti quei beni che — pur dovendone far
parte — ne siano usciti con frode o in un periodo tanto prossimo al fallimento da apparire evidente
il fine illecito della alienazione»34.
i dottori sul fallimento hanno enunciato pareri in sede di consilium, di quaestio de facto, più che in sede di distesa narrazione
intorno ad una o più rubriche del Corpus iuris…».
32 Ritengo che debba accogliersi pienamente l’esortazione di Vito Piergiovanni, ‘Banchieri e falliti nelle ‘Decisiones de
mercatura’ della Rota Civile di Genova’, Diritto Comune, Diritto Commerciale, Diritto Veneziano, K. Nehlsen von Strik, D.
Nörr curr. (Venezia 1985) 18-19, che invita a condurre gli studi sulla materia fallimentare in contesti ben delimitati sotto il
profilo socio-economico, legislativo e giurisdizionale: «… nel contesto della legislazione statutaria che, da un punto di
vista tecnico, sembra contenere nel corso dei secoli del Medioevo all’età moderna caratteri giuridici unitari, è opportuno
inserire i contrasti, le cesure, le accelerazioni che gli eventi storici hanno apportato. Al di là delle piccole variazioni di
dettato normativo… ci sono le diversità create da novità macroscopiche, come la formazione di più complessi organismi
statuali le quali, in misura diversa, hanno comportato revisioni e innovazioni normative… In collegamento con le
legislazioni dell’età moderna, in funzione di stimolo e di approfondimento teorico e pratico, è da porre la creazione di
grandi organismi giurisdizionali centrali, come le Rote». Sull’opportunità della ricerca condotta sulle fonti della law in action
cfr. dello stesso Autore ‘Courts and Commercial Law at the Beginning of the Modern Age’, The Courts and the Development
of Commercial Law, V. Piergiovanni ed., (Comparative Studies in Continental and Anglo-American Legal History 2; Berlin
1987) 17-21, nonché G. Gorla, Diritto comparato e diritto comune europeo (Milano 1981) 561 e ss. e M. Ascheri, Tribunali, giuristi
e istituzioni dal medioevo all’età moderna (Bologna 1989).
33 Sulla storia del fallimento cfr., oltre gli studi già citati di Pecorella - Gualazzini e di Piergiovanni, i contributi
specifici di U. Santarelli, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia (Padova 1964) e Mercanti e società tra
2
mercanti (Torino 1992 ) 57-101, e di A. Sciumè, Ricerche sul fallimento nel diritto moderno. I. Il momento settecentesco (Milano
1985). Cfr., inoltre, W. Patker, ‘The origins of bankruptcy in medieval canon and roman law’, Proceedings of the Seventh
International Congress of Medieval Canon Law, Cambridge 23-27 July 1984, ed. P. Linehan (Monumenta iuris canonici, Series
C: Subsidia 8; Città del Vaticano 1988) 485-506 e F. Migliorino, ‘Profilo storico delle procedure concorsuali’, Trattato delle
procedure concorsuali, G. Ragusa Maggiore - C. Costa curr., I (Torino 1996) in corso di stampa.
34 Santarelli, Per la storia del fallimento 192. Sull’azione revocatoria fallimentare cfr. anche Pecorella - Gualazzini,
‘Fallimento’ 230-231; U. Santarelli, ‘Azione revocatoria nel diritto medievale e moderno’, Digesto delle discipline privatistiche.
Sezione civile 2 (Torino 19884) 46-49 e i riferimenti nell’opera di A. Lattes, Il diritto commerciale nella legislazione statutaria delle
città italiane (Milano 1882) 320 e nota 14 (alle pp. 325-326) in cui si riassumono le normative statutarie; A. Rocco, Il
fallimento. Teoria generale ed origine storica (Torino 1917) 193 e ss., 208 e ss.; G. Salvioli, Storia della procedura civile e criminale in
Storia del diritto italiano, V. Del Giudice cur., III.2 (Milano 1927) 721-727; G. Cassandro, Le rappresaglie e il fallimento a
Venezia nei secoli XIII-XVI con documenti inediti (Torino 1938) 105-106, 193; Piergiovanni, ‘Banchieri e falliti’ 34 e ss.
Tra gli studi sull’azione revocatoria nell’età di mezzo deve anche ricordarsi l’opera di Vincenzo Piano Mortari, L’azione
revocatoria nella giurisprudenza medievale (Milano 1962), che si occupa, per l’età dei glossatori e dei commentatori, della
revocatoria civile, il genus da cui discende la species della revocatoria fallimentare. Come si ricorderà, i rimedi revocatori
classici sono la restitutio in integrum ob fraudem [D.42.8.1 pr.] e l’interdictum fraudatorium [D.42.8.10 pr.] (6-9) e sono i rimedi su
cui si fonda la legislazione giustinianea in tema di tutela dei creditori: la predisposizione dei mezzi processuali diretti a
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La revocatoria incide quindi sulla certezza degli scambi commerciali fondata sulla tutela
dell’affidamento e della buona fede dei contraenti. È naturale allora che il legislatore statutario e
principesco assegni all’azione revocatoria «un rilievo preminente, altrove (nel diritto romano e nei
moderni ordinamenti, per esempio) affatto inusitato: ché non ci si limitò, come vedremo, a
presumere (e non sempre con una praesumptio iuris tantum) l’esistenza della frode nelle alienazioni
compiute nel cosiddetto ‘periodo sospetto’, ma si giunse a disporre che gli organi fallimentari, nel
procedere all’apprensione dei beni del fallito, la estendessero anche a quelli che, pur formalmente
alienati, dovessero — in virtù delle circostanze nelle quali l’alienazione s’era verificata — ritenersi
ancora compresi nel patrimonio del fallito»35.
Umberto Santarelli nel suo studio sulla storia del fallimento nell’età intermedia ha distinto in
due grandi gruppi le normative statutarie (comunali e mercantili) e principesche riguardanti l’azione
revocatoria. Nel primo gruppo la fraudolenza dell’atto di cui si richiede la revoca deve essere
provata, o comunque non si presume: per esempio, lo statuto milanese dei mercanti del 1330
consente ai Consoli dei Mercanti di procedere nei confronti di chi abbia acquistato con contratto
simulato un bene dal fallito e si ostini a non consegnarlo alla massa dei creditori. Ma non sempre è
necessario l’intervento del giudice per provare l’intento fraudolento: gli statuti lucchesi del 1376 e
del 1556 e lo statuto padovano del 1420 impongono a chi abbia acquistato qualcosa dal fallito, con
frode o con simulazione, di restituire la cosa alla massa fallimentare senza l’intervento del giudice. In
alcuni casi, quando il terzo si oppone alla revocazione, l’ordinamento dispone l’intervento del
giudice per accertare la simulazione. Comunque, nonostante manchi l’intervento del giudice, non
può affermarsi che nei casi elencati si presuma la fraudolenza dell’atto. E la frode non si presume
neanche nel caso disciplinato dallo statuto genovese dei primi del Quattrocento che sanziona con la
nullità le “partite” che sembrino compiute con frode o dolo e che siano state registrate sul libro
contabile del banchiere nel periodo che precede il fallimento (da due giorni a un mese prima del
fallimento del banchiere stesso)36.
Invece, nel secondo gruppo — che certamente corrisponde alla maggior parte degli
ordinamenti — la fraudolenza dell’atto si presume, purché esso sia stato compiuto in un
determinato periodo di tempo precedente la dichiarazione di fallimento (il cosiddetto ‘periodo
sospetto’): la revoca pertanto non è subordinata alla prova (difficile da raggiungere) dell’intento
fraudolento in capo ai contraenti, ma è ancorata a un dato obiettivo. Anche in questi statuti per la
revoca dell’atto non sempre si richiede l’intervento del giudice. Si giunge alla revoca rebus ipsis et factis
mediante l’immissione nella massa fallimentare dei beni oggetto dei negozi revocati, rimanendo
esclusa in alcuni casi per il terzo la possibilità di opporsi. Si consideri, inoltre, che solo in alcuni casi
il dettato normativo dello statuto precisa che il ‘periodo sospetto’ costituisce uno strumento
presuntivo di accertamento della frode, mentre negli altri casi si enuncia il criterio senza spiegarne la
funzione presuntiva37.
soddisfare le ragioni dei creditori sul patrimonio dei debitori è una conseguenza dell’introduzione del procedimento
esecutivo sui beni accanto all’esecuzione personale.
35 Santarelli, Per la storia del fallimento 192.
36 Cfr. Santarelli, Per la storia del fallimento 199 e ss. Sulla norma genovese e sulla sensibilità dei giuristi, quali
Bartolomeo Bosco e Raffaele della Torre, che avvertirono l’emergente diversificazione tra attività mercantile e attività
bancaria, cfr. V. Piergiovanni, ‘I banchieri nel diritto genovese e nella scienza giuridica tra medioevo ed età moderna’,
Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà nell’Europa preindustriale. Amministrazione, tecniche operative e ruoli economici. Atti del
Convegno, Genova, 1-6 ottobre 1990 (Atti della Società ligure di Storia Patria, nuova serie, 31; Genova 1991) I 205-223;
Id., ‘Banchieri e mercanti. Modelli di classificazione nella dottrina giuridica genovese’, The Growth of the Bank as Institution
and the Development of Money-Business Law, V. Piergiovanni cur. (Comparative Studies in Continental and Anglo-American
Legal History 12; Berlin 1993) 77-89. È particolarmente significativo che questa norma già nel 1375 era stata estrapolata
dagli statuti civili e criminali ed era stata inserita nella normativa politica, a sottolineare il rilevante interesse pubblico nella
regolamentazione dei rapporti vitali per l’economia genovese: cfr. Piergiovanni, ‘Banchieri e falliti’ 19.
37 Santarelli, Per la storia del fallimento 199 e ss. Cfr. inoltre Pecorella - Gualazzini, ‘Fallimento’ 230, 231: «in una prima
fase i beni alienati, donati o distratti dal fallito vennero direttamente avocati alla massa patrimoniale lasciando, con
limitazioni, agli aventi causa la possibilità di provare che il loro acquisto non era stato fraudolento: si era così invertito
l’onere della prova… negli statuti la chiamata in revocatoria degli acquirenti dei beni del fallito, acquista spesso il sapore di
25
In tutti e due i gruppi, poi, il fondamento della revocazione è comunque costituito dalla
simulazione o dalla frode da cui è affetto il negozio posto in essere dal mercante successivamente
fallito; solo che per esigenze di economia processuale la prova della frode, richiesta negli
ordinamenti del primo gruppo, è sostituita negli ordinamenti del secondo gruppo dall’adozione del
criterio del ‘periodo sospetto’: criterio fondato su un dato obiettivo e perciò di facile applicazione38.
A parte l’equiparazione tra frode e simulazione e la concezione restitutoria dell’azione, che
per il romanista ortodosso sono ‘aberranti’39, è per il resto evidente il rapporto di filiazione che lega
alla corrispondente azione civile la revocatoria disciplinata dalle normative della lex mercatoria per la
procedura fallimentare.
Infatti, per i glossatori, e successivamente, per i commentatori, il fondamento dell’azione
revocatoria civile era la frode. La gl. ‘eam rem petere’ ad Inst. 4.6.6. enuncia chiaramente il
fondamento dell’azione revocatoria sia per gli atti a titolo oneroso che per quelli a titolo gratuito:
«Sed unde oritur haec actio? Responde ex quasi maleficio: quando dolus fuit in vendente et emente.
Si autem in vendente tantum: tunc potest dici ex quasi contractu, si agitur contra illum
possidentem». Nel caso degli atti a titolo oneroso la fraus consiste nel fatto illecito dell’alienante e
dell’acquirente che in combutta hanno indebolito il patrimonio dell’alienante facendo venir meno le
garanzie patrimoniali per il soddisfacimento dei creditori dello stesso alienante. Nel caso degli atti a
titolo gratuito il fatto illecito consiste nella frode dell’alienante che senza causa giustificabile ha
depauperato la propria consistenza patrimoniale per frodare i creditori40.
Quanto agli effetti dell’azione revocatoria, il diritto romano tace, o comunque non è preciso,
circa l’inefficacia dell’atto fraudolento e anche le normative particolari non sono univoche né chiare:
la revocatoria di volta in volta produce la nullità ipso iure, oppure mira alla dichiarazione della nullità,
dell’annullabilità, dell’inefficacia relativa, dell’inopponibilità del negozio. Alberico da Rosciate
una chiamata a titolo di responsabilità obbiettiva, che prescinda da un comportamento effettivamente lesivo di interessi
altrui o dell’interesse pubblico».
38 U. Santarelli, ‘Disposizioni generali [I parte]’, Disposizioni generali della dichiarazione di fallimento: art. 1-22.
Commentario Scialoja - Branca: Legge fallimentare a cura di F. Bricola, F. Galgano, G. Santini (Bologna Roma 1974) 1516, riassume così la vicenda legislativa dell’azione revocatoria: «Il punto dal quale mossero i legislatori (e lo scopo al quale
fin da principio mirarono) fu di garantire la restituzione alla massa fallimentare di quei beni di cui il fallito si fosse
sbarazzato fraudulenter seu dolose. Ma, sia per la constatata difficoltà di fornir la prova dell’intentum fraudis, sia per consentire
agli organi fallimentari d’evitar un incidente di cognizione, i legislatori sostituirono al presupposto soggettivo della fraus
quello oggettivo (e agevolmente constatabile) del tempo di compimento dell’atto depauperante il patrimonio: dapprima
riconoscendo a questo elemento oggettivo del tempo la funzione di fatto noto, da cui risalire presuntivamente al fatto
ignorato (e malamente accertabile) dell’intenzione fraudolenta; e, in seguito, dimenticato del tutto questo procedimento
presuntivo, dando autonoma rilevanza a quello che ancor oggi si suol definire “periodo sospetto”».
39 Significativamente così si esprime Santarelli, Per la storia del fallimento 210.
40 Cfr. Piano Mortari, L’azione revocatoria, in particolare 125-126, 148-149, 155-156, 164, 184. I postaccursiani e i
commentatori, anche sulla spinta delle legislazioni statutarie, riconsiderarono alcuni aspetti dell’azione revocatoria: così
per Dino e Pierre de Belleperche l’azione revocatoria è un’azione personale dativa che nasce da un fatto illecito, cioè dalla
fraus posta in essere dal debitore e non da un preesistente rapporto di diritto sostanziale. I glossatori distinguono infatti tra
azioni native, che sono quelle derivanti da un rapporto preesistente di diritto sostanziale, e azioni dative, che sono quelle
collegate a una obbligazione di origine extracontrattuale, stabilite dal diritto positivo per la tutela dei danni derivanti da
fatti illeciti. Per Pierre de Belleperche l’azione revocatoria è un’azione stricti iuris e non bonae fidei: l’attore chiede la
restituzione di una cosa solo al fine di conseguire quel che gli è dovuto e del debito non fanno parte i frutti del bene
alienato; se invece l’attore avesse un diritto di proprietà sul bene, tale diritto si estenderebbe naturalmente anche ai frutti
del bene.
Anche nella dottrina del Trecento la revocatoria si fonda sul dolo del fraudator. Interessante è però la posizione di
Iacopo Bottrigari che vuole rendere più incisivo il fondamento della revocatoria: pur aderendo al principio per cui la
revoca non può prescindere dalla fraus del debitore, Bottrigari osserva che non sempre il terzo contraente è consapevole
dell’intento fraudolento. Per ancorare la responsabilità del terzo al comportamento fraudolento del debitore, Bottrigari
ritiene quindi di individuare il fondamento della revoca nell’intento fraudolento del debitore anche quando il terzo è
conscius fraudis. Quando invece il terzo è in buona fede, o si tratti di atti a titolo gratuito, il giurista pone a fondamento della
revoca il comportamento ‘oggettivamente’ lesivo dell’interesse dei creditori.
26
sostiene l’annullabilità degli atti sulla base della distinzione tra atti compiuti in fraudem legis e atti
compiuti in fraudem creditorum: solo per i primi manca del tutto la validità giuridica dell’atto e lo scopo
dell’azione potrebbe raggiungersi e potrebbe coincidere con l’accertamento giurisdizionale della
nullità dell’atto. Per i secondi, invece, se non si esperisse l’azione, l’atto compiuto dal fraudator
rimarrebbe valido e produrrebbe gli effetti suoi ‘naturali’41.
Fin qui il dato normativo. L’azione revocatoria così come è disegnata negli ordinamenti
sembra essere coerente con le caratteristiche del diritto fallimentare delle origini, un diritto di
‘natura’ pratica, fondato su «sbrigative forme di esecuzione mercantili», lontano dai «cavilli
interminabili», ostile «alla penetrazione dei concetti del mondo giuridico»42.
3.
Il momento giudiziale nei secoli XVI-XVIII
Il discorso sull’azione revocatoria può muovere ora dalla narrazione di alcuni casi — tutti
ascrivibili ai decenni compresi tra la fine del secolo XVI e i primi anni del secolo XVIII — che si
posero all’attenzione dei giudici, in particolare di quelli della Rota romana, genovese, avignonese e
fiorentina.
Di volta in volta le fattispecie riguardano diversi aspetti dell’azione revocatoria. Alcuni sono
ricorrenti: si pensi innanzitutto all’individuazione del momento in cui insorge lo stato di decozione,
oppure all’indagine sul rapporto cronologico tra le ‘circostanze causative del fallimento’ e l’atto
giuridico di cui si chiede la revoca. Altri aspetti, invece, sono peculiari di ciascun caso e con i primi
si intrecciano: alcune sentenze distinguono tra stato momentaneo di crisi del mercante (per esempio,
crisi di liquidità) e stato irreversibile di insolvenza; altre riguardano la decozione del mandante o del
mandatario e affrontano i problemi degli effetti del fallimento sul mandato, con le relative
conseguenze sulle parti del contratto ed, eventualmente, sui terzi. Un caso, infine, si incentra sulla vis
attrattiva del fallimento: cioè, se, e quando, i creditori possano ‘inseguire’ i beni del decotto che
siano passati nel patrimonio dei terzi, con tutti i connessi delicati problemi di tutela della buona fede
e dell’affidamento.
Quasi sempre i casi che qui si espongono riguardano fallimenti di grossi mercanti attivi nel
commercio internazionale. Gli effetti del fallimento coinvolgono non solo soggetti e interessi
presenti nell’ambito territoriale in cui risiede il mercante, ma anche attività imprenditoriali e
finanziarie che il mercante conduce in piazze lontane. Il fallimento si ripercuote quindi su una vasta
cerchia di soggetti collegati al fallito: corresponsales, banchieri, soci. Tra i casi che meglio evidenziano
la propagazione degli effetti del fallimento sul mercato vi sono quelli che riguardano il fallimento del
traente la lettera di cambio, lo strumento di pagamento assai diffuso proprio nel commercio
internazionale.
I casi che qui si espongono risalgono — come si è detto — ai secoli XVI-XVIII e furono
decisi nei tribunali pubblici: proprio a partire dal secolo XVI le cause mercantili, fino ad allora
41 Cfr. Santarelli, Per la storia del fallimento 207 e Piano Mortari, L’azione revocatoria 185-186.
42 Così Pecorella - Gualazzini, ‘Fallimento’ 228, che spiegano come sin dalle sue origini il fallimento si era affermato
come una procedura meramente esecutiva; acquistando solo in un secondo tempo — quando si ampliò la categoria dei
crediti suscettibili di insinuazione — anche un carattere, sia pure solo eventuale, di cognizione. La dottrina di Guglielmo
Durante del primo e del secondo decreto distingueva due momenti: col primo decreto si immettevano i creditori nei beni
del fallito; col secondo si aggiudicavano effettivamente i beni o si vendevano all’incanto per soddisfare i creditori. Ma fu
necessario qualche tempo affinché la dottrina di Guglielmo Durante si affermasse nella prassi: infatti i tribunali delle
corporazioni mercantili non ammettevano la presenza degli avvocati perché «parve opportuno tener distanti dal mondo
degli affari i portatori di cavilli interminabili (come dicevano gli avversari) o i portatori d’una superiore esigenza di
giustizia e legittimità (come dicevano i giuristi stessi)… L’adito quindi alla penetrazione dei concetti del mondo giuridico
nella giurisprudenza mercantile era piuttosto ristretto, occasionale, affidato più alla evidente razionalità delle soluzioni che
al rigore dei principi».
27
sottoposte alla giurisdizione della corporazione dei mercanti, furono assegnate alla giurisdizione
ordinaria, cioè ai tribunali pubblici, composti o integrati da giuristi43.
Il processo di graduale rafforzamento del potere politico su quello corporativo della
mercatura si avvia già nei secoli XIV-XV: tuttavia la forza dell’universitas mercantile che si esprimeva
nell’autonomia associativa e nel diretto e autonomo potere normativo continua a manifestarsi nel
carattere di universalità delle regole mercantili ora travasate nelle legislazioni statuali. Il rapporto tra
le varie universitates e le loro rispettive giurisdizioni diventa la pietra angolare di tutta la costruzione
giuscommercialistica che si alimenta e trae origine dall’incontro e dallo scontro fra due ordinamenti,
l’ordinamento comunale e quello corporativo.
La dialettica tra gli ordinamenti corporativi e politici si sviluppa quindi lungo l’arco di due, tre
secoli e, per la comprensione di questo complesso processo, sono opportune alcune considerazioni:
la prima, di Ascheri, che avverte che va verificata la certezza per cui sia sufficiente l’approvazione o
la redazione d’uno statuto o la nomina dei dirigenti di un ente da parte di un potere che si pretende
superiore per far perdere iniziativa autonoma e potere politico all’ente “approvato” o ai suoi
dirigenti; l’altra, di Piergiovanni, che pone l’accento sul rischio di assolutizzare la portata
‘rivoluzionaria’ dell’Ordonnance du Commerce del 1673 che trasferiva ai tribunali statali le competenze
dei tribunali corporativi. L’ordonnance è una «tappa, certo fondamentale, di un più complesso
processo, piuttosto che un’innovazione sradicata dalle vicende del diritto commerciale ad essa coevo
o appena precedente… appare ancora una volta esagerato il suo innalzamento a simbolo di un
fondamentale processo di integrazione legislativa, dal momento che poco ha mutato nella realtà
della vita commerciale»44.
Evidenziare la natura pubblica dei tribunali che hanno risolto i casi che qui si citano e
sottolinearne la composizione tecnico-professionale è necessario per porre l’accento sin da ora su
alcuni elementi importanti: il ruolo protagonista dei giuristi — giudici e avvocati — nella
interpretazione-formazione del diritto commerciale; la progressiva giuridicizzazione del fallimento.
Entrambi gli elementi concorrono a un progressivo mutamento del fallimento: contribuiscono
infatti all’apertura di parentesi di cognizione nell’ambito del procedimento fallimentare che
originariamente era caratterizzato prevalentemente, se non addirittura esclusivamente, dalla
esecuzione.
43 Sui tribunali cfr. Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni, nonché gli studi di Gino Gorla raccolti in Diritto comparato e
diritto comune europeo (Milano 1981) e gli Atti del convegno Grandi Tribunali e Rote nell’Italia di antico regime M. Sbriccoli e
A. Bettoni curr. (Milano 1993) con i contributi specifici su Macerata (G. Gorla, P. Cartechini, A.M. Napolioni), Genova
(V. Piergiovanni, R. Savelli, C. Bitossi, M. Fortunati), Bologna (F. Boris - T. Di Zio, A. De Benedictis, A. Gardi), Firenze
(M. Verga, G. Pansini), Lucca (V. Tirelli), Perugia (C. Cutini), Avignone (B.G. Zenobi), Ferrara (C. Penuti), Urbino (M.
Bonvini Mazzanti) e la ricca letteratura ivi citata. Cfr. inoltre R. Savelli, ‘Tribunali, «decisiones» e giuristi: una proposta di
ritorno alle fonti’, Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, G. Chittolini, A. Mohlo,
P. Schiera curr. (Quaderni dell’Istituto storico italo-germanico 39; Bologna 1994) 397-421. Per gli aspetti comparativi, con
particolare riguardo ai Paesi Bassi, ad Amburgo, all’Inghilterra, cfr. anche i saggi di W.D.H. Asser, E.C. Frentz,
C.P.Rodgers e K.W. Nörr, raccolti in The Courts and the Development of Commercial Law, V. Piergiovanni ed., (Comparative
Studies in Continental and Anglo-American Legal History 2; Berlin 1987).
44 V. Piergiovanni, ‘Diritto commerciale nel diritto medievale e moderno’, Digesto delle discipline privatistiche. Sezione
commerciale 4 (Torino 19894) 21-27 (dell’estratto). Cfr. A. Padoa Schioppa, ‘Giurisdizione e statuti delle arti nella dottrina
del diritto comune’, Saggi di storia del diritto commerciale (Milano 1992) 37 e ss., già pubblicato in Studia et documenta historiae et
iuris 30 (1964) 170-234; Pecorella - Gualazzini, ‘Fallimento’ 225; M. Ascheri, ‘Mercanzie Mercanti e Istituzioni. Dal caso di
Siena alla storia d’Italia’, Rassegna economica. Relazione al Seminario ‘Interessi economici e Istituzioni politiche nella storia
d’Italia’ 15.12.1986, C.C.I.A.A. Milano (C.C.I.A.A. di Siena) 87 (1987) 43-45. Sull’ordonnance cfr. J. Hilaire, Introduction
historique au droit commercial (Paris 1986) 79-82; R. Szramkiewicz, Histoire du droit des affaires (Paris 1989) 180-193; F. Galgano,
Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale (Bologna 19933) 73-77 e A. Asquini, ‘Codice di Commercio’, Enciclopedia del diritto
7 (1960) 250 e ss. che sottolinea la sostanziale continuità tra l’ordonnance, consolidazione delle esperienze tardomedievali e
dei primi secoli dell’età moderna, e il Code de commerce voluto da Napoleone.
28
CAPITOLO IV
La revocatoria nell’interpretazione dei giuristi.
Scelte, metodi, strumenti
1.
Il fecondo rapporto circolare prassi-teoria-prassi.
a) Sul piano legislativo: il ‘diritto che viene su dalle cose’
Le considerazioni sviluppate sui casi descritti non hanno la pretesa di esaurire la trattazione
dell’azione revocatoria, ma servono solo a tratteggiare a grandi linee le vicende dell’azione nell’età
moderna. Pur con i limiti indicati, però, credo si possa affermare che dall’indagine sui singoli casi, e
dall’analisi degli strumenti probatori e della logica interna delle decisioni, emerga la centralità del
fecondo rapporto circolare prassi-teoria-prassi. La prassi, cioè, sia sul piano giudiziale, sia sul piano
del diritto sostanziale124, diventa occasione e momento di elaborazione teorica. Anzi, sul piano
processuale lo stretto rapporto tra il ‘diritto che viene su dalle cose’ e la riflessione dei giuristi è
ancora più evidente che sul piano normativo dato che per sua natura il processo è sempre attento
alla prassi.
Sul piano della produzione legislativa del diritto commerciale la ‘centralità della prassi’
certamente non vuole porre l’accento su un diritto che si rivolge a ‘praticoni’ o che è il prodotto di
‘praticoni’: i mercanti, infatti, sono portatori e protagonisti di una cultura propria125. Piuttosto la
‘centralità della prassi’ vuole sottolineare una costante degli ordinamenti, corporativi prima e
pubblici poi. È significativo infatti che l’attenzione e la sensibilità per le istanze del ceto mercantile,
caratteristiche ‘naturalmente’ costitutive ed essenziali delle normative e delle procedure corporative,
rimangano costanti anche nelle normative e nei tribunali pubblici. Il fondamento di tale continuità
può individuarsi nel peso politico del ceto mercantile e nel riconoscimento della rilevanza pubblica
dell’attività mercantile: si pensi in particolare all’attività finanziaria. La più attenta storiografia ha
messo in guardia dall’esagerare il peso politico dei mercanti, rilevando come l’attenzione degli
ordinamenti pubblici per le istanze dei mercanti persiste anche quando il ceto mercantile non
124 Alla centralità della prassi nella formazione del diritto commerciale fa esplicito riferimento Antonio Padoa
Schioppa, ‘Introduzione’, Saggi di storia del diritto commerciale (Milano 1992) 8-9: «Scaturito dalle esigenze del commercio e
dell’artigianato dei comuni medievali italiani, frutto dell’incontro felice tra l’iniziativa del mercante e la fantasia creatrice
del notaio nell’ambito delle corporazioni di mestiere, il nuovo diritto con i suoi istituti… si è formato anzitutto nella vita
quotidiana dei commerci. Esso è divenuto consuetudine, e come tale si è affermato in Europa… ben prima che leggi e
dottrina lo accogliessero e lo rielaborassero… Di questa centralità della prassi — «il diritto che viene su dalle cose»,
secondo la celebre espressione di Cesare Vivante — la storia stessa della legislazione offre numerose conferme… Un
aspetto tra i più significativi tra quelli che l’indagine storica rivela, consiste proprio nella perdurante apertura
transnazionale del diritto commerciale, nella continua circolazione di modelli legislativi… avvenuta all’interno del
continente…». Cfr. anche R.C. van Caenegem, Introduzione storica al diritto privato (trad. it. Bologna 1995) 109-111.
125 Si pensi a opere come I libri della famiglia di Leon Battista Alberti fortemente caratterizzati dalla concezione della
professione mercantile fondata sulla moralità. Sul milieu culturale del ceto mercantile, e anche sui rapporti tra i mercanti e i
giuristi, cfr. A. Sapori, La mercatura medievale (Firenze 1972); Id., Il mercante italiano nel medioevo (Milano 1983); J. Le Goff,
Mercanti e banchieri nel Medioevo (Messina Firenze 1976); A. Giuliani, ‘Quale etica per il mercato?’, Teorie e forme della
razionalità pratica (Quaderni dell’Istituto di filosofia dell’università di Perugia; estratto s. d.) 33-47; Hilaire, Introduction
historique 44 e ss.; R. Savelli, ‘Modelli giuridici’ 3-24; V. Piergiovanni, ‘The Itinerant Merchant and the Fugitive Merchant in
the Middle Ages’, Of Strangers and Foreigners (Late Antiquity - Middle Ages) L. Mayali, M.M. Mart curr. (Berkeley s.d.) 81-96;
C. Petit, ‘Derecho mercantil: entre Corporaciones y Códigos’, Hispania. Entre derechos propios y derechos nacionales. Atti
dell’incontro di studio - Firenze/Lucca, 25-27 maggio 1989, B. Clavero, P. Grossi, F. Tomas y Valiente curr. (Per la storia
del pensiero giuridico moderno 34; Milano 1990) I 315-380; B. Clavero, Antidora (Per la storia del pensiero giuridico
moderno 39; Milano 1991) 35-56; J. Fried, Kunst und Kommerz. Über das Zusammenwirken von Wissenschaft und Wirtschaft im
Mittelalter vornehmlich am Beispiel der Kaufleute und Handelsmessen (Schriften des Historisches Kolleg 32; München 1993) e
Migliorino, ‘Profilo storico delle procedure concorsuali’.
53
esprime più un ruolo politico di primo piano126. Non v’è dubbio comunque che, nell’ambito della
progressiva statalizzazione della giurisdizione, il riconoscimento della rilevanza pubblica dell’attività
commerciale — in particolare dell’attività che riguarda il grande commercio internazionale e le
grandi operazioni finanziarie — è testimoniato nel grado più alto proprio dal trasferimento ai
tribunali statali delle competenze prima riservate ai tribunali delle corporazioni mercantili. E
appunto nella sede giudiziale l’ordinamento affida l’interpretazione e il coordinamento degli interessi
mercantili, e pubblici in generale, alla mediazione dell’equilibrio e dell’arbitrium prudentis iudicis.
Nel contesto esaminato, caratterizzato da una costante attenzione del legislatore e
dell’interprete per l’attività mercantile, la tutela dell’affidamento e dei creditori, necessaria per la
certezza dei traffici, viene fuori in parte dal dettato normativo, in parte dall’opera interpretativa dei
giudici e finisce per fondarsi sulla presenza contemporanea di tre elementi: la natura dichiarativa
della sentenza di fallimento; la presunzione di fraudolenza degli atti compiuti dal decocturus nel
periodo precedente il suo fallimento; il fatto che tale presunzione — come si è detto — sia
interpretata come una presunzione iuris tantum e operi solo a favore dei creditori del fallito.
1.2
segue. La disciplina della revocatoria: funzione indennitaria e funzione preventiva
Si consideri innanzitutto il dettato normativo. Gli ordinamenti sanciscono la nullità dei
negozi conclusi entro un certo termine precedente la dichiarazione di fallimento. Le norme — come
si è già detto — si fondano sulla presunzione che lo stato di insolvenza insorga in capo al mercante
già nel periodo (ragionevolmente breve) precedente la sentenza dichiarativa di fallimento. I negozi
che il mercante conclude in tale periodo si presumono compiuti in stato di insolvenza, si
considerano attuati in frode ai creditori e sono pertanto soggetti a revoca127. Le norme fissate dagli
statuti esentano dall’onere della prova i creditori che agiscono per la revoca: i creditori che agiscono
a tutela dei loro crediti nei confronti del mercante fallito possono infatti chiedere la revoca degli atti
posti in essere dal mercante nel ‘periodo sospetto’ senza dovere provare lo stato di insolvenza,
poiché — appunto — tale stato si presume128.
126 Cfr. l’efficace sintesi di Piergiovanni, ‘Diritto commerciale nel diritto medievale e moderno’ 7 e ss. dell’estratto e
la letteratura ivi citata.
127 Costantini e altri giuristi suoi contemporanei hanno affrontato anche il problema dell’assoggettamento alla revoca
di un atto posto in essere da chi è prossimo al fallimento per rinunciare ad un diritto: per esempio, ad un’eredità, ad un
legato, ad un usufrutto ecc. I giuristi hanno distinto i diritti già acquisiti da quelli che devono ancora essere acquisiti dal
fallito (per esempio un’eredità o un legato che siano già stati accettati da un’eredità o un legato che devono ancora essere
accettati). Nel caso di un diritto già acquisito, la rinuncia del decocturus fatta in frode ai creditori è senza dubbio
assoggettabile a revoca perché si tratta di una vera e propra deminutio del patrimonio del fallito. Nel caso di diritti che
devono ancora essere acquisiti si ritiene invece che il prossimo alla decozione possa rinunciare e si afferma che i debitori
non possono essere costretti ad accettare l’eredità o il legato ecc. «Nam tali casu, non diminuit patrimonium, sed non
acquirit, nec ex hoc dicitur fraudare creditores, dum iura debitoribus ac decoctoribus prohibentia alienationem in fraudem
creditorum procedunt in iure quaesito, et radicato, non autem in iure quaerendo, cum hoc non sit in bonis debitoris, et
possit hic non acquirere, nec propterea dicitur patrimonium diminuere, nec praeiudicare creditoribus, qui in iuribus
quaerendis non habent ius certum, sed eventuale, nempe si a debitore acceptentur et acquirantur»: Costantini, Observationes
forenses, cap. CXIV de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, p. 311a, che indica anche opinioni di giuristi che si
discostano dall’orientamento esposto, assolutamente prevalente.
128 I decocti — e i proximi decoctioni che ad essi sono equiparati — sono puniti dalle leges e dallo statuto perché «solent
omnia gerere plena fraudibus et simulata ad fraudandos creditores». I decocti e i proximi decoctioni sono dolosi, fraudum
machinatores; vale l’equivalenza decoctus-fraudator: cfr. Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV de venditionibus a decoctis
factis, annot. 26 art. 1, p. 305.
Per la revocatoria civile nel senso di un alleggerimento dell’onere della prova in capo al creditore si era già
pronunciato Jacopo d’Arena, segnando una cesura profonda rispetto al pensiero dei glossatori. Questi ultimi, infatti,
uniformandosi al diritto romano, escludevano la possibilità di provare la frode con presunzioni. Iacopo sostiene invece
che si può fare ricorso alle presunzioni quando ricorrono determinate circostanze che inducono inequivocabilmente a
ritenere che gli atti di disposizione dei beni sono stati posti in essere dal debitore per frodare i creditori e diminuire le loro
54
Dall’esame dei casi sembra pacifico che la funzione normativa dell’azione revocatoria
corrisponda per grandi linee a quella che oggi la giuscommercialistica definisce ‘indennitaria’: con
tale espressione si sottolinea che un atto può essere revocato in quanto compiuto in pregiudizio del
patrimonio del debitore (e quindi in pregiudizio dei creditori), ammettendo, però, che il pregiudizio
possa consistere anche solo nel mancato rispetto della par condicio, come nel caso del mercante magni
nominis129.
La revocatoria fallimentare, così come è disegnata nelle legislazioni particolari e applicata nei
tribunali dei secoli XVI-XVIII, non esaurisce la sua funzione solo nel ristretto — anche se assai
importante — ambito normativo, ma estende naturalmente i suoi effetti anche nell’ambito
economico-produttivo.
La disciplina normativa finisce infatti per influenzare lo svolgimento dell’attività economica:
si pensi non solo alla ripartizione del danno economico del fallimento tra i creditori del fallito, ma
anche e soprattutto agli effetti che la disciplina del fallimento produce sui comportamenti e sulle
decisioni degli imprenditori. Infatti, la ripartizione del danno riguarda solo i creditori
dell’imprenditore fallito, e quindi produce i suoi effetti ex post, dopo il fallimento; gli effetti sui
comportamenti si hanno invece nei confronti di tutti i soggetti che si muovono sul mercato, già
prima e al di fuori del fallimento. In questo senso può affermarsi una funzione ‘preventiva’ della
disciplina della revocatoria. Così, per esempio, in alcuni soggetti che si muovono all’interno del
mercato possono insorgere remore a compiere alcuni atti con determinati imprenditori e ciò
produce sicuramente degli effetti sul piano della circolazione dei beni e della concessione dei crediti.
Il rischio che gli atti traslativi e i pagamenti vengano sottoposti a revoca induce i protagonisti del
mercato a selezionare le proprie controparti tra gli imprenditori più affidabili e finisce così con
garanzie. Anche Jean Faure accetta il criterio delle presunzioni di frode. Così la prova della frode viene sempre più
frequentemente raggiunta tramite l’utilizzazione di criteri oggettivi e presunzioni: si giunge presto a far coincidere la frode
con il compimento di determinati atti che per il fatto stesso di essere posti in essere costituiscono chiara prova della frode.
Conseguentemente si giunge presto a superare la necessità di esperire l’excussio bonorum prima della azione revocatoria. Se,
infatti, il compimento di determinati atti costituisce prova della frode, è inutile esperire l’excussio bonorum per avere la prova
della fraudolenza dell’atto consistente nella diminuzione delle garanzie patrimoniali del debitore. Sul fondamento e sulla
natura dell’azione cfr. Piano Mortari, L’azione revocatoria, in particolare 153-154, 166, 181.
129 Sulla funzione del fallimento, cfr., oltre i contributi di Santarelli e Pecorella-Gualazzini, anche Galgano, Lex
mercatoria, in particolare 61-66 e Migliorino, ‘Profilo storico delle procedure concorsuali’, in corso di stampa. Sulla
funzione, anzi sulle funzioni, dell’azione revocatoria fallimentare si vedano le interessanti osservazioni, relative al diritto
italiano vigente, ma anche ad altri ordinamenti contemporanei, che sono emerse dal recente dibattito che ha interessato la
giuscommercialistica italiana: in particolare mi riferisco ad A. Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria (Padova 1970); Id., ‘La
«funzione» della revocatoria fallimentare’, Giurisprudenza commerciale 3 (1976) I 362 e ss; a M. Libertini, Pagamento cambiario e
revocatoria fallimentare. Un contributo alla teoria della revocatoria (Quaderni di giurisprudenza commerciale 2; Milano 1983) 57122, in particolare 104 e ss.; Id., ‘Sulla funzione della revocatoria fallimentare: una replica e un’autocritica’, Giurisprudenza
commerciale 4 (1977) I 84 e ss., pubblicato anche in Studi in onore di Andrea Arena (Padova 1981) 1039 e ss. e a F.
D’Alessandro, La revoca dei pagamenti nel fallimento (Milano 1972) 167 e ss., 107 e ss. Cfr., da ultimo, M.E. Gallesio Piuma,
L’azione revocatoria fallimentare (I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale 19; Padova 1992) 1-27 e la
completa letteratura ivi citata. Alla funzione ‘indennitaria’ oggi si contrappone la funzione ‘non-indennitaria’ o
‘redistribuitiva’ secondo la quale il requisito del pregiudizio dei creditori non è essenziale presupposto per la revocatoria,
che mira invece a far gravare le perdite conseguenti al fallimento non solo sul patrimonio dei creditori insoddisfatti nel
momento della dichiarazione di fallimento, bensì sul patrimonio di una cerchia più ampia di soggetti. Sia detto per inciso
che la differenza tra i sostenitori della teoria ‘indennitaria’ e quelli della teoria ‘non-indennitaria’ si spinge oltre. Per i primi
il patrimonio del debitore deve essere ricondotto nella situazione anteriore al compimento dell’atto revocato: per cui nel
caso di revoca di un pagamento, il creditore revocato può iscrivere al passivo il credito originario; in caso di revoca di un
atto dispositivo, il revocato può invece iscrivere al passivo solo un credito corrispondente al valore della
controprestazione che eventualmente ha già pagato al fallito. Per i sostenitori della teoria ‘non-indennitaria’ il terzo
revocato può in tutti i casi iscrivere al passivo un credito corrispondente al valore della prestazione che ha dovuto
restituire al fallimento. Per esempio, nel caso di Invitto, Granara, secondo la prima teoria, avrebbe potuto iscrivere al
passivo del fallimento di Invitto un credito pari al prezzo pagato per il sale; per la seconda teoria avrebbe potuto invece
iscrivere al passivo un credito pari al valore del sale (calcolato cioè sulla base del prezzo a cui ha rivenduto il sale).
55
l’isolare l’imprenditore marginale accelerando la sua uscita dal mercato130. Significativamente nei casi
di De Cesare, degli Zavaleis e di Cayrel si è posta in evidenza l’importanza, e, conseguentemente, la
rilevanza a livello processuale, che i giudici attribuiscono alla obiettiva conoscibilità dello stato
economico-finanziario dei mercanti all’interno del loro ambiente.
Inoltre, come si è visto nei casi che si sono descritti, il giudice e gli imprenditori sono
consapevoli che il fallimento non è il risultato di un singolo atto, bensì di un’errata o sfortunata
conduzione dell’impresa: per esempio, nel caso degli Zavaleis, il giudice valuta il complesso
dell’attività dei falliti; nel caso del mercante magni nominis, i creditori, nonostante lo stato di crisi
economico-finanziaria, non richiedono la dichiarazione di fallimento, perché riconoscono che
l’impresa è correttamente gestita e pertanto continuano a concedere credito al mercante in crisi
affinché possa superare la difficile congiuntura.
Ma i riflessi della disciplina della revocatoria sul piano economico non si fermano qui. Si
consideri per esempio il caso del mercante magni nominis o il caso di Ottaviano e Nicola Lomellini: è
evidente che i creditori sono propensi a concludere un accordo con il mercante in crisi, piuttosto
che affrontare la procedura fallimentare. Ora, la scelta del criterio su cui imperniare la disciplina
della revocatoria, cioè la scelta tra criterio del periodo sospetto (inteso come presunzione assoluta, o
iuris tantum, di invalidità degli atti compiuti nel periodo sospetto) e criterio della retrodatazione
(inteso come possibilità del giudice di accertare il momento dell’insorgere dello stato di insolvenza e
invalidare gli atti compiuti a partire da quel momento) non è priva di riflessi sul comportamento dei
soggetti attivi sul mercato.
Si faccia il caso del mercante Tizio che attraversa un momento di crisi economico-finanziaria,
ma che non può soltanto per questo considerarsi decocturus e tale non è considerato presso i soggetti
del mercato. È naturale che Tizio, pur di alleviare la propria ‘sofferenza’ e la propria esposizione
debitoria, venda la propria merce anche al di sotto del prezzo corrente nel mercato. Può accadere
che il ricavato della vendita consenta a Tizio di migliorare il proprio stato economico-finanziario e
di uscire dalla crisi, perché, per esempio, il denaro raccolto serve ad alleggerire la pressione dei
creditori e permette di ricorrere di nuovo al credito. Ma può anche accadere che poco dopo la
vendita (comunque entro un arco di tempo inferiore al periodo sospetto), in seguito al sopravvenire
di una congiuntura sfavorevole, la crisi di Tizio diventi irreversibile ed egli fallisca: che fine farà la
vendita della merce a prezzo inferiore a quello corrente nel mercato? Sarà o non sarà soggetta a
revoca?
Se si adotta il criterio del periodo sospetto (inteso come presunzione assoluta di invalidità
dell’atto) la vendita potrà essere revocata. Se si adotta lo stesso criterio (inteso come presunzione
iuris tantum) la vendita non sarà revocata, perché si proverà che nel momento della conclusione
dell’atto il mercante godeva ancora di buona fama e che l’atto non è stato concluso in frode ai
creditori. Se si adotta il criterio della retrodatazione — cioè se si affida al giudice l’individuazione del
momento dell’insorgenza della decozione — la vendita non sarà revocata perché l’atto non è stato
concluso quando il mercante era già in stato di insolvenza.
È evidente che l’adozione dell’uno o dell’altro criterio ha riflessi immediati sul piano
economico e, conseguentemente, sul comportamento dei soggetti attivi sul mercato. In particolare,
l’adozione del periodo sospetto (inteso come presunzione assoluta) costituisce una remora
fortissima a contrarre con il mercante in crisi, con effetti generali negativi sull’economia, perché si
130 Questo meccanismo lineare nasce, e funziona bene, in un mercato che agisce in condizioni assolutamente libere e
in un ordinamento che tutela i creditori e non avverte ancora l’esigenza di tutelare gli altri interessi sociali colpiti dal
fallimento. Risulta invece ormai inadeguato rispetto alle condizioni attuali del mercato: finisce infatti per rivolgersi solo
alle piccole imprese, poiché per le grandi imprese in difficoltà scattano meccanismi di salvataggio che cercano sia di
tutelare gli interessi economici dei creditori e dell’impresa stessa, sia di ammortizzare gli effetti sociali del dissesto: cfr.
Libertini, ‘Sulla funzione della revocatoria fallimentare’, Giurisprudenza commerciale 87 e ss. e 93 e ss. (in Studi Andrea Arena
1043 e ss., 1053 e ss.) e letteratura ivi citata.
56
finisce per togliere allo stesso mercante in crisi la possibilità di risollevarsi dallo stato di
sofferenza131.
2.
b) Sul piano giudiziale: il ruolo del prudentis iudicis arbitrium tra etica del mercato ed etica
della ragionevolezza
Si guardi ora al ruolo che i giuristi, giudici e avvocati132, assumono nella vicenda della
revocatoria e, più in generale, nella tutela dell’ordine pubblico commerciale.
La rete di protezione che l’ordinamento pone a tutela della correttezza dei traffici può
funzionare efficacemente solo se ai giudici si consenta un’ampia ‘intrusione’ nell’indagine sulle
circostanze di ciascun caso insieme con una certa discrezionalità nella scelta degli strumenti
probatori e dei percorsi processuali.
È opportuno ribadire che i tribunali chiamati a decidere i casi esaminati non sono
magistrature corporative, bensì tribunali statali, istituiti già nel secolo XVI (o anche prima: si pensi
alla Rota romana), e composti, o comunque ‘assistiti’, da giudici togati: a tali tribunali spettano ormai
le competenze in materia commerciale, prima riservate alle magistrature corporative. Tuttavia i
giudici devono giudicare anche tenendo conto della inveterata consuetudo propria della mercatura, e ciò
non è senza effetti: dalla sostituzione dei ‘giudici mercanti’ con i ‘giudici dottori’ nasce un nuovo
«stilus che, volta a volta giustificato e teorizzato, contribuirà a introdurre a pieno titolo nella dottrina
giuridica le più significative elaborazioni del mondo mercantile»133. L’impatto dei giudici dottori con
gli usi mercantili e con le figure teoriche emergenti nella mercatura è difficile: i mercanti conoscono
bene i contratti e gli usi mercantili, ma non sanno capirne il valore giuridico; i giudici sono spesso
costretti a rivolgersi ai mercanti per meglio conoscerne gli usi e i contratti non regolamentati nel
diritto comune. I mercanti, poi, ritengono che le controversie possano e debbano risolversi tutte
secondo equità134, «mentre l’equità — afferma Casaregi — non è mai quella che può suggerire il
proprio cervello»135. Ma Casaregi sottolinea anche che non è «impresa né men così facile agli stessi
131 In questi termini ha analizzato i riflessi della disciplina della revocatoria, per indagare sui problemi e sulle
inadeguatezze della procedura fallimentare, nel diritto italiano vigente, Tullio Ascarelli, ‘Ancora in tema di imprenditore
occulto’, Problemi giuridici (Milano 1959) II 505-506.
132 Al termine ‘giuristi’ per gli anni e i grandi tribunali a cui si fa qui riferimento può affiancarsi in modo
assolutamente fungibile il termine ‘giudici’. Tutti i giuristi fin qui citati sono stati impegnati ad alto livello nella funzione
giurisdizionale: si pensi alle vicende biografiche di Scaccia, Stracca, Costantini, De Luca tutti impegnati nel foro. Può bene
richiamarsi quanto afferma Ennio Cortese, Il rinascimento giuridico medievale (Roma 1992) 95: «… la trasformazione graduale
della dottrina giuridica, dall’età dei glossatori in poi, si accompagna a un lento spostamento dell’asse portante del ceto dei
giuristi: che a poco a poco si trasferisce dalle aule accademiche a quelle dei grandi tribunali. L’attore principale sulla scena
del diritto era stato il sapiente che insegnava: all’aprirsi dell’età moderna è piuttosto il giudice che giudica». Cfr. inoltre
Gorla, Diritto comparato 547-551, Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni 86-87, 89-99. Specifico per il regno di Napoli è P.L.
Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento (Napoli 1981) 371-463.
133 Piergiovanni, ‘Una raccolta di sentenze’ 83-84. Sui tribunali cfr., supra, note 16 e 17.
134 Interessante è il ritratto del giudice ideale di Peri, Il negotiante 58 e ss.: «… prudentissime sono le leggi mercantili le
quali hanno provisto… che i Giudici nel terminare le differenze che fra’ mercanti occorrono, habbino riguardo solamente
alla pura verità del fatto, così deve farsi, e non mirare all’ambiguità delle parole, o sottigliezze di ragioni, col che in poco
tempo gl’impongono fine; stile che se fusse usitato da molt’altri giudici, si levarebbero le tan te varie interpretationi; che a
ciascheduna parola sono date, conforme alla sottigliezza de’ difensori, il che serve più a mostrare l’acutezza del loro
intelletto, che la sostanza della causa, e s’abbreviarebbe la lunghezza del tempo… Quattro conditioni parmi che si
richieggano in ogni giudice. Prima, che sia timorato di Dio, e di costumi integerrimi… Seconda, che sia litterato e
prudente… ove nelli libri legali si nomina vir bonus, s’intenda giudice idoneo, cioè che il giudice sia vir bonus iuris dicendi et
equitatis peritus… Ha da esser prudente, e la prudenza nasce dall’esperienza delle occorse, e la virtù della prudenza nel
Giudice più vale che la dottrina. Terza conditione, che sia d’animo intrepido, e giustissimo, dovendo giudicare, o secondo
la legge, o secondo la consuetudine senz’alcun effetto humano, in maniera, che nel giudicare non vi sia differenza dalla
causa dell’amico a quella del nemico…».
135 Così Casaregi, Discursus legales, disc. 56, II, p. 193.
57
Dottori, il saper rinvenir bene questa equità»136. La difficoltà del giudice è comprensibile: egli per
giudicare deve ‘leggere’ con le sue lenti di giurista la realtà economico-giuridica in cui agisce il
mercante. «Il diritto commerciale di questo periodo — afferma Tullio Ascarelli — ci presenta
appunto l’enucleazione di una normativa il cui centro è costituito dallo scambio e dal mercato e che
già acquista (nonostante il criterio soggettivo della sua applicazione) un valore proprio,
distinguendosi così da un mero diritto di classe e dalla disciplina interna delle corporazioni e dei
suoi membri, di importanza prevalente nelle corporazioni di mestiere… La formazione,
originariamente italiana, è sostanzialmente uniforme nel campo internazionale e indipendente da
limiti di frontiera, sì che lo Stracca parlerà non a torto di un nuovo ius gentium»137. Il giurista deve
quindi ‘filtrare’ e ‘decodificare’ la dimensione economico-giuridica del mercante — e non solo sul
piano della terminologia, che pur essendo importante non è neppure il più significativo —, e
«decidere poi quello che riguarda l’essenza e la qualità delle obbligazioni, che dipendono solamente
da articoli legali… [e] ridurre il caso, che accade in pratica, a quella specie di contratto che meglio
pare adattarglisi»138. Il ‘codice’ che il giurista utilizza nella sua opera di ‘decodificazione’ è lo
strumento che meglio conosce, il ius commune139. Naturalmente non più e non soltanto il ius commune
come insieme delle leges e delle constitutiones del Corpus iuris civilis, ma come complessa esperienza
giuridica: «quando statutum refert ius commune, refert non solum leges, seu constitutiones corporis
iuris civilis, sed omnes intellectus, ac interpretationes, quas cumulaverunt Doctores ac Iurisconsulti
tractantes, consulentes, ac decidentes super eisdem legibus»140.
Le auctoritates cui si richiamano gli estensori delle decisioni studiate e gli autori delle opere
utilizzate sono assai raramente glossatori; poco frequentemente commentatori; quasi sempre,
naturalmente, giuristi contemporanei o del secolo precedente: lungo l’arco di tempo che qui si è
preso in considerazione si tende a citare sempre di più giuristi vicini nel tempo e sempre di meno
giuristi del passato.
Inoltre, l’internazionalità della circolazione delle dottrine commercialistiche è evidente nelle
citazioni delle raccolte di consilia e di decisiones, nonché in quelle dei tractatus riguardanti materie
specifiche141.
I giuristi — giudici e avvocati nei rispettivi ruoli — impegnati nei grandi tribunali non
rimangono estranei al lungo e articolato processo di formazione del diritto commerciale. Nel
confronto processuale i giudici e gli avvocati operano scelte riguardanti il petitum, la causa petendi,
l’actio: sono tutte scelte, di strumenti e di percorsi, rilevanti sul piano dell’economia processuale e,
conseguentemente, essenziali per una pronta ed efficace tutela dell’interesse privato dei creditori e
dell’interesse pubblico del commercio142.
136 Così Casaregi, Discursus legales, disc. 56, II, p. 193.
137 T. Ascarelli, ‘Sviluppo storico del diritto commerciale e significato dell’unificazione’, Saggi di diritto commerciale
(Milano 1955) 10: l’autore sottolinea l’omogeneità del diritto commerciale anche rispetto alle regioni europee, l’Inghilterra,
per esempio, rimaste estranee all’esperienza dello ius commune.
138 Così Casaregi, Discursus legales, disc. 56, II, p. 193, lamenta l’incomunicabilità tra mercanti e giuristi.
139 Sul punto, cfr. M. Bellomo, L’Europa del diritto comune (I libri di Erice 1; Roma 19947) 236-237.
140 Joseph Laurentius Maria de Casaregis, Elucubrationes in Opera (Venezia 1740) III 144. Sul brano cfr. F. Calasso,
Introduzione al diritto comune (Milano 1951) 74, 83-86 e G. Cassandro, Lezioni di diritto comune (Napoli 1971) I 286-288.
141 Cfr. Piergiovanni, ‘Diritto commerciale’ 21-27 (dell’estratto): «I legami degli studiosi con la pratica e la
giurisprudenza delle Corti specializzate si collegano quindi, già dal secolo XVI, a nuove condizioni economiche e
politiche… Novità e legami con la tradizione consuetudinaria, nazionalismo giuridico e persistenza di carattere di
vocazione internazionale sono un patrimonio, solo apparentemente, contraddittorio, che viene consegnato all’opera di
codificazione ottocentesca». Cfr., inoltre, Galgano, Lex mercatoria 66-69 e, sul successo e sulla circolazione delle dottrine
elaborate nei tribunali italiani, Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni 89-99 e Gorla, Diritto comparato 543-617.
142 Piergiovanni, ‘Banchieri e falliti’ 36-37, riferendosi ai primissimi decenni del XVII secolo a Genova, dopo il
passaggio dalla legislazione del 1528 a quella del 1573 chiarisce bene il ruolo della giurisprudenza: «in questo quadro
politico-istituzionale che ne condiziona l’azione, la giurisprudenza rotale si qualifica in rapporto alla tradizione giuridica
locale, alle consuetudini mercantili ed al diritto comune. Attraverso questi tre poli, che interagiscono tra loro di continuo,
la pratica dell’emporio genovese viene elevata a livelli di più generale elaborazione tecnica, e si chiariscono così alcune
58
Gli avvocati e i giudici valutano le circostanze del caso e, ciascuno nel proprio ruolo,
scelgono la loro strategia processuale: gli avvocati per tutelare gli interessi delle parti, i giudici per
affermare le ragioni del diritto. Le scelte degli uni e degli altri concorrono alla vita del processo di
cui scandiscono l’andamento. Per essere più chiari si può tentare un’esemplificazione. Per comodità
di esposizione si considera qui solo il ruolo del giudice: del resto il giudice non è il dominus assoluto
del processo, ma solo uno dei protagonisti; pertanto è evidente che le scelte che nella
esemplificazione gli si attribuiscono sono in effetti il risultato del confronto dialettico parti-giudici.
Il giudice può assumere come termine di riferimento la dichiarazione di fallimento e, senza
necessità di ulteriori indagini, revocare gli atti che siano stati compiuti nel ‘periodo sospetto’ indicato
dalla legge e calcolato a partire dal momento della sentenza.
In assenza di una dichiarazione di fallimento, o, in presenza di una dichiarazione di fallimento
che, per essere stata pronunciata ‘tardivamente’, salverebbe atti conclusi in frode dei creditori, il
giudice può invece percorrere un altro itinerario: può ignorare la data della dichiarazione di
fallimento (che ha valore dichiarativo), e, avvalendosi di tutti gli strumenti probatori disponibili (in
primo luogo le presunzioni), può individuare il momento della decozione. Così individuato il
momento dell’insorgere dello stato di decozione può calcolare, proprio a partire da quel momento,
il ‘periodo sospetto’ previsto dallo statuto e revocare gli atti compiuti in tale periodo143.
Quando, infine, gli atti sono conclusi prima del ‘periodo sospetto’ non sono per questo
attaccabili, in via di principio, dall’azione revocatoria: se il giudice accerta però che tali atti sono stati
compiuti in frode ai creditori con il fine di dilazionare il fallimento e lucrare da tale dilazione, può
comunque concedere la revoca di tali atti. Il giudice può infatti provare anche con il ricorso alle
presunzioni che si tratta di atti fraudolenti e simulati e può pertanto sottoporli a revoca144.
In generale può affermarsi che sul piano legislativo, ma anche su quello giurisprudenziale, si
giunge ad una equiparazione tra il decoctus e il proximus decoctioni perché si presume secondo l’id quod
plerumque accidit che il proximus decoctioni si trovi in uno stato di insolvenza già prima della
dichiarazione formale di fallimento, anche perché — come si è già detto — si ritiene che il
fallimento sia il punto di arrivo di una errata o sfortunata gestione complessiva dell’impresa e che
solo in casi eccezionali consegua invece al compimento di un singolo atto.
L’equiparazione del decoctus al proximus decoctioni, che sul piano legislativo è limitata al ‘periodo
sospetto’ sancito dallo statuto, viene sul piano giurisprudenziale fissata di volta in volta dal prudentis
iudicis arbitrium: il giudice può bene ‘ampliare’ il limite fissato dallo statuto, perché questo è sancito
«ad corroborationem eorum quae a iure communi tradita sunt». L’equiparazione costituisce così uno
strumento fondamentale di cui giudici e giuristi si servono per la tutela dei creditori del mercante
fallito.
Al giudice è riconosciuto dunque un ampio margine di discrezionalità. Tale ‘possibilità di
manovra’ è funzionale alla realizzazione dell’economia processuale che è uno degli strumenti
essenziali per una più pronta ed efficace tutela degli interessi dei mercanti.
Ma qual è — al di là dell’evidente opportunità politica e di fatto — il fondamento giuridico di
tale capacità di manovra del giudice?
Esso è senza dubbio la buona fede, a cui devono essere ispirati tutti i comportamenti dei
mercanti, in primo luogo le relazioni che sorgono in dipendenza dei contratti commerciali. Tali
contratti di solito non sono contratti ‘stricti iuris’ bensì appunto contratti di buona fede. Per questi
contratti da un lato possono trascurarsi gli ‘apices iuris’ e le ‘solemnitates iuris’, dall’altro l’indagine
direttrici del formarsi della nuova scienza del diritto commerciale… La tradizione del diritto comune non rimane però
estranea alla formazione di questo nuovo complesso scientifico, e la circostanza sarebbe parsa strana trattandosi di
elaborazioni provenienti da giuristi di scuola romanistica. Il recupero delle vecchie dottrine da adattare alle nuove esigenze
pratiche e scientifiche, già tentato con diversi fini e risultati almeno da Santerna e Stracca, avviene attraverso un uso,
spesso ridondante, di citazioni dottrinali: la tradizione locale e la consuetudine mercantile associate al diritto romano ed
agli antichi autori consentono alla nuova scienza di trovare agganci ed appoggi teorici». Cfr., inoltre, U. Santarelli, Mercanti
2
e società tra mercanti (Torino 1992 ) 47-53; Hilaire, Introduction historique 45-55.
143 Come nel caso dei Bonavogli: cfr., infra, cap. II, § 3.
144 Cfr., supra, nota 78.
59
del giudice può spingersi fino a chiarire tutte le circostanze del caso: «omnia libere ex aequo et bono
aestimat»145.
Proprio la tutela della buona fede consente al giudice di non sottoporre a revoca quegli atti
che, pur conclusi nel ‘periodo sospetto’, non possono ritenersi compiuti in danno dei creditori,
perché il terzo contraente non conosceva lo stato di decozione (o di imminente decozione) della sua
controparte146.
Il ruolo del giudice è esaltato da Giovan Battista De Luca: nel discorso CXV de regalibus il
giurista affronta il problema della individuazione del proximus decoctioni, passando in rassegna varie
soluzioni legislative. Per il Senatus di Valentia deve considerarsi proximus decoctioni chi fallisce
entro un mese dalla conclusione del contratto di cui si chiede la revoca; per i giudici della Rota
romana il termine è di 14 giorni; per Francesco Rocco il termine è modicum, di appena due o tre
giorni; per lo statuto di Ancona è di otto giorni; per quello di Bologna in alcuni casi è di un anno, in
altri addirittura di quattro anni.
Di fronte ad un panorama normativo così variegato De Luca conclude:
«… Quicquid nostri doctores varient, veritas esse videtur, certam regulam tradi non posse,
sed totum repositum esse in prudentis iudicis arbitrio, ex singulis facti circumstantiis regulando.
Multoties enim casus decoctionis est talis quod etiam per plures menses a creditoribus, et aliis cum
mercatore contractibus praevidetur, et multo magis ubi agitur de actibus ab ipso decocturo gestis ad
favorem uxoris, filiorum, seu aliorum coniunctorum in creditorum fraudem et supplantationem,
quia ut plurimum isti infames, et perditi homines, de eorum statu bene conscii, cum fallacibus
apparentiis negotiatores eludentes per annos, eorum futuram decoctionem praevident, itaut quo
magis effectent pompas, et apparentias eo magis augeatur suspicio. Multoties vero etiam ipsis
decocturis, aliisque negotiantibus casus contingit novus, ita ut actus etiam per diem, vel horam antea
gesti, bonae fidei et in statu habili censendi sint, quia nempe casus proveniat ab insperato infortunio
naufragii mercium, sive decoctionis alicuius mercatoris, vel corresponsalis in diversa civitate, vel
provincia commorantis, ex quo ultimo casu probatissimos, et satis idoneos mercatores scio pluries
innocentes propriae decoctionis damnum, et iniuriam passos esse. Sive ex morte naturali eiusdem
mercatoris alioquin probi, et idonei, ob pecuniam, et bonorum occultationem a coniunctis, vel
famulis, ut est casus in Rom. seu Bonon. litterarum Cambii pro Federico, sub eodem titulo de credito vel cambiis.
Unde erroneum dicebam in ista materia certi et determinati temporis regulam dare»147.
145 Arnoldus Vinnius, In quatuor libros Institutionum Commentaria (Venezia 1726) II 887. Ma già Bartolo, Comm. in
Secundam ff. Veteris Partem ad l. Si fideiussor §quedam [D.17.1.29] (Venezia 1575) fol. 104va, aveva fissato lo stesso principio:
«Not. quod apices iuris dicuntur qui subtilitatem quandam respiciunt magis quam facti veritatem. Nota quod in curia
mercatorum debet iudicari de bono et aequo, omissis iuris solennitatibus, quid est dictum. Hoc non dico quod debeat
intelligi non habito respectu ad iura civilia: quia esset contra l. Bona fide supra titu. i. [D.16.1.27]; sed debet intelligi non
inspectis solemnitatibus iuris, hoc est non inspectis apicibus iuris, qui veritatem negotii non tangunt…». Sull’argomento
cfr., A. Padoa Schioppa, ‘Giurisdizione e statuti delle arti’ 54; G.P. Massetto, ‘Buona fede nel diritto medievale e
moderno’, Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile 2 (Torino 19884) 133-154, in particolare 147-150, e la letteratura ivi
citata; R. Meyer, Bona Fides und Lex mercatoria in der europäischen Rechtstradition (Göttingen 1994) 56-68. Deve segnalarsi che il
processo sommario ebbe origine proprio nelle curiae mercantili: cfr. L. Goldschmidt, Storia universale del diritto commerciale
(trad. ital. Torino 1913) 137-142 e Lattes, Il diritto commerciale 242-307. Sul ruolo dell’aequitas nella decisione del giudice cfr.
E. Cortese, La norma giuridica (Milano 1962) I 91 s.
146 In tal senso Casaregi, Il cambista istruito cap. I nn. 3-4, p. 38, che richiama, tra i tanti, Benvenuto Stracca, De
decoctoribus part. 3, n° 51 e 52, p. 482, e la decisio 184 della Rota genovese (cfr., supra, cap. II, § 2.). Sul brano di Casaregi cfr.,
infra, p. 115 e ss.
147 De Luca, Theatrum veritatis VIII de regalibus disc. CXV, pp. 177b-178a. Dello stesso tenore è il discorso X de
credito et debito, Theatrum veritatis VIII, p. 17ab: «Si quidem certum est, quod actus gesti per decocturum, ac de tempore
decoctioni proximo, sunt de iure invalidi ob praesumptam fraudem, absque distinctione… Quando autem quis dicatur
decocturus, et quale sit tempus decoctioni proximum, in iure statutum non reperitur, variis varia opinantibus… Veritas
tamen est, ut ista sit quaestio facti potius, quam iuris non admittens certam ac determinatam regulam, sed ut pro
singulorum casuum circumstantiis diversimode decidenda veniat… adeout leguleica simplicitas mihi semper visa sit illa
Pragmaticorum Curiae propositio, quod cum in dicta
60
Anche Francesco Costantini, dopo avere registrato le differenti opinioni dei giuristi
sull’ampiezza del ‘periodo sospetto’ (2, 3, 10, 15, 20 giorni), sostiene che solo alla discrezione del
giudice spetti determinare l’ampiezza del periodo. Solo il giudice può infatti valutare le circostanze
del singolo caso: per esempio, non si può dedurre il dolo solo dal fatto che l’atto è compiuto poco
prima della decozione e devono ben valutarsi comportamenti come quelli di alcuni mercanti che
continuano a gestire i loro affari pubblicamente e a procurarsi mercanzia per poi rifugiarsi in luogo
sicuro e imporre ai creditori condizioni svantaggiose o addirittura esasperanti. Tali comportamenti
non possono considerarsi di semplici decotti, bensì di latrones, publici commercii proditores148. E, proprio
a proposito del caso di De Cesare149, dopo avere approfondito i problemi relativi all’ammissibilità
della decoctio latens, Costantini conclude, rilevando la variabilità degli orientamenti giurisprudenziali
conseguente alla difficile individuazione di criteri certi e omogenei:
«in hoc admirati remanserunt mercatores, ac negociatores, et bene in hoc dici potest, quod
tot homines, tot sententiae, et quod in digestione eiusdem cibi adest diversitas in stomachis
diversarum personarum»150.
E anche Casaregi, a proposito della piena equiparazione tra il decoctus e il proximus decoctioni,
dopo aver dato notizia delle differenti soluzioni legislative, affida al giudice il compito di indagare
sulle condizioni economiche del mercante nel momento della conclusione dell’atto di cui si chiede la
revoca: solo il giudice, infatti, può ben valutare caso per caso le condizioni economico-finanziarie
del mercante prima della decozione. Nell’indagine il giudice deve appurare se il mercante sia
prossimo alla decozione per un evento inopinato e imprevedibile quali il naufragio di una nave, o il
fallimento di altri mercanti da cui dipendevano i suoi affari, o altri imprevedibili infortuni; oppure se
il mercante sia stato in floride condizioni economiche sino a pochi giorni prima della decozione; o,
ancora, se il mercante, già consapevole da giorni o anche da mesi del suo futuro fallimento, tuttavia
abbia nascosto il suo precario stato economico e abbia continuato ad esercitare la mercatura al fine
decisione 9 Buratti, reputetur tempus proximum illud 14 dierum, ita iste terminus ad id statutus censeatur. Quoniam
stant simul ut in uno casu terminus brevis unius diei non sit sufficiens ob casualem ac inopinatam superventam
decoctionem probi negotiatoris resultantem a magno mercium naufragio vel (et frequentius) a decoctione alterius
negotiatoris corresponsalis; et a converso, ut dicatur decoctio praeparata per plures annos, quamvis artificiose occultata, ut
frequens praxis docet, atque locis citatis advertitur, praesertim d. tit. de cambiis. Cum igitur id in iure statutum non sit, sed
remissum arbitrio iudicis ex facti qualitate regulando. Hinc proinde nihil prohibet, quin lex laicalis, experta regionis mores
quod decoctiones per notabile tempus praeparari ac praevideri soleant ad huiusmodi quaestiones dirimendas, certum ac
uniformem terminum statuat longiorem vel breviorem, ut experientia docuit…».
Nello stesso senso è l’affermazione a proposito del disc. CXII. 6-10 del titolo de credito et debito, Theatrum veritatis ac
iustitiae VIII, p. 176b: «Quaestio videbatur potius facti quam iuris, an scilicet de tempore exequutionis aut subhastationis,
debitor dici posset decoctus. Atque super hoc maiores disputationes fuerunt, cum decisio penderet ex circumstantiis facti,
illam controversam qualitatem includentibus vel excludentibus…».
Gli stessi termini del cardinale De Luca usa Carolus Antonius de Luca, Animadversiones in Stephanus Gratianus,
Disceptationes 554a: «Quando quis dicatur decocturus, et quale sit tempus decoctioni proximum in iure statutum non
reperitur, variis varia opinantibus… Veritas tamen est ut ista quaestio facti potius quam iuris non admittens certam, et
determinatam regulam sed ut pro singulorum casuum circumstantias diversimode decernenda veniat…». Si veda anche
quanto afferma Costantini, riferendosi al fallimento di De Cesare, a proposito del prudentis iudicis arbitrium (cfr., infra, nota
126).
148 Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 1, p. 306b: «… Non
conveniunt scribentes quando quis dicatur decoctioni proximus…At in huiusmodi opinionum conflictu verior est
sententia, quod circa tempus id totum remittaur arbitrio iudicis, qui considerabit, nedum tempus circa decoctionem, cum
ex sola brevitate temporis actus gesti paulo ante decoctionem non possit praesumi dolus, et fraus in contractu, ac actu
gesto, sed simul inspiciet qualitatem antecedentium et subsequentium, ac alias facti circumstantias eius arbitrio
examinandas a solo tempore non deductas…».
149 Cfr., supra, cap. I, §§ 2.2 e 2.2.1.
150 Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 3, p. 313b: cfr., supra,
p. 11.
61
di lucrare dalla dilazione del fallimento. Come è evidente Casaregi è sulla stessa linea di De Luca,
alla cui auctoritas spesso, come in questo caso, si riferisce151.
Dall’esame dei casi si ricava l’impressione che i protagonisti del processo, giudici e avvocati,
abbiano sempre affidato al momento processuale — e al giudice innanzitutto — l’esercizio di un
ampio potere ‘intrusivo’ di indagine volto ad accertare i due elementi che sul piano giuridico si
considerano rilevanti per la concessione della revoca: lo stato di decozione (latente, oppure già
avvenuta, anche se non ancora dichiarata) in capo al mercante nel momento della conclusione
dell’atto di cui si chiede la revoca; la consapevolezza di tale stato in capo al terzo. Per quanto poi
riguarda il terzo elemento che dalla concorrenza dei primi due si presume — cioè la fraudolenza
dell’atto in danno dei creditori del mercante — si ha l’impressione che il giudice si sia preoccupato
di raggiungere la prova, anche al di là di quanto richiesto dalla lex mercatoria. Sembra infatti che
anche nei casi in cui la normativa statutaria prevedesse la revocabilità dell’atto concluso durante il
‘periodo sospetto’, il giudice si sia tuttavia comunque preoccupato di accertare la consapevolezza
dello stato di decozione in capo al terzo contraente. A margine di queste considerazioni non è
superfluo ribadire che non è rilevante che il giudice abbia agito spontaneamente o su richiesta degli
avvocati patrocinanti le parti in causa: infatti la valutazione delle vicende processuali guarda al
processo nel suo insieme e muove dalla convinzione che il processo sia il risultato di un confronto
in cui concorrono i ruoli protagonisti del giudice e degli avvocati.
I soggetti del processo — e in primo luogo i giudici che assumono la responsabilità della
decisione — sembrano guidati da quella che Alessandro Giuliani ha definito la ‘morale della
ragionevolezza’, indicando con questa espressione la morale della virtù del diritto naturale aristotelico
per sottolinearne la caratteristica costituita dalle interferenze tra virtù etiche e dianoetiche152.
Significativamente Giuliani afferma che l’economia, l’etica e il diritto fino alle soglie dell’età
moderna sono legate da un rapporto simbiotico dalla cui dissoluzione è nata l’idea dell’economia
come scienza: «l’etica venne intesa come filosofia delle virtù civili; pertanto continuò ad essere
considerata un’essenziale premessa alla politica, al diritto, all’economia. I risvolti di questa atmosfera
culturale possono cogliersi nella stessa ideologia dei mercanti, che continuò a ravvisare nella
moralità commerciale un momento fondamentale della professionalità»153.
«L’uomo virtuoso — continua Giuliani — non delibera emotivamente e precipitosamente,
ma dopo aver puntigliosamente indagato tutti gli aspetti della questione, come in un processo: la
prevedibilità delle conseguenze costituisce un momento fondamentale della giustificazione di una
decisione. L’etica aristotelica ha altresì una dimensione istituzionale: le regole di condotta si
affermano nella lenta evoluzione delle pratiche sociali. Di esse, nella polis greca, erano custodi gli
arbitri. Pertanto quella etica risulta imparentata con l’immagine di un’attività professionale legata ai
valori giuridici della comunità e con pesanti responsabilità di fronte ad essa»154.
Dall’analisi dei casi sembra emergere uno scarso peso della lex mercatoria ispirata al criterio del
‘periodo sospetto’: si consideri infatti che anche nei casi che si sarebbero potuti risolvere sic et
151 Casaregi, Discursus legales, disc. 75, II p. 252a.
152 «Prudenza e giustizia presuppongono l’esercizio di quella ‘facoltà di giudicare’ che è rappresentata dall’intelletto»:
Giuliani, ‘Quale etica’ 39.
153 Giuliani, ‘Quale etica’ 35-43: nella concezione aristotelica non è possibile una ‘scienza’ morale proprio perché le
questioni etiche “sono strutturalmente conflittuali e controversiali”. Consapevoli dei limiti della conoscenza umana e dei
conseguenti rischi e incertezze, si afferma che la soluzione giusta debba scaturire dalla assunzione di responsabilità di chi
opera la scelta, scelta «che può essere ragionevole ma non razionale…». Giuliani richiama il pensiero di Adam Smith, e di
Giovan Battista Vico, che hanno avvertito che i «presupposti epistemologici ed etici di un ordine economico ‘giusto’
vanno ricercati nella retorica e nella morale, considerate nelle loro interferenze reciproche: entrambe trovano un punto
d’incontro nell’esperienza giuridica… Non appare casuale che dall’età media all’umanesimo — il ritorno alla morale della
virtù abbia potuto offrire le categorie della ‘giustizia nello scambio’ all’etica delle professioni, ivi compresa quella
mercantile, permettendo ad esse di affermare la credibilità del loro ruolo sociale». Sulla emersione dell’economia come
scienza autonoma e sulle concettualizzazioni della figura del mercante e dell’attività commerciale cfr. anche S. Amato,
‘L’impresa nell’evoluzione storica del diritto commerciale. Strutture sistematiche e modelli normativi’, Materiali per una
storia della cultura giuridica 1 (1988) 25-33.
154 Giuliani, ‘Quale etica’ 40.
62
simpliciter applicando la normativa della lex mercatoria fondata sul ‘periodo sospetto’, la dialettica
processuale si impegna nella ricerca della prova della consapevolezza del terzo e della fraudolenza
dell’atto.
Così nel caso degli Zavaleis si prova che i mercanti, quando hanno compiuto l’imposizione
del censo, erano già falliti e si prova che il terzo contraente era consapevole dello stato di decozione
del dante causa: risulta raggiunta conseguentemente la prova della fraudolenza dell’atto concluso in
danno dei creditori degli Zavaleis.
Così anche nel caso di Ottaviano Lomellini si prova che Demetrio era consapevole dello
stato di decozione di Ottaviano nel momento della conclusione del contratto di acquisto della casa e
si prova la simulazione dell’atto.
Allo stesso modo nel caso dei Bonavogli si prova lo stato di decozione nel momento della
vendita dello zucchero e si prova direttamente la fraudolenza dell’atto e la consapevolezza di tale
fraudolenza anche in capo al terzo, cioè in capo a Offmann.
E, infine, anche nel caso di Invitto si procede nello stesso modo: si prova che Invitto aveva
concluso la vendita del sale quando era già consapevole della sua imminente decozione e si dimostra
che l’atto era concluso da Invitto, in combutta con Granara, in frode di Pietro Miranda, mandantecreditore di Invitto.
Prima di tentare una spiegazione del comportamento del giudice e di tracciare un’ipotesi al
riguardo, non è superfluo richiamare alcune considerazioni già fatte: innanzitutto non è da
escludersi che in assenza di un momento controversiale, che inevitabilmente accende un processo di
cognizione, e quindi al di fuori e prima del processo, si applichi la ‘sbrigativa’ disciplina fondata sul
‘periodo sospetto’. In secondo luogo è altamente probabile che tale disciplina sia stata utilizzata dal
giudice della corporazione, quando ancora la materia fallimentare non era stata affidata al giudice
togato.
Tuttavia, almeno per quanto riguarda il momento giudiziale, sembra affermarsi un’immagine
del diritto fallimentare che non corrisponde più a quella medievale. Se infatti il diritto fallimentare
conserva anche nei secoli XVI-XVIII la sua origine pratica, non sembra più caratterizzato da
«sbrigative forme di esecuzione mercantili», lontano dai «cavilli interminabili», ostile «alla
penetrazione dei concetti del mondo giuridico»155. Sembra piuttosto un diritto che si forma
preferenzialmente nel momento giudiziario della complessa esperienza giuridica pluriordinamentale,
e che trae alimento dal continuo sforzo di elaborazione teorica dei giuristi. Costoro sono impegnati
a ordinare le istanze del mondo economico, quali la certezza e la rapidità della circolazione dei beni,
e si servono naturalmente degli strumenti teorici che la tradizione del ius commune — e, nell’ambito
del ius commune, in primo luogo il diritto di formazione giurisprudenziale —, mette loro a
disposizione. In questo ‘ugualitario paesaggio pluriordinamentale’ i giuristi ricorrono al diritto
comune perché «il diritto comune, in cui la universalità è null’altro che il riflesso della sua intima
razionalità, ha delle straordinarie capacità ordinanti e conseguentemente una forza espansiva
altrettanto straordinaria: perché è il diritto ed è tale perché incarna la pura razionalità giuridica»156.
3.
Una scelta coerente: il valore della sentenza dichiarativa del fallimento
Nel corso dello studio è emerso più volte che i giuristi consideravano il criterio del periodo
sospetto inadeguato per la tutela degli interessi in gioco nella revocatoria, cioè degli interessi dei
creditori del fallito e dei terzi di buona fede aventi causa dal fallito. Per esporre in termini più chiari
l’insufficienza del criterio del periodo sospetto è opportuno richiamare adesso un altro elemento al
quale più volte si è fatto cenno: mi riferisco al valore meramente dichiarativo della sentenza di
fallimento157. Le fonti normative non sono chiare e univoche sul valore della sentenza di
155 Cfr., supra, nota 15.
156 P. Grossi, L’ordine giuridico medievale (Bari 1995) 235. Cfr., per il periodo classico del diritto comune, M. Bellomo,
‘La scienza del diritto al tempo di Federico II’, Rivista Internazionale di Diritto Comune 3 (1992) 184-187, 193-196.
157 Cfr., supra, cap. II, § 3.
63
fallimento158: ma dall’esame dei casi è emerso l’orientamento che privilegia il valore meramente
dichiarativo: si tratta di un dato assodato e non controverso159.
Non ritengo arbitrario considerare contemporaneamente il valore della sentenza e il criterio
del periodo sospetto, perché credo che la scelta operata dai giuristi riguardo ai due elementi
risponda ad un unico principio. Infatti, le scelte per il valore dichiarativo della sentenza e per il
criterio del periodo sospetto (inteso come presunzione relativa di invalidità degli atti) sono scelte tra
di loro coerenti; invece vi è un’intrinseca incompatibilità tra il valore dichiarativo della sentenza e il
criterio del ‘periodo sospetto’ inteso come presunzione assoluta di invalidità degli atti.
Se si assume il valore dichiarativo della sentenza, inevitabilmente non può accogliersi il
criterio del periodo sospetto, e viceversa. Attribuire un mero valore dichiarativo alla sentenza di
fallimento significherebbe infatti minare dall’interno il funzionamento di un ‘sistema’ di revoca
fondato sul criterio del ‘periodo sospetto’ come presunzione assoluta di invalidità. Se si ammette
infatti che il fallito possa essere tale anche prima della sentenza di fallimento, il giudice è obbligato a
determinare il momento dell’insorgenza dello stato di decozione (momento che può ben essere
distinto da quello in cui è stato dichiarato giudizialmente il fallimento). Considerato che il fallimento
solitamente non è il risultato del compimento di un singolo atto ma piuttosto il risultato di una
conduzione dell’impresa errata o sfortunata, è necessario che il giudice valuti il complesso delle
attività economico-finanziarie del mercante: si apre così uno spazio notevole all’indagine del giudice.
Se in questo contesto si innesca una richiesta di revoca, relativa ovviamente ad un atto concluso dal
mercante nell’imminenza della decozione, è naturale che il giudice debba prima individuare il
momento in cui lo stato di decozione è insorto e poi debba decidere sulla revoca. Ma come nel
contesto così delineato può applicare il criterio oggettivo del ‘periodo sospetto’? Da quale momento
farà decorrere tale periodo? Dal momento della dichiarazione del fallimento o dal momento in cui è
stato accertato l’insorgere dello stato di decozione? In che misura, soprattutto quando insorge una
controversia per l’opposizione del terzo alla revoca, il criterio del ‘periodo sospetto’ è in grado di
tutelare i valori sommi del mercato e dell’etica mercantile, cioè l’affidamento, l’equità e la buona
fede? Come può funzionare un meccanismo che si fonda sul tempo, cioè su un criterio per sua
natura esclusivamente oggettivo, in un contesto così complesso in cui si intrecciano elementi
oggettivi e soggettivi rilevanti sul piano sociale ed economico e, pertanto, degni di considerazione
sul piano giuridico?
Allora la scelta dei giuristi riguardo al valore da attribuire alla sentenza che dichiara il
fallimento diventa una scelta obbligata: esigenze di coerenza impongono di assegnare alla sentenza
di fallimento un mero valore dichiarativo. Tale scelta funziona poi da ‘grimaldello’ per scardinare il
sistema disegnato nelle normative particolari fondate sul criterio del periodo sospetto inteso come
presunzione assoluta di invalidità dell’atto. Deve ricordarsi infatti che la presunzione posta dagli
statuti, secondo la dottrina e la giurisprudenza, opera solo a favore del creditore e mai contro gli
interessi di questi: nulla, infatti, impedisce ai creditori del mercante decotto di dimostrare iure
communi che il mercante-debitore sia prossimo alla decozione anche prima del termine fissato dallo
statuto e che quindi i negozi compiuti anche prima di quel termine debbano considerarsi nulli160. È
158 Santarelli, Per la storia del fallimento 89 e ss.
159 Per tutti cfr. Casaregi, Discursus legales, disc. 75, II p. 252b: «… quidem decoctio, ad hoc ut talis reputetur non
indiget iudicis declaratione Rot. Florent. coram Urceol. decis. 7 num 2, 3. set deducitur et probatur ex quibusdam firmissimis
argumentis…». Tra i firmissima argumenta: la confessione dello stesso decotto; il mancato soddisfacimento dei creditori e
quant’altro è stato elaborato dalla dottrina. A conferma ulteriore della tesi che qui si sostiene può richiamarsi Casaregi, Il
cambista istruito cap. II, nn. 12-13, pp. 38-39, che ribadisce che il fallimento «intendesi seguito allorché il mercante ritirasi
dalla piazza e si rende a lei latitante… senza che dal giudice ne sia fatta la dichiarazione, la quale è necessaria solamente ad
altri effetti, e particolarmente rispetto alle pene…».
160 Casaregi, Discursus legales, disc. 75, II p. 252a: «Verum tamen est quod in aliquibus locis et civitatibus reperitur per
statuta dispositum quod omnes contractus sive negotia censeri debeant nulla, et invalida, quae facta fuissent a mercatore
intra certum et determinatum tempus ante eius decoctionem, sed non propterea deducitur quod per haec statuta
derogatum fuerit dispositioni iuris communis in omnibus aliis casibus in quibus etiam ante hoc tempus statutarium
mercatores apparerent proxime decocturi propter eorum magna debita sine spe ea imposterum extinguendi. Cum
64
evidente che ciò è possibile proprio perché alla sentenza di fallimento si attribuisce un valore di
mero accertamento161. Ed è possibile perché i giuristi ribadiscono la posizione sussidiaria dello
statuto rispetto allo ius commune, affermano cioè che lo statutum — prevedendo la nullità della
vendita, della alienazione e di qualunque altro genere di negozio traslativo fatto dal decotto — non
fa altro che venire «ad corroborationem eorum quae a iure communi tradita sunt». In breve, lo
statuto «solum dat formam probandi decoctionem et simul exprimit ex quibus praecipue arguatur
simulatio alienationis et quomodo sit procedendum in revocatione alienationis»162.
4.
La revocatoria tra continuità e discontinuità
Per la conoscenza della revocatoria devono utilizzarsi le categorie della storia politica e
sociale e quelle della storia economica163, ma si deve soprattutto fare ricorso alle categorie
indubitati iuris sit quod, quando per statuta inducta fuit aliqua praesumptio, sive modus facilioris probationis in uno casu,
non per hoc intelligatur prohibitum aliud genus probationis ab iure communi permissum…».
161 La natura della sentenza non è facilmente individuabile: cfr. le osservazioni di Santarelli, Per la storia del fallimento
89-90. Tuttavia, relativamente ai casi studiati sembra possa affermarsi la natura dichiarativa della sentenza. In altri casi,
però, e in ordinamenti diversi da quelli che qui si sono considerati, alla sentenza si riconosce un valore non meramente
dichiarativo, almeno limitatamente ad alcuni effetti. In Catalogna e in Castiglia, per esempio, perché sia legittima la cattura
del decotto, ancorché già da tempo insolvente o latitante, è necessario prima ottenere la sentenza dichiarativa del
fallimento, nonostante il decotto si consideri latro publicus et eiectus a pace et tregua. Cfr. Fontanella, Decisiones Cathaloniae I,
decis. 241, pp. 445a-447a. Invece, in Italia per diritto comune il creditore che vuole fare catturare il suo debitore perché
sospetto di fuga deve provare al giudice, sia pure sommariamente, 4 elementi: 1) che è egli è il creditore e per quale
quantità; 2) che dopo la conclusione del contratto da cui nasce il credito, la situazione patrimoniale del debitore si è
deteriorata; 3) che il debitore non possiede immobili; se invece possiede mobili, che questi non sono sufficienti a
soddisfare il credito; 4) che il debitore ha intenzione di fuggire, e quest’ultima prova potrà dare con giuramento. Provati
questi elementi il giudice deve dare facoltà di catturare il debitore fuggitivo: in assenza di tali requisiti la cattura del
debitore sarà illegittima e pertanto il catturato dovrà essere rilasciato. Tuttavia in dottrina si sostiene da alcuni (per
esempio Paolo di Castro) che per esigenze di pubblica utilità sia sufficiente solo la prova del sospetto di fuga assicurata
tramite giuramento del creditore: cfr. Singularia doctorum hac postrema editione emendata et aucta analyticisque additionibus ac
doctissimis annotationibus illustrata (Venezia 1578) sing. 282. Esemplare è il cons. XIX di Alexander Tartagnus, Consiliorum seu
responsorum liber tertius (Venezia 1610) 24vb-25ra: il fanese Pietro Perusii vanta un credito nei confronti di Caio di 200
ducati d’oro, nascente dalla stipulazione di un compromesso. Pietro giura che Caio, dopo la stipula dell’atto, non possiede
beni immobili a Fano e comunque non ha beni sufficienti a far fronte ai suoi obblighi, pertanto — asserisce Pietro —
Caio è sospetto di fuga. Sulla base del proprio giuramento e per la normativa statutaria fanese, Pietro ottiene la cattura di
Caio. Il giuramento del creditore Pietro è sufficiente, in base alla normativa statutaria, ad ottenere la cattura del debitore;
tuttavia, avvenuta la cattura del debitore, affinché il provvedimento conservi la sua efficacia è necessario che il creditore
dia piena prova — per apertissimas probationes — dell’intervenuto stato di decozione del debitore (rispetto al tempo della
stipula dell’atto): «quod quamvis sufficiat iuramentum creditoris iurantis debitorem esse suspectum de fuga, quantum ad
obtinendam commissionem caturae, factam, oportet creditorem iustificare capturam, et dictam suspicionem per
apertissimas probationes».
162 Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, p. 308b.
163 Alle categorie della storia politica e sociale si ispira Francesco Galgano, Lex mercatoria 26-29, il quale, richiamando
anche il pensiero di Ascarelli, sottolinea che le categorie della conoscenza storica del diritto commerciale non possono
essere solo categorie economiche perché altrimenti non si spiegherebbe l’assenza di un diritto commerciale pur in
presenza di un’economia di scambio: pertanto Galgano privilegia il ricorso alle categorie della storia politica e sociale per
spiegare un fenomeno per cui «una serie di rapporti, per l’innanzi sottoposta al diritto comune, riceva ad un tratto una
differenziata regolamentazione normativa e diventi l’oggetto di un particolare diritto». D’altro canto, Raffaele Teti,
proprio recensendo il volume di Galgano, ‘Una storia del diritto commerciale (recensione a F. Galgano, Storia del diritto
commerciale [Bologna 1976])’, Politica del diritto 1-2 (1977) 182, afferma che per la comprensione della storia del diritto
commerciale bisogna rivalutare la categoria della storia economica: infatti la continuità tra medioevo ed età moderna non
legittima l’idea di un diritto commerciale dell’universo metastorico ed eterno e il voler leggere la storia del diritto
commerciale con le sole categorie della storia socio-politica non offre una spiegazione ragionevole di questo fenomeno,
anzi lascia intendere che i motivi di rottura siano maggiori che non i motivi di continuità.
65
giuridiche, già proficuamente sperimentate da Santarelli con riguardo al momento normativo e alla
riflessione dottrinaria: diversamente, non si spiegherebbe la continuità nel mutato contesto sociopolitico e nel mutato contesto economico164. Proprio l’adozione dello statuto epistemologico del
giurista consentirà di evidenziare nella revocatoria il complesso intreccio di elementi di continuità e
discontinuità dal tardomedioevo fino al secolo XVIII165.
Ora, nel caso della revocatoria, gli elementi di continuità e di discontinuità si intrecciano sia
sul piano normativo, sia su quello giudiziale-dottrinario. Sul piano normativo deve qui richiamarsi
ancora una volta il rapporto di species a genus che intercorre tra la revocatoria nel fallimento,
disciplinata dalla lex mercatoria, e la revocatoria civile, regolamentata dal diritto giustinianeo. Tale
rapporto è richiamato per ricordare le differenze di maggiore rilievo tra il genus della revocatoria
civile e la species della revocatoria nel fallimento. Nell’azione civile l’onere di provare la frode in capo
al debitore incombe sul creditore e la frode non può, almeno in linea generale, presumersi166. Nella
revocatoria disegnata dalle normative particolari — come ha ben chiarito Santarelli — si
confrontano due modelli, uno meno ricorrente, l’altro di maggiore successo. Tali modelli si
differenziano non per il presupposto, che anzi hanno in comune tra di loro e con l’intero genus (cioè
la simulazione e la frode), bensì per la differente disciplina riguardo alla prova del presupposto. Nel
modello meno ricorrente la fraudolenza o la simulazione dell’atto deve essere provata, come
nell’azione civile; nel modello di maggiore diffusione, invece, la fraudolenza o la simulazione
dell’atto si presume, o comunque la prova della fraudolenza è resa più facile per la parte che agisce
per la revoca, o perché può far uso di presunzioni o perché, per l’inversione dell’onere, la prova
spetta al terzo che ha concluso l’atto con il decotto. Ma soprattutto la prova dovrebbe essere resa
più facile per l’adozione di un criterio obiettivo fondato sul decorso del tempo: gli atti compiuti nel
‘periodo sospetto’ si presumono simulati, e comunque compiuti in frode ai creditori del dante causa,
e pertanto sono soggetti a revoca. Proprio l’adozione del criterio del ‘periodo sospetto’, fissato dalla
normativa della lex mercatoria per soddisfare la ragionevole istanza di rapidità della decisione mossa
dai mercanti, costituisce l’elemento di maggiore differenza tra revocatoria civile e revocatoria
fallimentare167.
Tuttavia, se nell’ambito dello ius proprium esistono questi due diversi modelli, nell’esperienza
giudiziale e dottrinaria le differenze tra i due modelli sembrano affievolirsi fino a scomparire.
Nella descrizione dei singoli casi, infatti, si è posto in risalto il fatto che i giuristi assumono il
dato normativo della lex mercatoria come uno degli elementi di riferimento per la loro attività di
interpretazione. La valutazione della normativa particolare, al pari della valutazione dei fatti su cui i
giudici sono chiamati a pronunciarsi, è attratta all’interno dell’‘interpretatio’ dei giuristi168. Può
164 Naturalmente la continuità nonostante le mutate condizioni potrebbe anche spiegarsi considerando la revocatoria
come uno «dei tanti istituti innocui della vita giuridica», che riguardano più che altro la grammatica del giurista e il
«raffinato istrumentario tecnico del suo usuale laboratorio» (cfr., infra, nota 143).
165 Credo, inoltre, che, con le opportune precisazioni imposte dal diverso oggetto dello studio, possa accogliersi
proficuamente anche per la revocatoria la chiave di lettura che Paolo Grossi ha proposto, per la vicenda delle proprietà
dal medioevo alle codificazioni, indicando un nuovo elemento — la mentalità — a cui deve guardare il giurista, «un
intellettuale dominato per sua natura (perché fa sempre i conti con il livello dei valori) da un’intima tensione alla sincronia
e al sistema, cioè alla unificazione organica dei dati». Certamente la revocatoria — se confrontata con «quel nodo
aggrovigliato di motivazioni che è la proprietà» — è uno «dei tanti istituti innocui della vita giuridica» e sembra riguardare
più la grammatica del giurista e il «raffinato istrumentario tecnico del suo usuale laboratorio», che non la mentalità, «quel
complesso di valori circolanti in un’area spaziale e temporale capace per la sua vitalità di superare la diaspora di fatti ed
episodi sparsi e di costituire il tessuto connettivo nascosto e costante di quell’area». Tuttavia, per altri aspetti, la
revocatoria è fortemente legata ai concetti della buona fede e della tutela dell’affidamento nella circolazione dei beni,
nonché alla distinzione tra socio e società e tra proprietà e impresa. Sono tutti elementi che concernono le relazioni
intersoggettive e i rapporti tra gli uomini e le cose: sono tutti elementi perciò che riguardano anche, sia pure in misura
varia, la mentalità. Cfr. P. Grossi, ‘La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico’, Quaderni Fiorentini per la storia del
pensiero giuridico moderno 17 (1988) 369-370, 381.
166 Cfr., supra, nota 106.
167 Santarelli, Per la storia del fallimento 191-212.
168 Cfr. M. Bellomo, ‘Ius Commune’, Rivista Internazionale di Diritto Comune 7 (1996) in corso di stampa.
66
accadere allora che in qualche caso i giuristi deliberatamente e consapevolmente vadano oltre la
normativa statutaria e si cimentino nella ricerca della prova della consapevolezza e della frode,
servendosi di un’ampia varietà di presunzioni; questo loro modo di procedere ha luogo anche
quando essi avrebbero potuto applicare la normativa della lex mercatoria, fondata sul ‘periodo
sospetto’, senza impegnarsi nella ricerca della prova della consapevolezza del terzo e della
fraudolenza dell’atto. Si deve ribadire che ciò che qui si sostiene si riferisce solo al momento
giudiziale e inoltre che non si può escludere che, in assenza di controversie (quindi al di fuori e
prima del processo), si applichi la disciplina fondata sul ‘periodo sospetto’. Comunque, il giudice e il
giurista, almeno nel momento giudiziale, continuano a decidere e a ragionare con schemi più vicini
alla revocatoria civile.
Le pagine de Il Cambista istruito di Casaregi contribuiscono significativamente a spiegare
l’orientamento dei giuristi riguardo alla normativa della lex mercatoria fondata sul ‘periodo sospetto’,
cioè riguardo all’elemento che sul piano normativo costituì una cesura rispetto al genus della
revocatoria civile169.
Casaregi tenta di riportare a unità affermazioni che sono tra di loro contraddittorie perché
poggiano su fondamenti diversi: sulla communis opinio doctorum da un lato; sul tenore della lex mercatoria
dall’altro. Il giurista innanzitutto fa riferimento alla communis opinio dei dottori ed enuncia che gli atti
compiuti dal decotto o dal decocturus in pregiudizio dei creditori sono nulli e invalidi perché si
presumono fatti con dolo e in frode dei creditori:
«Passa per proposizione indubitata tra’ dottori che il decotto, o fallito, o il prossimo al
fallimento non può regolarmente fare alcun’atto, alienazione, confessione, transazione, pagamento,
o qualunque altro contratto, o distratto, che sia in pregiudizio de’ suoi creditori, e facendoli,
rimangono come nulli, ed invalidi, poiché si presumono fatti con dolo, e frode de’ medesimi suoi
creditori…»
Casaregi prosegue esponendo la communis opinio dei dottori che vuole che la nullità degli atti
compiuti dal decotto o dal decocturus sia subordinata alla prova che il terzo contraente conosca lo
stato economico-finanziario del suo dante causa:
«Ciò però s’intende quando chi contratta col decotto, o prossimo alla decozione era
consapevole del di lui cattivo stato, altrimenti senza il concorso di tale scienza tutti gli atti, o
contratti si terranno talmente validi come fossero fatti con una persona idonea… Onde tutta la
disputa de iure si ristringe alla prova di questa scienza in colui che ha contrattato col decotto, o
prossimo alla decozione…»
Poi il giurista volge lo sguardo verso le soluzioni normative e registra che per alcuni statuti gli
atti compiuti nel periodo sospetto devono considerarsi «fatti con frode, o dolo senz’altra prova, e
per conseguenza ipso iure nulli ed insussistenti»: sembrerebbe pertanto inequivocabile la presunzione
assoluta di fraudolenza che colpisce gli atti compiuti nel periodo sospetto. Ma Casaregi mitiga subito
l’affermazione e, volgendo nuovamente l’attenzione alla communis opinio doctorum, avverte che «questi
statuti altro non intendono operare che una prova presuntiva contro del debitore fallito»: si tratta di
una presunzione iuris tantum che può ben essere neutralizzata dalla prova contraria:
«Conviene però qui avvertire, che questi statuti altro non intendono operare che una prova
presuntiva contro del debitore fallito, dimanieraché, se un mercadante fallisse dentro il termine da
essi stabilito fra il negozio, o contratto da lui precedentemente fatto, e il susseguente fallimento, si
doverà certamente tal contratto, o negozio in virtù di tali statuti presumere fraudolento, e doloso, e
così fatto in tempo della di lui prossima decozione; ma siccome la presunzione legale deve sempre
cedere il luogo alla verità… perciò quando altrimenti costasse in fatto, cioè che veramente il
mercadante al tempo del precedente negozio, o contratto non era in prossimo stato di fallire, ma
169 Casaregi, Il cambista istruito cap. I, pp. 38a-39a. Il passo verrà ripreso quasi letteralmente da Domenico Alberto
Azuni, ‘Fallimento’ § 6-9, Dizionario Universale ragionato della giurisprudenza mercantile II (Nizza 1787) 101-105.170 Può qui
aggiungersi a quanto si è già affermato Rocco, Notabilia de decoctoribus nott. 22, 27, pp. 437a, 438b: se il terzo acquirente
ignora l’intento fraudolento del suo dante causa gli atti a titolo oneroso non possono essere revocati; se invece ne è
consapevole gli atti possono essere revocati, ma il prezzo è restituito al terzo solo se è ancora nel patrimonio del decotto.
Parimenti gli atti a titolo oneroso possono essere revocati quando il terzo, ignaro della frode al momento della
conclusione dell’atto, ne diventi consapevole al momento della traditio.
67
che tale sua disgrazia sia proceduta poi da altro caso improvviso, e similmente si provasse, ch’egli
sin’allora dal fatto negozio, o contratto fosse stato appresso la piazza sempre in buon credito,
benché intrinsecamente non fosse solvendo, come meglio distingueremo in altro luogo, e così per lo
contrario se dal fatto apparisse ch’egli prima anche del tempo prefisso dalli suddetti statuti era in
prossimo stato di fallire, in ciascuno di questi casi non averebbe luogo la loro disposizione…»
Ristabilita l’armonia tra soluzioni normative e indirizzi interpretativi, Casaregi continua, forte
ancora una volta del complesso di regole dello ius commune, affermando che comunque gli statuti
vanno interpretati secondo l’ius commune — per cui vanno comunque salvati i contratti in cui il terzo
sia in buona fede —, e ribadendo che può farsi largo impiego di congetture per raggiungere la
prova:
«Di più tali statuti annullanti i contratti de’ mercadanti, che falliscono fra un certo termine da
loro prefisso, debbono intendersi secondo l’ius comune, in virtù della passiva interpretazione, che da
esso sempre ricevono, e così non possono comprendere, se non quei contratti, ne’ quali vi concorre,
o si può presumere la frode, e la collusione d’ambi li contraenti; e non giammai quelli contratti, che
per la buona fede, almeno di chi ha contrattato col fallito, o col prossimo al fallimento, sarebbono de
iure validi… Ritornando ora a’ termini dell’ius comune convien di più sapere, che quando non si può
avere una certa, e conchiudente prova di tale scienza, si ammette, come in materia per lo più difficile
a provarsi, anche quella per via di conghietture…»
E, al pari di altri giuristi, conclude esaltando il ruolo dei giudici al cui retto arbitrio rimette la
questione:
«Così in tal caso riducendosi la questione a cosa più di fatto, che di ragione, non si può per
decisione d’ogni caso contingibile dare da principio una regola certa, imperocché è d’uopo lasciarla
al retto arbitrio del giudice, come tutte le altre materie conietturali…»
Ritengo che le parole di Casaregi esprimano il disagio del giurista difronte ad una normativa
di ius speciale che, ideata e sviluppata nell’ambito dell’ordinamento corporativo mercantile per
consentire una ‘sbrigativa’ soluzione di conflitti d’interessi, finisce per trascurare aspetti dello stesso
conflitto che per il giurista non sono trascurabili: la buona fede, l’affidamento, l’equità. Mi sembra
che Casaregi pur di salvare formalmente l’unità del sistema cada in affermazioni contraddittorie
cercando di conciliare la nullità ipso iure, sancita dalle legislazioni particolari, con la presunzione iuris
tantum, frutto dell’orientamento consolidato della iurisprudentia170.
Mi sembra che di unità del sistema possa qui parlarsi solo se si assume come punto di
riferimento la matrice della legislazione, cioè solo se si guarda ai caratteri comuni alla revocatoria
disciplinata dalle fonti giustinianee e alla revocatoria disegnata nelle fonti di diritto particolare171. Ma
se invece si guarda al momento giudiziale dell’esperienza giuridica dei primi secoli dell’età moderna
non credo possa negarsi che la revocatoria nel fallimento fu terreno di un travagliato processo
interpretativo, cioè fu terreno su cui i giuristi furono chiamati a operare delle scelte, anche
sostanzialmente creative di diritto172. I giuristi potevano accettare in toto il criterio del periodo
sospetto, con la presunzione assoluta di fraudolenza e la conseguente invalidità ipso iure dell’atto
compiuto nel periodo sospetto; oppure potevano adottare tale criterio solo parzialmente, cioè
interpretando la presunzione fissata dal periodo sospetto come una presunzione iuris tantum. I
giuristi dovevano scegliere: potevano accettare un criterio fissato dalla lex mercatoria, adatto ad un
171 In tal senso cfr. Santarelli, Per la storia del fallimento 212 che ha interpretato questo passo di Casaregi come
un’ulteriore prova dell’osmosi che «certamente si ebbe tra la legislazione — per sua natura protesa alla tutela degli interessi
in gioco — e la dottrina — pensosa soprattutto della conservazione degli originari caratteri dell’istituto —: un’osmosi che,
una volta attuata, … permette di verificare, anche in questo caso, l’unità del sistema»; Id., ‘Azione revocatoria’ 49.
Coerentemente Santarelli, ‘Fallimento, Storia del’, Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale 5 (Torino 19904) 369,
fondandosi esclusivamente sulle fonti statutarie afferma che l’esperibilità dell’azione revocatoria «fu connessa non più al
dato soggettivo dell’intentum doli comune all’alienante e al terzo acquirente, ma a quello oggettivo del tempo (il cosiddetto
«periodo sospetto) nel quale era stato compiuto il negozio da revocare, e la cui natura fu ritenuta sostanzialmente
reivindicatoria…».
172 Sulla interpretazione come scelta e come operazione ideologica, anche creativa di diritto, cfr. M. Sbriccoli,
L’interpretazione dello Statuto. Contributo allo studio della funzione dei giuristi nell’età comunale (Università di Macerata.
Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza, Seconda serie, 1; Milano 1969) 6-12 e 85 e ss.
68
procedimento a spiccato carattere esecutivo e teso a tutelare prevalentemente gli interessi dei
creditori e l’interesse ad una rapida soluzione della controversia; oppure — rifacendosi ai principi
generali — dovevano essere disposti ad aprire nell’ambito del procedimento esecutivo una parentesi
eventuale di cognizione che, pur incidendo negativamente sulla rapidità della risoluzione della
controversia, meglio tutelasse tutti gli interessi in gioco, in particolare gli interessi dei terzi che in
buona fede e senza esserne consapevoli avevano concluso atti con il decoctus o con il decocturus.
Il criterio del ‘periodo sospetto’, elaborato per le «sbrigative forme di esecuzione mercantili»,
lontano dai «cavilli interminabili» e ostile «alla penetrazione dei concetti del mondo giuridico»173
mostra in questo caso la sua insufficienza: «…e così in tal caso riducendosi la questione a cosa più
di fatto, che di ragione, non si può per decisione d’ogni caso contingibile dare da principio una
regola certa, imperocché è d’uopo lasciarla al retto arbitrio del giudice…»174. E il giudice175 con una
interpretatio retorica sceglie la soluzione che gli sembra più equilibrata perché più rispettosa dei
delicati equilibri in gioco: da un lato l’equilibrio tra l’interesse del terzo e l’interesse dei creditori del
decotto; dall’altro l’equilibrio tra la soluzione normativa di matrice civilistica e la soluzione
normativa di ius proprium.
Nel percorso seguito dal giudice e nel risultato al quale approda la sua interpretatio è evidente il
concorso dei giudici e dei mercanti — dei princìpi e dei valori degli uni e degli altri — nella
formazione del diritto fallimentare. In tema di revocatoria, infatti, la soluzione normativa di matrice
civilistica è prevalentemente attenta alla tutela della buona fede e dell’affidamento; la soluzione
normativa di diritto statutario è invece prevalentemente attenta alle esigenze di rapidità di
risoluzione della controversia. È evidente che entrambe le soluzioni, pur con diversi accenti,
tutelano princìpi cardine della moralità e della efficienza degli affari. Con la sua ‘ragionevole’
interpretazione il giurista conclude che il periodo sospetto non fissa presunzioni iuris et de iure, bensì
iuris tantum. Il giurista finisce così per interpretare «la legislazione statutaria togliendole ogni carattere
di peculiarità e valutandola secondo i canoni, negli schemi e coi princìpi del diritto comune»176. Egli
percorre la strada segnata dalla lex mercatoria — privilegiando la rapida risoluzione delle
controversie — fin quando il tracciato non rischia di allontanarlo dalla tutela degli interessi dei terzi;
egli utilizza la sbrigativa efficacia delle presunzioni solo quando ciò non pregiudica i terzi di buona
fede.
La scelta interpretativa dei giuristi, inoltre, è coerente con la ‘giuridicizzazione’ del
procedimento conseguente al passaggio dai giudici corporativi ai giudici togati. Tale
‘giuridicizzazione’ ha un prezzo: comporta inevitabilmente incidenti di cognizione che
appesantiscono e rallentano la procedura fallimentare concepita fin dalle sue origini con un
prevalente carattere esecutivo. La procedura fallimentare gestita dai giudici togati garantisce la tutela
dei principi fondamentali del commercio e dell’ordinamento in generale, ma finisce per frustrare
l’esigenza di rapidità e praticità per cui era stata concepita. Il giudizio sul caso Cayrel pende davanti
ai giudici ancora diversi anni dopo l’avvenuto fallimento del mercante. In questo e in altri casi, la
decisione definitiva, qualunque sia, non garantirà sufficientemente i diritti e gli interessi delle parti,
neppure della parte per cui il giudizio sarà favorevole. Così, anche per gli aspetti legati alla
revocatoria, il diritto fallimentare disegnato nelle legislazioni e interpretato dai giuristi, comincia a
rivelarsi inadeguato, anche se l’attenzione degli illuministi si concentrerà su aspetti di maggiore
allarme sociale, quali quelli legati alla incapacità dell’ordinamento di fronteggiare e reprimere
efficacemente il fenomeno della bancarotta177.
173 Cfr., supra, nota 15.
174 Casaregi, Il cambista istruito cap. I p. 39a.
175 Non è irrilevante che si tratti ormai di un giudice togato, non più corporativo.
176 Sbriccoli, L’interpretazione dello Statuto 459.
177 Per il dibattito degli illuministi italiani sul fallimento cfr. Sciumè, Ricerche sul fallimento 97-182.
69
GIUSEPPE SPECIALE
Fures, latrones publici, decocti fraudulenti:
il confugium per i falliti
da Innocenzo III a Benedetto XIII
1.
Premessa. Il fallimento: rilevanza sociale, economica e giuridica
Alla fine del secolo XVI, in seguito alla riforma di Gregorio XIV che aveva riordinato la
disciplina del diritto d’asilo nelle chiese, si aprì tra i giuristi un acceso dibattito dottrinario. Si trattava
di stabilire se i falliti, più precisamente i decocti fraudulenti, potessero godere del confugium, del diritto
d’asilo nei luoghi sacri.
L’ammissione o l’esclusione del beneficio dell’immunità per i decocti fraudulenti produce
inevitabilmente riflessi anche sul piano dei conflitti giurisdizionali e dell’ordine pubblico178. Inoltre,
dal dibattito sul diritto d’asilo emergono elementi per la migliore comprensione del ruolo svolto dai
giuristi nell’interpretazione e nel coordinamento delle norme.
La valutazione penale della bancarotta pone problemi ai quali i giuristi danno soluzioni
diverse conseguenti, almeno in qualche caso, ad alcuni pregiudizi ideologici, ma coerenti,
comunque, alle diverse concezioni dell’interpretatio.
Per valutare l’importanza del dibattito e il significato delle posizioni assunte dai giuristi è
necessario chiarire, sia pure incidentalmente, chi sono i decocti.
La decozione si ha quando lo stato di insolvenza del mercante è qualificato dalla
irreversibilità e dalla notorietà. L’irreversibilità non è data certo da una momentanea insolvenza,
bensì da una crisi economico-finanziaria di gravità tale che il mercante non riesce più ad ottenere
credito. I caratteri dell’irreversibilità e della notorietà sono strettamente connessi: infatti, il mercato
nega fiducia al mercante in difficoltà proprio quando il suo stato di insolvenza è notorio e quando si
diffonde la convinzione che il suo stato di crisi abbia raggiunto il punto di non ritorno.
Il decotto, dunque, è l’insolvente segnato dallo stigma dei protagonisti del mercato, i quali,
valutate le sue condizioni economico-finanziarie, gli negano nuovo credito e ne sanciscono
l’irreversibile e definitivo stato di crisi.
La decozione del mercante costituisce un momento patologico nel funzionamento del
mercato; oppure, più verosimilmente, segna definitivamente l’incompatibilità del mercante decotto
con il sistema-mercato. Tale incompatibilità può nascere dall’errata o anche solo dalla sfortunata
conduzione dell’impresa commerciale, oppure dal deliberato proposito del mercante di occultare le
attività dell’impresa a danno dei creditori della stessa, o, ancora, dall’imprevedibile variazione del
mercato. La crisi non è comunque un fatto che riguarda solo il mercante, soprattutto quando essa
diventa irreversibile e si traduce nel fallimento: la decozione mette in crisi l’affidamento su cui si
fonda il mercato e mette in serio pericolo gli interessi di quanti interagiscono con il decotto. Si pensi
ai creditori, ai fornitori, ai clienti ecc.179.
178* I risultati della presente ricerca sono stati presentati al “X International Congress of Medieval Canon Law” (1118 agosto 1996, Syracuse N.Y.).
178 Per i riflessi sul piano dei rapporti tra Stato e Chiesa — in particolare per i conflitti giurisdizionali — cfr.
A.C. Jemolo, Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del ’600 e del ’700 (Napoli 19722) 219-223; R. Ajello, Il problema della
riforma giudiziaria e legislativa nel regno di Napoli durante la prima metà del secolo XVIII. 1: La vita giudiziaria (Pubblicazioni della
Facoltà Giuridica dell’Università di Napoli 57; Napoli 1961) 25-96.
179 Sul fallimento cfr.: U. Santarelli, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia (Padova 1964); Id.,
‘Disposizioni generali [I parte]’, Disposizioni generali della dichiarazione di fallimento: art. 1-22. Commentario Scialoja - Branca: Legge
fallimentare a cura di F. Bricola, F. Galgano, G. Santini (Bologna Roma 1974) 1-23; Id., ‘Fallimento, Storia del’, Digesto delle
70
Si pensi inoltre agli effetti devastanti, anche sul piano politico, del fallimento di quel
particolare tipo di mercante che è il banchiere180.
La decozione mette in moto meccanismi di difesa dell’ordine sociale, economico, giuridico.
La rilevanza sociale ed economica del fallimento è costantemente considerata negli ordinamenti,
corporativi prima e pubblici poi. È particolarmente significativo che l’attenzione e la sensibilità per
le istanze del ceto mercantile — caratteristiche ‘naturalmente’ costitutive ed essenziali delle
normative e delle procedure corporative —, rimangano costanti anche nelle normative e nei
tribunali pubblici. Nell’ambito della progressiva statalizzazione della giurisdizione il riconoscimento
della rilevanza pubblica dell’attività commerciale — in particolare dell’attività che riguarda il grande
commercio internazionale e le grandi operazioni finanziarie — è testimoniato nel grado più alto
proprio dal trasferimento ai tribunali statali delle competenze prima riservate ai tribunali delle
corporazioni mercantili181. E appunto nella sede giudiziale l’ordinamento affida l’interpretazione e il
coordinamento degli interessi mercantili, e pubblici in generale, alla mediazione dell’equilibrio e
dell’arbitrium prudentis iudicis.
I giuristi — giudici e avvocati impegnati nei grandi tribunali nei rispettivi ruoli — assumono
nella tutela dell’ordine pubblico commerciale un ruolo primario e non rimangono estranei al lungo e
articolato processo di formazione del diritto commerciale.
Secondo Giovan Battista De Luca e Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi il giudice nella sua
indagine deve appurare se il mercante sia prossimo alla decozione per un evento inopinato e
imprevedibile quali il naufragio di una nave, o il fallimento di altri mercanti da cui dipendevano i
suoi affari, o altri imprevedibili infortuni; oppure se il mercante sia stato in floride condizioni
economiche sino a pochi giorni prima della decozione; o, ancora, se il mercante, già consapevole da
giorni o anche da mesi del suo futuro fallimento, tuttavia abbia nascosto il suo precario stato
discipline privatistiche. Sezione commerciale 5 (Torino 19904) 366-372; C. Pecorella - U. Gualazzini, ‘Fallimento (Storia)’,
Enciclopedia del diritto 16 (Roma 1967) 220-233; A. Sciumè, Ricerche sul fallimento nel diritto moderno. I. Il momento settecentesco
(Milano 1985); W. Pakter, ‘The origins of bankruptcy in medieval canon and roman law’, Proceedings of the Seventh
International Congress of Medieval Canon Law, Cambridge 23-27 July 1984, P. Linehan cur. (Monumenta iuris canonici, Series
C: Subsidia 8; Città del Vaticano 1988) 485-506; F. Migliorino, ‘Profilo storico delle procedure concorsuali’, Trattato delle
procedure concorsuali, G. Ragusa Maggiore - C. Costa curr., t. 1 (Torino 1996) in corso di stampa; G. Speciale, Fallimento tra
dolo e sfortuna. L’azione revocatoria e il diritto d’asilo nei secoli XVI-XVIII (Roma 1996).
180 Non per caso la diversa valutazione penale del fallimento caratterizzato dal dolo (rispetto al fallimento fortunae
causa) si affermerà inizialmente proprio con riferimento ai banchieri: cfr., infra, § 7. Il legislatore avverte il rapporto tra
banchiere e mercante come un rapporto tra species e genus. Alla species del banchiere sono riservate ‘attenzioni legislative’
che in alcuni casi vengono estese successivamente all’intero genus. Cfr. le osservazioni di V. Piergiovanni, ‘Banchieri e falliti
nelle ‘Decisiones de mercatura’ della Rota Civile di Genova’, Diritto Comune, Diritto Commerciale, Diritto Veneziano, K.
Nehlsen Von Strik, D. Nörr curr. (Venezia 1985) 17-38; Id., ‘Banchieri e mercanti. Modelli di classificazione nella dottrina
giuridica genovese’, The Growth of the Bank as Institution and the Development of Money-Business Law, V. Piergiovanni cur.,
(Comparative Studies in Continental and Anglo-American Legal History 12; Berlin 1993) 77-89; Id., ‘I banchieri nel diritto
genovese e nella scienza giuridica tra medioevo ed età moderna’, Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà nell’Europa
preindustriale. Amministrazione, tecniche operative e ruoli economici. Atti del Convegno, Genova, 1-6 ottobre 1990, t. 1 (Atti della
Società ligure di Storia Patria, nuova serie, 31; Genova 1991) 205-223.
181 Sul passaggio della giurisdizione mercantile dai tribunali corporativi a quelli pubblici cfr.: A. Asquini, ‘Codice di
Commercio’, Enciclopedia del diritto 7 (1960) 250 e ss.; A. Padoa Schioppa, ‘Giurisdizione e statuti delle arti nella dottrina
del diritto comune’, Saggi di storia del diritto commerciale (Milano 1992) 37 e ss., già pubblicato in Studia et documenta historiae et
iuris 30 (1964) 170-234; Pecorella - Gualazzini, ‘Fallimento’ 225; J. Hilaire, Introduction historique au droit commercial (Paris
2
1986) 79-82; U. Santarelli, Mercanti e società tra mercanti (Torino 1992 ) 47-53; M. Ascheri, ‘Mercanzie Mercanti e Istituzioni.
Dal caso di Siena alla storia d’Italia’, Relazione al Seminario ‘Interessi economici e Istituzioni politiche nella storia d’Italia’
15.12.1986, C.C.I.A.A. Milano, Rassegna economica della C.C.I.A.A. di Siena 87 (1987) 43-45; V. Piergiovanni, ‘Diritto
commerciale nel diritto medievale e moderno’, Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale 4 (Torino 19894) 21-27
(dell’estratto); R. Szramkiewicz, Histoire du droit des affaires (Paris 1989) 180-193; F. Galgano, Lex mercatoria. Storia del diritto
commerciale (Bologna 19933) 73-77.
71
economico e abbia continuato ad esercitare la mercatura al fine di lucrare dalla dilazione del
fallimento182.
Il diritto fallimentare dei secoli XVI-XVIII si forma preferenzialmente nel momento
giudiziario della complessa esperienza giuridica pluriordinamentale e trae alimento dal continuo
sforzo di elaborazione teorica dei giuristi. Costoro sono impegnati a ordinare le istanze del mondo
economico, quali la certezza e la rapidità della circolazione dei beni, e si servono naturalmente degli
strumenti teorici che la tradizione del ius commune — e, nell’ambito del ius commune, in primo luogo il
diritto di formazione giurisprudenziale — mette loro a disposizione183.
2.
Le origini del dibattito: la cost. ‘Cum alias’ di Gregorio XIV del 24 maggio 1591 e la cost.
‘Postquam eosque’ di Pio V dell’1 novembre 1570
Il dibattito dottrinario intorno al diritto d’asilo per i falliti fraudolenti nasce in seguito alla
promulgazione della costituzione ‘Cum alias’ del 24 maggio 1591184, con la quale Gregorio XIV
riordina la disciplina del diritto di asilo185. Il pontefice lamenta che spesso si sono verificati gravi
abusi e distorsioni nell’applicazione dell’immunitas, con grave pregiudizio della iurisdictio; pertanto
interviene mosso dalla necessità di «praedictis absurdis et scandalis obviare, ac differentias
huiusmodi ad uniformem regulam reducere, omnemque dubitandi, ac perperam interpretandi
occasionem dilucida declaratione submovere, abusus tollere». Innanzi tutto Gregorio revoca le
disposizioni dei suoi predecessori «super abducendis vel extrahendis ab ecclesiis, monasteriis,
sacellis… hominibus certorum, tunc expressorum, vel non expressorum criminum reis, aut
fraudulentis decoctoribus» e unifica e riduce l’immunitas «ad unam tantum formam»; poi stabilisce,
182 Iohannes Baptista De Luca, Theatrum veritatis ac iustitiae, t. 8 (Venetiis 1734) de regalibus, disc. CXV, pp. 177b178a; de credito et debito, disc. X, p. 17ab e disc. CXII, p. 176b; Joseph Laurentius Maria de Casaregis, Discursus legales de
commercio in Opera, t. 2 (Florentiae 1740) disc. 75, p. 252a.
183 Cfr. Speciale, Fallimento tra dolo e sfortuna 93-107 e letteratura ivi citata. Non è superfluo sottolineare ancora una
volta l’unicità dell’esperienza giuridica. Abbandonate le sterili distinzioni tra teoria e prassi, tra giuristi di scuola e giuristi
impegnati nel foro, deve guardarsi al foro come luogo di elaborazione teorica e laboratorio in cui emergono nuove istanze
e in cui si provano nuove soluzioni. Al termine ‘giuristi’ per gli anni e i grandi tribunali a cui si fa qui riferimento può
affiancarsi in modo assolutamente fungibile il termine ‘giudici’. Tutti i grandi giuristi fin qui citati sono impegnati ad alto
livello nella funzione giurisdizionale: si pensi alle vicende biografiche di Scaccia, Stracca, Costantini, De Luca. Può bene
richiamarsi quanto afferma E. Cortese, Il rinascimento giuridico medievale (Roma 1992) 95: «… la trasformazione graduale
della dottrina giuridica, dall’età dei glossatori in poi, si accompagna a un lento spostamento dell’asse portante del ceto dei
giuristi: che a poco a poco si trasferisce dalle aule accademiche a quelle dei grandi tribunali. L’attore principale sulla scena
del diritto era stato il sapiente che insegnava: all’aprirsi dell’età moderna è piuttosto il giudice che giudica». Cfr. inoltre
G. Gorla, Diritto comparato e diritto comune europeo (Milano 1981) 547-551, M. Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni dal medioevo
all’età moderna (Bologna 1989) 86-87, 89-99. Specifico per il regno di Napoli è P.L. Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e
società nella Napoli del Seicento (Napoli 1981) 371-463.
184 Bullarum Privilegiorum ac Diplomatum Romanorum Pontificum amplissima collectio, C. Cocquelines cur., t. 5.1 (Romae
1751; rist. anast. Graz 1965) const. 17, pp. 271-273.
185 Sul diritto d’asilo cfr.: G. Le Bras, ‘Asile’, Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastique 4 (Paris 1930) 1035-1097;
P. Timbal, Le droit d’asile (Paris 1939); G. Vismara, ‘Asilo, diritto di, (diritto intermedio)’, Enciclopedia del Diritto 3 (Milano
1958) 198-203; P.G. Caron, ‘Asilo, diritto canonico e diritto pubblico medievale e moderno’, Novissimo Digesto Italiano
(Torino 1964) I 1036-1039; da ultimo, il volume miscellaneo Asyl am Heiligen Ort. Sanctuary und Kirchenasyl vom Rechtsanspruch
zur ethischen Verpflichtung, K. Barwig - D.R. Bauer curr. (Ostfildern 1994) e la letteratura più recente ivi citata. In particolare,
sulla cost. ‘Cum alias’ di Gregorio XIV, cfr. P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età
moderna (Bologna 1982) 231-234, che mette in evidenza come, proprio nello stato pontificio, il pontefice autorizzasse
frequentemente deroghe alle disposizioni della costituzione gregoriana per perseguire efficacemente il controllo
dell’ordine pubblico; L. Lacchè, Latrocinium. Giustizia penale e repressione del banditismo in antico regime (Università di Macerata.
Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza 55; Milano 1988) 221-243.
72
con un’elencazione tassativa186, che siano esclusi dal godimento dell’immunitas soltanto 7 tipi di rei: i
publici latrones, i grassatores viarum, i depopulatores agrorum, i rei di lesa maestà nei confronti della persona
del principe, gli eretici, coloro che hanno commesso homicidia o mutilationes membrorum nei luoghi
immuni, coloro che hanno commesso omicidi proditorie.
Il testo della costituzione gregoriana sembrerebbe ammettere il diritto d’asilo per i falliti
(fraudolenti e non): infatti, mentre nella parte in cui si revocano le precedenti disposizioni, che
consentivano in alcuni casi di extrahere dai luoghi sacri alcuni rei, c’è un esplicito riferimento ai decocti
fraudulenti, invece nella parte in cui si elencano tassativamente i rei esclusi dall’immunità non si fa
alcun riferimento ai falliti.
Tuttavia alcuni giuristi ritennero che i decocti fraudulenti — non anche i decocti fortunae vitio —
non godessero dell’immunità in quanto avrebbero dovuto comprendersi nella categoria dei latrones
publici. A sostegno della loro tesi posero la cost. ‘Postquam eosque’ dell’1 novembre 1570 nella quale
Pio V aveva distinto i mercanti falliti per avversa fortuna da quelli fraudolenti, falliti per negligenza
o per prodigalità che traggono in inganno i creditori illudendoli e approfittando di loro187.
Pio V — sostengono i giuristi — equipara i falliti fraudolenti ai fures — non ai latrones
publici — e li sanziona con la pena capitale. Poi, descrivendo i loro comportamenti tipici, afferma
che essi sono peggio dei fures e dei latrones (ma non dei latrones publici). I fures e i latrones, infatti,
agiscono mettendo a repentaglio la loro vita; i falliti fraudolenti, invece, agiscono senza nessun
pericolo:
«Nos praemissa… attente considerantes nulla alia de causa in f u r e s ultimi supplicii
poenam esse impositam, nisi ut talia perpetrandi hominibus via interclusa, liberum esset unicuique
sua absque periculo possidere, et uti, hos autem adeo f u r i b u s et l a t r o n i b u s similes esse,
ut ab illis in nihilo differant, nisi ut quod eis, nisi cum vitae suo periculo agitur, hoc decoctoribus
impune liceat, volentesque propterea, ut par immo gravius delictum parem etiam fortiatur
poenam… Motu proprio hac nostra perpetuo valitura constitutione sancimus… quaecumque
persona… cuiuscumque status, gradus, ordinis… praefulgeat qui omnem eorum substantiam non
praemissis de casibus fortuitis, sed incuria, negligentia, prodigalitate, et luxu suis, proprias voluntates
explendo, et cupiditatibus non mediocri intemperantia servientes subverterint, et dilapidaverint nec
non qui se bona sua decoxisse simulantes, illa in fraudem creditorum suorum occultant, et eorum
pecuniam totam in eorum utilitatem forsan converterint, ut eorum creditores ad secum
componendum facilius alliciant, ultimi supplicii, et ea qua f u r e s ipsi, de iure, vel consuetudine,
aut particulari, vel municipali statuto plecti solent, puniri debeant»188.
3.
I termini del dibattito
Dall’interpretazione coordinata delle bolle di Pio V e di Gregorio XIV ebbe origine il
dibattito giurisprudenziale. Il problema fondamentale riguardava l’interpretazione da dare alla cost.
‘Cum alias’ di Gregorio XIV. Si trattava di stabilire se l’esclusione dal diritto d’asilo prevista per il
latro publicus potesse estendersi al decoctus fraudulentus. Il disorientamento dei giuristi di fronte alla
costituzione di Gregorio XIV può bene spiegarsi se si considera che la disposizione gregoriana
segnò il passaggio da un sistema di immunitas, fondato su un’elencazione esemplificativa dei casi di
esclusione, ad un sistema in cui i casi esclusi erano tassativamente stabiliti; cioè da un sistema che
186 La costituzione stabilisce che non possano esserci altre esclusioni oltre quelle espressamente previste, neanche «ex
causis urgentissimis ac necessariis et aequipollentibus casibus in iure expressis atque ex paritate, identitate, aut maioritate
rationis extensis» (p. 272).
187 Bullarum Privilegiorum ac Diplomatum Romanorum Pontificum amplissima collectio, C. Cocquelines cur., t. 4.3 (Romae
1746; rist. anast. Graz 1965) const. 156, pp. 131-133: «… sed sua ipsorummet incuria, negligentia, prodigalitate, atque luxu
in explendidis propriis voluptatibus, penitus dilapidatis, proximos suos ad varia eorum bona sibi mutuanda sub spe
restitutionis compulerunt illis similiter profusis, creditores suos, cessiones bonorum deludentes, ac tam literas praefatas,
quam alia per nos contra huiusmodi decoctores, fallitos nuncupatos, edita statuta deridere audent, in grave apostolicae
auctoritatis vilipendium, proximorum suorum detrimentum, et gravamen, ac animae suae periculum non modicum».
188 Bullarum const. 156, pp. 131-133.
73
per sua natura ammetteva un’interpretazione estensiva ad un sistema che la escludeva
espressamente.
Infatti la decretale ‘Inter alia’ [X.3.49.6]189 di Innocenzo III, che costituiva la normativa
comune di riferimento per Pio V e Gregorio XIV, aveva indicato i casi di esclusione dall’asilo solo
in via esemplificativa, e non tassativa. Innocenzo III aveva escluso espressamente dall’immunità
solo i latrones publici e i nocturni depopulatores agrorum: ma Innocenzo IV nei suoi commentaria alle
Decretali di Gregorio IX si era preoccupato di precisare che la disposizione di Innocenzo III
escludeva dal diritto d’asilo «quicumque insidiose offendit». Il riferimento ai latrones publici e ai
nocturni depopulatores agrorum non aveva carattere tassativo; aveva invece solo un carattere
esemplificativo «quia de his semper praesumitur quod insidiose fecerint»190.
Pio V, poi, — come si è visto — non si era occupato ex professo di diritto d’asilo, ma aveva
solo equiparato i falliti dolosi ai fures, accomunandoli nella sanzione della pena capitale.
In questo quadro normativo si inseriva la riforma di Gregorio XIV, caratterizzata dalla
tassatività dei casi esclusi dal beneficio dell’immunitas.
I giuristi non affrontano in modo omogeneo il problema dell’ammissibilità del diritto d’asilo
per i decotti fraudolenti. Niccolò Boerio afferma efficacemente che intorno al diritto di confugio
«sunt canonistae a legistis et legisti inter se et pariter canonistae inter se discrepantes». Per il diritto
civile non godono dell’immunità gli omicidi, gli adulteri, i raptores virginum e i tributorum exactores191.
Per il diritto canonico invece sono esclusi gli insidiatores itinerum, i depopulatores agrorum nocturni, gli
homicidae voluntarii, i delinquentes in ecclesia. Tuttavia — come afferma Boerio — frequentemente il
diritto civile viene nei fatti ignorato perché il reo che si è rifugiato nella chiesa non può essere
perseguito senza il consenso del vescovo. E Boerio, citando la Practica di Petrus de Ferrariis,
sottolinea il contrasto tra la normativa canonica sul diritto d’asilo e il passo evangelico della cacciata
dei mercanti dal tempio: se Gesù, infatti, non ha tollerato i mercanti nella sua casa, accusandoli di
avere trasformato un luogo di preghiera in un covo di ladri, come può accettare che nella sua casa
trovino riparo e si sottraggano alla giustizia ladroni, omicidi e altri rei192?
Alcuni giuristi — tra cui Giovan Battista De Luca — ritengono che il fallito fraudolento non
debba godere del diritto d’asilo perché al fallito può estendersi l’esclusione prevista per la categoria
del latro publicus, categoria alla quale appartiene anche il fallito fraudolento, almeno secondo una
delle interpretazioni della costituzione di Pio V.
Altri, invece — e sono i più numerosi e sosterranno la tesi dominante —, si oppongono a
questa estensione e adducono motivazioni che possono ricondursi sostanzialmente a due diversi
orientamenti. Da alcuni si nega che nella costituzione di Pio V vi sia una equiparazione tra decoctus
fraudulentus e latro publicus: pertanto nell’applicazione della costituzione di Gregorio XIV non
possono assoggettarsi allo stesso regime i decotti fraudolenti e i latrones publici. Da altri, invece, si
189 «Innocentius III illustri Regi Scotiae. Inter alia, quae nobis regalis providentia suis literis intimavit, quid de illis
fieri debeat, qui maleficia perpetrantes confugiunt ad ecclesiam, ut pro reverentia sacri loci debitas poenas valeant evitare,
sollicite requisivit. Nos ergo, Tuis quaestionibus respondentes, iuxta sacrorum statuta canonum et traditiones legum
civilium ita duximus in huiusmodi distinguendum, quod fugiens ad ecclesiam aut liber, aut servus exsistit. Si liber,
quantumcunque gravia maleficia perpetraverit, non est violenter ab ecclesia extrahendus, nec inde damnari debet ad
mortem vel ad poenam; sed rectores ecclesiarum sibi obtinere debent membra et vitam. Super hoc tamen, quod inique
fecit, est alias legitime puniendus; et hoc verum est, nisi publicus latro fuerit, vel nocturnus depopulator agrorum, qui,
dum itinera frequentata vel publicas stratas obsidet aggressionis insidiis, pro facinoris magnitudine, [quum et communem
utilitatem impediat, et nocere omnino moliatur,] ab ecclesia extrahi potest, impunitate non praestita, secundum canonicas
sanctiones. Si vero servus fuerit… [Dat. Laterani 1200.]»: Corpus Iuris Canonici, ed. Ae. Friedberg, t. 2 (Leipzig 1879; rist.
anast. Graz 1959) 655-656.
190 Edizione Lugduni 1562, fol. 175a; edizione Francofurti 1570, fol. 460b. Prosperus Fagnanus, Commentaria in
tertium librum decretalium (Venetiis 1697) cap. VI, pp. 639-641, riporta testualmente i commentaria e aggiunge l’inciso
«etiamsi publicus latro, vel depopulator agrorum non sit».
191 Cfr., tra l’altro, C.1.12 e N.17=A.3.4 § neque.
192 Nicolaus Boerius, Decisionum aurearum in Sacro Burdegalensi Senatu olim discussarum ac promulgatarum pars prima
(Lugduni 1551) decis. 109, fol. 107vb-108va. Sulla metafora della spelonca, fondata sul richiamo evangelico della cacciata
dei mercanti dal tempio, cfr. Lacchè, Latrocinium 221-243.
74
ritiene che, indipendentemente dalla costituzione di Pio V, l’equiparazione non possa operarsi
perché la tassatività del dettato testuale della costituzione di Gregorio XIV non ammette
un’interpretatio extensiva.
Prima di inoltrarci nell’approfondimento delle posizioni assunte dai giuristi riguardo
all’ammissibilità del diritto d’asilo per i decocti fraudulenti è opportuno sottolineare un’ultima volta la
funzione principale del confugium e alcuni effetti rilevanti che il confugium stesso produce sul piano
giuridico ed economico.
Lo scopo principale del diritto d’asilo — almeno nel nostro caso — è sottrarre il reo alla pena
capitale. Richiamandosi a tale scopo Ludovico Correa ammette il diritto di asilo solo per i decocti
fraudulenti, escludendolo invece per i debitori e per i falliti non fraudolenti: questi ultimi, infatti, non
rischiano la pena di morte193.
Per quanto poi riguarda gli effetti sul piano giuridico ed economico si deve sottolineare che
chi si rifugia in chiesa o si dà alla fuga per sfuggire ai creditori è considerato decotto in forza di una
presunzione iuris tantum194. Deve precisarsi però che il solo rifugiarsi in chiesa non basta, poiché in
chiesa il mercante può continuare a trattare con i creditori e può continuare a gestire publice i propri
affari. Ed è proprio con riferimento a questa eventualità che lo stato di rifugiato in chiesa può
assumere importanza anche rispetto al piano economico. Si pensi ad un mercante in crisi di liquidità
che si rifugi in chiesa e continui da lì a gestire i propri affari e che, proprio grazie alla temporanea
sottrazione agli obblighi debitori, riesca a riassestare il proprio stato patrimoniale. Nel caso
ipotizzato — che è comunque un caso documentato nella prassi —, il confugium finisce per svolgere
una funzione stabilizzatrice del mercato e per produrre, o per concorrere a produrre, effetti positivi
per il mercante in crisi e, conseguentemente, per i creditori195.
4.
Interpretazione estensiva. Interpretazione restrittiva. Le ragioni di una scelta
Tra i sostenitori dell’estensione ai falliti fraudolenti dell’esclusione dal diritto d’asilo si cita qui
Giovan Battista De Luca che nella costituzione di Pio V vede un’equiparazione tra decoctus
fraudulentus e latro publicus196. Il cardinale sostiene che i canonisti interpretano male la costituzione di
Gregorio XIV quando concludono per la non esclusione dei decotti fraudolenti dall’immunità: essi
giungono a siffatte convinzioni «ex indiscreto zelo» e finiscono per promuovere un «praesidium
iniquitatis, fomentum fraudis»197. Il pensiero del cardinale, riguardo ai decotti fraudolenti, è coerente
193 Ludovicus Correa Abbas Lordellensis, Relectio ad caput ‘Inter alia’ de immunitate ecclesiarum (In monasterio de
Lordello 1626) 147-152.
194 Cfr. Speciale, Fallimento tra dolo e sfortuna 44-47.
195 Cfr. il caso di un mercante magni nominis in Speciale, Fallimento tra dolo e sfortuna 38-43.
196 Per l’esclusione dei falliti dolosi dal confugio sono, tra gli altri, anche Boerio, Decisiones decis. 215, nn. 6-7, fol.
226rb; Benvenutus Stracca, Tractatus de conturbatoribus sive decoctoribus (Lugduni 1610; rist. anast. Torino 1971) § 3 n. 41 e ss.,
p. 481, e, ovviamente, i giuristi spagnoli, poiché nella legislazione spagnola i decotti fraudolenti erano espressamente
equiparati ai latrones publici: cfr., tra i tanti, Emanuel Romanus Valeron, Tractatus de transactionibus (Mediolani 1676) quaest.
VIII pp. 203-207; Didacus Covarruvias, Variarum resolutionum libri IIII (Francofurti 1578) lib. 2 cap. 20 n. 14, pp. 294-295;
Iohannes Gutierrez, Practicarum quaestionum civilium super quinque prioribus libris primae partis legum novae collectionis Regiae
Hispaniae liber I et II, in Opera omnia (Venetiis 1609) lib. I, quaest. I pp. 1-6. Sul punto cfr., infra, § 5 e § 6.
197 Così Franciscus Maria Constantinus, Observationes forenses practicabiles, seu commentaria ad varia capita statutorum almae
urbis, t. 2 (Venetiis 1712) cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, pp. 306-307, riassume il pensiero
di De Luca; cfr. Theatrum veritatis, t. 8, de credito et debito disc. LXXVIII. n. 16, p. 131a: «rationabiliter decoctoribus iuxta
sensum Sanctissimi Pontificis Pii V deneganda veniret» e Theatrum veritatis, t. 6, de dote disc. CCIV. n. 7, pp. 487b-488a in
cui il cardinale lamenta che i debitori fraudolenti fruiscono «tot remediis et beneficiis ab irrationabilibus iuristarum
formalitatibus introductis… et quando omnia deficiant, ob adeo frequentem usum ecclesiarum et conventuum aliorumque
locorum immunium, promptum ac facile, nimiumque commodum remanet praesidium ecclesiasticae immunitatis, quod
ita remanere videtur praesidium iniquitatis et fomentum fraudis, ut bene agnovit adeo probus Pontifex Pius Quintus… in
eius constitutione contra decoctores, quamvis modernorum moralium et canonistarum indiscretus zelus eam aboleverit ex
regula generali, quam statutam firmant per casus exceptuatos a constitutione Graegorii XIV… quo nil absurdius nilve
75
con la sua concezione sulle immunità in generale, considerate un nocumento sul piano
giurisdizionale e dell’ordine pubblico198.
Sul fronte opposto, Francesco Maria Costantini è un convinto assertore dell’estensione del
diritto d’asilo ai falliti fraudolenti. Con la riverenza e la devozione che è dovuta all’interlocutore,
Costantini polemizza con il cardinale De Luca — «vir alioquin doctissimus et feracissimi ingenii». Il
giurista ritiene che il cardinale sia in errore e che sia giunto alle sue affermazioni ex puro zelo. Mosso
dalla volontà di perseguire il bene pubblico, De Luca ha finito per trascurare il dato che il diritto
d’asilo spetta ai falliti non per considerazioni di natura morale o religiosa, bensì ex rigore iustitiae, per
una precisa costituzione di Gregorio XIV199.
Costantini argomenta la sua convinzione negando che Pio V con la sua costituzione abbia
voluto escludere i decotti fraudolenti dall’immunità dell’asilo. Per Costantini Pio V non si è
preoccupato del diritto d’asilo, ma ha solo equiparato, sul piano della sanzione penale, i falliti
fraudolenti ai fures, condannando i falliti alla pena capitale. Nella costituzione non si fissa
un’equiparazione tra decoctus fraudulentus e latro publicus. Pertanto deve respingersi l’equiparazione
sostanziale tra fures, latrones publici e decoctores fraudulenti sostenuta da alcuni giuristi sul fondamento
della costituzione di Pio V. Il pontefice si era riferito ai fures nella parte dispositiva della costituzione
in cui sanciva la pena capitale per i decocti fraudulenti; e si era riferito ai fures et latrones — non, quindi,
ai latrones publici — nella parte ‘descrittiva’ in cui appunto ‘descriveva’ il comportamento dei falliti.
L’espressione ‘fures et latrones’ non ha un’accezione tecnica, non rinvia ai latrones publici, ai quali farà
esplicito riferimento solo Gregorio XIV; significa piuttosto ‘fures insignes’ e serve per stigmatizzare
il comportamento socialmente dannoso dei falliti fraudolenti200.
Ma Costantini spinge ancora oltre il suo ragionamento. Egli ricorda che la costituzione di
Gregorio XIV revoca tutte le precedenti disposizioni relative all’immunità e uniforma il sistema
sancendo in modo tassativo in quali casi i rei debbano essere esclusi dalle immunità e stabilendo che
non possano esserci altre esclusioni oltre quelle espressamente previste, neanche «ex causis
urgentissimis ac necessariis et aequipollentibus casibus…»201.
Sull’impossibilità di ricorrere all’interpretazione estensiva per accrescere i casi espressamente
sanciti di esclusione dal diritto
detestabilius et tamen leguleicae formalitates istas fraudes nimium consovent, et volunt…». Deve però qui ricordarsi che
lo stesso De Luca, nel suo Dottore volgare. Libro XIV. Del Manuale o Miscellaneo ecclesiastico. Parte IV. Dell’Immunità ecclesiastica
et ancora delle censure ecclesiastiche (Romae 1673) 26-27 e 38-39, sosterrà che in seguito alla costituzione gregoriana deve ormai
considerarsi accertato e assodato che i decotti fraudolenti godano dell’immunità.
198 Cfr. A. Lauro, Il cardinale Giovan Battista De Luca. Diritto e riforme nello Stato della Chiesa (1676-1683) (Storia e diritto,
Studi 29; Napoli 1991) 523-712, per la posizione assunta dal giurista sulle esenzioni fiscali.
199 Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, pp. 306-307: «At
pace tanti viri doctrina non minus, quam purpura eminentissimi, et ad illam ob eius singularem doctrinam, in iustitia
administranda summam integritatem evecti, ne a ea veritate, cuius sum cultor, deflectam, constanter teneo, tales
decoctores gaudere immunitate ecclesiastica summo iure, non autem ex zelo indiscreto… Ceterum parcendum Cardinali
De Luca qui in hac materia contra decoctores scripsit ex puro zelo et ex bono corde erga publicum bonum, quod
labefactari credebat per putridam fecem decoctorum cum fraude et ideo non curavit examinare veritatem opinionis pro
immunitate decoctorum, quae illis ex firmatis competit ex rigore iustitiae, et ex praecisa constitutione Gregoriana, non
autem ex opinione indiscretorum moralium ut dicit idem De Luca».
200 Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, pp. 306-307, si
riferisce espressamente a Frances, De immunitate: «nam Frances decipitur in intellectu Constitutionis Pianae, dum haec in §
‘nos praemissa’ illos assimilat furibus, solum quoad poenam ultimi supplicii ibi “et ea qua fures ipsi” et licet in medio dicti
§ ‘nos praemissa’ addat “furibus, et latronibus similes esse”, attamen in dispositiva, quando statuit poenam decoctoribus,
se restringit ad poenam furium, et quod uti fures puniantur, et amplius verbum “latrones” non habet additum verbum
“publici” et sic beatus Pius sub verbo “latronibus” addito “furibus” voluit intelligere furibus insignibus, non autem de
publicis latronibus, quos solum specifice postea excepit constitutio Gregoriana et in reliquis derogavit omnibus aliis
constitutionibus apostolicis et signanter praedictae Pii V contra decoctores aeditae».
201 Cfr., supra, nota 9.
76
d’asilo concordano anche, tra gli altri, Prospero Farinaccio202,
Alessandro Sperello203, Tommaso Del Bene204, Prospero Fagnani205 e Stefano Graziano206: in
202 Prosperus Farinacius, Responsionum Criminalium liber primus (Venetiis 1615) cons. 76, pp. 273-274, ritiene che la
costituzione di Gregorio non debba essere estesa a casi in essa non esplicitamente previsti: il Papa, infatti, era ben
consapevole dei diversi orientamenti dottrinari in tema di immunità e conosceva altresì gli abusi commessi al riguardo. È
chiaro quindi che la normativa pontificia non tollera interventi che stravolgano il piano ordinatorio di Gregorio: «in dicta
constitutione excipiuntur aliqui casus ab immunitate ecclesiastica, ideo in reliquis censetur facta omnium inclusio, per
regulam quod exceptio firmat regulam in contrarium in casibus non exceptis… Eo praesertim quia dum in dicta
constitutione excipiuntur casus praedicti, apponitur dictio taxativa, “tantum”, quae de sui natura est impedire extensionem
ad non expressa… imo in eadem constitutione eorundem casuum exceptio sit per modum formae, ut patet ibi “ad unam
tantum formam reducimus”: ergo nihil addi, aut minui potest, sed ad unguem debet servari». Dello stesso autore cfr. De
immunitate ecclesiarum et confugientibus ad eas (Romae 1621), Appendix, cap. III, nn. 64-66, pp. 16-17. Sul pensiero di
Farinaccio cfr., infra, § 6.
203 Alexander Sperellus, Decisiones fori ecclesiastici, t. 1 (Venetiis 1651) decis. 23, pp. 115-119: «illa [la costituzione
gregoriana] namque intelligenda est secundum terminos iuris communis… cum in ea Summum Pontifex nihil correxerit
ex his quae ius commune super ecclesiarum immunitate disposuit; sed duntaxat ea omnia ad unam formam, iure canonico
in suo robore permanente… Unde sequitur in casu nostro omnino tenendam esse Bartoli sententiam quia sicuti
immunitas, sacrorumque reverentia favorabilis est, lateque interpretanda, sic illius exceptio et privatio odiosa est, et stricte
interpretanda…».
204 Thomas Del Bene, De immunitate et iurisdictione ecclesiastica, t. 2 (Lugduni 1674) cap. XVI dubit. XI, sectio II, pp. 3637. Per quanto riguarda i limiti dell’interpretazione del giurista in materia di immunità, in particolare con riferimento alle
disposizioni di Gregorio XIV, Del Bene fissa un principio fondamentale. Quando si tratti di tutelare la libertas e l’immunitas
ecclesiae il testo normativo può interpretarsi estensivamente «ex identitate et maioritate rationis, quando si non fieret
extensio, sequeretur absurdum». Così, per esempio, nella costituzione di Gregorio XIV si stabilisce che non si possano
extrahere dalla chiesa i rei, ma è evidente che tale divieto debba estendersi a chiunque, anche non reo, abbia trovato rifugio
nella chiesa: una diversa conclusione sarebbe infatti assurda, perché andrebbe contro la libertas e l’immunitas ecclesiae. Al
contrario, non può ammettersi un’interpretazione estensiva dei casi di esclusione dell’immunitas sancita nella stessa
costituzione. Infatti se si estendesse l’esclusione ad altre categorie si lederebbe la libertas e l’immunitas ecclesiae. Invece
un’interpretazione estensiva è consentita nei confronti e in favore dei debitori: si vuole dire che anche se la lettera della
costituzione gregoriana si riferisce espressamente ai rei, tuttavia l’esclusione dei debitori sarebbe assurda «quod absurdum
esset favere nocentibus exclusis innocentibus». Lo stesso testo della costituzione è eloquente per Del Bene: nel primo
caso, riferendosi al divieto di extrahere dalla chiesa i rei non utilizza l’avverbio ‘tantum’; nel secondo caso, invece, indica
tassativamente le categorie escluse dal godimento dell’immunitas usando proprio l’avverbio ‘tantum’: è la stessa
argomentazione di Farinaccio (cfr., supra, nota 25). Sull’interpretazione che i giuristi danno del termine ‘reus’ cfr., infra, § 6.
Un’interessante applicazione del criterio interpretativo adottato da Del Bene si ha riguardo al depopulator agrorum: cfr.
Del Bene, De immunitate, t. 2, cap. XVI dubit. XVI-XVII, pp. 42-43. La costituzione gregoriana esclude il depopulator
agrorum dall’immunitas. Tuttavia Del Bene ritiene che l’esclusione riguardi solo il depopulator agrorum nocturnus e non anche il
diurnus che invece dovrebbe godere del diritto d’asilo. Il giurista infatti pensa che la disposizione debba essere interpretata
restrittivamente poiché pone in gioco la libertas e l’immunitas ecclesiae e quindi sceglie di adottare come punto di riferimento
la normativa di ius commune: il capitolo ‘Inter alia’ [X.3.49.6] esclude dall’immunità solo il depopulator nocturnus e, pertanto,
alla luce del canone, il dettato normativo gregoriano deve intendersi limitato esclusivamente al depopulator nocturnus.
Quanto poi al depopulator diurnus, ove ricorrano i requisiti («si scilicet publice vineas, vel agros aliorum devastet, etsi non
item clandestine»), potrà essere escluso dalla immunità in quanto publicus latro. Sul depopulator agrorum cfr. Lacchè,
Latrocinium 147 e ss.
205 Fagnani, Commentaria cap. VI, pp. 639-641: «si unum ius ponit regulam, et excipit aliquem casum cum dictione
taxativa, nihilominus excipiuntur alii casus, qui in alia parte iuris reperiuntur excepti».
206 Stephanus Gratianus, Disceptationes forenses, t. 2 (Venetiis 1699) disc. 380, pp. 646-647, affronta il problema
dell’immunitas in modo sistematico. Innanzi tutto egli ricorda che i debitori, per diritto canonico, godono dell’immunità
anche quando sono onerati nei confronti dei publici tributi. E anche il mercante fallito secundum veriorem sententiam fruisce
dell’immunità. Graziano però avverte l’esigenza di distinguere tra falliti per l’avversa fortuna e falliti fraudolenti «qui
simulant se bona decoxisse, et illa in fraudem suorum creditorum occultant, et eorum pecuniam totam in suam utilitatem
convertunt, ut facilius creditores alliciant ad secum componendum»: è esplicito il riferimento alla costituzione con la quale
Pio V stabilisce che i falliti fraudolenti siano puniti con la stessa pena prevista «de iure, vel consuetudine, aut particulari,
aut municipali» per i fures. Proprio per questi motivi i bancarottieri, secondo alcuni doctores, sarebbero esclusi dall’immunitas
77
generale i giuristi ritengono che debba ricorrersi all’interpretazione estensiva solo quando non
ricorrervi porterebbe ad un risultato assurdo, o, comunque, lesivo della libertas e dell’immunitas
ecclesiae.
Per Costantini — considerato che Gregorio abroga le disposizioni precedenti ed elenca
tassativamente i casi di esclusione dall’immunità, vietando l’interpretazione estensiva —, l’unica
possibilità di escludere i decotti fraudolenti dal diritto d’asilo può essere offerta dal ricorso
all’interpretazione comprehensiva207: si dovrebbe, cioè, valutare se il decotto fraudolento rientri in una
delle categorie tassativamente escluse dal godimento del diritto.
Così, sia per chi nega l’equiparazione tra decoctus fraudulentus e latro publicus, sia per chi afferma
la tassatività delle esclusioni sancite da Gregorio XIV, ma ammette il ricorso alla ‘interpretatio
comprehensiva’, il nodo centrale da sciogliere riguarda comunque il rapporto tra la figura del decoctus
fraudulentus e quella del latro publicus208.
Ma Costantini, che pure in linea di principio accetta la possibilità di un’interpretazione
‘comprehensiva’, afferma apoditticamente che la figura del decoctus fraudulentus non rientra in nessuna
delle categorie escluse dal diritto d’asilo. Più motivate sono le spiegazioni di Stefano Graziano209 e
ancora più specifiche sono le osservazioni di Tommaso Del Bene210 e di Prospero Fagnani211 che si
e tanto loro quanto i beni che avessero portato con sé potrebbero essere portati via dalla chiesa in cui avessero trovato
rifugio. Ma la soluzione data non è del tutto pacifica: se Gregorio XIV avesse voluto escludere i decotti fraudolenti
dall’immunitas, avrebbe sancito espressamente l’esclusione. Invece il papa non li ha menzionati nell’elenco tassativo degli
esclusi: «standum est igitur casibus exceptis in bulla quae non debet extendi ad alios casus, quamvis graves, praesertim
cum talis suppletio tenderet in ipsarum ecclesiarum detractionem, et si Papa voluisset excepisset etiam decoctores
fraudulentos, sicut excepit publicos latrones et depopulatores agrorum, et alios ibi enumeratos».
207 Sull’interpretatio comprehensiva, che i giuristi distinguevano, nell’ambito dell’interpretazione, dall’interpretatio extensiva,
cfr. V. Piano Mortari, Ricerche sulla teoria dell’interpretazione del diritto nel secolo XVI. 1: Le premesse (Milano 1956) 108-130.
208 Sulle differenze tra fur, latro e latro publicus cfr. Lacchè, Latrocinium 101 e ss., 171 e ss.
209 Graziano, Disceptationes, t. 2, disc. 380, pp. 646-647, ritiene che non sia sostenibile l’equiparazione decocti fraudulentifures-latrones publici fondata sul testo normativo di Pio V. Naturalmente il giurista non contesta il dato normativo, cioè il
fatto che Pio V pone i decocti fraudulenti e i fures sullo stesso piano, almeno per quanto riguarda la pena. Invece non
ammette che i fures — almeno quei particolari fures che sono i falliti fraudolenti — possano essere equiparati ai latrones
publici, cioè a chi ruba con modalità operative caratterizzate dalla violenza fisica: «qui per vim furantur, vel spoliando
homines, vel occidendo sive semel, sive pluries… qui palam et publice furantur, derobando omnes pertranseuntes…».
210 Del Bene, De immunitate, t. 2, cap. XVI dubit. XI, sectio VI pp. 39-40, afferma che comunque il decotto
fraudolento non è escluso dall’immunità. Infatti, non può esserlo ratione debiti, perché se così fosse tutti i debitori
sarebbero esclusi dall’immunità; non può esserlo neanche ratione delicti perché in effetti egli non è un latro publicus ma a
questi è solo equiparato sotto il profilo della pena e «in poenis autem non est facienda extensio ad delicta similia…
praesertim si extensio sit in praeiudicium ecclesiarum…». Questa affermazione di Del Bene merita una precisazione. Il
giurista fonda il suo ragionamento sulla costituzione di Pio V in cui, come si è già detto, si fa riferimento ai fures e ai
latrones, non anche ai latrones publici. Quando Del Bene afferma che il decoctus fraudulentus è equiparato, solo quoad poenam, al
latro publicus commette soltanto un errore di distrazione: egli infatti ha ben presente la differenza tra fur, latro e latro publicus.
Del Bene, poi, pone in risalto come la lettera della costituzione di Gregorio XIV sia chiara nel concedere ai decocti
fraudulenti l’immunitas: «… et multo magis est certum, stante constitutione Gregorii XIV, cum in illa revocentur omnes
consuetudines, ac omnia privilegia, et indulta data principibus extrahendi delinquentes ab ecclesia, et nominatim
fraudulentos decoctos; et cum ibidem in narrativa fiat mentio de huiusmodi decoctis, de quibus postea, quando Pontifex
disponit, nullum verbum facit; inde manifeste apparet quod voluerit Pontifex huiusmodi fraudulenter decoctos
immunitate ecclesiae gaudere…».
211 Fagnani, Commentaria cap. VI, pp. 639-641, innanzitutto definisce il publicus latro: «Dicitur autem publicus latro qui
palam et publice furatur, ut sunt piratae et qui publice stant in stratis, vel qui arcem habent, vel castrum, et disrobant
homines transeuntes». Poi afferma che i fures godono dell’immunità: «… unde reliquos omnes tuetur ecclesia sive sint
fures, nam famosum dumtaxat latronem hic canon excipit, innuens aliud esse in simplici fure». Sul carattere della publicitas
e della fama cfr. Lacchè, Latrocinium 193 e ss.
La confusione tra latrones famosi e latrones publici riaffiora quando Fagnani ribadisce che i debitori godono del diritto
d’asilo: il giurista registra che per alcuni (cita Covarruvias), invece, i falliti devono essere esclusi dall’immunità in quanto
famosi latrones, ma conclude affrermando che Gregorio XIV ha eliminato ogni dubbio confermando ai falliti il godimento
78
soffermano sulle differenze tra fur, latro e latro publicus, concludendo comunque per la non
assimilabilità della figura del decoctus fraudulentus a quella del latro publicus.
Interessante al riguardo è il pensiero di Tommaso Del Bene. Il giurista, richiamata la nota
differenza tra latro e fur (il primo si caratterizza rispetto al secondo per le modalità violente del suo
comportamento), indica le caratteristiche del latro publicus: questi agisce palam et publice (ma si può
essere latrones publici anche propter notorietatem iuris vel facti). Inoltre il latro publicus perpetra il suo
crimine in viis publicis et frequentatibus, non essendo sufficiente che agisca per insidias in locis non publicis:
Del Bene infatti ritiene che la parte della costituzione di Gregorio XIV che disegna le modalità del
reato (“… itinera frequentata et publicas stratas obsident…”) non abbia un valore meramente
esemplificativo, ma fissi elementi costitutivi del reato, la cui ricorrenza è indispensabile per il
verificarsi del reato stesso. Infine, affinché il latro assuma la qualifica di publicus, è necessario che il
reato sia stato consumato — non soltanto tentato — più volte. Del Bene fonda proprio sul carattere
della reiterazione del reato il suo argomento conclusivo contro l’esclusione dei falliti fraudolenti dal
diritto d’asilo. Infatti, ammesso pure in linea di principio che i falliti fraudolenti, in quanto publici
latrones, siano esclusi dall’immunità, come può poi provarsi in capo ai decotti fraudolenti uno dei
requisiti necessari a dimostrare la loro qualità di publici latrones, cioè la reiterazione del reato212?
5.
L’interpretazione dei giuristi e il diritto d’asilo. Leguleicae formalitates, ma non solo
Come è chiaro, dunque, l’interpretazione restrittiva della costituzione di Gregorio XIV è
assolutamente dominante e l’orientamento dei giuristi, così bene argomentato e teorizzato, finisce
per diventare, nei fatti, strumento — come scrive De Luca — per affermare un «praesidium
iniquitatis et fomentum fraudis»213.
È anche vero, però, che i giuristi escludono i beni del fallito dall’immunità del diritto d’asilo.
Preso atto che spesso i falliti si rifugiano in chiesa con i loro beni per sfuggire alle giuste richieste dei
loro creditori, gli interpreti sono concordi nell’affermare che il decotto che si rifugia in chiesa con i
dell’immunità: «Sed quicquid dicant isti, res hodie est expedita per const. Gregorii XIV in § 2 ibi, “aut fraudulentis
decoctoribus”».
212 Del Bene, De immunitate, t. 2, cap. XVI dubit. XIII, pp. 41-42: «Est autem latro qui depredatur violenter; publicus
autem qui depredatur palam et publice, vel per insidias in via publica, etiam mari, aut flumine, vel per vim publice in
domibus privatorum… subdunt quod quis non solum propter notorietatem iuris (ut si in iudicio hoc crimen confessus,
vel propter ipsum aliquando damnatus sit), sed etiam propter notorietatem facti (ut si vel uno ex multis latrocinio publico,
vel ex aliquibus secretis diffamatus sit, et publice latro reputetur) immunitate ecclesiae privetur, quia in utroque casu vere
dicitur latro publicus. Unde a contrario, latrones qui non sunt publici, nec notorietate iuris, nec notorietate facti,
immunitate gaudebunt… Subdunt secundo, quod ut quis immunitate ecclesiae privetur, constare debeat esse latronem
publicum neque sufficiat praesumptio, vel dubitatio, quia non praesumpte latro publicus, sed vere latro publicus
immunitate privatur. Ut autem hoc constet in hoc casu, debet prius parte citata fieri informatio, et sententia declarari, alias
delinquens immunitate non privatur… Requiritur tamen ad hoc ut latro publicus immunitate privetur, quod depredetur in
viis publicis et itineribus frequentatis et non sufficit, quod furetur per insidias in loco non publico, quia textus, tam iuris
communis, quam constitutionis Gregorii XIV expresse dicit: “Itinera frequentata et publicas stratas obsidet”. Quae verba
ad declarationem delicti, et non frustra fuerunt apposita… Requiritur etiam, quod non semel sed ad minus bis, vel ter tale
delictum commiserit, quia nomen latronis frequentiam denotat… ut immunitate privetur non sufficiat quod pluries
delictum tentaverit, sed requiratur quod pluries consummaverit, cum simus in materia odiosa et poenali, praesertim in
praeiudicium immunitatis ecclesiarum». L’equiparazione tra latrones publici e falliti fraudolenti è negata anche da Alexander
Ambrosinus, Commentaria in Bullam Gregorii XIV pontificis maximi de immunitate et libertate ecclesiastica (Bracciani 1634) cap.
XIII, pp. 84-89, sul fondamento dell’impossibilità della reiterazione del reato da parte dei falliti fraudolenti.
Conseguentemente il giurista ammette che i decocti fraudulenti godono del diritto di confugio.
Del Bene, De immunitate, t. 2, cap. XVI dubit. XIV, p. 42, esclude, infine che il simplex fur perda l’immunitas «quia
simplex fur (praesertim si furetur in loco non publico) non est latro publicus, et exceptio unius firmat regulam in casibus
non exceptis».
213 Cfr., supra, nota 20.
79
suoi beni non può trasferirli in pregiudizio dei suoi creditori. Anzi, i beni devono essere messi a
disposizione del giudice affinché questi li assegni a chi ne abbia diritto214.
L’esclusione dei beni dall’immunità dell’asilo non è sufficiente però a realizzare una efficace
tutela dei creditori e, soprattutto, non costituisce una soluzione efficace e coerente rispetto alla
repressione penale del fenomeno della decozione fraudolenta215.
Anche in questo, come in altri casi — si pensi, per i civilisti, all’azione revocatoria —,
l’interpretazione dei giuristi approda a soluzioni insoddisfacenti per la tutela dei creditori del fallito.
Riguardo al diritto d’asilo i giuristi — almeno quelli che imporranno l’orientamento
prevalente — agiscono facendosi scudo con le leguleicae formalitates, indugiando sulle sottili distinzioni
e trascurando gli effetti economico-sociali della bancarotta.
De Luca e Del Bene sintetizzano due concezioni diverse: l’una, attenta alla politica giudiziaria
e impegnata nella repressione penale di fenomeni devastanti per l’economia e la società216; l’altra,
arroccata su posizioni oltranziste di difesa della immunitas e della libertas ecclesiae anche nei casi in cui
tale difesa si traduce in un fomentum iniquitatis, non rispondendo più alle originarie esigenze per la cui
tutela il diritto d’asilo si era affermato217. La libertas e l’immunitas ecclesiae diventano strumenti per
l’affermazione di privilegi che ostacolano l’ordine pubblico, oppure strumento per l’affermazione di
principio della superiorità e della intangibilità della Chiesa rispetto agli ordinamenti secolari. Tanto è
vero che nello stato pontificio, dove la chiesa non deve affermare la sua libertas e la sua immunitas nei
confronti di un potere secolare da lei distinto, le deroghe al diritto d’asilo sono assai frequenti. E la
ragione di tali deroghe non deve ricercarsi tanto nelle condizioni obiettive dei luoghi218, quanto nella
convinzione del carattere pernicioso dell’immunità per il potere statale: l’interpretazione restrittiva
della norma gregoriana si rivela deleteria sul piano della politica giudiziaria e della repressione penale
del fenomeno della bancarotta.
6.
Alcuni casi di deroga alla prescrizione gregoriana
Nei casi in cui le legislazioni particolari specificano che i decotti fraudolenti sono equiparati ai
latrones publici i giuristi assumono un diverso orientamento: così, per esempio, Emanuele Romano
214 Cfr., tra gli altri, Del Bene, De immunitate, t. 2, cap. XVI dubit. XI, sectio I, pp. 36-37; Carolus Antonius De Luca,
Animadversiones, in: Stephanus Gratianus, Disceptationes forenses, t. 2 (Venetiis 1699) 647; Graziano, Disceptationes, t. 2, disc.
380, pp. 646-647; Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, pp. 306307; Joannes Fridericus Karg de Bebenburg, Dissertationes Theologicae, nomocanonicae, historicae et politicae ad Constitutionem
Gregorianam de immunitate locali ecclesiarum seu de iure sacri asyli (Coloniae Agrippinae 1690) n.151, pp. 330-331.
215 Deve però ricordarsi che l’esclusione dal diritto d’asilo non era comunque, almeno da sola, una misura idonea alla
repressione o al contenimento di fenomeni criminali. Frequente, infatti, anche se paradossale, era il caso di rei di crimini
esclusi dal confugio che, pur di garantirsi il diritto d’asilo, risolvevano di commettere reati per i quali era ammessa
l’immunità locale: cfr. Ajello, Il problema della riforma giudiziaria 51 e ss.
216 De Luca non indugia nell’esegesi delle costituzioni di Pio V e Gregorio XIV: per il cardinale è importante che i
giuristi prendano atto della sostanziale ingiustizia dell’estensione del diritto d’asilo ai falliti fraudolenti. La giustificazione
teorica dell’esclusione dei falliti dall’immunità è conseguente e non costituisce certo una difficoltà insormontabile. De
Luca infatti afferma che la legge è «un effetto unito della podestà e della ragione» e che al giurista spetta interpretare quale
sia la mens legis anche al di là del senso letterale e grammaticale delle parole (Theatrum veritatis, t. 10, de fideicommissis disc.
CCI §1 nn. 1-3, pp. 354-356). Sul punto cfr. anche P.L. Rovito, Respublica dei togati 375-381. De Luca aveva assunto
un’analoga posizione anche riguardo all’immunità fiscale accordata agli ecclesiastici: egli riteneva che le cause che
giustificavano originariamente l’immunità erano venute meno così che l’immunità si era trasformata ormai in un
pregiudizio per l’economia pubblica e per la giustizia fiscale. La sua ferma presa di posizione gli aveva procurato non
poche inimicizie all’interno della curia: si pensi alla protesta del cardinale Pietro Ottoboni contro l’elevazione di De Luca
alla dignità cardinalizia. Cfr. Lauro, Il Cardinale Giovan Battista De Luca LV, 698 e ss.
217 Cfr. Lacchè, Latrocinium 223 e ss. Simile al pensiero di Del Bene è quello di molti altri giuristi: può ricordarsi qui
Remigius de Gonni, De immunitate ecclesiarum (Casalemaiori 1582) fallentia 27 n. 45.
218 Nella città di Roma le immunità locali, senza le deroghe, si sarebbero estese su quasi tutto il territorio: deve
considerarsi infatti che anche i palazzi del clero erano coperti da immunità. Cfr. Prodi, Il sovrano pontefice 232 e ss.
80
Valeron e Pietro Gambacorta, nel caso della legislazione regia spagnola, sostengono l’esclusione dei
decotti fraudolenti dal diritto d’asilo219.
Ma anche negli ordinamenti in cui non vi era un’espressa equiparazione tra decotti
fraudolenti e latrones publici si avverte la necessità di una più efficace azione repressiva nei confronti
dei falliti fraudolenti.
Già negli anni immediatamente successivi alla riforma di Gregorio XIV gli stessi pontefici
intervennero più volte riguardo al diritto d’asilo per i debitori e per i bancarottieri.
Su ordine di Clemente VIII, il 7 maggio 1595 il cardinale Ottavio Paravicini si rivolse ad
Alfonso Paleoti, vicario del cardinale Gabriele Paleoti, arcivescovo di Bologna220; l’11 aprile 1602 il
cardinale di Firenze Alessandro de’ Medici, al cardinale Alfonso Gesualdo, Nunzio di Napoli221; per
conto di Innocenzo X il 26 maggio 1647 il cardinale tesoriere della Camera Apostolica, Giovan
Francesco Ginetti, si rivolse all’arcivescovo di Cosenza Alfonso Maurelli222. Tutti gli interventi
ribadivano la validità della disposizione gregoriana e l’intangibilità dell’immunitas ecclesiastica:
tuttavia, nei fatti, e in modo conforme alle intenzioni pontificie, finivano con il produrre l’esclusione
dal diritto d’asilo dei falliti, di volta in volta indicati come ‘debitori fugitivi’, ‘persone facinorose e
debitori fugitivi’, ‘falliti e debitori’ ecc.
I ripetuti interventi pontifici imposero nuovamente all’attenzione dei giuristi il problema
dell’ammissibilità del confugium per i decotti fraudolenti. Non tutti i giuristi comunque attribuirono
agli interventi pontifici il significato di una sostanziale deroga alle disposizioni gregoriane.
Significativo è il dibattito tra Michelangelo Donato e Mario Italia.
Italia ritiene che gli interventi di Clemente VIII abbiano di fatto riformato la disciplina
gregoriana e che ormai il debitore, fraudolento e non, debba considerarsi escluso dal diritto
219 Valeron, Tractatus de transactionibus quaest. VIII pp. 203-207. Petrus Gambacurta S.I., Commentariorum de immunitate
ecclesiarum in constitutionem Graegorii XIV pont. max. libri octo (Lugduni 1622) lib. 4, cap. 15 pp. 247-251, nella parte generale
della sua trattazione non distingue tra decotti in buona e mala fede e si riferisce più genericamente agli oberati; aggiunge
però che i “magañeros” – i truffatori – sono peggiori dei latrones publici: i latrones, infatti, rubano a rischio della vita e della
fama, i decotti «blande accipiunt e pompis epulisque ac largis ludis consumunt et quasi decoquunt». Ai magañeros
pertanto si nega l’immunità; ai decotti non fraudolenti, invece, de consuetudine, si concede. Cfr. supra, § 4.
220 «Se bene la Santità di N. Signore vuole che l’immunità ecclesiastica sia conservata illesa in tutti li luoghi, massime
del suo stato ecclesiastico, nondimeno ha molto per male che li delinquenti e li debitori fugitivi siano mantenuti da’
Superiori e altre persone ecclesiastiche nelle Chiese, Monasteri, Conventi, Case e luoghi loro in preiudicio della giustizia e
contro la mente di Sacri canoni e della chiesa santa. Et havendo perciò inteso Sua beatitudine che in cotesta et altre città si
trovano trattenuti nelle Chiese, Monasteri, Case, e luoghi ecclesiastici persone facinorose e debitori fugitivi senza rispetto
alcuno della Corte e con danno del publico mi ha ordinato che io commetta… a V. S. che debba, alla ricevuta di questa,
fattose chiamare a se tutti li Superiori del clero secolare, e regolare, e commandare a loro che debbiano dentro a quello
breve termine, che alla prudenza che a lei parerà di prescriverli, haver licentiato e mandato fuori delle Chiese, Monasteri,
Conventi, Case e luoghi loro qualsivoglia persona ritiratavesi per paura, e sospetto della Corte, ordinando a ciascheduno
per l’avvenire debba guardarsi di non mantenere o trattenere simili genti, in qualsivoglia modo, perché la santità sua è
risoluta di non volerlo comportare e di fare demonstracione contra transgressori con ogni severità…»: Michael Angelus
Donatus, De Asylia seu de immunitate locali resolutiones forenses (Romae 1652) resol. 9 pp. 17-18.
221 «Non piace a Nostro Signore che le chiese, né gli altri luoghi sacri servano per Asilo e per recettacolo a’ tristi
onde m’ha fatto comandare di scrivere a V.S. che faccia prohibitione, et intimare per parte di Sua beatitudine a’ Superiori
di Monasteri di Regolari de tutti gli ordini … che per l’avvenire non diano ricetto o sorte alcuna di condennati, banditi,
ladri, o altre genti di male affare, né a falliti e debitori, sotto pena di privatione d’ufficio, se haverà notitia del ricetto
ancorché non siano trovati questi tali nelli monasteri…»: Donato, De Asylia resol. 9 pp. 16-17.
222 «Ancorché alla Santità di Nostro Signore, col suo paterno zelo prema quanto si deve che l’immunità ecclesiastica
sia inviolabilmente custodita et osservata; e la bolla della S. memoria di Gregorio XIV sia puntualmente esseguita, non
intende però che le Chiese et altri luoghi immuni servino per asilo a mali viventi e facinorosi, i quali, abusando spesso di
quel privilegio vi si ricovrano anco talvolta per uscire a commettere nuovi delitti»: Donato, De Asylia resol. 9 pp. 18-19. I
rei possono rimanere in chiesa solo tre giorni. Trascorso tale periodo devono andare via o devono essere condotti nel
carcere della curia. Tutto il clero secolare e regolare deve rifiutare l’ospitalità ai delinquenti a pena della perdita immediata
degli ordini, officii e dignità.
81
d’asilo223. Donato invece esclude che la bolla di Gregorio XIV possa interpretarsi estensivamente,
considerato che i casi di esclusione dall’immunità sono indicati tassativamente, e ribatte che Italia,
pur giurista di altissima levatura, ha capito male. Infatti, per diritto comune e per unanime dottrina il
debitore che si rifugia ad locum tutum gode dell’immunità (cita Bellemère, Niccolò Tedeschi e la l.
Praesenti [C.1.12.6])224. Inoltre sottolinea che Gregorio XIV non ha escluso i debitori
dall’immunità. Neanche Clemente VIII poi ha escluso i debitori civili dal diritto d’asilo, né ha voluto
che essi venissero giudicati dal tribunale secolare. Invece ha vietato che siano ricevuti e mantenuti
nei monasteri, e ne ha ordinato l’espulsione225.
Alla nuova fase del dibattito, aperta dai mutati orientamenti pontifici, prese parte anche
Giovan Battista Fattolilli. Fattolilli, su posizioni vicine a quelle di Donato, ritiene che le lettere di
Clemente VIII non abbiano portata generale e riguardino piuttosto solo i casi e le circostanze per i
quali il papa ritenne di intervenire. Di più, Fattolilli afferma che i decotti godono dell’immunità
anche se fallirono cum notabili reipublicae detrimento. Il giurista sottolinea che il diritto d’asilo è valde
ecclesiae favorabile e pertanto può estendersi ai casi dubbi. Inoltre respinge l’obiezione di chi nega
l’immunità ai debitori sostenendo che per volere di Gregorio XIV l’immunità è destinata solo ai rei
e pertanto non può essere accordata ai debitori che non sono rei. Fattolilli, riprendendo la tesi già
richiamata a proposito di Del Bene, afferma che il termine reus è usato da Gregorio XIV non in
senso strettamente tecnico, ma per indicare quanti nel processo sia civile che criminale sono
chiamati in giudizio226. Già Alessandro Pellegrino aveva distinto i falliti fraudolenti dai debitori e, tra
i debitori, i rei civili dai criminali e aveva sostenuto che l’immunità poteva ben estendersi anche ai
debitori proprio perché Gregorio XIV aveva usato il termine ‘reo’ con un’accezione lata. Ai falliti —
secondo il giurista — deve concedersi l’immunità nonostante l’opinione contraria di quanti
sostengono l’equiparazione dei falliti stessi ai latrones publici. Pellegrino ritiene insostenibile tale
equiparazione perché difetta nei falliti il requisito della reiterazione del reato. Però il giurista
propugna l’esclusione dell’immunità per i falliti fraudolenti: «Praeterea raro aut nunquam verificatur
in eis quod sint fraudolenter falliti seu decoctores: unde immunitate (regulariter) gaudent et huius
opinionis est etiam Alexander Ambrosinus in suo Tractatu de immunitate ecclesiastica.… Dixi
‘regulariter’, quia quando legitime constaret eos esse re vera fraudolenter decoctores tunc procederet
opinio contraria supradictorum doctorum nempe Covarruvias, Boerius Deciani et Farinaccii»227.
Anche Farinaccio aveva distinto tra debitori e falliti ammettendo per i primi l’immunità; poi
aveva anche distinto tra falliti e falliti fraudolenti. In generale i falliti devono essere ammessi al
beneficio dell’immunità: la bolla di Gregorio XIV, revocando le disposizioni con cui si concedeva ai
223 Marius Italia, De Immunitate ecclesiastica (Panormi 1611) lib. I, cap. 5, n. 16, con esplicito riferimento alle lettere di
Clemente VIII inviate al Nunzio di Napoli.
224 Sia pure incidentalmente deve notarsi come i giuristi fondano la propria riflessione sul pensiero di Oldrado da
Ponte che aveva affrontato il problema dell’ammissibilità del diritto d’asilo per il debitore (non per il mercante fallito): iure
civili il debitore, uomo libero, non può essere estratto dalla chiesa perché non può essere catturato «pro debito» e non
deve essere asservito al creditore. Iure municipali, invece, anche l’uomo libero può essere asservito al creditore e quindi non
consentirne l’estrazione dal luogo sacro in cui si è rifugiato si tradurrebbe in una frode per il creditore. Infatti, il debitore,
anche se uomo libero, è comunque soggetto allo ius municipale. In sostanza Oldrado ammetteva che il debitore possa
essere ‘estratto’ dal luogo in cui ha trovato asilo ma, considerato che lo scopo dell’asilo è quello di tutelare il soggetto dalla
pena corporale, sosteneva che tale pena dovesse essere commutata in una sanzione di tipo diverso. Cfr. Oldradus de
Ponte de Laudo, Consilia seu responsa et quaestiones aureae (Venetiis 1585) consilium 54 pp. 24-25.
225 Donato, De Asylia resoll. 88-90 e 92, pp. 114-116 e 117-119. Il giurista suggerisce un’interpretazione piena di
buon senso: il decotto gode del diritto d’asilo, ma non può approfittarne per sottrarre ai creditori i suoi beni che pertanto
devono essere consegnati al giudice affinché questi li assegni a chi ne abbia diritto. Nella resol. 9, alle pp. 15-21, proprio a
proposito delle lettere inviate al Nunzio di Napoli, Donato afferma: «Omissis omnibus obiectionibus quae hic afferri
possent dicam breviter quod Papa potest ecclesiasticam immunitatem canones et constitutiones apostolicas de ea
tractantes non solum declarare et interpretari sed etiam ampliare, extendere, restringere, et limitare…: idcirco sancte
quidem meritissimus ille Pontifex Clemens VIII iussit per diversas mundi partes ne facinorosi homines in Ecclesiis,
religiosisque locis detinerentur sed expellerentur…».
226 Iohannes Baptista Carmen Fattolilli, Theatrum immunitatis et libertatis ecclesiasticae, t. 1 (Romae 1714) pp. 39-40 n. 6.
227 Alexander Peregrinus, Tractatus de immunitate ecclesiarum (Cremonae 1621) 154 e ss.
82
principi di estrarre dalle chiese i falliti, e non elencando tra i casi tassativamente esclusi dall’asilo la
categoria dei falliti, espressamente ammetteva che i falliti godessero del diritto d’asilo. Per quanto
riguarda gli interventi di Clemente VIII, per Farinaccio le lettere al nunzio di Napoli non significano
la sostanziale abolizione del disposto di Gregorio XIV. Farinaccio è favorevole al diritto d’asilo per i
falliti purché però questi non siano fraudolenti. Tale fraudolenza egli riscontra in chi, in frode ai
propri creditori, si rifugia in chiesa non da solo ma con i propri beni, oppure, comunque, in chi ha
nascosto i propri beni per sottrarli ai creditori. Il comportamento di tali falliti è assimilabile lato sensu
a quello dei latrones publici e pertanto tali falliti possono essere esclusi dal diritto d’asilo228.
Assai vicini al pensiero di Farinaccio sono Joannes Fridericus Karg de Bebenburg e Anastasio
Germonio. Karg ammette l’asilo per i debitori interpretando in senso lato (cioè nell’accezione di
convenuto) il termine ‘reo’ presente nella costituzione gregoriana. Per i decotti fraudolenti assegna
alla Sacra Congregatio episcoporum et regularium il ruolo di impedire che l’immunità concessa ai falliti
dolosi, al solo scopo di sottrarli alla pena corporale, si traduca in una frode per i creditori che si
vedano privati dei beni su cui soddisfarsi. Karg afferma che la Congregatio in questi casi, come ha
fatto più volte, deve obbligare il fallito a consegnare i beni perché vengano assegnati a chi ne abbia
diritto229.
Il pensiero di Anastasio Germonio è particolarmente interessante. Ancora prima di
Farinaccio, Germonio aveva sostenuto che il debitore su cui grava il sospetto di fuga gode
dell’immunità, tranne che non si tratti di un banchiere o di un mercante
qui maximo Reipublicae dispendio, ex pecuniis et rebus alienis, dum quaestum exercent
operam usuris quodammodo, et foenoribus dantes, ac per negligentiam prodigalitatem, et luxum
libidini intemperanter, ac voluptatibus indulgendo decoquunt, ad templaque fugiendo creditores
omnes suos miserrime fraudent. Putarem enim ecclesiarum praelatos, iudicibus saecularibus libere
huiusmodi homines quos vulgo fallitos vocamus et proprie extrahendos concedere debere.
Siquidem Pius Papa Quintus decrevit decoctores ultimi supplicii et ea qua fures ipsi iure, vel
consuetudine, vel particulari, vel municipali statuto plecti solent, poena puniendos esse230.
Germonio avverte lucidamente la particolare rilevanza del fallimento del banchiere e del
mercante e propugna per entrambi un rigore maggiore di quello che la legge riserva al debitore.
7.
La cost. ‘Ex quo’ di Benedetto XIII dell’8 giugno 1725
Circa centotrent’anni dopo la costituzione gregoriana Benedetto XIII finalmente comincia a
far chiarezza sul diritto d’asilo promulgando l’8 giugno del 1725 la cost. ‘Ex quo’, con cui statuisce
che siano esclusi dal diritto d’asilo, tra gli altri, i
228 Prosperus Farinacius, De immunitate ecclesiarum, Appendix cap. III nn. 64 e ss. pp. 12-13.
229 Karg de Bebenburg, Dissertationes Theologicae n. 151, pp. 330-331. Sugli interventi della Congregatio, cfr. Petrus
Andrea Ricci Pedemontanus Abbas Generalis Congregationis Reform. S. Bernardi ordini cistercensis, Synopsis decreta et
resolutiones Sacr. Congr. Immunitatis super controversiis iurisdictionalibus (Praeneste 1708) 246: cita una littera Panormitana del 21
gennaio 1626 che dispone che il vescovo non può estrarre il decotto rifugiato perché il decotto non è compreso tra i casi
tassativamente esclusi dall’asilo da Gregorio XIV; una littera Avenionensis del 14 settembre 1694 in cui la sacra
congregazione attribuisce al vescovo la facoltà di fissare al decotto rifugiato un congruo termine per pagare i creditori (o
per raggiungere un accordo con gli stessi). Nella stessa lettera, comunque, considerate le «gravissime circostenze di questo
caso», la Congregazione attribuisce al vescovo la facoltà di estrarre il decotto dal luogo immune e trattenerlo nelle carceri
ecclesiastiche. In una littera Militensis del 13 dicembre 1633 la Congregatio stabilisce che il vescovo fissi al decotto
fraudolento un termine di due mesi. Trascorso tale termine, il decotto che non abbia soddisfatto i creditori, o non abbia
almeno trovato con loro un accordo, deve abbandonare il luogo immune. Con una littera Ravennatis del 3 luglio 1694 si
affida al vescovo la funzione di custode dei libri contabili del confugitus. Sulla Congregazione dell’Immunità ecclesiastica cfr. N.
Del Re, La Curia Romana. Lineamenti storico-giuridici (Sussidi eruditi 23; Roma 19703) 367-369.
230 Anastasius Germonius, De sacrorum immunitatibus libri tres (Romae 1591) lib. 3 cap. 16 nn. 113-114 p. 263.
83
ministros Montis Pietatis, vel alterius publici Telonii, aut Banci pro depositis Principis,
privatarumque personarum destinati, furtum, aut falsitatem in praedictis locis committentes, cuius
ratione Arca pecuniaria ita minuatur, ut poenae ordinariae locus sit231.
Significativamente il primo intervento legislativo dei pontefici in materia di diritto d’asilo per i
mercanti fraudolenti è rivolto ai banchieri. Proprio a quel particolare tipo di mercante che è il
banchiere si riferisce la normativa in cui per la prima volta si distingue il mercante fallito
fraudolentemente dal mercante che è fallito per sfortuna o per imperizia, «vitio suo, vel vitio partim
suo partim fortunae»232. Benedetto XIII, con l’autorevolezza del legislatore e con il carisma del
pontefice, chiude, almeno momentaneamente, la lunga e articolata quaestio che aveva impegnato i
giuristi per oltre un secolo.
Il pensiero settecentesco, con Sarpi, Verri, Beccaria, Filangieri non mancherà di auspicare una
maggiore efficacia della legislazione nella repressione della bancarotta e di invocare la restrizione del
diritto d’asilo ai soli casi per i quali il confugium non costituisca fomentum iniquitatis233.
231 Bullarium Romanum seu Novissima et accuratissima collectio apostolicarum constitutionum, t. 12 (Romae 1736; rist. anast.
Graz 1965) const. LXXIII, pp. 1-4.
232 Secondo un’espressione celebre al punto da essere diventata un ‘modulo’: essa ricorre in molti trattati di diritto
commerciale, a cominciare dal De decoctoribus di Benvenuto Stracca (p. 474a).
233 Per il dibattito settecentesco cfr. Sciumè, Ricerche sul fallimento, passim.
84
Gregorio VII: Dictatus Papae (1075)
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
VIIII.
X.
XI.
XII.
XIII.
XIIII.
XV.
XVI.
XVII.
Quod Romana ecclesia a solo Domino sit fundata.
Quod solus Romanus pontifex iure dicatur universalis.
Quod ille solus possit deponere episcopos vel reconciliare.
Quod legatus eius omnibus episcopis presit in concilio etiam inferioris gradus et
adversus eos sententiam depositionis possit dare.
Quod absentes papa possit deponere.
Quod cum excommunicatis ab illo inter cetera nec in eadem domo debemus manere.
1.
2.
3.
4.
Quod illi soli licet pro temporis necessitate novas leges condere, novas plebes
congregare, de canonica abbatiam facere et e contra, divitem episcopatum dividere et
inopes unire.
Quod solus possit uti imperialibus insigniis.
Quod solius papae pedes omnes principes deosculentur.
Quod illius solius nomen in ecclesiis recitetur.
Quod hoc unicum est nomen in mundo.
Quod illi liceat imperatores deponere.
Quod illi liceat de sede ad sedem necessitate cogente episcopos transmutare.
Quod de omni ecclesia quocunque voluerit clericum valeat ordinare.
Quod ab illo ordinatus alii ecclesiae preesse potest, sed non militare; et quod ab aliquo
episcopo non debet superiorem gradum accipere.
Quod nulla synodus absque precepto eius debet generalis vocari.
Quod nullum capitulum nullusque liber canonicus habeatur absque illius auctoritate.
7.
5.
6.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
XVIII. Quod sententia illius a nullo debeat retractari et ipse omnium solus retractare possit.
18.
XVIIII.
XX.
XXI.
XXII.
XXIII.
Quod a nemine ipse iudicari debeat.
Quod nullus audeat condemnare apostolicam sedem apellantem.
Quod maiores causae cuiuscunque ecclesiae ad eam referri debeant.
Quod Romana ecclesia nunquam erravit nec imperpetuum scriptura testante errabit.
Quod Romanus pontifex, si canonicae fuerit ordinatus, meritis beati Petri indubitanter
efficitur sanctus testante sancto Ennodio Papiensi episcopo ei multis sanctis patribus
faventibus, sicut in decretis beati Symachi pape continetur.
XXIIII. Quod illius precepto et licentia subiectis liceat accusare.
XXV. Quod absque synodali conventu possit episcopos deponere et reconciliare.
19.
20.
21.
22.
23.
XXVI. Quod catholicus non habeatur, qui non concordat Romanae ecclesiae.
XXVII. Quod a fidelitate iniquorum subiectos potest absolvere.
26.
27.
24.
25.
La Chiesa romana è stata fondata solo dal Signore
Solo il Pontefice romano è detto a giusto titolo universale
Egli solo può deporre o assolvere i vescovi
Il suo legato, in un Concilio è superiore a tutti i vescovi, anche se è loro inferiore per
l’ordinazione e può pronunciare contro di loro una sentenza di deposizione
Il papa può deporre gli assenti
Con quanti sono stati scomunicati da lui non si può, tra l’altro, abitare sotto il medesimo
tetto
Egli solo può, se opportuno, stabilire nuove leggi, riunire nuovi popoli, trasformare una
collegiata in abbazia, dividere un vescovato ricco, unire vescovati poveri
Egli solo può servirsi delle insegne imperiali
Il papa è il solo uomo a cui tutti i principi bacino il piede
E’ il solo il cui nome sia pronunciato in tutte le Chiese
Il suo nome è unico nel mondo
Gli è lecito deporre gli imperatori
Gli è lecito trasferire i vescovi da una sede all’altra, secondo la necessità
Ha il diritto di ordinare un sacerdote di qualsiasi chiesa, dovunque gli piaccia
Colui che è stato ordinato da lui può dare ordini alla chiesa di un altro, ma non fare la
guerra; non deve ricevere da un altro vescovo un grado superiore
Nessun sinodo generale può essere convocato senza suo ordine
Nessun testo e nessun libro possono assumere valore canonico al di fuori della sua
autorità
Le sue sentenze non debbono essere modificate da nessuno, ed egli solo può modificare
le sentenze di chiunque
Non può essere giudicato da nessuno
Nessuno può condannare chi fa appello alla Sede apostolica
Le Causae majores di ogni chiesa devono essere portate davanti a lui
La Chiesa Romana mai ha errato ed errerà in perpetuo, come attesta la Sacra Scrittura
Il Pontefice romano, quando sia stato ordinato canonicamente, viene indubitamente
santificato per i meriti di Pietro
Su ordine e con il consenso del papa è permesso ai soggetti presentare un’accusa
Egli può anche, senza bisogno di convocare un’assemblea sinodale, deporre e assolvere
vescovi
Chi non è con la Chiesa romana non dev’essere considerato cattolico
Il papa può sciogliere i soggetti dal giuramento di fedeltà fatto agli ingiusti
Opere dei glossatori
Opera
Digestum vetus
Digestum infortiatum
Digestum novum
Apparati ordinari
Accursio (†1263)
Accursio (†1263)
Accursio (†1263)
Codex
Accursio (†1263)
Institutiones
Accursio (†1263)
Tres Libri
Novellae
Libri Feudorum
Accursio (†1263)
Accursio (†1263)
Pillio da Medicina (†1207) e Jacopo
Colombi (†1244)
Carlo di Tocco (sec. XII-XIII)
Marino da Caramanico (†1288 prima)
Bartolomeo da Brescia († 1258) su Rolando Bandinelli (Alessandro III)
trama di Giovanni Teutonico († 1245)
(†1181)
Rufino († prima del 1192), Giovanni da
Faenza († 1190), Stefano Tornacense (†
1203), Uguccione da Pisa († 1210)
Bernardo Bottone da Parma († 1266)
Goffredo da Trani (†1245)
Sinibaldo fei Fieschi (Innocenzo IV) (†
1254)
Enrico da Susa († 1271)
Giovanni d’Andrea (†1348)
Giovanni d’Andrea (†1348)
Lombarda
Liber Constitutionum
Decretum di Graziano
Liber Extra
Liber Sextus
Clementinae
Summae
Frammenti, Azzone († 1230)
Frammenti, Azzone († 1230)
Frammenti, Azzone († 1230)
Guglielmo da Cabriano (fine sec. XII)
Summa trecensis, prima metà sec. XII
Summa di Rogerio (†1162)
Summa di Piacentino († 1192)
Summa di Azzone († 1230)
Piacentino († 1192)
Azzone († 1230)
Pillio da Medicina († dopo il 1207)
Giovanni Bassiano († 1197)
GIUSEPPE SPECIALE
ALTERI AD DELICTUM PRAEBUIT OCCASIONEM
A PROPOSITO DI MANDATUM E CONSILIUM:
VOCI DAL DISCORSO SULLA RESPONSABILITÀ
1. Il discorso umano sulla responsabilità.
In un villaggio non lontano da Francoforte, sul finire del
Seicento, una donna di umili condizioni, una serva, appicca il
fuoco alla casa del proprio padrone causandone la morte. La
serva, subito arrestata, confessa di avere agito su consiglio di un
oste.
Questi, interrogato sull’accaduto, racconta che la donna,
visibilmente agitata e sconvolta, era entrata nella sua osteria per
comprare una birra per il proprio padrone; incuriosito dal
pianto disperato della donna l’oste le aveva chiesto spiegazioni e
quella aveva riferito di essere stata picchiata più volte e senza
motivo dal padrone. Allora l’oste, indignato e adirato per la
crudeltà di quello e turbato per lo stato di sofferenza in cui
* Questo studio è dedicato a Giovanni Nicosia. Un primo risultato della
ricerca che ho avviato sul concorso di persone, in particolare sul mandato e sul
consiglio a delinquere, è stato presentato nel settembre 2006 nell’occasione del
convegno Norm, Knowledge, and Text in medieval culture and legal tradition, organizzato
dalla School of Law, University of California, Berkeley (18-20 settembre 2006).
Estr. da: Studi per Giovanni Nicosia (Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi di Catania; Milano, Giuffré 2007) in corso di stampa
versava la povera donna, aveva esclamato: «se fosse accaduto a
me avrei appiccato il fuoco alla casa con lui dentro».
L’infelice aveva ascoltato in silenzio le parole dell’oste, poi
aveva fatto ritorno dal padrone e subito aveva appiccato il fuoco
alla casa.
L’oste si difende sostenendo che quando aveva pronunciato
quelle parole egli non credeva che la donna sarebbe stata così
stolta (“ita stolida”) da intenderle come un suggerimento e da
porle in atto.
La serva, d’altro canto, afferma che mai avrebbe trovato il
coraggio e la volontà di compiere un gesto simile se non vi fosse
stata indotta dal cattivo consiglio dell’oste.
Entrambi sono condannati a morte: la donna è bruciata
viva, l’uomo, con modalità più miti, viene prima ucciso e poi se
ne brucia il corpo.
La vicenda della serva e dell’oste costituisce una felice ed
efficace esemplificazione di una delle tante figure che integrano
il genus della compartecipazione criminosa che è stato assunto ad
oggetto dell’appassionata riflessione dei giuristi fin dai tempi dei
primi glossatori e, via via, fino ai nostri giorni. Gli studiosi sono
consapevoli della complessità della materia e si impegnano nel
tracciare i confini tra il consilium, l’auxilium, il mandatum, la locatio,
la ratihabitio, assumendo di volta in volta criteri discretivi che
non sempre si rivelano stabili. La classificazione, per quanto
faticosa, è meritoria perché feconda di risultati e perché
consente ai giuristi di impostare correttamente il problema
fondamentale che essi sono chiamati ad affrontare: il problema
della responsabilità. Si tratta infatti di capire se, ed
eventualmente in quale misura, sia imputabile al dans il consilium,
o il mandatum, o l’auxilium, l’atto compiuto dall’accipiens; si tratta
di capire se, ed eventualmente in quale misura, il contributo
2
Giuseppe Speciale
all’ideazione o alla realizzazione del reato — fornito da un
soggetto diverso dall’autore (1), materiale esecutore — possa
ritenersi causa (causa efficiens) della commissione del reato stesso.
Si tratta, inoltre, di stabilire se quello compiuto con modalità di
partecipazione e livelli di coinvolgimento diversi, dai distinti
concorrenti, possa considerarsi un unum delictum.
L’indagine sulla volontà, e sul reciproco influenzarsi delle
volontà di soggetti distinti, la valutazione del libero arbitrio, le
inafferrabili modalità secondo le quali di volta in volta si
combinano volontà e comportamenti, il rapporto tra volontà e
responsabilità, costituiscono i nodi del problema della
responsabilità, del giudizio pratico sulla responsabilità, che i
giuristi sono chiamati a sciogliere. Su questo problema la scienza
giuridica si cimenta con approcci diversi, ora identificando la
volontà con la responsabilità e finendo con il far coincidere la
responsabilità con il disvalore sociale che oggettivamente il fatto
esprime; ora soffermandosi sulla libertà di scelta, sul libero
arbitrio; ora indagando le relazioni tra volontà di soggetti distinti
nel contesto delle condizioni ambientali sociali psicologiche.
Da subito, sin dall’età dei glossatori, i giuristi percepiscono
che il problema della responsabilità deve affrontarsi con
approcci che tengano conto delle diverse variabili in gioco.
Nell’acribia delle distinzioni in cui si impegnano a inquadrare i
vari possibili modi in cui comportamenti e volontà di soggetti
distinti concorrono alla realizzazione di un reato si riflette
proprio la consapevolezza dell’insufficienza di un approccio
fondato su un solo criterio. La miriade di figurae di concorso
descritta dalla dottrina bassomedievale e dell’età moderna è
irriducibile e incomprimibile in una rigida tipizzazione
(1) I termini ‘autore’ ed ‘esecutore’, storicamente segnati dall’esperienza
codicistica italiana (soprattutto postunitaria), vengono qui utilizzati nell’accezione
più lata e meno tecnica, riferendosi al soggetto o ai soggetti che hanno posto in
essere la condotta descritta nella fattispecie di reato oppure, nelle ipotesi di reato a
forma libera, a coloro che hanno causato l’evento tipico.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
3
normativa. Significativamente Vico, anche in anni che segnano
una cesura tra due esperienze giuridiche, avverte che il problema
della responsabilità, del giudizio pratico sulla responsabilità,
considerata l’inafferrabilità del libero arbitrio, può affrontarsi
con lo strumento del senso comune. Riprendendo Vico —
«L’umano arbitrio, di sua natura incertissimo, egli si accerta e
determina col senso commune» — Alessandro Giuliani può ben
affermare che il senso comune «rappresenta quindi l’unica
misura su cui si possa cominciare un discorso umano riguardo
alla responsabilità umana» (2). E proprio al senso commune sembra
che i giuristi abbiano finito per ancorare le conclusioni dei loro
complessi ragionamenti tutte le volte che nell’età del diritto
comune, e anche oltre, si sono occupati di questi problemi. Fino
(2) A. GIULIANI, Imputation et justification, in Archives de philosophie du droit XXII
(1977) 85-96, in particolare 96.
Lo stesso concetto, tra gli altri, riprende J. GIL, Responsabilità, in Enciclopedia
Einaudi 11 (Torino 1980) 1014-1015: «Perché la nozione di responsabilità si formuli
in modo netto occorre che quella di libero arbitrio perda il carattere sacro…
Tuttavia si può ritenere che (l’idea di responsabilità individuale) esista in qualsiasi
forma di diritto, non nell’accezione moderna (in cui è strettamente connessa all’idea
di colpevolezza individuale), ma in modo implicito nel significato generale del
verbo respondere ‘farsi garante di una promessa o di un debito’… Perché si cerca di
determinare la responsabilità dell’autore di un delitto? Rendere responsabile
equivale a «mettere sul conto di» e se si vuole mettere sul conto di qualcuno un atto
delittuoso è per fargli subire un castigo. Ricercare la responsabilità consente di
applicare la pena. Nella dottrina classica del diritto si distinguono due aspetti della
responsabilità penale: l’imputabilità e la colpevolezza... Nella determinazione della
responsabilità tutto verte sul problema di sapere in quale misura un atto è
imputabile ad un soggetto (si tratta qui del diritto classico)… Ora si presentano
degli interrogativi che i penalisti sono costretti a porsi ogni volta che i
«determinismi» (di ordine sociale, biologico, psicologico) offuscano l’idea chiara del
libero arbitrio: come valutare, in tali condizioni, il legame che unisce l’azione e chi
la compie? Come conciliare la nozione di «determinismo» con quella di
responsabilità assoluta del soggetto?… La giurisprudenza ha sempre seguito una via
di mezzo tra queste due concezioni (della libera volontà e del determinismo) che
riassumevano le difficoltà di ordine dottrinario… la responsabilità dipendeva più
dal senso comune che dalle concezioni filosofiche; più dalla mentalità relativa alle
opinioni correnti sulla reale libertà dell’individuo sociale, che dal rigore della
dottrina. Il senso comune sembra effettivamente svolgere la funzione di un a priori
nei giudizi di responsabilità mediante certe nozioni che esso presuppone».
4
Giuseppe Speciale
ai nostri giorni, quando — constatato il fallimento degli
esperimenti codicistici che miravano a una tipizzazione del
concorso, e l’insufficienza del criterio causale per la
determinazione della misura della responsabilità dei
concorrenti — i giuristi hanno proposto l’adozione di un
approccio multifattoriale, che sostituisce al criterio fondato sulla
causalità un insieme variabile, di volta in volta variabile, di
criteri, più adatto a valutare le complesse dinamiche relazionali
tra i concorrenti e le altrettanto complesse relazioni tra i
contributi dei concorrenti (3).
Per avviare questo primo, provvisorio, saggio di ricerca —
che senza pretese di esaustività si limita ad alcune incursioni nei
territori, e sulle linee di confine, del mandatum e del consilium ad
delinquendum — ho scelto di raccontare la vicenda della serva e
dell’oste che è tratta da un’operetta del tardo Seicento: una
disputatio redatta pro licentia nel 1690 da Johannes Andreas Birner
Brega Silesius, un allievo di Samuel Stryk, e inserita dal maestro
dell’Usus modernus pandectarum tra le celebri Dissertationes juridicae
Francofurtenses (4).
(3) In questa nuova prospettiva cfr. gli studi di S. ALEO, e la letteratura ivi
citata, Causalità, complessità e funzione penale. Per un’analisi funzionalistica dei problemi della
responsabilità penale (Milano 2003) 101 ss.; Il diritto flessibile, in Rassegna penitenziaria e
criminologica 8.2 (2004) 41 ss. e le osservazioni dello stesso ALEO, Diritto penale e
complessità. La problematica dell’organizzazione e il contributo dell’analisi funzionalistica
(Torino 1999), 47 ss., in particolare, per i profili della configurabilità del concorso
esterno nei delitti associativi.
(4) JOHANNES ANDREAS BIRNER BREGA SILESIUS, Disputatio decima sexta de
mandato delinquendi, pro licentia (ad. D. Iunii, anno MDCXC horis ante et pomeridi). Sect. I
Generalis, de obligatione mandati ad delinquendum, in SAMUEL STRYK, Dissertationum
juridicarum Francofurtensium ex iure publico, privato, feudali et statutario materias exhibens VI
(Florentiae, apud Josephum Celli 1839) coll. 627-656 (il caso della serva a col. 637).
Tra le altre, che riguardano lo stesso tema della compartecipazione criminosa,
possono qui ricordarsi, nello stesso volume, la Disputatio prima De imputatione facti
alieni, pro licentia (D. VIII Iunii, anno MDCLXXXVIII) di AUGUSTUS THEODORUS
REICHHELM HALENSIS, coll. 5-64, e la Disputatio decima octava De jure persuasionis (die
XX Jul. MDCLXXVIII) di GEORGIUS QUIRINO POECKELL LIPSIENSIS, in
SAMUEL STRYK, Dissertationum juridicarum Francofurtensium de selectis utriusque iuris
materiis III (Florentiae, apud Josephum Celli 1838) coll. 812-894.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
5
La disputatio, al di là del suo valore, costituisce uno dei pochi
punti di osservazione che arbitrariamente ho scelto per guardare il
complesso e variegato patrimonio di sapienza accumulato
dall’infaticabile lavorìo dei giuristi. La condivisione del sapere, la
sua circolazione, la partecipazione corale della comunità dei
giuristi alla costruzione di una sapientia sono palpabili nell’opera
di Birner e, ancora di più, in un’altra opera che qui si assume
come ulteriore punto di osservazione. Mi riferisco alle sette
quaestiones, dalla 129 alla 135, della Praxis di Prospero Farinacci,
thesaurus ineludibile e sistematico di tutta la tradizione medievale
in tema di consilium e mandatum a delinquere (5). Un filo rosso
lega poi queste due opere ad un breve scritto di Francesco
Carrara con cui si chiude il mio itinerario. E questo filo non è
costituito solo, e tanto, dal tema comune — che riguarda
vicende e rapporti umani quali l’incontro e la reciproca
influenza di volontà distinte e l’intreccio di pulsioni, interessi e
passioni — quanto dalla continuità di certe pratiche discorsive
condivise nella scientia iuris e accomunate proprio dal ricorso a
quel senso comune.
Il filo rosso — dello sforzo di comprensione nell’acribia
della distinzione, delle pratiche discorsive, del ricorso al senso
comune — unisce le antiche pagine di Farinaccio, Birner,
Carrara a quelle ancora più antiche, alle quali questi giuristi
hanno attinto, e, in un certo senso, arriva fino ai nostri giorni,
fino al nervo, ancora oggi scoperto, della cultura, e
dell’esperienza, giuspenalistica europea tuttora divise tra modelli
in cui le modalità che integrano il concorso sono tipizzate sul
piano normativo e modelli in cui l’individuazione di tali
(5) PROSPERUS FARINACIUS, Variarum Quaestionum et communium opinionum
criminalium liber quartus. De consultoribus, auxiliatoribus et mandatoribus, in Praxis et
Theoricae criminalis partis secundae tomus secundus quatuor titulis partitus (Venetiis, apud
Iuntas, 1609), quaest. 129-135, pp. 291-399.
6
Giuseppe Speciale
modalità è rimessa alla iurisprudentia (6). Questo filo rosso, di cui
ci occupiamo, riesce a superare le fratture che connotano i
differenti contesti normativi, culturali e politico-istituzionali
dell’età medievale rispetto all’età moderna e a quella dei
codici (7).
2. Complex, socius, particeps, sequax: orientarsi nel labirinto
ipertestuale della scientia iuris.
Proprio per la complessità e per l’inafferrabilità dei
meccanismi attraverso i quali un soggetto può e deve ritenersi
responsabile degli atti compiuti da un altro, sulle varie figurae di
compartecipazione criminosa la scientia iuris ha fermato la sua
attenzione: qui, tra i tanti glossatori, possono ricordarsi Rogerio,
Azzone, Accursio e, tra i giuristi dei secoli successivi, Alberto
Gandino, Bartolo, Baldo, Bartolomeo Cipolla, Paolo di Castro,
Giulio Claro, Prospero Farinaccio, Tiberio Deciani, Iacopo
Menochio. Le riflessioni di questi giuristi e l’impegno profuso
nell’analisi e nella sistematizzazione delle varie figurae
(6) Cfr. S. SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato (Milano
1987): a tale studio si rinvia — oltre che per un completo quadro dei problemi posti
dal ‘tautologico’ art. 110 del codice penale italiano vigente, e delle possibili
alternative alla disciplina vigente — per l’analisi storico-comparata, a partire da
Napoleone, delle soluzioni, e delle tecniche, normative con cui i codici europei
hanno affrontato il concorso di persone nel reato.
(7) Per un esame sistematico del pensiero dei giuristi, che dal medioevo all’età
dei codici si sono impegnati a sciogliere l’aggrovigliato nodo della reponsabilità dei
concorrenti in un reato, rinvio ad un mio studio di prossima pubblicazione, in cui
darò conto anche dei numerosi e importanti contributi della storiografia giuridica.
Qui, per una comprensione delle linee di sviluppo della giuspenalistica tra
medioevo ed età moderna, mi limito a ricordare uno degli ultimi, in ordine di
tempo, contributi del compianto MARIO SBRICCOLI, “Lex delictum facit”. Tiberio
Deciani e la criminalistica italiana nella fase cinquecentesca del penale egemonico, in Tiberio
Deciani 1509-1582. Alle origini del pensiero giuridico moderno, M. Cavina cur. (Strumenti
per la Storia del Friuli 2; Udine 2004) 94 e ss.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
7
testimoniano una continuità d’interesse per le forme di
compartecipazione criminosa che scandisce i secoli
dell’esperienza giuridica bassomedievale e della età moderna. E
alle sapienti ricostruzioni di questi giuristi si presterà attenzione
anche nell’età delle codificazioni.
Le relazioni che legano i soggetti compartecipi, il grado del
loro coinvolgimento psicologico e materiale, le modalità stesse
della compartecipazione costituiscono oggetto di riflessione e,
come al solito, di distinzioni.
Già nel casus ‘non solum’ [Dig. 47.10.11] della Glossa
ordinaria con riguardo all’iniuria si fissa il principio della
responsabilità, allo stesso titolo, di chi direttamente compie
l’iniuria e di chi invece abbia dato mandato, gratuito, o abbia
pagato un pretium, o abbia persuaso qualcuno per porre in essere
l’iniuria, «maxime si non alias eras facturus» (8).
Ripetutamente poi Accursio nel suo apparato afferma il
principio generale secondo il quale il consulens non è responsabile
sic et simpliciter solo per il fatto di aver suggerito la commissione
del reato. La responsabilità del consulens è invece subordinata al
verificarsi di alcune condizioni: è necessario che il consiglio sia
stato recepito; che si sia data esecuzione al consiglio e che si sia
compiuto il reato consigliato; che il consiglio abbia costituito la
causa della commissione del reato consigliato, cioè che il reo,
(8) Casus ‘non solum’ [Dig. 47.10.11] col. 1227: «Non solum tenetur actione
inuriarum qui facit iniuriam sed etiam qui dolo fecit, vel qui curavit aliquis
percuteretur, seu aliqua iniuria fieret… Quarto dicit, si mandato meo est facta alicui
iniuria, et ille qui fecit et ego mandans tenemur. Idem est si conduxi, id est pretium
tibi dedi, ut cuidem faceres iniuriam. Idem est si filio meo mandavi ut tibi inuriam
faceret, nam teneor. Idem si persuasi tibi ut faceres alicui iniuriam, et fecisti,
maxime si non alias eras facturus». Le citazioni del Corpus iuris civilis sono tratte
dall’edizione lionese del 1562 di Ugo e degli eredi di Aimone Porta. Un buon
compendio della dottrina sul libro XLVII dei Digesta, con riferimento ai profili che
qui interessano, può leggersi in ANTONIUS MATTHAEUS, De criminibus ad lib. XLVII
et XLVIII Dig. commentarius (Neapoli, sumpt. Dominici Terres, 1772) I, in
particolare prolegomena, cap I, pp. 1-15 e tit V, ad legem Corneliam de sicariis, pp. 377383.
8
Giuseppe Speciale
per altre ragioni, non sia stato comunque sul punto di
commettere il reato o determinato a commetterlo (9). E per
(9) Gl. ‘non tenebitur’ [Dig. 47.10.15.10] col. 1233, per l’iniuria: «non sufficit
consilium vel conatus, si delictum non habeat effectum…».
Gl. ‘vel consilium’ [Dig. 47.2.52(53).19] col. 1168, per il furto: «ob solum
consilium tunc tenetur quis furti cum non alias erat facturus is cui consilium datum
est…».
Gl. ‘non teneri furti’ [Inst. 4.1.12(14) § ope et consilio] coll. 373-374 : «…sed
quae est ratio? Respondeo quia hic agitur de delicto secuto post persuasionem: non
autem ex ipsa persuasione. Et ideo distinguitur, an erat alias facturus vel non; sed in
aliis casibus ex ipsa persuasione agitur quicquid postea sequatur…».
Gl. ‘consilii’ [Dig. 50.17.47(48)] col. 1705: «Si tibi consului ut pecuniam tuam
potius in emptiones praediorum colloces quam foeneres, non teneor, ut Inst. man.
§ Tua gratia [Inst. 3.26.6] nisi alias facturus non eras, ut supra mand. l. Si
remunerandi § si tibi [Dig. 17.1.6.4]. At P. hic distinguebat: aut mandavi ut foeneres
non adiecta persona cui, et tunc non teneor, etiam si alias facturus non eras; aut
mandavi persona adiecta cui, et tunc teneor, etiam si alias facturus non eras; quae
distinctio reprobatur sup. de neg. ge. l. iii § fi. [Dig. 3.5.3.11] et l. iiii [Dig. 3.5.4];
haec vera cum dolo carui, alias teneor, sive alias eras facturus sive non, nisi dolus
cadat in nomen maleficii, ut furti vel servi corrupti; tunc enim furti et servi corrupti
experietur…».
Gl. ‘condici potest’ [Dig. 50.16.53.2] col. 1644: «Puta ei qui tulit opem, potest
condici; qui consilium praebuit, non ut Inst. de ob. ex deli. § Ope [Inst. 4.1.11] et
supra de fur. l. Qui servo [Dig. 47.2.36] sed videtur etiam qui tulit opem non teneri
conditione furtiva ut supra de condicione furtiva l. Proinde [Dig. 13.1.6] quae est
contra. Sol. appellatur hic condictio s. certi generalis. Ibi condictionem furtivam
negat competere vel dic dari condi. in personalem actionem scilicet furti sicut
ponitur Inst. de actionibus § sic itaque [Inst. 4.6.14] ubi denegat condic. fur. vel
tertio, hic quoquomodo devenit res ad eum qui tulit opem, ibi non et potes hic
breviter dicere generale est ut quis de consilio non teneatur, ut supra man. l. ii § fi.
[Dig. 17.1.2.6] nisi alias non erat ille factururs ut in eo. ti. l. Si remunerandi § si tibi
man. in fi. § [Dig. 17.1.6.4] et hoc si non est fraudulentum tunc enim est
obligatorium ut infra ti. i. l. Consilii [Dig. 50.17.47] et supra de do. l. Quod si cum
scires [Dig. 4.3.8]. Sed act. fur. licet sit fraudulentum locum non habet ut in princ.
huius glo. nisi alias non erat ille facturus furtum ar. supra de iniur. l. Non solum §
mandato [Dig. 47.10.11.3] et supra de fur. l. Si quis uxori § neque [Dig. 47.2.52.19].
Quandoque tamen ex solo consilio tenetur quis licet ille alias erat facturus ut in
consilio dato servo ut C. de fur. l. Si quis [Cod. 6.2.20] et supra de servo corr. l. i. §
persuadere [Dig. 11.3.1.3]. Si autem opem et consilium simul adhibuit furto, tunc
tenetur, licet ille alias erat facturus; et licet consilium non habuerit principaliter dum
tamen secundario: ut et supra de fur. l. Si pign. § pen. [Dig. 47.2.55(54).4] et inst. de
ob. ex delicto § Op. [Inst. 4.1.11] et supra de fur l. In furti actione § ope [Dig.
47.2.50.1] et § recte [Dig. 47.2.50.2]. Acc. ».
Alteri ad delictum praebuit occasionem
9
meglio chiarire la propria posizione Accursio — che utilizza a
piene mani, anche in questo caso, la tradizione della scuola dei
glossatori, primo fra tutti Azzone — sottolinea che vi sono
anche casi in cui la responsabilità del consulens deve affermarsi
non de delicto secuto, ma per il solo fatto del consilium: in tali casi è
irrilevante il verificarsi del reato per mano del consigliato ed è
anche irrilevante che questi fosse già determinato a compiere il
reato, o fosse già sul punto di compierlo, quando ha ricevuto il
consilium. È il caso, per fare un esempio, di chi consiglia ad un
servo altrui di fuggire dal proprio padrone o di commettere un
furto: in tali fattispecie appare evidente che si agisce contro il
consulens e gli si commina la sanzione penale ex ipsa persuasione —
indipendentemente dagli effetti che il suo consilium sortisce —
perché egli ha minato, insinuandovisi con il suo consilium, il
rapporto tra dominus e servus.
Non è senza significato che già dal tempo dei glossatori si
richiamino espressamente i casi in cui si afferma la
responsabilità del padre o del padrone per i reati compiuti dai
figli o dai servi in esecuzione di un mandato da quelli
ricevuto (10). Altrettanto espressamente si afferma anche che
«non autem esset verisimile mandatum, si mandatarius sit
aequalis, vel melioris conditionis, mandantis» (11).
Gl. ‘furtum facturus’ [Dig. 11.3.1.3] col. 971: «… Solutio. Cum experior ex
delicto quod ei suasit alius et postea propter consilium perpetratum est: adhibetur
distinctio utrum delinquens erat alias facturus vel non; sed hic experior ex delicto
hoc ipso quod delinquens credidit suo consilio fieri vitiosum: vel de malo peiorem.
Non attento delicto postea secuto in persona, licet si patiar in rebus damnum
postea propter proximum praecedens consilium per consequentiam habeatur ratio
secus si ex intervallo…».
(10) Casus ‘non solum’ [Dig. 47.10.11] col. 1227: «… Idem est si filio meo
mandavi ut tibi iniuriam faceret, nam teneor». Per i casi della responsabilità del
padre per i maleficia commessi dai figli cfr. M. BELLOMO, Problemi di diritto familiare
nell’età dei comuni. Beni paterni e ‘pars filii’ (Milano 1968) pp. 105 e ss.
(11) MARCUS ANTONIUS SABELLUS, Summa diversorum tractatuum (Parmae, apud
haeredes Pauli Monti, 1733) t. III, p. 149 n° 22, per la ricchissima serie di auctoritates
citate. Cfr. anche, dello stesso autore, ma arricchito da aggiunte del figlio GUIDO
10
Giuseppe Speciale
Quest’ultima osservazione mette a fuoco una caratteristica
essenziale delle figure di compartecipazione criminosa di cui
vogliamo occuparci. Il dans il mandatum o il consilium si pone su
un piano superiore, facendo valere nei confronti dell’accipiens
tutta la sua autorevolezza di padre, padrone, mandante. Così il
mandato è definito nelle fonti — come più avanti si avrà modo
di vedere — come il comando dato ad un inferior da un superior
che «necessitatem obsequi in se comprehendit». Il rapporto tra il
dans e l’accipiens si caratterizza proprio per una sorta di
soggezione del secondo rispetto al primo e per alcuni aspetti
riproduce alcune dinamiche tipiche del rapporto genitoriale.
L’accipiens/figlio/servo/inferior non solo esegue gli ordini del
dans/padre/padrone/superior; ma, per conquistarne la
benevolenza — e, si potrebbe aggiungere, gratificarsi di tale
conquista —, può spingersi anche ad attuare comportamenti
che non gli sono espressamente richiesti, suggeriti, ordinati, ma
che egli ritiene essere graditi al superior (12). Rimane aperto il
ANTONIO, Pratica universale (Parma, per gli eredi di Paolo Monti, 1733) t. VII, §
Sicari, pp. 282-309.
(12) Dinamiche esemplari in tal senso sono quelle tra genitori e figli indagate,
tra gli altri, da Donald Woods Winnicott. Sulle relazioni e sulle dimensioni
psicologiche della responsabilità cfr. lo schema di G. DE LEO, Psicologia della
responsabilità (Roma — Bari 1998) 56 ss. Un interessante esempio delle dinamiche
che si innescano tra mandante e mandatario è quello esemplificato nelle pagine del
Milione (capp. 40-42) che MARCO POLO dettò a Rustichello da Pisa a proposito del
Vecchio della montagna, Aloodin, capo della setta degli assassini, incontrato dal
mercante veneziano nel 1273. «Egli avea fatto fare tra due montagne in una valle lo
piú bello giardino e ‘l piú grande del mondo. Quivi avea tutti frutti (e) li piú begli
palagi del mondo, tutti dipinti ad oro, a bestie, a uccelli; quivi era condotti: per tale
venía acqua a per tale mèle e per tale vino; quivi era donzelli e donzelle, li piú begli
del mondo, che meglio sapeano cantare e sonare e ballare. E facea lo Veglio credere
a costoro che quello era lo paradiso. E perciò ‘l fece, perché Malcometto disse che
chi andasse in paradiso, avrebbe di belle femine tante quanto volesse, e quivi
troverebbe fiumi di latte, di vino e di mèle... e li saracini di quella contrada credeano
veramente che quello fosse lo paradiso. E in questo giardino non intrava se none
colui cu’ e’ volea fare assesin[o]...Lo Veglio tenea in sua corte tutti giovani di 12
anni, li quali li paressero da diventare prodi uomini. Quando lo Veglio ne facea
mettere nel giardino a 4, a 10, a 20, egli gli facea dare oppio a bere, e quelli dormía
Alteri ad delictum praebuit occasionem
11
problema, di non poco peso, se e in quale misura possa
attribuirsi al superior la responsabilità del fatto compiuto
dall’inferior, quando questi si sia mosso a compierlo non su
espresso consiglio o suggerimento del superior, ma nella
convinzione che al superior fosse gradito e dal superior fosse
approvato. Può fare al caso nostro un esempio tratto dai nostri
giorni: si pensi al manager di un gruppo industriale che, al fine di
ottenere controlli fiscali favorevoli, corrompa, nell’interesse
dello stesso gruppo, ufficiali di polizia, non su espresso mandato
o suggerimento della proprietà o del leader del gruppo, ma nella
ferma convinzione di porre in atto un comportamento che sia
tale da riscuotere la piena approvazione della proprietà o del
leader, convinzione fondata sulla consolidata esperienza
bene 3 dí; e faceali portare nel giardino e là entro gli facea isvegliare. Quando li
giovani si svegliavano e si trovavano là entro e vedeano tutte queste cose,
veramente credeano essere in paradiso. E queste donzelle sempre stavano co loro
in canti e in grandi solazzi; e aveano sí quello che voleano, che mai per loro volere
non sarebboro partiti da quello giardino... E quando elli (il Veglio) ne vuole
mandare niuno di quegli giovani ine uno luogo, li fa dare beveraggio che dormono,
e fagli recare fuori del giardino in su lo suo palagio. Quando coloro si svegliono (e)
truovansi quivi, molto si meravigliano, e sono molto tristi, ché si truovano fuori del
paradiso. Egli se ne vanno incontanente dinanzi al Veglio, credendo che sia uno
grande profeta, inginocchiandosi; e egli dimand[a] onde vegnono. Rispondono:
“Del paradiso”; e contagli tutto quello che vi truovano entro e ànno grande voglia
di tornarvi. E quando lo Veglio vuole fare uccidere alcuna persona, fa tòrre quello
che sia lo piú vigoroso, e fagli uccidire cui egli vuole. E coloro lo fanno volontieri,
per ritornare al paradiso; se scampano, ritornano a loro signore; se è preso, vuole
morire, credendo ritornare al paradiso. E quando lo Veglio vuole fare uccidere
neuno uomo, egli lo prende e dice: “Va’ fà cotale cosa; e questo ti fo perché ti
voglio fare tornare al paradiso”. E li assesini vanno e fannolo molto volontieri...».
Quando Marco Polo incontrò il Veglio, già da circa un trentennio il termine
assassinus, sconosciuto al diritto romano, era assurto a piena dignità normativa,
utilizzato da Innocenzo IV nel concilio di Lione del 1245 (cfr. il cap. Pro humani
redemptione generis nel Liber Sextus di Bonifacio VIII, VI. 5.4.1). Sull’origine del
termine assassinus cfr. anche M. PIFFERI, Generalia delictorum. Il tractatus criminalis di
Tiberio Deciani e la “parte generale” di diritto penale (Per la storia del pensero giuridico
moderno 66; Milano Giuffré 2006) pp. 424-438 e la letteratura ivi ricordata, alla
quale qui può aggiungersi quella citata, alla voce ‘Assassini’, da C. DU CANGE,
Glossarium mediae et infimae latinitatis (Paris 1883, rist. anast. Graz 1954) I, p. 428.
12
Giuseppe Speciale
pregressa. La proprietà o il leader del gruppo può ritenersi in
qualche misura responsabile della corruzione (13)?
Al mandatum, al consilium, alla locatio, i glossatori poi
equiparano anche la ratihabitio fondandosi sul principio «in
maleficio ratihabitioni mandato comparari» sancito, tra l’altro, in
Dig. 43.16(15).1.14. Proprio nella glossa ‘ratum habuero’
apposta a questo brano dei Digesta si trova una raffinata
considerazione sui requisisti della ratifica (14).
Per Angelo degli Ubaldi, anche sul fondamento di Cod.
1.1.8.31 e di altri passi, sequaces adhaerentes e complices sono termini
sostanzialmente fungibili che sottolineano la condivisione del
progetto e dell’esecuzione del crimine. Quanto al socius, se per
alcuni complices criminis e socii criminis unum sonent, per Farinaccio,
invece, il socius prende parte al maleficium per un interesse
proprio, il sequax per un interesse altrui (15).
Nel mandato il mandans è il principium sceleris, sia pure remotum
e extrinsecum, è il princeps delicti, perché muove alla commissione
del reato; il mandatarius, che liberamente esegue il reato, è solo
l’instrumentum, la manus del mandans. Il mandatario però, proprio
(13) Dinamiche dello stesso genere, con osservazioni come al solito
interessanti e ricche di stimoli, esamina De Luca, con riferimento alla responsabilità
dell’armatore per la robbaria e il delictum del magister navis: IOHANNES BAPTISTA DE
LUCA, Theatrum veritatis ac iustitiae. De regalibus II (Venetiis, ex typ. Balleoniana, 1734)
discur. 180, pp. 315-317. Lucidamente il giurista discrimina a seconda del tipo di
attività a cui è destinata la nave.
(14) Gl. ‘ratum habuero’ [Dig. 43.16(15).1.14] col. 616: «Duo videntur
necessaria. Primum quod meo nomine gestum sit, alias ratum habere non possum,
et si habeam non teneor… Secundum quod habeam ratum, tanquam nomine meo
factum, alias secus, ut si audiens nomine meo factum, dixi, doleo, quod nomine
meo est factum, nec sic ratum habeo, sed alias bene gaudeo, hoc enim gaudium
non comparatur mandato: multo minus ergo teneor quando non meo nomine
actum predicto modo gaudeo».
(15) ANGELUS DE PERUSIO, Consilia seu responsa (Lugduni, Joannes Moylin,
1539) cons. 257, fol. 106v. Cfr. anche FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit.,
quaest. 131, pp. 324-325. Sul punto cfr. anche IOHANNES DOMINICUS
RAYNALDUS, Observationes criminales, civiles et mixtae, liber primus (Venetiis, ex typ.
Balleoniana, 1735) cap. II, suppl. VII, pp. 233-235.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
13
perché agisce direttamente, è reo principale; il mandante è solo
accessorio perché «delictum mandantis non stat per se, prout
aliud». Ma nei casi in cui il mandatario si sia limitato ad eseguire
il mandato esattamente nel modo in cui gli è stato conferito dal
mandante — attenendosi admussim, scrupolosamente e
pedissequamente, alle istruzioni e alle modalità operative
indicate dal mandante — deve considerarsi in qualche modo
minus delinquens del mandante. E quest’ultimo, causa efficiens
moralis, soprattutto nei casi in cui non vi sia un excessus ex parte
mandatarii, deve considerarsi responsabile, e pertanto punibile, al
pari del mandatario esecutore (16). Baldo non esita a tagliar
corto: il mandante di un omicidio è causa dell’omicidio, ma
certo non può dirsi sicario perché non ha ucciso suo ictu. Ma
questo è senz’altro vero, quantum ad subtilitatem verborum; quantum
ad effectum iuris, et facti, il mandante, homicida causalis, è omicida a
tutti gli effetti, anzi è più di un omicida: il mandante, infatti,
volendo l’omicidio e volendo che il mandatario lo compia,
diviene causa causae e causa causati (17).
3. Lo scrigno della tradizione: il De consultoribus, auxiliatoribus et
mandatoribus di Prospero Farinacci.
Le riflessioni di glossatori e commentatori, tramandate in
una miriade di opere, costituiscono il materiale che Farinaccio
(16) RAYNALDUS, Observationes criminales, cit., cap. II, suppl. VI, pp. 232-233.
(17) «Mandans est plusquam homicida, quia delinquit in se et in alium, in eum
scilicet cuius animum mandando corrumpit… qui mandat vere et proprie facit,
scilicet causaliter, et ille qui est causa causae, est causa causati, licet sit causa
mediata»: BALDUS DE UBALDIS, Consilia (Lugduni 1559) V, cons. 384, fol 71r. Sul
punto, con riferimento a Deciani e ad altri autori, cfr. PIFFERI, Generalia delictorum
cit., pp. 424-438 (a proposito dell’assassinium) e pp. 438-451, a proposito della
strategia logico-discorsiva adottata da Deciani per affermare la mutua relatio e la
sostanziale unicità del delictum del mandans e del mandatarius.
14
Giuseppe Speciale
utilizza per costruire le sette questioni, dalla 129 alla 135, che
nella sua Praxis sono dedicate al tema del consiglio e del
mandato a delinquere (18).
Per la impressionante mole di citazioni dei giuristi l’opera di
Farinaccio costituisce il prezioso scrigno di una tradizione
scientifica che — dalla glossa al commento, dalle lecturae alle
quaestiones — si è impegnata a dipanare l’intricatissimo groviglio
di volontà e responsabilità che costituisce il terreno delle forme
di compartecipazione criminosa del consilium e del mandatum. In
questa prospettiva, il De consultoribus è, a pieno titolo, un’opera
tutta medievale, per le fonti che utilizza, naturalmente, ma
soprattutto per l’adozione dello schema tipico della struttura
questionante nello sviluppo della trattazione. La mancanza di
una struttura narrativa lineare evidente e la fittisima congerie di
rinvii finirebbero per disorientare il lettore che non riuscisse a
cogliere nitidamente gli argumenta che scandiscono lo sviluppo
della trattazione. Tra quelli che qui interessano spiccano gli
argumenta relativi alla differenza tra auxilium, consilium e mandatum
e alle pene da comminare al consulens e al consulens alias facturo.
Farinaccio non trascura di evidenziare le differenze tra le
soluzioni dei giuristi riguardo alla pena, cioè al grado di
responsabilità, che si deve attribuire al consulens che abbia dato il
consilium ad delinquendum ad un soggetto che già comunque si era
determinato a commettere il reato. Per alcuni al consulens non si
sarebbe dovuta comminare la stessa pena prevista per il fur, se
quest’ultimo avrebbe, comunque, commesso il furto di propria
iniziativa (19). Per altri, invece, anche quando il consiglio sia
stato dato a chi comunque avrebbe commesso il furto, al
consigliere deve comminarsi la stessa pena del fur (20).
Interessante è anche l’osservazione a proposito dei verba.
(18) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129-135, pp. 291-399.
(19) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 299.
(20) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 305.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
15
Nell’espressione «se lo vuoi ammazzare, ammazzalo» Farinaccio
non vede un consiglio: la costruzione della proposizione
condizionale introdotta dalla congiunzione ‘se’ rimette tutto alla
volontà e alla scelta del delinquens (21). In generale, per
l’omicidio, secondo alcuni giuristi, devono distinguersi i casi in
cui il consigliato avrebbe comunque compiuto l’omicidio dai
casi in cui il consigliato, in assenza del consilium, non avrebbe
compiuto il delitto: nei primi il consulente è punito solo con la
poena extraordinaria (in questo caso più lieve di quella ordinaria),
nei secondi è, invece, punito con la stessa pena del delinquens a
cui ha prestato il consilium (22). Per altri giuristi, invece, la
distinzione tra consigliati alias facturi e consigliati alias non facturi
varrebbe solo nei casi di delitti circa res, mai nei delitti circa
personas e nei reati atrocissimi, di lesa maestà etc. (23). In
generale, poi, solo alla poena extraordinaria (misura più lieve in
questo caso della poena ordinaria) è tenuto il consulens, quando il
suo consiglio non abbia dato causa al delitto (24):
coerentemente con la sola pena extraordinaria si sanziona il
consulens di chi abbia ucciso una persona diversa da quella che gli
era stato consigliato di uccidere e il consulens che abbia elargito
un consiglio nudo, cioè un consiglio che non abbia aggiunto
nulla, né circa il contenuto, né circa le modalità di esecuzione, al
delitto (25).
(21) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 296.
(22) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, pp. 304-305.
(23) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 305.
(24) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 302.
(25) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, pp. 302-303.
16
Giuseppe Speciale
4. La Disputatio de mandato delinquendi di Johannes Andreas
Birner Brega Silesius.
Anche Johannes Andreas Birner si misura, sul terreno delle
forme di compartecipazione criminosa, con la tradizione della
scienza giuridica bassomedievale e della prima età moderna: ci
introduce alle riflessioni dei giuristi che nel corso dei secoli
hanno formato alluvionalmente un vero e proprio ipertesto
interpretativo all’interno del quale è molto facile smarrirsi. Lo
stesso Birner non sempre riesce a salvarsi da questo rischio. I
testi di Farinaccio, Menochio, Tiraquello, Claro segnano i
percorsi logici di cui Andreas Birner si avvantaggia nella
trattazione di un così complesso argomento. Quei testi si
dispongono a formare una ragnatela che con i suoi fili offre
infinite possibilità di movimento, ma che può anche, come
sempre un ipertesto, tradursi in un labirinto in cui è difficile
orientarsi e in cui spesso si è costretti a girare a vuoto prima di
trovare la via d’uscita. Lo stesso Birner, che pure si avvale di una
solida concezione sistematica, non sempre riesce a sfuggire a
questo rischio e talvolta si impantana in farraginose ripetizioni.
Complessivamente, però, egli si mostra capace di orientarsi nel
labirinto ipertestuale, non si fa travolgere dalla ingombrante e
autorevole tradizione e dà conto dei risultati della sua indagine
utilizzando un’esposizione a struttura narrativa lineare.
Sicuramente Johannes Andreas Birner non dà notizia di tutta la
dottrina, sicuramente non ripercorre tutti gli itinerari aperti dalla
tradizione; ma indica al lettore una sua interpretazione e spiega le
sue scelte.
Nella sua prima parte la disputatio, definito il mandatum nelle
sue linee generali, prova a chiarire le differenze tra mandatum e
consilium, per tornare poi a fermarsi su alcuni aspetti specifici del
Alteri ad delictum praebuit occasionem
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mandatum a delinquere (26). Nella seconda parte, invece, guarda
al “concursus mandantis et mandatarii in specialibus delictis”,
trattando specificamente alcune figure di reato: furto, rapina,
lesa maestà, adulterio, omicidio etc. Ma questo saggio di ricerca
si limiterà solo alla prima parte della disputatio.
(26) L’indagine sul mandatum è occasione anche per distinguere, sia pure solo
con un richiamo, i delicta mandata in publica e privata; ordinaria e extraordinaria;
ecclesiastica, civilia e mixta; puerorum e maiorum; contro Dio, contro il principe, contro
la respublica, contro il prossimo, contro se stessi. E, ancora, in nominata e
innominata; capitalia e non capitalia; infamanti e non infamanti; manifesti e non
manifesti.
Birner indugia sulla distinzione tra delitti lievi e gravi e aggiunge che la
distinzione non può sempre essere rimessa all’arbitrium iudicis, come si vuole da
molti doctores. È opportuno distinguere: il crimine o è grave per sua natura, o è grave
per le circostanze. È la stessa ratio naturalis che suggerisce che tanto è più atroce e
grave il delitto tanto più gravemente esso lede la divina maiestas, o la stessa honestas, o
la salus publica. Gli altri delitti si considerano laeviora. L’arbitrium iudicis può svolgere
un ruolo determinante nella valutazione delle circostanze che rendono grave un
crimine altrimenti non grave.
La qualità della res aggrava il delitto di furto (es. se si ruba una res sacra, o una
res publica, o i beni necessari al sostentamento di un indigente). Anche il tempo può
costituire una circostanza aggravante (dies sacra); anche il luogo (se qualcuno abbia
sottratto da un luogo sacro una res profana o dai bagni pubblici le vesti di coloro che
prendono il bagno). Anche il modo, se si sia usata violenza. In tutti questi casi si
apre molto spazio all’arbitrium iudicis: JACOBUS MENOCHIUS, De arbitrariis iudicum
quaestionibus et causis, libri duo (Coloniae, apud Ioannem Gymnicum 1574) lib. II cas.
266, foll. 332r-v.
Per altri doctores invece il limite tra delitti gravi e delitti lievi è costituito dalla
pena che per essi è comminata, sul presupposto di una perfetta e accurata
proporzione tra il delitto e la pena (MATTHAEUS, De criminibus, cit., I, prolegomena,
cap. 4 n. 3, pp. 34-35). Altri si spingono fino ad un’ulteriore distinzione tra delitti
gravi, atroci, atrocissimi: per i gravi la legge o lo statuto impongono semplicemente
la pena della morte naturale o civile, così che tale pena è in uso perpetuo e il giudice
deve solo ordinarne l’esecuzione; per gli atroci e gli atrocissimi impongono una
qualche pena più grave della morte semplice (annegamento dentro il sacco, rogo,
scissione delle parti del corpo, imposizione della ruota o qualche altro grave
supplizio) CLARUS, Sententiarum receptarum, liber quintus (Venetiis, apud Altobellum
Salicatum 1589) § Primus n. 9, fol. 2.
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Giuseppe Speciale
4.1. Mandatum: praeceptum superioris quod necessitatem
obsequii in se comprehendit.
La disputatio entra subito nel vivo e presenta una prima
definizione del mandatum: è il comando dato ad un inferior da un
superior (per esempio un magistrato, un genitore ecc. (27)) che
«necessitatem obsequi in se comprehendit» e si ha quando
qualcuno (mandans o mandator) conferisce l’incarico a qualche
altro (mandatarius) che accetta di fare o gestire qualcosa. Poi
Andreas Birner distingue mandata privata e mandata publica: tra i
primi ricorda il mandato dato dal padre ai figli o dal padrone ai
servi «et in propria significatione venit vocabulo jussus»; tra i
secondi quello che «a magistratu pro imperio subiectis sibi
injungi solet». E, ancora, si impegna nel segnare i confini tra i
mandati espressi, i taciti e i presunti, tra quelli generali e quelli
speciali. Proprio a proposito del mandato generale Birner
introduce per la prima volta nel suo discorso il mandatum a
delinquere per ribadire, sulla scia della tradizione, che esso non è
compreso nel mandato generale: infatti ove concorrano più
cause, delle quali alcune lecite e altre illecite, la legge presume
che il mandato sia stato dato per cause lecite.
Questa prima, sintetica, parte della disputatio, in cui l’autore
ha delineato a grandi linee la fisionomia del mandatum nel
sistema normativo, si chiude ora con un quesito fondamentale
che ha impegnato i giuristi della lunga tradizione
bassomedievale: il mandatum a delinquere e il consilium delinquendi
sono la stessa cosa? Andreas, fedele ad un consolidato stilus,
prova ora ad utilizzare tutti gli spunti provenienti dalla
tradizionale comparazione tra il mandatum (e, soprattutto, il
consilium) nel diritto criminale e il mandatum (e, soprattutto, il
(27) Estremamente significativo, anche per le ragioni cui già si è accennato, è il
richiamo ricorrente, e consueto già dai tempi del diritto romano, alla figura del
padre o del padrone in relazione al mandato rivolto al figlio o al servo.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
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consilium) nel diritto privato per definire la species del mandatum, e
del consilium, a delinquere.
4.2. Il consilium a delinquere e la fraus.
Nella riflessione condotta sul mandatum e sul consilium, con lo
sguardo rivolto al diritto privato e al diritto criminale, il giurista
cerca una prima risposta alle domande principali che si pone:
quando il dans il consilium è responsabile delle azioni poste in
essere dall’accipiens? Come si modellano i rapporti tra consulente,
consigliato e terzi? Esiste una responsabilità del consulente nei
confronti del consigliato ed, eventualmente, dei terzi?
Birner muove il suo discorso dalla regola, da tutti condivisa
nel diritto civile, che dal consilium non sorga nessuna
obbligazione. Chi dà il consilium sa che chi lo riceve è
assolutamente libero di accettarlo o rifiutarlo, pertanto non può
essere gravato da alcuna responsabilità né nei confronti del
consigliato, né nei confronti dei terzi. Chi riceve il consilium, nel
caso in cui decida di accettarlo e di agire conseguentemente,
assume su di sé la piena responsabilità di ciò che ha scelto di
fare.
Ma la regola cambia se il consilium è inficiato dalla fraus del
consulens.
Nei confronti dell’accipiens, che abbia ricevuto un danno per
averne seguito il consilium fraudulentum, il dans, infatti, è tenuto ‘ad
interesse’ ed è pure tenuto a risarcire ogni lucro cessante: quanto
agli effetti, quindi, il consilium fraudulentum vale come il
mandatum (28).
(28) Se il dans il consilium fraudulentum abbia concluso un contratto con l’accipiens
e il dolo abbia inciso nel contratto allora l’accipiens potrà agire con l’azione ex
contractu. Per esempio, chi, dopo avere consigliato fraudolentemente di vendere
l’eredità a un prezzo minimo, l’abbia acquistata egli stesso, è tenuto ex vendito. Il
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Giuseppe Speciale
Nei casi in cui il consilium fraudulentum tenda alla
perpetrazione di un delitto — per affermarsi che dal consilium
nasca una obligatio e per equiparare il consilium al mandatum —
deve considerarsi se l’accipiens il consilium sia o non sia partecipe
del dolo o della frode. Se l’accipiens non è partecipe del dolo o
della frode allora il dans dolosus è tenuto nei suoi confronti ad
damnum et interesse.
E ciò avviene anche in criminalibus, per esempio nel caso del
medico che abbia consigliato fraudolentemente il malato e
questi dopo aver seguito il consiglio sia morto. In questo caso il
medico è equiparato al latro e come latro è punito: si considera,
infatti, che con il suo mandato abbia dato causa al delitto.
Quando, però, l’accipiens il consilium sia partecipe del dolo o
della frode, il dans non è obbligato nei confronti dell’accipiens
perché nessuno froda chi è consapevole e consenziente della
frode: in tali casi il consigliato, in generale, è tenuto ad damnum e
ad poenam.
In caso di omicidio, per esempio, devono ritenersi omicidi
non solo quelli che uccidono con le loro mani ma anche, anzi a
maggior ragione, quelli per il cui consilium o per la cui fraus o per
la cui exhortatio vengono eseguite le uccisioni. E così, nel merito,
ai fini giuridici, il dans il consilium è considerato mandante e con
la stessa pena è punito se l’accipiens abbia perpetrato il delitto.
Anzi, il dolosus consultor, quando abbia persuaso un servo al
delitto, non solo è tenuto nei confronti di colui che è stato
offeso dal servo per il suo consilium, ma anche può essere
convenuto in duplum con l’actio de servo corrupto dal padrone del
servo che per il suo consiglio si è deprezzato. La stessa azione
compete utilmente al padre, per i figli, e al marito, per la moglie.
dolo che ha inciso sul contratto si purga con l’actio o l’exceptio che nasce da quello
stesso contratto. Se invece il dans il consilium non abbia concluso un contratto con
l’accipiens, mancando qualunque actio, si può esperire solo l’actio famosa et subsidiaria de
dolo e per ciò anche in civilibus negotiis il consilium si equipara al mandato.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
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Così Birner può concludere questa parte della disputatio
affermando la sostanziale equiparazione del consilium
fraudolento, come anche del non fraudolento, al mandato.
4.3. Quod quis per alium fecit, ipse fecisse intelligitur.
L’oggetto dell’attenzione allora torna ad essere il mandatum:
innanzitutto può escludersi che dal mandatum rei turpis nasca una
obligatio. In primo luogo perché chi ha ricevuto il mandatum rei
turpis, «etiamsi hoc in se receperit», non può essere obbligato ad
assolverlo; poi, in civilibus, è noto che turpia e probrosa si
considerano impossibilia e pertanto nulla è l’obligatio che dovrebbe
nascere dal mandatum rei turpis e nullo è lo stesso mandato.
Per quanto poi riguarda i rapporti tra mandante e
mandatario, Birner afferma che il mandante non sia
responsabile nei confronti del mandatario né dal punto di vista
civilistico, né da quello penalistico. Sotto il primo profilo,
considerata la nullità ab initio del pactum sceleris, il mandante non è
responsabile nei confronti del mandatario anche quando gli
abbia promesso un’indemnitas; non è responsabile, perché
nessuno può essere punito al posto di un altro, anche quando la
pena sia solo una sanzione pecuniaria: al mandatario, infatti, non
spetta alcuna azione di regresso, dovendoglisi imputare il fatto
che ha compiuto le res turpes.
Sotto il profilo penale, invece, l’obbligazione nasce
dall’avere eseguito il mandato turpe e mandante e mandatario
sono puniti con la stessa pena anche se il mandante non ha
commesso direttamente il reato, «ipse suo corpore damnum
alteri non inferat».
Infatti vige la regola «quod quis per alium fecit, ipse fecisse
intelligitur»: così, per esempio, non c’è alcuna differenza, quanto
al tipo di sanzione penale da comminare, tra chi abbia ucciso
direttamente e in prima persona e chi invece abbia dato causa e
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Giuseppe Speciale
impulso all’uccisione compiuta da altri. Il mandante si considera
omicida, se abbia ucciso per mezzo di un altro; giustamente è
considerato la causa prima dell’omicidio e per primo viene
punito. Anzi deve sottolinearsi che il mandante offende più
persone di quante non ne offenda il mandatario e perciò pecca
più gravemente. In primo luogo, infatti, egli delinque contro se
stesso, in secondo luogo contro il mandatario (che «corrumpit
ut occidat»), in ultimo contro l’ucciso. Il mandatario, invece,
non delinque se non nei propri stessi confronti e nei confronti
dell’ucciso (29).
Andreas Birner, in generale, ribadisce che l’esecuzione del
mandato ricevuto non può costituire in alcun modo una
scusante per il mandatario, ma introduce una distinzione gravida
di conseguenze sul piano della pena che deve comminarsi al
mandante e al mandatario.
Vi sono casi particolari in cui il mandatario, per il vincolo di
particolare soggezione che lo lega al mandante, non si può
esimere dall’accettare e dall’eseguire il mandato. Birner si
riferisce ai casi in cui sia stato impartito un comando dal dominus,
dal pater o dal magistratus; a causa dell’imperium herile, paternum e
civile quel comando ha una qual certa forza cogente alla quale il
mandatario non può sottrarsi. In questi casi il mandatario è
stato, in qualche modo, costretto ad agire, in forza di un
imperium publicum o privatum, pertanto la pena del mandatario
(29) Di diverso avviso, tra gli altri, GARSIA MASTRILLO, Decisionum Consistorii
Sacrae Regiae Conscientiae Regni Siciliae liber tertius (Panhormi, ex off. Typ. Francisci
Ciotti, 1621) decis. 293, p. 320: «Gravius commictat mandatarius quam mandans;
ille enim nullo odio, nullo rancore, nulla offensa, nullo calore iracundiae, sed solo
lucro, absque aliquo naturali affectu ad homicidium patrandum movetur, quod satis
horrendum et detestabili censeri debet, cum per istos incognitos naturalis defensio
tollatur; non idem in mandatore, qui, etsi pessime agat, aliquam tamen causam ad
sceleris exculpationem allegare potest, vel praecedentis offensae, vel naturalis
impetus, et similia, quae cessant in assassiniis, in quibus tranquillitas et serenitas
animi delictum associantur, et in mandantibus animi perturbatio, et naturalis
vindictae appetitus continuo pugnant; optimo itaque iure tot prudentissimi viri
distinctione inter mandantem et mandatarium considerarunt».
Alteri ad delictum praebuit occasionem
23
deve essere mitigata rispetto a quella comminata al mandante.
Addirittura, per i reati più lievi, ci si può spingere fino al
perdono del mandatario. Il mandante, comunque, sia nei reati
lievi che in quelli gravi, sarà sottoposto alla pena ordinaria e verrà
punito come se avesse commesso egli stesso il delitto.
Quando invece manchi il vincolo di particolare soggezione e
il mandatario può rifiutare di eseguire ciò che gli è stato
ingiunto, il mandante ed il mandatario devono essere puniti
nella stessa misura: la ratio della legge qui si fonda sull’assunto
che nessuno è costretto ad accettare il mandato contro la
propria volontà, pertanto, se lo accetta, si assume la piena
responsabilità di ciò che compie in esecuzione dello stesso.
4.4. Mandatum come causa concomitans o come causa principalis
et prima integra.
Birner a questo punto della sua disputatio si ferma a riflettere
su un problema che i giuristi hanno risolto “communi
sententia”. È necessario distinguere i casi in cui il mandatario, in
assenza del mandato, non avrebbe mai commesso il reato, dai
casi in cui il mandatario, anche senza mandato, avrebbe
comunque compiuto il reato. Nei primi il mandato costituisce la
«causa principalis et prima integra» del reato; nei secondi è solo
una «causa concomitans». I giuristi avvertono l’esigenza di
differenziare il trattamento del mandante e del mandatario
muovendo dalla regola generale, «mandans et mandatarius pari
poena puniri»: nei primi casi al mandante deve comminarsi la
pena ordinaria, nei secondi la extraordinaria, di misura inferiore.
Specularmente, communi sententia i giuristi avvertono che in
qualche modo anche la sanzione del mandatario debba essere
diversa nei casi in cui questi avrebbe comunque perpetrato il
reato, indipendentemente dal mandante, rispetto ai casi in cui si
24
Giuseppe Speciale
sia determinato a commettere il reato solo a causa del
mandante (30).
L’ordinamento (Dig. 48.8.15) vuole che mandante e
mandatario siano puniti pari poena dal momento che, una volta
che il mandato sia stato eseguito, il reato del mandante e quello
del mandatario possono considerarsi unum delictum la cui causa
prima deve individuarsi nel mandante (31).
Il mandatario che ha aderito al mandatum rei turpis
scientemente e dolosamente deve essere punito con la pena
ordinaria: egli ha accettato di eseguire un mandatum rei turpis che
non era obbligato ad assolvere e pertanto deve ritenersi
obbligato alla pena prevista per gli effetti che conseguono
(30) CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 89, foll. 223v-225r. Sul punto
cfr., fra i tanti, BARTHOLOMAEUS CEPOLLA VERONENSIS, Consilia criminalia
(Lugduni, apud Iacobum de Giunta, 1525) conss. 34-37, foll. 79r-90v. Nel cons. 34
si espone, tra gli altri, il caso di un omicidio conseguente ad un ferimento eseguito
da un mandatario che ha ricevuto l’incarico dal mandante di «signare seu vulnerare
sed nullo modo occidere». Bartolomeo Cipolla ritiene che il mandante, il bolognese
Johannes ab Aggere, sia colpevole di omicidio e debba essere punito con la pena
capitale. Di diverso parere è ANTONIO ROSELLI, il cui consilium è riportato al
numero 35: il mandante è colpevole di omicidio colposo e deve essere punito con
la pena dell’esilio o con un’altra pena simile scelta dal capitano della città di
Vicenza. Nel cons. 36 si riporta il parere di FRANCESCO DE CAPITIBUSLISTE. Il
dottore padovano conclude, come Roselli, che «Joannem ab Agere captivum non
debere ad mortem condemnari quasi de maleficio doloso sed minus esse
puniendum eius (del Capitano di Vicenza) arbitrio quasi pro culposo maleficio».
Nel cons. 37 il parere di ANGELO DI CASTRO conclude per una pena diversa da
quella capitale e per un’imputazione di omicidio non doloso. A proposito della
graduazione della responsabilità in capo al mandante, in dipendenza del fattto che il
mandatario si sarebbe mosso comunque alla commissione del reato
commissionatogli anche in assenza del mandato, sono interessanti le osservazioni di
IACOBUS MENOCHIUS, Consilia sive responsa (Venetiis, apud Haeredem Hieronymi
Scoti, 1609) cons. 788, in particolare nn. 33 e 34, p. 277.
(31) PROSPERUS FARINACCIUS, Consilia sive responsa (Lugduni, sumpt. Horatii
Cardon, 1619) I, cons. 85 n. 76, p. 417: «nam sequuto effectu mandati, delictum
mandanti set mandatarii unum et idem est… et quod sequuto delicto, mandans et
mandatarius comprehendatur aequaliter sub statuto loquente de faciente
delictum…». Cfr. anche TIBERIUS DECIANUS, Tractatus criminalis (Venetiis apud
Joannem et Andream Zenarios Fratres 1590) II, lib. IX, cap. 39, De poenis mandantis
et mandatarii, foll. 310r-311r.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
25
dall’esecuzione del mandato. Al proposito, Birner sottolinea
l’importanza dell’indagine sulla volontà del mandatario: egli
afferma che in tutti i delitti si deve considerare la volontà
dell’agente e che senza l’animus e la voluntas di delinquere non
può esserci delitto, perché la malitia di ciascun atto perverso
dipende dalla volontà, che è fondamentale in ogni delitto. Ne
consegue che il mandatario deve essere ascoltato se possa
provare con giuramento la sua ignoranza.
Proprio perchè bisogna tenere conto della volontà, e
dell’intreccio delle volontà, del mandatario e del mandante, i
giuristi ritengono che al mandante che abbia conferito il
mandatum a delinquere al mandatario che comunque si sarebbe
determinato a compiere quel delitto anche indipendentemente
dal mandatum — perché, per esempio, il mandatario, prima
ancora di riceverne mandato dal mandante, aveva già deciso con
animo fermo di compiere il delitto, e di compierlo in nome
proprio e a proprio rischio e anche per ragioni rilevanti e
importanti, perché per esempio egli stesso era stato fatto
oggetto di un’iniuria proprio da colui contro il quale il mandante
lo aveva incaricato di commettere il delitto — debba
comminarsi solo una poena extraordinaria (più lieve, in questo
caso, dell’ordinaria). In tali casi il mandante, con il suo mandato,
confermando il mandatario nella sua intenzione a commettere il
crimine, è solo causa concomitante del delitto che è stato
perpetrato, non proprio causa principale e prima integra (32). In
questi casi i giuristi utilizzano la categoria del persuadente
opponendola a quella del mandante: questi è colui che manda a
commettere il delitto per sé; il ‘persuadente’, invece, è colui che
persuade qualcuno per ragioni che riguardano lo stesso
(32) LUDOVICUS MOLINA, Disputationes de contractibus (Venetiis, apud
Mattheum Collosinum et Baretium Baretium 1601) disput. 550, de mandato ad res
illicitas, pp. 792-794.
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Giuseppe Speciale
persuaso (33); tuttavia il ‘persuadente’ è tenuto alla stessa pena
se l’altro altrimenti non si sarebbe determinato a commettere il
delitto.
4.5. Eccezioni alla regola: Quod aliquis facere potest, idem et alteri
mandare.
Birner è risoluto nell’affermare che il principio «quod aliquis
facere potest, idem et alteri mandare» non possa estendersi ai
reati propri, ai casi, cioè, in cui il facere consista in un privilegio o
in un ius di carattere personale, come l’ius vindictae, che
l’ordinamento giuridico accorda ad un determinato soggetto
contra ius commune. Così, per esempio, il padre che abbia scoperto
la figlia con l’adultero non può conferire ad altri il mandato di
ucciderli, perché gli è preclusa la possibilità di demandare ad
altri l’esercizio di una facoltà che l’ordinamento, in deroga alle
regole di diritto comune, gli accorda, quando egli non voglia o
non possa farla valere direttamente: «quicquid enim competit,
contra ius commune, illud cessibile non est» (34).
(33) ALEXANDER TARTAGNUS, Consilia seu responsa IV (Venetiis, apud haeredes
Alexandri Paganini, 1610) cons. 127, fol. 105v: «ponendo differentiam inter
mandantem et persuadentem, quod mandator dicitur ille qui mandat delictum
committi per se ipsum, propter satisfactionem suae voluntatis, nulla data pecunia.
Et persuasor dicitur ille qui persuadet alicui propter ipsum cum sit persuasio, et non
curo quibus verbis utatur, sive mando, sive rogo, sive quibuscunque verbis, si hoc
fiat gratia eius cui sit mandatum sive persuasio facta...».
(34) Birner a sostegno della sua tesi richiama Tiraquello, Rolando da Valle e
Baldo, di cui in particolare ricorda il consilium 384 in cui il giurista, distinguendo
l’applicazione della norma ex interpretatione vocabuli da quella ex significatione vocabuli,
sviscera il problema se ciò che è lecito fare sia lecito mandare; se chi non può essere
obbligato in via principale non possa neppure esserlo in via secondaria; se è lecito
uccidere un bannitus sia anche lecito conferire il mandato ad uccidere (BALDUS DE
UBALDIS, Consilia, cit., cons. 384, fol 71r).
Alteri ad delictum praebuit occasionem
27
4.6. Non poterit amplius delicti causa dici mandans qui
mandatum revocavit.
L’indagine sulla revoca del mandato costituisce un punto
cruciale per la comprensione dei meccanismi che agiscono nelle
relazioni tra il mandante che affida l’incarico e il soggetto che il
mandante sceglie come destinatario di tale affidamento. Ancora
una volta, è altrettanto importante, per la comprensione delle
relazioni tra consulente e consigliato, la riflessione sul ritiro del
consiglio.
Quando il mandato o il consiglio si riferiscono a
comportamenti che in assenza del mandato o del consiglio il
destinatario degli stessi non avrebbe mai attuato, il
conferimento del mandato, o l’elargizione del consiglio,
provocano nel destinatario, prima ancora che egli decida se
accettare il mandato o seguire il consiglio, un effetto
irrevocabile.
Per il solo fatto di proporre il mandatum, o di esporre il
consilium, il mandans/consulens/superior disegna e apre una nuova
possibilità di comportamento e instilla nella mente del
mandatarius/consultor/inferior una opzione di comportamento che
prima non era da questi presa in considerazione. La revoca del
mandato, o il ritiro del consiglio, non può restaurare lo status quo
ante.
Sia pure non esplicitando queste riflessioni, Birner ne
sembra ben consapevole quando precisa che nei confronti del
mandante che abbia revocato il mandato comunque potrà
applicarsi la pena extraordinaria (35) — almeno nel caso di reato
atrocius — perché «alteri ad delictum praebuit occasionem».
E mostra altrettanta consapevolezza quando indugia sul
rifiuto esplicito del mandato. Il soggetto a cui è proposto il
(35) MENOCHIUS, De arbitrariis iudicum, cit., lib. II cas. 352, n. 8, fol. 400r.
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Giuseppe Speciale
mandato non è tenuto ad accettarlo immediatamente e può
darvi esecuzione anche a distanza di tempo dall’accettazione.
Ma se ha espressamente rifiutato il mandato non potrà — una
volta cambiata intenzione — darvi esecuzione se prima non
avrà comunicato al mandante l’accettazione e non ne avrà
rilevato il consenso. Solo a queste condizioni il mandatario
potrà essere certo che dopo il suo diniego il mandante non ha
cambiato idea. E solo a queste condizioni le azioni del
mandatario potranno attribuirsi all’esecuzione del mandato.
Altrimenti il mandante non potrà ritenersi responsabile per il
fatto di un altro che, dopo aver esplicitamente rifiutato di
accettare il mandato, avrà posto in essere il reato oggetto del
mandato rifiutato. E dovrà ritenersi che questi abbia agito non
in esecuzione del mandato, bensì motu proprio (36).
Ma proprio perché, comunque, il mandante «alteri ad
delictum praebuit occasionem» in tutti questi casi sarà punito
con la poena extraordinaria.
Il mandato — anche quello che sia rivolto all’attuazione di
comportamenti che in assenza del mandato il mandatario non
avrebbe posto in essere —, prima della sua esecuzione, non fa
insorgere alcuna responsabilità in capo al mandante, se non
quella relativa al “malum consilium” che deve punirsi con la
poena extraordinaria. Al mandante, che abbia revocato il mandato
prima che il delitto sia stato commesso, deve essere mitigata la
pena (37).
Egli non potrà considerarsi causa prima et movens del delitto
dal momento che il suo pentimento, il suo tirarsi indietro,
quando ancora non sia stato commesso il reato, lo può
esonerare da ogni responsabilità. Perché ciò avvenga è
necessario che la revoca sia “intimata” al mandatario, perché
(36) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 135, p. 387 e ss.
(37) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 135, p. 398. Cfr. anche
MENOCHIUS, De arbitrariis iudicum, cit., lib. II cas. 352, foll. 399r-400v.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
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questi possa conoscerla e perché non possa — dandovi
esecuzione dopo la revoca — addurre di avere agito in ossequio
al mandato ricevuto (38). Ma, almeno nel diritto canonico,
anche la revoca di cui il mandatario sia rimasto all’oscuro può
essere causa di un alleggerimento della responsabilità del
mandante: infatti, il mandante — che abbia dato mandato di
percuotere un clericus e lo abbia revocato prima che il
mandatario, ignaro della sopravvenuta revoca, abbia eseguito il
mandato — non incorre nella excommunicatio, per quanto
riguarda il foro interno. Tuttavia, se l’esecuzione del mandato
causa la morte del clericus, il mandante incorrerà nella poena
irregularitatis (39).
4.7. Si mandatarius fines egrediatur.
Il mandante è responsabile per quanto il mandatario pone in
essere in esecuzione del mandato. Quando questi, però, superi i
limiti del mandato conferitogli — per esempio perpetrando un
reato più grave di quello che gli era stato commissionato,
oppure non rispettando le modalità di esecuzione indicategli dal
mandante — deve valutarsi se il mandante debba ritenersi
responsabile solo nella misura individuata dal giudice e
corrispondente al reato per cui aveva conferito il mandato o a
quanto aveva fatto per costituire un’occasione di reato,
considerate tutte le circostanze del caso (40).
(38) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 135, p. 398.
(39) Cfr. IOHANNES VALERUS, Differentiae inter utrumque forum iudiciale videlicet et
conscientiae (Venetiis, apud Paulum Baleonium, 1645) v. Mandatum, pp. 240-242.
(40) A lungo, come si vedrà più avanti, la scientia iuris dibatterà intorno
all’eccesso del mandato: si considera il caso del mandatario che, ricevuto un
mandato a percuotere qualcuno con un bastone (mandato dalla cui esecuzione,
almeno nelle intenzioni del mandante, non dovrebbe conseguire la morte del
percosso), trascurando i limiti del mandato, abbia trafitto con la spada il soggetto e
30
Giuseppe Speciale
4.8. Verba inferunt desiderium tale delictum patrandi.
«Nos per compendium asserimus toties mandatum
delinquendi adesse quoties verba inferunt desiderium tale
delictum patrandi». Con questa formula ampia e quasi vaga,
estremamente significativa proprio per il suo generico richiamo
al desiderium patrandi delictum, Birner chiude il difficile e
tormentato discorso sulle qualità che devono caratterizzare i
verba perché essi possano provare il conferimento del mandato.
Che il mandatum e il consilium a delinquere debbano essere
provati, sia pure solo con delle congetture, non è infatti in
discussione. Ma si dibatte se siano sufficienti a provare il
conferimento del mandato o l’elargizione del consiglio i verba
admonitoria, exhortatoria, persuasiva, imperativa, precativa.
Per Farinaccio, che si occupa prolixe del tema, con i verba
hortatoria et admonitoria non può provarsi l’esistenza del mandatum,
ma solo di un consilium (41): ma per Birner l’obiezione può
respingersi perché egli è convinto che, riguardo agli aspetti
relativi alla prova, non debba farsi differenza tra mandatum e
consilium.
Birner non concorda con Farinaccio neppure su un altro
punto che riguarda la prova. L’autore della disputatio ritiene che il
mandato conferito dal padre al figlio debba essere pienamente
provato e non può essere solo presunto sulla base del vincolo di
sangue che lega il presunto mandante al presunto mandatario.
Farinaccio, al contrario, da un lato enuncia il suo rifiuto della
prova ottenuta tramite presunzione, in adesione ad un principio
lo abbia ucciso; oppure il caso del mandatario che, ricevuto il mandato di
percuotere qualcuno in un luogo profano, lo abbia invece percosso in un luogo
sacro o in un ufficio pubblico, o, addirittura, al cospetto del principe. Cfr, fra i tanti,
FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 135 § IV, pp. 394-397; MOLINA,
Disputationes de contractibus, cit., disput. 550, de mandato ad res illicitas, pp. 792-794..
(41) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 134, pp. 360-364, in
particolare p. 362.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
31
consolidato che esclude il ricorso alle presunzioni in criminalibus,
ma poi finisce per mostrarsi possibilista asserendo che contro il
padre o il dominus in qualche modo può accettarsi una
presunzione, perciò il padre non può essere condannato se non,
forse, al iuramentum purgationis, a meno che il figlio o il servo
abbiano perpetrato il delitto in presenza del padre o del
dominus (42).
Per quanto, poi, riguarda il rapporto tra mandante e
mandatario si afferma costantemente, da Baldo in poi, che il
mandatario che accetta il mandato è un vero e proprio socius
criminis, che può deporre in giudizio contro il mandante, sia pure
solo quoad ad inquirendum, e che, comunque, non facit inditium ad
torturam; il mandatario che rifiuta il mandato, invece, facit inditium
ad torturam (43).
5. La fucina della prassi.
Nella costruzione delle figurae della compartecipazione
criminosa i giuristi traggono costante alimento dagli spunti e
dagli stimoli che vengono loro dai casi concreti che i giudici
sono chiamati a decidere. Anche in materia di
compartecipazione criminosa la fantasia della realtà supera di gran
lunga la capacità predittiva e analitica dei giuristi: dai casi concreti, a
cui pure i giuristi hanno pensato nel momento in cui hanno
costruito e razionalizzato regole giuridiche tese a disciplinare il
concorso, sorgono sempre nuovi aspetti e questioni che
finiscono per imporre agli interpreti una costante opera di
adeguamento, verifica e affinamento delle teorie elaborate. Nella
(42) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 134, pp. 369-374, in
particolare p. 370, 371 e 372.
(43) Fra i tanti, cfr. ROBERTUS MARANTA, Consilia sive responsa (Venetiis,
Andreas de Pellegrinis Bibliop. Partenop. I.c., 1591) cons. 121, foll. 150r-v.
32
Giuseppe Speciale
faticosa costruzione di questo patrimonio di sapienza giuridica,
di elaborazione di regole e di sensibile percezione dei fatti,
sarebbe inutile e fuorviante ricercare la prevalenza dell’aspetto
teorico o pratico; è, invece, fondamentale cogliere il reciproco e
costante intreccio tra la percezione dei fatti e la capacità di
analisi e di riconduzione degli stessi a principi e pratiche quanto
più possibile generali, intreccio che costituisce uno dei momenti
cruciali in cui il giurista, intellettuale votato alla prassi, misura
l’adeguatezza del suo statuto epistemologico. Il fecondo
inestricabile e indistinguibile intreccio tra le emergenze dei fatti
e la riflessione dei giuristi si legge nelle opere dei cosiddetti
pratici, un affascinante labirinto ipertestuale all’interno del quale
il giurista deve orientarsi. Così, le prassi e le strategie discorsive
con cui i giuristi maneggiano la materia della compartecipazione
criminosa presentano una continuità che supera le distinzioni tra
i riti dei vari tribunali, le regolamentazioni normative degli
ordinamenti, i contesti istituzionali e politici.
La prova del mandato è sempre al centro della riflessione
dei giuristi. Nel caso di mandato ad uccidere, Mascardi ritiene
che la prova del conferimento debba raggiungersi avendo
riguardo alle parole con cui il mandante si è rivolto al
mandatario. Le parole assumono un ruolo centrale, dato che nel
caso in ispecie si tratta di un «homicidium verbo commissum,
quod totum consistit in mandato». Non importa se i verba siano
imperativa, “occide, percute, vade fac ut occidas”, o rogativa,
“rogo ut occidas, vindictam pro me facias, vellem, optarem,
occideres”, il mandatum può conferirsi, e provarsi, «quaecumque
verba interveniant». Certo, non è sufficiente un’ammonizione, o
un’esortazione, o una raccomandazione, e neppure basta lodare
chi si accinga a commettere l’omicidio, deve pertanto
concludersi che l’uso di verba admonitoria, commendatoria, persuasoria
non sia idoneo a conferire, e a provare, il mandato. Il giudice
Alteri ad delictum praebuit occasionem
33
deve indagare «ex serie et qualitate verborum» (44). Scrive
Cesare Panimolle a proposito di un mandato conferito da un
ecclesiastico per vendicarsi di un’offesa subita: «Et ad illud
inducendum sufficiunt coniecturae et verba tacita importantia
mandatum, et mandantis desiderium faciendi vindictam, etiam si
expressa non fuerint» (45).
Per Savelli nel mandatum ad delictum, «et precipue ad
homicidium committendum», è necessario provare che
concorrano tre elementi: l’inimicizia tra il mandante e colui
contro il quale si dà mandato di uccidere, la “secreta alloquutio”
tra il mandante e il mandatario, la contiguità temporale tra il
conciliabolo segreto e l’esecuzione del mandato (46). In assenza
anche di uno solo di questi elementi il mandato non può
presumersi, anche quando il mandatario sia un figlio, o un servo
o un parente, del mandante. Altri presumono la qualità di
mandante in chi, ad omicidio avvenuto, offra ospitalità
all’omicida. Per Savelli la compresenza dei tre elementi è
condizione necessaria per la prova del mandato: anzi, il
mandato, che «per se consideratum sit de illis delictis de quibus
non remanent vestigia», nei confronti del mandante può
provarsi con congetture e presunzioni, ma nei confronti del
mandatario che vi ha dato esecuzione deve provarsi “per
evidentiam facti”. Tuttavia, oltre che attraverso la
contemporanea presenza di questi tre requisiti il mandatum può
(44) IOSEPH MASCARDUS, Conclusiones probationum (Venetiis, apud Damianum
Zenarium, 1584) II, concl. 866, foll. 216r-217r e concl. 1012, foll. 349r-v. Il
mandato può essere conferito anche «per verba non audita, ut si quis summisse
fuerit alloquutus famulum ad aurem post illatam sibi iniuriam, et postea famulus
statim interfecerit eius inimicum».
(45) CAESAR PANIMOLLE, Decisiones civiles, morales et criminales, pars secunda
(Venetiis, apud Paolum Balleonium, 1708) decis. 148, p. 405.
(46) SABELLUS, Summa diversorum tractatuum, cit., t. III, § Mandatum, pp. 142155: un vero e proprio repertorio di tutto quanto può essere utile al pratico e allo
studioso del mandato civile, ricchissimo di citazioni, affronta il discorso sul
mandatum ad delictum, riferendo una serie di auctoritates secondo le quali il mandatum
deve essere provato, sia pure solo con delle presunzioni.
34
Giuseppe Speciale
provarsi «ex aliis indiciis et praesumptionibus desumptis ex
personis, ex causis, ex moribus, ex minis, ex animositate, ex
familiaritate, ex conversatione, ex fama publica incontinenti
orta, et huiusmodi, quia licet non omnia dicta tria requisita
interveniant, sufficit, ut alia similia, et aequipollentia
concurrant». In alcuni casi, poi, quando il delitto abbia arrecato
una utilitas, una satisfactio, al padrone o ad un familiare del reo, ci
si è spinti a presumere che il delitto sia stato eseguito su
mandato del padrone o del familiare (47).
Di qualche interesse per la prova del mandato è un altro
caso ricordato da Savelli. Giustiniano viene ucciso con
l’archibuso da Severo: accanto al suo corpo si trova anche il suo
archibuso carico e pronto a sparare. Si accerta che Gentile, una
communis amasia, era stata offesa da Severo, uno dei suoi amanti.
Subito dopo ella si era rivolta a Giustiniano, un altro dei suoi
amanti, rivale di Severo al punto da avere avuto da poco con lui
una rixa, e in un colloquio appartato gli aveva chiesto di
vendicare l’offesa ricevuta da Severo. Naturalmente in questo
caso la prova del conferimento del mandato ha un’importanza
relativa: servirebbe, qualora si raggiungesse, ad affermare una
qualche responsabilità in capo alla mandante e a sancire che in
qualche modo Severo era stato provocato. Inoltre, in questo
caso forse sarebbe più opportuno parlare di persuasio che di
mandato: infatti la precedente e forte inimicitia tra Severo e
Giustiniano, provata anche dalla rissa, è una causa che da sola
può spiegare quanto accaduto; la richiesta di Gentile
costituirebbe una concausa e avrebbe confermato in
Giustiniano la volontà di agire. Ma ascoltiamo Savelli: «Quamvis
igitur aliquae mulierculae asserant supradictam Gentilem fuisse
iniuratam a Severo, et postea ipsam colloquium habuisse cum
dicto quondam domino Justiniano occiso, constat etiam de rixa
22.
(47) SABELLUS, Summa diversorum tractatuum, cit., t. III, § Mandatum, 148-149 n.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
35
praecedenti inter ipsos principales, quae tollit suspicionem
mandati et cessat principale requisitum ut possit mandans puniri
nempe mandatarius, cum enim non appareat dominus
Justinianus, cui praetendebatur mandatum dedisse, aliquid mali
perpetrasse, non potest ipsa tamquam mandans vel consulens in
aliquo puniri, quasi isto casu cesset corpus delicti». E neppure la
successione tra l’offesa ricevuta, il colloquio riservato e
l’intrapresa esecuzione del preteso mandato viene considerata in
questo caso sufficiente prova del mandato stesso (48).
Sempre in tema di prova del mandato Menochio muove
dalla presunzione generale secondo la quale «nemo delinquere
praesumatur, ut etiam alicuius servus delictum commiserit, non
praesumatur tamen commisisse voluntatem domini»; estende
poi tale presunzione all’uomo libero, rispetto al patrono, e al
figlio, nei confronti del padre. E aggiunge che se pure vi sia
stato un colloquio tra servo e padrone o tra figlio e padre, può
presumersi che il padrone o il padre abbiano prestato il loro
consiglio, piuttosto che conferito il mandato a delinquere (49). Il
consenso del padre o del padrone, invece, può legittimamente
presumersi nei casi in cui costoro, consultati dal figlio o dal
servo, non abbiano impedito, pur potendo, la commissione del
reato, o abbiano taciuto, o, addirittura, annuito. Può ben
presumersi il conferimento del mandato e che, pertanto, il reato
sia stato commesso per conto del padre, o del padrone, quando
questi abbia detto al figlio, o al servo: «Fac ut aliquid novi
audiam» oppure gli abbia solo sussurrato qualcosa
all’orecchio (50). Così pure deve presumersi che i servi abbiano
(48) MARCUS ANTONIUS SABELLUS, Variae iuris resolutiones (Parmae, apud
haeredes Pauli Monti, 1733) t. VI, resol. 64, pp. 120-121.
(49) IACOBUS MENOCHIUS, De praesumptionibus, coniecturis, signis et indiciis
commentariorum pars prima (Venetiis, apud haeredes Francisci Ziletti, 1590)
praesumpt. 27, foll. 32v-34r.
(50) MENOCHIUS, De praesumptionibus, cit., praesumpt. 27, foll. 33v:
«Praesumitur id factum ex voluntate et consensu domini: ut puta si dominus dixit
servo “Fac ut aliquid novi audiam”; et deinde inimicus ipsius domini reperitur
36
Giuseppe Speciale
agito per volontà del padrone quando essi siano “homines
improbi, vilis conditionis, et nequam”, oppure quando, servi di
un giudice, abbiano minacciato chi voglia proporre appello
contro la sentenza emessa dal loro padrone, oppure quando,
servi di un magistrato o di altri ufficiali, abbiano agito
nell’ambito delle funzioni proprie dell’ufficio del loro padrone.
Menochio afferma infine che quando i rei sono ispirati dal
consilium di altri deve presumersi che «nisi datum fuisset
consilium illud, delictum non perpetrassent». Ma può provarsi
pure, sempre ricorrendo alle presunzioni e alle congetture, che
anche in assenza del consilium gli agenti avrebbero compiuto il
reato.
La presunzione diventa un duttilissimo strumento di prova
nelle mani del giurista: se si prova che A abbia dato incarico a B
di uccidere C e si prova che C sia stato ucciso da B, può ben
presumersi che B abbia ucciso C in esecuzione del mandato
ricevuto da A, anche nei casi in cui l’omicidio sia avvenuto ex
intervallo (51). Oppure se si individua con certezza l’uccisore di
un uomo e non si riesce a scoprire il movente del delitto deve
presumersi che l’agente abbia agito su mandato (52).
Con attenzione sempre viva i giuristi valutano se sia
opportuno graduare il livello di responsabilità del mandante e
del consulente in modo proporzionale al peso del mandato e del
occisus… vel si dominus ad aureus famuli secreto aliquid dixit et deinde statim
inimicus ipsius domini reperitur occisus». Dello stesso avviso, tra i tanti, IOSEPH
MASCARDUS, Conclusiones probationum, cit., II, concl. 866, foll. 216r-217r.
(51) MENOCHIUS, De praesumptionibus, coniecturis, signis et indiciis commentariorum
pars prima (Venetiis, ex off. Francisci de Franciscis Senensis, 1587) praesumpt. 49,
foll. 163r-164v. Dello stesso avviso IOSEPH MASCARDUS, Conclusiones probationum,
cit., II, concl. 618, foll. 24v: «Si quis mandaverit Seium interfici, praesumitur
interfector id fecisse occasione praecedentis mandati, etiam si post longum
intervallum mandatarius Seium occiderit».
(52) LAURENTIUS MATTHAEUS ET SANZ, Tractatus de re criminali sive
controversiarum (Venetiis, ex typ. Balleoniana, 1723) controv. XV, p. 71: «Quando
percussor certus est, et ratio delinquendi non apparet, praesumi debet intuitu
alterius per assassinium deliquisse».
Alteri ad delictum praebuit occasionem
37
consiglio nella commissione del reato: così, alcuni ritengono che
al mandante e al consulente debba attribuirsi il massimo grado
di responsabilità per il reato compiuto dal mandatario o dal
consigliato, quando questi, in assenza del mandato o del
consiglio, non si sarebbero mossi alla commissione del reato e,
al contrario, che al mandante e al consulente debba attribuirsi
un grado più attenuato di responsabilità quando il mandatario o
il consulente avrebbero comunque, anche in assenza del
mandato o del consiglio, commesso il reato. Per Claro chi
elargisce il consilium ad delinquendum è punibile con la stessa pena
del delinquens se il consilium ha determinato all’azione il
delinquente che altrimenti non si sarebbe risolto a compiere il
reato. Nel caso in cui, invece, il consigliato avrebbe comunque
compiuto il reato, il consulens deve essere punito con una pena
più mite. Lo stesso discorso vale per il persuasor e per
l’exhorator (53). Ma distinguere tra il consulens e il persuasor,
secondo Farinaccio, è sine iure, sine authoritate, sine ratione (54).
Ma lo stesso Claro, però, distingue tra consulente e
mandante. Infatti, al consulente che abbia suggerito la
commissione di un reato che il consigliato avrebbe comunque
posto in essere, il criminalista attribuisce un grado di
responsabilità più mite, grado più mite che non ritiene di
attribuire al mandante che abbia conferito un mandato ad un
soggetto che comunque avrebbe compiuto il reato per il quale
ha ricevuto il mandato (55). Per il mandato vale la regola che il
(53) CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 88, foll. 223r-v. A Claro, poi,
si deve una efficacissima descrizione della compartecipazione criminosa:
«Saepissime nam contingit quod in eodem crimine multi interveniunt, qui tamen
omnes diversis poenis sunt puniendi. Potest autem quis imputari, aut quod
delictum ipsum propriis manibus commiserit, aut quod sciens, ac particeps fuerit,
aut quod de delicto faciendo tractaverit, aut consilium seu mandatum dederit, aut
auxilium praestiterit, aut illud postea ratum habuerit»: Iulius CLARUS, Sententiarum
receptarum, cit., quaest. 87, fol. 221v
(54) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 296.
(55) CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 89, foll. 223v-225r.
38
Giuseppe Speciale
mandante viene punito con la stessa pena del mandatario che
commette direttamente il reato. Claro insieme a gran parte della
dottrina (primo, fra tutti Bartolo) ritiene che quando il mandatum
riguarda un reato non debba distinguersi, ai fini della pena da
comminare al mandante, tra il caso in cui il mandato determina
il mandatario alla commissione del reato e il caso in cui,
comunque, il mandatario avrebbe commesso il reato per il quale
il mandato gli è stato conferito. Per quanto riguarda il
cosiddetto eccesso di mandato, poi, Claro ritiene che debbano
valutarsi le modalità secondo le quali il mandato è conferito. Se
il mandatario ha ucciso quando il mandante gli aveva detto di
bastonare, o sfregiare, o di dare uno gnoccum, allora il mandante
non deve essere punito per omicidio, perché il mandato era
stato conferito per realizzare un comportamento che non
avrebbe dovuto portare alla morte del soggetto passivo del reato
secondo l’id quod plerumque accidit. Se invece il mandato era ad
vulnerandum e ne è conseguita la morte, il mandante deve essere
punito con la stessa pena che si commina al mandatario perché i
vulnera non si danno “ad mensuram” ed è noto che con facilità
possono risultare mortali (56). Per quanto riguarda i verba,
ancora una volta sulla scia di Bartolo, Claro ritiene che si possa
presumere il mandato ad uccidere conferito dal dominus ai suoi
famuli quando il dominus, dopo aver subito un’iniuria, abbia
rivolto ai suoi famuli la solita frase «vade et non revertatis
domum donec sentio novum de tali» e dopo l’autore dell’iniuria
sia stato trovato morto. Tuttavia Claro aggiunge che non si
sentirebbe, ex eo solo, di comminare la poena mortis al dominus se
(56) ANDREAS FACHINEUS, Controversiarum Iuris tomus primus (Venetiis, apud
Modestum Iuntam de Modestis, 1620) lib. I, cap. 36, coll. 49-50 aggiunge che il
mandante, che abbia espressamente proibito di uccidere quando ha conferito il
mandato ad vulnerandum, non può essere condannato con la stessa pena del
mandatario omicida qualora dal vulnus sia conseguita la morte. È vero che
comunque il mandante ha dato occasione alla morte, ma indirecte, ex culpa, non dolo
malo.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
39
non prima di avere accertato alcune cirscostanze: che il dominus
era solito facere talia, che l’iniuria sia di una tale gravità da rendere
plausibile che l’offeso la volesse vendicare con la morte. E,
comunque, Claro preferirebbe torquere dominum e applicare una
poena extraordinaria più lieve anziché la pena di morte.
«Cum mandatum de per se sit delictum», può essere
perseguito non solo nel luogo in cui sia stato consumato il reato
per il quale è stato conferito, ma anche nel luogo in cui il
mandatum sia stato dato o accettato. A tale proposito Savelli
ricorda un caso deciso dagli otto di Balia fiorentini nel 1666 e
manifesta qualche perplessità per il contenuto della decisione:
due forestieri — Giovanni, modenese, e Francesco,
bolognese —, concordano di uccidere un lucchese, bannitus
dallo stato di Lucca, che vive a Firenze. Per assicurarsi
l’impunità i due pianificano — «illum seducendo et conducendo
in statu Lucensi» — ed eseguono l’omicidio in territorio
lucchese. La magistratura fiorentina, solo «ratione dicti
tractatus» condannò Francesco, contumace, alla forca e alla
confisca dei beni, e Giovanni, carcerato, ai triremi a vita (57). In
tema di competenza devono tenersi presente anche Merlino
Pignatelli — che ricorda un caso analogo in cui si afferma la
competenza della magistratura del luogo in cui fu conferito il
mandato, ma aggiunge che non per il solo mandato possono
perseguirsi mandante e mandatario, ma perché al mandato è
stata data una qualche esecuzione (58) — e Claro — per il quale
il mandante deve essere perseguito e punito dal giudice del
luogo in cui è stato eseguito il delitto e non dal giudice in cui è
stato conferito il mandato, dato che la responsabilità del
mandante non nasce dal mandato, bensì dal delitto compiuto in
(57) SABELLUS, Summa diversorum tractatuum, cit., t. III, § Mandatum, 152 n. 22.
(58) FRANCISCUS MERLINUS PIGNATELLUS, Controversiarum forensium iuris
communis et regni Neapolitani centuria prima (Neapoli, ex regia Typ. Aegidii Longi, 1634)
cap. 80, pp. 362-364.
40
Giuseppe Speciale
esecuzione del mandato. Analogo ragionamento induce Claro
ad affermare che il ratificante il delitto deve essere perseguito e
punito dal giudice del luogo in cui è stato commesso il
delitto (59). Per Baiardo, invece, il giudice competente può
essere quello del luogo in cui è stato conferito il mandato o
quello del luogo in cui è stato eseguito (60).
A proposito delle dinamiche relazionali tra mandante e
mandatario possono qui ricordarsi alcuni casi. Il primo — in cui
si dimostra l’assoluta rilevanza del vincolo di consanguineità che
lega l’esecutore del reato al terzo che, senza spingersi fino a
darne mandato, abbia comunque manifestato il suo
incoraggiamento alla commissione del reato — è oggetto di una
decisione raccolta da Francesco Merlino Pignatelli (61): nel
processo si prova che Salvatore, padre di Orazio de Canovettis,
aveva incoraggiato il figlio — pronunciando più volte frasi
come «Amazza! Amazza! Dagli! Dagli!» — a vendicare l’offesa
inferta da Bartolomeo Martini a Bernardino, un membro della
famiglia de Canovettis. Nel caso in esame — simile per qualche
aspetto al caso della serva e dell’oste — il padre viene punito
con una poena mitior. Seguendo il principio «ignoscendum esse illi
qui voluit se ulcisci provocatus» si considera legittimo, o quanto
meno scusabile, il comportamento posto in essere da chi
reagisce ad un’offesa subita. Poi, considerato che «iniuria facta
consanguineo etiam alios afficit, et ad defensionem provocat», si
considera provocatus, e perciò in qualche modo scusato, anche il
parente dell’offeso (62). Può anche rilevarsi un altro elemento
(59) CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 38, fol. 129r.
(60) IOHANNES BAPTISTA BAIARDUS, Additiones et annotationes ad Iulii Clari
Receptarum sententiarum libros V (Francoforti, ex off. typ. Nicolai Baffaei, 1598)
quaest. 38, pp. 184-190. Baiardo adotta lo stesso criterio anche per la ratihabitio.
(61) FRANCISCUS MERLINUS PIGNATELLUS, Decisiones almae Rotae Lucensis
(Venetiis, apud haeredem Damiani Zenari, 1616) decis. 32, p. 44.
(62) Ma per CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 86, foll. 220v-221v, la
regola della non punibilità del padre o del padrone per i reati commessi dai figli o
Alteri ad delictum praebuit occasionem
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comune tra il caso de Canovettis e quello della serva e dell’oste.
Mi riferisco all’intervallo di tempo occorso tra l’offesa subita da
Bernardino e dalla serva e la reazione da loro posta in essere:
può ritenersi che la reazione avvenne incontinenti oppure aliquo
temporis intervallo? Da tale valutazione dipende la qualifica della
reazione come defensio, legittima e scusabile, o come vindicta,
inammissibile e da punire. A margine può qui ricordarsi che
Merlino cita Cefalo e Menochio, contra Farinacci, secondo i quali
può considerarsi facta incontinenti anche la reazione di chi, subita
l’offesa, prima di reagire contro l’offensore, si rechi a casa per
armarsi o per radunare gli amici (63).
Un caso interessante di eccesso del mandatario
nell’esecuzione del mandato è ricordato da De Marinis. Un
nobile, reo confesso di aver dato mandato ad un suo familiare
«ad vulnerandum certam personam», è ritenuto responsabile
della morte di quella, sopravvenuta dopo cinquantaquattro
giorni dal ferimento, e, pertanto, è condannato a morte dalla
Magna curia. Il Sacro regio consiglio, «potius ex aequitate quam
de iure», commuta la pena di morte in quella della deportazione.
Sia pure decidendo in senso favorevole all’accusato, i giudici
non condividono la linea difensiva che, anche con perizie
mediche, sostiene che la morte sia avvenuta «ex mala curatione
et ex defectu boni regiminis». Inoltre gli avvocati del nobile
rafforzano le loro tesi difensive sulla base di questo
ragionamento: se il mandato fosse stato conferito ad occidendum e
la morte fosse sopravvenuta non ex vulnere, sed ex alio accidenti, il
mandans o il vulnerans non sarebbero stati ritenuti responsabili
dell’uccisione. Ma i giudici ribattono che il tempo intercorso tra
dai servi viene meno quando tali reati siano stati commessi occasione patris vel domini et
eo sciente, in tali casi infatti si presumono essere de eorum voluntate.
(63) Sulla necessità che la reazione avvenga incontinenti insistono anche altri
giuristi: qui, tra i tanti, possiamo ricordare CAESAR PANIMOLLE, Decisiones civiles, cit.,
decis. 148, p. 405: è la decisio già richiamata a proposito delle modalità e dei verba che
si utilizzano per conferire il mandato.
42
Giuseppe Speciale
il ferimento e la morte, da solo, non è sufficiente a provare che
la morte non dipenda dal vulnus. E che, se una causa diversa
della morte non è altrimenti provata, l’intervallo tra il ferimento
e la morte non è sufficiente a provare che la ferita non
costituisca la causa del successivo decesso. Può valere invece
una presunzione di senso contrario: se dopo tre giorni dal
ferimento il vulneratus è in grado di deambulare, il suo successivo
decesso non può attribuirsi, almeno presuntivamente, al
vulnus (64). Ancora a proposito dell’eccesso del mandatario
Baiardo aggiunge che se l’eccesso è accaduto vidente vel sciente
mandante et non contradicente, il mandante è tenuto alla stessa pena
che si commina al mandatario, perché dalla condotta e dal
silenzio del mandante si evince che il mandatario abbia agito in
suo nome (65).
Per quanto riguarda la revoca del mandato, Bonacina ritiene
che il mandante che ha revocato il mandato d’omicidio non sia
tenuto a informarne la persona per la cui uccisione aveva
conferito il mandato affinché questa possa premunirsi contro il
mandatario, bensì debba preoccuparsi solo di rendere nota la
revoca al mandatario. E a proposito della irregularitas che
colpisce il mandante che abbia revocato il mandato, ma non sia
riuscito a notificare l’avvenuta revoca al mandatario, afferma
che il mandante ne è colpito non perché sia responsabile a titolo
di voluntas, infatti non gli si può imputare più la volontà di
conferire il mandato, ma perché alla sua volontà risale la causa
del delitto. Poi Bonacina puntualizza una differenza tra mandans
e consulens: affinchè il primo non sia colpito da irregularitas è
sufficiente che si accerti che la sua revoca sia conosciuta dal
(64) DONATUS ANTONIUS DE MARINIS, Summa et observationes ad singulas
decisiones manuscriptas regiae camerae summariae Regni Neapolis (Lugduni, sumpt. Phil.
Borde, Laur. Arnaud et Claud. Rigaud, 1661) decis. 422, pp. 564-565.
(65) BAIARDUS, Additiones et annotationes ad Iulii Clari, cit., quaest. 89, pp. 339341.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
43
mandatario, perché la revoca del mandato è sufficiente a
rimuovere l’influxum ad delictum del mandato stesso, dato che il
mandato è conferito nell’interesse del mandante. La revoca del
consilium, invece, da sola non è sufficiente a rimuovere l’influxum
ad delictum, sia pure quando è conosciuta dal consigliato, poiché
il consiglio è dato nell’interesse del consigliato stesso (66).
Tre interessanti questioni sono al centro di alcune pagine di
Claro. Ex sola scientia normalmente non si può essere puniti.
L’unica eccezione è costituita dal crimen laesae maiestatis in cui la
gravità del reato giustifica l’arretramento della soglia della
punibilità. I giuristi poi sono divisi nell’affermare la
responsabilità in capo a chi sa che si sta per commettere un
delitto e, ciò nonostante, non si attiva per evitare che ciò
avvenga. Infine, con riguardo alla ratihabitio, Claro ritiene che sia
possibile solo in relazione ai reati che non siano commessi
«principaliter propter libidinem ipsius delinquentis» quali lo
stupro, l’adulterio etc., a meno che quei reati siano stati
commessi strumentalmente, per esempio per offendere, ad
alterius instantiam, il marito della donna. Invece la ratifica è
possibile per quei reati commessi «ad offensam et iniuriam
alterius», ma devono ricorrere due condizioni: che il reato sia
commesso a nome del futuro ratificante; che il futuro ratificante
sia a conoscenza che il reato è stato commesso a suo nome (67).
(66) MARTINUS BONACINA, Tractatus de irregularitate in Opera omnia in tres tomos
distributa (Venetiis, sumpt. Andreae Poleti, 1716) I, disput. VII, quaest. IV, punct.
VIII, pp. 495-499.
(67) CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 87, foll. 221v-223r.
44
Giuseppe Speciale
6. Caratteri originari e tratti permanenti: a proposito di una questione di
mandato di Francesco Carrara.
Ho scelto di chiudere con Carrara questa prima prova di
ricerca sul mandatum e sul consilium ritenendo che ai fini del
discorso che qui si vuole condurre non fosse di ostacolo il dato
che Carrara è un giurista dell’età delle codificazioni, un giurista,
cioè, che, pur avvalendosi dello sterminato patrimonio di
sapienza accumulato dalla cultura giuridica nei secoli precedenti,
si misura con una cultura, con una tecnica, giuridica incentrata
sul codice. Paradossalmente proprio questa discontinuità,
marcata dall’avvento e dalla centralità del codice, finisce per
evidenziare ancora di più una sostanziale continuità nel modo di
impostare, di argomentare e di risolvere le questioni relative alla
responsabilità del mandante e del mandatario.
Il maestro toscano, con una scrittura tanto lucida quanto
ricca di umanità, già nel suo studio sul ‘Grado nella forza fisica
del delitto’ aveva ordinato all’interno del suo ‘sistema’ penale le
figure del mandato e del consiglio (68). Riflettendo sulla
tradizione giuridica europea — e sui contributi dei vari
Carmignani, Rossi, Giuliani, Roberti — Carrara colloca il
mandato e il consiglio, insieme con la società, all’interno del
genus della complicità. La testata d’angolo della costruzione
carrariana è la forza fisica del delitto: «soggettivamente guardata ha il
suo elemento nel moto corporeo dello agente, e guardata
oggettivamente il suo risultato nella materiale violazione della legge
ossia nel danno immediato» (69). La forza fisica, sia sotto il
profilo soggettivo che sotto quello oggettivo, può per vari
motivi frazionarsi: «o per causa di interruzione, o inoperosità degli
(68) F. CARRARA, Grado nella forza fisica del delitto, in Opuscoli di diritto criminale
(Lucca 18702) vol. I, pp. 337-628, in particolare i §§ 241-276 alle pp. 518-541.
(69) CARRARA, Grado nella forza fisica, cit., vol. I, p. 339, i corsivi sono nel testo.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
45
atti esterni, o per causa di divisione dei medesimi fra più individui.
La interruzione o inoperosità della forza fisica soggettiva, e la mancata
forza fisica oggettiva, conduce alla teorica del delitto imperfetto: la
divisione alla teorica della complicità» (70). Più precisamente nel
genus della complicità, così inteso, Carrara distingue tre species: il
concorso di azione senza concorso di volontà; il concorso di
volontà senza concorso di azione; il concorso di volontà e di
azione. Compongono la prima specie le quattro figure della
‘intenzione innocentemente distinta’, della ‘intenzione
criminosamente distinta’, della ‘intenzione negativamente
indiretta’, della ‘intenzione imperfetta’. Appartengono alla
seconda specie le tre figure del mandato, del consiglio e della
società. Formano la terza specie le figure dell’ausiliatore, del
correo, del favoreggiatore.
Nell’utilità, poi, sulla scia di una lunghissima e consolidata
tradizione, Carrara individua il criterio per distinguere il
mandato dal consiglio e dalla società: nel mandato l’esecuzione
del reato torna di utilità al mandante che ha comunicato la volontà;
nel consiglio all’autore fisico del reato; nella società ad entrambi. Ma
più ancora della trattazione condotta in termini generali nel
Grado nella forza fisica del delitto o nel Programma (71) è ricco di
spunti per la riflessione Una questione di mandato, uno studio del
1875 pubblicato negli Opuscoli (72). Il giurista qui muove da un
(70) CARRARA, Grado nella forza fisica, cit., vol. I, p. 339, i corsivi sono nel testo.
(71) F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale (Lucca
Giusti 1871) §§ 426-509, pp. 281-332.
(72) F.CARRARA, Una questione di mandato, in Opuscoli, Progresso e regresso del giure
penale nel nuovo Regno d’Italia VI (Lucca 1876) XXXII, pp. 7-21. Un altro interessante
contributo di Carrara, che qui merita ricordare, è ‘Offerta di delitto’, in Opuscoli,
Progresso e regresso del giure penale nel nuovo Regno d’Italia III (Lucca 1876) XLVI, pp.
449-458. Si considera istigazione a delinquere la fattispecie di un sicario che offra la
sua opera ad un mandante per realizzare un omicidio di un nemico del mandante.
Per Carrara tale fattispecie è istigazione a delinquere, almeno negli ordinamenti che
prevedano tale figura di reato e la considerino perfetta a prescindere dal fatto che
sia stata accolta o non la istigazione. In particolare Carrara ritiene che le ragioni che
fondano la punibilità dell’istigatore mandante (istigante a divenire mandatario) siano
46
Giuseppe Speciale
caso giurisprudenziale accaduto in Toscana, e nel 1875 ancóra
all’attenzione della Corte di Cassazione fiorentina, per affrontare
ex professo diversi aspetti direttamente collegati al mandato a
delinquere.
Ecco in breve i fatti: a casa di un certo Francesco, un ricco e
‘riputatissimo’ giovin signore di campagna, sul «cominciare di
una notte serena» si presentò Orlando, capo di una masnada di
briganti che infestava il contado toscano con «assassinii,
omicidii, incendi, ruberie e violenze di ogni maniera». Orlando
invitò Francesco a uscire di casa; «con lui diceva volere tenere
segreto parlamento; di nulla temesse; recasse pane e prosciutto e
seco si conducesse solo nello attiguo vigneto». Dopo circa due
ore Francesco rientrò in casa propria per procurare altro vino da
offrire a Orlando che gliene aveva fatto richiesta e ne uscì di lì a
poco per seguire Orlando a poca distanza. Percorsi pochi passi
si udirono due spari in rapidissima successione e Francesco
rimase leggermente ferito dal secondo colpo. Sia pure ferito, e
senz’armi, «fiero come un leone si scagliò contro il masnadiere»:
seguì una lotta feroce nel corso della quale Orlando, ormai con
il fucile scarico, estrasse un ‘coltello serratoio’ e vibrò su
Francesco una trentina di colpi, alcuni dei quali «assolutamente
mortali ne cagionarono alla dimane la morte».
La banda di Orlando fu sgominata, più di quattordici
persone furono condannate, ma Orlando morì in carcere prima
le stesse che fondano la punibilità dell’istigatore mandatario (istigante a divenire
mandante). Nel caso di delitti naturali (il cui danno immediato offende soltanto il
privato) il bene leso è la tranquillità privata, cioè la libertà individuale (§ 1591 e ss.
del Programma). Tale bene è leso sia nel caso che l’istigatore sia il mandante sia che
sia il mandatario. Il diritto che si applica è quello del luogo in cui si sia resa nota
l’offerta di delitto. Nel caso l’offerta sia contenuta in una lettera è il luogo di
destinazione della lettera, non di redazione. Sull’opuscolo carrariano e sul tema più
generale dell’inquadramento dell’istigazione nel pensiero del giurista toscano cfr. G.
DE VERO, L’istigazione a delinquere nell’evoluzione del pensiero carrariano, in Francesco
Carrara nel primo centenario della morte. Atti del Convegno internazionale, Lucca-Pisa
2-5 giugno 1988 (Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della Università di
Pisa 112; Milano 1991) 651-661.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
47
che si concludesse il processo. Più volte interrogato, prima di
morire aveva dichiarato di avere agito su mandato di
Alessandro, fratello di Francesco, che gli aveva fornito l’arma
del delitto, un fucile ad un solo colpo, e promesso un compenso
di mille scudi.
Il giudice condanna Alessandro alla pena dell’ergastolo
ritenendolo responsabile di «mandato premeditato ad uccidere
susseguito dall’evento»; i difensori di Alessandro inoltrano
ricorso alla Cassazione.
Carrara — superando la consueta prudenza che dovrebbe
usarsi quando sul caso sta per pronunciarsi il giudice, nella
specie la Cassazione fiorentina dinanzi alla quale pende il
ricorso — ritiene di potere, anzi di dovere, affrontare la
questione perché a suo dire la sentenza che ha condannato
Alessandro alla pena dell’ergastolo, non solo è «viziata nella
sostanza per erronea soluzione», non solo è giunta a conclusioni
incoerenti rispetto alle premesse da cui muove, ma addirittura
ha trascurato di valutare giuridicamente in modo corretto i fatti
che compongono il complesso mosaico degli avvenimenti;
insomma Carrara lamenta che non siano stati posti in chiaro i
termini del problema perché la corte fiorentina ha considerato i
fatti su cui è stata chiamata a giudicare come elementi di un
unico disegno criminoso.
Invece per il giurista bisogna distinguere ciò che è avvenuto
fino al momento del ferimento di Francesco da ciò che è
avvenuto successivamente. Fino al ferimento di Francesco,
Orlando attua comportamenti (visita a Francesco, ‘segreto
parlamento’ nel vigneto, richiesta del vino, invito ad allontanarsi
da casa, esplosione dei colpi di fucile) tesi ad eseguire il mandato
ricevuto da Alessandro. Carrara volutamente non si sofferma a
indagare se i due colpi siano stati entrambi esplosi da
Orlando — circostanza che sembra potersi escludere
considerati la rapida successione degli stessi colpi e il tipo di
fucile a canna singola —, ma senz’altro i fatti possono valutarsi
48
Giuseppe Speciale
come un tentativo di omicidio e rivelano chiaramente la
premeditazione in capo a Orlando.
I fatti che seguono dopo il ferimento di Francesco (la
colluttazione tra Francesco e Orlando originata dalla fiera
reazione del primo, l’accoltellamento che seguì e diede causa alla
morte) possono valutarsi come omicidio volontario, ma
escluderebbero, secondo Carrara, la premeditazione in capo a
Orlando. I colpi, infatti, che Orlando vibrò «premeditati non
furono, ebbero quella che i pratici ad una voce chiamano nuova
causa, nata sull’atto». Dopo l’esplosione dei colpi di fucile e il
ferimento di Francesco si era verificato un capovolgimento della
situazione precedente con uno scambio dei ruoli tra l’aggressore
e l’aggredito. Questo scambio dei ruoli segna una cesura tra la
prima e la seconda serie dei fatti della complessa vicenda: se
dopo l’esplosione dei colpi fosse stato Orlando ad aggredire
Francesco si sarebbe dovuto pensare ad un unico disegno
criminoso realizzato da Orlando in esecuzione del mandato
ricevuto; ma per stessa ammissione, in punto di morte, di
Francesco, il masnadiero fu aggredito e la sua condotta deve
spiegarsi come causata dalla paura per la reazione di Francesco
‘imprevista e imprevedibile’. Qui Carrara addirittura si spinge a
sostenere che per Orlando la morte di Francesco, dopo la fiera
reazione, divenne una «necessità». Secondo il giurista toscano
«non era più un truce desiderio di danno altrui, ma l’ira per
l’inattesa reazione e l’ansietà della propria salvezza… la mano
che brandiva il coltello non più si agitava per uno sdegno feroce,
ma per un subitaneo spavento…». E conclude che per Orlando
si sarebbe potuta affermare la responsabilità per l’omicidio
tentato e per l’omicidio improvviso.
Perché possa affermarsi la responsabilità del mandante per
l’omicidio di Francesco dovrebbe provarsi che Orlando ha
ucciso Francesco in esecuzione del mandato, cioè che la prima
serie di atti, culminata nel tentato omicidio, e la seconda,
conclusasi con l’uccisione, abbiano la stessa causa, l’esecuzione
del mandato. Ma così non è, non perché Orlando impiega mezzi
Alteri ad delictum praebuit occasionem
49
diversi da quelli indicati dal mandante, ma perché agisce mosso
da una nuova causa: la paura di essere ucciso, la rabbia per la
reazione di Francesco.
Per quanto riguarda la responsabilità del mandante, Carrara
afferma che l’omicidio è stato portato a termine dal
mandatario — sia pure contro lo stesso soggetto indicato dal
mandante, ma con mezzi diversi da quelli forniti da
quest’ultimo — non in esecuzione, bensì in occasione, del
mandato ricevuto e, soprattutto, per cause diverse dal mandato.
Non si è in presenza di un eccesso del mandatario: nel caso
dell’eccesso mancherebbe, infatti, l’ordine di uccidere del
mandante, ordine che qui è provato. E nel caso dell’eccesso,
inoltre, l’atto del sicario, non ordinato dal mandante, sarebbe
premeditato dal sicario stesso: qui invece si esclude la
premeditazione in capo a Orlando. In questo caso, invece, il
mandato è la causa dell’omicidio tentato e non eseguito, ma non
è la causa che ha prodotto il posteriore omicidio consumato.
L’identità dell’evento materiale previsto nel mandato e poi
realizzato dal mandatario per cause estranee al mandato non è
sufficiente a coinvolgere in una medesima imputazione
mandante e mandatario quando la causa dell’evento è
imputabile esclusivamente al mandatario. Non basta dire, per
affermare in capo al mandante la responsabilità penale, che il
mandante non ha revocato il mandato e pertanto è responsabile
dell’evento causato dal mandatario (evento che è quello per il
quale il mandato era stato conferito): ciò avrebbe senso se il
mandatario avesse agito qui, come nella prima parte dell’azione,
per eseguire il mandato. Invece il mandatario qui ha agito mosso
da causa diversa: la legittima difesa, il moto d’orgoglio contro la
vittima che si ribellava al suo violento attacco. È appena il caso
di sottolineare che il richiamo di Carrara alla legittima difesa
stride con il fatto che Francesco era assolutamente disarmato.
Inoltre, sia pure tra gli argumenta non principali, il grande
penalista rileva la mancanza di identità tra il mezzo con cui
doveva essere eseguito il mandato ad uccidere (il fucile) e quello
50
Giuseppe Speciale
con cui venne effettivamente eseguito l’omicidio (il coltello): si
tratta di un richiamo superato e stantìo.
Nella ricostruzione e nella decisione del caso Carrara supera
gli ostacoli che gli frappone la disciplina normativa del mandato
a delinquere; egli frammenta in distinti segmenti la serie degli
atti che ha scandito la vicenda e sostiene che cause diverse
hanno mosso gli attori nell’ambito dei distinti segmenti. In tal
modo riesce in qualche modo ad affermare che la causa
dell’uccisione di Francesco non può individuarsi nel mandato
conferito da Alessandro a Orlando.
Al di là della disciplina normativa e della decisione, al di là
delle conclusioni processuali, il caso di Francesco e Orlando è
esemplare per evidenziare l’importanza delle strategie discorsive
adottate dai giuristi in tema di mandato.
7. Il discorso sulla responsabilità continua: le scatole anguste delle
tipizzazioni nelle vicende più recenti.
La questione della responsabilità nel concorso assume una
rilevanza che va ben oltre l’ambito proprio e investe tutto il
sistema della responsabilità. La vicenda italiana della disciplina
del concorso di persone costituisce una esemplificazione
eccellente dei problemi che qui si sono voluti presentare e
sottolinea nell’impegno dei giuristi chiamati ad affrontare
l’arduo problema della responsabilità elementi di sostanziale
continuità con l’esperienza giuridica dei secoli passati: tale
sostanziale continuità risalta ancora di più se si presta attenzione
al dato normativo radicalmente mutato dalla codificazione.
Dopo alcuni esperimenti preunitari (73), il codice penale
Zanardelli, nel 1889, introdusse una tipizzazione delle figure
(73) All’inizio del secolo un interessante esperimento era stato tentato con il
Progetto del 1809 per il Regno d’Italia. Cfr. E. DEZZA, Appunti sulla codificazione
Alteri ad delictum praebuit occasionem
51
concorsuali prevedendo un trattamento sanzionatorio
differenziato (74). La deludente prova indusse il legislatore del
1930 ad ispirarsi dichiaratamente ad un criterio causale.
penale nel primo Regno d’Italia: il Progetto del 1809, in Saggi di storia del diritto penale
moderno (Milano 1992) 259 s., che sottolinea che la disciplina prevista nel progetto
italiano nel titolo quinto della prima parte “Degli agenti principali e complici” si
differenzia non poco da quella del modello legislativo francese a cui si ispira,
proprio perchè resta fortemente ancorata «al principio di proporzionalità che
induce a definire nel modo più accurato possibile il ruolo svolto dagli agenti, onde
evitare l’irrogazione della stessa pena per gradi oggettivamente diversi di
responsabilità». Gli agenti principali agiscono direttamente per l’esecuzione del
reato; tra i complici, che sono invece coloro che «scientemente contribuiscono in
altro modo ad effettuarlo» (art. 82), il Progetto distingue gli istigatori, coloro che
approntino mezzi per l’esecuzione del reato, o aiutino i responsabili a sottrarsi alla
giustizia, o occultino le tracce del reato, o «generalmente» pongano in essere «tutto
ciò che può fomentare la lusinga dell’impunità o assicurare il profitto del fatto
criminoso» (art. 84). I complici, come nel Code Penal del 1810, sono comunque
ritenuti responsabili del reato ascritto all’agente principale; tuttavia, diversamente
che nel modello francese, nel Progetto italiano ai complici è riservata una
diminuzione della sanzione. Tra gli agenti principali, poi, il Progetto italiano,
differenziandosi ancora una volta da quello francese, distingue i promotori e chi si
sia particolarmente distinto nella direzione e nell’attuazione del reato (art. 83). In
quest’ambito colloca il mandante tra gli agenti principali assegnandogli
contestualmente un grado di responsabilità maggiore rispetto a quello del
mandatario e finendo coerentemente con affermare la responsabilità del mandante
anche nei casi di eccesso del mandatario nell’esecuzione del mandato.
(74) Art. 63: «Quando più persone concorrano nella esecuzione di un reato,
ciascuno degli esecutori e dei cooperatori immediati soggiace alla pena stabilita per
il reato commesso. Alla stessa pena soggiace colui che ha determinato altri a
commettere il reato; ma all’ergastolo è sostituita la reclusione da venticinque a
trent’anni, e le pene sono diminuite di un sesto, se l’esecutore lo abbia commesso
anche per motivi propri».
Art. 64: «È punito con la reclusione per un tempo non inferiore a dodici anni,
ove la pena stabilita per il reato commesso sia l’ergastolo, e negli altri casi con la
pena stabilita per il reato medesimo diminuita della metà, colui che è concorso nel
reato:
con l’eccitare o rafforzare la risoluzione di commetterlo, o col promettere
assistenza o aiuto da prestarsi dopo il reato;
col dare istruzioni o col somministrare mezzi per eseguirlo;
col facilitarne l’esecuzione, prestando assistenza od aiuto prima o durante il
fatto.
52
Giuseppe Speciale
Ma ancora una volta l’esperienza rivela i limiti della scelta
normativa. L’art. 110 del codice penale (75) — sanzionando il
concorso, e omettendo di tipizzarne gli elementi costitutivi, la
cui individuazione rimette alla giurisprudenza — svolge una
funzione delicatissima che la giurisprudenza più sensibile e
avvertita ha rilevato. La Cassazione, smentendo definitivamente
l’originaria opzione causale, sancisce la punibilità di ogni
«contributo di ordine materiale o psicologico idoneo, con
giudizio di prognosi postuma, alla realizzazione anche di una
soltanto delle fasi di ideazione, organizzazione o esecuzione
dell’azione criminosa posta in essere da altri soggetti» (76). E
afferma: «Perché si configuri la fattispecie del concorso di
persone nel reato non è necessario che il contributo di ciascuno
si ponga come condizione, sul piano causale, dell’evento lesivo.
Infatti la teoria causale del concorso — fatta propria dalla
relazione al codice penale — contrasta con il dettato dell’art.
La diminuzione di pena per il colpevole di alcuno dei fatti preveduti nel
presente articolo non è applicata, se il reato senza il suo concorso non si sarebbe
commesso».
Una critica che frequentemente si muove alla soluzione zanardelliana è quella
ben documentata in R. SALEILLES, L’individualisation de la peine (Paris 1898), p. 201:
«L’atténuation au cas de complicité provient de ce que le fait du complice n’est
qu’accessoire et dépendant d’un fait principal auquel il se rattache. Mais n’arrive-t-il
pas tous les jours que dans une bande d’associés on se partage les rôles? Les uns
vont frapper et porter le coup, les autres feront le guet ou rempliront tout autre
rôle accessoire. En quoi est-on sûr que ces derniers, même en ne les considérant
que par rapport au crime commis, soient moins coupables que les autres? Il peut se
faire que ce soient eux qui aient inspiré le crime. Celui qui a frappé, on peut l’avoir
poussé, peut-être grisé, pour lui donner de l’assurance. Les autres-se contentent de
garantir l’exécution. Leur rôle extérieur est purement accessoire, c’est possible. Mais
c’est d’après leur rôle intérieur et psychologique qu’il faudrait les juger et les
frapper. Le Code italien en atténuant forcément la peine décide par avance que leur
criminalité n’est que secondaire ; c’est une prétention toute fictive et insoutenable».
(75) Art. 110: «Pena per coloro che concorrono nel reato. Quando più
persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per
questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti».
(76) Cassazione pen., sez. VI, 6 novembre 1991 (pres. Salaria, rel. Calfapietra)
Afelba c. altri, in Cassazione penale, 1993, 295.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
53
110 c.p. e la funzione estensiva cui la normativa sul concorso
adempie, consentendo di attribuire tipicità a comportamenti,
che di per sé ne sarebbero privi, quando abbiano in qualsiasi
modo contribuito alla realizzazione collettiva» (77). La questione
è sempre al centro dell’attenzione della giuspenalistica e del
legislatore. Negli anni Novanta la Commissione Pagliaro,
incaricata di predisporre il testo del disegno di legge sulla delega
legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione di un
nuovo codice penale muove dall’assunto: «La norma sul
concorso di persone, insieme a quelle sul tentativo e sul reato
omissivo improprio, vale ad ampliare la tipicità delle fattispecie
incriminatrici della parte speciale. Tale estensione, per quanto
necessaria, porta con sé il grave ed evidente pericolo di svuotare
la tassatività dei precetti penali, conferendo loro un’illimitata
capacità operativa; donde l’esigenza che essa si realizzi alla luce
di criteri improntati al principio di determinatezza... ». Dopo
aver esaminato le varie opzioni — muovendo dall’art. 26.1.
dello Schema di legge delega che dispone: «Prevedere che
concorra nel reato chi, nella fase ideativa, preparatoria o
esecutiva, dà un contributo necessario, o quanto meno
agevolatore, alla realizzazione dell’evento offensivo. Si concorre
per agevolazione solo nei casi in cui la condotta ha reso più
probabile, più pronta o più grave la realizzazione dell’evento
(77) Cassazione pen., sez. I, udienza dell’11 marzo 1991 (la sentenza è del 12
luglio 1991), in Rivista penale, 1992, p. 498. La stessa sentenza sottolinea acutamente
che «lo stesso codice, con la previsione dell’attenuante della minima partecipazione
al fatto, ammette la possibilità di condotte non condizionali, non potendosi certo
considerare condizione indispensabile per la realizzazione di un reato un’attività di
minima importanza. In questa ottica, ai fini della sussistenza del concorso deve
ritenersi sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un
comportamento esteriore che arrechi un contributo apprezzabile alla commissione
del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione
dell’opera degli altri concorrenti e, in sostanza, che il partecipe, per effetto della sua
condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato le possibilità di
produzione dell’evento, perché in forza del reato associativo diventano sue anche le
condotte degli altri concorrenti».
54
Giuseppe Speciale
offensivo» — la Commissione ritiene opportuno abbandonare
la distinzione tra contributi necessari ed agevolatori, adottando
una formula così concepita: «Concorre nel reato chiunque abbia
partecipato o istigato alla sua esecuzione ovvero rafforzato il
proposito di altro concorrente o agevolato l’esecuzione
fornendo aiuto o assistenza» (78). Qualche anno dopo la
Commissione Grosso, che deve predisporre il testo del nuovo
codice penale, è convinta della “pessima prova” dell’art. 110 del
codice penale Rocco, che per il suo eccessivo deficit di tassatività
ha costretto il giudice ad un’eccessiva discrezionalità applicativa
nella individuazione delle condotte penalmente rilevanti, con il
risultato di una eccessiva dilatazione della responsabilità a titolo di
concorso di persone nel reato. D’altra parte fare ricorso nella
tipizzazione delle condotte punibili a schematismi eccessivi
rischierebbe di escludere dall’area della responsabilità penale
contributi alla realizzazione del reato che sarebbe pericoloso
lasciare impuniti. Così la Commissione modifica solo lievemente
la soluzione prospettata dalla Commissione Pagliaro: “concorre
nel reato chiunque partecipa alla sua esecuzione, ovvero
determina o istiga altro concorrente, o ne agevola l’esecuzione
fornendo aiuto o assistenza” (art. 45 comma 1). Del resto, la
Commissione di studio della Corte di Cassazione, giustamente
preoccupata della eccessiva rigidezza di un sistema di ‘dettagliata
elencazione’ dei tipi di concorso aveva auspicato una soluzione
che mediasse ragionevolmente «fra esigenze di (un minimo di)
(78) «La scelta legislativa di appiattire sullo sfondo della medesima cornice di
pena tutti i concorrenti nel reato, indipendentemente dalla condotta in concreto
esplicata, determina inoltre uno svuotamento della tassatività delle fattispecie
incriminatrici nella parte relativa alla sanzione, almeno ove si ritenga che questa sia
modellata sul disvalore del fatto tipizzato... In breve: il vigente art. 110 apre
intollerabili spazi di indeterminatezza sia nella individuazione delle condotte
punibili, sia nel loro trattamento sanzionatorio...»: così scrive Seminara nel
documento della sottocommissione ministeriale che si occupa del concorso di
persone nell’ambito dei lavori della Commissione Pagliaro. Il documento è
consultabile nel sito web del Ministero della Giustizia: www.giustizia.it.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
55
determinatezza ed inevitabili margini di prudenziale genericità
nella configurazione delle condotte concursuali. Non può certo
affermarsi che la formula proposta contenga — come in
premessa richiesto — una ‘dettagliata’ elencazione dei ‘tipi’ di
condotta concorrente (restando innegabile la persistente
genericità delle formule della ‘partecipazione’, della
‘agevolazione’, del ‘rafforzamento’, ecc.), ma non vi è dubbio
che essa appaia sufficientemente esaustiva sul piano di quel
minimo di determinatezza necessario ai fini del rispetto del
principio di tassatività e tipicità legale» (79).
(79) «La Commissione ha affrontato il problema di una relativa tipizzazione
delle condotte punibili a titolo di concorso di persone nel reato. Costituisce infatti
opinione largamente condivisa che l’accoglimento della soluzione causale nei
termini generici espressi dall’art. 110 c.p. Rocco ha dato luogo a pessima prova,
determinando un eccessivo deficit di tassatività e di tipicità delle fattispecie
concursuali, ed una corrispondente eccessiva discrezionalità applicativa del giudice
nella individuazione delle condotte penalmente rilevanti, con il risultato di una
eccessiva, talvolta incontrollata ed arbitraria, dilatazione della responsabilità a titolo
di concorso di persone nel reato. Una discrezionalità che, come ha osservato la
Commissione della Cassazione che ha espresso un parere sul documento di base 15
luglio 1999, rischia “addirittura di far ritenere passibile di eccezione di
costituzionalità l’intero capo III del titolo IV nel nostro codice”. Occorre dunque
procedere ad una tipizzazione delle condotte punibili che, pur evitando
schematismi eccessivi, i quali rischierebbero, all’eccesso opposto, di escludere
dall’area della responsabilità penale contributi causali alla realizzazione del reato che
sarebbe fuori luogo lasciare impuniti, costringa comunque il giudice a rilevare
effettivamente, verificare con attenzione, e motivare adeguatamente, la presenza e il
tipo di apporto causale alla realizzazione del reato di ciascun concorrente. In questa
prospettiva la Commissione ha riproposto la definizione che aveva già indicato in
via esemplificativa nel documento di base: “concorre nel reato chiunque partecipa
alla sua esecuzione, ovvero determina o istiga altro concorrente, o ne agevola
l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza” (art. 45 comma 1), ritenendo che essa
configuri tipi di concorso sufficientemente elastici, tali da non rischiare di
circoscrivere arbitrariamente l’area della punibilità creando vuoti di tutela,
comunque idonei ad assicurare quella esigenza di provare la realizzazione di un
apporto causale significativo che costituisce presupposto indispensabile di tipicità
della disciplina del concorso di persone nel reato. Avendo, in questa scelta, il
conforto autorevolissimo del parere predisposto dalla Commissione della Corte di
Cassazione. La Cassazione infatti, giustamente preoccupata della eccessiva rigidezza
di un sistema di ‘dettagliata elencazione’ dei tipi di concorso che poteva trasparire
dalla lettura di parte del documento di base, ha significativamente osservato che “la
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Giuseppe Speciale
Le conclusioni della Commissione della Corte richiamano
con buon senso l’irriducibilità e l’incomprimibilità delle
molteplici forme di correità in una scatola tipizzata e
l’irrinunciabile, e ragionevole, prudenziale genericità della
configurazione delle condotte concursuali.
La cultura giuridica medievale e della prima età moderna
aveva avvertito l’insufficienza del criterio causale che —
proiezione delle conoscenze scientifiche dell’età dei lumi e della
modernità — costituirà nei sistemi codificati il fulcro centrale
della misura della responsabilità dei concorrenti. Quel criterio
mostra oggi la sua assoluta inadeguatezza, anche alla luce delle
nuove conoscenze scientifiche — si pensi agli studi sulle
organizzazioni e sulla complessità — che ne suggeriscono la
sostituzione con criteri diversi, multifattoriali, che tengano
conto delle molteplici, multiformi e variabili relazioni che
caratterizzano la compartecipazione criminosa.
soluzione prospettata ‘in via esemplificativa’ può costituire (invece) una soluzione
senz’altro accettabile sul terreno di una ragionevole mediazione fra esigenze di (un
minimo di) determinatezza ed inevitabili margini di prudenziale genericità nella
configurazione delle condotte concursuali. Non può certo affermarsi che la formula
proposta contenga — come in premessa richiesto — una ‘dettagliata’ elencazione
dei ‘tipi’ di condotta concorrente (restando innegabile la persistente genericità delle
formule della ‘partecipazione’, della ‘agevolazione’, del ‘rafforzamento’, ecc.), ma
non vi è dubbio che essa appaia sufficientemente esaustiva sul piano di quel
minimo di determinatezza necessario ai fini del rispetto del principio di tassatività e
tipicità legale”. Questa tipizzazione è, da un lato, sufficientemente elastica per non
creare vuoti di tutela, e nel contempo sufficientemente ‘orientativa’ in sede di
applicazione della legge penale: alla sua stregua il giudice sarà infatti in ogni caso
obbligato a provare la esistenza di una reale determinazione o istigazione di altro
concorrente, ed a motivare tale esistenza; sarà obbligato a provare la presenza di
una agevolazione che si sia concretata in specifiche condotte di ‘aiuto o assistenza’,
e motivare tale esistenza, ecc.». La relazione Grosso è consultabile nel sito web del
Ministero della Giustizia www.giustizia.it.
Alteri ad delictum praebuit occasionem
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Come si vede, il discorso sulla responsabilità continua (80).
Testimoni del nostro presente, possiamo ancora interrogare il
passato.
(80) Ultimamente la giurisprudenza italiana è impegnata in una delicata
questione: se integri concorso nel reato inserire in un sito web un link a siti che
abbiano contenuti illegali, oppure, come nel caso in ispecie, a siti che diffondono
localmente (nel caso in ispecie in Cina) contenuti rispetto ai quali esiste un diritto di
esclusiva. Il caso nasce dalla denuncia di un network satellitare (Sky) che lamenta
che in un sito web italiano sia presente un link ad un sito web cinese che trasmette
in chiaro le partite di calcio trasmesse da Sky. La III Sezione Penale della Corte di
Cassazione con la sentenza n. 33945 del 10 ottobre 2006 così decide: ritenuto
«pacifico, in punto di fatto, che gli indagati avevano messo a disposizione degli
utenti le informazioni ed i mezzi tecnici attraverso i quali era possibile installare sul
proprio personal computer tutto il software necessario alla visione delle partite di
calcio sulle quali la Sky vantava un diritto di esclusiva»; considerato che «tale
condotta è stata ritenuta dai Giudici come posteriore alla immissione in rete delle
opere protette e, di conseguenza, inserendosi in un momento successivo al
perfezionamento del reato, è stata considerata irrilevante ai fini penali…È
innegabile che gli attuali indagati hanno agevolato, attraverso un sistema di guida on
line, la connessione e facilitato la sincronizzazione con l’evento sportivo; senza la
attività degli indagati, non ci sarebbe stata, o si sarebbe verificata in misura minore,
la diffusione delle opere tutelate. Le informazioni sul link e sulla modalità per la
visione delle partite in Italia, per raggiungere il loro obiettivo, devono essere state
inoltrate agli utenti in epoca antecedente alla immissione delle trasmissioni in via
telematica; tale rilievo, se puntuale in fatto, comporta come conseguenza che, in
base alle generali norme sul concorso nel reato, gli indagati, pur non avendo
compiuto l’azione tipica, hanno posto in essere una condotta consapevole avente
efficienza causale sulla lesione del bene tutelato. È appena il caso di ricordare come
l’attività costitutiva del concorso può essere individuata in qualsiasi comportamento
che fornisca un apprezzabile contributo alla ideazione, organizzazione ed
esecuzione del reato; non è necessario un previo accordo diretto alla causazione
dell’evento, ben potendo il concorso esplicarsi in una condotta estemporanea,
sopravvenuta a sostegno della azione di terzi anche alla insaputa degli altri agenti».
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Giuseppe Speciale
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