1 La legge: continuità e discontinuità Lex: sostanza/forma Tommaso d’Aquino (sec.XIII.2) Lex: ordinamento della ragione rivolto al bene comune, proclamato da colui che ha il governo di una comunità. Michel de Montaigne (sec.XVI.2) Le leggi si mantengono in credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi. È il fondamento mistico della loro autorità; non hanno altro fondamento, ed è bastante. Spesso sono fatte da sciocchi. Chi obbedisce loro per il motivo che sono giuste, non dà loro l’obbedienza dovuta. Jean Bodin (sec.XVI.2) C’è molta differenza tra il diritto e la legge: il primo registra fedelmente l’equità; la legge, invece, è soltanto comando di un sovrano che esercita il suo potere. Georges Ripert (1949) Quando il potere politico si manifesta in leggi che non sono più l’espressione del diritto, la società è in pericolo. 2 Tavola degli argomenti Istituzioni Norme Giuristi Pensiero giuri-dico Economia V-XI XII-XV XVI-XVIII XIX-XX Alto Medio Evo Basso Medio Evo Età Moderna Età Contemporanea 1. Fine dell’Impero Romano. Regni dei popoli 2. Comuni. Signorie. Regna barbari (Longobardi, Franchi etc.) 3. Nascita degli Stati nazionali 4. Rivoluzione Francese. Stato Borghese 7. Leggi nazionali. Consolidazioni 8. Codificazioni. della codificazione 11. Diffusione delle università, ulteriore aumento della circolazione del sapere giuridico a livello europeo (stampa). Sviluppo e affermazione dei grandi tribunali. Signori del diritto sono il professore e l’alto magistrato 12. Scuola storica. Pandettistica. Scuola dell’Esegesi. Naturalismo. Marxismo 15. Ulteriore incremento della intrusione del potere pubblico statuale nella regolamentazione di tutti gli aspetti della vita dei consociati. Graduale assorbimento degli enti dotati di autonomia normativa e giurisdizionale nelle maglie dell’organizzazione statuale. L’Umanesimo giuridico. Non esiste il monopolio della produzione normativa. La scoperta di nuovi mondi mette in crisi il diritto formatosi e sviluppatosi per l’Europa cristiana: Seconda scolastica e Giusnaturalismo 17. Predominio assoluto della foresta e 18. Le nuove tecniche di produzione agricola e le 19. Il mercato assume dimensioni intercontinentali. dell’incolto. Assenza o marginalità del mercato. altre innovazioni tecniche liberano ampie fasce di Compagnia delle Indie Si produce per il proprio consumo o per una popolazione dalle campagne. Massiccio fenomeno di urbanizzazione. Le città come luogo del mercato. ristretta cerchia di consumatori Corporazioni e mercanti 16. Unificazione del soggetto giuridico: tutti sono uguali davanti alla legge. Si afferma il monopolio della produzione normativa 5. Compilazione giustinianea (sintesi della tradizione giuridica romana: iura e leges). Leggi dei barbari (Edicta longobardi, Capitolari franchi). Consuetudini 9. Crisi della scientia iuris romano-classica. Il diritto non è una scienza autonoma, ma è una branca del sapere enciclopedico. Il giurista non è una figura autonoma di professionista intellettuale. Scarsa circolazione del sapere giuridico. Signore del diritto è il notaio 13. Primitivismo (il diritto viene su dalle cose: incapacità di oggettivizzare i rapporti giuridici). Dominio della consuetudine. Sostanziale indifferenza del potere politico per la regolamentazione dei rapporti tra privati. Il potere politico si limita a dare norme che regolano le istituzioni pubbliche. Non esiste il monopolio della produzione normativa 6. Riscoperta e restauro del diritto giustinianeo. Collezioni private e pubbliche di diritto canonico. Decretum, Liber Extra, ecc. Nascita del Ius Commune. Autonomia normativa degli enti particolari: statuti e leggi regie. Consuetudini. 10. Nascita delle Università e della scienza giuridica con un proprio statuto epistemologico. Circolazione del sapere giuridico (manoscritti, studenti e professori). Signore del diritto è il professore di diritto 14. La scienza giuridica riscopre la tradizione giuridica romana e la reinterpetra creativamente. Nascita del Ius Commune. Fine del primitivismo. Il potere politico interviene anche nella regolamentazione dei rapporti tra privati. Consuetudine. Realtà pluriordinamentale. Non esiste il monopolio della produzione normativa Crisi 20. Globalizzazione dell’economia. Dalla società agricola alla società post-industriale. Nascita della Lex mercatoria 3 GIUSTINIANO E LA SUA COMPILAZIONE Glossario Molteplicità degli organi di produzione del diritto: - LEGES: norme approvate dal popolo nei comizi - PLEBISCITA: norme prodotte dalle assemblee dei plebei - AUCTORITAS PRUDENTIUM: libera attività creatrice della giurisprudenza - SENATUSCONSULTA: potestà normativa del Senato Sistema dello Stato romano classico Iniziatosi fin dagli albori del principato, si era andato compiendo quel processo di unificazione delle fonti del diritto che aveva finito per portare all’affermazione del concetto nuovissimo del CAPO DELLO STATO UNICO ORGANO DI PRODUZIONE DEL DIRITTO Processo di unificazione delle fonti del diritto Nell’età classica le manifestazioni normative del Princeps, considerato ancora come magistratus, rientravano nel più lato concetto di ius honorarium, contrapposte alle leges (norme approvate dal popolo nei comizi) LEGES= le costituzioni imperiali IURA= l’opera della giurisprudenza Ribaltamento della dottrina classica delle fonti del diritto Iura manifestazione dell’equità pretoria o di quella giurisprudenziale Ius vetus, concentrato della tradizione Leges espressioni della volontà imperiale Ius novum, aggiornamenti alle nuove istanze Rationes, principi normativi idonei all’applicazione nella prassi (editti pretorii fondati sull’imperium dei magistrati e pareri dei giureconsulti) Ius respondendi Privilegio concesso ad alcuni giuristi dal sovrano (forse già all’epoca di Augusto) di dar pareri per la soluzione giudiziale delle controversie. I pareri sono formalmente non vincolanti ma dotati comunque di un’autorevolezza assai vicina a quella della legge. La concessione del ius respondendi rendeva il giurista partecipe dell’auctoritas del concedente. Nerone ritenne lesivo del proprio monopolio dell’interpretatio iuris il ius respondendi: ma lo stesso ius respondendi poteva essere uno strumento per imbrigliare e controllare l’interpretatio. Anche il coinvolgimento dei giuristi nella alta burocrazia imperiale poteva imbrigliare l’autonomia degli stessi. I giuristi dell’entourage dell’imperatore non saranno più artefici di iura ma compilatori di leges. Legge delle citazioni: Valentiniano III 426 Valentiniano III promulga la legge delle citazioni. Le opinioni di Gaio, Modestino, Ulpiano, Papiniano e Paolo, qualora concordi, dovevano avere valore vincolante. Se i pareri fossero stati discordi doveva prevalere l’opinione maggioritaria. Quando vi fosse stata parità numerica doveva prevalere l’opinione di Papiniano. Anche altri giuristi eventualmente citati da questi 5 potevano essere allegati in giudizio purché se ne esibissero i testi originali. La formazione della compilazione giustinianea I precedenti Codex Gregorianus 292-293 ambiente: Oriente, Nicomedia, Berito; costit. da Adriano (117-138) in poi Codex Ermogenianus 293-294 rescritti dioclezianei Codex Teodosianus progettato nel 435 in vigore dal 439; costituzioni generali e locali da Costantino in poi. Teodosio elimina tutte le costituzioni invise alla Chiesa; 16 libri; include la legge delle citazioni 4 L’imperatore Giustiniano (482-565), imperatore dall’1 aprile 527 al 565, anno della sua morte Il Programma politico a) codificazione per rigenerare l’ordinamento e garantire la certezza del diritto b) restaurazione armata dell’Impero entro confini espressivi dell’universalità secolare (vittoria cattolica su regni barbarici ariani) c) unificazione del cristianesimo settario ed eretico Le vicende della formazione 528, 13 febbraio: 529, aprile: 530, 15 dicembre: 532, 11 gennaio: 533, 16 dicembre: 533, 23 novembre: 534, 16 novembre: 535-565 incarico alla commissione presieduta dal magister officiorum Triboniano e composta da 9 giuristi (8 burocrati e un professore, Teofilo) per aggiornare i codici Gregoriano Ermogeniano e Teodosiano il Codice entra in vigore. Significato della legge delle citazioni di Valentiniano (426) contenuta nel Codex: sino al 529 Giustiniano non aveva ancora deciso la compilazione dei Digesta Triboniano ora divenuto quaestor sacri palatii, coordina il progetto di stesura di un templum iustitiae idealmente cinto di mura costituito da iura scelti ufficialmente e aggiornati. Sorprende la rapidità con cui 10000 pezzi di una quarantina di giuristi scelti non solo tra quelli dotati di ius respondendi sia stata sistemata in una imponente raccolta di 50 libri. Probabilmente il materiale circolava già organizzato per masse omogenee (si ipotizzano una raccolta di commenti a Sabino e una agli editti pretorii, una silloge delle opere di Papiniano e un quarto gruppo disorganico di spezzoni) insurrezione di Nika. Si scontra il demo verde (eretici monofisiti, borghesia cittadina e commerciale) con quello azzurro (cattolici ortodossi, latifondisti) in occasione dello spettacolo delle corse. La rivolta dura circa una settimana e conduce alla destituzione del praefectus urbis Giovanni di Cappadocia (ministro dell’interno) e del quaestor sacri palatii Triboniano (ministro della giustizia). Ma si giunge alla destituzione dello stesso imperatore che decide di fuggire al di là del Bosforo. Teodora riesce a intervenire e a salvare la situazione affidando il comando militare a Belisario e al capitano degli Illiri che soffocano nel sangue la rivolta e restaurano Giustiniano. la raccolta dei Digesta è compiuta ed entra in vigore già il 30 dicembre dello stesso anno. Promulgazione delle Institutiones: manuale per la scuola di diritto. Sulla falsariga delle Istituzioni gaiane l’opera fu scritta, sotto il coordinamento del solito Triboniano, da Teofilo e Doroteo (due libri ciascuno). È un manuale con forza di legge perché venne promulgato al pari di Codex e Digesta. promulgazione della nuova versione del Codex, resa necessaria dalla presenza dei Digesta che imponeva un nuovo e migliore coordinamernto tra iura e leges; inoltre negli anni tra il 527 e il 533 Giustiniano aveva prodotto nuove leggi che era importante coordinare con il Codex. Le Novellae, già previste nel Codex, vennero promulgate via via fino all’anno della morte dell’imperatore (565). Ne sono pervenute tre versioni: — la collezione greca (la più ricca), opera privata, composta da 168 pezzi (di cui 158 di Giustiniano); — l’Epitome Iuliani, anche essa opera di un privato, Giuliano professore a Costantinopoli, riassume 124 costituzioni (probabilmente la prima redazione fu in lingua greca, ma la tradizione vuole che venne tradotta in latino su richiesta della Chiesa di Roma); — l’Authenticum, ufficiosa, in latino, composta di 134 novelle. Giustiniano e la scuola di diritto 5 Scuola:luogo di formazione di bravi giuristi per la corretta applicazione del nuovo ordinamento. Riforma didattica (const. Omnem del 15 dicembre 533) corso di studi in 5 anni (1 anno di introduzione elementare, tre anni di Digesta, 1 anno di Codice) Visione piramidale: Base: introduzione alle istituzioni del diritto; corpo centrale: iura tradizionali; vertice: onnipotenza legislativa dell’imperatore. Codex Digesta Istituzioni Const. Omnem, §§. 6-7: Agli studenti, dunque, non si nasconda niente di tutto ciò; ma, quando abbiano studiato tutti i libri composti per opera dell’eminente Triboniano e degli altri (commissari), si riconosceranno essere oratori massimi e servitori della giustizia (oratores maximi et iustitiae satellites): nei processi saranno egualmente ottimi come avvocati e come giudici, uomini di successo (felices) sempre e dovunque. Desideriamo che questi tre libri che abbiamo composto siano insegnati agli studenti, come è stato ordinato anche dai precedenti imperatori, solo nelle città regie e nell’eccellente civitas di Berito, che bene potrebbe essere chiamata la nutrice delle leggi, e non nelle altre città che non hanno guadagnato questo privilegio dai nostri predecessori. Diciamo questo perché abbiamo udito che anche nella splendida città di Alessandria e a Cesarea ed altrove ci sono uomini privi di qualificazione (imperiti) che tengono corsi non autorizzati e impartiscono una dottrina adulterina ai loro allievi. Li ammoniamo a cessare da tali tentativi, sotto la minaccia che se oseranno compiere tali atti in futuro, e al difuori delle città regie e della città metropolitana di Berito, saranno puniti con una multa di dieci denari d’oro e saranno espulsi dalla città in cui violano la legge piuttosto che insegnarla. Istituzioni di Giustiniano 1.1 pr.: La giustizia è la costante e sempre ferma volontà di attribuire a ciascuno ciò che gli spetta. 1.1.1. La giurisprudenza è la conoscenza delle cose divine ed umane, la scienza del giusto e dell’ingiusto. 1.1.3. I precetti del diritto sono questi: vivere onestamente; non offendere chicchessia, attribuire a ciascuno ciò che gli spetta. 1.1.4: Due sono le principali divisioni di questo studio: diritto pubblico e diritto privato. Il diritto pubblico è quello che riguarda lo stato del governo di Roma; il privato è quello che attiene agli interessi dei singoli: è da trattarsi dunque del diritto privato che consta di tre fonti, i precetti del diritto di natura, del diritto delle genti, del diritto civile. 1.2 pr.: Il diritto naturale è quello che la natura ha ispirato a tutti gli animali: infatti tale diritto non è esclusivo del genere umano, ma appartiene a tutti gli animali che ricevono vita in cielo, in terra e in mare. 1.2.1. ... Tutti i popoli si governano con leggi o con consuetudini. …Quel diritto poi che la ragione naturale ha stabilito tra tutti gli uomini è in uguale osservanza tra tutti i popoli e si chiama diritto delle genti 1.2.2. Il diritto civile poi riceve la sua denominazione da ciascuna città. Così noi chiamiamo diritto civile dei Romani quello di cui il popolo romano usa... 7 La tradizione della compilazione giustinianea anni 292-295 529-565 sec. XII fonti tradizione codici Gregoriano ed Ermogeniano Compilazione Giustinianea Restauro irneriano manoscritti 1872-1895 sec. XVXVI Vulgata Edizione critica stampa Tradizione manoscritta altomedievale Littera pisana o florentina. Codici medievali Edizioni a stampa. Incunaboli e cinquecentine. Vulgata Edizione critica: Mommsen Krüger Schoell Kroll (1872-1895) Digestum: Codex: Mommsen Krüger (1872) Krüger (1877) Florentina e altri 5 mss 15 mss altre opere pregiustinianee Institutiones Krüger (1872) 9 mss Lex romana canonice compta e Collectio canonum Anselmo dedicata Novellae Schoell Kroll (1895) circa 20 manoscritti Giustiniano chiuse il dualismo tra leges e iura Gli iura appartengono alla tradizione occidentale (si pensi al Breviarium Alaricianum e alla Lex Romana Wisigothorum ecc) anche se poi fu Giustiniano ad erigere loro il monumento massimo: i Digesta. Lo spostamento dell’asse ordinamentale sulle leges è invece dovuto all’Oriente: Diocleziano con Nicomedia e Costantino con Costantinopoli spostano definitivamente in Oriente il centro dell’Impero romano: le costituzioni generali prevalgono ora sui rescritti imperiali (che evocavano un’origine magistratuale del potere imperiale). Giustiniano trasforma in leges gli stessi iura con la promulgazione dei Digesta. La codificazione (non in senso illuministico, ma nel senso di reductio ad codicem) consiste non nel rinnegare il passato, ma nell’aggiornarlo e modificarlo per il presente. I codici sono collezioni di norme vecchie e nuove, quasi antologie sistemate organicamente. Le Sententiae di Paolo confluiscono nel Breviarium Alaricianum del 506. All’età costantiniana risalgono i Fragmenta vaticana e i Tituli ex corpore Ulpiani Altra antologia di Iura è la Collatio legum mosaicarum et romanarum o Lex Dei (scritta da un ebreo o da un cristiano): mancano le costituzioni costantiniane. Risale o al IV o al V secolo Chiesa e Impero in età tardo antica Costantino Religione di successo come possibile cemento per tenere insieme i pezzi di un impero in disgregazione Permette di utilizzare un culto orientale come forza centripeta da opporre alle forze centrifughe divenute micidiali per l’Impero La religione universale sostituisce l’ideale glorioso, ma ormai svalutatao, dell’Urbs Caput Mundi Il cristianesimo, religione di stato dal 380, dà un’anima unitaria alla babele di lingue, di culture, di credenze in cui l’Impero stava naufragando Editto del 313: «…ut daremus christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset» Nonostante il testo non c’è una indifferenza, né una neutralità dell’imperatore nei confronti della religione Alcuni privilegi costantiniani: l’episcopalis audientia; la manumissio in ecclesia; il riconoscimento per la chiesa di essere istituita erede (donazioni “pro anima”) La Chiesa tra libertà di organizzazione e pericoli di cesaropapismo Il diritto del tardo-Impero e la Chiesa Diritto divino e diritto umano Le fonti del diritto umano-ecclesiastico L’organizzazione ecclesiastica La Diocesi LA CHIESA E LA VISIONE IDEALE DELL’IMPERO Negli ambienti intellettuali cristiani la missione di Roma fu vista sotto una luce nuova. L’Impero appariva come uno strumento della pace universale, come il presupposto e come il risultato del propagarsi della parola di Cristo. Per lo spagnolo Prudenzio, Dio aveva voluto associare popoli diversi, ma accomunati da una fede comune: “Sinora la terra intera da oriente a occidente è stata straziata da una guerra continua. Per reprimere questa follia il Signore insegnò alle nazioni ad ubbidire alle medesime leggi e a diventare tutte romane” L’AMMIRAZIONE DEI CONTEMPORANEI PER LA MIRABILE COSTRUZIONE POLITICO-GIURIDICA DELL’IMPERO ERA IN CONSONANZA CON LA MISSIONE UNIVERSALE DELLA CHIESA ROMANA Per Ambrogio (vescovo di Milano) l’esistenza stessa dell’Impero aveva reso possibile la missione universale degli apostoli Istituti di origine costantiniana Episcopalis Audiencia Più che una vera e propria giurisdizione legittimata a sostituire la giurisdizione del giudice naturale, è un itpo di arbitrato che il diritto romano usava accordare con maggiore o minore larghezza ai vari culti. Sono escluse le cause penali. Manumissio in ecclesia Deriva dalla Manumissio inter amicos Donationes pro anima Consentite solo ai cattolici ed escluse per gli altri cristiani: per gli eretici e gli scismatici addirittura si negava la capacità patrimoniale In controtendenza- Duplicità religiosa dell’Imperatore Festività dei dies solis Consecratio di Costantinopoli (330) con i riti pagani Il paganesimo restava inglobato nel diritto pubblico romano Concilio di Nicea (325) L’imperatore convoca il concilio e vi partecipa per opportunità politica Il papa Silvestro è rappresentato da due preti Il concilio però riconosce una preminenza del Vescovo di Roma e dei patriarchi di Antiochia e di Alessandria (prima organizzazione gerarchica della chiesa universale) La Chiesa si preoccupa di fissare i dogmi, condannando l’arianesimo (solo Dio ha natura divina, non anche il Figlio che è creatura, pur voluta dal Padre ante omnia saecula) e sancendo la consustanzialità del Padre e del Figlio (estesa allo Spirito Santo nel concilio di Costantinopoli del 381) Attraverso un processo lento e travagliato, grazie a una dialettica costante espressa negli innumerevoli concili, la Chiesa edifica il suo patrimonio dogmatico chiarendo i dubbi e combattendo le eresie che nascevano dallo spirito bizantino, quasi morbosamente avvezzo alla discettazione sull’inconoscibile (delirio per la teologia) L’autorità dell’Imperatore sulla Chiesa-Istituzione può riflettersi anche sul piano dogmatico V’è un costante timore della gerarchia cattolica nei confronti del monarca. Questi è infatti in grado di attribuire la patente di cattolicità a questa o a quella teoria dogmatica NASCE LA RESISTENZA AL CESAROPAPISMO: sul piano organizzativo i poteri dello stato sono indiscutibili sul piano del dogma e del magistero va riconosciuto il monopolio della gerarchia cattolica Per i cattolici Costantino era Episcopus externus Per gli ariani Costante II (figlio di Costantino) era episcopus episcoporum 28 febbraio 380 Teodosio I il grande Editto di Tessalonica: Tutti i sudditi dell’Impero devono seguire la fede che l’apostolo Pietro aveva insegnato ai romani e devono professarla come la professano il Vescovo di Roma Damaso e il Vescovo di Alessandria Pietro. Il cattolicesimo niceno romano diventa religione di stato Rapporti tra Chiesa e Impero Ambrogio e Teodosio I L’Imperatore, non l’Impero, si colloca dentro, e non sopra, la Chiesa Il Sacro Magistero è indipendente da qualsiasi potere e tutti (anche l’imperatore) gli sono soggetti La Chiesa Istituzione è invece inglobata nell’Impero e deve obbedire all’Imperatore e osservarne le leggi Ecclesia intra Imperium — Imperator intra Ecclesiam Gelasio I (492-496) Papato - Impero: All’Impero sono sottomessi in temporalibus l’istituzione ecclesiastica e i fedeli; alla Chiesa sono assoggettati tutti in spiritualibus Vescovo di Roma - Patriarca di Costantinopoli Nel secondo concilio Romano del 495 si fa acclamare Vicarius Christi dai vescovi per ribadire la superiorità di Roma sul Patriarcato di Costantinopoli (messa in dubbio dal concilio di Calcedonia del 451 che aveva esteso la dignità del Vescovo di Roma a quello della seconda Roma Lettera all’Imperatore Anastasio (494): Duo quippe sunt quibus principaliter mundus hic regitur: Auctoritas sacrata pontificum et Regalis potestas Auctoritas = fonte di legittimazione degli atti (garanzia di corrispondenza del precetto eticoreligioso alla verità) Potestas = forza giuridicamente vincolante di comportamenti esterni GIUSEPPE SPECIALE A proposito di retorica e diritto Impiegherò i venti minuti, che il calendario dei lavori e il presidente mi hanno assegnato, per provare a tracciare alcune linee, solo alcune linee, di quel complesso rapporto che lega retorica e diritto lungo tutta la storia della nostra esperienza giuridica europea. Secondo la suddivisione proposta da Crisippo e ripresa da Cornificio autore della Rhetorica ad Herennium, probabilmente nel sec. I a.C., l’esposizione di una materia in un testo compiuto si articola in tre fasi strettamente collegate fra loro: inventio, dispositio, elocutio. • L’inventio è la ricerca e il ritrovamento delle idee, degli argomenti, dei sentimenti e delle immagini adatti al tema da svolgere. • La dispositio è il lavoro di scelta e di ordinamento dei contenuti offerti dall’inventio. Già nella dispositio possono utilizzarsi figure e attuarsi mutamenti artistici dell’«ordine naturale»: per esempio, la narrazione degli avvenimenti può disporsi in un ordine diverso da quello dello svolgimento cronologico. • L’elocutio è l’espressione verbale: qui intervengono le figure, con il fine di produrre effetti di sorpresa, vivacità ed efficacia rappresentativa, gradevolezza, o in generale «straniamento», cioè improvviso aumento dell’attenzione intellettuale ed emotiva dovuto a un’esperienza inconsueta. Nella dispositio del mio discorso è ora opportuno fissare alcuni punti che ho individuato nella fase, solo logicamente distinta, della inventio. Per fissare questi punti mi avvarrò di distinctiones, figure tanto care ai giuristi e così frequenti nelle scuole medievali, utili a contrapporre e distinguere per definire: • Nella contrapposizione tra poetica e retorica La poetica è l’Arte del discorso poetico. La retorica è l’Arte del discorso prosastico • Nella contrapposizione tra discorso ordinario naturale non ornato e discorso artificioso ornato artistico La retorica è Arte del discorso ornato, arte innanzitutto del discorso oratorio. • Nella contrapposizione tra retorica e ermeneutica La retorica è Scienza della generazione del testo. L’ermeneutica è Scienza della comprensione, dell’interpretazione del testo. La retorica è quindi l’insieme di regole del meccanismo di generazione del testo: la retorica pertanto è rivolta al parlante, a colui che produce, genera il testo, non all’ascoltatore. È rivolta ai dotti che generano il testo, non alla massa che deve ascoltarli. (Conduplicatio (nella contrapposizione…, la retorica è scienza, è arte…): ripetizione delle stesse parole allo scopo di rafforzare il concetto e di ‘commuovere’ l’uditorio). Queste distinzioni definitorie, sia pure elementari e semplificative, forse al limite dell’ovvietà, quasi della banalità, questi significati che abbiamo schematicamente richiamato, ci conducono direttamente al cuore del nostro tema e riflettono le diverse anime che la retorica ha assunto nel corso di duemila e cinquecento anni. La retorica, come scienza della generazione del testo, dispiega tutta la sua efficacia nell’ordinare il testo generato. Dato un testo A, generato, è senz’altro vero che la retorica riguarda la generazione e non la comprensione, l’ermeneutica, del testo A. Ma è altrettanto vero che riguarda, genera e ordina anche il testo B che, eventualmente, interpreti il testo generato A. Da qui la pervasività della retorica in quel groviglio di pratiche discorsive che danno vita all’esperienza giuridica: prassi normative, giudiziali, interpretative etc. Tutte prassi che vivono dei testi e si agitano nei testi. La scansione, all’interno di un testo, dei tre momenti dell’inventio, della dispositio e della elocutio, esemplifica efficacemente la funzione ordinante della retorica e, ciò che più importa, 1 evidenzia la non neutralità di nessuno di questi tre momenti rispetto al contenuto, ai fini e alla ratio del testo stesso. Del resto, nello strumentario metodologico dello scienziato giurista, così come si costruisce nella esperienza giuridica europea a partire dal secolo XI-XII, un posto assolutamente rilevante occupano proprio le arti liberali del trivio, grammatica, dialettica e retorica, appunto. Anzi, per gli addetti ai lavori, per gli storici del diritto, il segno della rinascita, della nascita della scienza giuridica, è proprio il nuovo gusto per l’ars dictaminis che si riscontra nei rinnovati schemi giuridici negoziali e processuali del secolo XI. Se vogliamo avvalerci di un esempio, può in qualche modo dirsi che nel secolo XI il bagaglio metodologico del vecchio maestro di arti liberali entra in quello del nuovo giurista come qualche decennio fa quello del vecchio ingegnere elettronico o del fisico o del matematico è entrato in quello del nuovo informatico. Ma ciò che qui voglio offrire alla vostra attenzione non è solo il dato, di facile, quasi ovvia, constatazione, che la retorica permea di sé tutti i ragionamenti dei giuristi. Fermarsi a questa constatazione equivarrebbe a dire: i discorsi dei giuristi, giudici, avvocati, funzionari, professori, notai, legislatori, sono discorsi strutturati, devono esserlo, secondo i dettami della retorica. Questo è senz’altro vero: i giuristi creano norme, le applicano, le interpretano, le interpretano comunque, sempre. Devono convincere e ottenere il consenso della comunità, almeno il consenso degli altri giuristi con cui interagiscono. Non possono ignorare i dettami della retorica. È un dato di fatto, è quasi banale sottolinearlo e soffermarvisi. Qui si vuole dire di più. Qui si vuole dire che la retorica dispiega la sua efficacia ordinante nel discorso dei giuristi ad un livello più alto di quello che attiene alla logica formale del discorso stesso. Qui si vuole sostenere che la forza ordinante della retorica si tramuta in qualche modo in forza creatrice dell’interpretazione, concorre in una parola a creare diritto. È utile che io richiami qui alla vostra attenzione alcuni significati che la poetica e la semiotica oggi assegnano alla retorica: • Significato linguistico La retorica è la disciplina che riguarda le regole di costruzione del discorso a livello transfrastico, del discorso come struttura della narrazione ai livelli superiori alla frase. • Significato semantico-poetico La retorica è la disciplina che studia i tipi dei significati traslati, la cd. Retorica delle figure (metafora, metonimia, sineddoche etc). • Significato di retorica come poetica del testo La retorica è la disciplina, branca della poetica, che studia i rapporti intratestuali e il funzionamento sociale dei testi come formazioni semiotiche unitarie. (Conduplicatio (significato…, disciplina…): ripetizione delle stesse parole allo scopo di rafforzare il concetto e di ‘commuovere’ l’uditorio) Tutti e tre questi significati, linguistico, semantico-poetico, poetica del testo, conducono ancora una volta al complesso e unitario fenomeno della generazione dei testi. Esistono due tipi di generatori di testi: conseguentemente esistono due tipi di testi • Un testo discontinuo, fondato sul meccanismo della discontinuità, formato da segmenti discontinui, ma collegati. In questo testo il principale portatore del significato è il segmento, mentre la catena dei segmenti, il testo cioè nel suo complesso, è secondaria e il suo significato, cioè il significato del testo, deriva dal significato dei segmenti. • Un testo continuo, fondato sul meccanismo della continuità. In questo testo il significato è spalmato sul testo nel suo complesso, è il testo nel suo complesso il portatore del significato, e l’enucleazione dei segni costitutivi del testo risulta difficile e artificiosa. Ora il giurista — il giurista inteso come l’intellettuale che per il fatto di assumere a oggetto esclusivo della sua attenzione il diritto, si afferma come una figura professionale e intellettuale autonoma — il giurista inteso come l’interprete del diritto — funzionario, giudice, notaio, professore, avvocato — si trova a dovere interpretare il diritto. Si trova cioè di fronte ad un testo da interpretare. Meglio, si trova di fronte a DUE testi da interpretare. • Il testo ‘A’ è il testo che contiene e descrive il diritto che deve applicarsi in quel caso. 2 • Il testo ‘B’ è il testo che descrive il fatto, la realtà che il diritto del testo ‘a’ deve andare a regolare. Nel mezzo il giurista. A mediare tra due testi. A mediare tra storia e valori. La storia che si è sedimentata nel testo della regola e i valori che si agitano nella società, per esempio. Quando i due testi — ed è sempre, o quasi, così — non sono omogenei, perché uno è fondato sul meccanismo della continuità, e l’altro è invece discontinuo, si crea una situazione di incompatibilità e di intraducibilità. Quando si giustappongono questi due diversi tipi di testo, all’unità precisamente designata di un testo corrisponde, nell’altro, «una macchia semantica dai confini sfumati e con passaggi graduali nella sfera di un altro senso… in queste condizioni sorge la situazione dell’intraducibilità, ma proprio qui i tentativi di traduzione si realizzano con particolare tenacia e danno i risultati più preziosi. In questo caso si ha non la traduzione esatta, ma un’equivalenza approssimativa e condizionata da un contesto psicologico culturale e semiotico comune a entrambi i sistemi. Questa traduzione irregolare e inesatta, ma in un certo senso equivalente, costituisce un elemento essenziale di ogni pensiero creativo. Sono proprio questi accostamenti “irregolari” a dare impulsi per la nascita di nuovi legami semantici e di testi radicalmente nuovi. Una coppia di elementi significanti reciprocamente inconfrontabili, tra i quali nell’ambito di un contesto si stabilisce un rapporto di adeguazione, forma un tropo semantico. I tropi non sono un ornamento esteriore, qualcosa che viene applicato all’idea dal di fuori, ma costituiscono l’essenza del pensiero creativo, e la loro sfera è persino più ampia dell’arte. Essa appartiene alla creazione in generale… Ed esattamente come nella poesia, nella scienza l’accostamento irregolare spesso agisce come impulso per la formulazione di una nuova regolarità». La retorica è una componente essenziale della scienza giuridica. Non è un accessorio del giurista. Non è qualcosa di cui può fare a meno il giurista, e uso questo termine nel senso lato che ho illustrato. Fortemente tributaria delle arti del trivio, grammatica, dialettica e retorica, appunto, la scienza giuridica, sin dal suo nascere, assegna alla retorica un posto di tutto rispetto. Cosa è, se non anche un’operazione retorica, l’esercitazione della quaestio disputata nelle scuole giuridiche medievali? Cosa è, se non un raffronto tra due testi assolutamente lontani, incompatibili, intraducibili? Tra il testo normativo giustinianeo del sesto secolo, cristallizzato e fermato nella compilazione legislativa, e il testo descrivente la magmatica realtà dell’europa bassomedievale con i suoi nuovi soggetti sociali e politici, con i nuovi negozi, con il nuovo mercato, di beni e capitali, di dimensione europea? E il giurista lì, al centro, a mediare tra due testi inconfrontabili, a sforzarsi di trovare un rapporto di adeguazione tra il vecchio diritto e le nuove istanze della società, impegnato a creare accostamenti irregolari da cui nascono nuove regolarità, nuovo diritto. Il fecondo rapporto tra retorica e diritto che qui brevemente si è voluto sottolineare per esaltare la funzione poietica del diritto svolta dalla retorica con la sua efficacia ordinante dei testi e dei discorsi non si esaurisce però solo nei termini, pur importanti, ai quali qui si è accennato. Con persistenze e continuità, cesure e mutamenti, questo rapporto si sviluppa nella lunga durata. Anche qui solo brevi cenni. Delle quaestiones disputatae nelle scuole giuridiche medievali si è detto. Deve aggiungersi che lo studio sui casi riscoprono tra Otto e Novecento giuristi del calibro di Jhering, Gianturco e Stolfi, e che un progetto, del 1923, di riforma dell’insegnamento universitario elaborato da Piero Calamandrei e Giorgio Pasquali, un giurista e un linguista guarda caso, assegna allo studio dei casi un ruolo preminente tra i metodi d’istruzione giuridica. Ancora, può ricordarsi negli ultimi decenni il ritorno sui casi di De Nova, Busnelli, Trimarchi. Un altro sintomo dell’intima compenetrazione tra retorica e dimensione giuridica può leggersi forse nello stilus utilizzato dai magistati europei nella stesura delle sentenze tra medio evo ed età moderna. Pur non obbligati, poiché non erano tenuti a motivare le decisioni prese in giudizio, essi non si esimevano dall’esporre l’itinerario logico giuridico che li aveva condotti alla decisione, mostrando i fondamenti giuridici della decisione stessa e gli argomenti utilizzati. Aderivano così alla concezione aristotelica della retorica. Aristotele, pur criticando la concezione sofistica della retorica, 3 a differenza di Platone, assegna alla retorica una funzione sociale positiva e una posizione intermedia fra l’apoditticità del discorso scientifico e l’opinione soggettiva e incerta della chiacchiera: in qualunque dei suoi tre generi, di retorica deliberativa o politica, di retorica giudiziaria e di retorica epidittica o celebrativa, il buon oratore non cerca di capovolgere la verità, ma di sviluppare la «maggiore forza naturale del vero e del giusto» mettendo in evidenza le circostanze e gli argomenti più persuasivi. E alla stessa concezione aristotelica può senz’altro ricondursi l’opera di quel gigante della scientia iuris europea che è Giovan Battista De Luca. Impegnato, non a caso, nella traduzionevolgarizzazione-risistemazione della cultura giuridica, con il suo secentesco Dottor Volgare, si richiama ad una dottrina dell’argomentazione probabile secondo la quale, anche quando manca la certezza propria del giudizio scientifico, si possono raggiungere motivazioni o conclusioni ragionevoli, mediante deduzioni sillogistiche (entimemi) o induzioni analogiche (esempi) che partano da premesse attestate o riconosciute dall’opinione dei più (prove e luoghi comuni) oppure da premesse giustificate da indizi o da ipotesi verosimili. E forse un filo lega il pensiero di questo grande giurista al buon senso comune di Vico. E, ancora, se ci si sposta nel XIX secolo, non è forse anche un’operazione retorica quella che compiono i giuristi impegnati a rifondare il metodo delle scienze giuridiche attingendo al metodo delle scienze biologiche rinnovato dal positivismo? Non è l’accostamento tra due sistemi inconfrontabili e intraducibili che produce un nuovo metodo delle scienze giuridiche? Non è ancora una volta l’accostamento cosiddetto ‘irregolare’ che fonda nuove concezioni della responsabilità, per la prima volta anche senza colpa, della imputabilità, della pena? E non è una volta ancora un accostamento ‘irregolare’ quello che oggi, ancora oggi, ci fa parlare di analisi economica del diritto? 4 Apparatus: iper-testo vivo e aperto 1. L’apparatus accursiano e il suo successo Quando, negli anni Venti, Edouard Maurice Meijers scrisse che la scienza giuridica del secolo XIII necessitava di un’opera organica di commento che costituisse il corredo ordinario dei testi, si spinse ad affermare che se Accursio «non avesse aggiunto la glossa al Corpus iuris civilis, si sarebbe innalzato a quel grado l’apparatus di Azo, di Hugolinus o di Simon Vicentinus»1. La Glossa ordinaria costituisce il punto di arrivo della scuola dei glossatori, ma anche l’inizio della decadenza di essa, almeno secondo un giudizio di Savigny che ha pesato sulla storiografia giuridica2. Tuttavia deve riconoscersi che la glossa costituisce uno strumento indispensabile: studenti, studiosi e pratici trovano nello stesso volume, accanto al testo normativo, una selezione ragionata delle diverse opinioni dei giuristi. Il pregio dell’opera accursiana non consiste tanto nell’originalità dei contenuti, quanto nella completezza del coordinamento di un materiale vastissimo. Accursio utilizza nel suo apparato e ingloba nella sua opera i migliori frutti dell’esegesi precedente: migliaia di glosse isolate o già ordinate in apparati, notabilia, allegationes, distinctiones. Al glossatore fiorentino si deve inoltre riconoscere il merito di avere affinato il metodo del suo maestro Azzone e di avere portato ad ulteriore compimento il programma di questi, cioè «isolare il metodo del giurista e rivendicarne la tecnicità assoluta»3. Inoltre, non è estraneo alla fortuna editoriale della Magna Glossa il riavvicinamento del giurista teorico al giurista pratico nei primi decenni del Duecento. La Glossa ordinaria nasce a Bologna, nella scuola e per la scuola, quando «l’incontro della cattedra con la vita professionale era ormai avvenuto»4: è un’opera che ha successo nella scuola e nella prassi forense, superando le differenze tra opere per la scuola e opere per i pratici. Uno strumento così raffinato finisce per essere utilizzato sempre, nella scuola e nel foro: l’ordine che l’apparato ha impresso al Corpus si riflette nei momenti più significativi dell’elaborazione teorica dei giuristi di scuola e dell’attività forense dei giuristi pratici, finendo per caratterizzare l’intera esperienza giuridica bassomedievale. Forse proprio per questo motivo va considerato nuovamente il giudizio critico di Savigny sulla decadenza della scuola dei glossatori e va meglio indagata la continuità tra i glossatori e i postaccursiani5. Alla radice del successo dell’apparato accursiano è la struttura ipertestuale dell’opera: ipertesto ante litteram, l’apparatus si caratterizza per la struttura frammentaria e non lineare e per l’inscindibile collegamento, anche sul piano della contiguità fisica nei manoscritti e nelle stampe, tra glossae e testo normativo. 1 E.M. Meijers, L’università di Napoli nel secolo XIII, introduzione del volume Iuris interpretes saec. XIII (Septingentesimo Anno Studii Neapolitani) curantibus scholaribus Leidensibus duce E.M. Meyers (Neapoli 1924), ora in Etudes d’histoire du droit. III. Le droit romain au moyen age. Première partie: A. L’enseignement du droit dans trois universités du XIIIe siècle; B. Histoire des sources, a cura di R. Feenstra e H.F.W.D. Fischer (Leyde 1959) 150. 2 F.C. Savigny, Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter (Heidelberg 1850, rist. anast. Bad Homburg 1962) V 279 e ss. 3 E. Cortese, Legisti, canonisti e feudisti: la formazione di un ceto medievale, in Università e società nei secoli XII-XVI. Atti del nono Convegno Internazionale di studio tenuto a Pistoia nei giorni 20-25 settembre 1979 (Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte - Pistoia; Pistoia 1983) 222; Id., Il Rinascimento giuridico medievale (Roma 1992) 36. 4 Cortese, Legisti 256 ss.; Id., Il Rinascimento 73-75. 5 In questa linea, muovendo dagli studi di Besta, Meijers e Nicolini, F.P.W. Soetermeer, Une catégorie de commentaires peu connue. Les «commenta» ou «lecturae» inédits des précurseurs d’Odofrède, in «Rivista Internazionale di Diritto Comune» 2 (1991) 4767. Sulla continuità e sulle cesure tra glossatori e commentatori cfr., da ultimo, E. Cortese, Tra glossa, commento e umanesimo, in «Studi Senesi» 104 III serie 41 (1992) fasc. 3, 457-503. 5 2. Le associazioni ipertestuali: il Memex Il termine ‘ipertesto’ venne per la prima volta utilizzato da T.H. Nelson, che ne diede anche una prima definizione: «Un ipertesto è la combinazione di un testo in linguaggio naturale con la capacità del computer di seguire interattivamente, visualizzandole in modo dinamico, le diverse ramificazioni di un testo non lineare, che non può essere stampato convenientemente con una impaginazione tradizionale»6. Nelson riprendeva un’idea di Vannevar Bush, consigliere scientifico di Roosvelt, che nel 1945, in un saggio dal titolo ‘As we may think’ proponeva il ricorso ad un nuovo sistema di stoccaggio e di reperimento veloce delle informazioni, per far fronte al sempre crescente numero di dati che sovrastavano gli studiosi di ogni campo (e i dirigenti dello stato). Il sistema, ‘Memex’, consisteva di un dispositivo elettromeccanico che consentiva di consultare i documenti, prendere appunti e stabilire collegamenti tra due o più elementi qualsiasi in un esteso sistema testuale. Bush scriveva: «La mente umana opera in base ad associazioni. Non si può sperare di riuscire a duplicare appieno con mezzi artificiali questo processo mentale ma certo si può studiarlo con profitto. Non si può sperare di uguagliare la velocità e la flessibilità con cui la mente umana segue una serie di associazioni, ma dovrebbe senz’altro essere possibile superare la mente umana per quanto riguarda la permanenza e la chiarezza degli elementi evocati dalla memoria»7. Scopo fondamentale del Memex è selezionare le informazioni per ‘associazione’ anziché per ‘indicizzazione’: «Quando numerosi elementi sono stati congiunti in questo modo a formare una pista… è esattamente come se gli elementi fisici fossero stati raccolti da fonti disparate e quindi rilegati assieme a formare un nuovo libro… Ogni singolo elemento può essere inserito all’interno di numerose piste… Appariranno enciclopedie di concezione radicalmente nuova dotate di una trama di piste associative che le attraversano, pronte per essere inserite nel Memex e lì arricchite di altre conoscenze». Dalla visione di Vannevar Bush consegue una nuova idea di testo, flessibile e aperto, ma anche soggetto alle esigenze di ciascun lettore: il testo è la singola unità di lettura che costituisce un’opera tradizionale; è l’insieme di queste opere; è l’insieme di documenti creati per mezzo di collegamenti e associazioni; è forse anche solo il collegamento e l’associazione senza il documento allegato8. 3. L’apparato: struttura ipertestuale Ma torniamo all’apparato accursiano. La struttura letteraria dell’apparato si coglie meglio nel raffronto con le summae. Queste conservano una struttura lineare e, pur riferendosi al testo normativo, circolano autonomamente da esso, rendendo meno agevole la ricerca e la gestione delle informazioni. Nell’apparatus, poi, testo non lineare e frammentario, è difficile distinguere le parti più importanti da quelle meno importanti: tutti gli elementi tendono a porsi sullo stesso livello gerarchico; non così nelle summae o nella Lectura odofrediana, le cui strutture narrative lineari inevitabilmente finiscono per segnare le parti più importanti e le parti meno significative. L’apparato accursiano richiama la descrizione del testo ideale di Roland Barthes: «In questo testo ideale le reti sono multiple e giocano fra loro senza che nessuna possa ricoprire le altre; questo testo è una galassia di significanti, non una struttura di significati; non ha inizio; è reversibile; vi si accede da più entrate di cui nessuna può essere decretata con certezza la principale; i codici che mobilita si profilano a perdita d’occhio, sono indecidibili…; di questo testo assolutamente plurale i 6 In Getting it out of our system, in Information Retrieval: A critical review, G. Schechter ed. (Washington D.C. 1967). La citazione è tratta da G. Mauri, La struttura degli ipertesti, in Oltre il testo: gli ipertesti, M. Ricciardi cur. [Milano 1994] 192. 7 In «Atlantic Monthly» 176 (July 1945) 101-108 (trad. ital. in Mauri, La struttura degli ipertesti 190 e in T.H. Nelson, Literary Machines [Swarthmore, Pa. 1981; trad. ital. Padova 1992]). 8 Sull’ipertesto in generale nelle teorie letterarie e nelle nuove tecnologie cfr. G.P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura (Bologna 1993; trad. ital. dell’ediz. Baltimore 1992). 6 sistemi di senso possono sì impadronirsi, ma il loro numero non è mai chiuso, misurandosi sull’infinità del linguaggio»9. Utilizzando la ricchissima eredità della scuola dei glossatori, Accursio imbriglia il testo giustinianeo in un fitto reticolo di rinvii interni che ordina e connette le diverse sedes materiae. La navigazione dell’utente nel mare magnum della compilazione giustinianea è costantemente orientata dalla complessa rete di riferimenti interni e di puntuali spiegazioni che innerva il testo giustinianeo e consente una rapida e immediata, ma non meno approfondita, conoscenza della legge. L’apparato costituisce un intelligente e raffinato programma di reperimento e di gestione delle informazioni e assiste costantemente il giurista nella ricognizione delle fonti. Ancora Roland Barthes: «La nostra letteratura è segnata dal divorzio inesorabile mantenuto dall’istituzione letteraria fra il fabbricante e l’utente del testo, il proprietario e il cliente, l’autore e il lettore. Questo lettore si trova allora immerso in una sorta di ozio, d’intransitività, e, per dir tutto, di serietà: invece di essere lui a eseguire, invece di accedere pienamente all’incanto del significante, alla voluttà della scrittura, non gli resta in sorte che la povera libertà di ricevere o di respingere il testo: la lettura si riduce a un referendum. Rispetto al testo scrivibile si definisce così il suo contro-valore, il suo valore negativo, reattivo: ciò che può essere letto, ma non scritto: il leggibile. Noi chiamiamo classico ogni testo leggibile»10. L’ipertesto invece scuote il lettore dal suo torpore e lo coinvolge nella lettura-scrittura, o meglio nella lettura-riscrittura del testo: il metatesto, cioè l’insieme di documenti collegati, non ha un centro fisso, non è organizzato lungo un asse principale, bensì può essere sempre ricentrato e riorganizzato a seconda degli interessi del lettore. «L’ipertesto viene vissuto come un sistema infinitamente decentrabile e ricentrabile, in parte perché l’ipertesto trasforma qualsiasi documento che ha più di un collegamento in un centro transitorio, in un documento-indice che il lettore utilizza per orientarsi e per decidere dove andare in seguito… Tutti i sistemi ipertestuali consentono al singolo lettore di scegliere il proprio centro di indagine e di esperienza»11. La rete di puntatori interni dell’apparato ordina il testo giustinianeo in modo tale da correggere errori di navigazione dell’utente-interprete: se è facile disorientarsi e smarrirsi nel vasto Corpus Iuris Civilis, è altrettanto agevole ritrovare l’orientamento seguendo i percorsi logico-ordinatori proposti nell’apparato. Supponiamo, per esempio, che, in fase di ricognizione delle fonti riguardanti una data materia, il giurista muova la sua ricerca da alcune sedes materiae non perfettamente centrate rispetto alle sue esigenze: percorrendo i canali di connessione interni suggeriti nell’apparato in quella sedes materiae, riuscirà a trovare le fonti di cognizione più adatte al suo scopo. Naturalmente l’apparato presenta anche gli aspetti negativi tipici dell’ipertesto. Da un lato il cosiddetto ‘sovraccarico cognitivo’: considerata la mole di informazioni dell’ipertesto-apparato, l’utente-giurista deve scegliere quali percorsi seguire e quali tralasciare. Nei testi tradizionali il lettore-interprete non è chiamato a questo sovraccarico di attività decisionale, perché l’autore, procedendo ‘linearmente’, ha già effettuato gran parte di queste scelte12. Dall’altro la possibilità di ‘disorientamento’ per l’utente-giurista: la quantità di itinerari proposti dall’ipertesto-apparato può far perdere all’utente-giurista la cognizione della posizione in cui si trova all’interno della rete-corpus, o può fargli dimenticare i percorsi attraverso cui è giunto in quella posizione, o, ancora, può confonderlo circa la scelta della direzione in cui proseguire la navigazionericerca. Il superamento della linearità testuale, caratterizzante l’ipertesto, comporta, inevitabilmente, una modificazione dei concetti di inizio e fine di un testo. Infatti, se è vero che la caratteristica peculiare dell’ipertestualità non è l’assenza totale di linearità e di sequenza ma, piuttosto, la presenza di sequenze molteplici, è anche vero che essa fornisce molti inizi anziché uno solo e, di conseguenza, molte fini. Più precisamente si può affermare che l’ipertesto offre almeno due tipi di inizio. Quando il lettore si trova di fronte al materiale ipertestuale deve cominciare a leggere da qualche punto, deve, cioè, scegliere da quale lessìa incominciare la sua indagine; e il punto scelto è, 9 R. Barthes, S/Z (Paris 1970; trad. ital. Torino 1973) 11. 10 Barthes, S/Z 10. 11 Landow, Ipertesto 15-17. 12 Il superamento della linearizzazione, per quanto sia un grande mutamento, è avvertito dai più come un dato pericoloso perché costituisce l’abbandono di un fatto naturale. Tuttavia c’è chi ricorda che la struttura lineare dei libri non è affatto naturale ma, anzi, è del tutto innaturale se ci sono voluti secoli per crearla: cfr. Landow, Ipertesto 29. 7 per lui, un inizio in un duplice senso: inizio del blocco di testo prescelto e inizio della sua navigazione ipertestuale. È chiaro che moltiplicandosi i lettori di un ipertesto si moltiplicano i possibili inizi di esso perché ciascun lettore può scegliere di leggere per prima una qualsiasi delle lessìe che compongono il metatesto. Naturalmente l’ipertesto cambia anche la nostra concezione della fine di un testo. Infatti, non solo i lettori possono scegliere diversi punti come fine del testo ma possono, anche, espanderlo aggiungendovi ulteriori idee e concetti correlati e renderlo, in sostanza, qualcosa di diverso da ciò che era quando hanno iniziato a leggerlo. Di conseguenza le idee convenzionali di compiutezza e di prodotto finito non trovano riscontro nell’ipertesto. A tale proposito Jacques Derrida osserva che una forma di testualità che superi la stampa «ci costringe ad ampliare... la nozione prevalente di testo cosicché esso non è più un corpus finito di scrittura, un contenuto inserito in un libro o all’interno dei suoi margini, ma una rete differenziata, un tessuto di tracce che fanno incessantemente riferimento a qualcosa di altro da sé, ad altre tracce differenziali»13. 3. Un ipertesto per la scuola e per i pratici. Formazione e tradizione di un testo “vivo” e “aperto” La Glossa ordinaria nasce a Bologna e là conosce il suo primo successo. Gli studi antichi e recenti sull’ordine cronologico della redazione degli apparati accursiani concordano nell’affermare che la Glossa al Codex fu completata sul finire del terzo decennio del ’20014. In quegli anni, l’apparato, ancora in una stesura non definitiva e consolidata, venne trascritto o su manoscritti ‘nuovi’, non ancora utilizzati, che non recavano tracce di attività scolastiche precedenti, o anche su manoscritti che si riteneva opportuno e conveniente ‘aggiornare’ con la Glossa accursiana e che già contenevano testimonianze meno recenti dello studio del diritto15. Tra gli esemplari del Codex corredati dell’apparato accursiano e utilizzati nelle scuole giuridiche nei decenni tra la redazione della Glossa e la metà del Trecento si possono distinguere i codici ‘nuovi’ dai codici ‘aggiornati’; ma è anche utile e necessario distinguere i codici che documentano uno stato dell’apparato non ancora definito e completo e i manoscritti nei quali l’apparato è già assurto alla dignità di un testo in forma vero e proprio16. È ragionevole e naturale presumere, ed il problema è stato anche oggetto di studio, che l’apparato accursiano, prima di raggiungere una sua definitiva consolidazione, abbia attraversato una fase di ‘fluidità’ scandita da diverse redazioni; ma prima di trarre qualunque conclusione circa le diverse redazioni e la datazione della Glossa accursiana deve riflettersi sulle tecniche di trasmissione degli apparati e su alcuni dati offerti dai manoscritti17. 13 J. Derrida, Living on, in Deconstruction and criticism (London 1979, trad. it. ‘Sopra-vivere’, Milano 1982) 34. 14 Di tutti dà notizia P. Fiorelli, Accorso, in Dizionario Biografico degli Italiani 1 (Roma 1960) 119 nella bibliografia completa fino al 1960. Di lì a poco vennero pubblicati negli Atti del Convegno internazionale di studi accursiani (Bologna, 21-26 ottobre 1963), G. Rossi cur. (Milano 1968) i contributi di G. Astuti, La ‘Glossa’ Accursiana 288-379, e G. Gualandi, Un gustoso episodio della vita di Accursio 477-492. Da ultimo, V. Valentini, L’ordine degli apparati accursiani in una notizia di Angelo degli Ubaldi, in «Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis» 53 (1985) 99-134; F.P.W. Soetermeer, L’ordre chronologique des apparatus d’Accurse sur les libri ordinarii, in Historia del derecho privado, Trabajos en homenaje a Ferran Valls I Taberner con ocasión del centenario de su nascimento, a cura di M. J. Peláez, X (Barcelona 1989); G. Diurni, La Glossa Accursiana: stato della questione, in El dret er comú i Catalunya. Actes del I Simposi Internacional, Barcelona 25-26 de maig de 1990 (Barcelona 1991) 82-87. Sul punto, cfr. anche G. Speciale, La Memoria del Diritto Comune. Sulle ‘tracce d’uso’ del Codex di Giustiniano (secoli XII-XV) (Roma, 1994) 41 e ss.; Id., Francesco d'Accursio e la trasmissione della Magna Glossa. Un contributo dal codice di Gand, Bibliothek der Rijksuniversiteit, 21, in «Rivista Internazionale di Diritto Comune» 6 (1995) 191-215. 15 Cfr. Speciale, La memoria del diritto comune 41 e ss. e la letteratura ivi citata. 16 Cfr. M. Bellomo, Sulle tracce d’uso dei «libri legales», in Civiltà Comunale: Libro, Scrittura, Documento. Atti del Convegno, Genova, 8-11 novembre 1988 (Genova 1989) 39. 17 Sul problema delle diverse redazioni condivido la prudente posizione di G. Astuti, La ‘Glossa’ Accursiana, in Atti del Convegno internazionale di studi accursiani (Bologna, 21-26 ottobre 1963), G. Rossi cur. (Milano 1968) 290-310. G. Dolezalek, 8 Vi è un gruppo di codici accursiani del secolo XIII che presentano integrazioni e correzioni all’apparato di cui sono corredati: questo ci porta a concludere che si tratta di apparati incompleti o non definitivi, almeno rispetto all’apparato standard confluito nelle edizioni a stampa. Ma non si dimentichi che notevoli e numerose — come è noto — sono anche le varianti tra le diverse edizioni a stampa: per esempio tra l’edizione incunabola veneziana del 1488 e la cinquecentina Venezia 157418. Talvolta tali varianti riflettono significativamente le differenze presenti nei manoscritti. Alcuni dei codici, pur essendo testimoni di un apparato incompleto e non definitivo, continuano a ‘vivere’ nelle scuole per oltre un secolo. Gli utilizzatori di questi volumi sembrano animati da due atteggiamenti distinti: da un lato sono preoccupati di integrare l’apparato presente nel manoscritto e a tal fine aggiungono additiones che, o sono anonime, o sono chiuse dalla sigla dello stesso Accursio o di suo figlio Francesco; dall’altro sono impegnati nel tutelare e garantire l’autenticità dell’apparato e si adoperano per espungere glosse ritenute spurie. Deve tenersi presente, però, che il controllo, teso ad assicurare la completezza e l’aggiornamento o a tutelare l’autenticità dell’apparato presente in un codice, è effettuato attraverso un’opera di collazione con altri manoscritti che per varie ragioni sono ritenuti più completi e «fededegni»19: o perché sono stati approvati dallo stesso Accursio; o perché sono stati esemplati a loro volta da un codice ritenuto corretto, completo e autentico per essere stato utilizzato nella scuola di Accursio, o di uno dei suoi figli, o di un giurista comunque vicino al glossatore fiorentino. Così, sull’apparato si interviene con correzioni, integrazioni, espunzioni. La trasmissione delle informazioni sull’apparato è legata a strumenti e a tecniche che lasciano un ampio margine all’errore e che non garantiscono sempre il raggiungimento dell’obbiettivo per cui ci si muove: la tutela dell’autenticità dell’apparato. «La tradizione delle scritture esegetiche medievali — osserva Caprioli — si pone come un processo di trasmissione nel quale non sono separati i due momenti: della formazione d’un testo ricevuto, e dell’attestazione di quella scrittura che appunto per via di trasmissione viene ricevuta»20. E all’inadeguatezza degli strumenti di trasmissione, di per sé sufficiente a provocare disfunzioni, deve aggiungersi l’opera di chi volutamente cerca di gabellare come accursiane glosse che accursiane non sono. Infatti, se da un lato l’autorità e il prestigio della glossa accursiana muovono chi vuole integrare e garantire l’autenticità dell’apparato, dall’altro attirano anche chi vuole inserire proprie glosse nell’apparato per farle assurgere ad alta dignità. Tutto il lavorìo che impegna i fruitori del codice intorno all’apparato è assai interessante per la ricostruzione delle vicende della formazione dell’apparato stesso, che certamente non possono Repertorium manuscriptorum veterum Codicis Iustiniani, unter Mitarbeit von L. Mayali (Frankfurt am Main 1985) I 512-514 distingue varie redazioni dell’apparato accursiano che corrispondono a diversi stadi di consolidazione. 18 Si tratta, rispettivamente, di un’edizione del 1488 di Giovanni Battista de Tortis e di un’edizione del 1574 del consorzio formato nel 1569 da Francesco De Franceschi, Gaspare Bindoni, Nicolò Bevilacqua, Damiano Zenari. I quattro soci si individuano nel frontespizio per il marchio che appositamente si diedero per questo consorzio: in esso sono raffigurati i simboli che contrassegnarono anche le edizioni individuali di ciascun socio. Sono la raffigurazione della pace, una mano che regge un candelabro, la raffigurazione della pazienza, una salamandra che brucia. Nel marchio sono riprodotte anche le iniziali dei quattro soci: F.S. G.B. N.B. D.Z. (Francesco De Franceschi soleva farsi chiamare Francesco Senese). Quando il Corpus Iuris Civilis fu stampato nel 1574 già Nicolò Bevilacqua si era trasferito a Torino da due anni, chiamato dal duca Emanuele Filiberto, e la sua stamperia veneziana era retta dal genero Francesco Ziletti. Sul consorzio cfr. L. Baldacchini, De Franceschi, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani 36 (Roma 1988) 30-35. 19 Come si vedrà, il termine «fededegno» mal si presta a essere utilizzato in riferimento alla tradizione manoscritta dell’apparato accursiano, la cui trasmissione è unitaria; in questo caso l’individuazione di testimoni più fededegni è impossibile: così S. Caprioli, Per uno schedario di glosse preaccursiane. Struttura e tradizione della prima esegesi giuridica bolognese, in Per Francesco Calasso. Studi degli allievi (Roma 1978) 120-122. 20 Caprioli, Per uno schedario 122. Esemplificano efficacemente la trasmissione A.M. Stickler, Problemi di ricerca e di edizione per Uguccione da Pisa e nella decretistica classica, in Congrés de Droit Canonique Médiéval. Louvain et Bruxelles 22-26 Juillet 1958 (Bibliothéque de la Revue d’Histoire Ecclésiastique 33; Louvain 1959) 111-128; Id., La genesi degli apparati di glosse dei decretisti presupposto fondamentale della critica del loro testo, in La critica del testo (Atti del secondo congresso internazionale della Società Italiana di Storia del diritto; Firenze 1971) t. II 772-781 e G. Fransen, Les gloses des canonistes et des civilistes, in Les Genres Littéraires dans les sources théologiques et philosophiques médiévales (Université Catholique de Louvain. Publications de l’Institut d’études médiévales II série, vol. 5; Louvain la Neuve 1982) 135. 9 ridursi e costringersi nei rigidi schemi costituiti dalle diverse ‘redazioni’. Ritengo che si adatti bene all’apparato accursiano e che sia completamente da condividere quanto Stickler ha affermato in relazione agli apparati dei decretisti: «Il problema fondamentale particolare è di accertare non tanto un testo definitivo ultimo, sia sotto l’aspetto della critica di origine come sotto quello della conservazione; ma piuttosto di trovare ed accertare le varie fasi e forme di sviluppo attraverso le quali il testo ‘vivo’ è passato fino alla forma definitiva, prima o ultima, se questa esiste. E ciò nuovamente riguardo sia all’origine o all’autore sia alla conservazione o alla formulazione»21. Ma la trasmissione degli apparati è di sicuro interesse anche per un aspetto più generale che coinvolge i giuristi di scuola e gli studenti: il problema della tutela della paternità delle glosse, o, in altri termini, il problema del plagio22. Si può dire anzi che proprio l’attenzione per l’autenticità delle glosse costituisce un momento importante per chiarire quale sia stato l’atteggiamento dei glossatori nei confronti dei problemi della tradizione testuale. Convince la chiave di lettura in termini di ‘tradizione unitaria’ proposta da Caprioli per l’età e l’ambiente dei giuristi medievali. Convince perché adatta ad un’età e ad un ambiente ‘precritici’ e perché coerentemente fondata sulla considerazione qui sopra richiamata: cioè l’esegesi dei maestri del diritto circola con tecniche e mezzi che non consentono di distinguere la formazione dell’atto esegetico dalla tradizione dello stesso. Ne consegue che l’apparatus è un testo ‘vivo’, non definito, per sua natura ‘contaminato’ e quindi ‘aperto’23. Anche per questi aspetti sembra convincente il parallelo tra apparato e ipertesto. Può anche parzialmente estendersi all’apparato quanto George P. Landow afferma circa gli effetti dell’ipertesto multimediale sulla concezione stessa della proprietà individuale, sul valore gerarchico del testo e del corredo di note, sul metatesto in generale: «La presenza di molteplici percorsi di lettura, che modifica l’equilibrio fra il lettore e l’autore, creando così il testo leggibile di Barthes, crea anche un testo che, rispetto al testo stampato, è molto meno indipendente dai commenti e dalle tradizioni. Questa specie di democratizzazione non soltanto riduce la separazione gerarchica fra il cosiddetto testo principale e la nota, che ora esistono entrambi come testi, unità di lettura o lessìe indipendenti, ma offusca anche i confini dei singoli testi. Il collegamento elettronico riconfigura così la nostra esperienza della proprietà intellettuale e del diritto d’autore, e la riconfigurazione di queste idee presumibilmente contagerà le nostre idee sia sugli autori (e sull’autorità) dei testi che studiamo, sia su noi stessi in quanto autori»24. Strutturalmente l’ipertesto è un ‘testo aperto’. «Si ha un testo aperto quando l’autore… decide sino a che punto deve controllare la cooperazione del lettore, e dove essa va suscitata, dove va diretta, dove deve trasformarsi in libera avventura interpretativa»25. L’autore di un testo aperto costruisce il suo lettore-modello scegliendo i gradi di difficoltà linguistica del testo, la ricchezza dei riferimenti e inserendo nel testo chiavi, rimandi, possibilità variabili di letture incrociate. Tutto ciò conduce, nelle aspirazioni dell’autore, ad un risultato strategico che esalta la cooperazione attiva del lettore: per quante interpretazioni siano possibili, l’una riecheggerà l’altra, così che non si escluderanno mai ma anzi si rafforzeranno a vicenda. Un testo aperto, in sostanza, postula quel processo interattivo di lettura che nell’ipertesto è una caratteristica fisiologica ineliminabile. L’assimilazione di un testo aperto all’ipertesto dipende 21 Stickler, La genesi 776. 22 Stickler, La genesi 774, riprendendo il suo studio sui Problemi di ricerca e di edizione 114 ss., chiarisce che «il concetto di proprietà letteraria allora non era quello di oggi: oltre ad essere frutto del singolo era considerata anche frutto e possesso di tutta la scuola e perciò non era difficile che una glossa con la sua dottrina, una volta assunta da un glossatore posteriore, cominciasse ad essere tramandata sotto il suo nome, soprattutto se questo era una forte personalità o se aveva una grande autorità o se era autore di una nuova opera di sintesi, di un nuovo apparato che superava, per contenuto e forma, altre opere simili precedenti». 23 Per una completa e approfondita analisi del problema, cfr. Caprioli, Per uno schedario 120-126. Suggerimenti fondamentali per la comprensione del processo di canonizzazione dei testi si trovano nelle classiche opere di J. de Ghellinck, Le mouvement théologique du XIIe siècle (Bruges 19482) 472-499 e M.-D. Chenu, La théologie au douzième siècle (Paris 19662) 351-365. 24 Landow, Ipertesto 29. 25 U. Eco, Lector in fabula (Milano 1991) 58. 10 dall’analogia delle loro strutture letterarie. Del resto la conferma che l’ipertesto è un iper-testo aperto viene, anche, dall’uso che del termine nodo, proprio dell’ipertesto, si fa nella teoria testuale. I nodi o «giunti», secondo questa teoria, sarebbero i punti del testo in cui è attesa e stimolata la cooperazione del lettore modello. Più precisamente ad un certo punto del testo l’autore inserisce un’espressione o un termine che sviluppano o aprono nuove prospettive narrative e che stimolano il lettore a integrare con la sua competenza enciclopedica e la sua intelligenza il loro significato minimo. Ne consegue che un testo strutturato a nodi si presta a diversi livelli di lettura a seconda del grado di cooperazione che il lettore riesce ad attuare, a seconda, cioè, della capacità che ha il lettore di rispondere allo stimolo creativo che suscita il testo quando la lettura è giunta ad un nodo. Le teorie letterarie, inoltre, quando propongono un modello di testo ideale o tipo lo rappresentano come una serie di nodi e lo descrivono in termini di livelli strutturali concepiti come stadi ideali di un processo di generazione e di interpretazione. Questa nozione di livello testuale, tuttavia, ha suscitato continue discussioni. Si è detto, per esempio, che un testo in quanto manifestazione lineare non ha livelli e che le fasi interpretative che si attuano per attualizzare l’espressione testuale non necessariamente riflettono le fasi generative attraverso le quali un progetto testuale è divenuto espressione26. Così l’accostamento dell’apparato all’ipertesto trova un’altra conferma anche da un ulteriore punto di vista: se si guarda, cioè, non solo e non tanto alla struttura ‘finale’ dell’apparato e ai suoi meccanismi di funzionamento, quanto alle vicende della sua formazione-tradizione. L’apparatusipertesto può considerarsi un’opera a più mani: Accursio segna dei percorsi interpretativi di corredo alle norme giustinianee avvalendosi anche di glosse di altri glossatori. La tradizione manoscritta dell’età ‘precritica’ fa sì che l’apparato sia – come si è già detto – un testo ‘vivo’, non definito, per sua natura ‘contaminato’. La struttura dell’apparato produce due effetti fondamentali: uno riguarda l’autore (Accursio o altro giurista) delle glosse confluite nell’apparato-ipertesto, l’altro il testo stesso dell’apparato. L’autore (Accursio o altro giurista) rischia di perdere il controllo dei bordi e dei confini del suo testo e il testo si atomizza in lessìe o blocchi di testo che sono unità di lettura autosufficienti perché dipendono sempre meno da ciò che viene prima e dopo di esse secondo la successione lineare della loro versione originale. L’atomizzazione del testo nella sua versione ipertestuale comporta che ogni sua singola lessìa può essere associata ad un testo creato da altri autori. La conseguenza di questa possibilità è che si dissolve l’idea della separazione intellettuale di un testo dagli altri e che il testo si disperde in altri testi. Infatti, quando la lessìa di un ipertesto, per via del collegamento a lessìe di un altro testo, perde la sua appartenenza all’ambito testuale originario, si crea un’intertestualità che supera il concetto dell’unicità del testo e del suo autore che sono i cardini della cultura a stampa27. 26 Sul processo interattivo nella lettura e sui livelli testuali cfr. Eco, Lector, in particolare 60 e ss. 27 Landow, Ipertesto 64-66. Il problema è ancora più acuto per i testi elettronici. Diversamente dal testo stampato, che è caratterizzato dalla stabilità spaziale, il testo elettronico presenta continue variazioni perché di esso, in quanto combinazione variabile di blocchi di testo, non esiste una versione finale e definitiva. Un testo elettronico, inoltre, deve la sua dinamicità alle correzioni, agli aggiornamenti e alle altre modifiche che ad esso, in ogni tempo, possono apportarsi. Il dato peculiare caratterizzante il testo elettronico è, quindi, l’abbandono della stabilità che caratterizza la stampa. 11 La categoria storica del diritto commerciale Intendo iniziare proprio trattando del diritto commerciale nell’età delle codificazioni. Per ora non soffermiamoci sul significato del termine diritto commerciale e accontentiamoci di usare le espressioni diritto commerciale, ius mercatorum, ius mercantile, lex mercatoria in senso lato come sinonimi. Basti qui dire che il modello romano di regolamentazione giuridica dei fatti legati al commercio sopravvive nell’Alto medio evo prima di essere profondamente mutato dalle nuove realtà economiche e sociali dei secoli XI-XII nei quali si impone la cd. «rivoluzione commerciale». Fissiamo al sec. XII il momento iniziale della vicenda del diritto commerciale come ramo speciale del diritto e al Code de Commerce del 1807 (forse Ordonnance del 1673 o unificazione del diritto privato inglese del 1700) il momento finale di una fase che se pure ricca di articolazioni interne può considerarsi unitaria nelle sue linee generali. Il problema definitorio del diritto commerciale si risolve quindi nel confronto con il dir. civile, sia nel mondo medievale che in quello moderno e negli stessi termini si porrà nell’età delle codificazioni. Qui si confrontano due correnti di pensiero: chi vuole conservare un’autonomia del diritto commerciale, chi vuole unificare il dirittto civile e commerciale. Ripercorriamo le vicende del diritto commerciale proprio a partire dall’età delle codificazioni, dal Code de commerce del 1807. Cogliamo nelle vicende di questi due ultimi secoli le ragioni dell’interesse per il diritto commerciale. La lex mercatoria – il diritto commerciale – non è solo una categoria storica, non è solo una vicenda del passato da ricostruire nel rapporto con le parallele vicende storico-politiche, storico-economiche e storico sociali, ma è anche la chiave di comprensione di una originale realtà presente, ancora tutta da analizzare. Da qualche anno per la crescente internazionalizzazione dei mercati e la sempre più intensa circolazione transnazionale della ricchezza, si assiste al sorgere di quella che viene definita come una nuova lex mercatoria, dotata della medesima vocazione universale, destinata al pari dell’antica a reggere in modo uniforme, al di là di ogni confine nazionale, l’intero mercato internazionale. Guardiamo allora all’età delle codificazioni. Il Code de commerce del 1807 è il primo dei codici di commercio nell’età delle codificazioni (anche se siavvale dei risultati di commissioni di lavoro prerivoluzionarie): già nell’iter di redazione e approvazione si fronteggiano due mentalità: quella dei legisti civilisti che vogliono limitare la specialità del diritto commerciale a pochi istituti, sostenendo anche che l’interesse dei commercianti non coincide con l’interesse di tutti i cittadini e quelle dei giuristi assai vicini ai mercanti che ritengono che l’interesse dei mercanti coincida con l’interesse generale dei cittadini. Illustrando al corpo legislativo il primo libro del Code de commerce del 1807 il consigliere di stato Regnaud de Saint Jean d’Angely pone in risalto che al Code de commerce si assegna un destino più vasto che non al Code civil e sottolinea che il codice di commercio dell’Impero francese è redatto secondo principi che gli danno una influenza e una rilevanza universale, principi adatti a tutte le nazioni commerciali, in armonia con le grandi consuetudini commerciali, principi che abbracciano e sottomettono i due mondi. Regnaud esprime lucidamente il carattere della UNIVERSALITÀ del diritto commerciale, cioè la sua asserita attitudine ad espandersi, come diritto uniforme, oltre ogni confine nazionale. Sulla stessa scia le vicende tedesche della seconda metà dell’Ottocento: nel 1861 un codice commerciale si rivolge a tutta l’area tedesca, inclusa l’Austria, precedendo l’unificazione dell’area germanica sotto un comune codice civile. Negli stessi anni si procede a una sistemazione scientifica del diritto commerciale (sul codice francese si era esercitata solo l’esegesi): sistemazione scientifica, conoscenza storica e politica del diritto commerciale sono in questo periodo in stretto rapporto fra loro, connessi dalla unità del disegno culturale. Levin Goldschmidt, che dominò la scena della commercialistica tedesca della fine dell’Ottocento, attribuisce i caratteri della universalità e della specialità sia al diritto commerciale storico, sia al diritto commerciale positivo, sia al diritto commerciale da fondare. 12 Goldschmidt propugna, sul piano della politica del diritto, la separazione del codice di commercio dal codice civile, ritenuto strumento fondamentale e imprescindibile per le esigenze dell’espansione economica della Germania. Alla specialità associa l’universalità, cioè l’applicabilità universale (mentre il diritto civile non può in genere superare un certo confine territoriale). Sulla universalità fonda il progetto di mercato mondiale, sorretto dalle norme certe e uniformi di un diritto commerciale cosmopolita. Abbiamo colto il carattere della UNIVERSALITÀ nelle parole di Regnaud e nel codice di commercio tedesco. Guardiamo ora al carattere della SPECIALITÀ. La SPECIALITÀ si coglie, in ambito endostatuale, nei confronti della restante normazione statuale e, nell’ambito del diritto privato, nei confronti del diritto civile. Se osserviamo la storia del diritto non tardiamo a cogliere la frequenza con cui nell’ambito del diritto privato a un sistema tradizionale si contrappongono istituti che concorrono con quelli del diritto tradizionale fino a costituire eventualmente un diritto detto, nella sua organicità, speciale, nei confronti del diritto comune. Quando si parla, in relazione a tale diritto, di «equità» l’espressione non significa «giustizia del caso concreto» o «regola di un diritto sociale in contrapposizione allo statale», bensì emersione, dapprima limitata, e poi storicamente sempre più ampia, di nuove valutazioni e nuovi principi, invocati dapprima supplendi vel corrigendi gratia il diritto tradizionale e poi in modo sempre più ampio, finché nello sviluppo storico, regole dapprima dette eccezionali, poi sistematizzate come diritto speciale, non arrivano esse a costituire il diritto generale e comune nei cui confronti le contrastanti regole del vecchio diritto tradizionale finiscono per assumere a volte quasi il carattere di relitti storici, di fronte ad un sistema ormai generalmente ispirato a quelli che all’inizio dello sviluppo erano temperamenti equitatitivi. Ius civile e ius honorarium nel diritto romano; common law ed equity nella common law [esempi: hereditas e bonorum possessio; esecuzione specifica; pretore e cancelliere]. La dicotomia assolve ad una precisa funzione: conciliare la rigidità, che è anche certezza, del diritto comune, con la necessità di duttilità e adeguamento. La distinzione tra un sistema tradizionale e istituti che concorrono con gli istituti del sistema tradizionale permette di conciliare l’adozione di nuovi principi con un cammino lento e sperimentale, che dà modo di saggiarli, introducendoli dapprima in alcuni settori e poi in altri, ammettendo sì, in via astratta, una loro generale applicabilità e forza di espansione, ma applicandoli inizialmente solo là dove ne è più vivo il bisogno. È il tempo che permetterà la lenta espansione di principi che possiamo dire storicamente speciali (proprio perché la loro applicazione, pur essendo in via di principio possibile in via generale, è limitata ad un ambito determinato). Tali principi poi si stabilizzeranno ed estenderanno la loro portata fino a fondersi nel sistema generale. La vicenda del diritto commerciale, sin dalla sua formazione, è assai significativa. Scaturito dalle esigenze del commercio e dell’artigianato dei comuni medievali italiani, frutto dell’incontro felice tra l’iniziativa del mercante e la fantasia creatrice del notaio nell’ambito delle corporazioni di mestiere, il nuovo diritto con i suoi istituti… si è formato anzitutto nella vita quotidiana dei commerci. Esso è divenuto consuetudine, e come tale si è affermato in Europa… ben prima che leggi e dottrina lo accogliessero e lo rielaborassero… Di questa centralità della prassi — «il diritto che viene su dalle cose», secondo la celebre espressione di Cesare Vivante — la storia stessa della legislazione offre numerose conferme… Un aspetto tra i più significativi tra quelli che l’indagine storica rivela, consiste proprio nella perdurante apertura transnazionale del diritto commerciale, nella continua circolazione di modelli legislativi… avvenuta all’interno del continente…» Il diritto commerciale di questo periodo (medioevo) — afferma Tullio Ascarelli — ci presenta appunto l’enucleazione di una normativa il cui centro è costituito dallo scambio e dal mercato e che già acquista (nonostante il criterio soggettivo della sua applicazione) un valore proprio, distinguendosi così da un mero diritto di classe e dalla disciplina interna delle corporazioni e dei suoi membri, di importanza prevalente nelle corporazioni di mestiere… La formazione, originariamente italiana, è sostanzialmente uniforme nel campo internazionale e indipendente da 13 limiti di frontiera, sì che lo Stracca parlerà non a torto di un nuovo ius gentium». Il giurista deve quindi ‘filtrare’ e ‘decodificare’ la dimensione economico-giuridica del mercante — e non solo sul piano della terminologia, che pur essendo importante non è neppure il più significativo —, e «decidere poi quello che riguarda l’essenza e la qualità delle obbligazioni, che dipendono solamente da articoli legali… [e] ridurre il caso, che accade in pratica, a quella specie di contratto che meglio pare adattarglisi» A proposito dell’universalità e della specialità del diritto commerciale deve sottolinearsi la singolare vicenda del diritto commerciale in Inghilterra. Il diritto commerciale europeo, in gran parte elaborato e creato nelle città dell’Italia centrosettentrionale, penetra in Inghilterra, terra di common law. Nel campo del diritto commerciale non esiste tra Inghilterra e resto dell’Europa quella contrapposizione che esiste nel campo del diritto civile: cioè la contrapposizione tra common law, diritto nazionale comune inglese con uno sviluppo casistico, formatosi ad opera dei giudici del re, e diritto comune continentale a impronta romano-giustinianea. Utilizzando un’abusata espressione può dirsi che il diritto commerciale europeo, di origine italiana, è recepito in Inghilterra, terra di common law, e che solo nel secolo XVIII viene fuso e inquadrato nella common law (ad una prima sistemazione inglese del diritto commerciale provvede Malynes nel 1622). Universalità del diritto commerciale quindi se si considera la penetrazione del diritto commerciale in Inghilterra, cioè in un’area regionale estranea e diversa rispetto a quella in cui il diritto commerciale si è formato. Specialità del diritto commerciale se si guarda alla coesistenza nell’ambito dell’ordinamento inglese di un sistema di common law, di forte matrice consuetudinaria e casistica (contrapposto al diritto comune europeo di forte impronta sistematica e ‘romanistica’), e di un sistema di diritto commerciale che per le sue origini regionali e culturali non può non considerarsi di ‘derivazione romanistica’. Con l’espressione ‘derivazione romanistica’ non si vuole certo dire che il diritto mercantile medievale affonda le radici nel diritto romano: piuttosto si vuole sottolineare che il diritto mercantile medievale, lo ius novum mercantile, consuetudinario e statutario, inventato dai mercanti medievali, dovette fare i conti con le architetture formali, le strutture logiche, i principi, che la scientia iuris medievale elaborò studiando il diritto comune, romano e canonico. Solo nel ‘700 si avrà una sostanziale unificazione del diritto commerciale nel sistema del common law, cioè una sostanziale unificazione del diritto privato. Proprio i caratteri della SPECIALITÀ e della UNIVERSALITÀ fanno sì che il diritto commerciale si presenti come la più separata fra le partizioni del diritto, staccato dalle realtà politiche nazionali e aggregato ad una entità puramente economica, quale è il mercato. È una separazione che va oltre quella del diritto privato: non v’è solo una separatezza della società civile rispetto alla società politica (alla base delle tradizionali concezioni dell’intero diritto privato). C’è ancor più la visione di una autonoma società economica separata dalla stessa società civile. Goldschmidt afferma: «Alla natura cosmopolita del commercio, il quale tende a una economia mondiale con divisione internazionale del lavoro corrisponde la pronta formazione internazionalmente uniforme del diritto commerciale ed una conseguente continuità sorprendente dello sviluppo storico. Uniformità e continuità si fondano sull’indole propria del ceto commerciale, che è, come a dire, senza tempo né patria». In Italia la visione economistica di Goldschmidt fu osteggiata fortemente da Vivante che vedeva nella specialità una lesione dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e auspicava l’unità del diritto privato e l’integrazione del diritto commerciale nel diritto civile nell’ambito di una società equilibrata in cui gli interesssi del ceto commerciale fossero coordinati con quelli degli altri ceti. Anche Rocco si oppose alla specialità sul piano scientifico, condannando l’isolamento scientifico del diritto commerciale, ma difendendo la specialità sul piano normativo. Ma la visione economistica di Goldschmidt finirà per prevalere. È opportuno guardare più da vicino alle obiezioni di Vivante che vuole una unificazione del diritto privato. Il Codice di commercio non tutela i cittadini, anzi li espone ai soprusi dei grandi mercanti a misura dei quali è disegnato il codice stesso. Il legislatore ha delegato ai commercianti una parte del proprio potere legislativo attribuendo 14 valore di legge agli usi commerciali nei rapporti tra i commercianti e tra questi e quanti (commercianti e non) contrattino con essi. La duplicazione della codificazione nuoce all’esercizio della giustizia, perché a parte i problemi di competenza, venuti meno con la soppressione dei tribunali commerciali, resta sempre aperto e gravoso il problema di determinare se le controversie riguardino atti di commercio e debbano essere risolte secondo il codice di commercio oppure no. Le tesi economistiche di Goldschmidt radicano il convincimento che il diritto commerciale altro non sia se non la sovrastruttura legale dell’economia di scambio e che nell’economia di scambio trovi la sua ragion d’essere. E che tale sovrastruttura sia necessaria, immancabilmente presente in ogni economia basata sullo scambio. Così si è forzata la realtà obiettiva e si è voluto vedere un diritto commerciale anche presso i romani, i greci, i persiani, i cinesi ecc., finendo con il ridurre la storia del diritto commerciale all’esaltazione e all’isolamento di alcuni istituti nel tentativo di evidenziare le continuità (spesso solo apparenti o di natura terminologica), trascurando il collegamento con le diverse strutture di organizzazione giuspolitica. Proprio ad una rivalutazione del momento giuspolitico nella ricostruzione storica del diritto commerciale richiama Francesco Galgano. Galgano da un lato riconosce che la visione economistica coglie nel segno evidenziando i caratteri della specialità e della universalità. Per la specialità la separazione dal diritto civile nelle codificazioni del secolo scorso. Per l’universalità l’espansione a livello europeo nel bassomedioevo, la ricerca costante, dalla fine del secolo scorso, di un diritto commerciale internazionalmente uniforme, di un diritto commerciale europeo reso uniforme per direttive comunitarie, o di regole oggettive del commercio internazionale. D’altra parte però per Galgano la visione economistica di Goldschmidt da sola non spiega il carattere nazionale e fortemente caratterizzato dal punto di vista pubblicistico del diritto commerciale nelle monarchie assolute, non spiega l’estinzione del diritto commerciale nell’Inghilterra del Settecento, né l’unificazione italiana del 1942, né la forte resistenza che incontra il processo di uniformizzazione del diritto commerciale degli stati membri della UE. Bisogna allora considerare anche la politica del diritto. Altrimenti non si spiegherebbe perché in civiltà con un commercio florido come quella romana, non si ebbe un diritto commerciale distinto dal civile – neppure nell’ambito dello ius gentium o honorarium – né si spiegherebbe come il diritto commerciale sia una creatura delle civiltà medievale del sec. XII, un’età in cui dall’economia curtense feudale, chiusa e in gran parte autarchica, si passa ad un’economia in cui gli scambi assumono dimensioni via via crescenti. Le categorie per la conoscenza storica del diritto commerciale – afferma Galgano sulla scia di Tullio Ascarelli – sono quelle della storia economica, ma anche quelle della storia sociale, della storia politica: solo così posssono spiegarsi le cause di un fenomeno per cui una serie di rapporti prima sottoposta al diritto comune, riceve ad un tratto una differenziata regolamentazione normativa e diventa l’oggetto di un particolare diritto. L’origine del diritto commerciale si collega per Ascarelli all’affermarsi di una civiltà borghese e cittadina nella quale si sviluppa un nuovo spirito di intraprendenza e una nuova organizzazione degli affari. Ma si collega anche alle trasformazioni politiche promosse da questa civiltà borghese e cittadina. Per Thaller il diritto commerciale nasce quando i mercanti sono in grado di fondare intere repubbliche, quando cioè il soggetto dei rapporti commerciali diventa soggetto politico oltre che soggetto economico, capace perciò di esercitare un influsso determinante sulla regolazione normativa di quei rapporti. Così a Roma questo non era avvenuto, perché il commercio – come l’artiginato – era collegato e strumentale rispetto al latifondo e non metteva capo ad una classe capace di esercitare un autonomo ruolo politico. Il diritto commerciale nasce quando tramonta un sistema economico (quello curtense) e un sistema politico (quello feudale) e nelle crepe di questi sistemi si aprono spazi per la ripresa dei traffici e per una nuova classe di mercanti dotati di iniziativa economica e politica. Il nuovo gruppo sociale dei mercanti, con le corporazioni, si dà strutture politiche attraverso le quali sviluppare la propria condizione di classe ed esercitare una funzione dirigente sulle altre classi sociali. 15 2. Il mercante Se voi qui considererete alquanto e discorrerete, riducendo a memoria quali siano essercizii accomodati a fare roba, voi gli troverete tutti posti non in altro che in comperare e vendere, prestare e riscuotere. E io stimo che a voi’, e’ quali, quanto giudico, pur non avete l’animo né piccolo né vile, que’ tutti essercizii suggetti solo al guadagno potranno parervi bassi e con poco lume di lode e autorità. Già poiché il vendere non è se non cosa mercennaria, tu servi alla utilità del comperatore, paghiti della fatica tua, ricevi premio sopraponendo ad altri quello che manco era costato a te. In quel modo adunque vendi non la roba, ma la fatica tua; per la roba rimane a te commutato el danaio; per la fatica ricevi il soprapagamento… Però dicono al tutto questi come brutti e mercenarii sono a’ liberali ingegni molto da fuggire. Ma costoro, quali così giudicano di tutti gli essercizii pecuniarii, a mio parere errano… Leon Battista Alberti, I libri della famiglia, (R. Romano - A. Tenenti curr., Torino 1969, pp. 170-171) Fonti. Statuti Protocolli notarili Libri di commercio Lettere mercantesche Pratiche di mercatura Ricordanze personali Cronache Nel 1016, in Francia, Adalberone, vescovo di Laon, scrive con convinzione e compiacimento che la società cristiana è costituita da “coloro che pregano, da coloro che combattono, da coloro che lavorano” (oratores, bellatores, laboratores). Nella sintetica raffigurazione la società viene ripartita in tre ordini: le aristocrazie agrarie tradizionalmente legate all’arte delle armi e della guerra e all’esercizio ed alla responsabilità del culto; gli ambienti ecclesiastici, della città e della campagna, nelle varie articolazioni delle gerarchie ufficiali (parrocchie, vescovati), della condizione canonicale, degli ordini monastici; infine coloro che adoperano le braccia per far fruttare la terra, cioè i lavoratori. L’idea del lavoro è secondaria ed è ristretta alla considerazione delle attività manuali, principalmente del contadino (libero, o servo, o schiavo). Prevalgono altri ideali e valori: della forza fisica, della guerra, della vita religiosa; prevale la convinzione che l’onore e il buon nome, come la ricchezza o il benessere, si conquistano e si difendono con la spada, con la forza individuale e con quella della masnada; che gl’interessi sostanziali vanno tutelati con l’abilità fisica, con la solidarietà della famiglia, della parentela, del gruppo, o con l’intrigo politico; si pensa che si possa fare ricorso, al più, agli imperativi della ragione o della morale, o agli obblighi che la fede impone ai credenti: ma la legge, la giustizia che si fa legge e dà norma al vivere civile, e l’abile uso delle tecniche giuridiche e la sentenza che vincola e costringe, tutto questo resta fuori dal quadro ideale, fuori dalla visione di una società tripartita, anche se nella realtà vi sono iurisperiti e giudici e notari. Ne restano esclusi anche l’artigianato e il commercio. Se, certo, vi sono negotiatores che da tempo vanno costruendo le loro fortune, essi sono guardati con sospetto o con avversione. La mercatura appare come una pratica volta ad indebiti ed illeciti guadagni, e perciò pericolosa e dannosa per il benessere sociale e per la salute dell’anima. In breve, a guardar la società dal punto di vista scelto da Adalberone, si vedono milites e clero e contadini attaccati alla terra, ma non si vedono artigiani e mercanti, né giuristi e medici. Quanto più è lucida la schematica immagine di Adalberone, tanto più essa si rivela come l’ultimo specchio di una società che sta per entrare in una profondissima crisi di trasformazione. Passeranno appena pochi decenni. Già nella seconda metà dello stesso sec. XI i segni del rinnovamento radicale sono eclatanti, e ne abbiamo seguito qualche linea anche interna al mondo ecclesiastico. Poi diventano così intensi e vasti da modellare una nuova civiltà: nella nuova società, è naturale, continuano ad essere vivi comportamenti, attitudini, tradizioni, ideali e valori proprî dell’età che si chiude, ma ciò avviene all’interno di processi storici, di realtà materiali e di 16 configurazioni teoriche del tutto nuovi. La ‘civiltà feudale’ si destruttura: rimane, sì, il feudo, ma non la ‘civiltà’ come perno e centro della visione della vita; restano molti degli elementi materiali e ideali del feudo, ma essi vengono assorbiti dalle nuove ed originali istituzioni comunali e regnicole, e piegati ad altre funzioni rivelano differenti potenzialità. Lo sconvolgimento e la ‘rinascita’ investono tutti gli aspetti della vita quotidiana e culturale e tutti i settori delle attività umane. La nitida tripartizione di Adalberone può sopravvivere solo là dove sopravvive, marginale, isolata, nelle sperdute provincie, la società che l’aveva giustificata. Perché nelle città e nelle regioni centrali dell’Europa e nei grandi aggregati istituzionali retti a monarchia, come nel Regnum Siciliae, tutto si modifica. Nascono e si diffondono i nuovi ‘volgari’. Nascono così, dopo la lenta gestazione dei secoli X e XI, le lingue italiana, castigliana, catalana, francese, tedesca, etc. Si tratta di avvenimenti storicamente eccezionali, senza confronti nei due millenni cristiani. Si sovvertono i canoni di ogni operazione manuale e professionale, da quelle agricole, artigianali, mercantili, a quelle dell’artista e del letterato. Si costruiscono le grandi città di pietra e, con queste e dentro di queste, si fondano e si alimentano le fortune economiche degli abili traffici, delle raffinate professioni, delle improvvise e provvide rendite urbane e di mercato. Nella città si muovono e si impongono nuovi personaggi. Sono i giuristi specializzati, addestrati in scuole che diventano celebri e danno vita alla moderna Università. Sono i medici (venivano chiamati allora ‘fisici’), che riprendono dal riscoperto Aristotele molte posizioni e modalità logiche di analisi della realtà, e sperimentano e affinano la loro professionalità con osservazioni dirette. Sono i letterati, che acquistano un peso sociale e politico crescente fino ai maggiori livelli dell’età umanistica (secoli XV-XVI). Sono gli artisti — pittori e scultori anzitutto —. Sono i cambiatori di denaro, i ‘cambisti’, prestigiosi e potentissimi operatori finanziari (siamo alle origini della banca moderna), che con larghissimi giri di affari internazionali concorrono all’unità economica e culturale della nascente Europa. Affiora dappertutto una nuova idea del lavoro: ch’è ora non più solamente quello manuale, ma è anche l’attività dell’intellettuale e del professionista, dell’imprenditore e del mercante. E intanto si dismettono il vecchio sospetto e la sprezzante condanna della mercatura. Di questa si cominciano ad apprezzare i benefici effetti, specie in tempi che condannano una regione alla carestia mentre altre abbondano di frutti stagionali. Del commercio inoltre si comprende l’essenzialità per l’esistenza e lo sviluppo di un mercato: perché, se questo si arricchisce di beni specializzati, può vivere solo s’è saldamente legato ad un florido commercio internazionale, o intercittadino. Nelle comunità urbane del sec. XII, nelle città che si ingrandiscono rapidamente per la moltiplicazione della popolazione residente e per l’ampliamento degli spazi abitati, si formano esigenze che sono connaturate con la crescita economica, con la specializzazione del mercato, con l’intensificazione delle relazioni intersoggettive, con le nuove forme del potere politico. È in queste comunità che si avverte la richiesta di modelli teorici e di strumenti pratici più adeguati rispetto a quelli espressi dal mondo signorile, feudale, rurale. Si intravvede una nuova concezione del potere pubblico mentre se ne sperimenta una prima pratica; si tenta di modificare il modo consueto di definire e di interpretare teoricamente i rapporti intersoggettivi sia nel campo delle obbligazioni sia in quello delle situazioni giuridiche reali; vi è uno spirito associativo originale che supera e spesso travolge gli schemi feudali della gerarchia e degli status personali e familiari. Per le sue figurae astratte e ripetibili il diritto romano, che ha peraltro una forte connotazione cittadina, appare come una miniera di preziosissimi materiali che, se recuperati e riutilizzati, possono servire a sostenere lo sforzo teorico che i giuristi, come specialisti che vanno arrogandosi il monopolio della teorizzazione dei rapporti sociali, sono pronti a compiere e già con Irnerio si impegnano ad avviare. È perciò che nella scuola di Irnerio il lavoro di restauro e di ricomposizione dei testi di Giustiniano si realizza con fervore e con la partecipazione di giovani e brillanti allievi: come momento di un’esigenza del presente, per dare risposte teoriche, e con ciò collaborazione e aiuto, a movimenti politici ed a spinte economiche che stanno ristrutturando l’assetto interno della città, rinnovandone i legami col contado e tessendo una rete proficua tra città e città. 17 Intorno al sec. XII si avvia una profonda trasformazione del ruolo del mercante, già importante nella società altomedievale. Il mercante, da intermediario nello scambio, si fa imprenditore, riesce a imporrre normative funzionali all’esercizio della sua attività in monopolio, cambia status da mercante itinerante a mercante stanziale ecc. Aelfric 275 Responsabilità della Chiesa nella condanna dei mercanti fino agli ordini francescani e mendicanti, che per il loro forte radicamento cittadino non possono non inglobare anche i mercanti in una visione cristiana complessiva della società. Comunque Tommaso d’Aquino scrive «il commercio ha in sé qualcosa di vergognoso», pur riconoscendone la necessità e l’utilità sociale. Nel sec. XIII Già la situazione è profondamente mutata: Bertoldo di Ratisbona (il più grande predicatore francescano tedesco del secolo XIII) riconosce le varietà professionali e di ceto della popolazione. Descrive i ceti sociali ripetendo l’immagine dei nove cori angelici utilizzata dallo Pseduo Dionigi per descrivere gli angeli. Nei primi tre cori (superiori e ordinati gerarchicamente) troviamo — i sacerdoti (con a capo il papa); — i monaci; — i giudici laici (imperatore, re, duchi, conti signori secolari). Gli altri sei cori (sottoposti ai primi tre) sono disposti orizzontalmente senza gerarchia interna: — fabbricanti vesti e scarpe; — lavoranti con strumenti di ferro (gioiellieri, coniatori di monete, fabbri, falegnami, muratori ecc.); — mercanti; — venditori di cibi e bevande — contadini — medici Il decimo coro è costituito dai mestieri infimi (attori e mimi) lonatni da Dio al pari del decimo coro degli angeli che si è allontanato da Dio e si è posto al servizio di Satana. Nella elencazione sociale di Bertoldo è evidente l’impronta cittadina. Si noti la separazione tra grandi e piccoli mercanti. I mercanti, pur essendo oggetto delle maledizioni contro gli avidi e i disonesti, sono considerati necessari al funzionamento del tutto. Emerge una visione della missione individuale del soggetto, della sua vocazione sociale. Tale visione è evidente anche nelle prediche di Bertoldo. Parabola evangelica dei cinque talenti: — la nostra persona — il servizio (la mansione) che Dio ha donato a ogni uomo predestinandolo: TUTTE LE MANSIONI SONO VOLUTE DA DIO E TUTTE HANNO PARI DIGNITÀ SOCIALE. Si tratta di una chiamata individuale, non di ceto. Di una RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE DELLA PROPRIA MISSIONE SOCIALE. Vi sono però delle mansioni che non sono una chiamata di DIO (usura, incetta, inganno e furto) — il tempo — i beni terreni. Vanno amministrati e usati con buon senso e moderazione. La proprietà si acquista in modo legittimo con IL LAVORO ONESTO. Non è la disparità di distribuzione della ricchezza, ma il cattivo uso della ricchezza la causa dei mali sociali. LA PROPRIETÀ NON È ASSOLUTA, PASSA IN SECONDO PIANO RISPETTO ALL’UGUAGLIANZA DEGLI UOMINI DAVANTI A DIO. I BENI SONO AFFIDATI DA DIO AL POSSESSORE ALLA PARI DEGLI ALTRI TALENTI (PERSONA, SERVIZIO TEMPO). LA PERSONA È SOLO L’AMMINISTRATORE DELLA SUA RICCHEZZA E DOVRÀ RISPONDERE DEL SUO IMPIEGO. — l’amore per il prossimo. L’anima non è menzionata ma si può dire che è il centro invisibiledi tutta la visione sociale del francescano di Ratisbona. Nel pensiero di Bertoldo è evidente l’ETICA DEL LAVORO. Nella predica sui talenti emerge la visione borghese (che pure non contrasta con quella teologica) della società: i valori della 18 persona e del servizio sono sullo stesso piano di quelli del tempo e dei beni terreni. Centralità della CITTÀ. Usura tempo exempla: asino col cadavere peso del cadavere predica del prete che chiama i vari mestieri per l’assoluzione predica del prete che maledice il padre usuraio Sistema di valori diversi tra aristocrazia, ostentarice e spendacciona e mercanti oculati e parsimoniosi. Sotto questo punto di vista si ha un accostamento tra mercanti e giuristi: exemplum dell’accumulatore e del dissipatore 284 Il mercante è un self-made-man che cerca di intrufolarsi tra i patrizi. Germania: ANCHE SE IL PADRONE E I PORCI SI TROVANO SOTTO LO STESSO TETTO, CONTINUANO A NON AVERE NULLA IN COMUNE Politica matrimoniale, investimenti fondiari, ascesa sociale nelle professioni liberali. Il suo è un ambiente colto. LA CULTURA DEL MERCANTE Scuole per i mercanti aritmetica-aerismetica; lingue; diritto Trattati di mercatura/ viaggi./ I valori del mercante Coraggio, Iniziativa, Capacità di previsione, Spregiudicatezza, Famiglia (libri della famiglia, pittura ecc.) Nel trattato di Paolo da Certaldo (1360 ca.) i termini con cui il mercante è descritto sono amante del lavoro, operoso, tenace, solerte. Il denaro bisogna saperlo guadagnare, ma bisogna anche saperlo tenere e reinvestire. Per Giovanni di Pagolo Morfelli (1371-1444) il bene si identifica con l’utile. studio di Virgilio. Conosce l’ammontare della dote della nuora, ma non il numero dei figli di lei, cioè dei suoi nipoti. 302 Sii sempre amico di chi sta al potere ed è più forte Donazioni a Dio per cointeressarlo alla gestione degli affari Melanconia del mercante, complesso di colpa, messe proanima, donazioni ecc. Overstolz 25 volte borgomastri di Colonia nel 200 e nel 300 19 3. Il mercante: la corporazione Sostanzialmente il mercante medievale non è solo il commerciante, cioè colui che è dedito all’attività di intermediazione dei beni. È invece il soggetto che in termini attuali si definisce imprenditore, cioè chi analizza il mercat, ne studia i bisogni, o comunque crea il bisogno di un dato bene, assume su di sé il rischio di impresa, combina i fattori della produzione e si scommette sul mercato. Da un punto di vista politico il mercante medievale è potentissimo. Si pensi agli statuti comunali che sono creati ad hoc per consentire il monopolio del mercante. Divieto di esercizio di un mestiere per i non iscritti alla corporazione; divieto di importazione o esportazione delle materie prime. Esempio dello statuto fiorentino dell’arte della lana del 1317: tutti i lavoratori che (come lavoratori autonomi a domicilio) intervengono nel processo produttivo sono membri della corporazione dell’Arte della lana e sono soggetti alla giurisdizione della corporazione. All’interno della corporazione però il peso dei lanaioli, cioè dei mercanti di lana, era di gran lunga maggiore del peso degli altri soggetti della produzione laniera (lavoratori a domicilio con il ruolo di tessitori, tintori, filatori, cimatori e simili): per esempio i consoli dell’arte dovevano essere eletti solo tra i lanaioli che producessero ogni anno più di cento panni fiorentini. Così in un’unica corporazione si costringevano mercanti lanaioli e lavoratori autonomi coinvolti dai primi nel processo di produzione laniera. Tale unificazione sotto un’unica corporazione era strumentale al mantenimento del ruolo egemone dei lanaioli che potevano così esercitare il controllo sui soggetti coinvolti nella produzione, conservando il monopolio del commercio della lana. IN QUESTO SENSO DEVE PARLARSI DI SOCIETÀ MERCANTILE, CIOÈ DI UNA SOCIETÀ IN CUI I MERCANTI HANNO UN RUOLO POLITICO DI PROTAGONISTI, AL PUNTO TALE CHE LA SOCIETÀ È STRUTTURATA IN MODO FUNZIONALE AL SODDISFACIMENTO DEI BISOGNI E DEGLI INTERESSI DEI MERCANTI. (SI RICORDI QUANTO DETTO NELLA PRIMA LEZIONE: IL DIRITTO COMMERCIALE NASCE QUANDO I MERCANTI SONO IN GRADO DI FONDARE INTERE REPUBBLICHE). Per i motivi sopra esposti non può parlarsi di un diritto commerciale presso i romani, non perché il commercio non vi fosse e non fosse importante, non perché non v’erano i commercianti (gli equites e i publicani), bensì perché nella società romana il ruolo predominante era affidato ai latifondisti e il sistema giuridico romano si fondava sul rispetto degli interessi del latifondo. Esempio della locatio conductio (schema rigidamente unitario che ingloba in sé una molteplicità di fattispecie diverse dal contenuto economico distinto: appalto, locatio operis, locatio operarum ecc.) tipizzata sulla locatio rei modellata sulla sua riferibilità al liber civis pater massimo stereotipo della soggettività giuridica romana perché facente capo al massimo livello ai tre status libertatis civitatis familiae. 20 4. La corporazione Fonti utilizzate per dimostrare la liceità delle corporazioni D.3.4.1pr. ad ed. provinc. neque societas neque collegium neque huiusmodi corpus passim omnibus habere conceditur: nam et legibus et senatus consultis et principalibus constitutionibus ea res coercetur. paucis admodum in causis concessa sunt huiusmodi corpora: ut ecce vectigalium publicorum sociis permissum est corpus habere vel aurifodinarum vel argentifodinarum et salinarum. item collegia romae certa sunt, quorum corpus senatus consultis atque constitutionibus principalibus confirmatum est, veluti pistorum et quorundam aliorum, et naviculariorum, qui et in provinciis sunt. D.3.4.1.1 quibus autem permissum est corpus habere collegii societatis sive cuiusque alterius eorum nomine, proprium est ad exemplum rei publicae habere res communes, arcam communem et actorem sive syndicum, per quem tamquam in re publica, quod communiter agi fierique oporteat, agatur fiat. D.3.4.1.2 quod si nemo eos defendat, quod eorum commune erit possideri et, si admoniti non excitentur ad sui defensionem, venire se iussurum proconsul ait. et quidem non esse actorem vel syndicum tunc quoque intellegimus, cum is absit aut valetudine impedietur aut inhabilis sit ad agendum. D.3.4.1.3 et si extraneus defendere velit universitatem, permittit proconsul, sicut in privatorum defensionibus observatur, quia eo modo melior condicio universitatis fit. Fonti utilizzate per dimostrare la liceità delle giurisdizioni delle corporazioni C. 3. 13. 7 periniquum et temerarium esse perspicimus eos, qui professiones aliquas seu negotiationes exercere noscuntur, iudicum, ad quos earundem professionum seu negotiationum cura pertinet, iurisdictionem et praeceptiones declinare conari. * anastas. a. constantino pp. *<a 502 d. xv k. mart. constantinopoli probo et avieno conss. > C. 3. 13. 7. 1 quapropter iubemus huiusmodi hominibus nec cuiuslibet militiae seu cinguli vel dignitatis praerogativam in hac parte suppetere, sed eos, qui statutis in quacumque militia connumerati sunt vel fuerint seu dignitatem aliquam praetendunt, sine quadam fori praescriptione his iudicibus tam in publicis quam in privatis causis oboedire compelli, ad quorum sollicitudinem professionis seu negotiationis, quam praeter militiam, ut dictum est, exercent, gubernatio videtur respicere, ita tamen, ut ipsis nihilo minus iudicibus, sub quorum iurisdictione militia seu dignitas eorum constituta est, procul dubio respondeant. C. 3. 13. 7. 2 his videlicet, quicumque contra eius tenorem venire temptaverint, militiae cingulo seu dignitatis honore pro tali conamine spoliandis. 21 Il Fallimento Se voi qui considererete alquanto e discorrerete, riducendo a memoria quali siano essercizii accomodati a fare roba, voi gli troverete tutti posti non in altro che in comperare e vendere, prestare e riscuotere. E io stimo che a voi’, e’ quali, quanto giudico, pur non avete l’animo né piccolo né vile, que’ tutti essercizii suggetti solo al guadagno potranno parervi bassi e con poco lume di lode e autorità. Già poiché il vendere non è se non cosa mercennaria, tu servi alla utilità del comperatore, paghiti della fatica tua, ricevi premio sopraponendo ad altri quello che manco era costato a te. In quel modo adunque vendi non la roba, ma la fatica tua; per la roba rimane a te commutato el danaio; per la fatica ricevi il soprapagamento… Però dicono al tutto questi come brutti e mercenarii sono a’ liberali ingegni molto da fuggire. Ma costoro, quali così giudicano di tutti gli essercizii pecuniarii, a mio parere errano… Leon Battista Alberti, I libri della famiglia (R. Romano - A. Tenenti curr., Torino 1969, pp. 170-171) Introduzione 1. L’itinerario della ricerca «… in hac materia plurimum pollere debet circumspecti iudicis arbitrium in bene rimando, et perpendendo, qui actus adducantur pro decoctione latente, et qui pro decoctionis exclusione, ita ut si illi non bene concludant decoctionem, sed sint dubii, et enervetur ex actibus gestis a mercatore, uti adhuc negociatore, debeat inclinare… … in hoc admirati remanserunt mercatores, ac negociatores, et bene in hoc dici potest, quod tot homines, tot sententiae, et quod in digestione eiusdem cibi adest diversitas in stomachis diversarum personarum». Così, sul finire del ’600, l’alto magistrato romano Francesco Maria Costantini, nel suo commento agli statuti di Roma, descriveva l’orientamento giurisprudenziale sull’individuazione del momento della decozione del mercante28. La decozione si ha quando lo stato di insolvenza del mercante è qualificato dalla irreversibilità e dalla notorietà. L’irreversibilità non è data certo da una momentanea insolvenza, bensì da una crisi economico-finanziaria di gravità tale che il mercante non riesce più ad ottenere credito. I caratteri dell’irreversibilità e della notorietà sono strettamente connessi: infatti, il mercato nega fiducia al mercante in difficoltà, proprio quando il suo stato di insolvenza è notorio e quando si diffonde la convinzione che il suo stato di crisi abbia raggiunto il punto di non ritorno. Il decotto, dunque, è l’insolvente segnato dallo stigma dei protagonisti del mercato, i quali, valutate le sue condizioni economico-finanziarie, gli negano nuovo credito e ne sanciscono l’irreversibile e definitivo stato di crisi. L’individuazione dell’insorgenza dello stato di decozione — come si vedrà — costituiva spesso il problema centrale delle cause originate dal fallimento di un mercante: in particolare di quelle riguardanti il pagamento delle lettere di cambio e l’azione revocatoria. Proprio sulle vicende dell’azione revocatoria nel fallimento nell’età moderna intendo fermare la mia attenzione: non pretendo di redigere qui e ora una distesa trattazione sull’azione revocatoria nel fallimento, ma solo di dare un contributo per la ricostruzione dell’istituto. Sul piano della dottrina assumo a oggetto dello studio le raffinate riflessioni e gli interessanti spunti offerti dalle opere di Giovan Battista De Luca, Francesco Maria Costantini, Giuseppe Lorenzo Maria 28 Franciscus Maria Constantinus, Observationes forenses practicabiles, seu commentaria ad varia capita statutorum almae urbis (Venezia 1712) I cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 3, p. 313b, a proposito del fallimento di Cesare De Cesare: cfr. infra, cap. I, §§ 2.2 e 2.2.1. 22 Casaregi29. Si tratta solo di spunti e riferimenti sparsi perché i classici30 del diritto commerciale non trattano in modo ‘sistematico’ l’azione revocatoria nella procedura fallimentare31. Sul piano della law 29 Su Giovan Battista De Luca cfr. gli studi degli ultimi anni e la letteratura ivi citata: A. Mazzacane, ‘De Luca, Giovanni Battista’, Dizionario Biografico degli Italiani 38 (Roma 1990) 340-347; Id., ‘Giambattista De Luca e la “compagnia di uffizio”’, Miscellanea Domenico Maffei dicata. Historia, Ius, Studium (Goldbach 1995) IV 655-680 (già pubblicato in Fisco, religione, stato nell’età confessionale, H. Kellenbenz - P. Prodi curr. [Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico 26; Bologna 1990] 505-530); A. Lauro, Il cardinale Giovan Battista De Luca. Diritto e riforme nello Stato della Chiesa (1676-1683) (Storia e diritto, Studi 29; Napoli 1991); M.G. Merello Altea, ‘Alcuni scritti inediti di Giovan Battista De Luca’, Studi in memoria di Giovanni Cassandro (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi 18; Roma 1991) I 13-121.; A. Santangelo, La toga e la porpora. Quattro biografie di Giovan Battista De Luca (Biblioteca federiciana 14; Venosa 1991); S. Di Noto Marrella, ‘Giudici ed avvocati in “Lo stile legale” di Giovan Battista De Luca’, Miscellanea Domenico Maffei dicata. Historia, Ius, Studium (Goldbach 1995) IV 603-654 (già pubblicato in G.B. De Luca, Lo stile legale [Napoli 1758; rist. anast. 1993] 5-56). Su Francesco Maria Costantini (Venarotta [Ascoli Piceno] 1639 - Roma 1713), cfr. M.A. Tallarico, ‘Costantini, Francesco Maria’, Dizionario Biografico degli Italiani 30 (Roma 1984) 291-292 e la letteratura ivi citata: di formazione bolognese, rivestì importanti incarichi nella Roma del ’600, quali Procuratore del sacro palazzo pontificio, Luogotenente civile del governatore di Roma, Primo collaterale della curia capitolina, Procuratore generale del fisco e della camera capitolina. Su Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi cfr. V. Piergiovanni, ‘Casaregi, Giuseppe Lorenzo Maria’, Dizionario Biografico degli Italiani 21 (Roma 1978) e la letteratura ivi citata; Id., ‘Dottrina divulgazione e pratica alle origini della scienza commercialistica: Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi, appunti per una biografia’, Materiali per una storia della cultura giuridica 2 (1979) 289-327. Sebbene L. Goldsmith, ‘Die Werke des Casaregis’, Zeitschrift für das gesammte Handelsrecht 10 (1867) 468 ss., e A. Lattes, ‘Casaregi Giuseppe Maria Lorenzo’, Enciclopedia Italiana 9 (Roma 1931) 284, abbiano criticato gli scritti del Casaregi per gli scarsi apporti sul piano della trattazione sistematica, senza dubbio l’opera può considerarsi tra i classici del diritto commerciale, se si tiene conto del successo che ebbe presso i contemporanei e dell’influenza che esercitò sull’elaborazione dottrinaria successiva: K.O. Scherner, ‘Die Wissenschaft des Handelsrechts’, Handbuch der Quellen und Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte. II. Neuere Zeit (1500-1800). Das Zeitalter des gemeinen Rechts I. Wissenschaft, H. Coing cur. (München 1977) 856 e ss. e Piergiovanni, ‘Dottrina divulgazione e pratica’ 325-327. 30 Mi riferisco, naturalmente solo a titolo esemplificativo, al De mercatura, in particolare al Tractatus de conturbatoribus sive decoctoribus di Benvenuto Stracca (Lione 1610; rist. anast. Torino 1971) parte III, alle pp. 475-482. Il tractatus è stato considerato il primo dei classici del diritto commerciale prima che Domenico Maffei, ‘Il giureconsulto portoghese Pedro de Santarém autore del primo trattato sulle assicurazioni (1488)’, Boletim de Faculdade de Dereito de Coimbra 58 (1982) 703728 (pubblicato anche in Diritto Comune, Diritto Commerciale, Diritto Veneziano, K. Nehlsen von Strik, D. Nörr curr. [Venezia 1985] 39-63), spostasse indietro alla fine del quattrocento il trattato di Pedro de Santarem sulle assicurazioni. Mi riferisco, inoltre, al De Commerciis et cambio di Sigismondo Scaccia (Roma 1619) § 2 gl. 5 nn. 329, 330, 445 pp. 383, 396b; al Tractatus de concursu creditorum di Amador Rodriguez (Madrid 1616); ai Notabilia de decoctoribus, fortunata summa sul fallimento del giurista napoletano Francesco Rocco, contenuta nei suoi Responsa legalia cum decisionibus ac mercatorum notabilia (Napoli 1645) II 431-465; al Labyrinthus creditorum concurrentium di Francisco Salgado de Somoza (Lione 1665) 127-137; ai Discursus legales de commercio (Firenze 1719) e a Il cambista istruito di Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi (Firenze 1723) pubblicati anche in Opera omnia (Venezia 1740), rispettivamente nei volumi I e II, e nel volume III alle pp. 33-102; ai Discursus legales de commercio et mercatura di Ansaldo de Ansaldi (Ginevra 1718) disc. 3-5 alle pp. 11-20, e al già citato commento agli statuti di Roma di Francesco Maria Costantini. Riferimenti interessanti alla revocatoria e ad aspetti connessi si trovano anche nei Vota decisiva civilia et criminalia et mista di Giovan Battista de Thoro (Napoli, 1634) votum XV, 64-69; in alcune parti del Theatrum veritatis ac iustitiae di Giovan Battista De Luca (Venezia 1734): cfr., infra, passim; nel De pignoribus et hypothecis tractatus absolutissimus una cum decisionibus magistralibus Sacrae rotae romanae di Merlino Mercuriale (Venezia 1649) libr. IV, tit. V, quaest. 135, pp. 511-512; nel Tractatus de transactionibus di Emanuele Romano Valeron (Milano 1676) quaest. VIII, pp. 203-207; nelle Disceptationes forenses di Stefano Graziano (Venezia 1699) tom. II cap. 380 e 391 alle pp. 645-648 e 677-681. 31 Per l’età di mezzo la mancanza di una distesa trattazione del diritto fallimentare che affronti in modo sistematico gli aspetti cruciali della disciplina è stata già evidenziato da C. Pecorella - U. Gualazzini, ‘Fallimento’ (Storia)’, Enciclopedia del diritto 16 (Roma 1967) 220-221: «Il concorso dei creditori, o fallimento, rientra nel novero degli istituti di creazione medioevale, di una creazione nella quale è difficile, più forse che nelle altre, sceverare quanto sia voluntas, ordine di legislatore, e quanto sia ratio, lavorio sistematico di giuristi e giudici consulenti. Di una origine pratica, di una natura di strumento concreto che non ha alle proprie spalle adeguato bagaglio culturale è testimonianza anche il tipo di dottrina che intorno al fallimento si è andato nell’età di mezzo accumulando: chi scorra le citazioni trova, senza troppo stupirsene, che 23 in action, poi, analizzo alcune decisiones di grandi tribunali pubblici dei secoli XVI-XVIII32: inevitabilmente la descrizione dei casi interrompe la continuità della ‘struttura narrativa’ e può creare un effetto di frammentazione. Ma lo studio delle sentenze costituisce una necessaria e indispensabile premessa per la riflessione sui problemi che emergono dagli stessi casi e per la ricostruzione dell’itinerario logico-giuridico seguito dai giudici nelle decisioni. Ho già chiarito nella Premessa che le sentenze sono qui utilizzate come fonti e spunto per la riflessione, rimanendo estraneo allo studio l’interesse per la casistica o per la storia dei tribunali. 2. Le soluzioni normative nelle legislazioni tardomedievali e moderne Prima di giungere all’esame delle decisiones è opportuno ricordare quali erano le soluzioni normative che le legislazioni statutarie e principesche offrivano, nell’ambito della procedura fallimentare, per il soddisfacimento dei creditori del mercante fallito33. L’azione revocatoria occupa un posto importante nel diritto fallimentare medievale. L’azione mira a fare rientrare di fatto nel patrimonio del fallito «tutti quei beni che — pur dovendone far parte — ne siano usciti con frode o in un periodo tanto prossimo al fallimento da apparire evidente il fine illecito della alienazione»34. i dottori sul fallimento hanno enunciato pareri in sede di consilium, di quaestio de facto, più che in sede di distesa narrazione intorno ad una o più rubriche del Corpus iuris…». 32 Ritengo che debba accogliersi pienamente l’esortazione di Vito Piergiovanni, ‘Banchieri e falliti nelle ‘Decisiones de mercatura’ della Rota Civile di Genova’, Diritto Comune, Diritto Commerciale, Diritto Veneziano, K. Nehlsen von Strik, D. Nörr curr. (Venezia 1985) 18-19, che invita a condurre gli studi sulla materia fallimentare in contesti ben delimitati sotto il profilo socio-economico, legislativo e giurisdizionale: «… nel contesto della legislazione statutaria che, da un punto di vista tecnico, sembra contenere nel corso dei secoli del Medioevo all’età moderna caratteri giuridici unitari, è opportuno inserire i contrasti, le cesure, le accelerazioni che gli eventi storici hanno apportato. Al di là delle piccole variazioni di dettato normativo… ci sono le diversità create da novità macroscopiche, come la formazione di più complessi organismi statuali le quali, in misura diversa, hanno comportato revisioni e innovazioni normative… In collegamento con le legislazioni dell’età moderna, in funzione di stimolo e di approfondimento teorico e pratico, è da porre la creazione di grandi organismi giurisdizionali centrali, come le Rote». Sull’opportunità della ricerca condotta sulle fonti della law in action cfr. dello stesso Autore ‘Courts and Commercial Law at the Beginning of the Modern Age’, The Courts and the Development of Commercial Law, V. Piergiovanni ed., (Comparative Studies in Continental and Anglo-American Legal History 2; Berlin 1987) 17-21, nonché G. Gorla, Diritto comparato e diritto comune europeo (Milano 1981) 561 e ss. e M. Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni dal medioevo all’età moderna (Bologna 1989). 33 Sulla storia del fallimento cfr., oltre gli studi già citati di Pecorella - Gualazzini e di Piergiovanni, i contributi specifici di U. Santarelli, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia (Padova 1964) e Mercanti e società tra 2 mercanti (Torino 1992 ) 57-101, e di A. Sciumè, Ricerche sul fallimento nel diritto moderno. I. Il momento settecentesco (Milano 1985). Cfr., inoltre, W. Patker, ‘The origins of bankruptcy in medieval canon and roman law’, Proceedings of the Seventh International Congress of Medieval Canon Law, Cambridge 23-27 July 1984, ed. P. Linehan (Monumenta iuris canonici, Series C: Subsidia 8; Città del Vaticano 1988) 485-506 e F. Migliorino, ‘Profilo storico delle procedure concorsuali’, Trattato delle procedure concorsuali, G. Ragusa Maggiore - C. Costa curr., I (Torino 1996) in corso di stampa. 34 Santarelli, Per la storia del fallimento 192. Sull’azione revocatoria fallimentare cfr. anche Pecorella - Gualazzini, ‘Fallimento’ 230-231; U. Santarelli, ‘Azione revocatoria nel diritto medievale e moderno’, Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile 2 (Torino 19884) 46-49 e i riferimenti nell’opera di A. Lattes, Il diritto commerciale nella legislazione statutaria delle città italiane (Milano 1882) 320 e nota 14 (alle pp. 325-326) in cui si riassumono le normative statutarie; A. Rocco, Il fallimento. Teoria generale ed origine storica (Torino 1917) 193 e ss., 208 e ss.; G. Salvioli, Storia della procedura civile e criminale in Storia del diritto italiano, V. Del Giudice cur., III.2 (Milano 1927) 721-727; G. Cassandro, Le rappresaglie e il fallimento a Venezia nei secoli XIII-XVI con documenti inediti (Torino 1938) 105-106, 193; Piergiovanni, ‘Banchieri e falliti’ 34 e ss. Tra gli studi sull’azione revocatoria nell’età di mezzo deve anche ricordarsi l’opera di Vincenzo Piano Mortari, L’azione revocatoria nella giurisprudenza medievale (Milano 1962), che si occupa, per l’età dei glossatori e dei commentatori, della revocatoria civile, il genus da cui discende la species della revocatoria fallimentare. Come si ricorderà, i rimedi revocatori classici sono la restitutio in integrum ob fraudem [D.42.8.1 pr.] e l’interdictum fraudatorium [D.42.8.10 pr.] (6-9) e sono i rimedi su cui si fonda la legislazione giustinianea in tema di tutela dei creditori: la predisposizione dei mezzi processuali diretti a 24 La revocatoria incide quindi sulla certezza degli scambi commerciali fondata sulla tutela dell’affidamento e della buona fede dei contraenti. È naturale allora che il legislatore statutario e principesco assegni all’azione revocatoria «un rilievo preminente, altrove (nel diritto romano e nei moderni ordinamenti, per esempio) affatto inusitato: ché non ci si limitò, come vedremo, a presumere (e non sempre con una praesumptio iuris tantum) l’esistenza della frode nelle alienazioni compiute nel cosiddetto ‘periodo sospetto’, ma si giunse a disporre che gli organi fallimentari, nel procedere all’apprensione dei beni del fallito, la estendessero anche a quelli che, pur formalmente alienati, dovessero — in virtù delle circostanze nelle quali l’alienazione s’era verificata — ritenersi ancora compresi nel patrimonio del fallito»35. Umberto Santarelli nel suo studio sulla storia del fallimento nell’età intermedia ha distinto in due grandi gruppi le normative statutarie (comunali e mercantili) e principesche riguardanti l’azione revocatoria. Nel primo gruppo la fraudolenza dell’atto di cui si richiede la revoca deve essere provata, o comunque non si presume: per esempio, lo statuto milanese dei mercanti del 1330 consente ai Consoli dei Mercanti di procedere nei confronti di chi abbia acquistato con contratto simulato un bene dal fallito e si ostini a non consegnarlo alla massa dei creditori. Ma non sempre è necessario l’intervento del giudice per provare l’intento fraudolento: gli statuti lucchesi del 1376 e del 1556 e lo statuto padovano del 1420 impongono a chi abbia acquistato qualcosa dal fallito, con frode o con simulazione, di restituire la cosa alla massa fallimentare senza l’intervento del giudice. In alcuni casi, quando il terzo si oppone alla revocazione, l’ordinamento dispone l’intervento del giudice per accertare la simulazione. Comunque, nonostante manchi l’intervento del giudice, non può affermarsi che nei casi elencati si presuma la fraudolenza dell’atto. E la frode non si presume neanche nel caso disciplinato dallo statuto genovese dei primi del Quattrocento che sanziona con la nullità le “partite” che sembrino compiute con frode o dolo e che siano state registrate sul libro contabile del banchiere nel periodo che precede il fallimento (da due giorni a un mese prima del fallimento del banchiere stesso)36. Invece, nel secondo gruppo — che certamente corrisponde alla maggior parte degli ordinamenti — la fraudolenza dell’atto si presume, purché esso sia stato compiuto in un determinato periodo di tempo precedente la dichiarazione di fallimento (il cosiddetto ‘periodo sospetto’): la revoca pertanto non è subordinata alla prova (difficile da raggiungere) dell’intento fraudolento in capo ai contraenti, ma è ancorata a un dato obiettivo. Anche in questi statuti per la revoca dell’atto non sempre si richiede l’intervento del giudice. Si giunge alla revoca rebus ipsis et factis mediante l’immissione nella massa fallimentare dei beni oggetto dei negozi revocati, rimanendo esclusa in alcuni casi per il terzo la possibilità di opporsi. Si consideri, inoltre, che solo in alcuni casi il dettato normativo dello statuto precisa che il ‘periodo sospetto’ costituisce uno strumento presuntivo di accertamento della frode, mentre negli altri casi si enuncia il criterio senza spiegarne la funzione presuntiva37. soddisfare le ragioni dei creditori sul patrimonio dei debitori è una conseguenza dell’introduzione del procedimento esecutivo sui beni accanto all’esecuzione personale. 35 Santarelli, Per la storia del fallimento 192. 36 Cfr. Santarelli, Per la storia del fallimento 199 e ss. Sulla norma genovese e sulla sensibilità dei giuristi, quali Bartolomeo Bosco e Raffaele della Torre, che avvertirono l’emergente diversificazione tra attività mercantile e attività bancaria, cfr. V. Piergiovanni, ‘I banchieri nel diritto genovese e nella scienza giuridica tra medioevo ed età moderna’, Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà nell’Europa preindustriale. Amministrazione, tecniche operative e ruoli economici. Atti del Convegno, Genova, 1-6 ottobre 1990 (Atti della Società ligure di Storia Patria, nuova serie, 31; Genova 1991) I 205-223; Id., ‘Banchieri e mercanti. Modelli di classificazione nella dottrina giuridica genovese’, The Growth of the Bank as Institution and the Development of Money-Business Law, V. Piergiovanni cur. (Comparative Studies in Continental and Anglo-American Legal History 12; Berlin 1993) 77-89. È particolarmente significativo che questa norma già nel 1375 era stata estrapolata dagli statuti civili e criminali ed era stata inserita nella normativa politica, a sottolineare il rilevante interesse pubblico nella regolamentazione dei rapporti vitali per l’economia genovese: cfr. Piergiovanni, ‘Banchieri e falliti’ 19. 37 Santarelli, Per la storia del fallimento 199 e ss. Cfr. inoltre Pecorella - Gualazzini, ‘Fallimento’ 230, 231: «in una prima fase i beni alienati, donati o distratti dal fallito vennero direttamente avocati alla massa patrimoniale lasciando, con limitazioni, agli aventi causa la possibilità di provare che il loro acquisto non era stato fraudolento: si era così invertito l’onere della prova… negli statuti la chiamata in revocatoria degli acquirenti dei beni del fallito, acquista spesso il sapore di 25 In tutti e due i gruppi, poi, il fondamento della revocazione è comunque costituito dalla simulazione o dalla frode da cui è affetto il negozio posto in essere dal mercante successivamente fallito; solo che per esigenze di economia processuale la prova della frode, richiesta negli ordinamenti del primo gruppo, è sostituita negli ordinamenti del secondo gruppo dall’adozione del criterio del ‘periodo sospetto’: criterio fondato su un dato obiettivo e perciò di facile applicazione38. A parte l’equiparazione tra frode e simulazione e la concezione restitutoria dell’azione, che per il romanista ortodosso sono ‘aberranti’39, è per il resto evidente il rapporto di filiazione che lega alla corrispondente azione civile la revocatoria disciplinata dalle normative della lex mercatoria per la procedura fallimentare. Infatti, per i glossatori, e successivamente, per i commentatori, il fondamento dell’azione revocatoria civile era la frode. La gl. ‘eam rem petere’ ad Inst. 4.6.6. enuncia chiaramente il fondamento dell’azione revocatoria sia per gli atti a titolo oneroso che per quelli a titolo gratuito: «Sed unde oritur haec actio? Responde ex quasi maleficio: quando dolus fuit in vendente et emente. Si autem in vendente tantum: tunc potest dici ex quasi contractu, si agitur contra illum possidentem». Nel caso degli atti a titolo oneroso la fraus consiste nel fatto illecito dell’alienante e dell’acquirente che in combutta hanno indebolito il patrimonio dell’alienante facendo venir meno le garanzie patrimoniali per il soddisfacimento dei creditori dello stesso alienante. Nel caso degli atti a titolo gratuito il fatto illecito consiste nella frode dell’alienante che senza causa giustificabile ha depauperato la propria consistenza patrimoniale per frodare i creditori40. Quanto agli effetti dell’azione revocatoria, il diritto romano tace, o comunque non è preciso, circa l’inefficacia dell’atto fraudolento e anche le normative particolari non sono univoche né chiare: la revocatoria di volta in volta produce la nullità ipso iure, oppure mira alla dichiarazione della nullità, dell’annullabilità, dell’inefficacia relativa, dell’inopponibilità del negozio. Alberico da Rosciate una chiamata a titolo di responsabilità obbiettiva, che prescinda da un comportamento effettivamente lesivo di interessi altrui o dell’interesse pubblico». 38 U. Santarelli, ‘Disposizioni generali [I parte]’, Disposizioni generali della dichiarazione di fallimento: art. 1-22. Commentario Scialoja - Branca: Legge fallimentare a cura di F. Bricola, F. Galgano, G. Santini (Bologna Roma 1974) 1516, riassume così la vicenda legislativa dell’azione revocatoria: «Il punto dal quale mossero i legislatori (e lo scopo al quale fin da principio mirarono) fu di garantire la restituzione alla massa fallimentare di quei beni di cui il fallito si fosse sbarazzato fraudulenter seu dolose. Ma, sia per la constatata difficoltà di fornir la prova dell’intentum fraudis, sia per consentire agli organi fallimentari d’evitar un incidente di cognizione, i legislatori sostituirono al presupposto soggettivo della fraus quello oggettivo (e agevolmente constatabile) del tempo di compimento dell’atto depauperante il patrimonio: dapprima riconoscendo a questo elemento oggettivo del tempo la funzione di fatto noto, da cui risalire presuntivamente al fatto ignorato (e malamente accertabile) dell’intenzione fraudolenta; e, in seguito, dimenticato del tutto questo procedimento presuntivo, dando autonoma rilevanza a quello che ancor oggi si suol definire “periodo sospetto”». 39 Significativamente così si esprime Santarelli, Per la storia del fallimento 210. 40 Cfr. Piano Mortari, L’azione revocatoria, in particolare 125-126, 148-149, 155-156, 164, 184. I postaccursiani e i commentatori, anche sulla spinta delle legislazioni statutarie, riconsiderarono alcuni aspetti dell’azione revocatoria: così per Dino e Pierre de Belleperche l’azione revocatoria è un’azione personale dativa che nasce da un fatto illecito, cioè dalla fraus posta in essere dal debitore e non da un preesistente rapporto di diritto sostanziale. I glossatori distinguono infatti tra azioni native, che sono quelle derivanti da un rapporto preesistente di diritto sostanziale, e azioni dative, che sono quelle collegate a una obbligazione di origine extracontrattuale, stabilite dal diritto positivo per la tutela dei danni derivanti da fatti illeciti. Per Pierre de Belleperche l’azione revocatoria è un’azione stricti iuris e non bonae fidei: l’attore chiede la restituzione di una cosa solo al fine di conseguire quel che gli è dovuto e del debito non fanno parte i frutti del bene alienato; se invece l’attore avesse un diritto di proprietà sul bene, tale diritto si estenderebbe naturalmente anche ai frutti del bene. Anche nella dottrina del Trecento la revocatoria si fonda sul dolo del fraudator. Interessante è però la posizione di Iacopo Bottrigari che vuole rendere più incisivo il fondamento della revocatoria: pur aderendo al principio per cui la revoca non può prescindere dalla fraus del debitore, Bottrigari osserva che non sempre il terzo contraente è consapevole dell’intento fraudolento. Per ancorare la responsabilità del terzo al comportamento fraudolento del debitore, Bottrigari ritiene quindi di individuare il fondamento della revoca nell’intento fraudolento del debitore anche quando il terzo è conscius fraudis. Quando invece il terzo è in buona fede, o si tratti di atti a titolo gratuito, il giurista pone a fondamento della revoca il comportamento ‘oggettivamente’ lesivo dell’interesse dei creditori. 26 sostiene l’annullabilità degli atti sulla base della distinzione tra atti compiuti in fraudem legis e atti compiuti in fraudem creditorum: solo per i primi manca del tutto la validità giuridica dell’atto e lo scopo dell’azione potrebbe raggiungersi e potrebbe coincidere con l’accertamento giurisdizionale della nullità dell’atto. Per i secondi, invece, se non si esperisse l’azione, l’atto compiuto dal fraudator rimarrebbe valido e produrrebbe gli effetti suoi ‘naturali’41. Fin qui il dato normativo. L’azione revocatoria così come è disegnata negli ordinamenti sembra essere coerente con le caratteristiche del diritto fallimentare delle origini, un diritto di ‘natura’ pratica, fondato su «sbrigative forme di esecuzione mercantili», lontano dai «cavilli interminabili», ostile «alla penetrazione dei concetti del mondo giuridico»42. 3. Il momento giudiziale nei secoli XVI-XVIII Il discorso sull’azione revocatoria può muovere ora dalla narrazione di alcuni casi — tutti ascrivibili ai decenni compresi tra la fine del secolo XVI e i primi anni del secolo XVIII — che si posero all’attenzione dei giudici, in particolare di quelli della Rota romana, genovese, avignonese e fiorentina. Di volta in volta le fattispecie riguardano diversi aspetti dell’azione revocatoria. Alcuni sono ricorrenti: si pensi innanzitutto all’individuazione del momento in cui insorge lo stato di decozione, oppure all’indagine sul rapporto cronologico tra le ‘circostanze causative del fallimento’ e l’atto giuridico di cui si chiede la revoca. Altri aspetti, invece, sono peculiari di ciascun caso e con i primi si intrecciano: alcune sentenze distinguono tra stato momentaneo di crisi del mercante (per esempio, crisi di liquidità) e stato irreversibile di insolvenza; altre riguardano la decozione del mandante o del mandatario e affrontano i problemi degli effetti del fallimento sul mandato, con le relative conseguenze sulle parti del contratto ed, eventualmente, sui terzi. Un caso, infine, si incentra sulla vis attrattiva del fallimento: cioè, se, e quando, i creditori possano ‘inseguire’ i beni del decotto che siano passati nel patrimonio dei terzi, con tutti i connessi delicati problemi di tutela della buona fede e dell’affidamento. Quasi sempre i casi che qui si espongono riguardano fallimenti di grossi mercanti attivi nel commercio internazionale. Gli effetti del fallimento coinvolgono non solo soggetti e interessi presenti nell’ambito territoriale in cui risiede il mercante, ma anche attività imprenditoriali e finanziarie che il mercante conduce in piazze lontane. Il fallimento si ripercuote quindi su una vasta cerchia di soggetti collegati al fallito: corresponsales, banchieri, soci. Tra i casi che meglio evidenziano la propagazione degli effetti del fallimento sul mercato vi sono quelli che riguardano il fallimento del traente la lettera di cambio, lo strumento di pagamento assai diffuso proprio nel commercio internazionale. I casi che qui si espongono risalgono — come si è detto — ai secoli XVI-XVIII e furono decisi nei tribunali pubblici: proprio a partire dal secolo XVI le cause mercantili, fino ad allora 41 Cfr. Santarelli, Per la storia del fallimento 207 e Piano Mortari, L’azione revocatoria 185-186. 42 Così Pecorella - Gualazzini, ‘Fallimento’ 228, che spiegano come sin dalle sue origini il fallimento si era affermato come una procedura meramente esecutiva; acquistando solo in un secondo tempo — quando si ampliò la categoria dei crediti suscettibili di insinuazione — anche un carattere, sia pure solo eventuale, di cognizione. La dottrina di Guglielmo Durante del primo e del secondo decreto distingueva due momenti: col primo decreto si immettevano i creditori nei beni del fallito; col secondo si aggiudicavano effettivamente i beni o si vendevano all’incanto per soddisfare i creditori. Ma fu necessario qualche tempo affinché la dottrina di Guglielmo Durante si affermasse nella prassi: infatti i tribunali delle corporazioni mercantili non ammettevano la presenza degli avvocati perché «parve opportuno tener distanti dal mondo degli affari i portatori di cavilli interminabili (come dicevano gli avversari) o i portatori d’una superiore esigenza di giustizia e legittimità (come dicevano i giuristi stessi)… L’adito quindi alla penetrazione dei concetti del mondo giuridico nella giurisprudenza mercantile era piuttosto ristretto, occasionale, affidato più alla evidente razionalità delle soluzioni che al rigore dei principi». 27 sottoposte alla giurisdizione della corporazione dei mercanti, furono assegnate alla giurisdizione ordinaria, cioè ai tribunali pubblici, composti o integrati da giuristi43. Il processo di graduale rafforzamento del potere politico su quello corporativo della mercatura si avvia già nei secoli XIV-XV: tuttavia la forza dell’universitas mercantile che si esprimeva nell’autonomia associativa e nel diretto e autonomo potere normativo continua a manifestarsi nel carattere di universalità delle regole mercantili ora travasate nelle legislazioni statuali. Il rapporto tra le varie universitates e le loro rispettive giurisdizioni diventa la pietra angolare di tutta la costruzione giuscommercialistica che si alimenta e trae origine dall’incontro e dallo scontro fra due ordinamenti, l’ordinamento comunale e quello corporativo. La dialettica tra gli ordinamenti corporativi e politici si sviluppa quindi lungo l’arco di due, tre secoli e, per la comprensione di questo complesso processo, sono opportune alcune considerazioni: la prima, di Ascheri, che avverte che va verificata la certezza per cui sia sufficiente l’approvazione o la redazione d’uno statuto o la nomina dei dirigenti di un ente da parte di un potere che si pretende superiore per far perdere iniziativa autonoma e potere politico all’ente “approvato” o ai suoi dirigenti; l’altra, di Piergiovanni, che pone l’accento sul rischio di assolutizzare la portata ‘rivoluzionaria’ dell’Ordonnance du Commerce del 1673 che trasferiva ai tribunali statali le competenze dei tribunali corporativi. L’ordonnance è una «tappa, certo fondamentale, di un più complesso processo, piuttosto che un’innovazione sradicata dalle vicende del diritto commerciale ad essa coevo o appena precedente… appare ancora una volta esagerato il suo innalzamento a simbolo di un fondamentale processo di integrazione legislativa, dal momento che poco ha mutato nella realtà della vita commerciale»44. Evidenziare la natura pubblica dei tribunali che hanno risolto i casi che qui si citano e sottolinearne la composizione tecnico-professionale è necessario per porre l’accento sin da ora su alcuni elementi importanti: il ruolo protagonista dei giuristi — giudici e avvocati — nella interpretazione-formazione del diritto commerciale; la progressiva giuridicizzazione del fallimento. Entrambi gli elementi concorrono a un progressivo mutamento del fallimento: contribuiscono infatti all’apertura di parentesi di cognizione nell’ambito del procedimento fallimentare che originariamente era caratterizzato prevalentemente, se non addirittura esclusivamente, dalla esecuzione. 43 Sui tribunali cfr. Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni, nonché gli studi di Gino Gorla raccolti in Diritto comparato e diritto comune europeo (Milano 1981) e gli Atti del convegno Grandi Tribunali e Rote nell’Italia di antico regime M. Sbriccoli e A. Bettoni curr. (Milano 1993) con i contributi specifici su Macerata (G. Gorla, P. Cartechini, A.M. Napolioni), Genova (V. Piergiovanni, R. Savelli, C. Bitossi, M. Fortunati), Bologna (F. Boris - T. Di Zio, A. De Benedictis, A. Gardi), Firenze (M. Verga, G. Pansini), Lucca (V. Tirelli), Perugia (C. Cutini), Avignone (B.G. Zenobi), Ferrara (C. Penuti), Urbino (M. Bonvini Mazzanti) e la ricca letteratura ivi citata. Cfr. inoltre R. Savelli, ‘Tribunali, «decisiones» e giuristi: una proposta di ritorno alle fonti’, Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, G. Chittolini, A. Mohlo, P. Schiera curr. (Quaderni dell’Istituto storico italo-germanico 39; Bologna 1994) 397-421. Per gli aspetti comparativi, con particolare riguardo ai Paesi Bassi, ad Amburgo, all’Inghilterra, cfr. anche i saggi di W.D.H. Asser, E.C. Frentz, C.P.Rodgers e K.W. Nörr, raccolti in The Courts and the Development of Commercial Law, V. Piergiovanni ed., (Comparative Studies in Continental and Anglo-American Legal History 2; Berlin 1987). 44 V. Piergiovanni, ‘Diritto commerciale nel diritto medievale e moderno’, Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale 4 (Torino 19894) 21-27 (dell’estratto). Cfr. A. Padoa Schioppa, ‘Giurisdizione e statuti delle arti nella dottrina del diritto comune’, Saggi di storia del diritto commerciale (Milano 1992) 37 e ss., già pubblicato in Studia et documenta historiae et iuris 30 (1964) 170-234; Pecorella - Gualazzini, ‘Fallimento’ 225; M. Ascheri, ‘Mercanzie Mercanti e Istituzioni. Dal caso di Siena alla storia d’Italia’, Rassegna economica. Relazione al Seminario ‘Interessi economici e Istituzioni politiche nella storia d’Italia’ 15.12.1986, C.C.I.A.A. Milano (C.C.I.A.A. di Siena) 87 (1987) 43-45. Sull’ordonnance cfr. J. Hilaire, Introduction historique au droit commercial (Paris 1986) 79-82; R. Szramkiewicz, Histoire du droit des affaires (Paris 1989) 180-193; F. Galgano, Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale (Bologna 19933) 73-77 e A. Asquini, ‘Codice di Commercio’, Enciclopedia del diritto 7 (1960) 250 e ss. che sottolinea la sostanziale continuità tra l’ordonnance, consolidazione delle esperienze tardomedievali e dei primi secoli dell’età moderna, e il Code de commerce voluto da Napoleone. 28 CAPITOLO IV La revocatoria nell’interpretazione dei giuristi. Scelte, metodi, strumenti 1. Il fecondo rapporto circolare prassi-teoria-prassi. a) Sul piano legislativo: il ‘diritto che viene su dalle cose’ Le considerazioni sviluppate sui casi descritti non hanno la pretesa di esaurire la trattazione dell’azione revocatoria, ma servono solo a tratteggiare a grandi linee le vicende dell’azione nell’età moderna. Pur con i limiti indicati, però, credo si possa affermare che dall’indagine sui singoli casi, e dall’analisi degli strumenti probatori e della logica interna delle decisioni, emerga la centralità del fecondo rapporto circolare prassi-teoria-prassi. La prassi, cioè, sia sul piano giudiziale, sia sul piano del diritto sostanziale124, diventa occasione e momento di elaborazione teorica. Anzi, sul piano processuale lo stretto rapporto tra il ‘diritto che viene su dalle cose’ e la riflessione dei giuristi è ancora più evidente che sul piano normativo dato che per sua natura il processo è sempre attento alla prassi. Sul piano della produzione legislativa del diritto commerciale la ‘centralità della prassi’ certamente non vuole porre l’accento su un diritto che si rivolge a ‘praticoni’ o che è il prodotto di ‘praticoni’: i mercanti, infatti, sono portatori e protagonisti di una cultura propria125. Piuttosto la ‘centralità della prassi’ vuole sottolineare una costante degli ordinamenti, corporativi prima e pubblici poi. È significativo infatti che l’attenzione e la sensibilità per le istanze del ceto mercantile, caratteristiche ‘naturalmente’ costitutive ed essenziali delle normative e delle procedure corporative, rimangano costanti anche nelle normative e nei tribunali pubblici. Il fondamento di tale continuità può individuarsi nel peso politico del ceto mercantile e nel riconoscimento della rilevanza pubblica dell’attività mercantile: si pensi in particolare all’attività finanziaria. La più attenta storiografia ha messo in guardia dall’esagerare il peso politico dei mercanti, rilevando come l’attenzione degli ordinamenti pubblici per le istanze dei mercanti persiste anche quando il ceto mercantile non 124 Alla centralità della prassi nella formazione del diritto commerciale fa esplicito riferimento Antonio Padoa Schioppa, ‘Introduzione’, Saggi di storia del diritto commerciale (Milano 1992) 8-9: «Scaturito dalle esigenze del commercio e dell’artigianato dei comuni medievali italiani, frutto dell’incontro felice tra l’iniziativa del mercante e la fantasia creatrice del notaio nell’ambito delle corporazioni di mestiere, il nuovo diritto con i suoi istituti… si è formato anzitutto nella vita quotidiana dei commerci. Esso è divenuto consuetudine, e come tale si è affermato in Europa… ben prima che leggi e dottrina lo accogliessero e lo rielaborassero… Di questa centralità della prassi — «il diritto che viene su dalle cose», secondo la celebre espressione di Cesare Vivante — la storia stessa della legislazione offre numerose conferme… Un aspetto tra i più significativi tra quelli che l’indagine storica rivela, consiste proprio nella perdurante apertura transnazionale del diritto commerciale, nella continua circolazione di modelli legislativi… avvenuta all’interno del continente…». Cfr. anche R.C. van Caenegem, Introduzione storica al diritto privato (trad. it. Bologna 1995) 109-111. 125 Si pensi a opere come I libri della famiglia di Leon Battista Alberti fortemente caratterizzati dalla concezione della professione mercantile fondata sulla moralità. Sul milieu culturale del ceto mercantile, e anche sui rapporti tra i mercanti e i giuristi, cfr. A. Sapori, La mercatura medievale (Firenze 1972); Id., Il mercante italiano nel medioevo (Milano 1983); J. Le Goff, Mercanti e banchieri nel Medioevo (Messina Firenze 1976); A. Giuliani, ‘Quale etica per il mercato?’, Teorie e forme della razionalità pratica (Quaderni dell’Istituto di filosofia dell’università di Perugia; estratto s. d.) 33-47; Hilaire, Introduction historique 44 e ss.; R. Savelli, ‘Modelli giuridici’ 3-24; V. Piergiovanni, ‘The Itinerant Merchant and the Fugitive Merchant in the Middle Ages’, Of Strangers and Foreigners (Late Antiquity - Middle Ages) L. Mayali, M.M. Mart curr. (Berkeley s.d.) 81-96; C. Petit, ‘Derecho mercantil: entre Corporaciones y Códigos’, Hispania. Entre derechos propios y derechos nacionales. Atti dell’incontro di studio - Firenze/Lucca, 25-27 maggio 1989, B. Clavero, P. Grossi, F. Tomas y Valiente curr. (Per la storia del pensiero giuridico moderno 34; Milano 1990) I 315-380; B. Clavero, Antidora (Per la storia del pensiero giuridico moderno 39; Milano 1991) 35-56; J. Fried, Kunst und Kommerz. Über das Zusammenwirken von Wissenschaft und Wirtschaft im Mittelalter vornehmlich am Beispiel der Kaufleute und Handelsmessen (Schriften des Historisches Kolleg 32; München 1993) e Migliorino, ‘Profilo storico delle procedure concorsuali’. 53 esprime più un ruolo politico di primo piano126. Non v’è dubbio comunque che, nell’ambito della progressiva statalizzazione della giurisdizione, il riconoscimento della rilevanza pubblica dell’attività commerciale — in particolare dell’attività che riguarda il grande commercio internazionale e le grandi operazioni finanziarie — è testimoniato nel grado più alto proprio dal trasferimento ai tribunali statali delle competenze prima riservate ai tribunali delle corporazioni mercantili. E appunto nella sede giudiziale l’ordinamento affida l’interpretazione e il coordinamento degli interessi mercantili, e pubblici in generale, alla mediazione dell’equilibrio e dell’arbitrium prudentis iudicis. Nel contesto esaminato, caratterizzato da una costante attenzione del legislatore e dell’interprete per l’attività mercantile, la tutela dell’affidamento e dei creditori, necessaria per la certezza dei traffici, viene fuori in parte dal dettato normativo, in parte dall’opera interpretativa dei giudici e finisce per fondarsi sulla presenza contemporanea di tre elementi: la natura dichiarativa della sentenza di fallimento; la presunzione di fraudolenza degli atti compiuti dal decocturus nel periodo precedente il suo fallimento; il fatto che tale presunzione — come si è detto — sia interpretata come una presunzione iuris tantum e operi solo a favore dei creditori del fallito. 1.2 segue. La disciplina della revocatoria: funzione indennitaria e funzione preventiva Si consideri innanzitutto il dettato normativo. Gli ordinamenti sanciscono la nullità dei negozi conclusi entro un certo termine precedente la dichiarazione di fallimento. Le norme — come si è già detto — si fondano sulla presunzione che lo stato di insolvenza insorga in capo al mercante già nel periodo (ragionevolmente breve) precedente la sentenza dichiarativa di fallimento. I negozi che il mercante conclude in tale periodo si presumono compiuti in stato di insolvenza, si considerano attuati in frode ai creditori e sono pertanto soggetti a revoca127. Le norme fissate dagli statuti esentano dall’onere della prova i creditori che agiscono per la revoca: i creditori che agiscono a tutela dei loro crediti nei confronti del mercante fallito possono infatti chiedere la revoca degli atti posti in essere dal mercante nel ‘periodo sospetto’ senza dovere provare lo stato di insolvenza, poiché — appunto — tale stato si presume128. 126 Cfr. l’efficace sintesi di Piergiovanni, ‘Diritto commerciale nel diritto medievale e moderno’ 7 e ss. dell’estratto e la letteratura ivi citata. 127 Costantini e altri giuristi suoi contemporanei hanno affrontato anche il problema dell’assoggettamento alla revoca di un atto posto in essere da chi è prossimo al fallimento per rinunciare ad un diritto: per esempio, ad un’eredità, ad un legato, ad un usufrutto ecc. I giuristi hanno distinto i diritti già acquisiti da quelli che devono ancora essere acquisiti dal fallito (per esempio un’eredità o un legato che siano già stati accettati da un’eredità o un legato che devono ancora essere accettati). Nel caso di un diritto già acquisito, la rinuncia del decocturus fatta in frode ai creditori è senza dubbio assoggettabile a revoca perché si tratta di una vera e propra deminutio del patrimonio del fallito. Nel caso di diritti che devono ancora essere acquisiti si ritiene invece che il prossimo alla decozione possa rinunciare e si afferma che i debitori non possono essere costretti ad accettare l’eredità o il legato ecc. «Nam tali casu, non diminuit patrimonium, sed non acquirit, nec ex hoc dicitur fraudare creditores, dum iura debitoribus ac decoctoribus prohibentia alienationem in fraudem creditorum procedunt in iure quaesito, et radicato, non autem in iure quaerendo, cum hoc non sit in bonis debitoris, et possit hic non acquirere, nec propterea dicitur patrimonium diminuere, nec praeiudicare creditoribus, qui in iuribus quaerendis non habent ius certum, sed eventuale, nempe si a debitore acceptentur et acquirantur»: Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, p. 311a, che indica anche opinioni di giuristi che si discostano dall’orientamento esposto, assolutamente prevalente. 128 I decocti — e i proximi decoctioni che ad essi sono equiparati — sono puniti dalle leges e dallo statuto perché «solent omnia gerere plena fraudibus et simulata ad fraudandos creditores». I decocti e i proximi decoctioni sono dolosi, fraudum machinatores; vale l’equivalenza decoctus-fraudator: cfr. Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 1, p. 305. Per la revocatoria civile nel senso di un alleggerimento dell’onere della prova in capo al creditore si era già pronunciato Jacopo d’Arena, segnando una cesura profonda rispetto al pensiero dei glossatori. Questi ultimi, infatti, uniformandosi al diritto romano, escludevano la possibilità di provare la frode con presunzioni. Iacopo sostiene invece che si può fare ricorso alle presunzioni quando ricorrono determinate circostanze che inducono inequivocabilmente a ritenere che gli atti di disposizione dei beni sono stati posti in essere dal debitore per frodare i creditori e diminuire le loro 54 Dall’esame dei casi sembra pacifico che la funzione normativa dell’azione revocatoria corrisponda per grandi linee a quella che oggi la giuscommercialistica definisce ‘indennitaria’: con tale espressione si sottolinea che un atto può essere revocato in quanto compiuto in pregiudizio del patrimonio del debitore (e quindi in pregiudizio dei creditori), ammettendo, però, che il pregiudizio possa consistere anche solo nel mancato rispetto della par condicio, come nel caso del mercante magni nominis129. La revocatoria fallimentare, così come è disegnata nelle legislazioni particolari e applicata nei tribunali dei secoli XVI-XVIII, non esaurisce la sua funzione solo nel ristretto — anche se assai importante — ambito normativo, ma estende naturalmente i suoi effetti anche nell’ambito economico-produttivo. La disciplina normativa finisce infatti per influenzare lo svolgimento dell’attività economica: si pensi non solo alla ripartizione del danno economico del fallimento tra i creditori del fallito, ma anche e soprattutto agli effetti che la disciplina del fallimento produce sui comportamenti e sulle decisioni degli imprenditori. Infatti, la ripartizione del danno riguarda solo i creditori dell’imprenditore fallito, e quindi produce i suoi effetti ex post, dopo il fallimento; gli effetti sui comportamenti si hanno invece nei confronti di tutti i soggetti che si muovono sul mercato, già prima e al di fuori del fallimento. In questo senso può affermarsi una funzione ‘preventiva’ della disciplina della revocatoria. Così, per esempio, in alcuni soggetti che si muovono all’interno del mercato possono insorgere remore a compiere alcuni atti con determinati imprenditori e ciò produce sicuramente degli effetti sul piano della circolazione dei beni e della concessione dei crediti. Il rischio che gli atti traslativi e i pagamenti vengano sottoposti a revoca induce i protagonisti del mercato a selezionare le proprie controparti tra gli imprenditori più affidabili e finisce così con garanzie. Anche Jean Faure accetta il criterio delle presunzioni di frode. Così la prova della frode viene sempre più frequentemente raggiunta tramite l’utilizzazione di criteri oggettivi e presunzioni: si giunge presto a far coincidere la frode con il compimento di determinati atti che per il fatto stesso di essere posti in essere costituiscono chiara prova della frode. Conseguentemente si giunge presto a superare la necessità di esperire l’excussio bonorum prima della azione revocatoria. Se, infatti, il compimento di determinati atti costituisce prova della frode, è inutile esperire l’excussio bonorum per avere la prova della fraudolenza dell’atto consistente nella diminuzione delle garanzie patrimoniali del debitore. Sul fondamento e sulla natura dell’azione cfr. Piano Mortari, L’azione revocatoria, in particolare 153-154, 166, 181. 129 Sulla funzione del fallimento, cfr., oltre i contributi di Santarelli e Pecorella-Gualazzini, anche Galgano, Lex mercatoria, in particolare 61-66 e Migliorino, ‘Profilo storico delle procedure concorsuali’, in corso di stampa. Sulla funzione, anzi sulle funzioni, dell’azione revocatoria fallimentare si vedano le interessanti osservazioni, relative al diritto italiano vigente, ma anche ad altri ordinamenti contemporanei, che sono emerse dal recente dibattito che ha interessato la giuscommercialistica italiana: in particolare mi riferisco ad A. Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria (Padova 1970); Id., ‘La «funzione» della revocatoria fallimentare’, Giurisprudenza commerciale 3 (1976) I 362 e ss; a M. Libertini, Pagamento cambiario e revocatoria fallimentare. Un contributo alla teoria della revocatoria (Quaderni di giurisprudenza commerciale 2; Milano 1983) 57122, in particolare 104 e ss.; Id., ‘Sulla funzione della revocatoria fallimentare: una replica e un’autocritica’, Giurisprudenza commerciale 4 (1977) I 84 e ss., pubblicato anche in Studi in onore di Andrea Arena (Padova 1981) 1039 e ss. e a F. D’Alessandro, La revoca dei pagamenti nel fallimento (Milano 1972) 167 e ss., 107 e ss. Cfr., da ultimo, M.E. Gallesio Piuma, L’azione revocatoria fallimentare (I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale 19; Padova 1992) 1-27 e la completa letteratura ivi citata. Alla funzione ‘indennitaria’ oggi si contrappone la funzione ‘non-indennitaria’ o ‘redistribuitiva’ secondo la quale il requisito del pregiudizio dei creditori non è essenziale presupposto per la revocatoria, che mira invece a far gravare le perdite conseguenti al fallimento non solo sul patrimonio dei creditori insoddisfatti nel momento della dichiarazione di fallimento, bensì sul patrimonio di una cerchia più ampia di soggetti. Sia detto per inciso che la differenza tra i sostenitori della teoria ‘indennitaria’ e quelli della teoria ‘non-indennitaria’ si spinge oltre. Per i primi il patrimonio del debitore deve essere ricondotto nella situazione anteriore al compimento dell’atto revocato: per cui nel caso di revoca di un pagamento, il creditore revocato può iscrivere al passivo il credito originario; in caso di revoca di un atto dispositivo, il revocato può invece iscrivere al passivo solo un credito corrispondente al valore della controprestazione che eventualmente ha già pagato al fallito. Per i sostenitori della teoria ‘non-indennitaria’ il terzo revocato può in tutti i casi iscrivere al passivo un credito corrispondente al valore della prestazione che ha dovuto restituire al fallimento. Per esempio, nel caso di Invitto, Granara, secondo la prima teoria, avrebbe potuto iscrivere al passivo del fallimento di Invitto un credito pari al prezzo pagato per il sale; per la seconda teoria avrebbe potuto invece iscrivere al passivo un credito pari al valore del sale (calcolato cioè sulla base del prezzo a cui ha rivenduto il sale). 55 l’isolare l’imprenditore marginale accelerando la sua uscita dal mercato130. Significativamente nei casi di De Cesare, degli Zavaleis e di Cayrel si è posta in evidenza l’importanza, e, conseguentemente, la rilevanza a livello processuale, che i giudici attribuiscono alla obiettiva conoscibilità dello stato economico-finanziario dei mercanti all’interno del loro ambiente. Inoltre, come si è visto nei casi che si sono descritti, il giudice e gli imprenditori sono consapevoli che il fallimento non è il risultato di un singolo atto, bensì di un’errata o sfortunata conduzione dell’impresa: per esempio, nel caso degli Zavaleis, il giudice valuta il complesso dell’attività dei falliti; nel caso del mercante magni nominis, i creditori, nonostante lo stato di crisi economico-finanziaria, non richiedono la dichiarazione di fallimento, perché riconoscono che l’impresa è correttamente gestita e pertanto continuano a concedere credito al mercante in crisi affinché possa superare la difficile congiuntura. Ma i riflessi della disciplina della revocatoria sul piano economico non si fermano qui. Si consideri per esempio il caso del mercante magni nominis o il caso di Ottaviano e Nicola Lomellini: è evidente che i creditori sono propensi a concludere un accordo con il mercante in crisi, piuttosto che affrontare la procedura fallimentare. Ora, la scelta del criterio su cui imperniare la disciplina della revocatoria, cioè la scelta tra criterio del periodo sospetto (inteso come presunzione assoluta, o iuris tantum, di invalidità degli atti compiuti nel periodo sospetto) e criterio della retrodatazione (inteso come possibilità del giudice di accertare il momento dell’insorgere dello stato di insolvenza e invalidare gli atti compiuti a partire da quel momento) non è priva di riflessi sul comportamento dei soggetti attivi sul mercato. Si faccia il caso del mercante Tizio che attraversa un momento di crisi economico-finanziaria, ma che non può soltanto per questo considerarsi decocturus e tale non è considerato presso i soggetti del mercato. È naturale che Tizio, pur di alleviare la propria ‘sofferenza’ e la propria esposizione debitoria, venda la propria merce anche al di sotto del prezzo corrente nel mercato. Può accadere che il ricavato della vendita consenta a Tizio di migliorare il proprio stato economico-finanziario e di uscire dalla crisi, perché, per esempio, il denaro raccolto serve ad alleggerire la pressione dei creditori e permette di ricorrere di nuovo al credito. Ma può anche accadere che poco dopo la vendita (comunque entro un arco di tempo inferiore al periodo sospetto), in seguito al sopravvenire di una congiuntura sfavorevole, la crisi di Tizio diventi irreversibile ed egli fallisca: che fine farà la vendita della merce a prezzo inferiore a quello corrente nel mercato? Sarà o non sarà soggetta a revoca? Se si adotta il criterio del periodo sospetto (inteso come presunzione assoluta di invalidità dell’atto) la vendita potrà essere revocata. Se si adotta lo stesso criterio (inteso come presunzione iuris tantum) la vendita non sarà revocata, perché si proverà che nel momento della conclusione dell’atto il mercante godeva ancora di buona fama e che l’atto non è stato concluso in frode ai creditori. Se si adotta il criterio della retrodatazione — cioè se si affida al giudice l’individuazione del momento dell’insorgenza della decozione — la vendita non sarà revocata perché l’atto non è stato concluso quando il mercante era già in stato di insolvenza. È evidente che l’adozione dell’uno o dell’altro criterio ha riflessi immediati sul piano economico e, conseguentemente, sul comportamento dei soggetti attivi sul mercato. In particolare, l’adozione del periodo sospetto (inteso come presunzione assoluta) costituisce una remora fortissima a contrarre con il mercante in crisi, con effetti generali negativi sull’economia, perché si 130 Questo meccanismo lineare nasce, e funziona bene, in un mercato che agisce in condizioni assolutamente libere e in un ordinamento che tutela i creditori e non avverte ancora l’esigenza di tutelare gli altri interessi sociali colpiti dal fallimento. Risulta invece ormai inadeguato rispetto alle condizioni attuali del mercato: finisce infatti per rivolgersi solo alle piccole imprese, poiché per le grandi imprese in difficoltà scattano meccanismi di salvataggio che cercano sia di tutelare gli interessi economici dei creditori e dell’impresa stessa, sia di ammortizzare gli effetti sociali del dissesto: cfr. Libertini, ‘Sulla funzione della revocatoria fallimentare’, Giurisprudenza commerciale 87 e ss. e 93 e ss. (in Studi Andrea Arena 1043 e ss., 1053 e ss.) e letteratura ivi citata. 56 finisce per togliere allo stesso mercante in crisi la possibilità di risollevarsi dallo stato di sofferenza131. 2. b) Sul piano giudiziale: il ruolo del prudentis iudicis arbitrium tra etica del mercato ed etica della ragionevolezza Si guardi ora al ruolo che i giuristi, giudici e avvocati132, assumono nella vicenda della revocatoria e, più in generale, nella tutela dell’ordine pubblico commerciale. La rete di protezione che l’ordinamento pone a tutela della correttezza dei traffici può funzionare efficacemente solo se ai giudici si consenta un’ampia ‘intrusione’ nell’indagine sulle circostanze di ciascun caso insieme con una certa discrezionalità nella scelta degli strumenti probatori e dei percorsi processuali. È opportuno ribadire che i tribunali chiamati a decidere i casi esaminati non sono magistrature corporative, bensì tribunali statali, istituiti già nel secolo XVI (o anche prima: si pensi alla Rota romana), e composti, o comunque ‘assistiti’, da giudici togati: a tali tribunali spettano ormai le competenze in materia commerciale, prima riservate alle magistrature corporative. Tuttavia i giudici devono giudicare anche tenendo conto della inveterata consuetudo propria della mercatura, e ciò non è senza effetti: dalla sostituzione dei ‘giudici mercanti’ con i ‘giudici dottori’ nasce un nuovo «stilus che, volta a volta giustificato e teorizzato, contribuirà a introdurre a pieno titolo nella dottrina giuridica le più significative elaborazioni del mondo mercantile»133. L’impatto dei giudici dottori con gli usi mercantili e con le figure teoriche emergenti nella mercatura è difficile: i mercanti conoscono bene i contratti e gli usi mercantili, ma non sanno capirne il valore giuridico; i giudici sono spesso costretti a rivolgersi ai mercanti per meglio conoscerne gli usi e i contratti non regolamentati nel diritto comune. I mercanti, poi, ritengono che le controversie possano e debbano risolversi tutte secondo equità134, «mentre l’equità — afferma Casaregi — non è mai quella che può suggerire il proprio cervello»135. Ma Casaregi sottolinea anche che non è «impresa né men così facile agli stessi 131 In questi termini ha analizzato i riflessi della disciplina della revocatoria, per indagare sui problemi e sulle inadeguatezze della procedura fallimentare, nel diritto italiano vigente, Tullio Ascarelli, ‘Ancora in tema di imprenditore occulto’, Problemi giuridici (Milano 1959) II 505-506. 132 Al termine ‘giuristi’ per gli anni e i grandi tribunali a cui si fa qui riferimento può affiancarsi in modo assolutamente fungibile il termine ‘giudici’. Tutti i giuristi fin qui citati sono stati impegnati ad alto livello nella funzione giurisdizionale: si pensi alle vicende biografiche di Scaccia, Stracca, Costantini, De Luca tutti impegnati nel foro. Può bene richiamarsi quanto afferma Ennio Cortese, Il rinascimento giuridico medievale (Roma 1992) 95: «… la trasformazione graduale della dottrina giuridica, dall’età dei glossatori in poi, si accompagna a un lento spostamento dell’asse portante del ceto dei giuristi: che a poco a poco si trasferisce dalle aule accademiche a quelle dei grandi tribunali. L’attore principale sulla scena del diritto era stato il sapiente che insegnava: all’aprirsi dell’età moderna è piuttosto il giudice che giudica». Cfr. inoltre Gorla, Diritto comparato 547-551, Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni 86-87, 89-99. Specifico per il regno di Napoli è P.L. Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento (Napoli 1981) 371-463. 133 Piergiovanni, ‘Una raccolta di sentenze’ 83-84. Sui tribunali cfr., supra, note 16 e 17. 134 Interessante è il ritratto del giudice ideale di Peri, Il negotiante 58 e ss.: «… prudentissime sono le leggi mercantili le quali hanno provisto… che i Giudici nel terminare le differenze che fra’ mercanti occorrono, habbino riguardo solamente alla pura verità del fatto, così deve farsi, e non mirare all’ambiguità delle parole, o sottigliezze di ragioni, col che in poco tempo gl’impongono fine; stile che se fusse usitato da molt’altri giudici, si levarebbero le tan te varie interpretationi; che a ciascheduna parola sono date, conforme alla sottigliezza de’ difensori, il che serve più a mostrare l’acutezza del loro intelletto, che la sostanza della causa, e s’abbreviarebbe la lunghezza del tempo… Quattro conditioni parmi che si richieggano in ogni giudice. Prima, che sia timorato di Dio, e di costumi integerrimi… Seconda, che sia litterato e prudente… ove nelli libri legali si nomina vir bonus, s’intenda giudice idoneo, cioè che il giudice sia vir bonus iuris dicendi et equitatis peritus… Ha da esser prudente, e la prudenza nasce dall’esperienza delle occorse, e la virtù della prudenza nel Giudice più vale che la dottrina. Terza conditione, che sia d’animo intrepido, e giustissimo, dovendo giudicare, o secondo la legge, o secondo la consuetudine senz’alcun effetto humano, in maniera, che nel giudicare non vi sia differenza dalla causa dell’amico a quella del nemico…». 135 Così Casaregi, Discursus legales, disc. 56, II, p. 193. 57 Dottori, il saper rinvenir bene questa equità»136. La difficoltà del giudice è comprensibile: egli per giudicare deve ‘leggere’ con le sue lenti di giurista la realtà economico-giuridica in cui agisce il mercante. «Il diritto commerciale di questo periodo — afferma Tullio Ascarelli — ci presenta appunto l’enucleazione di una normativa il cui centro è costituito dallo scambio e dal mercato e che già acquista (nonostante il criterio soggettivo della sua applicazione) un valore proprio, distinguendosi così da un mero diritto di classe e dalla disciplina interna delle corporazioni e dei suoi membri, di importanza prevalente nelle corporazioni di mestiere… La formazione, originariamente italiana, è sostanzialmente uniforme nel campo internazionale e indipendente da limiti di frontiera, sì che lo Stracca parlerà non a torto di un nuovo ius gentium»137. Il giurista deve quindi ‘filtrare’ e ‘decodificare’ la dimensione economico-giuridica del mercante — e non solo sul piano della terminologia, che pur essendo importante non è neppure il più significativo —, e «decidere poi quello che riguarda l’essenza e la qualità delle obbligazioni, che dipendono solamente da articoli legali… [e] ridurre il caso, che accade in pratica, a quella specie di contratto che meglio pare adattarglisi»138. Il ‘codice’ che il giurista utilizza nella sua opera di ‘decodificazione’ è lo strumento che meglio conosce, il ius commune139. Naturalmente non più e non soltanto il ius commune come insieme delle leges e delle constitutiones del Corpus iuris civilis, ma come complessa esperienza giuridica: «quando statutum refert ius commune, refert non solum leges, seu constitutiones corporis iuris civilis, sed omnes intellectus, ac interpretationes, quas cumulaverunt Doctores ac Iurisconsulti tractantes, consulentes, ac decidentes super eisdem legibus»140. Le auctoritates cui si richiamano gli estensori delle decisioni studiate e gli autori delle opere utilizzate sono assai raramente glossatori; poco frequentemente commentatori; quasi sempre, naturalmente, giuristi contemporanei o del secolo precedente: lungo l’arco di tempo che qui si è preso in considerazione si tende a citare sempre di più giuristi vicini nel tempo e sempre di meno giuristi del passato. Inoltre, l’internazionalità della circolazione delle dottrine commercialistiche è evidente nelle citazioni delle raccolte di consilia e di decisiones, nonché in quelle dei tractatus riguardanti materie specifiche141. I giuristi — giudici e avvocati nei rispettivi ruoli — impegnati nei grandi tribunali non rimangono estranei al lungo e articolato processo di formazione del diritto commerciale. Nel confronto processuale i giudici e gli avvocati operano scelte riguardanti il petitum, la causa petendi, l’actio: sono tutte scelte, di strumenti e di percorsi, rilevanti sul piano dell’economia processuale e, conseguentemente, essenziali per una pronta ed efficace tutela dell’interesse privato dei creditori e dell’interesse pubblico del commercio142. 136 Così Casaregi, Discursus legales, disc. 56, II, p. 193. 137 T. Ascarelli, ‘Sviluppo storico del diritto commerciale e significato dell’unificazione’, Saggi di diritto commerciale (Milano 1955) 10: l’autore sottolinea l’omogeneità del diritto commerciale anche rispetto alle regioni europee, l’Inghilterra, per esempio, rimaste estranee all’esperienza dello ius commune. 138 Così Casaregi, Discursus legales, disc. 56, II, p. 193, lamenta l’incomunicabilità tra mercanti e giuristi. 139 Sul punto, cfr. M. Bellomo, L’Europa del diritto comune (I libri di Erice 1; Roma 19947) 236-237. 140 Joseph Laurentius Maria de Casaregis, Elucubrationes in Opera (Venezia 1740) III 144. Sul brano cfr. F. Calasso, Introduzione al diritto comune (Milano 1951) 74, 83-86 e G. Cassandro, Lezioni di diritto comune (Napoli 1971) I 286-288. 141 Cfr. Piergiovanni, ‘Diritto commerciale’ 21-27 (dell’estratto): «I legami degli studiosi con la pratica e la giurisprudenza delle Corti specializzate si collegano quindi, già dal secolo XVI, a nuove condizioni economiche e politiche… Novità e legami con la tradizione consuetudinaria, nazionalismo giuridico e persistenza di carattere di vocazione internazionale sono un patrimonio, solo apparentemente, contraddittorio, che viene consegnato all’opera di codificazione ottocentesca». Cfr., inoltre, Galgano, Lex mercatoria 66-69 e, sul successo e sulla circolazione delle dottrine elaborate nei tribunali italiani, Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni 89-99 e Gorla, Diritto comparato 543-617. 142 Piergiovanni, ‘Banchieri e falliti’ 36-37, riferendosi ai primissimi decenni del XVII secolo a Genova, dopo il passaggio dalla legislazione del 1528 a quella del 1573 chiarisce bene il ruolo della giurisprudenza: «in questo quadro politico-istituzionale che ne condiziona l’azione, la giurisprudenza rotale si qualifica in rapporto alla tradizione giuridica locale, alle consuetudini mercantili ed al diritto comune. Attraverso questi tre poli, che interagiscono tra loro di continuo, la pratica dell’emporio genovese viene elevata a livelli di più generale elaborazione tecnica, e si chiariscono così alcune 58 Gli avvocati e i giudici valutano le circostanze del caso e, ciascuno nel proprio ruolo, scelgono la loro strategia processuale: gli avvocati per tutelare gli interessi delle parti, i giudici per affermare le ragioni del diritto. Le scelte degli uni e degli altri concorrono alla vita del processo di cui scandiscono l’andamento. Per essere più chiari si può tentare un’esemplificazione. Per comodità di esposizione si considera qui solo il ruolo del giudice: del resto il giudice non è il dominus assoluto del processo, ma solo uno dei protagonisti; pertanto è evidente che le scelte che nella esemplificazione gli si attribuiscono sono in effetti il risultato del confronto dialettico parti-giudici. Il giudice può assumere come termine di riferimento la dichiarazione di fallimento e, senza necessità di ulteriori indagini, revocare gli atti che siano stati compiuti nel ‘periodo sospetto’ indicato dalla legge e calcolato a partire dal momento della sentenza. In assenza di una dichiarazione di fallimento, o, in presenza di una dichiarazione di fallimento che, per essere stata pronunciata ‘tardivamente’, salverebbe atti conclusi in frode dei creditori, il giudice può invece percorrere un altro itinerario: può ignorare la data della dichiarazione di fallimento (che ha valore dichiarativo), e, avvalendosi di tutti gli strumenti probatori disponibili (in primo luogo le presunzioni), può individuare il momento della decozione. Così individuato il momento dell’insorgere dello stato di decozione può calcolare, proprio a partire da quel momento, il ‘periodo sospetto’ previsto dallo statuto e revocare gli atti compiuti in tale periodo143. Quando, infine, gli atti sono conclusi prima del ‘periodo sospetto’ non sono per questo attaccabili, in via di principio, dall’azione revocatoria: se il giudice accerta però che tali atti sono stati compiuti in frode ai creditori con il fine di dilazionare il fallimento e lucrare da tale dilazione, può comunque concedere la revoca di tali atti. Il giudice può infatti provare anche con il ricorso alle presunzioni che si tratta di atti fraudolenti e simulati e può pertanto sottoporli a revoca144. In generale può affermarsi che sul piano legislativo, ma anche su quello giurisprudenziale, si giunge ad una equiparazione tra il decoctus e il proximus decoctioni perché si presume secondo l’id quod plerumque accidit che il proximus decoctioni si trovi in uno stato di insolvenza già prima della dichiarazione formale di fallimento, anche perché — come si è già detto — si ritiene che il fallimento sia il punto di arrivo di una errata o sfortunata gestione complessiva dell’impresa e che solo in casi eccezionali consegua invece al compimento di un singolo atto. L’equiparazione del decoctus al proximus decoctioni, che sul piano legislativo è limitata al ‘periodo sospetto’ sancito dallo statuto, viene sul piano giurisprudenziale fissata di volta in volta dal prudentis iudicis arbitrium: il giudice può bene ‘ampliare’ il limite fissato dallo statuto, perché questo è sancito «ad corroborationem eorum quae a iure communi tradita sunt». L’equiparazione costituisce così uno strumento fondamentale di cui giudici e giuristi si servono per la tutela dei creditori del mercante fallito. Al giudice è riconosciuto dunque un ampio margine di discrezionalità. Tale ‘possibilità di manovra’ è funzionale alla realizzazione dell’economia processuale che è uno degli strumenti essenziali per una più pronta ed efficace tutela degli interessi dei mercanti. Ma qual è — al di là dell’evidente opportunità politica e di fatto — il fondamento giuridico di tale capacità di manovra del giudice? Esso è senza dubbio la buona fede, a cui devono essere ispirati tutti i comportamenti dei mercanti, in primo luogo le relazioni che sorgono in dipendenza dei contratti commerciali. Tali contratti di solito non sono contratti ‘stricti iuris’ bensì appunto contratti di buona fede. Per questi contratti da un lato possono trascurarsi gli ‘apices iuris’ e le ‘solemnitates iuris’, dall’altro l’indagine direttrici del formarsi della nuova scienza del diritto commerciale… La tradizione del diritto comune non rimane però estranea alla formazione di questo nuovo complesso scientifico, e la circostanza sarebbe parsa strana trattandosi di elaborazioni provenienti da giuristi di scuola romanistica. Il recupero delle vecchie dottrine da adattare alle nuove esigenze pratiche e scientifiche, già tentato con diversi fini e risultati almeno da Santerna e Stracca, avviene attraverso un uso, spesso ridondante, di citazioni dottrinali: la tradizione locale e la consuetudine mercantile associate al diritto romano ed agli antichi autori consentono alla nuova scienza di trovare agganci ed appoggi teorici». Cfr., inoltre, U. Santarelli, Mercanti 2 e società tra mercanti (Torino 1992 ) 47-53; Hilaire, Introduction historique 45-55. 143 Come nel caso dei Bonavogli: cfr., infra, cap. II, § 3. 144 Cfr., supra, nota 78. 59 del giudice può spingersi fino a chiarire tutte le circostanze del caso: «omnia libere ex aequo et bono aestimat»145. Proprio la tutela della buona fede consente al giudice di non sottoporre a revoca quegli atti che, pur conclusi nel ‘periodo sospetto’, non possono ritenersi compiuti in danno dei creditori, perché il terzo contraente non conosceva lo stato di decozione (o di imminente decozione) della sua controparte146. Il ruolo del giudice è esaltato da Giovan Battista De Luca: nel discorso CXV de regalibus il giurista affronta il problema della individuazione del proximus decoctioni, passando in rassegna varie soluzioni legislative. Per il Senatus di Valentia deve considerarsi proximus decoctioni chi fallisce entro un mese dalla conclusione del contratto di cui si chiede la revoca; per i giudici della Rota romana il termine è di 14 giorni; per Francesco Rocco il termine è modicum, di appena due o tre giorni; per lo statuto di Ancona è di otto giorni; per quello di Bologna in alcuni casi è di un anno, in altri addirittura di quattro anni. Di fronte ad un panorama normativo così variegato De Luca conclude: «… Quicquid nostri doctores varient, veritas esse videtur, certam regulam tradi non posse, sed totum repositum esse in prudentis iudicis arbitrio, ex singulis facti circumstantiis regulando. Multoties enim casus decoctionis est talis quod etiam per plures menses a creditoribus, et aliis cum mercatore contractibus praevidetur, et multo magis ubi agitur de actibus ab ipso decocturo gestis ad favorem uxoris, filiorum, seu aliorum coniunctorum in creditorum fraudem et supplantationem, quia ut plurimum isti infames, et perditi homines, de eorum statu bene conscii, cum fallacibus apparentiis negotiatores eludentes per annos, eorum futuram decoctionem praevident, itaut quo magis effectent pompas, et apparentias eo magis augeatur suspicio. Multoties vero etiam ipsis decocturis, aliisque negotiantibus casus contingit novus, ita ut actus etiam per diem, vel horam antea gesti, bonae fidei et in statu habili censendi sint, quia nempe casus proveniat ab insperato infortunio naufragii mercium, sive decoctionis alicuius mercatoris, vel corresponsalis in diversa civitate, vel provincia commorantis, ex quo ultimo casu probatissimos, et satis idoneos mercatores scio pluries innocentes propriae decoctionis damnum, et iniuriam passos esse. Sive ex morte naturali eiusdem mercatoris alioquin probi, et idonei, ob pecuniam, et bonorum occultationem a coniunctis, vel famulis, ut est casus in Rom. seu Bonon. litterarum Cambii pro Federico, sub eodem titulo de credito vel cambiis. Unde erroneum dicebam in ista materia certi et determinati temporis regulam dare»147. 145 Arnoldus Vinnius, In quatuor libros Institutionum Commentaria (Venezia 1726) II 887. Ma già Bartolo, Comm. in Secundam ff. Veteris Partem ad l. Si fideiussor §quedam [D.17.1.29] (Venezia 1575) fol. 104va, aveva fissato lo stesso principio: «Not. quod apices iuris dicuntur qui subtilitatem quandam respiciunt magis quam facti veritatem. Nota quod in curia mercatorum debet iudicari de bono et aequo, omissis iuris solennitatibus, quid est dictum. Hoc non dico quod debeat intelligi non habito respectu ad iura civilia: quia esset contra l. Bona fide supra titu. i. [D.16.1.27]; sed debet intelligi non inspectis solemnitatibus iuris, hoc est non inspectis apicibus iuris, qui veritatem negotii non tangunt…». Sull’argomento cfr., A. Padoa Schioppa, ‘Giurisdizione e statuti delle arti’ 54; G.P. Massetto, ‘Buona fede nel diritto medievale e moderno’, Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile 2 (Torino 19884) 133-154, in particolare 147-150, e la letteratura ivi citata; R. Meyer, Bona Fides und Lex mercatoria in der europäischen Rechtstradition (Göttingen 1994) 56-68. Deve segnalarsi che il processo sommario ebbe origine proprio nelle curiae mercantili: cfr. L. Goldschmidt, Storia universale del diritto commerciale (trad. ital. Torino 1913) 137-142 e Lattes, Il diritto commerciale 242-307. Sul ruolo dell’aequitas nella decisione del giudice cfr. E. Cortese, La norma giuridica (Milano 1962) I 91 s. 146 In tal senso Casaregi, Il cambista istruito cap. I nn. 3-4, p. 38, che richiama, tra i tanti, Benvenuto Stracca, De decoctoribus part. 3, n° 51 e 52, p. 482, e la decisio 184 della Rota genovese (cfr., supra, cap. II, § 2.). Sul brano di Casaregi cfr., infra, p. 115 e ss. 147 De Luca, Theatrum veritatis VIII de regalibus disc. CXV, pp. 177b-178a. Dello stesso tenore è il discorso X de credito et debito, Theatrum veritatis VIII, p. 17ab: «Si quidem certum est, quod actus gesti per decocturum, ac de tempore decoctioni proximo, sunt de iure invalidi ob praesumptam fraudem, absque distinctione… Quando autem quis dicatur decocturus, et quale sit tempus decoctioni proximum, in iure statutum non reperitur, variis varia opinantibus… Veritas tamen est, ut ista sit quaestio facti potius, quam iuris non admittens certam ac determinatam regulam, sed ut pro singulorum casuum circumstantiis diversimode decidenda veniat… adeout leguleica simplicitas mihi semper visa sit illa Pragmaticorum Curiae propositio, quod cum in dicta 60 Anche Francesco Costantini, dopo avere registrato le differenti opinioni dei giuristi sull’ampiezza del ‘periodo sospetto’ (2, 3, 10, 15, 20 giorni), sostiene che solo alla discrezione del giudice spetti determinare l’ampiezza del periodo. Solo il giudice può infatti valutare le circostanze del singolo caso: per esempio, non si può dedurre il dolo solo dal fatto che l’atto è compiuto poco prima della decozione e devono ben valutarsi comportamenti come quelli di alcuni mercanti che continuano a gestire i loro affari pubblicamente e a procurarsi mercanzia per poi rifugiarsi in luogo sicuro e imporre ai creditori condizioni svantaggiose o addirittura esasperanti. Tali comportamenti non possono considerarsi di semplici decotti, bensì di latrones, publici commercii proditores148. E, proprio a proposito del caso di De Cesare149, dopo avere approfondito i problemi relativi all’ammissibilità della decoctio latens, Costantini conclude, rilevando la variabilità degli orientamenti giurisprudenziali conseguente alla difficile individuazione di criteri certi e omogenei: «in hoc admirati remanserunt mercatores, ac negociatores, et bene in hoc dici potest, quod tot homines, tot sententiae, et quod in digestione eiusdem cibi adest diversitas in stomachis diversarum personarum»150. E anche Casaregi, a proposito della piena equiparazione tra il decoctus e il proximus decoctioni, dopo aver dato notizia delle differenti soluzioni legislative, affida al giudice il compito di indagare sulle condizioni economiche del mercante nel momento della conclusione dell’atto di cui si chiede la revoca: solo il giudice, infatti, può ben valutare caso per caso le condizioni economico-finanziarie del mercante prima della decozione. Nell’indagine il giudice deve appurare se il mercante sia prossimo alla decozione per un evento inopinato e imprevedibile quali il naufragio di una nave, o il fallimento di altri mercanti da cui dipendevano i suoi affari, o altri imprevedibili infortuni; oppure se il mercante sia stato in floride condizioni economiche sino a pochi giorni prima della decozione; o, ancora, se il mercante, già consapevole da giorni o anche da mesi del suo futuro fallimento, tuttavia abbia nascosto il suo precario stato economico e abbia continuato ad esercitare la mercatura al fine decisione 9 Buratti, reputetur tempus proximum illud 14 dierum, ita iste terminus ad id statutus censeatur. Quoniam stant simul ut in uno casu terminus brevis unius diei non sit sufficiens ob casualem ac inopinatam superventam decoctionem probi negotiatoris resultantem a magno mercium naufragio vel (et frequentius) a decoctione alterius negotiatoris corresponsalis; et a converso, ut dicatur decoctio praeparata per plures annos, quamvis artificiose occultata, ut frequens praxis docet, atque locis citatis advertitur, praesertim d. tit. de cambiis. Cum igitur id in iure statutum non sit, sed remissum arbitrio iudicis ex facti qualitate regulando. Hinc proinde nihil prohibet, quin lex laicalis, experta regionis mores quod decoctiones per notabile tempus praeparari ac praevideri soleant ad huiusmodi quaestiones dirimendas, certum ac uniformem terminum statuat longiorem vel breviorem, ut experientia docuit…». Nello stesso senso è l’affermazione a proposito del disc. CXII. 6-10 del titolo de credito et debito, Theatrum veritatis ac iustitiae VIII, p. 176b: «Quaestio videbatur potius facti quam iuris, an scilicet de tempore exequutionis aut subhastationis, debitor dici posset decoctus. Atque super hoc maiores disputationes fuerunt, cum decisio penderet ex circumstantiis facti, illam controversam qualitatem includentibus vel excludentibus…». Gli stessi termini del cardinale De Luca usa Carolus Antonius de Luca, Animadversiones in Stephanus Gratianus, Disceptationes 554a: «Quando quis dicatur decocturus, et quale sit tempus decoctioni proximum in iure statutum non reperitur, variis varia opinantibus… Veritas tamen est ut ista quaestio facti potius quam iuris non admittens certam, et determinatam regulam sed ut pro singulorum casuum circumstantias diversimode decernenda veniat…». Si veda anche quanto afferma Costantini, riferendosi al fallimento di De Cesare, a proposito del prudentis iudicis arbitrium (cfr., infra, nota 126). 148 Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 1, p. 306b: «… Non conveniunt scribentes quando quis dicatur decoctioni proximus…At in huiusmodi opinionum conflictu verior est sententia, quod circa tempus id totum remittaur arbitrio iudicis, qui considerabit, nedum tempus circa decoctionem, cum ex sola brevitate temporis actus gesti paulo ante decoctionem non possit praesumi dolus, et fraus in contractu, ac actu gesto, sed simul inspiciet qualitatem antecedentium et subsequentium, ac alias facti circumstantias eius arbitrio examinandas a solo tempore non deductas…». 149 Cfr., supra, cap. I, §§ 2.2 e 2.2.1. 150 Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 3, p. 313b: cfr., supra, p. 11. 61 di lucrare dalla dilazione del fallimento. Come è evidente Casaregi è sulla stessa linea di De Luca, alla cui auctoritas spesso, come in questo caso, si riferisce151. Dall’esame dei casi si ricava l’impressione che i protagonisti del processo, giudici e avvocati, abbiano sempre affidato al momento processuale — e al giudice innanzitutto — l’esercizio di un ampio potere ‘intrusivo’ di indagine volto ad accertare i due elementi che sul piano giuridico si considerano rilevanti per la concessione della revoca: lo stato di decozione (latente, oppure già avvenuta, anche se non ancora dichiarata) in capo al mercante nel momento della conclusione dell’atto di cui si chiede la revoca; la consapevolezza di tale stato in capo al terzo. Per quanto poi riguarda il terzo elemento che dalla concorrenza dei primi due si presume — cioè la fraudolenza dell’atto in danno dei creditori del mercante — si ha l’impressione che il giudice si sia preoccupato di raggiungere la prova, anche al di là di quanto richiesto dalla lex mercatoria. Sembra infatti che anche nei casi in cui la normativa statutaria prevedesse la revocabilità dell’atto concluso durante il ‘periodo sospetto’, il giudice si sia tuttavia comunque preoccupato di accertare la consapevolezza dello stato di decozione in capo al terzo contraente. A margine di queste considerazioni non è superfluo ribadire che non è rilevante che il giudice abbia agito spontaneamente o su richiesta degli avvocati patrocinanti le parti in causa: infatti la valutazione delle vicende processuali guarda al processo nel suo insieme e muove dalla convinzione che il processo sia il risultato di un confronto in cui concorrono i ruoli protagonisti del giudice e degli avvocati. I soggetti del processo — e in primo luogo i giudici che assumono la responsabilità della decisione — sembrano guidati da quella che Alessandro Giuliani ha definito la ‘morale della ragionevolezza’, indicando con questa espressione la morale della virtù del diritto naturale aristotelico per sottolinearne la caratteristica costituita dalle interferenze tra virtù etiche e dianoetiche152. Significativamente Giuliani afferma che l’economia, l’etica e il diritto fino alle soglie dell’età moderna sono legate da un rapporto simbiotico dalla cui dissoluzione è nata l’idea dell’economia come scienza: «l’etica venne intesa come filosofia delle virtù civili; pertanto continuò ad essere considerata un’essenziale premessa alla politica, al diritto, all’economia. I risvolti di questa atmosfera culturale possono cogliersi nella stessa ideologia dei mercanti, che continuò a ravvisare nella moralità commerciale un momento fondamentale della professionalità»153. «L’uomo virtuoso — continua Giuliani — non delibera emotivamente e precipitosamente, ma dopo aver puntigliosamente indagato tutti gli aspetti della questione, come in un processo: la prevedibilità delle conseguenze costituisce un momento fondamentale della giustificazione di una decisione. L’etica aristotelica ha altresì una dimensione istituzionale: le regole di condotta si affermano nella lenta evoluzione delle pratiche sociali. Di esse, nella polis greca, erano custodi gli arbitri. Pertanto quella etica risulta imparentata con l’immagine di un’attività professionale legata ai valori giuridici della comunità e con pesanti responsabilità di fronte ad essa»154. Dall’analisi dei casi sembra emergere uno scarso peso della lex mercatoria ispirata al criterio del ‘periodo sospetto’: si consideri infatti che anche nei casi che si sarebbero potuti risolvere sic et 151 Casaregi, Discursus legales, disc. 75, II p. 252a. 152 «Prudenza e giustizia presuppongono l’esercizio di quella ‘facoltà di giudicare’ che è rappresentata dall’intelletto»: Giuliani, ‘Quale etica’ 39. 153 Giuliani, ‘Quale etica’ 35-43: nella concezione aristotelica non è possibile una ‘scienza’ morale proprio perché le questioni etiche “sono strutturalmente conflittuali e controversiali”. Consapevoli dei limiti della conoscenza umana e dei conseguenti rischi e incertezze, si afferma che la soluzione giusta debba scaturire dalla assunzione di responsabilità di chi opera la scelta, scelta «che può essere ragionevole ma non razionale…». Giuliani richiama il pensiero di Adam Smith, e di Giovan Battista Vico, che hanno avvertito che i «presupposti epistemologici ed etici di un ordine economico ‘giusto’ vanno ricercati nella retorica e nella morale, considerate nelle loro interferenze reciproche: entrambe trovano un punto d’incontro nell’esperienza giuridica… Non appare casuale che dall’età media all’umanesimo — il ritorno alla morale della virtù abbia potuto offrire le categorie della ‘giustizia nello scambio’ all’etica delle professioni, ivi compresa quella mercantile, permettendo ad esse di affermare la credibilità del loro ruolo sociale». Sulla emersione dell’economia come scienza autonoma e sulle concettualizzazioni della figura del mercante e dell’attività commerciale cfr. anche S. Amato, ‘L’impresa nell’evoluzione storica del diritto commerciale. Strutture sistematiche e modelli normativi’, Materiali per una storia della cultura giuridica 1 (1988) 25-33. 154 Giuliani, ‘Quale etica’ 40. 62 simpliciter applicando la normativa della lex mercatoria fondata sul ‘periodo sospetto’, la dialettica processuale si impegna nella ricerca della prova della consapevolezza del terzo e della fraudolenza dell’atto. Così nel caso degli Zavaleis si prova che i mercanti, quando hanno compiuto l’imposizione del censo, erano già falliti e si prova che il terzo contraente era consapevole dello stato di decozione del dante causa: risulta raggiunta conseguentemente la prova della fraudolenza dell’atto concluso in danno dei creditori degli Zavaleis. Così anche nel caso di Ottaviano Lomellini si prova che Demetrio era consapevole dello stato di decozione di Ottaviano nel momento della conclusione del contratto di acquisto della casa e si prova la simulazione dell’atto. Allo stesso modo nel caso dei Bonavogli si prova lo stato di decozione nel momento della vendita dello zucchero e si prova direttamente la fraudolenza dell’atto e la consapevolezza di tale fraudolenza anche in capo al terzo, cioè in capo a Offmann. E, infine, anche nel caso di Invitto si procede nello stesso modo: si prova che Invitto aveva concluso la vendita del sale quando era già consapevole della sua imminente decozione e si dimostra che l’atto era concluso da Invitto, in combutta con Granara, in frode di Pietro Miranda, mandantecreditore di Invitto. Prima di tentare una spiegazione del comportamento del giudice e di tracciare un’ipotesi al riguardo, non è superfluo richiamare alcune considerazioni già fatte: innanzitutto non è da escludersi che in assenza di un momento controversiale, che inevitabilmente accende un processo di cognizione, e quindi al di fuori e prima del processo, si applichi la ‘sbrigativa’ disciplina fondata sul ‘periodo sospetto’. In secondo luogo è altamente probabile che tale disciplina sia stata utilizzata dal giudice della corporazione, quando ancora la materia fallimentare non era stata affidata al giudice togato. Tuttavia, almeno per quanto riguarda il momento giudiziale, sembra affermarsi un’immagine del diritto fallimentare che non corrisponde più a quella medievale. Se infatti il diritto fallimentare conserva anche nei secoli XVI-XVIII la sua origine pratica, non sembra più caratterizzato da «sbrigative forme di esecuzione mercantili», lontano dai «cavilli interminabili», ostile «alla penetrazione dei concetti del mondo giuridico»155. Sembra piuttosto un diritto che si forma preferenzialmente nel momento giudiziario della complessa esperienza giuridica pluriordinamentale, e che trae alimento dal continuo sforzo di elaborazione teorica dei giuristi. Costoro sono impegnati a ordinare le istanze del mondo economico, quali la certezza e la rapidità della circolazione dei beni, e si servono naturalmente degli strumenti teorici che la tradizione del ius commune — e, nell’ambito del ius commune, in primo luogo il diritto di formazione giurisprudenziale —, mette loro a disposizione. In questo ‘ugualitario paesaggio pluriordinamentale’ i giuristi ricorrono al diritto comune perché «il diritto comune, in cui la universalità è null’altro che il riflesso della sua intima razionalità, ha delle straordinarie capacità ordinanti e conseguentemente una forza espansiva altrettanto straordinaria: perché è il diritto ed è tale perché incarna la pura razionalità giuridica»156. 3. Una scelta coerente: il valore della sentenza dichiarativa del fallimento Nel corso dello studio è emerso più volte che i giuristi consideravano il criterio del periodo sospetto inadeguato per la tutela degli interessi in gioco nella revocatoria, cioè degli interessi dei creditori del fallito e dei terzi di buona fede aventi causa dal fallito. Per esporre in termini più chiari l’insufficienza del criterio del periodo sospetto è opportuno richiamare adesso un altro elemento al quale più volte si è fatto cenno: mi riferisco al valore meramente dichiarativo della sentenza di fallimento157. Le fonti normative non sono chiare e univoche sul valore della sentenza di 155 Cfr., supra, nota 15. 156 P. Grossi, L’ordine giuridico medievale (Bari 1995) 235. Cfr., per il periodo classico del diritto comune, M. Bellomo, ‘La scienza del diritto al tempo di Federico II’, Rivista Internazionale di Diritto Comune 3 (1992) 184-187, 193-196. 157 Cfr., supra, cap. II, § 3. 63 fallimento158: ma dall’esame dei casi è emerso l’orientamento che privilegia il valore meramente dichiarativo: si tratta di un dato assodato e non controverso159. Non ritengo arbitrario considerare contemporaneamente il valore della sentenza e il criterio del periodo sospetto, perché credo che la scelta operata dai giuristi riguardo ai due elementi risponda ad un unico principio. Infatti, le scelte per il valore dichiarativo della sentenza e per il criterio del periodo sospetto (inteso come presunzione relativa di invalidità degli atti) sono scelte tra di loro coerenti; invece vi è un’intrinseca incompatibilità tra il valore dichiarativo della sentenza e il criterio del ‘periodo sospetto’ inteso come presunzione assoluta di invalidità degli atti. Se si assume il valore dichiarativo della sentenza, inevitabilmente non può accogliersi il criterio del periodo sospetto, e viceversa. Attribuire un mero valore dichiarativo alla sentenza di fallimento significherebbe infatti minare dall’interno il funzionamento di un ‘sistema’ di revoca fondato sul criterio del ‘periodo sospetto’ come presunzione assoluta di invalidità. Se si ammette infatti che il fallito possa essere tale anche prima della sentenza di fallimento, il giudice è obbligato a determinare il momento dell’insorgenza dello stato di decozione (momento che può ben essere distinto da quello in cui è stato dichiarato giudizialmente il fallimento). Considerato che il fallimento solitamente non è il risultato del compimento di un singolo atto ma piuttosto il risultato di una conduzione dell’impresa errata o sfortunata, è necessario che il giudice valuti il complesso delle attività economico-finanziarie del mercante: si apre così uno spazio notevole all’indagine del giudice. Se in questo contesto si innesca una richiesta di revoca, relativa ovviamente ad un atto concluso dal mercante nell’imminenza della decozione, è naturale che il giudice debba prima individuare il momento in cui lo stato di decozione è insorto e poi debba decidere sulla revoca. Ma come nel contesto così delineato può applicare il criterio oggettivo del ‘periodo sospetto’? Da quale momento farà decorrere tale periodo? Dal momento della dichiarazione del fallimento o dal momento in cui è stato accertato l’insorgere dello stato di decozione? In che misura, soprattutto quando insorge una controversia per l’opposizione del terzo alla revoca, il criterio del ‘periodo sospetto’ è in grado di tutelare i valori sommi del mercato e dell’etica mercantile, cioè l’affidamento, l’equità e la buona fede? Come può funzionare un meccanismo che si fonda sul tempo, cioè su un criterio per sua natura esclusivamente oggettivo, in un contesto così complesso in cui si intrecciano elementi oggettivi e soggettivi rilevanti sul piano sociale ed economico e, pertanto, degni di considerazione sul piano giuridico? Allora la scelta dei giuristi riguardo al valore da attribuire alla sentenza che dichiara il fallimento diventa una scelta obbligata: esigenze di coerenza impongono di assegnare alla sentenza di fallimento un mero valore dichiarativo. Tale scelta funziona poi da ‘grimaldello’ per scardinare il sistema disegnato nelle normative particolari fondate sul criterio del periodo sospetto inteso come presunzione assoluta di invalidità dell’atto. Deve ricordarsi infatti che la presunzione posta dagli statuti, secondo la dottrina e la giurisprudenza, opera solo a favore del creditore e mai contro gli interessi di questi: nulla, infatti, impedisce ai creditori del mercante decotto di dimostrare iure communi che il mercante-debitore sia prossimo alla decozione anche prima del termine fissato dallo statuto e che quindi i negozi compiuti anche prima di quel termine debbano considerarsi nulli160. È 158 Santarelli, Per la storia del fallimento 89 e ss. 159 Per tutti cfr. Casaregi, Discursus legales, disc. 75, II p. 252b: «… quidem decoctio, ad hoc ut talis reputetur non indiget iudicis declaratione Rot. Florent. coram Urceol. decis. 7 num 2, 3. set deducitur et probatur ex quibusdam firmissimis argumentis…». Tra i firmissima argumenta: la confessione dello stesso decotto; il mancato soddisfacimento dei creditori e quant’altro è stato elaborato dalla dottrina. A conferma ulteriore della tesi che qui si sostiene può richiamarsi Casaregi, Il cambista istruito cap. II, nn. 12-13, pp. 38-39, che ribadisce che il fallimento «intendesi seguito allorché il mercante ritirasi dalla piazza e si rende a lei latitante… senza che dal giudice ne sia fatta la dichiarazione, la quale è necessaria solamente ad altri effetti, e particolarmente rispetto alle pene…». 160 Casaregi, Discursus legales, disc. 75, II p. 252a: «Verum tamen est quod in aliquibus locis et civitatibus reperitur per statuta dispositum quod omnes contractus sive negotia censeri debeant nulla, et invalida, quae facta fuissent a mercatore intra certum et determinatum tempus ante eius decoctionem, sed non propterea deducitur quod per haec statuta derogatum fuerit dispositioni iuris communis in omnibus aliis casibus in quibus etiam ante hoc tempus statutarium mercatores apparerent proxime decocturi propter eorum magna debita sine spe ea imposterum extinguendi. Cum 64 evidente che ciò è possibile proprio perché alla sentenza di fallimento si attribuisce un valore di mero accertamento161. Ed è possibile perché i giuristi ribadiscono la posizione sussidiaria dello statuto rispetto allo ius commune, affermano cioè che lo statutum — prevedendo la nullità della vendita, della alienazione e di qualunque altro genere di negozio traslativo fatto dal decotto — non fa altro che venire «ad corroborationem eorum quae a iure communi tradita sunt». In breve, lo statuto «solum dat formam probandi decoctionem et simul exprimit ex quibus praecipue arguatur simulatio alienationis et quomodo sit procedendum in revocatione alienationis»162. 4. La revocatoria tra continuità e discontinuità Per la conoscenza della revocatoria devono utilizzarsi le categorie della storia politica e sociale e quelle della storia economica163, ma si deve soprattutto fare ricorso alle categorie indubitati iuris sit quod, quando per statuta inducta fuit aliqua praesumptio, sive modus facilioris probationis in uno casu, non per hoc intelligatur prohibitum aliud genus probationis ab iure communi permissum…». 161 La natura della sentenza non è facilmente individuabile: cfr. le osservazioni di Santarelli, Per la storia del fallimento 89-90. Tuttavia, relativamente ai casi studiati sembra possa affermarsi la natura dichiarativa della sentenza. In altri casi, però, e in ordinamenti diversi da quelli che qui si sono considerati, alla sentenza si riconosce un valore non meramente dichiarativo, almeno limitatamente ad alcuni effetti. In Catalogna e in Castiglia, per esempio, perché sia legittima la cattura del decotto, ancorché già da tempo insolvente o latitante, è necessario prima ottenere la sentenza dichiarativa del fallimento, nonostante il decotto si consideri latro publicus et eiectus a pace et tregua. Cfr. Fontanella, Decisiones Cathaloniae I, decis. 241, pp. 445a-447a. Invece, in Italia per diritto comune il creditore che vuole fare catturare il suo debitore perché sospetto di fuga deve provare al giudice, sia pure sommariamente, 4 elementi: 1) che è egli è il creditore e per quale quantità; 2) che dopo la conclusione del contratto da cui nasce il credito, la situazione patrimoniale del debitore si è deteriorata; 3) che il debitore non possiede immobili; se invece possiede mobili, che questi non sono sufficienti a soddisfare il credito; 4) che il debitore ha intenzione di fuggire, e quest’ultima prova potrà dare con giuramento. Provati questi elementi il giudice deve dare facoltà di catturare il debitore fuggitivo: in assenza di tali requisiti la cattura del debitore sarà illegittima e pertanto il catturato dovrà essere rilasciato. Tuttavia in dottrina si sostiene da alcuni (per esempio Paolo di Castro) che per esigenze di pubblica utilità sia sufficiente solo la prova del sospetto di fuga assicurata tramite giuramento del creditore: cfr. Singularia doctorum hac postrema editione emendata et aucta analyticisque additionibus ac doctissimis annotationibus illustrata (Venezia 1578) sing. 282. Esemplare è il cons. XIX di Alexander Tartagnus, Consiliorum seu responsorum liber tertius (Venezia 1610) 24vb-25ra: il fanese Pietro Perusii vanta un credito nei confronti di Caio di 200 ducati d’oro, nascente dalla stipulazione di un compromesso. Pietro giura che Caio, dopo la stipula dell’atto, non possiede beni immobili a Fano e comunque non ha beni sufficienti a far fronte ai suoi obblighi, pertanto — asserisce Pietro — Caio è sospetto di fuga. Sulla base del proprio giuramento e per la normativa statutaria fanese, Pietro ottiene la cattura di Caio. Il giuramento del creditore Pietro è sufficiente, in base alla normativa statutaria, ad ottenere la cattura del debitore; tuttavia, avvenuta la cattura del debitore, affinché il provvedimento conservi la sua efficacia è necessario che il creditore dia piena prova — per apertissimas probationes — dell’intervenuto stato di decozione del debitore (rispetto al tempo della stipula dell’atto): «quod quamvis sufficiat iuramentum creditoris iurantis debitorem esse suspectum de fuga, quantum ad obtinendam commissionem caturae, factam, oportet creditorem iustificare capturam, et dictam suspicionem per apertissimas probationes». 162 Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, p. 308b. 163 Alle categorie della storia politica e sociale si ispira Francesco Galgano, Lex mercatoria 26-29, il quale, richiamando anche il pensiero di Ascarelli, sottolinea che le categorie della conoscenza storica del diritto commerciale non possono essere solo categorie economiche perché altrimenti non si spiegherebbe l’assenza di un diritto commerciale pur in presenza di un’economia di scambio: pertanto Galgano privilegia il ricorso alle categorie della storia politica e sociale per spiegare un fenomeno per cui «una serie di rapporti, per l’innanzi sottoposta al diritto comune, riceva ad un tratto una differenziata regolamentazione normativa e diventi l’oggetto di un particolare diritto». D’altro canto, Raffaele Teti, proprio recensendo il volume di Galgano, ‘Una storia del diritto commerciale (recensione a F. Galgano, Storia del diritto commerciale [Bologna 1976])’, Politica del diritto 1-2 (1977) 182, afferma che per la comprensione della storia del diritto commerciale bisogna rivalutare la categoria della storia economica: infatti la continuità tra medioevo ed età moderna non legittima l’idea di un diritto commerciale dell’universo metastorico ed eterno e il voler leggere la storia del diritto commerciale con le sole categorie della storia socio-politica non offre una spiegazione ragionevole di questo fenomeno, anzi lascia intendere che i motivi di rottura siano maggiori che non i motivi di continuità. 65 giuridiche, già proficuamente sperimentate da Santarelli con riguardo al momento normativo e alla riflessione dottrinaria: diversamente, non si spiegherebbe la continuità nel mutato contesto sociopolitico e nel mutato contesto economico164. Proprio l’adozione dello statuto epistemologico del giurista consentirà di evidenziare nella revocatoria il complesso intreccio di elementi di continuità e discontinuità dal tardomedioevo fino al secolo XVIII165. Ora, nel caso della revocatoria, gli elementi di continuità e di discontinuità si intrecciano sia sul piano normativo, sia su quello giudiziale-dottrinario. Sul piano normativo deve qui richiamarsi ancora una volta il rapporto di species a genus che intercorre tra la revocatoria nel fallimento, disciplinata dalla lex mercatoria, e la revocatoria civile, regolamentata dal diritto giustinianeo. Tale rapporto è richiamato per ricordare le differenze di maggiore rilievo tra il genus della revocatoria civile e la species della revocatoria nel fallimento. Nell’azione civile l’onere di provare la frode in capo al debitore incombe sul creditore e la frode non può, almeno in linea generale, presumersi166. Nella revocatoria disegnata dalle normative particolari — come ha ben chiarito Santarelli — si confrontano due modelli, uno meno ricorrente, l’altro di maggiore successo. Tali modelli si differenziano non per il presupposto, che anzi hanno in comune tra di loro e con l’intero genus (cioè la simulazione e la frode), bensì per la differente disciplina riguardo alla prova del presupposto. Nel modello meno ricorrente la fraudolenza o la simulazione dell’atto deve essere provata, come nell’azione civile; nel modello di maggiore diffusione, invece, la fraudolenza o la simulazione dell’atto si presume, o comunque la prova della fraudolenza è resa più facile per la parte che agisce per la revoca, o perché può far uso di presunzioni o perché, per l’inversione dell’onere, la prova spetta al terzo che ha concluso l’atto con il decotto. Ma soprattutto la prova dovrebbe essere resa più facile per l’adozione di un criterio obiettivo fondato sul decorso del tempo: gli atti compiuti nel ‘periodo sospetto’ si presumono simulati, e comunque compiuti in frode ai creditori del dante causa, e pertanto sono soggetti a revoca. Proprio l’adozione del criterio del ‘periodo sospetto’, fissato dalla normativa della lex mercatoria per soddisfare la ragionevole istanza di rapidità della decisione mossa dai mercanti, costituisce l’elemento di maggiore differenza tra revocatoria civile e revocatoria fallimentare167. Tuttavia, se nell’ambito dello ius proprium esistono questi due diversi modelli, nell’esperienza giudiziale e dottrinaria le differenze tra i due modelli sembrano affievolirsi fino a scomparire. Nella descrizione dei singoli casi, infatti, si è posto in risalto il fatto che i giuristi assumono il dato normativo della lex mercatoria come uno degli elementi di riferimento per la loro attività di interpretazione. La valutazione della normativa particolare, al pari della valutazione dei fatti su cui i giudici sono chiamati a pronunciarsi, è attratta all’interno dell’‘interpretatio’ dei giuristi168. Può 164 Naturalmente la continuità nonostante le mutate condizioni potrebbe anche spiegarsi considerando la revocatoria come uno «dei tanti istituti innocui della vita giuridica», che riguardano più che altro la grammatica del giurista e il «raffinato istrumentario tecnico del suo usuale laboratorio» (cfr., infra, nota 143). 165 Credo, inoltre, che, con le opportune precisazioni imposte dal diverso oggetto dello studio, possa accogliersi proficuamente anche per la revocatoria la chiave di lettura che Paolo Grossi ha proposto, per la vicenda delle proprietà dal medioevo alle codificazioni, indicando un nuovo elemento — la mentalità — a cui deve guardare il giurista, «un intellettuale dominato per sua natura (perché fa sempre i conti con il livello dei valori) da un’intima tensione alla sincronia e al sistema, cioè alla unificazione organica dei dati». Certamente la revocatoria — se confrontata con «quel nodo aggrovigliato di motivazioni che è la proprietà» — è uno «dei tanti istituti innocui della vita giuridica» e sembra riguardare più la grammatica del giurista e il «raffinato istrumentario tecnico del suo usuale laboratorio», che non la mentalità, «quel complesso di valori circolanti in un’area spaziale e temporale capace per la sua vitalità di superare la diaspora di fatti ed episodi sparsi e di costituire il tessuto connettivo nascosto e costante di quell’area». Tuttavia, per altri aspetti, la revocatoria è fortemente legata ai concetti della buona fede e della tutela dell’affidamento nella circolazione dei beni, nonché alla distinzione tra socio e società e tra proprietà e impresa. Sono tutti elementi che concernono le relazioni intersoggettive e i rapporti tra gli uomini e le cose: sono tutti elementi perciò che riguardano anche, sia pure in misura varia, la mentalità. Cfr. P. Grossi, ‘La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico’, Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno 17 (1988) 369-370, 381. 166 Cfr., supra, nota 106. 167 Santarelli, Per la storia del fallimento 191-212. 168 Cfr. M. Bellomo, ‘Ius Commune’, Rivista Internazionale di Diritto Comune 7 (1996) in corso di stampa. 66 accadere allora che in qualche caso i giuristi deliberatamente e consapevolmente vadano oltre la normativa statutaria e si cimentino nella ricerca della prova della consapevolezza e della frode, servendosi di un’ampia varietà di presunzioni; questo loro modo di procedere ha luogo anche quando essi avrebbero potuto applicare la normativa della lex mercatoria, fondata sul ‘periodo sospetto’, senza impegnarsi nella ricerca della prova della consapevolezza del terzo e della fraudolenza dell’atto. Si deve ribadire che ciò che qui si sostiene si riferisce solo al momento giudiziale e inoltre che non si può escludere che, in assenza di controversie (quindi al di fuori e prima del processo), si applichi la disciplina fondata sul ‘periodo sospetto’. Comunque, il giudice e il giurista, almeno nel momento giudiziale, continuano a decidere e a ragionare con schemi più vicini alla revocatoria civile. Le pagine de Il Cambista istruito di Casaregi contribuiscono significativamente a spiegare l’orientamento dei giuristi riguardo alla normativa della lex mercatoria fondata sul ‘periodo sospetto’, cioè riguardo all’elemento che sul piano normativo costituì una cesura rispetto al genus della revocatoria civile169. Casaregi tenta di riportare a unità affermazioni che sono tra di loro contraddittorie perché poggiano su fondamenti diversi: sulla communis opinio doctorum da un lato; sul tenore della lex mercatoria dall’altro. Il giurista innanzitutto fa riferimento alla communis opinio dei dottori ed enuncia che gli atti compiuti dal decotto o dal decocturus in pregiudizio dei creditori sono nulli e invalidi perché si presumono fatti con dolo e in frode dei creditori: «Passa per proposizione indubitata tra’ dottori che il decotto, o fallito, o il prossimo al fallimento non può regolarmente fare alcun’atto, alienazione, confessione, transazione, pagamento, o qualunque altro contratto, o distratto, che sia in pregiudizio de’ suoi creditori, e facendoli, rimangono come nulli, ed invalidi, poiché si presumono fatti con dolo, e frode de’ medesimi suoi creditori…» Casaregi prosegue esponendo la communis opinio dei dottori che vuole che la nullità degli atti compiuti dal decotto o dal decocturus sia subordinata alla prova che il terzo contraente conosca lo stato economico-finanziario del suo dante causa: «Ciò però s’intende quando chi contratta col decotto, o prossimo alla decozione era consapevole del di lui cattivo stato, altrimenti senza il concorso di tale scienza tutti gli atti, o contratti si terranno talmente validi come fossero fatti con una persona idonea… Onde tutta la disputa de iure si ristringe alla prova di questa scienza in colui che ha contrattato col decotto, o prossimo alla decozione…» Poi il giurista volge lo sguardo verso le soluzioni normative e registra che per alcuni statuti gli atti compiuti nel periodo sospetto devono considerarsi «fatti con frode, o dolo senz’altra prova, e per conseguenza ipso iure nulli ed insussistenti»: sembrerebbe pertanto inequivocabile la presunzione assoluta di fraudolenza che colpisce gli atti compiuti nel periodo sospetto. Ma Casaregi mitiga subito l’affermazione e, volgendo nuovamente l’attenzione alla communis opinio doctorum, avverte che «questi statuti altro non intendono operare che una prova presuntiva contro del debitore fallito»: si tratta di una presunzione iuris tantum che può ben essere neutralizzata dalla prova contraria: «Conviene però qui avvertire, che questi statuti altro non intendono operare che una prova presuntiva contro del debitore fallito, dimanieraché, se un mercadante fallisse dentro il termine da essi stabilito fra il negozio, o contratto da lui precedentemente fatto, e il susseguente fallimento, si doverà certamente tal contratto, o negozio in virtù di tali statuti presumere fraudolento, e doloso, e così fatto in tempo della di lui prossima decozione; ma siccome la presunzione legale deve sempre cedere il luogo alla verità… perciò quando altrimenti costasse in fatto, cioè che veramente il mercadante al tempo del precedente negozio, o contratto non era in prossimo stato di fallire, ma 169 Casaregi, Il cambista istruito cap. I, pp. 38a-39a. Il passo verrà ripreso quasi letteralmente da Domenico Alberto Azuni, ‘Fallimento’ § 6-9, Dizionario Universale ragionato della giurisprudenza mercantile II (Nizza 1787) 101-105.170 Può qui aggiungersi a quanto si è già affermato Rocco, Notabilia de decoctoribus nott. 22, 27, pp. 437a, 438b: se il terzo acquirente ignora l’intento fraudolento del suo dante causa gli atti a titolo oneroso non possono essere revocati; se invece ne è consapevole gli atti possono essere revocati, ma il prezzo è restituito al terzo solo se è ancora nel patrimonio del decotto. Parimenti gli atti a titolo oneroso possono essere revocati quando il terzo, ignaro della frode al momento della conclusione dell’atto, ne diventi consapevole al momento della traditio. 67 che tale sua disgrazia sia proceduta poi da altro caso improvviso, e similmente si provasse, ch’egli sin’allora dal fatto negozio, o contratto fosse stato appresso la piazza sempre in buon credito, benché intrinsecamente non fosse solvendo, come meglio distingueremo in altro luogo, e così per lo contrario se dal fatto apparisse ch’egli prima anche del tempo prefisso dalli suddetti statuti era in prossimo stato di fallire, in ciascuno di questi casi non averebbe luogo la loro disposizione…» Ristabilita l’armonia tra soluzioni normative e indirizzi interpretativi, Casaregi continua, forte ancora una volta del complesso di regole dello ius commune, affermando che comunque gli statuti vanno interpretati secondo l’ius commune — per cui vanno comunque salvati i contratti in cui il terzo sia in buona fede —, e ribadendo che può farsi largo impiego di congetture per raggiungere la prova: «Di più tali statuti annullanti i contratti de’ mercadanti, che falliscono fra un certo termine da loro prefisso, debbono intendersi secondo l’ius comune, in virtù della passiva interpretazione, che da esso sempre ricevono, e così non possono comprendere, se non quei contratti, ne’ quali vi concorre, o si può presumere la frode, e la collusione d’ambi li contraenti; e non giammai quelli contratti, che per la buona fede, almeno di chi ha contrattato col fallito, o col prossimo al fallimento, sarebbono de iure validi… Ritornando ora a’ termini dell’ius comune convien di più sapere, che quando non si può avere una certa, e conchiudente prova di tale scienza, si ammette, come in materia per lo più difficile a provarsi, anche quella per via di conghietture…» E, al pari di altri giuristi, conclude esaltando il ruolo dei giudici al cui retto arbitrio rimette la questione: «Così in tal caso riducendosi la questione a cosa più di fatto, che di ragione, non si può per decisione d’ogni caso contingibile dare da principio una regola certa, imperocché è d’uopo lasciarla al retto arbitrio del giudice, come tutte le altre materie conietturali…» Ritengo che le parole di Casaregi esprimano il disagio del giurista difronte ad una normativa di ius speciale che, ideata e sviluppata nell’ambito dell’ordinamento corporativo mercantile per consentire una ‘sbrigativa’ soluzione di conflitti d’interessi, finisce per trascurare aspetti dello stesso conflitto che per il giurista non sono trascurabili: la buona fede, l’affidamento, l’equità. Mi sembra che Casaregi pur di salvare formalmente l’unità del sistema cada in affermazioni contraddittorie cercando di conciliare la nullità ipso iure, sancita dalle legislazioni particolari, con la presunzione iuris tantum, frutto dell’orientamento consolidato della iurisprudentia170. Mi sembra che di unità del sistema possa qui parlarsi solo se si assume come punto di riferimento la matrice della legislazione, cioè solo se si guarda ai caratteri comuni alla revocatoria disciplinata dalle fonti giustinianee e alla revocatoria disegnata nelle fonti di diritto particolare171. Ma se invece si guarda al momento giudiziale dell’esperienza giuridica dei primi secoli dell’età moderna non credo possa negarsi che la revocatoria nel fallimento fu terreno di un travagliato processo interpretativo, cioè fu terreno su cui i giuristi furono chiamati a operare delle scelte, anche sostanzialmente creative di diritto172. I giuristi potevano accettare in toto il criterio del periodo sospetto, con la presunzione assoluta di fraudolenza e la conseguente invalidità ipso iure dell’atto compiuto nel periodo sospetto; oppure potevano adottare tale criterio solo parzialmente, cioè interpretando la presunzione fissata dal periodo sospetto come una presunzione iuris tantum. I giuristi dovevano scegliere: potevano accettare un criterio fissato dalla lex mercatoria, adatto ad un 171 In tal senso cfr. Santarelli, Per la storia del fallimento 212 che ha interpretato questo passo di Casaregi come un’ulteriore prova dell’osmosi che «certamente si ebbe tra la legislazione — per sua natura protesa alla tutela degli interessi in gioco — e la dottrina — pensosa soprattutto della conservazione degli originari caratteri dell’istituto —: un’osmosi che, una volta attuata, … permette di verificare, anche in questo caso, l’unità del sistema»; Id., ‘Azione revocatoria’ 49. Coerentemente Santarelli, ‘Fallimento, Storia del’, Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale 5 (Torino 19904) 369, fondandosi esclusivamente sulle fonti statutarie afferma che l’esperibilità dell’azione revocatoria «fu connessa non più al dato soggettivo dell’intentum doli comune all’alienante e al terzo acquirente, ma a quello oggettivo del tempo (il cosiddetto «periodo sospetto) nel quale era stato compiuto il negozio da revocare, e la cui natura fu ritenuta sostanzialmente reivindicatoria…». 172 Sulla interpretazione come scelta e come operazione ideologica, anche creativa di diritto, cfr. M. Sbriccoli, L’interpretazione dello Statuto. Contributo allo studio della funzione dei giuristi nell’età comunale (Università di Macerata. Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza, Seconda serie, 1; Milano 1969) 6-12 e 85 e ss. 68 procedimento a spiccato carattere esecutivo e teso a tutelare prevalentemente gli interessi dei creditori e l’interesse ad una rapida soluzione della controversia; oppure — rifacendosi ai principi generali — dovevano essere disposti ad aprire nell’ambito del procedimento esecutivo una parentesi eventuale di cognizione che, pur incidendo negativamente sulla rapidità della risoluzione della controversia, meglio tutelasse tutti gli interessi in gioco, in particolare gli interessi dei terzi che in buona fede e senza esserne consapevoli avevano concluso atti con il decoctus o con il decocturus. Il criterio del ‘periodo sospetto’, elaborato per le «sbrigative forme di esecuzione mercantili», lontano dai «cavilli interminabili» e ostile «alla penetrazione dei concetti del mondo giuridico»173 mostra in questo caso la sua insufficienza: «…e così in tal caso riducendosi la questione a cosa più di fatto, che di ragione, non si può per decisione d’ogni caso contingibile dare da principio una regola certa, imperocché è d’uopo lasciarla al retto arbitrio del giudice…»174. E il giudice175 con una interpretatio retorica sceglie la soluzione che gli sembra più equilibrata perché più rispettosa dei delicati equilibri in gioco: da un lato l’equilibrio tra l’interesse del terzo e l’interesse dei creditori del decotto; dall’altro l’equilibrio tra la soluzione normativa di matrice civilistica e la soluzione normativa di ius proprium. Nel percorso seguito dal giudice e nel risultato al quale approda la sua interpretatio è evidente il concorso dei giudici e dei mercanti — dei princìpi e dei valori degli uni e degli altri — nella formazione del diritto fallimentare. In tema di revocatoria, infatti, la soluzione normativa di matrice civilistica è prevalentemente attenta alla tutela della buona fede e dell’affidamento; la soluzione normativa di diritto statutario è invece prevalentemente attenta alle esigenze di rapidità di risoluzione della controversia. È evidente che entrambe le soluzioni, pur con diversi accenti, tutelano princìpi cardine della moralità e della efficienza degli affari. Con la sua ‘ragionevole’ interpretazione il giurista conclude che il periodo sospetto non fissa presunzioni iuris et de iure, bensì iuris tantum. Il giurista finisce così per interpretare «la legislazione statutaria togliendole ogni carattere di peculiarità e valutandola secondo i canoni, negli schemi e coi princìpi del diritto comune»176. Egli percorre la strada segnata dalla lex mercatoria — privilegiando la rapida risoluzione delle controversie — fin quando il tracciato non rischia di allontanarlo dalla tutela degli interessi dei terzi; egli utilizza la sbrigativa efficacia delle presunzioni solo quando ciò non pregiudica i terzi di buona fede. La scelta interpretativa dei giuristi, inoltre, è coerente con la ‘giuridicizzazione’ del procedimento conseguente al passaggio dai giudici corporativi ai giudici togati. Tale ‘giuridicizzazione’ ha un prezzo: comporta inevitabilmente incidenti di cognizione che appesantiscono e rallentano la procedura fallimentare concepita fin dalle sue origini con un prevalente carattere esecutivo. La procedura fallimentare gestita dai giudici togati garantisce la tutela dei principi fondamentali del commercio e dell’ordinamento in generale, ma finisce per frustrare l’esigenza di rapidità e praticità per cui era stata concepita. Il giudizio sul caso Cayrel pende davanti ai giudici ancora diversi anni dopo l’avvenuto fallimento del mercante. In questo e in altri casi, la decisione definitiva, qualunque sia, non garantirà sufficientemente i diritti e gli interessi delle parti, neppure della parte per cui il giudizio sarà favorevole. Così, anche per gli aspetti legati alla revocatoria, il diritto fallimentare disegnato nelle legislazioni e interpretato dai giuristi, comincia a rivelarsi inadeguato, anche se l’attenzione degli illuministi si concentrerà su aspetti di maggiore allarme sociale, quali quelli legati alla incapacità dell’ordinamento di fronteggiare e reprimere efficacemente il fenomeno della bancarotta177. 173 Cfr., supra, nota 15. 174 Casaregi, Il cambista istruito cap. I p. 39a. 175 Non è irrilevante che si tratti ormai di un giudice togato, non più corporativo. 176 Sbriccoli, L’interpretazione dello Statuto 459. 177 Per il dibattito degli illuministi italiani sul fallimento cfr. Sciumè, Ricerche sul fallimento 97-182. 69 GIUSEPPE SPECIALE Fures, latrones publici, decocti fraudulenti: il confugium per i falliti da Innocenzo III a Benedetto XIII 1. Premessa. Il fallimento: rilevanza sociale, economica e giuridica Alla fine del secolo XVI, in seguito alla riforma di Gregorio XIV che aveva riordinato la disciplina del diritto d’asilo nelle chiese, si aprì tra i giuristi un acceso dibattito dottrinario. Si trattava di stabilire se i falliti, più precisamente i decocti fraudulenti, potessero godere del confugium, del diritto d’asilo nei luoghi sacri. L’ammissione o l’esclusione del beneficio dell’immunità per i decocti fraudulenti produce inevitabilmente riflessi anche sul piano dei conflitti giurisdizionali e dell’ordine pubblico178. Inoltre, dal dibattito sul diritto d’asilo emergono elementi per la migliore comprensione del ruolo svolto dai giuristi nell’interpretazione e nel coordinamento delle norme. La valutazione penale della bancarotta pone problemi ai quali i giuristi danno soluzioni diverse conseguenti, almeno in qualche caso, ad alcuni pregiudizi ideologici, ma coerenti, comunque, alle diverse concezioni dell’interpretatio. Per valutare l’importanza del dibattito e il significato delle posizioni assunte dai giuristi è necessario chiarire, sia pure incidentalmente, chi sono i decocti. La decozione si ha quando lo stato di insolvenza del mercante è qualificato dalla irreversibilità e dalla notorietà. L’irreversibilità non è data certo da una momentanea insolvenza, bensì da una crisi economico-finanziaria di gravità tale che il mercante non riesce più ad ottenere credito. I caratteri dell’irreversibilità e della notorietà sono strettamente connessi: infatti, il mercato nega fiducia al mercante in difficoltà proprio quando il suo stato di insolvenza è notorio e quando si diffonde la convinzione che il suo stato di crisi abbia raggiunto il punto di non ritorno. Il decotto, dunque, è l’insolvente segnato dallo stigma dei protagonisti del mercato, i quali, valutate le sue condizioni economico-finanziarie, gli negano nuovo credito e ne sanciscono l’irreversibile e definitivo stato di crisi. La decozione del mercante costituisce un momento patologico nel funzionamento del mercato; oppure, più verosimilmente, segna definitivamente l’incompatibilità del mercante decotto con il sistema-mercato. Tale incompatibilità può nascere dall’errata o anche solo dalla sfortunata conduzione dell’impresa commerciale, oppure dal deliberato proposito del mercante di occultare le attività dell’impresa a danno dei creditori della stessa, o, ancora, dall’imprevedibile variazione del mercato. La crisi non è comunque un fatto che riguarda solo il mercante, soprattutto quando essa diventa irreversibile e si traduce nel fallimento: la decozione mette in crisi l’affidamento su cui si fonda il mercato e mette in serio pericolo gli interessi di quanti interagiscono con il decotto. Si pensi ai creditori, ai fornitori, ai clienti ecc.179. 178* I risultati della presente ricerca sono stati presentati al “X International Congress of Medieval Canon Law” (1118 agosto 1996, Syracuse N.Y.). 178 Per i riflessi sul piano dei rapporti tra Stato e Chiesa — in particolare per i conflitti giurisdizionali — cfr. A.C. Jemolo, Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del ’600 e del ’700 (Napoli 19722) 219-223; R. Ajello, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel regno di Napoli durante la prima metà del secolo XVIII. 1: La vita giudiziaria (Pubblicazioni della Facoltà Giuridica dell’Università di Napoli 57; Napoli 1961) 25-96. 179 Sul fallimento cfr.: U. Santarelli, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia (Padova 1964); Id., ‘Disposizioni generali [I parte]’, Disposizioni generali della dichiarazione di fallimento: art. 1-22. Commentario Scialoja - Branca: Legge fallimentare a cura di F. Bricola, F. Galgano, G. Santini (Bologna Roma 1974) 1-23; Id., ‘Fallimento, Storia del’, Digesto delle 70 Si pensi inoltre agli effetti devastanti, anche sul piano politico, del fallimento di quel particolare tipo di mercante che è il banchiere180. La decozione mette in moto meccanismi di difesa dell’ordine sociale, economico, giuridico. La rilevanza sociale ed economica del fallimento è costantemente considerata negli ordinamenti, corporativi prima e pubblici poi. È particolarmente significativo che l’attenzione e la sensibilità per le istanze del ceto mercantile — caratteristiche ‘naturalmente’ costitutive ed essenziali delle normative e delle procedure corporative —, rimangano costanti anche nelle normative e nei tribunali pubblici. Nell’ambito della progressiva statalizzazione della giurisdizione il riconoscimento della rilevanza pubblica dell’attività commerciale — in particolare dell’attività che riguarda il grande commercio internazionale e le grandi operazioni finanziarie — è testimoniato nel grado più alto proprio dal trasferimento ai tribunali statali delle competenze prima riservate ai tribunali delle corporazioni mercantili181. E appunto nella sede giudiziale l’ordinamento affida l’interpretazione e il coordinamento degli interessi mercantili, e pubblici in generale, alla mediazione dell’equilibrio e dell’arbitrium prudentis iudicis. I giuristi — giudici e avvocati impegnati nei grandi tribunali nei rispettivi ruoli — assumono nella tutela dell’ordine pubblico commerciale un ruolo primario e non rimangono estranei al lungo e articolato processo di formazione del diritto commerciale. Secondo Giovan Battista De Luca e Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi il giudice nella sua indagine deve appurare se il mercante sia prossimo alla decozione per un evento inopinato e imprevedibile quali il naufragio di una nave, o il fallimento di altri mercanti da cui dipendevano i suoi affari, o altri imprevedibili infortuni; oppure se il mercante sia stato in floride condizioni economiche sino a pochi giorni prima della decozione; o, ancora, se il mercante, già consapevole da giorni o anche da mesi del suo futuro fallimento, tuttavia abbia nascosto il suo precario stato discipline privatistiche. Sezione commerciale 5 (Torino 19904) 366-372; C. Pecorella - U. Gualazzini, ‘Fallimento (Storia)’, Enciclopedia del diritto 16 (Roma 1967) 220-233; A. Sciumè, Ricerche sul fallimento nel diritto moderno. I. Il momento settecentesco (Milano 1985); W. Pakter, ‘The origins of bankruptcy in medieval canon and roman law’, Proceedings of the Seventh International Congress of Medieval Canon Law, Cambridge 23-27 July 1984, P. Linehan cur. (Monumenta iuris canonici, Series C: Subsidia 8; Città del Vaticano 1988) 485-506; F. Migliorino, ‘Profilo storico delle procedure concorsuali’, Trattato delle procedure concorsuali, G. Ragusa Maggiore - C. Costa curr., t. 1 (Torino 1996) in corso di stampa; G. Speciale, Fallimento tra dolo e sfortuna. L’azione revocatoria e il diritto d’asilo nei secoli XVI-XVIII (Roma 1996). 180 Non per caso la diversa valutazione penale del fallimento caratterizzato dal dolo (rispetto al fallimento fortunae causa) si affermerà inizialmente proprio con riferimento ai banchieri: cfr., infra, § 7. Il legislatore avverte il rapporto tra banchiere e mercante come un rapporto tra species e genus. Alla species del banchiere sono riservate ‘attenzioni legislative’ che in alcuni casi vengono estese successivamente all’intero genus. Cfr. le osservazioni di V. Piergiovanni, ‘Banchieri e falliti nelle ‘Decisiones de mercatura’ della Rota Civile di Genova’, Diritto Comune, Diritto Commerciale, Diritto Veneziano, K. Nehlsen Von Strik, D. Nörr curr. (Venezia 1985) 17-38; Id., ‘Banchieri e mercanti. Modelli di classificazione nella dottrina giuridica genovese’, The Growth of the Bank as Institution and the Development of Money-Business Law, V. Piergiovanni cur., (Comparative Studies in Continental and Anglo-American Legal History 12; Berlin 1993) 77-89; Id., ‘I banchieri nel diritto genovese e nella scienza giuridica tra medioevo ed età moderna’, Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà nell’Europa preindustriale. Amministrazione, tecniche operative e ruoli economici. Atti del Convegno, Genova, 1-6 ottobre 1990, t. 1 (Atti della Società ligure di Storia Patria, nuova serie, 31; Genova 1991) 205-223. 181 Sul passaggio della giurisdizione mercantile dai tribunali corporativi a quelli pubblici cfr.: A. Asquini, ‘Codice di Commercio’, Enciclopedia del diritto 7 (1960) 250 e ss.; A. Padoa Schioppa, ‘Giurisdizione e statuti delle arti nella dottrina del diritto comune’, Saggi di storia del diritto commerciale (Milano 1992) 37 e ss., già pubblicato in Studia et documenta historiae et iuris 30 (1964) 170-234; Pecorella - Gualazzini, ‘Fallimento’ 225; J. Hilaire, Introduction historique au droit commercial (Paris 2 1986) 79-82; U. Santarelli, Mercanti e società tra mercanti (Torino 1992 ) 47-53; M. Ascheri, ‘Mercanzie Mercanti e Istituzioni. Dal caso di Siena alla storia d’Italia’, Relazione al Seminario ‘Interessi economici e Istituzioni politiche nella storia d’Italia’ 15.12.1986, C.C.I.A.A. Milano, Rassegna economica della C.C.I.A.A. di Siena 87 (1987) 43-45; V. Piergiovanni, ‘Diritto commerciale nel diritto medievale e moderno’, Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale 4 (Torino 19894) 21-27 (dell’estratto); R. Szramkiewicz, Histoire du droit des affaires (Paris 1989) 180-193; F. Galgano, Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale (Bologna 19933) 73-77. 71 economico e abbia continuato ad esercitare la mercatura al fine di lucrare dalla dilazione del fallimento182. Il diritto fallimentare dei secoli XVI-XVIII si forma preferenzialmente nel momento giudiziario della complessa esperienza giuridica pluriordinamentale e trae alimento dal continuo sforzo di elaborazione teorica dei giuristi. Costoro sono impegnati a ordinare le istanze del mondo economico, quali la certezza e la rapidità della circolazione dei beni, e si servono naturalmente degli strumenti teorici che la tradizione del ius commune — e, nell’ambito del ius commune, in primo luogo il diritto di formazione giurisprudenziale — mette loro a disposizione183. 2. Le origini del dibattito: la cost. ‘Cum alias’ di Gregorio XIV del 24 maggio 1591 e la cost. ‘Postquam eosque’ di Pio V dell’1 novembre 1570 Il dibattito dottrinario intorno al diritto d’asilo per i falliti fraudolenti nasce in seguito alla promulgazione della costituzione ‘Cum alias’ del 24 maggio 1591184, con la quale Gregorio XIV riordina la disciplina del diritto di asilo185. Il pontefice lamenta che spesso si sono verificati gravi abusi e distorsioni nell’applicazione dell’immunitas, con grave pregiudizio della iurisdictio; pertanto interviene mosso dalla necessità di «praedictis absurdis et scandalis obviare, ac differentias huiusmodi ad uniformem regulam reducere, omnemque dubitandi, ac perperam interpretandi occasionem dilucida declaratione submovere, abusus tollere». Innanzi tutto Gregorio revoca le disposizioni dei suoi predecessori «super abducendis vel extrahendis ab ecclesiis, monasteriis, sacellis… hominibus certorum, tunc expressorum, vel non expressorum criminum reis, aut fraudulentis decoctoribus» e unifica e riduce l’immunitas «ad unam tantum formam»; poi stabilisce, 182 Iohannes Baptista De Luca, Theatrum veritatis ac iustitiae, t. 8 (Venetiis 1734) de regalibus, disc. CXV, pp. 177b178a; de credito et debito, disc. X, p. 17ab e disc. CXII, p. 176b; Joseph Laurentius Maria de Casaregis, Discursus legales de commercio in Opera, t. 2 (Florentiae 1740) disc. 75, p. 252a. 183 Cfr. Speciale, Fallimento tra dolo e sfortuna 93-107 e letteratura ivi citata. Non è superfluo sottolineare ancora una volta l’unicità dell’esperienza giuridica. Abbandonate le sterili distinzioni tra teoria e prassi, tra giuristi di scuola e giuristi impegnati nel foro, deve guardarsi al foro come luogo di elaborazione teorica e laboratorio in cui emergono nuove istanze e in cui si provano nuove soluzioni. Al termine ‘giuristi’ per gli anni e i grandi tribunali a cui si fa qui riferimento può affiancarsi in modo assolutamente fungibile il termine ‘giudici’. Tutti i grandi giuristi fin qui citati sono impegnati ad alto livello nella funzione giurisdizionale: si pensi alle vicende biografiche di Scaccia, Stracca, Costantini, De Luca. Può bene richiamarsi quanto afferma E. Cortese, Il rinascimento giuridico medievale (Roma 1992) 95: «… la trasformazione graduale della dottrina giuridica, dall’età dei glossatori in poi, si accompagna a un lento spostamento dell’asse portante del ceto dei giuristi: che a poco a poco si trasferisce dalle aule accademiche a quelle dei grandi tribunali. L’attore principale sulla scena del diritto era stato il sapiente che insegnava: all’aprirsi dell’età moderna è piuttosto il giudice che giudica». Cfr. inoltre G. Gorla, Diritto comparato e diritto comune europeo (Milano 1981) 547-551, M. Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni dal medioevo all’età moderna (Bologna 1989) 86-87, 89-99. Specifico per il regno di Napoli è P.L. Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento (Napoli 1981) 371-463. 184 Bullarum Privilegiorum ac Diplomatum Romanorum Pontificum amplissima collectio, C. Cocquelines cur., t. 5.1 (Romae 1751; rist. anast. Graz 1965) const. 17, pp. 271-273. 185 Sul diritto d’asilo cfr.: G. Le Bras, ‘Asile’, Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastique 4 (Paris 1930) 1035-1097; P. Timbal, Le droit d’asile (Paris 1939); G. Vismara, ‘Asilo, diritto di, (diritto intermedio)’, Enciclopedia del Diritto 3 (Milano 1958) 198-203; P.G. Caron, ‘Asilo, diritto canonico e diritto pubblico medievale e moderno’, Novissimo Digesto Italiano (Torino 1964) I 1036-1039; da ultimo, il volume miscellaneo Asyl am Heiligen Ort. Sanctuary und Kirchenasyl vom Rechtsanspruch zur ethischen Verpflichtung, K. Barwig - D.R. Bauer curr. (Ostfildern 1994) e la letteratura più recente ivi citata. In particolare, sulla cost. ‘Cum alias’ di Gregorio XIV, cfr. P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna (Bologna 1982) 231-234, che mette in evidenza come, proprio nello stato pontificio, il pontefice autorizzasse frequentemente deroghe alle disposizioni della costituzione gregoriana per perseguire efficacemente il controllo dell’ordine pubblico; L. Lacchè, Latrocinium. Giustizia penale e repressione del banditismo in antico regime (Università di Macerata. Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza 55; Milano 1988) 221-243. 72 con un’elencazione tassativa186, che siano esclusi dal godimento dell’immunitas soltanto 7 tipi di rei: i publici latrones, i grassatores viarum, i depopulatores agrorum, i rei di lesa maestà nei confronti della persona del principe, gli eretici, coloro che hanno commesso homicidia o mutilationes membrorum nei luoghi immuni, coloro che hanno commesso omicidi proditorie. Il testo della costituzione gregoriana sembrerebbe ammettere il diritto d’asilo per i falliti (fraudolenti e non): infatti, mentre nella parte in cui si revocano le precedenti disposizioni, che consentivano in alcuni casi di extrahere dai luoghi sacri alcuni rei, c’è un esplicito riferimento ai decocti fraudulenti, invece nella parte in cui si elencano tassativamente i rei esclusi dall’immunità non si fa alcun riferimento ai falliti. Tuttavia alcuni giuristi ritennero che i decocti fraudulenti — non anche i decocti fortunae vitio — non godessero dell’immunità in quanto avrebbero dovuto comprendersi nella categoria dei latrones publici. A sostegno della loro tesi posero la cost. ‘Postquam eosque’ dell’1 novembre 1570 nella quale Pio V aveva distinto i mercanti falliti per avversa fortuna da quelli fraudolenti, falliti per negligenza o per prodigalità che traggono in inganno i creditori illudendoli e approfittando di loro187. Pio V — sostengono i giuristi — equipara i falliti fraudolenti ai fures — non ai latrones publici — e li sanziona con la pena capitale. Poi, descrivendo i loro comportamenti tipici, afferma che essi sono peggio dei fures e dei latrones (ma non dei latrones publici). I fures e i latrones, infatti, agiscono mettendo a repentaglio la loro vita; i falliti fraudolenti, invece, agiscono senza nessun pericolo: «Nos praemissa… attente considerantes nulla alia de causa in f u r e s ultimi supplicii poenam esse impositam, nisi ut talia perpetrandi hominibus via interclusa, liberum esset unicuique sua absque periculo possidere, et uti, hos autem adeo f u r i b u s et l a t r o n i b u s similes esse, ut ab illis in nihilo differant, nisi ut quod eis, nisi cum vitae suo periculo agitur, hoc decoctoribus impune liceat, volentesque propterea, ut par immo gravius delictum parem etiam fortiatur poenam… Motu proprio hac nostra perpetuo valitura constitutione sancimus… quaecumque persona… cuiuscumque status, gradus, ordinis… praefulgeat qui omnem eorum substantiam non praemissis de casibus fortuitis, sed incuria, negligentia, prodigalitate, et luxu suis, proprias voluntates explendo, et cupiditatibus non mediocri intemperantia servientes subverterint, et dilapidaverint nec non qui se bona sua decoxisse simulantes, illa in fraudem creditorum suorum occultant, et eorum pecuniam totam in eorum utilitatem forsan converterint, ut eorum creditores ad secum componendum facilius alliciant, ultimi supplicii, et ea qua f u r e s ipsi, de iure, vel consuetudine, aut particulari, vel municipali statuto plecti solent, puniri debeant»188. 3. I termini del dibattito Dall’interpretazione coordinata delle bolle di Pio V e di Gregorio XIV ebbe origine il dibattito giurisprudenziale. Il problema fondamentale riguardava l’interpretazione da dare alla cost. ‘Cum alias’ di Gregorio XIV. Si trattava di stabilire se l’esclusione dal diritto d’asilo prevista per il latro publicus potesse estendersi al decoctus fraudulentus. Il disorientamento dei giuristi di fronte alla costituzione di Gregorio XIV può bene spiegarsi se si considera che la disposizione gregoriana segnò il passaggio da un sistema di immunitas, fondato su un’elencazione esemplificativa dei casi di esclusione, ad un sistema in cui i casi esclusi erano tassativamente stabiliti; cioè da un sistema che 186 La costituzione stabilisce che non possano esserci altre esclusioni oltre quelle espressamente previste, neanche «ex causis urgentissimis ac necessariis et aequipollentibus casibus in iure expressis atque ex paritate, identitate, aut maioritate rationis extensis» (p. 272). 187 Bullarum Privilegiorum ac Diplomatum Romanorum Pontificum amplissima collectio, C. Cocquelines cur., t. 4.3 (Romae 1746; rist. anast. Graz 1965) const. 156, pp. 131-133: «… sed sua ipsorummet incuria, negligentia, prodigalitate, atque luxu in explendidis propriis voluptatibus, penitus dilapidatis, proximos suos ad varia eorum bona sibi mutuanda sub spe restitutionis compulerunt illis similiter profusis, creditores suos, cessiones bonorum deludentes, ac tam literas praefatas, quam alia per nos contra huiusmodi decoctores, fallitos nuncupatos, edita statuta deridere audent, in grave apostolicae auctoritatis vilipendium, proximorum suorum detrimentum, et gravamen, ac animae suae periculum non modicum». 188 Bullarum const. 156, pp. 131-133. 73 per sua natura ammetteva un’interpretazione estensiva ad un sistema che la escludeva espressamente. Infatti la decretale ‘Inter alia’ [X.3.49.6]189 di Innocenzo III, che costituiva la normativa comune di riferimento per Pio V e Gregorio XIV, aveva indicato i casi di esclusione dall’asilo solo in via esemplificativa, e non tassativa. Innocenzo III aveva escluso espressamente dall’immunità solo i latrones publici e i nocturni depopulatores agrorum: ma Innocenzo IV nei suoi commentaria alle Decretali di Gregorio IX si era preoccupato di precisare che la disposizione di Innocenzo III escludeva dal diritto d’asilo «quicumque insidiose offendit». Il riferimento ai latrones publici e ai nocturni depopulatores agrorum non aveva carattere tassativo; aveva invece solo un carattere esemplificativo «quia de his semper praesumitur quod insidiose fecerint»190. Pio V, poi, — come si è visto — non si era occupato ex professo di diritto d’asilo, ma aveva solo equiparato i falliti dolosi ai fures, accomunandoli nella sanzione della pena capitale. In questo quadro normativo si inseriva la riforma di Gregorio XIV, caratterizzata dalla tassatività dei casi esclusi dal beneficio dell’immunitas. I giuristi non affrontano in modo omogeneo il problema dell’ammissibilità del diritto d’asilo per i decotti fraudolenti. Niccolò Boerio afferma efficacemente che intorno al diritto di confugio «sunt canonistae a legistis et legisti inter se et pariter canonistae inter se discrepantes». Per il diritto civile non godono dell’immunità gli omicidi, gli adulteri, i raptores virginum e i tributorum exactores191. Per il diritto canonico invece sono esclusi gli insidiatores itinerum, i depopulatores agrorum nocturni, gli homicidae voluntarii, i delinquentes in ecclesia. Tuttavia — come afferma Boerio — frequentemente il diritto civile viene nei fatti ignorato perché il reo che si è rifugiato nella chiesa non può essere perseguito senza il consenso del vescovo. E Boerio, citando la Practica di Petrus de Ferrariis, sottolinea il contrasto tra la normativa canonica sul diritto d’asilo e il passo evangelico della cacciata dei mercanti dal tempio: se Gesù, infatti, non ha tollerato i mercanti nella sua casa, accusandoli di avere trasformato un luogo di preghiera in un covo di ladri, come può accettare che nella sua casa trovino riparo e si sottraggano alla giustizia ladroni, omicidi e altri rei192? Alcuni giuristi — tra cui Giovan Battista De Luca — ritengono che il fallito fraudolento non debba godere del diritto d’asilo perché al fallito può estendersi l’esclusione prevista per la categoria del latro publicus, categoria alla quale appartiene anche il fallito fraudolento, almeno secondo una delle interpretazioni della costituzione di Pio V. Altri, invece — e sono i più numerosi e sosterranno la tesi dominante —, si oppongono a questa estensione e adducono motivazioni che possono ricondursi sostanzialmente a due diversi orientamenti. Da alcuni si nega che nella costituzione di Pio V vi sia una equiparazione tra decoctus fraudulentus e latro publicus: pertanto nell’applicazione della costituzione di Gregorio XIV non possono assoggettarsi allo stesso regime i decotti fraudolenti e i latrones publici. Da altri, invece, si 189 «Innocentius III illustri Regi Scotiae. Inter alia, quae nobis regalis providentia suis literis intimavit, quid de illis fieri debeat, qui maleficia perpetrantes confugiunt ad ecclesiam, ut pro reverentia sacri loci debitas poenas valeant evitare, sollicite requisivit. Nos ergo, Tuis quaestionibus respondentes, iuxta sacrorum statuta canonum et traditiones legum civilium ita duximus in huiusmodi distinguendum, quod fugiens ad ecclesiam aut liber, aut servus exsistit. Si liber, quantumcunque gravia maleficia perpetraverit, non est violenter ab ecclesia extrahendus, nec inde damnari debet ad mortem vel ad poenam; sed rectores ecclesiarum sibi obtinere debent membra et vitam. Super hoc tamen, quod inique fecit, est alias legitime puniendus; et hoc verum est, nisi publicus latro fuerit, vel nocturnus depopulator agrorum, qui, dum itinera frequentata vel publicas stratas obsidet aggressionis insidiis, pro facinoris magnitudine, [quum et communem utilitatem impediat, et nocere omnino moliatur,] ab ecclesia extrahi potest, impunitate non praestita, secundum canonicas sanctiones. Si vero servus fuerit… [Dat. Laterani 1200.]»: Corpus Iuris Canonici, ed. Ae. Friedberg, t. 2 (Leipzig 1879; rist. anast. Graz 1959) 655-656. 190 Edizione Lugduni 1562, fol. 175a; edizione Francofurti 1570, fol. 460b. Prosperus Fagnanus, Commentaria in tertium librum decretalium (Venetiis 1697) cap. VI, pp. 639-641, riporta testualmente i commentaria e aggiunge l’inciso «etiamsi publicus latro, vel depopulator agrorum non sit». 191 Cfr., tra l’altro, C.1.12 e N.17=A.3.4 § neque. 192 Nicolaus Boerius, Decisionum aurearum in Sacro Burdegalensi Senatu olim discussarum ac promulgatarum pars prima (Lugduni 1551) decis. 109, fol. 107vb-108va. Sulla metafora della spelonca, fondata sul richiamo evangelico della cacciata dei mercanti dal tempio, cfr. Lacchè, Latrocinium 221-243. 74 ritiene che, indipendentemente dalla costituzione di Pio V, l’equiparazione non possa operarsi perché la tassatività del dettato testuale della costituzione di Gregorio XIV non ammette un’interpretatio extensiva. Prima di inoltrarci nell’approfondimento delle posizioni assunte dai giuristi riguardo all’ammissibilità del diritto d’asilo per i decocti fraudulenti è opportuno sottolineare un’ultima volta la funzione principale del confugium e alcuni effetti rilevanti che il confugium stesso produce sul piano giuridico ed economico. Lo scopo principale del diritto d’asilo — almeno nel nostro caso — è sottrarre il reo alla pena capitale. Richiamandosi a tale scopo Ludovico Correa ammette il diritto di asilo solo per i decocti fraudulenti, escludendolo invece per i debitori e per i falliti non fraudolenti: questi ultimi, infatti, non rischiano la pena di morte193. Per quanto poi riguarda gli effetti sul piano giuridico ed economico si deve sottolineare che chi si rifugia in chiesa o si dà alla fuga per sfuggire ai creditori è considerato decotto in forza di una presunzione iuris tantum194. Deve precisarsi però che il solo rifugiarsi in chiesa non basta, poiché in chiesa il mercante può continuare a trattare con i creditori e può continuare a gestire publice i propri affari. Ed è proprio con riferimento a questa eventualità che lo stato di rifugiato in chiesa può assumere importanza anche rispetto al piano economico. Si pensi ad un mercante in crisi di liquidità che si rifugi in chiesa e continui da lì a gestire i propri affari e che, proprio grazie alla temporanea sottrazione agli obblighi debitori, riesca a riassestare il proprio stato patrimoniale. Nel caso ipotizzato — che è comunque un caso documentato nella prassi —, il confugium finisce per svolgere una funzione stabilizzatrice del mercato e per produrre, o per concorrere a produrre, effetti positivi per il mercante in crisi e, conseguentemente, per i creditori195. 4. Interpretazione estensiva. Interpretazione restrittiva. Le ragioni di una scelta Tra i sostenitori dell’estensione ai falliti fraudolenti dell’esclusione dal diritto d’asilo si cita qui Giovan Battista De Luca che nella costituzione di Pio V vede un’equiparazione tra decoctus fraudulentus e latro publicus196. Il cardinale sostiene che i canonisti interpretano male la costituzione di Gregorio XIV quando concludono per la non esclusione dei decotti fraudolenti dall’immunità: essi giungono a siffatte convinzioni «ex indiscreto zelo» e finiscono per promuovere un «praesidium iniquitatis, fomentum fraudis»197. Il pensiero del cardinale, riguardo ai decotti fraudolenti, è coerente 193 Ludovicus Correa Abbas Lordellensis, Relectio ad caput ‘Inter alia’ de immunitate ecclesiarum (In monasterio de Lordello 1626) 147-152. 194 Cfr. Speciale, Fallimento tra dolo e sfortuna 44-47. 195 Cfr. il caso di un mercante magni nominis in Speciale, Fallimento tra dolo e sfortuna 38-43. 196 Per l’esclusione dei falliti dolosi dal confugio sono, tra gli altri, anche Boerio, Decisiones decis. 215, nn. 6-7, fol. 226rb; Benvenutus Stracca, Tractatus de conturbatoribus sive decoctoribus (Lugduni 1610; rist. anast. Torino 1971) § 3 n. 41 e ss., p. 481, e, ovviamente, i giuristi spagnoli, poiché nella legislazione spagnola i decotti fraudolenti erano espressamente equiparati ai latrones publici: cfr., tra i tanti, Emanuel Romanus Valeron, Tractatus de transactionibus (Mediolani 1676) quaest. VIII pp. 203-207; Didacus Covarruvias, Variarum resolutionum libri IIII (Francofurti 1578) lib. 2 cap. 20 n. 14, pp. 294-295; Iohannes Gutierrez, Practicarum quaestionum civilium super quinque prioribus libris primae partis legum novae collectionis Regiae Hispaniae liber I et II, in Opera omnia (Venetiis 1609) lib. I, quaest. I pp. 1-6. Sul punto cfr., infra, § 5 e § 6. 197 Così Franciscus Maria Constantinus, Observationes forenses practicabiles, seu commentaria ad varia capita statutorum almae urbis, t. 2 (Venetiis 1712) cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, pp. 306-307, riassume il pensiero di De Luca; cfr. Theatrum veritatis, t. 8, de credito et debito disc. LXXVIII. n. 16, p. 131a: «rationabiliter decoctoribus iuxta sensum Sanctissimi Pontificis Pii V deneganda veniret» e Theatrum veritatis, t. 6, de dote disc. CCIV. n. 7, pp. 487b-488a in cui il cardinale lamenta che i debitori fraudolenti fruiscono «tot remediis et beneficiis ab irrationabilibus iuristarum formalitatibus introductis… et quando omnia deficiant, ob adeo frequentem usum ecclesiarum et conventuum aliorumque locorum immunium, promptum ac facile, nimiumque commodum remanet praesidium ecclesiasticae immunitatis, quod ita remanere videtur praesidium iniquitatis et fomentum fraudis, ut bene agnovit adeo probus Pontifex Pius Quintus… in eius constitutione contra decoctores, quamvis modernorum moralium et canonistarum indiscretus zelus eam aboleverit ex regula generali, quam statutam firmant per casus exceptuatos a constitutione Graegorii XIV… quo nil absurdius nilve 75 con la sua concezione sulle immunità in generale, considerate un nocumento sul piano giurisdizionale e dell’ordine pubblico198. Sul fronte opposto, Francesco Maria Costantini è un convinto assertore dell’estensione del diritto d’asilo ai falliti fraudolenti. Con la riverenza e la devozione che è dovuta all’interlocutore, Costantini polemizza con il cardinale De Luca — «vir alioquin doctissimus et feracissimi ingenii». Il giurista ritiene che il cardinale sia in errore e che sia giunto alle sue affermazioni ex puro zelo. Mosso dalla volontà di perseguire il bene pubblico, De Luca ha finito per trascurare il dato che il diritto d’asilo spetta ai falliti non per considerazioni di natura morale o religiosa, bensì ex rigore iustitiae, per una precisa costituzione di Gregorio XIV199. Costantini argomenta la sua convinzione negando che Pio V con la sua costituzione abbia voluto escludere i decotti fraudolenti dall’immunità dell’asilo. Per Costantini Pio V non si è preoccupato del diritto d’asilo, ma ha solo equiparato, sul piano della sanzione penale, i falliti fraudolenti ai fures, condannando i falliti alla pena capitale. Nella costituzione non si fissa un’equiparazione tra decoctus fraudulentus e latro publicus. Pertanto deve respingersi l’equiparazione sostanziale tra fures, latrones publici e decoctores fraudulenti sostenuta da alcuni giuristi sul fondamento della costituzione di Pio V. Il pontefice si era riferito ai fures nella parte dispositiva della costituzione in cui sanciva la pena capitale per i decocti fraudulenti; e si era riferito ai fures et latrones — non, quindi, ai latrones publici — nella parte ‘descrittiva’ in cui appunto ‘descriveva’ il comportamento dei falliti. L’espressione ‘fures et latrones’ non ha un’accezione tecnica, non rinvia ai latrones publici, ai quali farà esplicito riferimento solo Gregorio XIV; significa piuttosto ‘fures insignes’ e serve per stigmatizzare il comportamento socialmente dannoso dei falliti fraudolenti200. Ma Costantini spinge ancora oltre il suo ragionamento. Egli ricorda che la costituzione di Gregorio XIV revoca tutte le precedenti disposizioni relative all’immunità e uniforma il sistema sancendo in modo tassativo in quali casi i rei debbano essere esclusi dalle immunità e stabilendo che non possano esserci altre esclusioni oltre quelle espressamente previste, neanche «ex causis urgentissimis ac necessariis et aequipollentibus casibus…»201. Sull’impossibilità di ricorrere all’interpretazione estensiva per accrescere i casi espressamente sanciti di esclusione dal diritto detestabilius et tamen leguleicae formalitates istas fraudes nimium consovent, et volunt…». Deve però qui ricordarsi che lo stesso De Luca, nel suo Dottore volgare. Libro XIV. Del Manuale o Miscellaneo ecclesiastico. Parte IV. Dell’Immunità ecclesiastica et ancora delle censure ecclesiastiche (Romae 1673) 26-27 e 38-39, sosterrà che in seguito alla costituzione gregoriana deve ormai considerarsi accertato e assodato che i decotti fraudolenti godano dell’immunità. 198 Cfr. A. Lauro, Il cardinale Giovan Battista De Luca. Diritto e riforme nello Stato della Chiesa (1676-1683) (Storia e diritto, Studi 29; Napoli 1991) 523-712, per la posizione assunta dal giurista sulle esenzioni fiscali. 199 Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, pp. 306-307: «At pace tanti viri doctrina non minus, quam purpura eminentissimi, et ad illam ob eius singularem doctrinam, in iustitia administranda summam integritatem evecti, ne a ea veritate, cuius sum cultor, deflectam, constanter teneo, tales decoctores gaudere immunitate ecclesiastica summo iure, non autem ex zelo indiscreto… Ceterum parcendum Cardinali De Luca qui in hac materia contra decoctores scripsit ex puro zelo et ex bono corde erga publicum bonum, quod labefactari credebat per putridam fecem decoctorum cum fraude et ideo non curavit examinare veritatem opinionis pro immunitate decoctorum, quae illis ex firmatis competit ex rigore iustitiae, et ex praecisa constitutione Gregoriana, non autem ex opinione indiscretorum moralium ut dicit idem De Luca». 200 Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, pp. 306-307, si riferisce espressamente a Frances, De immunitate: «nam Frances decipitur in intellectu Constitutionis Pianae, dum haec in § ‘nos praemissa’ illos assimilat furibus, solum quoad poenam ultimi supplicii ibi “et ea qua fures ipsi” et licet in medio dicti § ‘nos praemissa’ addat “furibus, et latronibus similes esse”, attamen in dispositiva, quando statuit poenam decoctoribus, se restringit ad poenam furium, et quod uti fures puniantur, et amplius verbum “latrones” non habet additum verbum “publici” et sic beatus Pius sub verbo “latronibus” addito “furibus” voluit intelligere furibus insignibus, non autem de publicis latronibus, quos solum specifice postea excepit constitutio Gregoriana et in reliquis derogavit omnibus aliis constitutionibus apostolicis et signanter praedictae Pii V contra decoctores aeditae». 201 Cfr., supra, nota 9. 76 d’asilo concordano anche, tra gli altri, Prospero Farinaccio202, Alessandro Sperello203, Tommaso Del Bene204, Prospero Fagnani205 e Stefano Graziano206: in 202 Prosperus Farinacius, Responsionum Criminalium liber primus (Venetiis 1615) cons. 76, pp. 273-274, ritiene che la costituzione di Gregorio non debba essere estesa a casi in essa non esplicitamente previsti: il Papa, infatti, era ben consapevole dei diversi orientamenti dottrinari in tema di immunità e conosceva altresì gli abusi commessi al riguardo. È chiaro quindi che la normativa pontificia non tollera interventi che stravolgano il piano ordinatorio di Gregorio: «in dicta constitutione excipiuntur aliqui casus ab immunitate ecclesiastica, ideo in reliquis censetur facta omnium inclusio, per regulam quod exceptio firmat regulam in contrarium in casibus non exceptis… Eo praesertim quia dum in dicta constitutione excipiuntur casus praedicti, apponitur dictio taxativa, “tantum”, quae de sui natura est impedire extensionem ad non expressa… imo in eadem constitutione eorundem casuum exceptio sit per modum formae, ut patet ibi “ad unam tantum formam reducimus”: ergo nihil addi, aut minui potest, sed ad unguem debet servari». Dello stesso autore cfr. De immunitate ecclesiarum et confugientibus ad eas (Romae 1621), Appendix, cap. III, nn. 64-66, pp. 16-17. Sul pensiero di Farinaccio cfr., infra, § 6. 203 Alexander Sperellus, Decisiones fori ecclesiastici, t. 1 (Venetiis 1651) decis. 23, pp. 115-119: «illa [la costituzione gregoriana] namque intelligenda est secundum terminos iuris communis… cum in ea Summum Pontifex nihil correxerit ex his quae ius commune super ecclesiarum immunitate disposuit; sed duntaxat ea omnia ad unam formam, iure canonico in suo robore permanente… Unde sequitur in casu nostro omnino tenendam esse Bartoli sententiam quia sicuti immunitas, sacrorumque reverentia favorabilis est, lateque interpretanda, sic illius exceptio et privatio odiosa est, et stricte interpretanda…». 204 Thomas Del Bene, De immunitate et iurisdictione ecclesiastica, t. 2 (Lugduni 1674) cap. XVI dubit. XI, sectio II, pp. 3637. Per quanto riguarda i limiti dell’interpretazione del giurista in materia di immunità, in particolare con riferimento alle disposizioni di Gregorio XIV, Del Bene fissa un principio fondamentale. Quando si tratti di tutelare la libertas e l’immunitas ecclesiae il testo normativo può interpretarsi estensivamente «ex identitate et maioritate rationis, quando si non fieret extensio, sequeretur absurdum». Così, per esempio, nella costituzione di Gregorio XIV si stabilisce che non si possano extrahere dalla chiesa i rei, ma è evidente che tale divieto debba estendersi a chiunque, anche non reo, abbia trovato rifugio nella chiesa: una diversa conclusione sarebbe infatti assurda, perché andrebbe contro la libertas e l’immunitas ecclesiae. Al contrario, non può ammettersi un’interpretazione estensiva dei casi di esclusione dell’immunitas sancita nella stessa costituzione. Infatti se si estendesse l’esclusione ad altre categorie si lederebbe la libertas e l’immunitas ecclesiae. Invece un’interpretazione estensiva è consentita nei confronti e in favore dei debitori: si vuole dire che anche se la lettera della costituzione gregoriana si riferisce espressamente ai rei, tuttavia l’esclusione dei debitori sarebbe assurda «quod absurdum esset favere nocentibus exclusis innocentibus». Lo stesso testo della costituzione è eloquente per Del Bene: nel primo caso, riferendosi al divieto di extrahere dalla chiesa i rei non utilizza l’avverbio ‘tantum’; nel secondo caso, invece, indica tassativamente le categorie escluse dal godimento dell’immunitas usando proprio l’avverbio ‘tantum’: è la stessa argomentazione di Farinaccio (cfr., supra, nota 25). Sull’interpretazione che i giuristi danno del termine ‘reus’ cfr., infra, § 6. Un’interessante applicazione del criterio interpretativo adottato da Del Bene si ha riguardo al depopulator agrorum: cfr. Del Bene, De immunitate, t. 2, cap. XVI dubit. XVI-XVII, pp. 42-43. La costituzione gregoriana esclude il depopulator agrorum dall’immunitas. Tuttavia Del Bene ritiene che l’esclusione riguardi solo il depopulator agrorum nocturnus e non anche il diurnus che invece dovrebbe godere del diritto d’asilo. Il giurista infatti pensa che la disposizione debba essere interpretata restrittivamente poiché pone in gioco la libertas e l’immunitas ecclesiae e quindi sceglie di adottare come punto di riferimento la normativa di ius commune: il capitolo ‘Inter alia’ [X.3.49.6] esclude dall’immunità solo il depopulator nocturnus e, pertanto, alla luce del canone, il dettato normativo gregoriano deve intendersi limitato esclusivamente al depopulator nocturnus. Quanto poi al depopulator diurnus, ove ricorrano i requisiti («si scilicet publice vineas, vel agros aliorum devastet, etsi non item clandestine»), potrà essere escluso dalla immunità in quanto publicus latro. Sul depopulator agrorum cfr. Lacchè, Latrocinium 147 e ss. 205 Fagnani, Commentaria cap. VI, pp. 639-641: «si unum ius ponit regulam, et excipit aliquem casum cum dictione taxativa, nihilominus excipiuntur alii casus, qui in alia parte iuris reperiuntur excepti». 206 Stephanus Gratianus, Disceptationes forenses, t. 2 (Venetiis 1699) disc. 380, pp. 646-647, affronta il problema dell’immunitas in modo sistematico. Innanzi tutto egli ricorda che i debitori, per diritto canonico, godono dell’immunità anche quando sono onerati nei confronti dei publici tributi. E anche il mercante fallito secundum veriorem sententiam fruisce dell’immunità. Graziano però avverte l’esigenza di distinguere tra falliti per l’avversa fortuna e falliti fraudolenti «qui simulant se bona decoxisse, et illa in fraudem suorum creditorum occultant, et eorum pecuniam totam in suam utilitatem convertunt, ut facilius creditores alliciant ad secum componendum»: è esplicito il riferimento alla costituzione con la quale Pio V stabilisce che i falliti fraudolenti siano puniti con la stessa pena prevista «de iure, vel consuetudine, aut particulari, aut municipali» per i fures. Proprio per questi motivi i bancarottieri, secondo alcuni doctores, sarebbero esclusi dall’immunitas 77 generale i giuristi ritengono che debba ricorrersi all’interpretazione estensiva solo quando non ricorrervi porterebbe ad un risultato assurdo, o, comunque, lesivo della libertas e dell’immunitas ecclesiae. Per Costantini — considerato che Gregorio abroga le disposizioni precedenti ed elenca tassativamente i casi di esclusione dall’immunità, vietando l’interpretazione estensiva —, l’unica possibilità di escludere i decotti fraudolenti dal diritto d’asilo può essere offerta dal ricorso all’interpretazione comprehensiva207: si dovrebbe, cioè, valutare se il decotto fraudolento rientri in una delle categorie tassativamente escluse dal godimento del diritto. Così, sia per chi nega l’equiparazione tra decoctus fraudulentus e latro publicus, sia per chi afferma la tassatività delle esclusioni sancite da Gregorio XIV, ma ammette il ricorso alla ‘interpretatio comprehensiva’, il nodo centrale da sciogliere riguarda comunque il rapporto tra la figura del decoctus fraudulentus e quella del latro publicus208. Ma Costantini, che pure in linea di principio accetta la possibilità di un’interpretazione ‘comprehensiva’, afferma apoditticamente che la figura del decoctus fraudulentus non rientra in nessuna delle categorie escluse dal diritto d’asilo. Più motivate sono le spiegazioni di Stefano Graziano209 e ancora più specifiche sono le osservazioni di Tommaso Del Bene210 e di Prospero Fagnani211 che si e tanto loro quanto i beni che avessero portato con sé potrebbero essere portati via dalla chiesa in cui avessero trovato rifugio. Ma la soluzione data non è del tutto pacifica: se Gregorio XIV avesse voluto escludere i decotti fraudolenti dall’immunitas, avrebbe sancito espressamente l’esclusione. Invece il papa non li ha menzionati nell’elenco tassativo degli esclusi: «standum est igitur casibus exceptis in bulla quae non debet extendi ad alios casus, quamvis graves, praesertim cum talis suppletio tenderet in ipsarum ecclesiarum detractionem, et si Papa voluisset excepisset etiam decoctores fraudulentos, sicut excepit publicos latrones et depopulatores agrorum, et alios ibi enumeratos». 207 Sull’interpretatio comprehensiva, che i giuristi distinguevano, nell’ambito dell’interpretazione, dall’interpretatio extensiva, cfr. V. Piano Mortari, Ricerche sulla teoria dell’interpretazione del diritto nel secolo XVI. 1: Le premesse (Milano 1956) 108-130. 208 Sulle differenze tra fur, latro e latro publicus cfr. Lacchè, Latrocinium 101 e ss., 171 e ss. 209 Graziano, Disceptationes, t. 2, disc. 380, pp. 646-647, ritiene che non sia sostenibile l’equiparazione decocti fraudulentifures-latrones publici fondata sul testo normativo di Pio V. Naturalmente il giurista non contesta il dato normativo, cioè il fatto che Pio V pone i decocti fraudulenti e i fures sullo stesso piano, almeno per quanto riguarda la pena. Invece non ammette che i fures — almeno quei particolari fures che sono i falliti fraudolenti — possano essere equiparati ai latrones publici, cioè a chi ruba con modalità operative caratterizzate dalla violenza fisica: «qui per vim furantur, vel spoliando homines, vel occidendo sive semel, sive pluries… qui palam et publice furantur, derobando omnes pertranseuntes…». 210 Del Bene, De immunitate, t. 2, cap. XVI dubit. XI, sectio VI pp. 39-40, afferma che comunque il decotto fraudolento non è escluso dall’immunità. Infatti, non può esserlo ratione debiti, perché se così fosse tutti i debitori sarebbero esclusi dall’immunità; non può esserlo neanche ratione delicti perché in effetti egli non è un latro publicus ma a questi è solo equiparato sotto il profilo della pena e «in poenis autem non est facienda extensio ad delicta similia… praesertim si extensio sit in praeiudicium ecclesiarum…». Questa affermazione di Del Bene merita una precisazione. Il giurista fonda il suo ragionamento sulla costituzione di Pio V in cui, come si è già detto, si fa riferimento ai fures e ai latrones, non anche ai latrones publici. Quando Del Bene afferma che il decoctus fraudulentus è equiparato, solo quoad poenam, al latro publicus commette soltanto un errore di distrazione: egli infatti ha ben presente la differenza tra fur, latro e latro publicus. Del Bene, poi, pone in risalto come la lettera della costituzione di Gregorio XIV sia chiara nel concedere ai decocti fraudulenti l’immunitas: «… et multo magis est certum, stante constitutione Gregorii XIV, cum in illa revocentur omnes consuetudines, ac omnia privilegia, et indulta data principibus extrahendi delinquentes ab ecclesia, et nominatim fraudulentos decoctos; et cum ibidem in narrativa fiat mentio de huiusmodi decoctis, de quibus postea, quando Pontifex disponit, nullum verbum facit; inde manifeste apparet quod voluerit Pontifex huiusmodi fraudulenter decoctos immunitate ecclesiae gaudere…». 211 Fagnani, Commentaria cap. VI, pp. 639-641, innanzitutto definisce il publicus latro: «Dicitur autem publicus latro qui palam et publice furatur, ut sunt piratae et qui publice stant in stratis, vel qui arcem habent, vel castrum, et disrobant homines transeuntes». Poi afferma che i fures godono dell’immunità: «… unde reliquos omnes tuetur ecclesia sive sint fures, nam famosum dumtaxat latronem hic canon excipit, innuens aliud esse in simplici fure». Sul carattere della publicitas e della fama cfr. Lacchè, Latrocinium 193 e ss. La confusione tra latrones famosi e latrones publici riaffiora quando Fagnani ribadisce che i debitori godono del diritto d’asilo: il giurista registra che per alcuni (cita Covarruvias), invece, i falliti devono essere esclusi dall’immunità in quanto famosi latrones, ma conclude affrermando che Gregorio XIV ha eliminato ogni dubbio confermando ai falliti il godimento 78 soffermano sulle differenze tra fur, latro e latro publicus, concludendo comunque per la non assimilabilità della figura del decoctus fraudulentus a quella del latro publicus. Interessante al riguardo è il pensiero di Tommaso Del Bene. Il giurista, richiamata la nota differenza tra latro e fur (il primo si caratterizza rispetto al secondo per le modalità violente del suo comportamento), indica le caratteristiche del latro publicus: questi agisce palam et publice (ma si può essere latrones publici anche propter notorietatem iuris vel facti). Inoltre il latro publicus perpetra il suo crimine in viis publicis et frequentatibus, non essendo sufficiente che agisca per insidias in locis non publicis: Del Bene infatti ritiene che la parte della costituzione di Gregorio XIV che disegna le modalità del reato (“… itinera frequentata et publicas stratas obsident…”) non abbia un valore meramente esemplificativo, ma fissi elementi costitutivi del reato, la cui ricorrenza è indispensabile per il verificarsi del reato stesso. Infine, affinché il latro assuma la qualifica di publicus, è necessario che il reato sia stato consumato — non soltanto tentato — più volte. Del Bene fonda proprio sul carattere della reiterazione del reato il suo argomento conclusivo contro l’esclusione dei falliti fraudolenti dal diritto d’asilo. Infatti, ammesso pure in linea di principio che i falliti fraudolenti, in quanto publici latrones, siano esclusi dall’immunità, come può poi provarsi in capo ai decotti fraudolenti uno dei requisiti necessari a dimostrare la loro qualità di publici latrones, cioè la reiterazione del reato212? 5. L’interpretazione dei giuristi e il diritto d’asilo. Leguleicae formalitates, ma non solo Come è chiaro, dunque, l’interpretazione restrittiva della costituzione di Gregorio XIV è assolutamente dominante e l’orientamento dei giuristi, così bene argomentato e teorizzato, finisce per diventare, nei fatti, strumento — come scrive De Luca — per affermare un «praesidium iniquitatis et fomentum fraudis»213. È anche vero, però, che i giuristi escludono i beni del fallito dall’immunità del diritto d’asilo. Preso atto che spesso i falliti si rifugiano in chiesa con i loro beni per sfuggire alle giuste richieste dei loro creditori, gli interpreti sono concordi nell’affermare che il decotto che si rifugia in chiesa con i dell’immunità: «Sed quicquid dicant isti, res hodie est expedita per const. Gregorii XIV in § 2 ibi, “aut fraudulentis decoctoribus”». 212 Del Bene, De immunitate, t. 2, cap. XVI dubit. XIII, pp. 41-42: «Est autem latro qui depredatur violenter; publicus autem qui depredatur palam et publice, vel per insidias in via publica, etiam mari, aut flumine, vel per vim publice in domibus privatorum… subdunt quod quis non solum propter notorietatem iuris (ut si in iudicio hoc crimen confessus, vel propter ipsum aliquando damnatus sit), sed etiam propter notorietatem facti (ut si vel uno ex multis latrocinio publico, vel ex aliquibus secretis diffamatus sit, et publice latro reputetur) immunitate ecclesiae privetur, quia in utroque casu vere dicitur latro publicus. Unde a contrario, latrones qui non sunt publici, nec notorietate iuris, nec notorietate facti, immunitate gaudebunt… Subdunt secundo, quod ut quis immunitate ecclesiae privetur, constare debeat esse latronem publicum neque sufficiat praesumptio, vel dubitatio, quia non praesumpte latro publicus, sed vere latro publicus immunitate privatur. Ut autem hoc constet in hoc casu, debet prius parte citata fieri informatio, et sententia declarari, alias delinquens immunitate non privatur… Requiritur tamen ad hoc ut latro publicus immunitate privetur, quod depredetur in viis publicis et itineribus frequentatis et non sufficit, quod furetur per insidias in loco non publico, quia textus, tam iuris communis, quam constitutionis Gregorii XIV expresse dicit: “Itinera frequentata et publicas stratas obsidet”. Quae verba ad declarationem delicti, et non frustra fuerunt apposita… Requiritur etiam, quod non semel sed ad minus bis, vel ter tale delictum commiserit, quia nomen latronis frequentiam denotat… ut immunitate privetur non sufficiat quod pluries delictum tentaverit, sed requiratur quod pluries consummaverit, cum simus in materia odiosa et poenali, praesertim in praeiudicium immunitatis ecclesiarum». L’equiparazione tra latrones publici e falliti fraudolenti è negata anche da Alexander Ambrosinus, Commentaria in Bullam Gregorii XIV pontificis maximi de immunitate et libertate ecclesiastica (Bracciani 1634) cap. XIII, pp. 84-89, sul fondamento dell’impossibilità della reiterazione del reato da parte dei falliti fraudolenti. Conseguentemente il giurista ammette che i decocti fraudulenti godono del diritto di confugio. Del Bene, De immunitate, t. 2, cap. XVI dubit. XIV, p. 42, esclude, infine che il simplex fur perda l’immunitas «quia simplex fur (praesertim si furetur in loco non publico) non est latro publicus, et exceptio unius firmat regulam in casibus non exceptis». 213 Cfr., supra, nota 20. 79 suoi beni non può trasferirli in pregiudizio dei suoi creditori. Anzi, i beni devono essere messi a disposizione del giudice affinché questi li assegni a chi ne abbia diritto214. L’esclusione dei beni dall’immunità dell’asilo non è sufficiente però a realizzare una efficace tutela dei creditori e, soprattutto, non costituisce una soluzione efficace e coerente rispetto alla repressione penale del fenomeno della decozione fraudolenta215. Anche in questo, come in altri casi — si pensi, per i civilisti, all’azione revocatoria —, l’interpretazione dei giuristi approda a soluzioni insoddisfacenti per la tutela dei creditori del fallito. Riguardo al diritto d’asilo i giuristi — almeno quelli che imporranno l’orientamento prevalente — agiscono facendosi scudo con le leguleicae formalitates, indugiando sulle sottili distinzioni e trascurando gli effetti economico-sociali della bancarotta. De Luca e Del Bene sintetizzano due concezioni diverse: l’una, attenta alla politica giudiziaria e impegnata nella repressione penale di fenomeni devastanti per l’economia e la società216; l’altra, arroccata su posizioni oltranziste di difesa della immunitas e della libertas ecclesiae anche nei casi in cui tale difesa si traduce in un fomentum iniquitatis, non rispondendo più alle originarie esigenze per la cui tutela il diritto d’asilo si era affermato217. La libertas e l’immunitas ecclesiae diventano strumenti per l’affermazione di privilegi che ostacolano l’ordine pubblico, oppure strumento per l’affermazione di principio della superiorità e della intangibilità della Chiesa rispetto agli ordinamenti secolari. Tanto è vero che nello stato pontificio, dove la chiesa non deve affermare la sua libertas e la sua immunitas nei confronti di un potere secolare da lei distinto, le deroghe al diritto d’asilo sono assai frequenti. E la ragione di tali deroghe non deve ricercarsi tanto nelle condizioni obiettive dei luoghi218, quanto nella convinzione del carattere pernicioso dell’immunità per il potere statale: l’interpretazione restrittiva della norma gregoriana si rivela deleteria sul piano della politica giudiziaria e della repressione penale del fenomeno della bancarotta. 6. Alcuni casi di deroga alla prescrizione gregoriana Nei casi in cui le legislazioni particolari specificano che i decotti fraudolenti sono equiparati ai latrones publici i giuristi assumono un diverso orientamento: così, per esempio, Emanuele Romano 214 Cfr., tra gli altri, Del Bene, De immunitate, t. 2, cap. XVI dubit. XI, sectio I, pp. 36-37; Carolus Antonius De Luca, Animadversiones, in: Stephanus Gratianus, Disceptationes forenses, t. 2 (Venetiis 1699) 647; Graziano, Disceptationes, t. 2, disc. 380, pp. 646-647; Costantini, Observationes forenses, cap. CXIV, de venditionibus a decoctis factis, annot. 26 art. 2, pp. 306307; Joannes Fridericus Karg de Bebenburg, Dissertationes Theologicae, nomocanonicae, historicae et politicae ad Constitutionem Gregorianam de immunitate locali ecclesiarum seu de iure sacri asyli (Coloniae Agrippinae 1690) n.151, pp. 330-331. 215 Deve però ricordarsi che l’esclusione dal diritto d’asilo non era comunque, almeno da sola, una misura idonea alla repressione o al contenimento di fenomeni criminali. Frequente, infatti, anche se paradossale, era il caso di rei di crimini esclusi dal confugio che, pur di garantirsi il diritto d’asilo, risolvevano di commettere reati per i quali era ammessa l’immunità locale: cfr. Ajello, Il problema della riforma giudiziaria 51 e ss. 216 De Luca non indugia nell’esegesi delle costituzioni di Pio V e Gregorio XIV: per il cardinale è importante che i giuristi prendano atto della sostanziale ingiustizia dell’estensione del diritto d’asilo ai falliti fraudolenti. La giustificazione teorica dell’esclusione dei falliti dall’immunità è conseguente e non costituisce certo una difficoltà insormontabile. De Luca infatti afferma che la legge è «un effetto unito della podestà e della ragione» e che al giurista spetta interpretare quale sia la mens legis anche al di là del senso letterale e grammaticale delle parole (Theatrum veritatis, t. 10, de fideicommissis disc. CCI §1 nn. 1-3, pp. 354-356). Sul punto cfr. anche P.L. Rovito, Respublica dei togati 375-381. De Luca aveva assunto un’analoga posizione anche riguardo all’immunità fiscale accordata agli ecclesiastici: egli riteneva che le cause che giustificavano originariamente l’immunità erano venute meno così che l’immunità si era trasformata ormai in un pregiudizio per l’economia pubblica e per la giustizia fiscale. La sua ferma presa di posizione gli aveva procurato non poche inimicizie all’interno della curia: si pensi alla protesta del cardinale Pietro Ottoboni contro l’elevazione di De Luca alla dignità cardinalizia. Cfr. Lauro, Il Cardinale Giovan Battista De Luca LV, 698 e ss. 217 Cfr. Lacchè, Latrocinium 223 e ss. Simile al pensiero di Del Bene è quello di molti altri giuristi: può ricordarsi qui Remigius de Gonni, De immunitate ecclesiarum (Casalemaiori 1582) fallentia 27 n. 45. 218 Nella città di Roma le immunità locali, senza le deroghe, si sarebbero estese su quasi tutto il territorio: deve considerarsi infatti che anche i palazzi del clero erano coperti da immunità. Cfr. Prodi, Il sovrano pontefice 232 e ss. 80 Valeron e Pietro Gambacorta, nel caso della legislazione regia spagnola, sostengono l’esclusione dei decotti fraudolenti dal diritto d’asilo219. Ma anche negli ordinamenti in cui non vi era un’espressa equiparazione tra decotti fraudolenti e latrones publici si avverte la necessità di una più efficace azione repressiva nei confronti dei falliti fraudolenti. Già negli anni immediatamente successivi alla riforma di Gregorio XIV gli stessi pontefici intervennero più volte riguardo al diritto d’asilo per i debitori e per i bancarottieri. Su ordine di Clemente VIII, il 7 maggio 1595 il cardinale Ottavio Paravicini si rivolse ad Alfonso Paleoti, vicario del cardinale Gabriele Paleoti, arcivescovo di Bologna220; l’11 aprile 1602 il cardinale di Firenze Alessandro de’ Medici, al cardinale Alfonso Gesualdo, Nunzio di Napoli221; per conto di Innocenzo X il 26 maggio 1647 il cardinale tesoriere della Camera Apostolica, Giovan Francesco Ginetti, si rivolse all’arcivescovo di Cosenza Alfonso Maurelli222. Tutti gli interventi ribadivano la validità della disposizione gregoriana e l’intangibilità dell’immunitas ecclesiastica: tuttavia, nei fatti, e in modo conforme alle intenzioni pontificie, finivano con il produrre l’esclusione dal diritto d’asilo dei falliti, di volta in volta indicati come ‘debitori fugitivi’, ‘persone facinorose e debitori fugitivi’, ‘falliti e debitori’ ecc. I ripetuti interventi pontifici imposero nuovamente all’attenzione dei giuristi il problema dell’ammissibilità del confugium per i decotti fraudolenti. Non tutti i giuristi comunque attribuirono agli interventi pontifici il significato di una sostanziale deroga alle disposizioni gregoriane. Significativo è il dibattito tra Michelangelo Donato e Mario Italia. Italia ritiene che gli interventi di Clemente VIII abbiano di fatto riformato la disciplina gregoriana e che ormai il debitore, fraudolento e non, debba considerarsi escluso dal diritto 219 Valeron, Tractatus de transactionibus quaest. VIII pp. 203-207. Petrus Gambacurta S.I., Commentariorum de immunitate ecclesiarum in constitutionem Graegorii XIV pont. max. libri octo (Lugduni 1622) lib. 4, cap. 15 pp. 247-251, nella parte generale della sua trattazione non distingue tra decotti in buona e mala fede e si riferisce più genericamente agli oberati; aggiunge però che i “magañeros” – i truffatori – sono peggiori dei latrones publici: i latrones, infatti, rubano a rischio della vita e della fama, i decotti «blande accipiunt e pompis epulisque ac largis ludis consumunt et quasi decoquunt». Ai magañeros pertanto si nega l’immunità; ai decotti non fraudolenti, invece, de consuetudine, si concede. Cfr. supra, § 4. 220 «Se bene la Santità di N. Signore vuole che l’immunità ecclesiastica sia conservata illesa in tutti li luoghi, massime del suo stato ecclesiastico, nondimeno ha molto per male che li delinquenti e li debitori fugitivi siano mantenuti da’ Superiori e altre persone ecclesiastiche nelle Chiese, Monasteri, Conventi, Case e luoghi loro in preiudicio della giustizia e contro la mente di Sacri canoni e della chiesa santa. Et havendo perciò inteso Sua beatitudine che in cotesta et altre città si trovano trattenuti nelle Chiese, Monasteri, Case, e luoghi ecclesiastici persone facinorose e debitori fugitivi senza rispetto alcuno della Corte e con danno del publico mi ha ordinato che io commetta… a V. S. che debba, alla ricevuta di questa, fattose chiamare a se tutti li Superiori del clero secolare, e regolare, e commandare a loro che debbiano dentro a quello breve termine, che alla prudenza che a lei parerà di prescriverli, haver licentiato e mandato fuori delle Chiese, Monasteri, Conventi, Case e luoghi loro qualsivoglia persona ritiratavesi per paura, e sospetto della Corte, ordinando a ciascheduno per l’avvenire debba guardarsi di non mantenere o trattenere simili genti, in qualsivoglia modo, perché la santità sua è risoluta di non volerlo comportare e di fare demonstracione contra transgressori con ogni severità…»: Michael Angelus Donatus, De Asylia seu de immunitate locali resolutiones forenses (Romae 1652) resol. 9 pp. 17-18. 221 «Non piace a Nostro Signore che le chiese, né gli altri luoghi sacri servano per Asilo e per recettacolo a’ tristi onde m’ha fatto comandare di scrivere a V.S. che faccia prohibitione, et intimare per parte di Sua beatitudine a’ Superiori di Monasteri di Regolari de tutti gli ordini … che per l’avvenire non diano ricetto o sorte alcuna di condennati, banditi, ladri, o altre genti di male affare, né a falliti e debitori, sotto pena di privatione d’ufficio, se haverà notitia del ricetto ancorché non siano trovati questi tali nelli monasteri…»: Donato, De Asylia resol. 9 pp. 16-17. 222 «Ancorché alla Santità di Nostro Signore, col suo paterno zelo prema quanto si deve che l’immunità ecclesiastica sia inviolabilmente custodita et osservata; e la bolla della S. memoria di Gregorio XIV sia puntualmente esseguita, non intende però che le Chiese et altri luoghi immuni servino per asilo a mali viventi e facinorosi, i quali, abusando spesso di quel privilegio vi si ricovrano anco talvolta per uscire a commettere nuovi delitti»: Donato, De Asylia resol. 9 pp. 18-19. I rei possono rimanere in chiesa solo tre giorni. Trascorso tale periodo devono andare via o devono essere condotti nel carcere della curia. Tutto il clero secolare e regolare deve rifiutare l’ospitalità ai delinquenti a pena della perdita immediata degli ordini, officii e dignità. 81 d’asilo223. Donato invece esclude che la bolla di Gregorio XIV possa interpretarsi estensivamente, considerato che i casi di esclusione dall’immunità sono indicati tassativamente, e ribatte che Italia, pur giurista di altissima levatura, ha capito male. Infatti, per diritto comune e per unanime dottrina il debitore che si rifugia ad locum tutum gode dell’immunità (cita Bellemère, Niccolò Tedeschi e la l. Praesenti [C.1.12.6])224. Inoltre sottolinea che Gregorio XIV non ha escluso i debitori dall’immunità. Neanche Clemente VIII poi ha escluso i debitori civili dal diritto d’asilo, né ha voluto che essi venissero giudicati dal tribunale secolare. Invece ha vietato che siano ricevuti e mantenuti nei monasteri, e ne ha ordinato l’espulsione225. Alla nuova fase del dibattito, aperta dai mutati orientamenti pontifici, prese parte anche Giovan Battista Fattolilli. Fattolilli, su posizioni vicine a quelle di Donato, ritiene che le lettere di Clemente VIII non abbiano portata generale e riguardino piuttosto solo i casi e le circostanze per i quali il papa ritenne di intervenire. Di più, Fattolilli afferma che i decotti godono dell’immunità anche se fallirono cum notabili reipublicae detrimento. Il giurista sottolinea che il diritto d’asilo è valde ecclesiae favorabile e pertanto può estendersi ai casi dubbi. Inoltre respinge l’obiezione di chi nega l’immunità ai debitori sostenendo che per volere di Gregorio XIV l’immunità è destinata solo ai rei e pertanto non può essere accordata ai debitori che non sono rei. Fattolilli, riprendendo la tesi già richiamata a proposito di Del Bene, afferma che il termine reus è usato da Gregorio XIV non in senso strettamente tecnico, ma per indicare quanti nel processo sia civile che criminale sono chiamati in giudizio226. Già Alessandro Pellegrino aveva distinto i falliti fraudolenti dai debitori e, tra i debitori, i rei civili dai criminali e aveva sostenuto che l’immunità poteva ben estendersi anche ai debitori proprio perché Gregorio XIV aveva usato il termine ‘reo’ con un’accezione lata. Ai falliti — secondo il giurista — deve concedersi l’immunità nonostante l’opinione contraria di quanti sostengono l’equiparazione dei falliti stessi ai latrones publici. Pellegrino ritiene insostenibile tale equiparazione perché difetta nei falliti il requisito della reiterazione del reato. Però il giurista propugna l’esclusione dell’immunità per i falliti fraudolenti: «Praeterea raro aut nunquam verificatur in eis quod sint fraudolenter falliti seu decoctores: unde immunitate (regulariter) gaudent et huius opinionis est etiam Alexander Ambrosinus in suo Tractatu de immunitate ecclesiastica.… Dixi ‘regulariter’, quia quando legitime constaret eos esse re vera fraudolenter decoctores tunc procederet opinio contraria supradictorum doctorum nempe Covarruvias, Boerius Deciani et Farinaccii»227. Anche Farinaccio aveva distinto tra debitori e falliti ammettendo per i primi l’immunità; poi aveva anche distinto tra falliti e falliti fraudolenti. In generale i falliti devono essere ammessi al beneficio dell’immunità: la bolla di Gregorio XIV, revocando le disposizioni con cui si concedeva ai 223 Marius Italia, De Immunitate ecclesiastica (Panormi 1611) lib. I, cap. 5, n. 16, con esplicito riferimento alle lettere di Clemente VIII inviate al Nunzio di Napoli. 224 Sia pure incidentalmente deve notarsi come i giuristi fondano la propria riflessione sul pensiero di Oldrado da Ponte che aveva affrontato il problema dell’ammissibilità del diritto d’asilo per il debitore (non per il mercante fallito): iure civili il debitore, uomo libero, non può essere estratto dalla chiesa perché non può essere catturato «pro debito» e non deve essere asservito al creditore. Iure municipali, invece, anche l’uomo libero può essere asservito al creditore e quindi non consentirne l’estrazione dal luogo sacro in cui si è rifugiato si tradurrebbe in una frode per il creditore. Infatti, il debitore, anche se uomo libero, è comunque soggetto allo ius municipale. In sostanza Oldrado ammetteva che il debitore possa essere ‘estratto’ dal luogo in cui ha trovato asilo ma, considerato che lo scopo dell’asilo è quello di tutelare il soggetto dalla pena corporale, sosteneva che tale pena dovesse essere commutata in una sanzione di tipo diverso. Cfr. Oldradus de Ponte de Laudo, Consilia seu responsa et quaestiones aureae (Venetiis 1585) consilium 54 pp. 24-25. 225 Donato, De Asylia resoll. 88-90 e 92, pp. 114-116 e 117-119. Il giurista suggerisce un’interpretazione piena di buon senso: il decotto gode del diritto d’asilo, ma non può approfittarne per sottrarre ai creditori i suoi beni che pertanto devono essere consegnati al giudice affinché questi li assegni a chi ne abbia diritto. Nella resol. 9, alle pp. 15-21, proprio a proposito delle lettere inviate al Nunzio di Napoli, Donato afferma: «Omissis omnibus obiectionibus quae hic afferri possent dicam breviter quod Papa potest ecclesiasticam immunitatem canones et constitutiones apostolicas de ea tractantes non solum declarare et interpretari sed etiam ampliare, extendere, restringere, et limitare…: idcirco sancte quidem meritissimus ille Pontifex Clemens VIII iussit per diversas mundi partes ne facinorosi homines in Ecclesiis, religiosisque locis detinerentur sed expellerentur…». 226 Iohannes Baptista Carmen Fattolilli, Theatrum immunitatis et libertatis ecclesiasticae, t. 1 (Romae 1714) pp. 39-40 n. 6. 227 Alexander Peregrinus, Tractatus de immunitate ecclesiarum (Cremonae 1621) 154 e ss. 82 principi di estrarre dalle chiese i falliti, e non elencando tra i casi tassativamente esclusi dall’asilo la categoria dei falliti, espressamente ammetteva che i falliti godessero del diritto d’asilo. Per quanto riguarda gli interventi di Clemente VIII, per Farinaccio le lettere al nunzio di Napoli non significano la sostanziale abolizione del disposto di Gregorio XIV. Farinaccio è favorevole al diritto d’asilo per i falliti purché però questi non siano fraudolenti. Tale fraudolenza egli riscontra in chi, in frode ai propri creditori, si rifugia in chiesa non da solo ma con i propri beni, oppure, comunque, in chi ha nascosto i propri beni per sottrarli ai creditori. Il comportamento di tali falliti è assimilabile lato sensu a quello dei latrones publici e pertanto tali falliti possono essere esclusi dal diritto d’asilo228. Assai vicini al pensiero di Farinaccio sono Joannes Fridericus Karg de Bebenburg e Anastasio Germonio. Karg ammette l’asilo per i debitori interpretando in senso lato (cioè nell’accezione di convenuto) il termine ‘reo’ presente nella costituzione gregoriana. Per i decotti fraudolenti assegna alla Sacra Congregatio episcoporum et regularium il ruolo di impedire che l’immunità concessa ai falliti dolosi, al solo scopo di sottrarli alla pena corporale, si traduca in una frode per i creditori che si vedano privati dei beni su cui soddisfarsi. Karg afferma che la Congregatio in questi casi, come ha fatto più volte, deve obbligare il fallito a consegnare i beni perché vengano assegnati a chi ne abbia diritto229. Il pensiero di Anastasio Germonio è particolarmente interessante. Ancora prima di Farinaccio, Germonio aveva sostenuto che il debitore su cui grava il sospetto di fuga gode dell’immunità, tranne che non si tratti di un banchiere o di un mercante qui maximo Reipublicae dispendio, ex pecuniis et rebus alienis, dum quaestum exercent operam usuris quodammodo, et foenoribus dantes, ac per negligentiam prodigalitatem, et luxum libidini intemperanter, ac voluptatibus indulgendo decoquunt, ad templaque fugiendo creditores omnes suos miserrime fraudent. Putarem enim ecclesiarum praelatos, iudicibus saecularibus libere huiusmodi homines quos vulgo fallitos vocamus et proprie extrahendos concedere debere. Siquidem Pius Papa Quintus decrevit decoctores ultimi supplicii et ea qua fures ipsi iure, vel consuetudine, vel particulari, vel municipali statuto plecti solent, poena puniendos esse230. Germonio avverte lucidamente la particolare rilevanza del fallimento del banchiere e del mercante e propugna per entrambi un rigore maggiore di quello che la legge riserva al debitore. 7. La cost. ‘Ex quo’ di Benedetto XIII dell’8 giugno 1725 Circa centotrent’anni dopo la costituzione gregoriana Benedetto XIII finalmente comincia a far chiarezza sul diritto d’asilo promulgando l’8 giugno del 1725 la cost. ‘Ex quo’, con cui statuisce che siano esclusi dal diritto d’asilo, tra gli altri, i 228 Prosperus Farinacius, De immunitate ecclesiarum, Appendix cap. III nn. 64 e ss. pp. 12-13. 229 Karg de Bebenburg, Dissertationes Theologicae n. 151, pp. 330-331. Sugli interventi della Congregatio, cfr. Petrus Andrea Ricci Pedemontanus Abbas Generalis Congregationis Reform. S. Bernardi ordini cistercensis, Synopsis decreta et resolutiones Sacr. Congr. Immunitatis super controversiis iurisdictionalibus (Praeneste 1708) 246: cita una littera Panormitana del 21 gennaio 1626 che dispone che il vescovo non può estrarre il decotto rifugiato perché il decotto non è compreso tra i casi tassativamente esclusi dall’asilo da Gregorio XIV; una littera Avenionensis del 14 settembre 1694 in cui la sacra congregazione attribuisce al vescovo la facoltà di fissare al decotto rifugiato un congruo termine per pagare i creditori (o per raggiungere un accordo con gli stessi). Nella stessa lettera, comunque, considerate le «gravissime circostenze di questo caso», la Congregazione attribuisce al vescovo la facoltà di estrarre il decotto dal luogo immune e trattenerlo nelle carceri ecclesiastiche. In una littera Militensis del 13 dicembre 1633 la Congregatio stabilisce che il vescovo fissi al decotto fraudolento un termine di due mesi. Trascorso tale termine, il decotto che non abbia soddisfatto i creditori, o non abbia almeno trovato con loro un accordo, deve abbandonare il luogo immune. Con una littera Ravennatis del 3 luglio 1694 si affida al vescovo la funzione di custode dei libri contabili del confugitus. Sulla Congregazione dell’Immunità ecclesiastica cfr. N. Del Re, La Curia Romana. Lineamenti storico-giuridici (Sussidi eruditi 23; Roma 19703) 367-369. 230 Anastasius Germonius, De sacrorum immunitatibus libri tres (Romae 1591) lib. 3 cap. 16 nn. 113-114 p. 263. 83 ministros Montis Pietatis, vel alterius publici Telonii, aut Banci pro depositis Principis, privatarumque personarum destinati, furtum, aut falsitatem in praedictis locis committentes, cuius ratione Arca pecuniaria ita minuatur, ut poenae ordinariae locus sit231. Significativamente il primo intervento legislativo dei pontefici in materia di diritto d’asilo per i mercanti fraudolenti è rivolto ai banchieri. Proprio a quel particolare tipo di mercante che è il banchiere si riferisce la normativa in cui per la prima volta si distingue il mercante fallito fraudolentemente dal mercante che è fallito per sfortuna o per imperizia, «vitio suo, vel vitio partim suo partim fortunae»232. Benedetto XIII, con l’autorevolezza del legislatore e con il carisma del pontefice, chiude, almeno momentaneamente, la lunga e articolata quaestio che aveva impegnato i giuristi per oltre un secolo. Il pensiero settecentesco, con Sarpi, Verri, Beccaria, Filangieri non mancherà di auspicare una maggiore efficacia della legislazione nella repressione della bancarotta e di invocare la restrizione del diritto d’asilo ai soli casi per i quali il confugium non costituisca fomentum iniquitatis233. 231 Bullarium Romanum seu Novissima et accuratissima collectio apostolicarum constitutionum, t. 12 (Romae 1736; rist. anast. Graz 1965) const. LXXIII, pp. 1-4. 232 Secondo un’espressione celebre al punto da essere diventata un ‘modulo’: essa ricorre in molti trattati di diritto commerciale, a cominciare dal De decoctoribus di Benvenuto Stracca (p. 474a). 233 Per il dibattito settecentesco cfr. Sciumè, Ricerche sul fallimento, passim. 84 Gregorio VII: Dictatus Papae (1075) I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII. VIIII. X. XI. XII. XIII. XIIII. XV. XVI. XVII. Quod Romana ecclesia a solo Domino sit fundata. Quod solus Romanus pontifex iure dicatur universalis. Quod ille solus possit deponere episcopos vel reconciliare. Quod legatus eius omnibus episcopis presit in concilio etiam inferioris gradus et adversus eos sententiam depositionis possit dare. Quod absentes papa possit deponere. Quod cum excommunicatis ab illo inter cetera nec in eadem domo debemus manere. 1. 2. 3. 4. Quod illi soli licet pro temporis necessitate novas leges condere, novas plebes congregare, de canonica abbatiam facere et e contra, divitem episcopatum dividere et inopes unire. Quod solus possit uti imperialibus insigniis. Quod solius papae pedes omnes principes deosculentur. Quod illius solius nomen in ecclesiis recitetur. Quod hoc unicum est nomen in mundo. Quod illi liceat imperatores deponere. Quod illi liceat de sede ad sedem necessitate cogente episcopos transmutare. Quod de omni ecclesia quocunque voluerit clericum valeat ordinare. Quod ab illo ordinatus alii ecclesiae preesse potest, sed non militare; et quod ab aliquo episcopo non debet superiorem gradum accipere. Quod nulla synodus absque precepto eius debet generalis vocari. Quod nullum capitulum nullusque liber canonicus habeatur absque illius auctoritate. 7. 5. 6. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. XVIII. Quod sententia illius a nullo debeat retractari et ipse omnium solus retractare possit. 18. XVIIII. XX. XXI. XXII. XXIII. Quod a nemine ipse iudicari debeat. Quod nullus audeat condemnare apostolicam sedem apellantem. Quod maiores causae cuiuscunque ecclesiae ad eam referri debeant. Quod Romana ecclesia nunquam erravit nec imperpetuum scriptura testante errabit. Quod Romanus pontifex, si canonicae fuerit ordinatus, meritis beati Petri indubitanter efficitur sanctus testante sancto Ennodio Papiensi episcopo ei multis sanctis patribus faventibus, sicut in decretis beati Symachi pape continetur. XXIIII. Quod illius precepto et licentia subiectis liceat accusare. XXV. Quod absque synodali conventu possit episcopos deponere et reconciliare. 19. 20. 21. 22. 23. XXVI. Quod catholicus non habeatur, qui non concordat Romanae ecclesiae. XXVII. Quod a fidelitate iniquorum subiectos potest absolvere. 26. 27. 24. 25. La Chiesa romana è stata fondata solo dal Signore Solo il Pontefice romano è detto a giusto titolo universale Egli solo può deporre o assolvere i vescovi Il suo legato, in un Concilio è superiore a tutti i vescovi, anche se è loro inferiore per l’ordinazione e può pronunciare contro di loro una sentenza di deposizione Il papa può deporre gli assenti Con quanti sono stati scomunicati da lui non si può, tra l’altro, abitare sotto il medesimo tetto Egli solo può, se opportuno, stabilire nuove leggi, riunire nuovi popoli, trasformare una collegiata in abbazia, dividere un vescovato ricco, unire vescovati poveri Egli solo può servirsi delle insegne imperiali Il papa è il solo uomo a cui tutti i principi bacino il piede E’ il solo il cui nome sia pronunciato in tutte le Chiese Il suo nome è unico nel mondo Gli è lecito deporre gli imperatori Gli è lecito trasferire i vescovi da una sede all’altra, secondo la necessità Ha il diritto di ordinare un sacerdote di qualsiasi chiesa, dovunque gli piaccia Colui che è stato ordinato da lui può dare ordini alla chiesa di un altro, ma non fare la guerra; non deve ricevere da un altro vescovo un grado superiore Nessun sinodo generale può essere convocato senza suo ordine Nessun testo e nessun libro possono assumere valore canonico al di fuori della sua autorità Le sue sentenze non debbono essere modificate da nessuno, ed egli solo può modificare le sentenze di chiunque Non può essere giudicato da nessuno Nessuno può condannare chi fa appello alla Sede apostolica Le Causae majores di ogni chiesa devono essere portate davanti a lui La Chiesa Romana mai ha errato ed errerà in perpetuo, come attesta la Sacra Scrittura Il Pontefice romano, quando sia stato ordinato canonicamente, viene indubitamente santificato per i meriti di Pietro Su ordine e con il consenso del papa è permesso ai soggetti presentare un’accusa Egli può anche, senza bisogno di convocare un’assemblea sinodale, deporre e assolvere vescovi Chi non è con la Chiesa romana non dev’essere considerato cattolico Il papa può sciogliere i soggetti dal giuramento di fedeltà fatto agli ingiusti Opere dei glossatori Opera Digestum vetus Digestum infortiatum Digestum novum Apparati ordinari Accursio (†1263) Accursio (†1263) Accursio (†1263) Codex Accursio (†1263) Institutiones Accursio (†1263) Tres Libri Novellae Libri Feudorum Accursio (†1263) Accursio (†1263) Pillio da Medicina (†1207) e Jacopo Colombi (†1244) Carlo di Tocco (sec. XII-XIII) Marino da Caramanico (†1288 prima) Bartolomeo da Brescia († 1258) su Rolando Bandinelli (Alessandro III) trama di Giovanni Teutonico († 1245) (†1181) Rufino († prima del 1192), Giovanni da Faenza († 1190), Stefano Tornacense († 1203), Uguccione da Pisa († 1210) Bernardo Bottone da Parma († 1266) Goffredo da Trani (†1245) Sinibaldo fei Fieschi (Innocenzo IV) († 1254) Enrico da Susa († 1271) Giovanni d’Andrea (†1348) Giovanni d’Andrea (†1348) Lombarda Liber Constitutionum Decretum di Graziano Liber Extra Liber Sextus Clementinae Summae Frammenti, Azzone († 1230) Frammenti, Azzone († 1230) Frammenti, Azzone († 1230) Guglielmo da Cabriano (fine sec. XII) Summa trecensis, prima metà sec. XII Summa di Rogerio (†1162) Summa di Piacentino († 1192) Summa di Azzone († 1230) Piacentino († 1192) Azzone († 1230) Pillio da Medicina († dopo il 1207) Giovanni Bassiano († 1197) GIUSEPPE SPECIALE ALTERI AD DELICTUM PRAEBUIT OCCASIONEM A PROPOSITO DI MANDATUM E CONSILIUM: VOCI DAL DISCORSO SULLA RESPONSABILITÀ 1. Il discorso umano sulla responsabilità. In un villaggio non lontano da Francoforte, sul finire del Seicento, una donna di umili condizioni, una serva, appicca il fuoco alla casa del proprio padrone causandone la morte. La serva, subito arrestata, confessa di avere agito su consiglio di un oste. Questi, interrogato sull’accaduto, racconta che la donna, visibilmente agitata e sconvolta, era entrata nella sua osteria per comprare una birra per il proprio padrone; incuriosito dal pianto disperato della donna l’oste le aveva chiesto spiegazioni e quella aveva riferito di essere stata picchiata più volte e senza motivo dal padrone. Allora l’oste, indignato e adirato per la crudeltà di quello e turbato per lo stato di sofferenza in cui * Questo studio è dedicato a Giovanni Nicosia. Un primo risultato della ricerca che ho avviato sul concorso di persone, in particolare sul mandato e sul consiglio a delinquere, è stato presentato nel settembre 2006 nell’occasione del convegno Norm, Knowledge, and Text in medieval culture and legal tradition, organizzato dalla School of Law, University of California, Berkeley (18-20 settembre 2006). Estr. da: Studi per Giovanni Nicosia (Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania; Milano, Giuffré 2007) in corso di stampa versava la povera donna, aveva esclamato: «se fosse accaduto a me avrei appiccato il fuoco alla casa con lui dentro». L’infelice aveva ascoltato in silenzio le parole dell’oste, poi aveva fatto ritorno dal padrone e subito aveva appiccato il fuoco alla casa. L’oste si difende sostenendo che quando aveva pronunciato quelle parole egli non credeva che la donna sarebbe stata così stolta (“ita stolida”) da intenderle come un suggerimento e da porle in atto. La serva, d’altro canto, afferma che mai avrebbe trovato il coraggio e la volontà di compiere un gesto simile se non vi fosse stata indotta dal cattivo consiglio dell’oste. Entrambi sono condannati a morte: la donna è bruciata viva, l’uomo, con modalità più miti, viene prima ucciso e poi se ne brucia il corpo. La vicenda della serva e dell’oste costituisce una felice ed efficace esemplificazione di una delle tante figure che integrano il genus della compartecipazione criminosa che è stato assunto ad oggetto dell’appassionata riflessione dei giuristi fin dai tempi dei primi glossatori e, via via, fino ai nostri giorni. Gli studiosi sono consapevoli della complessità della materia e si impegnano nel tracciare i confini tra il consilium, l’auxilium, il mandatum, la locatio, la ratihabitio, assumendo di volta in volta criteri discretivi che non sempre si rivelano stabili. La classificazione, per quanto faticosa, è meritoria perché feconda di risultati e perché consente ai giuristi di impostare correttamente il problema fondamentale che essi sono chiamati ad affrontare: il problema della responsabilità. Si tratta infatti di capire se, ed eventualmente in quale misura, sia imputabile al dans il consilium, o il mandatum, o l’auxilium, l’atto compiuto dall’accipiens; si tratta di capire se, ed eventualmente in quale misura, il contributo 2 Giuseppe Speciale all’ideazione o alla realizzazione del reato — fornito da un soggetto diverso dall’autore (1), materiale esecutore — possa ritenersi causa (causa efficiens) della commissione del reato stesso. Si tratta, inoltre, di stabilire se quello compiuto con modalità di partecipazione e livelli di coinvolgimento diversi, dai distinti concorrenti, possa considerarsi un unum delictum. L’indagine sulla volontà, e sul reciproco influenzarsi delle volontà di soggetti distinti, la valutazione del libero arbitrio, le inafferrabili modalità secondo le quali di volta in volta si combinano volontà e comportamenti, il rapporto tra volontà e responsabilità, costituiscono i nodi del problema della responsabilità, del giudizio pratico sulla responsabilità, che i giuristi sono chiamati a sciogliere. Su questo problema la scienza giuridica si cimenta con approcci diversi, ora identificando la volontà con la responsabilità e finendo con il far coincidere la responsabilità con il disvalore sociale che oggettivamente il fatto esprime; ora soffermandosi sulla libertà di scelta, sul libero arbitrio; ora indagando le relazioni tra volontà di soggetti distinti nel contesto delle condizioni ambientali sociali psicologiche. Da subito, sin dall’età dei glossatori, i giuristi percepiscono che il problema della responsabilità deve affrontarsi con approcci che tengano conto delle diverse variabili in gioco. Nell’acribia delle distinzioni in cui si impegnano a inquadrare i vari possibili modi in cui comportamenti e volontà di soggetti distinti concorrono alla realizzazione di un reato si riflette proprio la consapevolezza dell’insufficienza di un approccio fondato su un solo criterio. La miriade di figurae di concorso descritta dalla dottrina bassomedievale e dell’età moderna è irriducibile e incomprimibile in una rigida tipizzazione (1) I termini ‘autore’ ed ‘esecutore’, storicamente segnati dall’esperienza codicistica italiana (soprattutto postunitaria), vengono qui utilizzati nell’accezione più lata e meno tecnica, riferendosi al soggetto o ai soggetti che hanno posto in essere la condotta descritta nella fattispecie di reato oppure, nelle ipotesi di reato a forma libera, a coloro che hanno causato l’evento tipico. Alteri ad delictum praebuit occasionem 3 normativa. Significativamente Vico, anche in anni che segnano una cesura tra due esperienze giuridiche, avverte che il problema della responsabilità, del giudizio pratico sulla responsabilità, considerata l’inafferrabilità del libero arbitrio, può affrontarsi con lo strumento del senso comune. Riprendendo Vico — «L’umano arbitrio, di sua natura incertissimo, egli si accerta e determina col senso commune» — Alessandro Giuliani può ben affermare che il senso comune «rappresenta quindi l’unica misura su cui si possa cominciare un discorso umano riguardo alla responsabilità umana» (2). E proprio al senso commune sembra che i giuristi abbiano finito per ancorare le conclusioni dei loro complessi ragionamenti tutte le volte che nell’età del diritto comune, e anche oltre, si sono occupati di questi problemi. Fino (2) A. GIULIANI, Imputation et justification, in Archives de philosophie du droit XXII (1977) 85-96, in particolare 96. Lo stesso concetto, tra gli altri, riprende J. GIL, Responsabilità, in Enciclopedia Einaudi 11 (Torino 1980) 1014-1015: «Perché la nozione di responsabilità si formuli in modo netto occorre che quella di libero arbitrio perda il carattere sacro… Tuttavia si può ritenere che (l’idea di responsabilità individuale) esista in qualsiasi forma di diritto, non nell’accezione moderna (in cui è strettamente connessa all’idea di colpevolezza individuale), ma in modo implicito nel significato generale del verbo respondere ‘farsi garante di una promessa o di un debito’… Perché si cerca di determinare la responsabilità dell’autore di un delitto? Rendere responsabile equivale a «mettere sul conto di» e se si vuole mettere sul conto di qualcuno un atto delittuoso è per fargli subire un castigo. Ricercare la responsabilità consente di applicare la pena. Nella dottrina classica del diritto si distinguono due aspetti della responsabilità penale: l’imputabilità e la colpevolezza... Nella determinazione della responsabilità tutto verte sul problema di sapere in quale misura un atto è imputabile ad un soggetto (si tratta qui del diritto classico)… Ora si presentano degli interrogativi che i penalisti sono costretti a porsi ogni volta che i «determinismi» (di ordine sociale, biologico, psicologico) offuscano l’idea chiara del libero arbitrio: come valutare, in tali condizioni, il legame che unisce l’azione e chi la compie? Come conciliare la nozione di «determinismo» con quella di responsabilità assoluta del soggetto?… La giurisprudenza ha sempre seguito una via di mezzo tra queste due concezioni (della libera volontà e del determinismo) che riassumevano le difficoltà di ordine dottrinario… la responsabilità dipendeva più dal senso comune che dalle concezioni filosofiche; più dalla mentalità relativa alle opinioni correnti sulla reale libertà dell’individuo sociale, che dal rigore della dottrina. Il senso comune sembra effettivamente svolgere la funzione di un a priori nei giudizi di responsabilità mediante certe nozioni che esso presuppone». 4 Giuseppe Speciale ai nostri giorni, quando — constatato il fallimento degli esperimenti codicistici che miravano a una tipizzazione del concorso, e l’insufficienza del criterio causale per la determinazione della misura della responsabilità dei concorrenti — i giuristi hanno proposto l’adozione di un approccio multifattoriale, che sostituisce al criterio fondato sulla causalità un insieme variabile, di volta in volta variabile, di criteri, più adatto a valutare le complesse dinamiche relazionali tra i concorrenti e le altrettanto complesse relazioni tra i contributi dei concorrenti (3). Per avviare questo primo, provvisorio, saggio di ricerca — che senza pretese di esaustività si limita ad alcune incursioni nei territori, e sulle linee di confine, del mandatum e del consilium ad delinquendum — ho scelto di raccontare la vicenda della serva e dell’oste che è tratta da un’operetta del tardo Seicento: una disputatio redatta pro licentia nel 1690 da Johannes Andreas Birner Brega Silesius, un allievo di Samuel Stryk, e inserita dal maestro dell’Usus modernus pandectarum tra le celebri Dissertationes juridicae Francofurtenses (4). (3) In questa nuova prospettiva cfr. gli studi di S. ALEO, e la letteratura ivi citata, Causalità, complessità e funzione penale. Per un’analisi funzionalistica dei problemi della responsabilità penale (Milano 2003) 101 ss.; Il diritto flessibile, in Rassegna penitenziaria e criminologica 8.2 (2004) 41 ss. e le osservazioni dello stesso ALEO, Diritto penale e complessità. La problematica dell’organizzazione e il contributo dell’analisi funzionalistica (Torino 1999), 47 ss., in particolare, per i profili della configurabilità del concorso esterno nei delitti associativi. (4) JOHANNES ANDREAS BIRNER BREGA SILESIUS, Disputatio decima sexta de mandato delinquendi, pro licentia (ad. D. Iunii, anno MDCXC horis ante et pomeridi). Sect. I Generalis, de obligatione mandati ad delinquendum, in SAMUEL STRYK, Dissertationum juridicarum Francofurtensium ex iure publico, privato, feudali et statutario materias exhibens VI (Florentiae, apud Josephum Celli 1839) coll. 627-656 (il caso della serva a col. 637). Tra le altre, che riguardano lo stesso tema della compartecipazione criminosa, possono qui ricordarsi, nello stesso volume, la Disputatio prima De imputatione facti alieni, pro licentia (D. VIII Iunii, anno MDCLXXXVIII) di AUGUSTUS THEODORUS REICHHELM HALENSIS, coll. 5-64, e la Disputatio decima octava De jure persuasionis (die XX Jul. MDCLXXVIII) di GEORGIUS QUIRINO POECKELL LIPSIENSIS, in SAMUEL STRYK, Dissertationum juridicarum Francofurtensium de selectis utriusque iuris materiis III (Florentiae, apud Josephum Celli 1838) coll. 812-894. Alteri ad delictum praebuit occasionem 5 La disputatio, al di là del suo valore, costituisce uno dei pochi punti di osservazione che arbitrariamente ho scelto per guardare il complesso e variegato patrimonio di sapienza accumulato dall’infaticabile lavorìo dei giuristi. La condivisione del sapere, la sua circolazione, la partecipazione corale della comunità dei giuristi alla costruzione di una sapientia sono palpabili nell’opera di Birner e, ancora di più, in un’altra opera che qui si assume come ulteriore punto di osservazione. Mi riferisco alle sette quaestiones, dalla 129 alla 135, della Praxis di Prospero Farinacci, thesaurus ineludibile e sistematico di tutta la tradizione medievale in tema di consilium e mandatum a delinquere (5). Un filo rosso lega poi queste due opere ad un breve scritto di Francesco Carrara con cui si chiude il mio itinerario. E questo filo non è costituito solo, e tanto, dal tema comune — che riguarda vicende e rapporti umani quali l’incontro e la reciproca influenza di volontà distinte e l’intreccio di pulsioni, interessi e passioni — quanto dalla continuità di certe pratiche discorsive condivise nella scientia iuris e accomunate proprio dal ricorso a quel senso comune. Il filo rosso — dello sforzo di comprensione nell’acribia della distinzione, delle pratiche discorsive, del ricorso al senso comune — unisce le antiche pagine di Farinaccio, Birner, Carrara a quelle ancora più antiche, alle quali questi giuristi hanno attinto, e, in un certo senso, arriva fino ai nostri giorni, fino al nervo, ancora oggi scoperto, della cultura, e dell’esperienza, giuspenalistica europea tuttora divise tra modelli in cui le modalità che integrano il concorso sono tipizzate sul piano normativo e modelli in cui l’individuazione di tali (5) PROSPERUS FARINACIUS, Variarum Quaestionum et communium opinionum criminalium liber quartus. De consultoribus, auxiliatoribus et mandatoribus, in Praxis et Theoricae criminalis partis secundae tomus secundus quatuor titulis partitus (Venetiis, apud Iuntas, 1609), quaest. 129-135, pp. 291-399. 6 Giuseppe Speciale modalità è rimessa alla iurisprudentia (6). Questo filo rosso, di cui ci occupiamo, riesce a superare le fratture che connotano i differenti contesti normativi, culturali e politico-istituzionali dell’età medievale rispetto all’età moderna e a quella dei codici (7). 2. Complex, socius, particeps, sequax: orientarsi nel labirinto ipertestuale della scientia iuris. Proprio per la complessità e per l’inafferrabilità dei meccanismi attraverso i quali un soggetto può e deve ritenersi responsabile degli atti compiuti da un altro, sulle varie figurae di compartecipazione criminosa la scientia iuris ha fermato la sua attenzione: qui, tra i tanti glossatori, possono ricordarsi Rogerio, Azzone, Accursio e, tra i giuristi dei secoli successivi, Alberto Gandino, Bartolo, Baldo, Bartolomeo Cipolla, Paolo di Castro, Giulio Claro, Prospero Farinaccio, Tiberio Deciani, Iacopo Menochio. Le riflessioni di questi giuristi e l’impegno profuso nell’analisi e nella sistematizzazione delle varie figurae (6) Cfr. S. SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato (Milano 1987): a tale studio si rinvia — oltre che per un completo quadro dei problemi posti dal ‘tautologico’ art. 110 del codice penale italiano vigente, e delle possibili alternative alla disciplina vigente — per l’analisi storico-comparata, a partire da Napoleone, delle soluzioni, e delle tecniche, normative con cui i codici europei hanno affrontato il concorso di persone nel reato. (7) Per un esame sistematico del pensiero dei giuristi, che dal medioevo all’età dei codici si sono impegnati a sciogliere l’aggrovigliato nodo della reponsabilità dei concorrenti in un reato, rinvio ad un mio studio di prossima pubblicazione, in cui darò conto anche dei numerosi e importanti contributi della storiografia giuridica. Qui, per una comprensione delle linee di sviluppo della giuspenalistica tra medioevo ed età moderna, mi limito a ricordare uno degli ultimi, in ordine di tempo, contributi del compianto MARIO SBRICCOLI, “Lex delictum facit”. Tiberio Deciani e la criminalistica italiana nella fase cinquecentesca del penale egemonico, in Tiberio Deciani 1509-1582. Alle origini del pensiero giuridico moderno, M. Cavina cur. (Strumenti per la Storia del Friuli 2; Udine 2004) 94 e ss. Alteri ad delictum praebuit occasionem 7 testimoniano una continuità d’interesse per le forme di compartecipazione criminosa che scandisce i secoli dell’esperienza giuridica bassomedievale e della età moderna. E alle sapienti ricostruzioni di questi giuristi si presterà attenzione anche nell’età delle codificazioni. Le relazioni che legano i soggetti compartecipi, il grado del loro coinvolgimento psicologico e materiale, le modalità stesse della compartecipazione costituiscono oggetto di riflessione e, come al solito, di distinzioni. Già nel casus ‘non solum’ [Dig. 47.10.11] della Glossa ordinaria con riguardo all’iniuria si fissa il principio della responsabilità, allo stesso titolo, di chi direttamente compie l’iniuria e di chi invece abbia dato mandato, gratuito, o abbia pagato un pretium, o abbia persuaso qualcuno per porre in essere l’iniuria, «maxime si non alias eras facturus» (8). Ripetutamente poi Accursio nel suo apparato afferma il principio generale secondo il quale il consulens non è responsabile sic et simpliciter solo per il fatto di aver suggerito la commissione del reato. La responsabilità del consulens è invece subordinata al verificarsi di alcune condizioni: è necessario che il consiglio sia stato recepito; che si sia data esecuzione al consiglio e che si sia compiuto il reato consigliato; che il consiglio abbia costituito la causa della commissione del reato consigliato, cioè che il reo, (8) Casus ‘non solum’ [Dig. 47.10.11] col. 1227: «Non solum tenetur actione inuriarum qui facit iniuriam sed etiam qui dolo fecit, vel qui curavit aliquis percuteretur, seu aliqua iniuria fieret… Quarto dicit, si mandato meo est facta alicui iniuria, et ille qui fecit et ego mandans tenemur. Idem est si conduxi, id est pretium tibi dedi, ut cuidem faceres iniuriam. Idem est si filio meo mandavi ut tibi inuriam faceret, nam teneor. Idem si persuasi tibi ut faceres alicui iniuriam, et fecisti, maxime si non alias eras facturus». Le citazioni del Corpus iuris civilis sono tratte dall’edizione lionese del 1562 di Ugo e degli eredi di Aimone Porta. Un buon compendio della dottrina sul libro XLVII dei Digesta, con riferimento ai profili che qui interessano, può leggersi in ANTONIUS MATTHAEUS, De criminibus ad lib. XLVII et XLVIII Dig. commentarius (Neapoli, sumpt. Dominici Terres, 1772) I, in particolare prolegomena, cap I, pp. 1-15 e tit V, ad legem Corneliam de sicariis, pp. 377383. 8 Giuseppe Speciale per altre ragioni, non sia stato comunque sul punto di commettere il reato o determinato a commetterlo (9). E per (9) Gl. ‘non tenebitur’ [Dig. 47.10.15.10] col. 1233, per l’iniuria: «non sufficit consilium vel conatus, si delictum non habeat effectum…». Gl. ‘vel consilium’ [Dig. 47.2.52(53).19] col. 1168, per il furto: «ob solum consilium tunc tenetur quis furti cum non alias erat facturus is cui consilium datum est…». Gl. ‘non teneri furti’ [Inst. 4.1.12(14) § ope et consilio] coll. 373-374 : «…sed quae est ratio? Respondeo quia hic agitur de delicto secuto post persuasionem: non autem ex ipsa persuasione. Et ideo distinguitur, an erat alias facturus vel non; sed in aliis casibus ex ipsa persuasione agitur quicquid postea sequatur…». Gl. ‘consilii’ [Dig. 50.17.47(48)] col. 1705: «Si tibi consului ut pecuniam tuam potius in emptiones praediorum colloces quam foeneres, non teneor, ut Inst. man. § Tua gratia [Inst. 3.26.6] nisi alias facturus non eras, ut supra mand. l. Si remunerandi § si tibi [Dig. 17.1.6.4]. At P. hic distinguebat: aut mandavi ut foeneres non adiecta persona cui, et tunc non teneor, etiam si alias facturus non eras; aut mandavi persona adiecta cui, et tunc teneor, etiam si alias facturus non eras; quae distinctio reprobatur sup. de neg. ge. l. iii § fi. [Dig. 3.5.3.11] et l. iiii [Dig. 3.5.4]; haec vera cum dolo carui, alias teneor, sive alias eras facturus sive non, nisi dolus cadat in nomen maleficii, ut furti vel servi corrupti; tunc enim furti et servi corrupti experietur…». Gl. ‘condici potest’ [Dig. 50.16.53.2] col. 1644: «Puta ei qui tulit opem, potest condici; qui consilium praebuit, non ut Inst. de ob. ex deli. § Ope [Inst. 4.1.11] et supra de fur. l. Qui servo [Dig. 47.2.36] sed videtur etiam qui tulit opem non teneri conditione furtiva ut supra de condicione furtiva l. Proinde [Dig. 13.1.6] quae est contra. Sol. appellatur hic condictio s. certi generalis. Ibi condictionem furtivam negat competere vel dic dari condi. in personalem actionem scilicet furti sicut ponitur Inst. de actionibus § sic itaque [Inst. 4.6.14] ubi denegat condic. fur. vel tertio, hic quoquomodo devenit res ad eum qui tulit opem, ibi non et potes hic breviter dicere generale est ut quis de consilio non teneatur, ut supra man. l. ii § fi. [Dig. 17.1.2.6] nisi alias non erat ille factururs ut in eo. ti. l. Si remunerandi § si tibi man. in fi. § [Dig. 17.1.6.4] et hoc si non est fraudulentum tunc enim est obligatorium ut infra ti. i. l. Consilii [Dig. 50.17.47] et supra de do. l. Quod si cum scires [Dig. 4.3.8]. Sed act. fur. licet sit fraudulentum locum non habet ut in princ. huius glo. nisi alias non erat ille facturus furtum ar. supra de iniur. l. Non solum § mandato [Dig. 47.10.11.3] et supra de fur. l. Si quis uxori § neque [Dig. 47.2.52.19]. Quandoque tamen ex solo consilio tenetur quis licet ille alias erat facturus ut in consilio dato servo ut C. de fur. l. Si quis [Cod. 6.2.20] et supra de servo corr. l. i. § persuadere [Dig. 11.3.1.3]. Si autem opem et consilium simul adhibuit furto, tunc tenetur, licet ille alias erat facturus; et licet consilium non habuerit principaliter dum tamen secundario: ut et supra de fur. l. Si pign. § pen. [Dig. 47.2.55(54).4] et inst. de ob. ex delicto § Op. [Inst. 4.1.11] et supra de fur l. In furti actione § ope [Dig. 47.2.50.1] et § recte [Dig. 47.2.50.2]. Acc. ». Alteri ad delictum praebuit occasionem 9 meglio chiarire la propria posizione Accursio — che utilizza a piene mani, anche in questo caso, la tradizione della scuola dei glossatori, primo fra tutti Azzone — sottolinea che vi sono anche casi in cui la responsabilità del consulens deve affermarsi non de delicto secuto, ma per il solo fatto del consilium: in tali casi è irrilevante il verificarsi del reato per mano del consigliato ed è anche irrilevante che questi fosse già determinato a compiere il reato, o fosse già sul punto di compierlo, quando ha ricevuto il consilium. È il caso, per fare un esempio, di chi consiglia ad un servo altrui di fuggire dal proprio padrone o di commettere un furto: in tali fattispecie appare evidente che si agisce contro il consulens e gli si commina la sanzione penale ex ipsa persuasione — indipendentemente dagli effetti che il suo consilium sortisce — perché egli ha minato, insinuandovisi con il suo consilium, il rapporto tra dominus e servus. Non è senza significato che già dal tempo dei glossatori si richiamino espressamente i casi in cui si afferma la responsabilità del padre o del padrone per i reati compiuti dai figli o dai servi in esecuzione di un mandato da quelli ricevuto (10). Altrettanto espressamente si afferma anche che «non autem esset verisimile mandatum, si mandatarius sit aequalis, vel melioris conditionis, mandantis» (11). Gl. ‘furtum facturus’ [Dig. 11.3.1.3] col. 971: «… Solutio. Cum experior ex delicto quod ei suasit alius et postea propter consilium perpetratum est: adhibetur distinctio utrum delinquens erat alias facturus vel non; sed hic experior ex delicto hoc ipso quod delinquens credidit suo consilio fieri vitiosum: vel de malo peiorem. Non attento delicto postea secuto in persona, licet si patiar in rebus damnum postea propter proximum praecedens consilium per consequentiam habeatur ratio secus si ex intervallo…». (10) Casus ‘non solum’ [Dig. 47.10.11] col. 1227: «… Idem est si filio meo mandavi ut tibi iniuriam faceret, nam teneor». Per i casi della responsabilità del padre per i maleficia commessi dai figli cfr. M. BELLOMO, Problemi di diritto familiare nell’età dei comuni. Beni paterni e ‘pars filii’ (Milano 1968) pp. 105 e ss. (11) MARCUS ANTONIUS SABELLUS, Summa diversorum tractatuum (Parmae, apud haeredes Pauli Monti, 1733) t. III, p. 149 n° 22, per la ricchissima serie di auctoritates citate. Cfr. anche, dello stesso autore, ma arricchito da aggiunte del figlio GUIDO 10 Giuseppe Speciale Quest’ultima osservazione mette a fuoco una caratteristica essenziale delle figure di compartecipazione criminosa di cui vogliamo occuparci. Il dans il mandatum o il consilium si pone su un piano superiore, facendo valere nei confronti dell’accipiens tutta la sua autorevolezza di padre, padrone, mandante. Così il mandato è definito nelle fonti — come più avanti si avrà modo di vedere — come il comando dato ad un inferior da un superior che «necessitatem obsequi in se comprehendit». Il rapporto tra il dans e l’accipiens si caratterizza proprio per una sorta di soggezione del secondo rispetto al primo e per alcuni aspetti riproduce alcune dinamiche tipiche del rapporto genitoriale. L’accipiens/figlio/servo/inferior non solo esegue gli ordini del dans/padre/padrone/superior; ma, per conquistarne la benevolenza — e, si potrebbe aggiungere, gratificarsi di tale conquista —, può spingersi anche ad attuare comportamenti che non gli sono espressamente richiesti, suggeriti, ordinati, ma che egli ritiene essere graditi al superior (12). Rimane aperto il ANTONIO, Pratica universale (Parma, per gli eredi di Paolo Monti, 1733) t. VII, § Sicari, pp. 282-309. (12) Dinamiche esemplari in tal senso sono quelle tra genitori e figli indagate, tra gli altri, da Donald Woods Winnicott. Sulle relazioni e sulle dimensioni psicologiche della responsabilità cfr. lo schema di G. DE LEO, Psicologia della responsabilità (Roma — Bari 1998) 56 ss. Un interessante esempio delle dinamiche che si innescano tra mandante e mandatario è quello esemplificato nelle pagine del Milione (capp. 40-42) che MARCO POLO dettò a Rustichello da Pisa a proposito del Vecchio della montagna, Aloodin, capo della setta degli assassini, incontrato dal mercante veneziano nel 1273. «Egli avea fatto fare tra due montagne in una valle lo piú bello giardino e ‘l piú grande del mondo. Quivi avea tutti frutti (e) li piú begli palagi del mondo, tutti dipinti ad oro, a bestie, a uccelli; quivi era condotti: per tale venía acqua a per tale mèle e per tale vino; quivi era donzelli e donzelle, li piú begli del mondo, che meglio sapeano cantare e sonare e ballare. E facea lo Veglio credere a costoro che quello era lo paradiso. E perciò ‘l fece, perché Malcometto disse che chi andasse in paradiso, avrebbe di belle femine tante quanto volesse, e quivi troverebbe fiumi di latte, di vino e di mèle... e li saracini di quella contrada credeano veramente che quello fosse lo paradiso. E in questo giardino non intrava se none colui cu’ e’ volea fare assesin[o]...Lo Veglio tenea in sua corte tutti giovani di 12 anni, li quali li paressero da diventare prodi uomini. Quando lo Veglio ne facea mettere nel giardino a 4, a 10, a 20, egli gli facea dare oppio a bere, e quelli dormía Alteri ad delictum praebuit occasionem 11 problema, di non poco peso, se e in quale misura possa attribuirsi al superior la responsabilità del fatto compiuto dall’inferior, quando questi si sia mosso a compierlo non su espresso consiglio o suggerimento del superior, ma nella convinzione che al superior fosse gradito e dal superior fosse approvato. Può fare al caso nostro un esempio tratto dai nostri giorni: si pensi al manager di un gruppo industriale che, al fine di ottenere controlli fiscali favorevoli, corrompa, nell’interesse dello stesso gruppo, ufficiali di polizia, non su espresso mandato o suggerimento della proprietà o del leader del gruppo, ma nella ferma convinzione di porre in atto un comportamento che sia tale da riscuotere la piena approvazione della proprietà o del leader, convinzione fondata sulla consolidata esperienza bene 3 dí; e faceali portare nel giardino e là entro gli facea isvegliare. Quando li giovani si svegliavano e si trovavano là entro e vedeano tutte queste cose, veramente credeano essere in paradiso. E queste donzelle sempre stavano co loro in canti e in grandi solazzi; e aveano sí quello che voleano, che mai per loro volere non sarebboro partiti da quello giardino... E quando elli (il Veglio) ne vuole mandare niuno di quegli giovani ine uno luogo, li fa dare beveraggio che dormono, e fagli recare fuori del giardino in su lo suo palagio. Quando coloro si svegliono (e) truovansi quivi, molto si meravigliano, e sono molto tristi, ché si truovano fuori del paradiso. Egli se ne vanno incontanente dinanzi al Veglio, credendo che sia uno grande profeta, inginocchiandosi; e egli dimand[a] onde vegnono. Rispondono: “Del paradiso”; e contagli tutto quello che vi truovano entro e ànno grande voglia di tornarvi. E quando lo Veglio vuole fare uccidere alcuna persona, fa tòrre quello che sia lo piú vigoroso, e fagli uccidire cui egli vuole. E coloro lo fanno volontieri, per ritornare al paradiso; se scampano, ritornano a loro signore; se è preso, vuole morire, credendo ritornare al paradiso. E quando lo Veglio vuole fare uccidere neuno uomo, egli lo prende e dice: “Va’ fà cotale cosa; e questo ti fo perché ti voglio fare tornare al paradiso”. E li assesini vanno e fannolo molto volontieri...». Quando Marco Polo incontrò il Veglio, già da circa un trentennio il termine assassinus, sconosciuto al diritto romano, era assurto a piena dignità normativa, utilizzato da Innocenzo IV nel concilio di Lione del 1245 (cfr. il cap. Pro humani redemptione generis nel Liber Sextus di Bonifacio VIII, VI. 5.4.1). Sull’origine del termine assassinus cfr. anche M. PIFFERI, Generalia delictorum. Il tractatus criminalis di Tiberio Deciani e la “parte generale” di diritto penale (Per la storia del pensero giuridico moderno 66; Milano Giuffré 2006) pp. 424-438 e la letteratura ivi ricordata, alla quale qui può aggiungersi quella citata, alla voce ‘Assassini’, da C. DU CANGE, Glossarium mediae et infimae latinitatis (Paris 1883, rist. anast. Graz 1954) I, p. 428. 12 Giuseppe Speciale pregressa. La proprietà o il leader del gruppo può ritenersi in qualche misura responsabile della corruzione (13)? Al mandatum, al consilium, alla locatio, i glossatori poi equiparano anche la ratihabitio fondandosi sul principio «in maleficio ratihabitioni mandato comparari» sancito, tra l’altro, in Dig. 43.16(15).1.14. Proprio nella glossa ‘ratum habuero’ apposta a questo brano dei Digesta si trova una raffinata considerazione sui requisisti della ratifica (14). Per Angelo degli Ubaldi, anche sul fondamento di Cod. 1.1.8.31 e di altri passi, sequaces adhaerentes e complices sono termini sostanzialmente fungibili che sottolineano la condivisione del progetto e dell’esecuzione del crimine. Quanto al socius, se per alcuni complices criminis e socii criminis unum sonent, per Farinaccio, invece, il socius prende parte al maleficium per un interesse proprio, il sequax per un interesse altrui (15). Nel mandato il mandans è il principium sceleris, sia pure remotum e extrinsecum, è il princeps delicti, perché muove alla commissione del reato; il mandatarius, che liberamente esegue il reato, è solo l’instrumentum, la manus del mandans. Il mandatario però, proprio (13) Dinamiche dello stesso genere, con osservazioni come al solito interessanti e ricche di stimoli, esamina De Luca, con riferimento alla responsabilità dell’armatore per la robbaria e il delictum del magister navis: IOHANNES BAPTISTA DE LUCA, Theatrum veritatis ac iustitiae. De regalibus II (Venetiis, ex typ. Balleoniana, 1734) discur. 180, pp. 315-317. Lucidamente il giurista discrimina a seconda del tipo di attività a cui è destinata la nave. (14) Gl. ‘ratum habuero’ [Dig. 43.16(15).1.14] col. 616: «Duo videntur necessaria. Primum quod meo nomine gestum sit, alias ratum habere non possum, et si habeam non teneor… Secundum quod habeam ratum, tanquam nomine meo factum, alias secus, ut si audiens nomine meo factum, dixi, doleo, quod nomine meo est factum, nec sic ratum habeo, sed alias bene gaudeo, hoc enim gaudium non comparatur mandato: multo minus ergo teneor quando non meo nomine actum predicto modo gaudeo». (15) ANGELUS DE PERUSIO, Consilia seu responsa (Lugduni, Joannes Moylin, 1539) cons. 257, fol. 106v. Cfr. anche FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 131, pp. 324-325. Sul punto cfr. anche IOHANNES DOMINICUS RAYNALDUS, Observationes criminales, civiles et mixtae, liber primus (Venetiis, ex typ. Balleoniana, 1735) cap. II, suppl. VII, pp. 233-235. Alteri ad delictum praebuit occasionem 13 perché agisce direttamente, è reo principale; il mandante è solo accessorio perché «delictum mandantis non stat per se, prout aliud». Ma nei casi in cui il mandatario si sia limitato ad eseguire il mandato esattamente nel modo in cui gli è stato conferito dal mandante — attenendosi admussim, scrupolosamente e pedissequamente, alle istruzioni e alle modalità operative indicate dal mandante — deve considerarsi in qualche modo minus delinquens del mandante. E quest’ultimo, causa efficiens moralis, soprattutto nei casi in cui non vi sia un excessus ex parte mandatarii, deve considerarsi responsabile, e pertanto punibile, al pari del mandatario esecutore (16). Baldo non esita a tagliar corto: il mandante di un omicidio è causa dell’omicidio, ma certo non può dirsi sicario perché non ha ucciso suo ictu. Ma questo è senz’altro vero, quantum ad subtilitatem verborum; quantum ad effectum iuris, et facti, il mandante, homicida causalis, è omicida a tutti gli effetti, anzi è più di un omicida: il mandante, infatti, volendo l’omicidio e volendo che il mandatario lo compia, diviene causa causae e causa causati (17). 3. Lo scrigno della tradizione: il De consultoribus, auxiliatoribus et mandatoribus di Prospero Farinacci. Le riflessioni di glossatori e commentatori, tramandate in una miriade di opere, costituiscono il materiale che Farinaccio (16) RAYNALDUS, Observationes criminales, cit., cap. II, suppl. VI, pp. 232-233. (17) «Mandans est plusquam homicida, quia delinquit in se et in alium, in eum scilicet cuius animum mandando corrumpit… qui mandat vere et proprie facit, scilicet causaliter, et ille qui est causa causae, est causa causati, licet sit causa mediata»: BALDUS DE UBALDIS, Consilia (Lugduni 1559) V, cons. 384, fol 71r. Sul punto, con riferimento a Deciani e ad altri autori, cfr. PIFFERI, Generalia delictorum cit., pp. 424-438 (a proposito dell’assassinium) e pp. 438-451, a proposito della strategia logico-discorsiva adottata da Deciani per affermare la mutua relatio e la sostanziale unicità del delictum del mandans e del mandatarius. 14 Giuseppe Speciale utilizza per costruire le sette questioni, dalla 129 alla 135, che nella sua Praxis sono dedicate al tema del consiglio e del mandato a delinquere (18). Per la impressionante mole di citazioni dei giuristi l’opera di Farinaccio costituisce il prezioso scrigno di una tradizione scientifica che — dalla glossa al commento, dalle lecturae alle quaestiones — si è impegnata a dipanare l’intricatissimo groviglio di volontà e responsabilità che costituisce il terreno delle forme di compartecipazione criminosa del consilium e del mandatum. In questa prospettiva, il De consultoribus è, a pieno titolo, un’opera tutta medievale, per le fonti che utilizza, naturalmente, ma soprattutto per l’adozione dello schema tipico della struttura questionante nello sviluppo della trattazione. La mancanza di una struttura narrativa lineare evidente e la fittisima congerie di rinvii finirebbero per disorientare il lettore che non riuscisse a cogliere nitidamente gli argumenta che scandiscono lo sviluppo della trattazione. Tra quelli che qui interessano spiccano gli argumenta relativi alla differenza tra auxilium, consilium e mandatum e alle pene da comminare al consulens e al consulens alias facturo. Farinaccio non trascura di evidenziare le differenze tra le soluzioni dei giuristi riguardo alla pena, cioè al grado di responsabilità, che si deve attribuire al consulens che abbia dato il consilium ad delinquendum ad un soggetto che già comunque si era determinato a commettere il reato. Per alcuni al consulens non si sarebbe dovuta comminare la stessa pena prevista per il fur, se quest’ultimo avrebbe, comunque, commesso il furto di propria iniziativa (19). Per altri, invece, anche quando il consiglio sia stato dato a chi comunque avrebbe commesso il furto, al consigliere deve comminarsi la stessa pena del fur (20). Interessante è anche l’osservazione a proposito dei verba. (18) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129-135, pp. 291-399. (19) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 299. (20) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 305. Alteri ad delictum praebuit occasionem 15 Nell’espressione «se lo vuoi ammazzare, ammazzalo» Farinaccio non vede un consiglio: la costruzione della proposizione condizionale introdotta dalla congiunzione ‘se’ rimette tutto alla volontà e alla scelta del delinquens (21). In generale, per l’omicidio, secondo alcuni giuristi, devono distinguersi i casi in cui il consigliato avrebbe comunque compiuto l’omicidio dai casi in cui il consigliato, in assenza del consilium, non avrebbe compiuto il delitto: nei primi il consulente è punito solo con la poena extraordinaria (in questo caso più lieve di quella ordinaria), nei secondi è, invece, punito con la stessa pena del delinquens a cui ha prestato il consilium (22). Per altri giuristi, invece, la distinzione tra consigliati alias facturi e consigliati alias non facturi varrebbe solo nei casi di delitti circa res, mai nei delitti circa personas e nei reati atrocissimi, di lesa maestà etc. (23). In generale, poi, solo alla poena extraordinaria (misura più lieve in questo caso della poena ordinaria) è tenuto il consulens, quando il suo consiglio non abbia dato causa al delitto (24): coerentemente con la sola pena extraordinaria si sanziona il consulens di chi abbia ucciso una persona diversa da quella che gli era stato consigliato di uccidere e il consulens che abbia elargito un consiglio nudo, cioè un consiglio che non abbia aggiunto nulla, né circa il contenuto, né circa le modalità di esecuzione, al delitto (25). (21) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 296. (22) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, pp. 304-305. (23) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 305. (24) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 302. (25) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, pp. 302-303. 16 Giuseppe Speciale 4. La Disputatio de mandato delinquendi di Johannes Andreas Birner Brega Silesius. Anche Johannes Andreas Birner si misura, sul terreno delle forme di compartecipazione criminosa, con la tradizione della scienza giuridica bassomedievale e della prima età moderna: ci introduce alle riflessioni dei giuristi che nel corso dei secoli hanno formato alluvionalmente un vero e proprio ipertesto interpretativo all’interno del quale è molto facile smarrirsi. Lo stesso Birner non sempre riesce a salvarsi da questo rischio. I testi di Farinaccio, Menochio, Tiraquello, Claro segnano i percorsi logici di cui Andreas Birner si avvantaggia nella trattazione di un così complesso argomento. Quei testi si dispongono a formare una ragnatela che con i suoi fili offre infinite possibilità di movimento, ma che può anche, come sempre un ipertesto, tradursi in un labirinto in cui è difficile orientarsi e in cui spesso si è costretti a girare a vuoto prima di trovare la via d’uscita. Lo stesso Birner, che pure si avvale di una solida concezione sistematica, non sempre riesce a sfuggire a questo rischio e talvolta si impantana in farraginose ripetizioni. Complessivamente, però, egli si mostra capace di orientarsi nel labirinto ipertestuale, non si fa travolgere dalla ingombrante e autorevole tradizione e dà conto dei risultati della sua indagine utilizzando un’esposizione a struttura narrativa lineare. Sicuramente Johannes Andreas Birner non dà notizia di tutta la dottrina, sicuramente non ripercorre tutti gli itinerari aperti dalla tradizione; ma indica al lettore una sua interpretazione e spiega le sue scelte. Nella sua prima parte la disputatio, definito il mandatum nelle sue linee generali, prova a chiarire le differenze tra mandatum e consilium, per tornare poi a fermarsi su alcuni aspetti specifici del Alteri ad delictum praebuit occasionem 17 mandatum a delinquere (26). Nella seconda parte, invece, guarda al “concursus mandantis et mandatarii in specialibus delictis”, trattando specificamente alcune figure di reato: furto, rapina, lesa maestà, adulterio, omicidio etc. Ma questo saggio di ricerca si limiterà solo alla prima parte della disputatio. (26) L’indagine sul mandatum è occasione anche per distinguere, sia pure solo con un richiamo, i delicta mandata in publica e privata; ordinaria e extraordinaria; ecclesiastica, civilia e mixta; puerorum e maiorum; contro Dio, contro il principe, contro la respublica, contro il prossimo, contro se stessi. E, ancora, in nominata e innominata; capitalia e non capitalia; infamanti e non infamanti; manifesti e non manifesti. Birner indugia sulla distinzione tra delitti lievi e gravi e aggiunge che la distinzione non può sempre essere rimessa all’arbitrium iudicis, come si vuole da molti doctores. È opportuno distinguere: il crimine o è grave per sua natura, o è grave per le circostanze. È la stessa ratio naturalis che suggerisce che tanto è più atroce e grave il delitto tanto più gravemente esso lede la divina maiestas, o la stessa honestas, o la salus publica. Gli altri delitti si considerano laeviora. L’arbitrium iudicis può svolgere un ruolo determinante nella valutazione delle circostanze che rendono grave un crimine altrimenti non grave. La qualità della res aggrava il delitto di furto (es. se si ruba una res sacra, o una res publica, o i beni necessari al sostentamento di un indigente). Anche il tempo può costituire una circostanza aggravante (dies sacra); anche il luogo (se qualcuno abbia sottratto da un luogo sacro una res profana o dai bagni pubblici le vesti di coloro che prendono il bagno). Anche il modo, se si sia usata violenza. In tutti questi casi si apre molto spazio all’arbitrium iudicis: JACOBUS MENOCHIUS, De arbitrariis iudicum quaestionibus et causis, libri duo (Coloniae, apud Ioannem Gymnicum 1574) lib. II cas. 266, foll. 332r-v. Per altri doctores invece il limite tra delitti gravi e delitti lievi è costituito dalla pena che per essi è comminata, sul presupposto di una perfetta e accurata proporzione tra il delitto e la pena (MATTHAEUS, De criminibus, cit., I, prolegomena, cap. 4 n. 3, pp. 34-35). Altri si spingono fino ad un’ulteriore distinzione tra delitti gravi, atroci, atrocissimi: per i gravi la legge o lo statuto impongono semplicemente la pena della morte naturale o civile, così che tale pena è in uso perpetuo e il giudice deve solo ordinarne l’esecuzione; per gli atroci e gli atrocissimi impongono una qualche pena più grave della morte semplice (annegamento dentro il sacco, rogo, scissione delle parti del corpo, imposizione della ruota o qualche altro grave supplizio) CLARUS, Sententiarum receptarum, liber quintus (Venetiis, apud Altobellum Salicatum 1589) § Primus n. 9, fol. 2. 18 Giuseppe Speciale 4.1. Mandatum: praeceptum superioris quod necessitatem obsequii in se comprehendit. La disputatio entra subito nel vivo e presenta una prima definizione del mandatum: è il comando dato ad un inferior da un superior (per esempio un magistrato, un genitore ecc. (27)) che «necessitatem obsequi in se comprehendit» e si ha quando qualcuno (mandans o mandator) conferisce l’incarico a qualche altro (mandatarius) che accetta di fare o gestire qualcosa. Poi Andreas Birner distingue mandata privata e mandata publica: tra i primi ricorda il mandato dato dal padre ai figli o dal padrone ai servi «et in propria significatione venit vocabulo jussus»; tra i secondi quello che «a magistratu pro imperio subiectis sibi injungi solet». E, ancora, si impegna nel segnare i confini tra i mandati espressi, i taciti e i presunti, tra quelli generali e quelli speciali. Proprio a proposito del mandato generale Birner introduce per la prima volta nel suo discorso il mandatum a delinquere per ribadire, sulla scia della tradizione, che esso non è compreso nel mandato generale: infatti ove concorrano più cause, delle quali alcune lecite e altre illecite, la legge presume che il mandato sia stato dato per cause lecite. Questa prima, sintetica, parte della disputatio, in cui l’autore ha delineato a grandi linee la fisionomia del mandatum nel sistema normativo, si chiude ora con un quesito fondamentale che ha impegnato i giuristi della lunga tradizione bassomedievale: il mandatum a delinquere e il consilium delinquendi sono la stessa cosa? Andreas, fedele ad un consolidato stilus, prova ora ad utilizzare tutti gli spunti provenienti dalla tradizionale comparazione tra il mandatum (e, soprattutto, il consilium) nel diritto criminale e il mandatum (e, soprattutto, il (27) Estremamente significativo, anche per le ragioni cui già si è accennato, è il richiamo ricorrente, e consueto già dai tempi del diritto romano, alla figura del padre o del padrone in relazione al mandato rivolto al figlio o al servo. Alteri ad delictum praebuit occasionem 19 consilium) nel diritto privato per definire la species del mandatum, e del consilium, a delinquere. 4.2. Il consilium a delinquere e la fraus. Nella riflessione condotta sul mandatum e sul consilium, con lo sguardo rivolto al diritto privato e al diritto criminale, il giurista cerca una prima risposta alle domande principali che si pone: quando il dans il consilium è responsabile delle azioni poste in essere dall’accipiens? Come si modellano i rapporti tra consulente, consigliato e terzi? Esiste una responsabilità del consulente nei confronti del consigliato ed, eventualmente, dei terzi? Birner muove il suo discorso dalla regola, da tutti condivisa nel diritto civile, che dal consilium non sorga nessuna obbligazione. Chi dà il consilium sa che chi lo riceve è assolutamente libero di accettarlo o rifiutarlo, pertanto non può essere gravato da alcuna responsabilità né nei confronti del consigliato, né nei confronti dei terzi. Chi riceve il consilium, nel caso in cui decida di accettarlo e di agire conseguentemente, assume su di sé la piena responsabilità di ciò che ha scelto di fare. Ma la regola cambia se il consilium è inficiato dalla fraus del consulens. Nei confronti dell’accipiens, che abbia ricevuto un danno per averne seguito il consilium fraudulentum, il dans, infatti, è tenuto ‘ad interesse’ ed è pure tenuto a risarcire ogni lucro cessante: quanto agli effetti, quindi, il consilium fraudulentum vale come il mandatum (28). (28) Se il dans il consilium fraudulentum abbia concluso un contratto con l’accipiens e il dolo abbia inciso nel contratto allora l’accipiens potrà agire con l’azione ex contractu. Per esempio, chi, dopo avere consigliato fraudolentemente di vendere l’eredità a un prezzo minimo, l’abbia acquistata egli stesso, è tenuto ex vendito. Il 20 Giuseppe Speciale Nei casi in cui il consilium fraudulentum tenda alla perpetrazione di un delitto — per affermarsi che dal consilium nasca una obligatio e per equiparare il consilium al mandatum — deve considerarsi se l’accipiens il consilium sia o non sia partecipe del dolo o della frode. Se l’accipiens non è partecipe del dolo o della frode allora il dans dolosus è tenuto nei suoi confronti ad damnum et interesse. E ciò avviene anche in criminalibus, per esempio nel caso del medico che abbia consigliato fraudolentemente il malato e questi dopo aver seguito il consiglio sia morto. In questo caso il medico è equiparato al latro e come latro è punito: si considera, infatti, che con il suo mandato abbia dato causa al delitto. Quando, però, l’accipiens il consilium sia partecipe del dolo o della frode, il dans non è obbligato nei confronti dell’accipiens perché nessuno froda chi è consapevole e consenziente della frode: in tali casi il consigliato, in generale, è tenuto ad damnum e ad poenam. In caso di omicidio, per esempio, devono ritenersi omicidi non solo quelli che uccidono con le loro mani ma anche, anzi a maggior ragione, quelli per il cui consilium o per la cui fraus o per la cui exhortatio vengono eseguite le uccisioni. E così, nel merito, ai fini giuridici, il dans il consilium è considerato mandante e con la stessa pena è punito se l’accipiens abbia perpetrato il delitto. Anzi, il dolosus consultor, quando abbia persuaso un servo al delitto, non solo è tenuto nei confronti di colui che è stato offeso dal servo per il suo consilium, ma anche può essere convenuto in duplum con l’actio de servo corrupto dal padrone del servo che per il suo consiglio si è deprezzato. La stessa azione compete utilmente al padre, per i figli, e al marito, per la moglie. dolo che ha inciso sul contratto si purga con l’actio o l’exceptio che nasce da quello stesso contratto. Se invece il dans il consilium non abbia concluso un contratto con l’accipiens, mancando qualunque actio, si può esperire solo l’actio famosa et subsidiaria de dolo e per ciò anche in civilibus negotiis il consilium si equipara al mandato. Alteri ad delictum praebuit occasionem 21 Così Birner può concludere questa parte della disputatio affermando la sostanziale equiparazione del consilium fraudolento, come anche del non fraudolento, al mandato. 4.3. Quod quis per alium fecit, ipse fecisse intelligitur. L’oggetto dell’attenzione allora torna ad essere il mandatum: innanzitutto può escludersi che dal mandatum rei turpis nasca una obligatio. In primo luogo perché chi ha ricevuto il mandatum rei turpis, «etiamsi hoc in se receperit», non può essere obbligato ad assolverlo; poi, in civilibus, è noto che turpia e probrosa si considerano impossibilia e pertanto nulla è l’obligatio che dovrebbe nascere dal mandatum rei turpis e nullo è lo stesso mandato. Per quanto poi riguarda i rapporti tra mandante e mandatario, Birner afferma che il mandante non sia responsabile nei confronti del mandatario né dal punto di vista civilistico, né da quello penalistico. Sotto il primo profilo, considerata la nullità ab initio del pactum sceleris, il mandante non è responsabile nei confronti del mandatario anche quando gli abbia promesso un’indemnitas; non è responsabile, perché nessuno può essere punito al posto di un altro, anche quando la pena sia solo una sanzione pecuniaria: al mandatario, infatti, non spetta alcuna azione di regresso, dovendoglisi imputare il fatto che ha compiuto le res turpes. Sotto il profilo penale, invece, l’obbligazione nasce dall’avere eseguito il mandato turpe e mandante e mandatario sono puniti con la stessa pena anche se il mandante non ha commesso direttamente il reato, «ipse suo corpore damnum alteri non inferat». Infatti vige la regola «quod quis per alium fecit, ipse fecisse intelligitur»: così, per esempio, non c’è alcuna differenza, quanto al tipo di sanzione penale da comminare, tra chi abbia ucciso direttamente e in prima persona e chi invece abbia dato causa e 22 Giuseppe Speciale impulso all’uccisione compiuta da altri. Il mandante si considera omicida, se abbia ucciso per mezzo di un altro; giustamente è considerato la causa prima dell’omicidio e per primo viene punito. Anzi deve sottolinearsi che il mandante offende più persone di quante non ne offenda il mandatario e perciò pecca più gravemente. In primo luogo, infatti, egli delinque contro se stesso, in secondo luogo contro il mandatario (che «corrumpit ut occidat»), in ultimo contro l’ucciso. Il mandatario, invece, non delinque se non nei propri stessi confronti e nei confronti dell’ucciso (29). Andreas Birner, in generale, ribadisce che l’esecuzione del mandato ricevuto non può costituire in alcun modo una scusante per il mandatario, ma introduce una distinzione gravida di conseguenze sul piano della pena che deve comminarsi al mandante e al mandatario. Vi sono casi particolari in cui il mandatario, per il vincolo di particolare soggezione che lo lega al mandante, non si può esimere dall’accettare e dall’eseguire il mandato. Birner si riferisce ai casi in cui sia stato impartito un comando dal dominus, dal pater o dal magistratus; a causa dell’imperium herile, paternum e civile quel comando ha una qual certa forza cogente alla quale il mandatario non può sottrarsi. In questi casi il mandatario è stato, in qualche modo, costretto ad agire, in forza di un imperium publicum o privatum, pertanto la pena del mandatario (29) Di diverso avviso, tra gli altri, GARSIA MASTRILLO, Decisionum Consistorii Sacrae Regiae Conscientiae Regni Siciliae liber tertius (Panhormi, ex off. Typ. Francisci Ciotti, 1621) decis. 293, p. 320: «Gravius commictat mandatarius quam mandans; ille enim nullo odio, nullo rancore, nulla offensa, nullo calore iracundiae, sed solo lucro, absque aliquo naturali affectu ad homicidium patrandum movetur, quod satis horrendum et detestabili censeri debet, cum per istos incognitos naturalis defensio tollatur; non idem in mandatore, qui, etsi pessime agat, aliquam tamen causam ad sceleris exculpationem allegare potest, vel praecedentis offensae, vel naturalis impetus, et similia, quae cessant in assassiniis, in quibus tranquillitas et serenitas animi delictum associantur, et in mandantibus animi perturbatio, et naturalis vindictae appetitus continuo pugnant; optimo itaque iure tot prudentissimi viri distinctione inter mandantem et mandatarium considerarunt». Alteri ad delictum praebuit occasionem 23 deve essere mitigata rispetto a quella comminata al mandante. Addirittura, per i reati più lievi, ci si può spingere fino al perdono del mandatario. Il mandante, comunque, sia nei reati lievi che in quelli gravi, sarà sottoposto alla pena ordinaria e verrà punito come se avesse commesso egli stesso il delitto. Quando invece manchi il vincolo di particolare soggezione e il mandatario può rifiutare di eseguire ciò che gli è stato ingiunto, il mandante ed il mandatario devono essere puniti nella stessa misura: la ratio della legge qui si fonda sull’assunto che nessuno è costretto ad accettare il mandato contro la propria volontà, pertanto, se lo accetta, si assume la piena responsabilità di ciò che compie in esecuzione dello stesso. 4.4. Mandatum come causa concomitans o come causa principalis et prima integra. Birner a questo punto della sua disputatio si ferma a riflettere su un problema che i giuristi hanno risolto “communi sententia”. È necessario distinguere i casi in cui il mandatario, in assenza del mandato, non avrebbe mai commesso il reato, dai casi in cui il mandatario, anche senza mandato, avrebbe comunque compiuto il reato. Nei primi il mandato costituisce la «causa principalis et prima integra» del reato; nei secondi è solo una «causa concomitans». I giuristi avvertono l’esigenza di differenziare il trattamento del mandante e del mandatario muovendo dalla regola generale, «mandans et mandatarius pari poena puniri»: nei primi casi al mandante deve comminarsi la pena ordinaria, nei secondi la extraordinaria, di misura inferiore. Specularmente, communi sententia i giuristi avvertono che in qualche modo anche la sanzione del mandatario debba essere diversa nei casi in cui questi avrebbe comunque perpetrato il reato, indipendentemente dal mandante, rispetto ai casi in cui si 24 Giuseppe Speciale sia determinato a commettere il reato solo a causa del mandante (30). L’ordinamento (Dig. 48.8.15) vuole che mandante e mandatario siano puniti pari poena dal momento che, una volta che il mandato sia stato eseguito, il reato del mandante e quello del mandatario possono considerarsi unum delictum la cui causa prima deve individuarsi nel mandante (31). Il mandatario che ha aderito al mandatum rei turpis scientemente e dolosamente deve essere punito con la pena ordinaria: egli ha accettato di eseguire un mandatum rei turpis che non era obbligato ad assolvere e pertanto deve ritenersi obbligato alla pena prevista per gli effetti che conseguono (30) CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 89, foll. 223v-225r. Sul punto cfr., fra i tanti, BARTHOLOMAEUS CEPOLLA VERONENSIS, Consilia criminalia (Lugduni, apud Iacobum de Giunta, 1525) conss. 34-37, foll. 79r-90v. Nel cons. 34 si espone, tra gli altri, il caso di un omicidio conseguente ad un ferimento eseguito da un mandatario che ha ricevuto l’incarico dal mandante di «signare seu vulnerare sed nullo modo occidere». Bartolomeo Cipolla ritiene che il mandante, il bolognese Johannes ab Aggere, sia colpevole di omicidio e debba essere punito con la pena capitale. Di diverso parere è ANTONIO ROSELLI, il cui consilium è riportato al numero 35: il mandante è colpevole di omicidio colposo e deve essere punito con la pena dell’esilio o con un’altra pena simile scelta dal capitano della città di Vicenza. Nel cons. 36 si riporta il parere di FRANCESCO DE CAPITIBUSLISTE. Il dottore padovano conclude, come Roselli, che «Joannem ab Agere captivum non debere ad mortem condemnari quasi de maleficio doloso sed minus esse puniendum eius (del Capitano di Vicenza) arbitrio quasi pro culposo maleficio». Nel cons. 37 il parere di ANGELO DI CASTRO conclude per una pena diversa da quella capitale e per un’imputazione di omicidio non doloso. A proposito della graduazione della responsabilità in capo al mandante, in dipendenza del fattto che il mandatario si sarebbe mosso comunque alla commissione del reato commissionatogli anche in assenza del mandato, sono interessanti le osservazioni di IACOBUS MENOCHIUS, Consilia sive responsa (Venetiis, apud Haeredem Hieronymi Scoti, 1609) cons. 788, in particolare nn. 33 e 34, p. 277. (31) PROSPERUS FARINACCIUS, Consilia sive responsa (Lugduni, sumpt. Horatii Cardon, 1619) I, cons. 85 n. 76, p. 417: «nam sequuto effectu mandati, delictum mandanti set mandatarii unum et idem est… et quod sequuto delicto, mandans et mandatarius comprehendatur aequaliter sub statuto loquente de faciente delictum…». Cfr. anche TIBERIUS DECIANUS, Tractatus criminalis (Venetiis apud Joannem et Andream Zenarios Fratres 1590) II, lib. IX, cap. 39, De poenis mandantis et mandatarii, foll. 310r-311r. Alteri ad delictum praebuit occasionem 25 dall’esecuzione del mandato. Al proposito, Birner sottolinea l’importanza dell’indagine sulla volontà del mandatario: egli afferma che in tutti i delitti si deve considerare la volontà dell’agente e che senza l’animus e la voluntas di delinquere non può esserci delitto, perché la malitia di ciascun atto perverso dipende dalla volontà, che è fondamentale in ogni delitto. Ne consegue che il mandatario deve essere ascoltato se possa provare con giuramento la sua ignoranza. Proprio perchè bisogna tenere conto della volontà, e dell’intreccio delle volontà, del mandatario e del mandante, i giuristi ritengono che al mandante che abbia conferito il mandatum a delinquere al mandatario che comunque si sarebbe determinato a compiere quel delitto anche indipendentemente dal mandatum — perché, per esempio, il mandatario, prima ancora di riceverne mandato dal mandante, aveva già deciso con animo fermo di compiere il delitto, e di compierlo in nome proprio e a proprio rischio e anche per ragioni rilevanti e importanti, perché per esempio egli stesso era stato fatto oggetto di un’iniuria proprio da colui contro il quale il mandante lo aveva incaricato di commettere il delitto — debba comminarsi solo una poena extraordinaria (più lieve, in questo caso, dell’ordinaria). In tali casi il mandante, con il suo mandato, confermando il mandatario nella sua intenzione a commettere il crimine, è solo causa concomitante del delitto che è stato perpetrato, non proprio causa principale e prima integra (32). In questi casi i giuristi utilizzano la categoria del persuadente opponendola a quella del mandante: questi è colui che manda a commettere il delitto per sé; il ‘persuadente’, invece, è colui che persuade qualcuno per ragioni che riguardano lo stesso (32) LUDOVICUS MOLINA, Disputationes de contractibus (Venetiis, apud Mattheum Collosinum et Baretium Baretium 1601) disput. 550, de mandato ad res illicitas, pp. 792-794. 26 Giuseppe Speciale persuaso (33); tuttavia il ‘persuadente’ è tenuto alla stessa pena se l’altro altrimenti non si sarebbe determinato a commettere il delitto. 4.5. Eccezioni alla regola: Quod aliquis facere potest, idem et alteri mandare. Birner è risoluto nell’affermare che il principio «quod aliquis facere potest, idem et alteri mandare» non possa estendersi ai reati propri, ai casi, cioè, in cui il facere consista in un privilegio o in un ius di carattere personale, come l’ius vindictae, che l’ordinamento giuridico accorda ad un determinato soggetto contra ius commune. Così, per esempio, il padre che abbia scoperto la figlia con l’adultero non può conferire ad altri il mandato di ucciderli, perché gli è preclusa la possibilità di demandare ad altri l’esercizio di una facoltà che l’ordinamento, in deroga alle regole di diritto comune, gli accorda, quando egli non voglia o non possa farla valere direttamente: «quicquid enim competit, contra ius commune, illud cessibile non est» (34). (33) ALEXANDER TARTAGNUS, Consilia seu responsa IV (Venetiis, apud haeredes Alexandri Paganini, 1610) cons. 127, fol. 105v: «ponendo differentiam inter mandantem et persuadentem, quod mandator dicitur ille qui mandat delictum committi per se ipsum, propter satisfactionem suae voluntatis, nulla data pecunia. Et persuasor dicitur ille qui persuadet alicui propter ipsum cum sit persuasio, et non curo quibus verbis utatur, sive mando, sive rogo, sive quibuscunque verbis, si hoc fiat gratia eius cui sit mandatum sive persuasio facta...». (34) Birner a sostegno della sua tesi richiama Tiraquello, Rolando da Valle e Baldo, di cui in particolare ricorda il consilium 384 in cui il giurista, distinguendo l’applicazione della norma ex interpretatione vocabuli da quella ex significatione vocabuli, sviscera il problema se ciò che è lecito fare sia lecito mandare; se chi non può essere obbligato in via principale non possa neppure esserlo in via secondaria; se è lecito uccidere un bannitus sia anche lecito conferire il mandato ad uccidere (BALDUS DE UBALDIS, Consilia, cit., cons. 384, fol 71r). Alteri ad delictum praebuit occasionem 27 4.6. Non poterit amplius delicti causa dici mandans qui mandatum revocavit. L’indagine sulla revoca del mandato costituisce un punto cruciale per la comprensione dei meccanismi che agiscono nelle relazioni tra il mandante che affida l’incarico e il soggetto che il mandante sceglie come destinatario di tale affidamento. Ancora una volta, è altrettanto importante, per la comprensione delle relazioni tra consulente e consigliato, la riflessione sul ritiro del consiglio. Quando il mandato o il consiglio si riferiscono a comportamenti che in assenza del mandato o del consiglio il destinatario degli stessi non avrebbe mai attuato, il conferimento del mandato, o l’elargizione del consiglio, provocano nel destinatario, prima ancora che egli decida se accettare il mandato o seguire il consiglio, un effetto irrevocabile. Per il solo fatto di proporre il mandatum, o di esporre il consilium, il mandans/consulens/superior disegna e apre una nuova possibilità di comportamento e instilla nella mente del mandatarius/consultor/inferior una opzione di comportamento che prima non era da questi presa in considerazione. La revoca del mandato, o il ritiro del consiglio, non può restaurare lo status quo ante. Sia pure non esplicitando queste riflessioni, Birner ne sembra ben consapevole quando precisa che nei confronti del mandante che abbia revocato il mandato comunque potrà applicarsi la pena extraordinaria (35) — almeno nel caso di reato atrocius — perché «alteri ad delictum praebuit occasionem». E mostra altrettanta consapevolezza quando indugia sul rifiuto esplicito del mandato. Il soggetto a cui è proposto il (35) MENOCHIUS, De arbitrariis iudicum, cit., lib. II cas. 352, n. 8, fol. 400r. 28 Giuseppe Speciale mandato non è tenuto ad accettarlo immediatamente e può darvi esecuzione anche a distanza di tempo dall’accettazione. Ma se ha espressamente rifiutato il mandato non potrà — una volta cambiata intenzione — darvi esecuzione se prima non avrà comunicato al mandante l’accettazione e non ne avrà rilevato il consenso. Solo a queste condizioni il mandatario potrà essere certo che dopo il suo diniego il mandante non ha cambiato idea. E solo a queste condizioni le azioni del mandatario potranno attribuirsi all’esecuzione del mandato. Altrimenti il mandante non potrà ritenersi responsabile per il fatto di un altro che, dopo aver esplicitamente rifiutato di accettare il mandato, avrà posto in essere il reato oggetto del mandato rifiutato. E dovrà ritenersi che questi abbia agito non in esecuzione del mandato, bensì motu proprio (36). Ma proprio perché, comunque, il mandante «alteri ad delictum praebuit occasionem» in tutti questi casi sarà punito con la poena extraordinaria. Il mandato — anche quello che sia rivolto all’attuazione di comportamenti che in assenza del mandato il mandatario non avrebbe posto in essere —, prima della sua esecuzione, non fa insorgere alcuna responsabilità in capo al mandante, se non quella relativa al “malum consilium” che deve punirsi con la poena extraordinaria. Al mandante, che abbia revocato il mandato prima che il delitto sia stato commesso, deve essere mitigata la pena (37). Egli non potrà considerarsi causa prima et movens del delitto dal momento che il suo pentimento, il suo tirarsi indietro, quando ancora non sia stato commesso il reato, lo può esonerare da ogni responsabilità. Perché ciò avvenga è necessario che la revoca sia “intimata” al mandatario, perché (36) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 135, p. 387 e ss. (37) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 135, p. 398. Cfr. anche MENOCHIUS, De arbitrariis iudicum, cit., lib. II cas. 352, foll. 399r-400v. Alteri ad delictum praebuit occasionem 29 questi possa conoscerla e perché non possa — dandovi esecuzione dopo la revoca — addurre di avere agito in ossequio al mandato ricevuto (38). Ma, almeno nel diritto canonico, anche la revoca di cui il mandatario sia rimasto all’oscuro può essere causa di un alleggerimento della responsabilità del mandante: infatti, il mandante — che abbia dato mandato di percuotere un clericus e lo abbia revocato prima che il mandatario, ignaro della sopravvenuta revoca, abbia eseguito il mandato — non incorre nella excommunicatio, per quanto riguarda il foro interno. Tuttavia, se l’esecuzione del mandato causa la morte del clericus, il mandante incorrerà nella poena irregularitatis (39). 4.7. Si mandatarius fines egrediatur. Il mandante è responsabile per quanto il mandatario pone in essere in esecuzione del mandato. Quando questi, però, superi i limiti del mandato conferitogli — per esempio perpetrando un reato più grave di quello che gli era stato commissionato, oppure non rispettando le modalità di esecuzione indicategli dal mandante — deve valutarsi se il mandante debba ritenersi responsabile solo nella misura individuata dal giudice e corrispondente al reato per cui aveva conferito il mandato o a quanto aveva fatto per costituire un’occasione di reato, considerate tutte le circostanze del caso (40). (38) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 135, p. 398. (39) Cfr. IOHANNES VALERUS, Differentiae inter utrumque forum iudiciale videlicet et conscientiae (Venetiis, apud Paulum Baleonium, 1645) v. Mandatum, pp. 240-242. (40) A lungo, come si vedrà più avanti, la scientia iuris dibatterà intorno all’eccesso del mandato: si considera il caso del mandatario che, ricevuto un mandato a percuotere qualcuno con un bastone (mandato dalla cui esecuzione, almeno nelle intenzioni del mandante, non dovrebbe conseguire la morte del percosso), trascurando i limiti del mandato, abbia trafitto con la spada il soggetto e 30 Giuseppe Speciale 4.8. Verba inferunt desiderium tale delictum patrandi. «Nos per compendium asserimus toties mandatum delinquendi adesse quoties verba inferunt desiderium tale delictum patrandi». Con questa formula ampia e quasi vaga, estremamente significativa proprio per il suo generico richiamo al desiderium patrandi delictum, Birner chiude il difficile e tormentato discorso sulle qualità che devono caratterizzare i verba perché essi possano provare il conferimento del mandato. Che il mandatum e il consilium a delinquere debbano essere provati, sia pure solo con delle congetture, non è infatti in discussione. Ma si dibatte se siano sufficienti a provare il conferimento del mandato o l’elargizione del consiglio i verba admonitoria, exhortatoria, persuasiva, imperativa, precativa. Per Farinaccio, che si occupa prolixe del tema, con i verba hortatoria et admonitoria non può provarsi l’esistenza del mandatum, ma solo di un consilium (41): ma per Birner l’obiezione può respingersi perché egli è convinto che, riguardo agli aspetti relativi alla prova, non debba farsi differenza tra mandatum e consilium. Birner non concorda con Farinaccio neppure su un altro punto che riguarda la prova. L’autore della disputatio ritiene che il mandato conferito dal padre al figlio debba essere pienamente provato e non può essere solo presunto sulla base del vincolo di sangue che lega il presunto mandante al presunto mandatario. Farinaccio, al contrario, da un lato enuncia il suo rifiuto della prova ottenuta tramite presunzione, in adesione ad un principio lo abbia ucciso; oppure il caso del mandatario che, ricevuto il mandato di percuotere qualcuno in un luogo profano, lo abbia invece percosso in un luogo sacro o in un ufficio pubblico, o, addirittura, al cospetto del principe. Cfr, fra i tanti, FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 135 § IV, pp. 394-397; MOLINA, Disputationes de contractibus, cit., disput. 550, de mandato ad res illicitas, pp. 792-794.. (41) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 134, pp. 360-364, in particolare p. 362. Alteri ad delictum praebuit occasionem 31 consolidato che esclude il ricorso alle presunzioni in criminalibus, ma poi finisce per mostrarsi possibilista asserendo che contro il padre o il dominus in qualche modo può accettarsi una presunzione, perciò il padre non può essere condannato se non, forse, al iuramentum purgationis, a meno che il figlio o il servo abbiano perpetrato il delitto in presenza del padre o del dominus (42). Per quanto, poi, riguarda il rapporto tra mandante e mandatario si afferma costantemente, da Baldo in poi, che il mandatario che accetta il mandato è un vero e proprio socius criminis, che può deporre in giudizio contro il mandante, sia pure solo quoad ad inquirendum, e che, comunque, non facit inditium ad torturam; il mandatario che rifiuta il mandato, invece, facit inditium ad torturam (43). 5. La fucina della prassi. Nella costruzione delle figurae della compartecipazione criminosa i giuristi traggono costante alimento dagli spunti e dagli stimoli che vengono loro dai casi concreti che i giudici sono chiamati a decidere. Anche in materia di compartecipazione criminosa la fantasia della realtà supera di gran lunga la capacità predittiva e analitica dei giuristi: dai casi concreti, a cui pure i giuristi hanno pensato nel momento in cui hanno costruito e razionalizzato regole giuridiche tese a disciplinare il concorso, sorgono sempre nuovi aspetti e questioni che finiscono per imporre agli interpreti una costante opera di adeguamento, verifica e affinamento delle teorie elaborate. Nella (42) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 134, pp. 369-374, in particolare p. 370, 371 e 372. (43) Fra i tanti, cfr. ROBERTUS MARANTA, Consilia sive responsa (Venetiis, Andreas de Pellegrinis Bibliop. Partenop. I.c., 1591) cons. 121, foll. 150r-v. 32 Giuseppe Speciale faticosa costruzione di questo patrimonio di sapienza giuridica, di elaborazione di regole e di sensibile percezione dei fatti, sarebbe inutile e fuorviante ricercare la prevalenza dell’aspetto teorico o pratico; è, invece, fondamentale cogliere il reciproco e costante intreccio tra la percezione dei fatti e la capacità di analisi e di riconduzione degli stessi a principi e pratiche quanto più possibile generali, intreccio che costituisce uno dei momenti cruciali in cui il giurista, intellettuale votato alla prassi, misura l’adeguatezza del suo statuto epistemologico. Il fecondo inestricabile e indistinguibile intreccio tra le emergenze dei fatti e la riflessione dei giuristi si legge nelle opere dei cosiddetti pratici, un affascinante labirinto ipertestuale all’interno del quale il giurista deve orientarsi. Così, le prassi e le strategie discorsive con cui i giuristi maneggiano la materia della compartecipazione criminosa presentano una continuità che supera le distinzioni tra i riti dei vari tribunali, le regolamentazioni normative degli ordinamenti, i contesti istituzionali e politici. La prova del mandato è sempre al centro della riflessione dei giuristi. Nel caso di mandato ad uccidere, Mascardi ritiene che la prova del conferimento debba raggiungersi avendo riguardo alle parole con cui il mandante si è rivolto al mandatario. Le parole assumono un ruolo centrale, dato che nel caso in ispecie si tratta di un «homicidium verbo commissum, quod totum consistit in mandato». Non importa se i verba siano imperativa, “occide, percute, vade fac ut occidas”, o rogativa, “rogo ut occidas, vindictam pro me facias, vellem, optarem, occideres”, il mandatum può conferirsi, e provarsi, «quaecumque verba interveniant». Certo, non è sufficiente un’ammonizione, o un’esortazione, o una raccomandazione, e neppure basta lodare chi si accinga a commettere l’omicidio, deve pertanto concludersi che l’uso di verba admonitoria, commendatoria, persuasoria non sia idoneo a conferire, e a provare, il mandato. Il giudice Alteri ad delictum praebuit occasionem 33 deve indagare «ex serie et qualitate verborum» (44). Scrive Cesare Panimolle a proposito di un mandato conferito da un ecclesiastico per vendicarsi di un’offesa subita: «Et ad illud inducendum sufficiunt coniecturae et verba tacita importantia mandatum, et mandantis desiderium faciendi vindictam, etiam si expressa non fuerint» (45). Per Savelli nel mandatum ad delictum, «et precipue ad homicidium committendum», è necessario provare che concorrano tre elementi: l’inimicizia tra il mandante e colui contro il quale si dà mandato di uccidere, la “secreta alloquutio” tra il mandante e il mandatario, la contiguità temporale tra il conciliabolo segreto e l’esecuzione del mandato (46). In assenza anche di uno solo di questi elementi il mandato non può presumersi, anche quando il mandatario sia un figlio, o un servo o un parente, del mandante. Altri presumono la qualità di mandante in chi, ad omicidio avvenuto, offra ospitalità all’omicida. Per Savelli la compresenza dei tre elementi è condizione necessaria per la prova del mandato: anzi, il mandato, che «per se consideratum sit de illis delictis de quibus non remanent vestigia», nei confronti del mandante può provarsi con congetture e presunzioni, ma nei confronti del mandatario che vi ha dato esecuzione deve provarsi “per evidentiam facti”. Tuttavia, oltre che attraverso la contemporanea presenza di questi tre requisiti il mandatum può (44) IOSEPH MASCARDUS, Conclusiones probationum (Venetiis, apud Damianum Zenarium, 1584) II, concl. 866, foll. 216r-217r e concl. 1012, foll. 349r-v. Il mandato può essere conferito anche «per verba non audita, ut si quis summisse fuerit alloquutus famulum ad aurem post illatam sibi iniuriam, et postea famulus statim interfecerit eius inimicum». (45) CAESAR PANIMOLLE, Decisiones civiles, morales et criminales, pars secunda (Venetiis, apud Paolum Balleonium, 1708) decis. 148, p. 405. (46) SABELLUS, Summa diversorum tractatuum, cit., t. III, § Mandatum, pp. 142155: un vero e proprio repertorio di tutto quanto può essere utile al pratico e allo studioso del mandato civile, ricchissimo di citazioni, affronta il discorso sul mandatum ad delictum, riferendo una serie di auctoritates secondo le quali il mandatum deve essere provato, sia pure solo con delle presunzioni. 34 Giuseppe Speciale provarsi «ex aliis indiciis et praesumptionibus desumptis ex personis, ex causis, ex moribus, ex minis, ex animositate, ex familiaritate, ex conversatione, ex fama publica incontinenti orta, et huiusmodi, quia licet non omnia dicta tria requisita interveniant, sufficit, ut alia similia, et aequipollentia concurrant». In alcuni casi, poi, quando il delitto abbia arrecato una utilitas, una satisfactio, al padrone o ad un familiare del reo, ci si è spinti a presumere che il delitto sia stato eseguito su mandato del padrone o del familiare (47). Di qualche interesse per la prova del mandato è un altro caso ricordato da Savelli. Giustiniano viene ucciso con l’archibuso da Severo: accanto al suo corpo si trova anche il suo archibuso carico e pronto a sparare. Si accerta che Gentile, una communis amasia, era stata offesa da Severo, uno dei suoi amanti. Subito dopo ella si era rivolta a Giustiniano, un altro dei suoi amanti, rivale di Severo al punto da avere avuto da poco con lui una rixa, e in un colloquio appartato gli aveva chiesto di vendicare l’offesa ricevuta da Severo. Naturalmente in questo caso la prova del conferimento del mandato ha un’importanza relativa: servirebbe, qualora si raggiungesse, ad affermare una qualche responsabilità in capo alla mandante e a sancire che in qualche modo Severo era stato provocato. Inoltre, in questo caso forse sarebbe più opportuno parlare di persuasio che di mandato: infatti la precedente e forte inimicitia tra Severo e Giustiniano, provata anche dalla rissa, è una causa che da sola può spiegare quanto accaduto; la richiesta di Gentile costituirebbe una concausa e avrebbe confermato in Giustiniano la volontà di agire. Ma ascoltiamo Savelli: «Quamvis igitur aliquae mulierculae asserant supradictam Gentilem fuisse iniuratam a Severo, et postea ipsam colloquium habuisse cum dicto quondam domino Justiniano occiso, constat etiam de rixa 22. (47) SABELLUS, Summa diversorum tractatuum, cit., t. III, § Mandatum, 148-149 n. Alteri ad delictum praebuit occasionem 35 praecedenti inter ipsos principales, quae tollit suspicionem mandati et cessat principale requisitum ut possit mandans puniri nempe mandatarius, cum enim non appareat dominus Justinianus, cui praetendebatur mandatum dedisse, aliquid mali perpetrasse, non potest ipsa tamquam mandans vel consulens in aliquo puniri, quasi isto casu cesset corpus delicti». E neppure la successione tra l’offesa ricevuta, il colloquio riservato e l’intrapresa esecuzione del preteso mandato viene considerata in questo caso sufficiente prova del mandato stesso (48). Sempre in tema di prova del mandato Menochio muove dalla presunzione generale secondo la quale «nemo delinquere praesumatur, ut etiam alicuius servus delictum commiserit, non praesumatur tamen commisisse voluntatem domini»; estende poi tale presunzione all’uomo libero, rispetto al patrono, e al figlio, nei confronti del padre. E aggiunge che se pure vi sia stato un colloquio tra servo e padrone o tra figlio e padre, può presumersi che il padrone o il padre abbiano prestato il loro consiglio, piuttosto che conferito il mandato a delinquere (49). Il consenso del padre o del padrone, invece, può legittimamente presumersi nei casi in cui costoro, consultati dal figlio o dal servo, non abbiano impedito, pur potendo, la commissione del reato, o abbiano taciuto, o, addirittura, annuito. Può ben presumersi il conferimento del mandato e che, pertanto, il reato sia stato commesso per conto del padre, o del padrone, quando questi abbia detto al figlio, o al servo: «Fac ut aliquid novi audiam» oppure gli abbia solo sussurrato qualcosa all’orecchio (50). Così pure deve presumersi che i servi abbiano (48) MARCUS ANTONIUS SABELLUS, Variae iuris resolutiones (Parmae, apud haeredes Pauli Monti, 1733) t. VI, resol. 64, pp. 120-121. (49) IACOBUS MENOCHIUS, De praesumptionibus, coniecturis, signis et indiciis commentariorum pars prima (Venetiis, apud haeredes Francisci Ziletti, 1590) praesumpt. 27, foll. 32v-34r. (50) MENOCHIUS, De praesumptionibus, cit., praesumpt. 27, foll. 33v: «Praesumitur id factum ex voluntate et consensu domini: ut puta si dominus dixit servo “Fac ut aliquid novi audiam”; et deinde inimicus ipsius domini reperitur 36 Giuseppe Speciale agito per volontà del padrone quando essi siano “homines improbi, vilis conditionis, et nequam”, oppure quando, servi di un giudice, abbiano minacciato chi voglia proporre appello contro la sentenza emessa dal loro padrone, oppure quando, servi di un magistrato o di altri ufficiali, abbiano agito nell’ambito delle funzioni proprie dell’ufficio del loro padrone. Menochio afferma infine che quando i rei sono ispirati dal consilium di altri deve presumersi che «nisi datum fuisset consilium illud, delictum non perpetrassent». Ma può provarsi pure, sempre ricorrendo alle presunzioni e alle congetture, che anche in assenza del consilium gli agenti avrebbero compiuto il reato. La presunzione diventa un duttilissimo strumento di prova nelle mani del giurista: se si prova che A abbia dato incarico a B di uccidere C e si prova che C sia stato ucciso da B, può ben presumersi che B abbia ucciso C in esecuzione del mandato ricevuto da A, anche nei casi in cui l’omicidio sia avvenuto ex intervallo (51). Oppure se si individua con certezza l’uccisore di un uomo e non si riesce a scoprire il movente del delitto deve presumersi che l’agente abbia agito su mandato (52). Con attenzione sempre viva i giuristi valutano se sia opportuno graduare il livello di responsabilità del mandante e del consulente in modo proporzionale al peso del mandato e del occisus… vel si dominus ad aureus famuli secreto aliquid dixit et deinde statim inimicus ipsius domini reperitur occisus». Dello stesso avviso, tra i tanti, IOSEPH MASCARDUS, Conclusiones probationum, cit., II, concl. 866, foll. 216r-217r. (51) MENOCHIUS, De praesumptionibus, coniecturis, signis et indiciis commentariorum pars prima (Venetiis, ex off. Francisci de Franciscis Senensis, 1587) praesumpt. 49, foll. 163r-164v. Dello stesso avviso IOSEPH MASCARDUS, Conclusiones probationum, cit., II, concl. 618, foll. 24v: «Si quis mandaverit Seium interfici, praesumitur interfector id fecisse occasione praecedentis mandati, etiam si post longum intervallum mandatarius Seium occiderit». (52) LAURENTIUS MATTHAEUS ET SANZ, Tractatus de re criminali sive controversiarum (Venetiis, ex typ. Balleoniana, 1723) controv. XV, p. 71: «Quando percussor certus est, et ratio delinquendi non apparet, praesumi debet intuitu alterius per assassinium deliquisse». Alteri ad delictum praebuit occasionem 37 consiglio nella commissione del reato: così, alcuni ritengono che al mandante e al consulente debba attribuirsi il massimo grado di responsabilità per il reato compiuto dal mandatario o dal consigliato, quando questi, in assenza del mandato o del consiglio, non si sarebbero mossi alla commissione del reato e, al contrario, che al mandante e al consulente debba attribuirsi un grado più attenuato di responsabilità quando il mandatario o il consulente avrebbero comunque, anche in assenza del mandato o del consiglio, commesso il reato. Per Claro chi elargisce il consilium ad delinquendum è punibile con la stessa pena del delinquens se il consilium ha determinato all’azione il delinquente che altrimenti non si sarebbe risolto a compiere il reato. Nel caso in cui, invece, il consigliato avrebbe comunque compiuto il reato, il consulens deve essere punito con una pena più mite. Lo stesso discorso vale per il persuasor e per l’exhorator (53). Ma distinguere tra il consulens e il persuasor, secondo Farinaccio, è sine iure, sine authoritate, sine ratione (54). Ma lo stesso Claro, però, distingue tra consulente e mandante. Infatti, al consulente che abbia suggerito la commissione di un reato che il consigliato avrebbe comunque posto in essere, il criminalista attribuisce un grado di responsabilità più mite, grado più mite che non ritiene di attribuire al mandante che abbia conferito un mandato ad un soggetto che comunque avrebbe compiuto il reato per il quale ha ricevuto il mandato (55). Per il mandato vale la regola che il (53) CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 88, foll. 223r-v. A Claro, poi, si deve una efficacissima descrizione della compartecipazione criminosa: «Saepissime nam contingit quod in eodem crimine multi interveniunt, qui tamen omnes diversis poenis sunt puniendi. Potest autem quis imputari, aut quod delictum ipsum propriis manibus commiserit, aut quod sciens, ac particeps fuerit, aut quod de delicto faciendo tractaverit, aut consilium seu mandatum dederit, aut auxilium praestiterit, aut illud postea ratum habuerit»: Iulius CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 87, fol. 221v (54) FARINACIUS, Variarum Quaestionum, cit., quaest. 129, p. 296. (55) CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 89, foll. 223v-225r. 38 Giuseppe Speciale mandante viene punito con la stessa pena del mandatario che commette direttamente il reato. Claro insieme a gran parte della dottrina (primo, fra tutti Bartolo) ritiene che quando il mandatum riguarda un reato non debba distinguersi, ai fini della pena da comminare al mandante, tra il caso in cui il mandato determina il mandatario alla commissione del reato e il caso in cui, comunque, il mandatario avrebbe commesso il reato per il quale il mandato gli è stato conferito. Per quanto riguarda il cosiddetto eccesso di mandato, poi, Claro ritiene che debbano valutarsi le modalità secondo le quali il mandato è conferito. Se il mandatario ha ucciso quando il mandante gli aveva detto di bastonare, o sfregiare, o di dare uno gnoccum, allora il mandante non deve essere punito per omicidio, perché il mandato era stato conferito per realizzare un comportamento che non avrebbe dovuto portare alla morte del soggetto passivo del reato secondo l’id quod plerumque accidit. Se invece il mandato era ad vulnerandum e ne è conseguita la morte, il mandante deve essere punito con la stessa pena che si commina al mandatario perché i vulnera non si danno “ad mensuram” ed è noto che con facilità possono risultare mortali (56). Per quanto riguarda i verba, ancora una volta sulla scia di Bartolo, Claro ritiene che si possa presumere il mandato ad uccidere conferito dal dominus ai suoi famuli quando il dominus, dopo aver subito un’iniuria, abbia rivolto ai suoi famuli la solita frase «vade et non revertatis domum donec sentio novum de tali» e dopo l’autore dell’iniuria sia stato trovato morto. Tuttavia Claro aggiunge che non si sentirebbe, ex eo solo, di comminare la poena mortis al dominus se (56) ANDREAS FACHINEUS, Controversiarum Iuris tomus primus (Venetiis, apud Modestum Iuntam de Modestis, 1620) lib. I, cap. 36, coll. 49-50 aggiunge che il mandante, che abbia espressamente proibito di uccidere quando ha conferito il mandato ad vulnerandum, non può essere condannato con la stessa pena del mandatario omicida qualora dal vulnus sia conseguita la morte. È vero che comunque il mandante ha dato occasione alla morte, ma indirecte, ex culpa, non dolo malo. Alteri ad delictum praebuit occasionem 39 non prima di avere accertato alcune cirscostanze: che il dominus era solito facere talia, che l’iniuria sia di una tale gravità da rendere plausibile che l’offeso la volesse vendicare con la morte. E, comunque, Claro preferirebbe torquere dominum e applicare una poena extraordinaria più lieve anziché la pena di morte. «Cum mandatum de per se sit delictum», può essere perseguito non solo nel luogo in cui sia stato consumato il reato per il quale è stato conferito, ma anche nel luogo in cui il mandatum sia stato dato o accettato. A tale proposito Savelli ricorda un caso deciso dagli otto di Balia fiorentini nel 1666 e manifesta qualche perplessità per il contenuto della decisione: due forestieri — Giovanni, modenese, e Francesco, bolognese —, concordano di uccidere un lucchese, bannitus dallo stato di Lucca, che vive a Firenze. Per assicurarsi l’impunità i due pianificano — «illum seducendo et conducendo in statu Lucensi» — ed eseguono l’omicidio in territorio lucchese. La magistratura fiorentina, solo «ratione dicti tractatus» condannò Francesco, contumace, alla forca e alla confisca dei beni, e Giovanni, carcerato, ai triremi a vita (57). In tema di competenza devono tenersi presente anche Merlino Pignatelli — che ricorda un caso analogo in cui si afferma la competenza della magistratura del luogo in cui fu conferito il mandato, ma aggiunge che non per il solo mandato possono perseguirsi mandante e mandatario, ma perché al mandato è stata data una qualche esecuzione (58) — e Claro — per il quale il mandante deve essere perseguito e punito dal giudice del luogo in cui è stato eseguito il delitto e non dal giudice in cui è stato conferito il mandato, dato che la responsabilità del mandante non nasce dal mandato, bensì dal delitto compiuto in (57) SABELLUS, Summa diversorum tractatuum, cit., t. III, § Mandatum, 152 n. 22. (58) FRANCISCUS MERLINUS PIGNATELLUS, Controversiarum forensium iuris communis et regni Neapolitani centuria prima (Neapoli, ex regia Typ. Aegidii Longi, 1634) cap. 80, pp. 362-364. 40 Giuseppe Speciale esecuzione del mandato. Analogo ragionamento induce Claro ad affermare che il ratificante il delitto deve essere perseguito e punito dal giudice del luogo in cui è stato commesso il delitto (59). Per Baiardo, invece, il giudice competente può essere quello del luogo in cui è stato conferito il mandato o quello del luogo in cui è stato eseguito (60). A proposito delle dinamiche relazionali tra mandante e mandatario possono qui ricordarsi alcuni casi. Il primo — in cui si dimostra l’assoluta rilevanza del vincolo di consanguineità che lega l’esecutore del reato al terzo che, senza spingersi fino a darne mandato, abbia comunque manifestato il suo incoraggiamento alla commissione del reato — è oggetto di una decisione raccolta da Francesco Merlino Pignatelli (61): nel processo si prova che Salvatore, padre di Orazio de Canovettis, aveva incoraggiato il figlio — pronunciando più volte frasi come «Amazza! Amazza! Dagli! Dagli!» — a vendicare l’offesa inferta da Bartolomeo Martini a Bernardino, un membro della famiglia de Canovettis. Nel caso in esame — simile per qualche aspetto al caso della serva e dell’oste — il padre viene punito con una poena mitior. Seguendo il principio «ignoscendum esse illi qui voluit se ulcisci provocatus» si considera legittimo, o quanto meno scusabile, il comportamento posto in essere da chi reagisce ad un’offesa subita. Poi, considerato che «iniuria facta consanguineo etiam alios afficit, et ad defensionem provocat», si considera provocatus, e perciò in qualche modo scusato, anche il parente dell’offeso (62). Può anche rilevarsi un altro elemento (59) CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 38, fol. 129r. (60) IOHANNES BAPTISTA BAIARDUS, Additiones et annotationes ad Iulii Clari Receptarum sententiarum libros V (Francoforti, ex off. typ. Nicolai Baffaei, 1598) quaest. 38, pp. 184-190. Baiardo adotta lo stesso criterio anche per la ratihabitio. (61) FRANCISCUS MERLINUS PIGNATELLUS, Decisiones almae Rotae Lucensis (Venetiis, apud haeredem Damiani Zenari, 1616) decis. 32, p. 44. (62) Ma per CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 86, foll. 220v-221v, la regola della non punibilità del padre o del padrone per i reati commessi dai figli o Alteri ad delictum praebuit occasionem 41 comune tra il caso de Canovettis e quello della serva e dell’oste. Mi riferisco all’intervallo di tempo occorso tra l’offesa subita da Bernardino e dalla serva e la reazione da loro posta in essere: può ritenersi che la reazione avvenne incontinenti oppure aliquo temporis intervallo? Da tale valutazione dipende la qualifica della reazione come defensio, legittima e scusabile, o come vindicta, inammissibile e da punire. A margine può qui ricordarsi che Merlino cita Cefalo e Menochio, contra Farinacci, secondo i quali può considerarsi facta incontinenti anche la reazione di chi, subita l’offesa, prima di reagire contro l’offensore, si rechi a casa per armarsi o per radunare gli amici (63). Un caso interessante di eccesso del mandatario nell’esecuzione del mandato è ricordato da De Marinis. Un nobile, reo confesso di aver dato mandato ad un suo familiare «ad vulnerandum certam personam», è ritenuto responsabile della morte di quella, sopravvenuta dopo cinquantaquattro giorni dal ferimento, e, pertanto, è condannato a morte dalla Magna curia. Il Sacro regio consiglio, «potius ex aequitate quam de iure», commuta la pena di morte in quella della deportazione. Sia pure decidendo in senso favorevole all’accusato, i giudici non condividono la linea difensiva che, anche con perizie mediche, sostiene che la morte sia avvenuta «ex mala curatione et ex defectu boni regiminis». Inoltre gli avvocati del nobile rafforzano le loro tesi difensive sulla base di questo ragionamento: se il mandato fosse stato conferito ad occidendum e la morte fosse sopravvenuta non ex vulnere, sed ex alio accidenti, il mandans o il vulnerans non sarebbero stati ritenuti responsabili dell’uccisione. Ma i giudici ribattono che il tempo intercorso tra dai servi viene meno quando tali reati siano stati commessi occasione patris vel domini et eo sciente, in tali casi infatti si presumono essere de eorum voluntate. (63) Sulla necessità che la reazione avvenga incontinenti insistono anche altri giuristi: qui, tra i tanti, possiamo ricordare CAESAR PANIMOLLE, Decisiones civiles, cit., decis. 148, p. 405: è la decisio già richiamata a proposito delle modalità e dei verba che si utilizzano per conferire il mandato. 42 Giuseppe Speciale il ferimento e la morte, da solo, non è sufficiente a provare che la morte non dipenda dal vulnus. E che, se una causa diversa della morte non è altrimenti provata, l’intervallo tra il ferimento e la morte non è sufficiente a provare che la ferita non costituisca la causa del successivo decesso. Può valere invece una presunzione di senso contrario: se dopo tre giorni dal ferimento il vulneratus è in grado di deambulare, il suo successivo decesso non può attribuirsi, almeno presuntivamente, al vulnus (64). Ancora a proposito dell’eccesso del mandatario Baiardo aggiunge che se l’eccesso è accaduto vidente vel sciente mandante et non contradicente, il mandante è tenuto alla stessa pena che si commina al mandatario, perché dalla condotta e dal silenzio del mandante si evince che il mandatario abbia agito in suo nome (65). Per quanto riguarda la revoca del mandato, Bonacina ritiene che il mandante che ha revocato il mandato d’omicidio non sia tenuto a informarne la persona per la cui uccisione aveva conferito il mandato affinché questa possa premunirsi contro il mandatario, bensì debba preoccuparsi solo di rendere nota la revoca al mandatario. E a proposito della irregularitas che colpisce il mandante che abbia revocato il mandato, ma non sia riuscito a notificare l’avvenuta revoca al mandatario, afferma che il mandante ne è colpito non perché sia responsabile a titolo di voluntas, infatti non gli si può imputare più la volontà di conferire il mandato, ma perché alla sua volontà risale la causa del delitto. Poi Bonacina puntualizza una differenza tra mandans e consulens: affinchè il primo non sia colpito da irregularitas è sufficiente che si accerti che la sua revoca sia conosciuta dal (64) DONATUS ANTONIUS DE MARINIS, Summa et observationes ad singulas decisiones manuscriptas regiae camerae summariae Regni Neapolis (Lugduni, sumpt. Phil. Borde, Laur. Arnaud et Claud. Rigaud, 1661) decis. 422, pp. 564-565. (65) BAIARDUS, Additiones et annotationes ad Iulii Clari, cit., quaest. 89, pp. 339341. Alteri ad delictum praebuit occasionem 43 mandatario, perché la revoca del mandato è sufficiente a rimuovere l’influxum ad delictum del mandato stesso, dato che il mandato è conferito nell’interesse del mandante. La revoca del consilium, invece, da sola non è sufficiente a rimuovere l’influxum ad delictum, sia pure quando è conosciuta dal consigliato, poiché il consiglio è dato nell’interesse del consigliato stesso (66). Tre interessanti questioni sono al centro di alcune pagine di Claro. Ex sola scientia normalmente non si può essere puniti. L’unica eccezione è costituita dal crimen laesae maiestatis in cui la gravità del reato giustifica l’arretramento della soglia della punibilità. I giuristi poi sono divisi nell’affermare la responsabilità in capo a chi sa che si sta per commettere un delitto e, ciò nonostante, non si attiva per evitare che ciò avvenga. Infine, con riguardo alla ratihabitio, Claro ritiene che sia possibile solo in relazione ai reati che non siano commessi «principaliter propter libidinem ipsius delinquentis» quali lo stupro, l’adulterio etc., a meno che quei reati siano stati commessi strumentalmente, per esempio per offendere, ad alterius instantiam, il marito della donna. Invece la ratifica è possibile per quei reati commessi «ad offensam et iniuriam alterius», ma devono ricorrere due condizioni: che il reato sia commesso a nome del futuro ratificante; che il futuro ratificante sia a conoscenza che il reato è stato commesso a suo nome (67). (66) MARTINUS BONACINA, Tractatus de irregularitate in Opera omnia in tres tomos distributa (Venetiis, sumpt. Andreae Poleti, 1716) I, disput. VII, quaest. IV, punct. VIII, pp. 495-499. (67) CLARUS, Sententiarum receptarum, cit., quaest. 87, foll. 221v-223r. 44 Giuseppe Speciale 6. Caratteri originari e tratti permanenti: a proposito di una questione di mandato di Francesco Carrara. Ho scelto di chiudere con Carrara questa prima prova di ricerca sul mandatum e sul consilium ritenendo che ai fini del discorso che qui si vuole condurre non fosse di ostacolo il dato che Carrara è un giurista dell’età delle codificazioni, un giurista, cioè, che, pur avvalendosi dello sterminato patrimonio di sapienza accumulato dalla cultura giuridica nei secoli precedenti, si misura con una cultura, con una tecnica, giuridica incentrata sul codice. Paradossalmente proprio questa discontinuità, marcata dall’avvento e dalla centralità del codice, finisce per evidenziare ancora di più una sostanziale continuità nel modo di impostare, di argomentare e di risolvere le questioni relative alla responsabilità del mandante e del mandatario. Il maestro toscano, con una scrittura tanto lucida quanto ricca di umanità, già nel suo studio sul ‘Grado nella forza fisica del delitto’ aveva ordinato all’interno del suo ‘sistema’ penale le figure del mandato e del consiglio (68). Riflettendo sulla tradizione giuridica europea — e sui contributi dei vari Carmignani, Rossi, Giuliani, Roberti — Carrara colloca il mandato e il consiglio, insieme con la società, all’interno del genus della complicità. La testata d’angolo della costruzione carrariana è la forza fisica del delitto: «soggettivamente guardata ha il suo elemento nel moto corporeo dello agente, e guardata oggettivamente il suo risultato nella materiale violazione della legge ossia nel danno immediato» (69). La forza fisica, sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo, può per vari motivi frazionarsi: «o per causa di interruzione, o inoperosità degli (68) F. CARRARA, Grado nella forza fisica del delitto, in Opuscoli di diritto criminale (Lucca 18702) vol. I, pp. 337-628, in particolare i §§ 241-276 alle pp. 518-541. (69) CARRARA, Grado nella forza fisica, cit., vol. I, p. 339, i corsivi sono nel testo. Alteri ad delictum praebuit occasionem 45 atti esterni, o per causa di divisione dei medesimi fra più individui. La interruzione o inoperosità della forza fisica soggettiva, e la mancata forza fisica oggettiva, conduce alla teorica del delitto imperfetto: la divisione alla teorica della complicità» (70). Più precisamente nel genus della complicità, così inteso, Carrara distingue tre species: il concorso di azione senza concorso di volontà; il concorso di volontà senza concorso di azione; il concorso di volontà e di azione. Compongono la prima specie le quattro figure della ‘intenzione innocentemente distinta’, della ‘intenzione criminosamente distinta’, della ‘intenzione negativamente indiretta’, della ‘intenzione imperfetta’. Appartengono alla seconda specie le tre figure del mandato, del consiglio e della società. Formano la terza specie le figure dell’ausiliatore, del correo, del favoreggiatore. Nell’utilità, poi, sulla scia di una lunghissima e consolidata tradizione, Carrara individua il criterio per distinguere il mandato dal consiglio e dalla società: nel mandato l’esecuzione del reato torna di utilità al mandante che ha comunicato la volontà; nel consiglio all’autore fisico del reato; nella società ad entrambi. Ma più ancora della trattazione condotta in termini generali nel Grado nella forza fisica del delitto o nel Programma (71) è ricco di spunti per la riflessione Una questione di mandato, uno studio del 1875 pubblicato negli Opuscoli (72). Il giurista qui muove da un (70) CARRARA, Grado nella forza fisica, cit., vol. I, p. 339, i corsivi sono nel testo. (71) F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale (Lucca Giusti 1871) §§ 426-509, pp. 281-332. (72) F.CARRARA, Una questione di mandato, in Opuscoli, Progresso e regresso del giure penale nel nuovo Regno d’Italia VI (Lucca 1876) XXXII, pp. 7-21. Un altro interessante contributo di Carrara, che qui merita ricordare, è ‘Offerta di delitto’, in Opuscoli, Progresso e regresso del giure penale nel nuovo Regno d’Italia III (Lucca 1876) XLVI, pp. 449-458. Si considera istigazione a delinquere la fattispecie di un sicario che offra la sua opera ad un mandante per realizzare un omicidio di un nemico del mandante. Per Carrara tale fattispecie è istigazione a delinquere, almeno negli ordinamenti che prevedano tale figura di reato e la considerino perfetta a prescindere dal fatto che sia stata accolta o non la istigazione. In particolare Carrara ritiene che le ragioni che fondano la punibilità dell’istigatore mandante (istigante a divenire mandatario) siano 46 Giuseppe Speciale caso giurisprudenziale accaduto in Toscana, e nel 1875 ancóra all’attenzione della Corte di Cassazione fiorentina, per affrontare ex professo diversi aspetti direttamente collegati al mandato a delinquere. Ecco in breve i fatti: a casa di un certo Francesco, un ricco e ‘riputatissimo’ giovin signore di campagna, sul «cominciare di una notte serena» si presentò Orlando, capo di una masnada di briganti che infestava il contado toscano con «assassinii, omicidii, incendi, ruberie e violenze di ogni maniera». Orlando invitò Francesco a uscire di casa; «con lui diceva volere tenere segreto parlamento; di nulla temesse; recasse pane e prosciutto e seco si conducesse solo nello attiguo vigneto». Dopo circa due ore Francesco rientrò in casa propria per procurare altro vino da offrire a Orlando che gliene aveva fatto richiesta e ne uscì di lì a poco per seguire Orlando a poca distanza. Percorsi pochi passi si udirono due spari in rapidissima successione e Francesco rimase leggermente ferito dal secondo colpo. Sia pure ferito, e senz’armi, «fiero come un leone si scagliò contro il masnadiere»: seguì una lotta feroce nel corso della quale Orlando, ormai con il fucile scarico, estrasse un ‘coltello serratoio’ e vibrò su Francesco una trentina di colpi, alcuni dei quali «assolutamente mortali ne cagionarono alla dimane la morte». La banda di Orlando fu sgominata, più di quattordici persone furono condannate, ma Orlando morì in carcere prima le stesse che fondano la punibilità dell’istigatore mandatario (istigante a divenire mandante). Nel caso di delitti naturali (il cui danno immediato offende soltanto il privato) il bene leso è la tranquillità privata, cioè la libertà individuale (§ 1591 e ss. del Programma). Tale bene è leso sia nel caso che l’istigatore sia il mandante sia che sia il mandatario. Il diritto che si applica è quello del luogo in cui si sia resa nota l’offerta di delitto. Nel caso l’offerta sia contenuta in una lettera è il luogo di destinazione della lettera, non di redazione. Sull’opuscolo carrariano e sul tema più generale dell’inquadramento dell’istigazione nel pensiero del giurista toscano cfr. G. DE VERO, L’istigazione a delinquere nell’evoluzione del pensiero carrariano, in Francesco Carrara nel primo centenario della morte. Atti del Convegno internazionale, Lucca-Pisa 2-5 giugno 1988 (Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della Università di Pisa 112; Milano 1991) 651-661. Alteri ad delictum praebuit occasionem 47 che si concludesse il processo. Più volte interrogato, prima di morire aveva dichiarato di avere agito su mandato di Alessandro, fratello di Francesco, che gli aveva fornito l’arma del delitto, un fucile ad un solo colpo, e promesso un compenso di mille scudi. Il giudice condanna Alessandro alla pena dell’ergastolo ritenendolo responsabile di «mandato premeditato ad uccidere susseguito dall’evento»; i difensori di Alessandro inoltrano ricorso alla Cassazione. Carrara — superando la consueta prudenza che dovrebbe usarsi quando sul caso sta per pronunciarsi il giudice, nella specie la Cassazione fiorentina dinanzi alla quale pende il ricorso — ritiene di potere, anzi di dovere, affrontare la questione perché a suo dire la sentenza che ha condannato Alessandro alla pena dell’ergastolo, non solo è «viziata nella sostanza per erronea soluzione», non solo è giunta a conclusioni incoerenti rispetto alle premesse da cui muove, ma addirittura ha trascurato di valutare giuridicamente in modo corretto i fatti che compongono il complesso mosaico degli avvenimenti; insomma Carrara lamenta che non siano stati posti in chiaro i termini del problema perché la corte fiorentina ha considerato i fatti su cui è stata chiamata a giudicare come elementi di un unico disegno criminoso. Invece per il giurista bisogna distinguere ciò che è avvenuto fino al momento del ferimento di Francesco da ciò che è avvenuto successivamente. Fino al ferimento di Francesco, Orlando attua comportamenti (visita a Francesco, ‘segreto parlamento’ nel vigneto, richiesta del vino, invito ad allontanarsi da casa, esplosione dei colpi di fucile) tesi ad eseguire il mandato ricevuto da Alessandro. Carrara volutamente non si sofferma a indagare se i due colpi siano stati entrambi esplosi da Orlando — circostanza che sembra potersi escludere considerati la rapida successione degli stessi colpi e il tipo di fucile a canna singola —, ma senz’altro i fatti possono valutarsi 48 Giuseppe Speciale come un tentativo di omicidio e rivelano chiaramente la premeditazione in capo a Orlando. I fatti che seguono dopo il ferimento di Francesco (la colluttazione tra Francesco e Orlando originata dalla fiera reazione del primo, l’accoltellamento che seguì e diede causa alla morte) possono valutarsi come omicidio volontario, ma escluderebbero, secondo Carrara, la premeditazione in capo a Orlando. I colpi, infatti, che Orlando vibrò «premeditati non furono, ebbero quella che i pratici ad una voce chiamano nuova causa, nata sull’atto». Dopo l’esplosione dei colpi di fucile e il ferimento di Francesco si era verificato un capovolgimento della situazione precedente con uno scambio dei ruoli tra l’aggressore e l’aggredito. Questo scambio dei ruoli segna una cesura tra la prima e la seconda serie dei fatti della complessa vicenda: se dopo l’esplosione dei colpi fosse stato Orlando ad aggredire Francesco si sarebbe dovuto pensare ad un unico disegno criminoso realizzato da Orlando in esecuzione del mandato ricevuto; ma per stessa ammissione, in punto di morte, di Francesco, il masnadiero fu aggredito e la sua condotta deve spiegarsi come causata dalla paura per la reazione di Francesco ‘imprevista e imprevedibile’. Qui Carrara addirittura si spinge a sostenere che per Orlando la morte di Francesco, dopo la fiera reazione, divenne una «necessità». Secondo il giurista toscano «non era più un truce desiderio di danno altrui, ma l’ira per l’inattesa reazione e l’ansietà della propria salvezza… la mano che brandiva il coltello non più si agitava per uno sdegno feroce, ma per un subitaneo spavento…». E conclude che per Orlando si sarebbe potuta affermare la responsabilità per l’omicidio tentato e per l’omicidio improvviso. Perché possa affermarsi la responsabilità del mandante per l’omicidio di Francesco dovrebbe provarsi che Orlando ha ucciso Francesco in esecuzione del mandato, cioè che la prima serie di atti, culminata nel tentato omicidio, e la seconda, conclusasi con l’uccisione, abbiano la stessa causa, l’esecuzione del mandato. Ma così non è, non perché Orlando impiega mezzi Alteri ad delictum praebuit occasionem 49 diversi da quelli indicati dal mandante, ma perché agisce mosso da una nuova causa: la paura di essere ucciso, la rabbia per la reazione di Francesco. Per quanto riguarda la responsabilità del mandante, Carrara afferma che l’omicidio è stato portato a termine dal mandatario — sia pure contro lo stesso soggetto indicato dal mandante, ma con mezzi diversi da quelli forniti da quest’ultimo — non in esecuzione, bensì in occasione, del mandato ricevuto e, soprattutto, per cause diverse dal mandato. Non si è in presenza di un eccesso del mandatario: nel caso dell’eccesso mancherebbe, infatti, l’ordine di uccidere del mandante, ordine che qui è provato. E nel caso dell’eccesso, inoltre, l’atto del sicario, non ordinato dal mandante, sarebbe premeditato dal sicario stesso: qui invece si esclude la premeditazione in capo a Orlando. In questo caso, invece, il mandato è la causa dell’omicidio tentato e non eseguito, ma non è la causa che ha prodotto il posteriore omicidio consumato. L’identità dell’evento materiale previsto nel mandato e poi realizzato dal mandatario per cause estranee al mandato non è sufficiente a coinvolgere in una medesima imputazione mandante e mandatario quando la causa dell’evento è imputabile esclusivamente al mandatario. Non basta dire, per affermare in capo al mandante la responsabilità penale, che il mandante non ha revocato il mandato e pertanto è responsabile dell’evento causato dal mandatario (evento che è quello per il quale il mandato era stato conferito): ciò avrebbe senso se il mandatario avesse agito qui, come nella prima parte dell’azione, per eseguire il mandato. Invece il mandatario qui ha agito mosso da causa diversa: la legittima difesa, il moto d’orgoglio contro la vittima che si ribellava al suo violento attacco. È appena il caso di sottolineare che il richiamo di Carrara alla legittima difesa stride con il fatto che Francesco era assolutamente disarmato. Inoltre, sia pure tra gli argumenta non principali, il grande penalista rileva la mancanza di identità tra il mezzo con cui doveva essere eseguito il mandato ad uccidere (il fucile) e quello 50 Giuseppe Speciale con cui venne effettivamente eseguito l’omicidio (il coltello): si tratta di un richiamo superato e stantìo. Nella ricostruzione e nella decisione del caso Carrara supera gli ostacoli che gli frappone la disciplina normativa del mandato a delinquere; egli frammenta in distinti segmenti la serie degli atti che ha scandito la vicenda e sostiene che cause diverse hanno mosso gli attori nell’ambito dei distinti segmenti. In tal modo riesce in qualche modo ad affermare che la causa dell’uccisione di Francesco non può individuarsi nel mandato conferito da Alessandro a Orlando. Al di là della disciplina normativa e della decisione, al di là delle conclusioni processuali, il caso di Francesco e Orlando è esemplare per evidenziare l’importanza delle strategie discorsive adottate dai giuristi in tema di mandato. 7. Il discorso sulla responsabilità continua: le scatole anguste delle tipizzazioni nelle vicende più recenti. La questione della responsabilità nel concorso assume una rilevanza che va ben oltre l’ambito proprio e investe tutto il sistema della responsabilità. La vicenda italiana della disciplina del concorso di persone costituisce una esemplificazione eccellente dei problemi che qui si sono voluti presentare e sottolinea nell’impegno dei giuristi chiamati ad affrontare l’arduo problema della responsabilità elementi di sostanziale continuità con l’esperienza giuridica dei secoli passati: tale sostanziale continuità risalta ancora di più se si presta attenzione al dato normativo radicalmente mutato dalla codificazione. Dopo alcuni esperimenti preunitari (73), il codice penale Zanardelli, nel 1889, introdusse una tipizzazione delle figure (73) All’inizio del secolo un interessante esperimento era stato tentato con il Progetto del 1809 per il Regno d’Italia. Cfr. E. DEZZA, Appunti sulla codificazione Alteri ad delictum praebuit occasionem 51 concorsuali prevedendo un trattamento sanzionatorio differenziato (74). La deludente prova indusse il legislatore del 1930 ad ispirarsi dichiaratamente ad un criterio causale. penale nel primo Regno d’Italia: il Progetto del 1809, in Saggi di storia del diritto penale moderno (Milano 1992) 259 s., che sottolinea che la disciplina prevista nel progetto italiano nel titolo quinto della prima parte “Degli agenti principali e complici” si differenzia non poco da quella del modello legislativo francese a cui si ispira, proprio perchè resta fortemente ancorata «al principio di proporzionalità che induce a definire nel modo più accurato possibile il ruolo svolto dagli agenti, onde evitare l’irrogazione della stessa pena per gradi oggettivamente diversi di responsabilità». Gli agenti principali agiscono direttamente per l’esecuzione del reato; tra i complici, che sono invece coloro che «scientemente contribuiscono in altro modo ad effettuarlo» (art. 82), il Progetto distingue gli istigatori, coloro che approntino mezzi per l’esecuzione del reato, o aiutino i responsabili a sottrarsi alla giustizia, o occultino le tracce del reato, o «generalmente» pongano in essere «tutto ciò che può fomentare la lusinga dell’impunità o assicurare il profitto del fatto criminoso» (art. 84). I complici, come nel Code Penal del 1810, sono comunque ritenuti responsabili del reato ascritto all’agente principale; tuttavia, diversamente che nel modello francese, nel Progetto italiano ai complici è riservata una diminuzione della sanzione. Tra gli agenti principali, poi, il Progetto italiano, differenziandosi ancora una volta da quello francese, distingue i promotori e chi si sia particolarmente distinto nella direzione e nell’attuazione del reato (art. 83). In quest’ambito colloca il mandante tra gli agenti principali assegnandogli contestualmente un grado di responsabilità maggiore rispetto a quello del mandatario e finendo coerentemente con affermare la responsabilità del mandante anche nei casi di eccesso del mandatario nell’esecuzione del mandato. (74) Art. 63: «Quando più persone concorrano nella esecuzione di un reato, ciascuno degli esecutori e dei cooperatori immediati soggiace alla pena stabilita per il reato commesso. Alla stessa pena soggiace colui che ha determinato altri a commettere il reato; ma all’ergastolo è sostituita la reclusione da venticinque a trent’anni, e le pene sono diminuite di un sesto, se l’esecutore lo abbia commesso anche per motivi propri». Art. 64: «È punito con la reclusione per un tempo non inferiore a dodici anni, ove la pena stabilita per il reato commesso sia l’ergastolo, e negli altri casi con la pena stabilita per il reato medesimo diminuita della metà, colui che è concorso nel reato: con l’eccitare o rafforzare la risoluzione di commetterlo, o col promettere assistenza o aiuto da prestarsi dopo il reato; col dare istruzioni o col somministrare mezzi per eseguirlo; col facilitarne l’esecuzione, prestando assistenza od aiuto prima o durante il fatto. 52 Giuseppe Speciale Ma ancora una volta l’esperienza rivela i limiti della scelta normativa. L’art. 110 del codice penale (75) — sanzionando il concorso, e omettendo di tipizzarne gli elementi costitutivi, la cui individuazione rimette alla giurisprudenza — svolge una funzione delicatissima che la giurisprudenza più sensibile e avvertita ha rilevato. La Cassazione, smentendo definitivamente l’originaria opzione causale, sancisce la punibilità di ogni «contributo di ordine materiale o psicologico idoneo, con giudizio di prognosi postuma, alla realizzazione anche di una soltanto delle fasi di ideazione, organizzazione o esecuzione dell’azione criminosa posta in essere da altri soggetti» (76). E afferma: «Perché si configuri la fattispecie del concorso di persone nel reato non è necessario che il contributo di ciascuno si ponga come condizione, sul piano causale, dell’evento lesivo. Infatti la teoria causale del concorso — fatta propria dalla relazione al codice penale — contrasta con il dettato dell’art. La diminuzione di pena per il colpevole di alcuno dei fatti preveduti nel presente articolo non è applicata, se il reato senza il suo concorso non si sarebbe commesso». Una critica che frequentemente si muove alla soluzione zanardelliana è quella ben documentata in R. SALEILLES, L’individualisation de la peine (Paris 1898), p. 201: «L’atténuation au cas de complicité provient de ce que le fait du complice n’est qu’accessoire et dépendant d’un fait principal auquel il se rattache. Mais n’arrive-t-il pas tous les jours que dans une bande d’associés on se partage les rôles? Les uns vont frapper et porter le coup, les autres feront le guet ou rempliront tout autre rôle accessoire. En quoi est-on sûr que ces derniers, même en ne les considérant que par rapport au crime commis, soient moins coupables que les autres? Il peut se faire que ce soient eux qui aient inspiré le crime. Celui qui a frappé, on peut l’avoir poussé, peut-être grisé, pour lui donner de l’assurance. Les autres-se contentent de garantir l’exécution. Leur rôle extérieur est purement accessoire, c’est possible. Mais c’est d’après leur rôle intérieur et psychologique qu’il faudrait les juger et les frapper. Le Code italien en atténuant forcément la peine décide par avance que leur criminalité n’est que secondaire ; c’est une prétention toute fictive et insoutenable». (75) Art. 110: «Pena per coloro che concorrono nel reato. Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti». (76) Cassazione pen., sez. VI, 6 novembre 1991 (pres. Salaria, rel. Calfapietra) Afelba c. altri, in Cassazione penale, 1993, 295. Alteri ad delictum praebuit occasionem 53 110 c.p. e la funzione estensiva cui la normativa sul concorso adempie, consentendo di attribuire tipicità a comportamenti, che di per sé ne sarebbero privi, quando abbiano in qualsiasi modo contribuito alla realizzazione collettiva» (77). La questione è sempre al centro dell’attenzione della giuspenalistica e del legislatore. Negli anni Novanta la Commissione Pagliaro, incaricata di predisporre il testo del disegno di legge sulla delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione di un nuovo codice penale muove dall’assunto: «La norma sul concorso di persone, insieme a quelle sul tentativo e sul reato omissivo improprio, vale ad ampliare la tipicità delle fattispecie incriminatrici della parte speciale. Tale estensione, per quanto necessaria, porta con sé il grave ed evidente pericolo di svuotare la tassatività dei precetti penali, conferendo loro un’illimitata capacità operativa; donde l’esigenza che essa si realizzi alla luce di criteri improntati al principio di determinatezza... ». Dopo aver esaminato le varie opzioni — muovendo dall’art. 26.1. dello Schema di legge delega che dispone: «Prevedere che concorra nel reato chi, nella fase ideativa, preparatoria o esecutiva, dà un contributo necessario, o quanto meno agevolatore, alla realizzazione dell’evento offensivo. Si concorre per agevolazione solo nei casi in cui la condotta ha reso più probabile, più pronta o più grave la realizzazione dell’evento (77) Cassazione pen., sez. I, udienza dell’11 marzo 1991 (la sentenza è del 12 luglio 1991), in Rivista penale, 1992, p. 498. La stessa sentenza sottolinea acutamente che «lo stesso codice, con la previsione dell’attenuante della minima partecipazione al fatto, ammette la possibilità di condotte non condizionali, non potendosi certo considerare condizione indispensabile per la realizzazione di un reato un’attività di minima importanza. In questa ottica, ai fini della sussistenza del concorso deve ritenersi sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore che arrechi un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e, in sostanza, che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato le possibilità di produzione dell’evento, perché in forza del reato associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti». 54 Giuseppe Speciale offensivo» — la Commissione ritiene opportuno abbandonare la distinzione tra contributi necessari ed agevolatori, adottando una formula così concepita: «Concorre nel reato chiunque abbia partecipato o istigato alla sua esecuzione ovvero rafforzato il proposito di altro concorrente o agevolato l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza» (78). Qualche anno dopo la Commissione Grosso, che deve predisporre il testo del nuovo codice penale, è convinta della “pessima prova” dell’art. 110 del codice penale Rocco, che per il suo eccessivo deficit di tassatività ha costretto il giudice ad un’eccessiva discrezionalità applicativa nella individuazione delle condotte penalmente rilevanti, con il risultato di una eccessiva dilatazione della responsabilità a titolo di concorso di persone nel reato. D’altra parte fare ricorso nella tipizzazione delle condotte punibili a schematismi eccessivi rischierebbe di escludere dall’area della responsabilità penale contributi alla realizzazione del reato che sarebbe pericoloso lasciare impuniti. Così la Commissione modifica solo lievemente la soluzione prospettata dalla Commissione Pagliaro: “concorre nel reato chiunque partecipa alla sua esecuzione, ovvero determina o istiga altro concorrente, o ne agevola l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza” (art. 45 comma 1). Del resto, la Commissione di studio della Corte di Cassazione, giustamente preoccupata della eccessiva rigidezza di un sistema di ‘dettagliata elencazione’ dei tipi di concorso aveva auspicato una soluzione che mediasse ragionevolmente «fra esigenze di (un minimo di) (78) «La scelta legislativa di appiattire sullo sfondo della medesima cornice di pena tutti i concorrenti nel reato, indipendentemente dalla condotta in concreto esplicata, determina inoltre uno svuotamento della tassatività delle fattispecie incriminatrici nella parte relativa alla sanzione, almeno ove si ritenga che questa sia modellata sul disvalore del fatto tipizzato... In breve: il vigente art. 110 apre intollerabili spazi di indeterminatezza sia nella individuazione delle condotte punibili, sia nel loro trattamento sanzionatorio...»: così scrive Seminara nel documento della sottocommissione ministeriale che si occupa del concorso di persone nell’ambito dei lavori della Commissione Pagliaro. Il documento è consultabile nel sito web del Ministero della Giustizia: www.giustizia.it. Alteri ad delictum praebuit occasionem 55 determinatezza ed inevitabili margini di prudenziale genericità nella configurazione delle condotte concursuali. Non può certo affermarsi che la formula proposta contenga — come in premessa richiesto — una ‘dettagliata’ elencazione dei ‘tipi’ di condotta concorrente (restando innegabile la persistente genericità delle formule della ‘partecipazione’, della ‘agevolazione’, del ‘rafforzamento’, ecc.), ma non vi è dubbio che essa appaia sufficientemente esaustiva sul piano di quel minimo di determinatezza necessario ai fini del rispetto del principio di tassatività e tipicità legale» (79). (79) «La Commissione ha affrontato il problema di una relativa tipizzazione delle condotte punibili a titolo di concorso di persone nel reato. Costituisce infatti opinione largamente condivisa che l’accoglimento della soluzione causale nei termini generici espressi dall’art. 110 c.p. Rocco ha dato luogo a pessima prova, determinando un eccessivo deficit di tassatività e di tipicità delle fattispecie concursuali, ed una corrispondente eccessiva discrezionalità applicativa del giudice nella individuazione delle condotte penalmente rilevanti, con il risultato di una eccessiva, talvolta incontrollata ed arbitraria, dilatazione della responsabilità a titolo di concorso di persone nel reato. Una discrezionalità che, come ha osservato la Commissione della Cassazione che ha espresso un parere sul documento di base 15 luglio 1999, rischia “addirittura di far ritenere passibile di eccezione di costituzionalità l’intero capo III del titolo IV nel nostro codice”. Occorre dunque procedere ad una tipizzazione delle condotte punibili che, pur evitando schematismi eccessivi, i quali rischierebbero, all’eccesso opposto, di escludere dall’area della responsabilità penale contributi causali alla realizzazione del reato che sarebbe fuori luogo lasciare impuniti, costringa comunque il giudice a rilevare effettivamente, verificare con attenzione, e motivare adeguatamente, la presenza e il tipo di apporto causale alla realizzazione del reato di ciascun concorrente. In questa prospettiva la Commissione ha riproposto la definizione che aveva già indicato in via esemplificativa nel documento di base: “concorre nel reato chiunque partecipa alla sua esecuzione, ovvero determina o istiga altro concorrente, o ne agevola l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza” (art. 45 comma 1), ritenendo che essa configuri tipi di concorso sufficientemente elastici, tali da non rischiare di circoscrivere arbitrariamente l’area della punibilità creando vuoti di tutela, comunque idonei ad assicurare quella esigenza di provare la realizzazione di un apporto causale significativo che costituisce presupposto indispensabile di tipicità della disciplina del concorso di persone nel reato. Avendo, in questa scelta, il conforto autorevolissimo del parere predisposto dalla Commissione della Corte di Cassazione. La Cassazione infatti, giustamente preoccupata della eccessiva rigidezza di un sistema di ‘dettagliata elencazione’ dei tipi di concorso che poteva trasparire dalla lettura di parte del documento di base, ha significativamente osservato che “la 56 Giuseppe Speciale Le conclusioni della Commissione della Corte richiamano con buon senso l’irriducibilità e l’incomprimibilità delle molteplici forme di correità in una scatola tipizzata e l’irrinunciabile, e ragionevole, prudenziale genericità della configurazione delle condotte concursuali. La cultura giuridica medievale e della prima età moderna aveva avvertito l’insufficienza del criterio causale che — proiezione delle conoscenze scientifiche dell’età dei lumi e della modernità — costituirà nei sistemi codificati il fulcro centrale della misura della responsabilità dei concorrenti. Quel criterio mostra oggi la sua assoluta inadeguatezza, anche alla luce delle nuove conoscenze scientifiche — si pensi agli studi sulle organizzazioni e sulla complessità — che ne suggeriscono la sostituzione con criteri diversi, multifattoriali, che tengano conto delle molteplici, multiformi e variabili relazioni che caratterizzano la compartecipazione criminosa. soluzione prospettata ‘in via esemplificativa’ può costituire (invece) una soluzione senz’altro accettabile sul terreno di una ragionevole mediazione fra esigenze di (un minimo di) determinatezza ed inevitabili margini di prudenziale genericità nella configurazione delle condotte concursuali. Non può certo affermarsi che la formula proposta contenga — come in premessa richiesto — una ‘dettagliata’ elencazione dei ‘tipi’ di condotta concorrente (restando innegabile la persistente genericità delle formule della ‘partecipazione’, della ‘agevolazione’, del ‘rafforzamento’, ecc.), ma non vi è dubbio che essa appaia sufficientemente esaustiva sul piano di quel minimo di determinatezza necessario ai fini del rispetto del principio di tassatività e tipicità legale”. Questa tipizzazione è, da un lato, sufficientemente elastica per non creare vuoti di tutela, e nel contempo sufficientemente ‘orientativa’ in sede di applicazione della legge penale: alla sua stregua il giudice sarà infatti in ogni caso obbligato a provare la esistenza di una reale determinazione o istigazione di altro concorrente, ed a motivare tale esistenza; sarà obbligato a provare la presenza di una agevolazione che si sia concretata in specifiche condotte di ‘aiuto o assistenza’, e motivare tale esistenza, ecc.». La relazione Grosso è consultabile nel sito web del Ministero della Giustizia www.giustizia.it. Alteri ad delictum praebuit occasionem 57 Come si vede, il discorso sulla responsabilità continua (80). Testimoni del nostro presente, possiamo ancora interrogare il passato. (80) Ultimamente la giurisprudenza italiana è impegnata in una delicata questione: se integri concorso nel reato inserire in un sito web un link a siti che abbiano contenuti illegali, oppure, come nel caso in ispecie, a siti che diffondono localmente (nel caso in ispecie in Cina) contenuti rispetto ai quali esiste un diritto di esclusiva. Il caso nasce dalla denuncia di un network satellitare (Sky) che lamenta che in un sito web italiano sia presente un link ad un sito web cinese che trasmette in chiaro le partite di calcio trasmesse da Sky. La III Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 33945 del 10 ottobre 2006 così decide: ritenuto «pacifico, in punto di fatto, che gli indagati avevano messo a disposizione degli utenti le informazioni ed i mezzi tecnici attraverso i quali era possibile installare sul proprio personal computer tutto il software necessario alla visione delle partite di calcio sulle quali la Sky vantava un diritto di esclusiva»; considerato che «tale condotta è stata ritenuta dai Giudici come posteriore alla immissione in rete delle opere protette e, di conseguenza, inserendosi in un momento successivo al perfezionamento del reato, è stata considerata irrilevante ai fini penali…È innegabile che gli attuali indagati hanno agevolato, attraverso un sistema di guida on line, la connessione e facilitato la sincronizzazione con l’evento sportivo; senza la attività degli indagati, non ci sarebbe stata, o si sarebbe verificata in misura minore, la diffusione delle opere tutelate. Le informazioni sul link e sulla modalità per la visione delle partite in Italia, per raggiungere il loro obiettivo, devono essere state inoltrate agli utenti in epoca antecedente alla immissione delle trasmissioni in via telematica; tale rilievo, se puntuale in fatto, comporta come conseguenza che, in base alle generali norme sul concorso nel reato, gli indagati, pur non avendo compiuto l’azione tipica, hanno posto in essere una condotta consapevole avente efficienza causale sulla lesione del bene tutelato. È appena il caso di ricordare come l’attività costitutiva del concorso può essere individuata in qualsiasi comportamento che fornisca un apprezzabile contributo alla ideazione, organizzazione ed esecuzione del reato; non è necessario un previo accordo diretto alla causazione dell’evento, ben potendo il concorso esplicarsi in una condotta estemporanea, sopravvenuta a sostegno della azione di terzi anche alla insaputa degli altri agenti». 58 Giuseppe Speciale