Apollineo e dionisiaco, lo stato attuale delle arti
alla luce di vecchie categorie rivisitate
Nicola Vitale
Sommario
Heidegger, nelle lezioni su Nietzsche, attribuisce importanza capitale a una “configurazione esplicita” delle categorie, coniate dal
filosofo, di apollineo e dionisiaco. Sono esse, infatti, le uniche
categorie estetiche che ci consentono di fare luce sull’attuale momento di transizione delle arti. Occorre tuttavia superare i luoghi comuni che interpretano i due principi nella dicotomia tra
una bellezza apollinea, armonica e proporzionata, e l’espressione
caotica e lacerante attribuita al dionisiaco. Nietzsche individua
invece nella compresenza dei due principi l’essenza dell’arte, mentre nella loro scissione conflittuale vede la decadenza e la crisi.
Possiamo osservare nella storia dell’arte il ciclico riprodursi di
tali dinamiche. Cercando di cogliere ciò nel presente, scopriamo
come dopo il grande rinnovamento dell’arte moderna, in cui i
due principi sono nuovamente integrati, nella seconda metà del
Novecento le arti abbiano attraversato la fase conflittuale di decadenza. Ma già dagli anni Settanta hanno preso il via ricerche
espressive nelle quali è possibile riconoscere una nuova armonizzazione tra i due principi. Cogliamo nel lavoro di alcuni pittori
e poeti questo percorso, che negli esiti più compiuti arriva a determinare un’arte radicalmente rinnovata, nella quale possiamo
intuire l’inizio di una nuova istanza espressiva ed esistenziale.
c 2008 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera)
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
N
ietzsche, elaborando in modo originale le premesse di Schiller, Hölderlin, Schopenhauer e Burckhardt, con il suo primo libro La nascita
della tragedia dallo spirito della musica 1 , pone a tema una questione
fondamentale che investe la cultura occidentale e che sarà motivo portante
della sua intera filosofia.
Le categorie estetiche di “apollineo” e “dionisiaco”, coniate in questa opera, possono svelarci motivi profondi dell’attuale decadenza delle arti e porre
l’ipotesi di un cambiamento in atto. Lo stesso Martin Heidegger, nella lezione
su Nietzsche La volontà di potenza come arte, afferma:
Il contrasto variamente noto del “dionisiaco” con l’“apollineo”, della
passione sacra e dell’esposizione spassionata costituisce una nascosta
legge stilistica della missione storica dei Tedeschi e un giorno essa dovrà
trovarci pronti e preparati ad una sua configurazione esplicita. Questo contrasto non sarebbe una formula adatta soltanto a descrivere la
“cultura”. Con questo contrasto Hölderlin e Nietzsche hanno posto
un punto interrogativo di fronte al compito dei Tedeschi di trovare
storicamente la propria essenza. Comprenderemo noi questo punto interrogativo? Una cosa è certa: la storia si vendicherà di noi se non lo
comprenderemo. 2
L’essenza dell’identità tedesca è da riferirsi in Heidegger come vicinanza
e continuità con la Grecia antica, dunque con l’origine della cultura europea.
Egli infatti spiega così, nell’intervista al settimanale Der Spiegel, il passo
citato:
La mia convinzione è che solo a partire dallo stesso luogo del mondo
nel quale è sorto il moderno mondo tecnico, possa prepararsi anche un
rovesciamento [. . . ]. Per cambiare modo di pensare è necessario l’aiuto
della tradizione europea e di una sua riappropriazione. Il pensiero
viene modificato solo dal pensiero che ha la stessa provenienza e la
stessa destinazione. 3
Ma vediamo ora come le categorie coniate da Nietzsche possano assumere una posizione determinante nell’interpretazione dell’attuale panorama
artistico. Egli introduce così l’argomento:
Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti
non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco, similmente a come la generazione
dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una
riconciliazione che interviene solo periodicamente. 4
1. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, tr. it. di S. Giametta, a cura di G. Colli,
Adelphi, Milano 1972.
2. M. Heidegger, Nietzsche (1961), tr. it. e cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994,
p. 112.
3. Heidegger, dalla intervista del settimanale “Der Spiegel” del 1933 (tr. it. e cura di
A. Marini, Ormai solo un dio ci può salvare, Guanda, Milano 1987, pp. 148, 149).
4. F. Nietzsche, op. cit., p. 21.
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Sin dall’inizio è evidenziato come lo sviluppo dell’arte sia definibile come lotta e conciliazione dei due principi. Ma il loro accostamento, operato
dallo stesso Nietzsche, con sogno ed ebbrezza, scultura e musica, così come
anche l’immagine metaforica, assunta da Schopenhauer, della barca nella
tempesta in cui siede un uomo immerso nella contemplazione del suo volto
in uno specchio 5 , hanno portato a interpretare apollineo e dionisiaco nel loro
aspetto antitetico in cui prevale il conflitto sulla conciliazione, la particolarità di ciascuno sulla loro compartecipazione. Ne emergono così due opposti
stati di coscienza e modalità espressive inconciliabili; il primo si mostra come atteggiamento solare, contemplativo, relativo alla limpidezza della forma
compiuta, ordinata secondo principi di proporzione e armonia; il secondo è
invece il moto caotico della forza sfrenata, che lacera ogni forma determinata,
fino all’annientamento.
Alle concezioni estetiche si aggiungono così due diverse caratteristiche
riconoscibili storicamente nella bellezza misurata della scultura classica, e nel
fluire incontenibile della musica, fluire che arriva fino alla brutalità caotica,
“sublime” che legittima i moti più laceranti dell’espressività contemporanea.
Lo stesso Umberto Eco nel suo recente libro La storia della bellezza, annovera
apollineo e dionisiaco come momenti del divenire delle forme, sviluppatisi
nella Grecia classica.
Questa compresenza di due divinità antitetiche non è casuale, [. . . ]
esprime la possibilità sempre presente e periodicamente inverantesi,
di un’irruzione del caos nella bella armonia. Più specificamente, si
esprimono qui alcune antitesi significative che rimangono irrisolte entro
la concezione greca della bellezza [. . . ]. Una prima antitesi è quella tra
bellezza e percezione sensibile. Se infatti la bellezza è si percepibile,
ma non completamente, perché non tutto di essa si esprime in forme
sensibili, si apre una pericolosa forbice tra apparenza e bellezza. . . Una
seconda antitesi è quella tra suono e visione, le due forme percettive
privilegiate dalla percezione greca [. . . ]: benché si riconosca alla musica
il privilegio di esprimere l’anima, è solo alle forme visibili che si applica
la definizione di “bello” (Kalós) come “ciò che piace e attrae”. Disordine
e musica vengono così a costituire una sorta di lato oscuro della bellezza
apollinea armonica e visibile, e come tali ricadono nella sfera di azione
di Dioniso. 6
È vero che Nietzsche ha attribuito l’apollineo alla scultura e il dionisiaco
alla musica, ma occorre considerare come si tratti di paralleli esplicativi
che non identificano i due termini delle corrispondenze, non escludendo la
5. A Schopenhauer, Mondo come volontà e rappresentazione I (ed. or. Frauenstädt),
p. 416: «Come sul mare in furia che, sconfinato da ogni parte, solleva e sprofonda ululando
montagne d’onde, un navigante siede su un battello, confidando nella debole imbarcazione; così l’individuo sta placidamente in mezzo a un mondo di affanni, appoggiandosi e
confidando nel principium individuationis» (citato in: F. Nietzsche, op. cit., p. 24).
6. Cfr. Storia della bellezza, a cura di U. Eco, Bompiani, Milano 2004, pp. 55, 56.
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presenza in entrambe le discipline del rispettivo opposto. Ciò è reso esplicito
da un altro parallelo in cui egli attribuisce l’apollineo allo strumento della
lira, mentre il dionisiaco è riferito al flauto.
La conciliazione dei due principi è d’altro canto il vero obiettivo del libro
di Nietzsche che proprio in ciò coglie il senso più profondo e “religioso” della
tragedia attica, ma anche di ogni forma artistica, fino a estendere la questione
al senso stesso dell’esistenza.
Il filosofo mette in evidenza come la tragedia, nata dal dionisiaco espresso
dal coro, vada progressivamente decadendo con la tragedia di Euripide per il
prevalere del principio apollineo che individua i personaggi. Si enfatizzano il
patos psicologico e la speculazione filosofica mentre recede la potenza “musicale” dionisiaca che dava vita e verità alle rappresentazioni. Ma notiamo
come nello stesso periodo anche per la scultura inizia una fase di decadenza,
che sarà conclamata nell’arte ellenistica. È l’intera cultura greca che decade: la serena contemplazione è sopraffatta da un’angosciosa inquietudine.
Questo turbamento della serenità greca e l’insorgere del caos, secondo la corrente interpretazione dovrebbe essere letto come l’avvicendarsi del dionisiaco
all’apollineo, viceversa Nietzsche attribuisce questa crisi proprio alla caduta
del dionisiaco.
Fare chiarezza su tale questione tra il confliggere dei due principi e la
loro conciliazione, diventa ora indispensabile.
Nietzsche inizia la sua opera con un parallelo tra la coppia apollineo e dionisiaco e la duplicità dei sessi al fine della generazione, che mette in evidenza
come egli intenda i due principi come ingredienti, che in seguito definisce
“fenomeni fisiologici”, essenziali alla produzione della vita dell’opera d’arte,
e dunque non semplicemente quali categorie particolari dell’espressione estetica. Sono principi assoluti, imprescindibili in ogni vera creazione. La complementarietà dei due principi costituisce, come Nietzsche sottolinea, «un
legame di fratellanza tra le due divinità: Dioniso parla la lingua di Apollo,
ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso. Con questo è raggiunto il fine
supremo della tragedia e dell’arte in genere» 7 .
La “fratellanza” dei due principi costituisce, dunque, l’essenza dell’arte
stessa, mentre il loro confliggere ne produce la crisi.
L’interdipendenza di apollineo e dionisiaco è d’altro canto costitutiva
della loro specificità, che cambia nel momento della scissione. Apollineo è
bellezza solare e serena, solamente grazie al dionisiaco, che, a sua volta, nella
forma determinata trova il modo di incanalarsi contenendo la forza dilagante.
La scissione porterà l’apollineo alla sclerotizzazione in forme false e morte, e
il dionisiaco, persa la forma di contenimento, al lacerante caos 8 .
7. F. Nietzsche, op. cit., p. 145.
8. «Questi mezzi di eccitamento sono pensieri freddi e paradossali – in luogo delle
intuizioni apollinee – e passioni roventi – in luogo delle estasi dionisiache – e più precisamente, pensieri e passioni imitanti in modo estremamente realistico, nient’affatto immerse
nell’etere dell’arte.» (ibid., p. 85).
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E’ necessario qui ricondurre apollineo e dionisiaco all’archetipo che Nietzsche vuole far emergere, archetipo che va al di là delle sue stesse teorizzazioni, che possiamo riconoscere nella viva esperienza dell’arte e della
vita.
Se infatti l’apollineo dalla sua origine nel sogno fino alla determinazione del concetto, è tutto ciò che nella mente umana è rappresentazione, in ciò si costituisce la coscienza di sé, la facoltà di conoscere mediante
un’oggettivazione. Il dionisiaco viceversa è l’energia in cui la vita stessa è
immersa, quel substrato vitale che anima tutti gli esseri nella più pura istintività, dunque una forza essenziale alla vita dell’individuo che tuttavia lo
trascende. Coscienza e natura, mente e corpo, rappresentazione e pulsione
vitale, divenire ed essere 9 sono i due orizzonti in cui sembrano costituirsi
apollineo e dionisiaco, antitetici in quanto il primo è individuazione e determinazione, il secondo è unità originaria. Nietzsche mette in evidenza come
originariamente le rappresentazioni apollinee nascano dal dionisiaco, sono la
forma che viene determinandosi da un’astratta necessità. Il fluire del substrato vitale trova una forma che lo contiene e si placa, la forza caotica diviene
intensità che si diffonde serenamente, come un fiume si distende in un lago.
Come per la tragedia, la scultura del periodo classico è l’espressione di
questa sinergia, essa è certamente apollinea perché espressione di una forma “bella” determinata, ma questa bellezza regge solo grazie al dionisiaco
da cui è sorta. Un lungo cammino che hanno dovuto percorrere gli artisti del periodo arcaico, preoccupati innanzitutto di fissare, anziché la forma
naturalistica, il ritmo che muove la rappresentazione. Gli scultori classici
chiamavano questa forza, che teneva insieme in una coerenza unitaria e dava potenza alla scultura, “euritmia” 10 , nella quale era imbrigliata la bella
sembianza della fisionomia. L’euritmia degli antichi greci, contrapposta alle
proporzioni matematiche dei canoni, era proprio l’attivazione del dionisiaco
9. Verrebbe spontaneo riferire l’apollineo all’essere (forma determinata che assume un
carattere eterno e immutabile) così come il dionisiaco al divenire (forza del costante mutamento). Ma l’apollineo inteso come essere, nella concezione di Nietzsche si presenta come
“illusione”; egli infatti scriverà: «Il divenire non è uno stato illusorio; è forse il mondo
dell’essere un’illusione.» (F. Nietzsche, Frammenti Postumi [1887-88], tr. it. e cura di G.
Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1989, fr. 11 [76], pp. 246-247). L’apollineo inteso
come essere costituisce l’“errore” della metafisica classica, che porta l’essere sul piano della
rappresentazione, cioè confonde l’ente con l’essere. Il dionisiaco inteso da Nietzsche come
“unità originaria” è dunque il motore immobile dell’essere che si presenta alla coscienza
come divenire: «l’essere, dunque, che unicamente ci è garantito, è in mutamento, non è
identico a se stesso» (ibid., fr. 11 [330]).
10. Panofsky riporta il concetto classico di “euritmia”, secondo la concezione di Vitruvio:
«essa deriva da quei “correttivi ottici” che, aumentando o diminuendo le dimensioni che
sarebbero corrette da un punto di vista oggettivo, neutralizzano le alterazioni soggettive
dell’opera d’arte». Donde, secondo Vitruvio, l’eurhythmia consiste in una «venusta species
commodusque aspectum»; essa è la qualità distintiva di ciò che Philo Mechanicus chiama
«ciò che appare grato ed euritmico al senso della vista». Cfr. E. Panofsky, Il significato
delle arti visive, tr. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1962, p.73, nota a piè di pagina.
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nell’apollineo, valore assoluto dell’arte per cui possiamo percepire la vitalità
della forma nella relazione vibrante del particolare con il tutto. Questo è
il nodo essenziale in quanto se nella musica tale tensione è evidente perché
sostanziale, nell’arte figurativa è difficile da cogliere, soprattutto per i profani che tendono a perdersi nelle suggestioni della rappresentazione, mentre
gli artisti più sensibili percepiscono questa tensione dei rapporti di energia
tra forme e colori come una vera e propria musica. D’altro canto che esista un pattern visivo in cui le energie luminose si ordinano in un tutto, con
una tensione tra attrazione e repulsione è stato messo in evidenza in diverse
occasioni non solo dagli artisti, ad esempio nella Psicologia della forma (Gestalt) 11 , questione che ha spiegazioni del tutto simili a quelle delle tensioni
sonore.
Quando, alla fine dell’età di Pericle, prevalendo il naturalismo della scultura, si comincia a perdere sensibilità alla percezione ritmica, inizia la decadenza. Vi è qui una scissione fatale, in quanto l’abilità tecnica è coltivata
in modo troppo analitico. Gli scultori ellenisti non riuscendo più a tenere insieme le due funzioni essenziali della creazione avvertono le forme, pur
di grande definizione realistica, come povere di vita, dunque iniziano a deformare e frammentare forme e atteggiamenti delle figure con una forzatura
dall’esterno; non più ritmo immanente che rende viva una forma statica nella
sua semplicità essenziale, ma complessità, impeto e movimento, come troviamo nel Laocoonte, soggetto mitologico che nelle spire del serpente esprime
efficacemente questa violenza che interviene dall’esterno a stravolgere i corpi.
L’apollineo separato dal dionisiaco tende a essere forma morta, ma gli estenuanti tentativi di vitalizzazione condotti dall’esterno diventano laceranti,
portando l’arte a una fase entropica.
Nel medioevo si ricomincia da capo abbandonando la definizione naturalistica, per ritrovare la sensibilità ritmica, a cui la rappresentazione è subordinata. Ciò è evidente nell’arte bizantina, in quella romanica e gotica.
Ancora una volta come nel periodo arcaico dell’antica Grecia si educa con
11. «La teoria della Gestalt dimostrò sperimentalmente che non è possibile comprendere una situazione di campo riducendo il campo stesso ai suoi elementi. Si va incontro
a un’interpretazione erronea quando tali elementi vengono descritti separatamente, per
presentare poi la somma di tali descrizioni come un’immagine coerente del tutto. Solo la
struttura globale, che implica l’interazione di tutte le componenti, potrebbe portare a una
soluzione esaustiva. Non è un caso che questa interazione sia stata osservata e riscontrata
praticamente soprattutto nelle arti, giacché è nella percezione sensoriale che essa si fa più
tangibilmente evidente. [. . . ] L’organizzazione fortemente strutturata delle opere d’arte
insiste sulla necessità di considerare i rapporti tra tutto e parti. Ogni opera d’arte riuscita
si fonda su un modello globale, generalmente un modello gerarchico. [. . . ] In un quadro
per esempio la forma, la luminosità e il colore in ogni parte sono fortemente influenzati
da quelli circostanti; ma questo forte assetto degli elementi circostanti ha una solida presa
su ogni parte, stabilizzandola e predisponendola al significato specifico che l’artista le ha
assegnato. Analogamente in biologia, la forma e la funzione di ogni organo sono strettamente controllate dal corpo come insieme globale.» (R. Arnheim, Per la salvezza dell’arte,
tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 235, 236).
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fatica la tensione astratta “musicale” di forme e colori a forgiare una nuova
figura. Sono le curve meticolose dei volti delle icone fatte di cerchiature tra
arcate sopraciliari, naso, bocca in perfetta sintonia ritmica con la curva di
mani, giunture e spalle, con le pieghe sintetiche delle vesti; così come la colorazione si fa sempre più vivace, nell’intensa calibrazione dei rapporti. Qui
la rappresentazione apollinea, tornata a una fase nascente, è sottomessa al
dionisiaco.
Nietzsche scrive: «Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele e
selvaggio e di un dominatore mite e dolce» 12 : quando le forme sono costituite assecondandone il flusso, il dionisiaco risplende, trasfigura le immagini
con un’intensità sublimante, una luce interiore che nella scolastica medievale assume rilevanza filosofica col fiorire della “metafisica della luce” e in
particolare con i concetti di risplendentia e claritas 13 , viceversa forme che
seguono altre coerenze, vengono spazzate via dalla forza dionisiaca che non
avendo modo di incanalarsi rompe gli argini.
Il dionisiaco è dunque “lacerazione” solo quando è scisso dall’apollineo e
si trova in conflitto con esso, viceversa nel suo scorrere è armonia sublime,
unità trascendente come è detto chiaramente da Nietzsche:
Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame tra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata, celebra
di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto: l’uomo.
[. . . ] Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con
esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai
12. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 72.
13. «In altri termini, se letteratura, pittura e costume manifestavano la ricca sensibilità cromatica di cui si è detto, il pensiero teorico, quando la tematizzava, registrava una
contraddizione. [. . . ] Tra le soluzioni che il pensiero scolastico dà al problema potremmo individuare due filoni: uno improntato a una cosmologia fisico-estetica, che ha i suoi
rappresentanti in Roberto Grossatesta e Bonaventura; l’altro improntato a una ontologia
della forma, teorizzata da Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. [. . . ] La luce, come
potenza creativa (e qui è indubbia la componente neoplatonica), diffondendosi si materializza a seconda delle resistenze che incontra nella materia. Con quello che è stato definito
un “bergsonismo” avanti lettera, Grossatesta traccia l’immagine di uno slancio vitale che,
al contatto con l’ostacolo materiale, si particolarizza in rapporti matematici. Secondo
Grossatesta, dunque, la vera ed effettiva ratio pulchri consiste nella risplendentia; ciò che
conta, sostanzialmente, è il risplendere della forma. [. . . ] Nel § 340 (S. Thomae Aquinatis,
In librum beati Dionysii de Divinis Nominibus Expositio) Tommaso chiarisce la propria
posizione: Dionigi dice che dalla Somma Bellezza proviene l’essere a tutte le cose esistenti
e che la claritas riguarda in proprio la bellezza; ebbene, la forma, ogni forma per la quale
le cose adiscono all’essere, costituisce una partecipazione della luce divina, “Omnis autem
forma, per quam res habet esse, est partecipatio quaedam divinae claritatis; et hoc est quod
subit, quod singola sunt pulchra secundum propriam rationem, idest secundum propria formam” (1. 6, exp. 360). Qui le ragioni di bellezza son ricondotte alla forma delle cose.
[. . . ] In questo testo la claritas è ricondotta al concetto di partecipazione, e per questa
via diviene una proprietà della forma, una proprietà ontologica, come una partecipazione
della vita, dell’essere.» (U. Eco, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, Bompiani,
Milano 1970, pp. 132 ss.).
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in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria. Cantando e danzando, l’uomo si manifesta come membro di una comunità superiore:
ha disimparato a camminare e a parlare ed è sul punto di volarsene
in cielo danzando. Dai suoi gesti parla l’incantesimo. Come ora gli
animali parlano, e la terra dà latte e miele, così anche risuona in lui
qualcosa di soprannaturale: egli sente se stesso come dio, egli si aggira
ora in estasi e in alto, così come in sogno vide aggirarsi gli dei. 14
Strappato il velo di Maia, lacerata l’illusione delle rappresentazioni, il
dionisiaco fluisce nell’“armonia universale”. Vediamo come il concetto di armonia sia dunque assunto su piani differenti da punti di vista opposti. Come
sembra testimoniare Eraclito, l’armonia dei grandi flussi naturali è percepita
dalla coscienza come caos 15 , in quanto le è estranea: la natura non si cura
né dell’individuo né delle sue rappresentazioni. Viceversa l’armonia della
rappresentazione assume sempre una coerenza “artificiale” condizionata dal
concetto di proporzione, misura, simmetria; nella scultura classica dominata
dalla matematica e dall’idea, nella poesia lirica dalla metrica e dalla rima,
razionalizzazioni del ritmo e della musicalità del verso.
Ma tornando al conflitto tra apollineo e dionisiaco, notiamo come questo
processo di decadenza delle arti investe la nostra cultura sin dal Rinascimento, quando dal perfetto equilibrio dei due principi, esattamente come nel
periodo classico dell’antica Grecia, prevale l’apollineo: il naturalismo dei ritratti, il luminismo del chiaroscuro, i simbolismi alchemici, la contaminazione
letteraria, la maniera.
Pur se nell’opera dei maestri si ritrova un equilibrio proficuo tra i due
principi vediamo come le continue crisi dell’arte, che succedono al Rinascimento, non saranno che un reiterato riproporsi di valori apollinei, spesso
in conflitto con un dionisiaco sradicato, fino all’Ottocento, quando l’arte
moderna pone un rinnovamento radicale.
L’interpretazione dell’arte moderna come “rottura”, annientamento della
tradizione per un “nuovo” eletto a valore, è riduttiva rispetto a ciò che è
realmente avvenuto alla fine dell’Ottocento. Si tratta infatti di una rivoluzione per cui improvvisamente dopo secoli di alienazione il dionisiaco ritorna
a vibrare nelle rappresentazioni. Una tradizione sclerotizzata da principi
apollinei è spazzata via per ricominciare da capo a “educare” le forme secondo principi dionisiaci. Sono dapprima gli Impressionisti che riscoprono
la forza vitale dell’accostamento dei colori complementari, e la loro organizzazione “astratta”. Cézanne farà di tale sensibilità la struttura portante
14. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., pp. 25, 26.
15. Eraclito, frammenti: [54] «L’armonia nascosta vale di più di quella che appare.»; [61]
«Il mare è l’acqua più pura e più impura: per i pesci essa è potabile e conserva loro la vita,
per gli uomini essa è imbevibile e letale.»; [72] «Da questo lógos, con il quale soprattutto
sono continuamente in rapporto e che governa tutte le cose, essi discordano e le cose in
cui ogni giorno si imbattono le considerano estranee». Cfr. Eraclito, I Presocratici, a cura
di H. Diels e W. Kranz, Bompiani, Milano 2006.
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dei suoi quadri, in cui la pennellata stessa pare distendere nelle immagini
una forza magnetica; in seguito Van Gogh e Gauguin, ispirati dalla vitalità dell’arte orientale prettamente dionisiaca, daranno massima enfasi alle
tensioni di energia. Gli artisti moderni fondando la loro espressività su una
rinnovata vitalità di forme e colori, sgravano di ogni responsabilità oggettiva il linguaggio di cui si servono, anzi testimoniano l’oggettività della forza
dionisiaca come valore portante del bello, proprio con una soggettivazione
dell’aspetto apollineo del linguaggio che ogni artista assume come completamente personale: lo stile. L’avanzata del dionisiaco sulle forme apollinee
tocca l’apice con Kandinskij che arriva a eliminare la stessa rappresentazione, per una pura “musica visiva” che gli astrattisti chiamavano “eterna
bellezza” 16 .
Questo ridimensionamento dell’apollineo per una valorizzazione del dionisiaco accade in tutte le arti: nella scultura con Brancusi, Marini, Moore,
nella poesia con Mallarmé, Laforgue, Pound, (Chlebnikov come gli astrattisti arriva a eliminare la struttura portante dei concetti per un puro formalismo 17 ). L’Ulisse di Joyce sembra costruito come una sinfonia. Anche nella
musica si abbattono le strutture razionali della tonalità: comincerà Wagner
con la sua modulazione infinita, mentre l’eliminazione dei recitativi operistici gli permetterà di costituire un grande involucro sonoro che tutto contiene
senza soluzione di continuità.
Ma la rivincita dell’apollineo non si fa aspettare. Nella seconda metà
del Novecento la crisi dell’arte moderna è dovuta a un fraintendimento, per
cui si interpreta l’innovazione del linguaggio fine a se stessa. L’“originalità”
dell’artista non è più la ricerca dell’origine, di quella forza dionisiaca che
liberata non necessita più di un canone, di una struttura formale predefinita per manifestarsi, trovando la via nel modo più confacente alla sensibilità
dell’artista, per cui “originale” in questo senso significa “autentico”, rinnovato
dall’interno in un collegamento diretto con la fonte. Al contrario l’accezione
decadente di “originalità” è attribuita a un “nuovo” puramente linguistico,
un atteggiamento espressivo determinato da un’analisi storicista: il senso sta
nel fare quello che non è ancora stato fatto. Questa concezione decadente
dell’arte viene chiamata “Arte Contemporanea” che non significa un’arte fatta dai contemporanei cioè “attuale”, ma un’arte che non poteva essere fatta
16. «Questi principi costituiscono altrettante fonti inestinguibili di eterna bellezza. Tutti
vi possono attingere, solo che abbiano occhi capaci di vedere il senso nascosto delle linee e
dei colori. E l’uomo si sente attratto, affascinato, trascinato!» (V. Kandinskij, M. Franz, Il
cavaliere azzurro, tr. it. di R.C. Onesti, De Donato, Bari 1967, cap. “I «Fauve» in Russia”,
di D. Burljuk, p. 46).
17. Velimir Chlebnikov, poeta russo (Tundutovo, 1885 – Santalov [Novgorod], 1922), nel
1909 pubblicò con altri il primo almanacco futurista (gruppo a cui si unì successivamente
Majakovskij). Opponendosi al simbolismo allora dominante e poi al contenutismo mimetico del regime, elaborò una poesia che valorizzava le possibilità espressive del linguaggio su
un piano di ricerca strettamente formale, antiaccademico, giocando con gli echi presenti
simultaneamente nelle parole, creando neologismi in un linguaggio regressivo asemantico.
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che in quel preciso momento, il cui senso non è autonomo, ma leggibile e valutabile solo in funzione di ciò che precede. Il valore degli artisti e delle opere
non si basa dunque su una qualità intrinseca, ma su un primato cronologico tutto portato sull’atto linguistico, a scapito del valore estetico originario
rinato dal dionisiaco che era la vera conquista dell’arte moderna. Scompare
dunque ogni educazione formale che possa dare vita alle rappresentazioni e
farle durare nel tempo, mentre il puro shock prodotto da un nuovo sradicato
dura poco, sempre meno quando le elaborazioni linguistiche esauriscono le
possibilità e cominciano a replicarsi in infinite modulazioni e variazioni.
Possiamo osservare come la crisi delle arti, determinata dalla scissione
tra apollineo e dionisiaco, riproduca sempre uno stesso schema. Dopo un periodo di coltivazione paziente, una volta raggiunta la padronanza dei valori
ritmici ai quali la rappresentazione è sottomessa, gli artisti sentono sempre
più la necessità di modulare in essi i dati analitici della coscienza. Alle forme
semplici, spesso simboliche, che prevalgono nella prima fase dionisiaca, succede l’analisi naturalistica e la narratività letteraria, più o meno idealizzate o
psicologizzate. L’avanzata dell’apollineo sull’armonia dionisiaca ne adombra
le caratteristiche fino a farne un fattore secondario dell’espressione estetica,
quindi, persa collettivamente la percezione, viene rimossa, come possiamo
notare negli stucchevoli busti scultorei della decadenza ellenistica greca e romana, sterili effigi di personaggi importanti prive di ogni esteticità, piuttosto
che in molte opere del manierismo, del barocco e rococò, dell’accademismo
neoclassico e del simbolismo romantico.
Per quanto riguarda l’arte moderna vediamo come questa dinamica decadente di ipostatizzazione dell’apollineo non investe che marginalmente
l’analisi naturalistica e psicologica, come era accaduto nelle crisi precedenti,
assume invece l’aspetto di analisi linguistica, modo intellettuale tipicamente
moderno di oggettivare la realtà.
La vitalità dionisiaca, che costituiva il senso portante delle prime espressioni moderne, lo splendore dei rapporti di forme e colori nella relazione essenziale tra il particolare e il tutto, è completamente persa di vista,
considerata quasi un modo antiquato della creazione.
Negli anni Ottanta l’arte Postmoderna, con una ripresa della figurazione nella pittura e nella scultura, sembrerebbe rimettere in campo i valori
estetici. Tuttavia questo tentativo di recupero di un equilibrio espressivo è
compiuto nella ignoranza dei valori dionisiaci, per cui si sono riprese solo
le categorie dell’espressività, colte da un punto di vista apollineo: espressionismo, surrealismo, neoclassicismo, neoromanticismo, eccetera, nelle più
varie combinazioni. Come nel manierismo cinquecentesco si rimane ancora
una volta impaludati in una logica che impedisce il recupero dell’integrità.
D’altro canto, le ideologie elaborate nel Novecento ipostatizzano i valori apollinei, nel totale rifiuto dell’aspetto estatico dionisiaco, costituendo un muro impenetrabile che chiude con un corollario dogmatico le vie a un vero
rinnovamento.
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
L’effetto diretto è il caos, cioè l’impossibilità di riconoscere coralmente un
valore stabile delle opere, la perdita collettiva della possibilità di affinamento
della sensibilità in un percorso di conoscenza, il disinteresse da parte del
grande pubblico.
L’analisi fin qui condotta prevalentemente sulle arti visive, è riportabile su quasi tutti i fronti dell’espressività, meno forse su quelli conservativi
dell’esecuzione musicale e della danza classica che, possedendo un canone,
mantengono l’unità dei due principi.
Se tale analisi è plausibile non è difficile dedurre che la rinascita delle arti
dovrebbe avvenire all’insegna del dionisiaco, o meglio, di una rieducazione
paziente che vede le rappresentazioni formarsi secondo principi di vitalità
della forma in quella interazione tra apollineo e dionisiaco che ogni volta
assume caratteristiche diverse. Ma il grande scoglio che si presenta è la
diffusa perdita di sensibilità a quelle qualità così particolari; motivo per
cui un modo espressivo che ogni volta ricominci da capo il ciclo è in un
primo tempo non percepibile e comunque frainteso dai più, che valutano le
opere secondo valori apollinei. Tuttavia si tratta di un’esigenza espressiva ed
esistenziale spontanea che possiamo credere stia già emergendo da qualche
decennio nell’opera di diversi artisti, poeti, scrittori, eccetera; per lo più
sporadicamente, mischiandosi a linguaggi formati secondo i criteri correnti
della decadenza apollinea. Probabilmente siamo in una fase di rieducazione
a quella sensibilità originaria, un processo lento e difficile, che vede gli artisti
all’opera per affinare forme e colori nella tensione tra il particolare e il tutto,
poeti che cercano di comporre seguendo un filo di unità più profondo della
semplice musicalità del verso o della coerenza dei significati; artisti e poeti
pur non sempre completamente consapevoli del grande mutamento di cui
sono loro stessi portatori.
Per entrare nel vivo farò qualche riferimento concreto – premetto che mi
fermerò alla pittura e alla poesia campi in cui sono impegnato direttamente
– non escludendo che il discorso possa essere esteso alle altre arti.
Già dalla fine degli anni settanta, quando lo Sperimentalismo era all’ordine
del giorno, alcuni artisti che recuperavano la pittura sull’onda postmoderna, hanno spontaneamente raggiunto una nuova consapevolezza. Un primo
orientamento provocatorio, allineato con gran parte delle mode dell’epoca,
espresso da immagini stucchevoli destinate a suscitare l’imbarazzo, è andato
man mano modificandosi parallelamente a una progressiva riscoperta dei valori della pittura. Jan Knap dichiara in un’intervista: «Ho imparato da solo,
sbagliando, mettendoci degli anni per capire qualità, proprietà, trucchi del
linguaggio pittorico, che avrei potuto mettere in pratica subito, se qualcuno
me li avesse insegnati» 18 .
La nuova avventura per costoro si volge presto in modo risoluto verso
un affinamento delle tensioni di forme e colori, costruendo immagini figura18. Jan Knap, a cura di E. Pontiggia, Edizioni Galleria Toselli, Milano 1993, p. 9.
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tive essenziali in cui i soggetti semplici paiono quasi il pretesto per porre in
campo armonia e bellezza astratta. Se tali rapporti sono pur riconoscibili in
qualsiasi dipinto o scultura elaborati con una minima educazione formale,
fin anche nei più dozzinali, in modo del tutto diverso in questa concezione
dell’arte figurativa possiamo osservare come tali valori, posti in primo piano,
essenzializzati e intensificati, cambiano radicalmente il senso delle rappresentazioni. Sono le Rovine di Salvo 19 , in cui le colonne dei templi, i capitelli,
i massi squadrati appaiono quali forme semplificate al fine di creare ritmi
precisi, tra i quali giocare con effetti di chiaroscuro, simulando rilievi con accentuata plasticità, su cui proiettare una luce impostata scenicamente, che
accende colori innaturali. Sul filo di una stessa ispirazione nascono gli scorci
mediorientali con moschee e minareti, i paesaggi tropicali con palme, immersi nei tramonti più suadenti. L’effetto complessivo dei suoi quadri ricorda a
tratti scenari di cartoni animati, ma con una consapevolezza formale raffinatissima, in cui le immagini semplificate, costruite come giochi di plastilina,
risultano immerse in una straordinaria unità di insieme, morbidezza di modulazioni chiaroscurali e cromatiche difficilmente riscontrabile nell’opera di
altri artisti 20 .
Questa apparenza da cartone animato o da illustrazione fiabesca, è la
caratteristica che ricorre nella pittura figurativa rinata dal dionisiaco, come possiamo notare negli artisti venuti alla ribalta negli anni ottanta col
gruppo Normal: Jan Knap, Milan Kunc e Peter Angermann 21 . Knap, intento a raffigurare sacre famiglie, paesaggi in cui angioletti partecipano alla
vita bucolica, utilizza per costruire la magia delle sue immagini stereotipi
dell’illustrazione per l’infanzia o della più ingenua iconografia religiosa 22 .
Kunc prolifera, con sfrenata immaginazione, in innumerevoli tematiche surreali, dove il gioco fantastico è condito da un umorismo incessante 23 . In
Angermann invece la pittura si fa più gestuale in un curioso incrocio tra libero schizzo illustrativo e pittura zen, in cui la spontaneità del segno è mossa
con intensità dei rapporti di insieme per dare vita a freschissimi paesaggi o
a giochi d’immaginazione in cui il mondo reale è trasfigurato in una sagra
comica e fiabesca 24 . Diversi altri sono gli artisti annoverabili su questo fronte, tra cui è il caso di ricordare l’islandese Helgi Friðjónsson 25 e le sue figure
nude sospese su sfondi tipicamente nordici, in comunione con una natura
19. Salvo (Salvatore Mangione), nato a Leonforte (Enna) nel 1947, è uno tra i più noti
pittori italiani.
20. Vd. Figura 1, p. 22.
21. Jan Knap, Chrudim (CZ), 1949; Milan Kunc, Praga (CZ), 1944; Peter Angermann,
Rehau (DE), 1945. Sono artisti riconosciuti a livello internazionale.
22. Vd. Figura 2, p. 23.
23. Vd. Figura 3, p. 24.
24. Vd. Figura 4, p. 25.
25. Helgi Þorgils Friðjónsson, Búdardalur (Islanda), 1953; ha partecipato alla Biennale
di Venezia del 1998.
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riconciliata 26 .
La forma figurativa costruita seguendo una sensibilità ritmica anziché
naturalistica, rende l’oggetto come svuotato di quei contenuti psicologici e
connotati spazio temporali che generalmente intervengono in un’immagine
“tradizionale”, per porre in primo piano la presenza pura dell’oggetto, la
sua vuota configurazione, che le energie dionisiache riempiono aumentandone lo spessore ontologico, donando alle immagini un’inspiegabile intensità,
una vitalità che perdura nel tempo. Vi è dunque un vero e proprio ribaltamento, per cui si privilegia la meraviglia, l’apparire dell’oggetto rinato nello
splendore, come a un primo sguardo. È il gioco riconducibile al dio Ermes, che trasformava gli oggetti in giocattoli, la tartaruga in lira, spiazzando
gli uomini portati a proiettare un senso di utilità nelle cose, di “normalità”
condizionata da automatismi di significazione.
Questa valorizzazione dell’essere in una nuova trasparenza solare della
rappresentazione delle cose, per un certo verso appare come una sorta di
regressione infantile, di gioco fatuo, di sberleffo dissacratore, ciò che costituisce la pars destruens di tale orientamento espressivo. Dal punto di vista
dell’essere tutto ciò che esiste è rilevante, cadono le gerarchie dei significati,
questione che consente agli artisti di porre, in un gioco formale rinnovato,
anziché contenuti e stilizzazioni “interessanti”, l’esatto contrario: ciò che è
considerato insignificante, basso, puerile, buffo, ridicolo.
La coscienza viene qui sottoposta a un processo alchemico, che è alla base di ogni rinnovamento spirituale («Beati gli ultimi» diceva Cristo),
valorizzando quella parte che la nostra cultura, nel suo moto idealizzante
e moralizzante, ha squalificato, quella parte intrisa di sensibilità sensoriale, sentimento e tenerezza, ma anche di viscerale vitalità, la cui rimozione
ha portato a diventare una sorta di scoria, di immondezzaio della coscienza,
provocando una scissione nell’intimo della personalità dell’uomo occidentale.
Vignette, barzellette, pupazzetti, peluche che invadono cartolerie, mercatini, negozi di gadget, autogrill, sono gli stereotipi che emergono come un
fiume in piena dalle regioni della rimozione culturale 27 . In ogni unità origi26. Vd. Figura 5, p. 26.
27. Julia Kristeva in un’intervista con Catherine Francblin afferma: «Il dilagare attuale
dell’immagine nella cultura dei mass media, l’irrompere di contenuti regressivi nel senso
di adolescenziali, infantili, sentimentali, tenderebbe a provare che questo individuo razionale e maggiorenne è un puro fantasma della psicanalisi. Il bisogno dell’immaginario in
effetti non smette di farsi sentire e non si esaurisce. C. F. – L’immaginario al quale fa
appello la cultura della televisione e del fumetto le sembra attuare le stesso ruolo catartico
dell’immaginario sollecitato dai testi sacri? J. K. – Si, certamente. La cultura dei mass
media è meno codificata, ma ha la stessa universalità; noi non abbiamo un solo libro da
mettere in immagini e forme, ma molti, ed è per questo che assistiamo a un polverio di
forme, d’immagini. Queste appaiono mediocri rispetto ai grandi miti che parlano della
vita e della morte, ma i “piccoli dettagli”, che veicolano altrettanto bene i discorsi sul
divano quanto la televisione, non sono senza effetto, così come le immagini pie, sui nostri
discorsi quotidiani. Viviamo un’atomizzazione dell’immaginario. È meno maestoso, meno
imponente di una cattedrale, ma viene a essere toccato lo stesso registro dell’apparato psi-
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naria, come nel mondo infantile e primitivo, non è possibile fare distinzione
tra alto e basso, serio e giocoso, commovente e satirico, non è possibile distinguere l’impegno intellettuale dall’ingenuità dei sentimenti. Se dunque nelle
opere di questi artisti, da una parte possiamo riconoscere un certo grado
di regressione, il riavvicinamento all’origine fa emergere stati profondi della
coscienza che prendono corpo in forme essenziali pregne di forza simbolica.
Così come, d’altro canto, il lavoro di semplificazione ritmica è coordinato
con intensità intellettuale in particolari geometrizzazioni, tagli prospettici,
sapienti giochi di elusione dei significati, in una combinazione inedita che caratterizza le immagini in modo decisivo. Se queste opere a un primo sguardo
possono suscitare imbarazzo, dovuto al presentarsi così esplicito degli stereotipi, in un secondo tempo possono condurre a percepire la vitalità di una
nuova sintesi e operare una trasformazione.
Per quanto riguarda la poesia il discorso si fa più difficile in quanto la
nuova compresenza di apollineo e dionisiaco, che mi sembra di cogliere in
alcuni autori contemporanei, non si realizza in modo sempre lineare e non
così evidente. Per di più, se nella pittura è possibile fare una distinzione
tra mezzi formali astratti e rappresentazione, cosa che ha reso plausibile
un’arte astratta, nel verso poetico il significato e il significante sono così
intimamente uniti che ogni intervento parziale, tanto nella creazione quanto
nella interpretazione, introduce una forzatura.
A. Carrera, un critico dei nostri giorni, nella recensione a un libro di un
giovane poeta (Luigi Aliprandi, La sposa perfetta, 1998) si esprime così:
Una recente tendenza della poesia italiana che si potrebbe raggruppare
sotto le categorie della scorrevolezza del verso e della trasparenza del
significato. [. . . ] Molti sono i padri di questa poesia così tersa, non
solo i lontani crepuscolari. Sia come sia, la totale rinuncia all’aspro e
al “pietroso” produce proprio quella sorta di piacevole veleggiare sulla
superficie della sintassi. [. . . ] Il mormorio di questa voce è così delicato
che non può permettersi note forti. 28
La metafora “veleggiare” esprime efficacemente il fluire del dionisiaco in
un’armonia che non è corretto identificare semplicemente con la musicalità
del verso, in quanto si tratta di una musica più profonda, in cui immagini
e concetti sono coinvolti come in una danza che muove dall’intimo della parola. Se Carrera coglie ciò in “una recente tendenza della poesia italiana”,
chico. C. F. – Le opere dei giovani artisti che si ispirano alle immagini popolari sarebbero
dunque le nostre immagini pie? J. K. – Credo in effetti che queste immagini abbiano un
impatto terapeutico. Hanno il valore di uno spot effimero perché captano a un certo punto
un’angoscia che è potuta passare in tale fumetto o tale immagine televisiva, angoscia che
esse incorniciano e rappresentano in tale modo che la nostra attenzione si trova attirata qui
e ora, come fa il lavoro analitico.» (J. Baudrillard, Appuntamenti con la filosofia, Politi,
Milano 1989, pp. 70 ss.).
28. A. Carrera, recensione del 2003 a La sposa perfetta di Luigi Aliprandi (Marsilio,
Venezia 1998), su Sinestesie, rivista letteraria on line: http://www.rivistasinestesie.it/
archivio/letteratura/scritti/sposa_perfetta.pdf.
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occorre chiarirne meglio le provenienze. I poeti sanno bene di cosa si tratta:
è il “canto” più autentico della lirica di ogni tempo, di cui probabilmente
possiamo trovare l’origine nella nostra cultura nel Cantico dei cantici, presente in modo evidente nella poesia medioevale, quasi questa qualità fosse
allora insita nella stessa lingua. Al massimo grado ciò lo troviamo espresso
nella celebre poesia di Dante: «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel, ch’ad ogni vento / per
mare andasse al voler vostro e mio» 29 . Così come altro momento esemplare
emerge all’inizio de Il sabato del villaggio di Leopardi: «La donzelletta vien
dalla campagna, / In sul calar del sole, / col suo fascio dell’erba; e reca in
mano / un mazzolin di rose e di viole, / onde, siccome suole, / ornare ella si
appresta / dimani, al dì di festa, il petto e il crine» 30 .
Tanto più potente e luminosa è la forza interna del verso quanto più
semplici si fanno immagini e concetti, spariscono le metafore, fino a dare
l’impressione che le parole brillino di una luce propria, colme di splendore
e di senso, un senso che non è spiegabile se non semplicemente parlando di
bellezza e di vitalità. Dal punto di vista apollineo, alla ricerca di tematiche e
significati interessanti, metafore suggestive, punto di vista alieno dalla sensibilità dionisiaca, queste sono banalità, favolette per bambini, il che dimostra
quanto sottile sia il crinale tra sublime e banale.
Dunque non si tratta di atteggiamento stilistico, o artificio retorico realizzabile con semplice abilità; tuttavia questa intensità interna non è così
facilmente distinguibile dalla plasticità del verso, dalla musicalità indotta
dalla rima e dalle assonanze, con cui è spesso impastata; esattamente come
in pittura lo splendore ritmico dell’immagine non è distinguibile facilmente
dalla semplice vivacità dei colori o da una sintesi geometrizzante delle forme.
È forse questo il motivo per cui con la rivoluzione della poesia moderna,
nella quale riemerge il dionisiaco, si tendono a eliminare la rima e la forma
chiusa, dove l’armonia è condizionata da principi razionali, per lasciare fluire
liberamente il verso nella sua più spontanea vitalità. Ciò lo riconosciamo nel
languore di Corazzini: «Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. /
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. [. . . ] Le mie tristezze sono
povere tristezze comuni. / Le mie gioie, furono semplici, / semplici così, che
se io dovessi confessarle a te arrossirei.» 31 .
È interessante osservare come nei poeti del primo Novecento la potenza
dionisiaca viene più evidenziata raffreddando la stessa musicalità del verso
che tendeva a prendere la mano in un “ondeggiare” che rischiava di svuotarsi, come a tratti in Palazzeschi, Gozzano, Moretti, Onofri e altri. Questo
29. D. Alighieri, sonetto LI 8 – LIII 14 (D. Alighieri, “Rime”, in: Id., Le Opere di Dante,
testo critico della Società Dantesca Italiana, Firenze 1921, p. 73).
30. G. Leopardi, “Il sabato del villaggio”, in: Id., Tutte le opere, a cura di E. Trevi e L.
Felici, Newton & Compton, Roma 1997-1998.
31. S. Corazzini, “Desolazione del povero poeta sentimentale”, dal Piccolo libro inutile
(Id., Liriche, Ricciardi, Napoli 1968, p. 77).
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verso “asciutto” lo troviamo nel primo Ungaretti de L’allegria, forse uno dei
momenti più alti di tutto il Novecento: «Si chiamava / Mohammed Sceab /
Discendente / di emiri di nomadi / suicida / perché non aveva più / Patria.
/ Amò la Francia / e mutò nome. / Fu Marcel / ma non era francese / e
non sapeva più / vivere / nella tenda dei suoi / dove si ascolta la cantilena
/ del Corano / gustando un caffè. / E non sapeva / sciogliere / il canto /
del suo abbandono» 32 . Questo momento tuttavia non dura molto, infatti,
già nel Sentimento del Tempo 33 , perso il “dono” che aveva ispirato il primo libro, Ungaretti sembra regredire in un ritmo pesante, reintroducendo
tutto un apparato retorico ridondante, perdendo limpidezza della parola e
trasparenza.
Bisognerà arrivare al primo Bertolucci e a Sereni perché il dionisiaco
ritrovi la sua impalpabile intensità, in particolare in Diario d’Algeria 34 e in
momenti altissimi de Gli strumenti umani: «Tutto si sa, la morte dissigilla.
/ E infatti, tornavo, / malchiusa era la porta / appena accostato il battente.
/ E spento infatti ero da poco, / disfatto in poche ore» 35 . Ma anche per
Sereni il sottile equilibrio tra apollineo e dionisiaco decade in una china che
sembra ormai trascinare tutta la poesia occidentale, presa nel vortice dello
sperimentalismo.
Persa collettivamente la percezione del dionisiaco, la ricerca si dinamizza
sul piano linguistico, questione che porterà nel giro di qualche decennio alla
lacerazione, nel tentativo estenuato di vitalizzare un linguaggio cristallizzato.
È una poesia spesso oscura, catafratta e frammentaria, a tratti visitata da
eccessi di una musicalità esasperata e fittizia, virtuosismi di plasticità, piuttosto che contenuti moraleggianti. Per alcuni il ricorso al dialetto è lo strenuo
tentativo di ritrovare quel contatto con l’origine che sembrava irrimediabilmente perduto. Tuttavia non mancano nella seconda metà del Novecento
continui ritorni sotterranei, tentativi di recuperare una parola che sgorghi
limpida. Sembra quasi che il “bello” tenti di farsi strada nell’“interessante”,
che ne aveva preso il posto. In alcuni casi con intere poesie di un prodigioso e totale recupero dell’ispirazione dionisiaca, come troviamo in Umberto
Bellintani e in Maurizio Cucchi.
L’ultimo libro di Bellintani, Nella Grande Pianura, pubblicato alla fine
del millennio, poco prima della morte, racchiude una scelta di tutta la sua
produzione cominciata nel dopoguerra. È evidente in tutto il percorso la
discontinuità dei due momenti, ma verso la fine del libro troviamo questa
poesia:
Mezzogiorno da tanto
32.
33.
34.
35.
1965,
G. Ungaretti, L’allegria, Mondadori, Milano 1942, pp. 35, 36.
Id., Il sentimento del tempo, Mondatori, Milano 1943.
V. Sereni, Diario D’Algeria, Einaudi, Torino 1998.
V. Sereni, “Le sei del mattino”, da Gli strumenti umani (Id., Poesie scelte. 1935a cura di L. Caretti, Mondadori, Milano 1973, p. 64).
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è suonato.
Ora mi sento come a Monza
il giovane nato
alla poesia.
Quale disponibilità, che sentimento!
E che sole splendente
ora sulle campagne
della Lombardia.
E quale vento mi ha portato, quale vento ignaro mi trasporta
per i cieli della mia
vita incantata.
Passata poco più
di mezz’ora suona
un’ora indistinta il campanile.
Ora la primavera è spenta,
ora mai più sulla terra
mi bagnerà gli occhi il canto
azzurro delle campagne
nel giorno santo. 36
La meravigliosa bellezza di questa poesia testimonia in ogni sua parte lo
stato estatico trascendente, contemplativo, intimamente sacro dell’ispirazione
dionisiaca, come troviamo in questa poesia di Cucchi, da Poesia della fonte,
che diventa quasi emblema del momento di passaggio attualmente in atto:
Non sono più nella mia casa,
ma in questa sede ariosa che mi concede tutto.
La sua tranquilla geometria
dà ingresso al chiaro per i corpi
umidi e leggeri sul terrazzo.
Ascolto di qui le voci della piazza,
osservo come un lago il mare che si apre
nel bosco e se c’è vento
una domestica campagna di cicale
che a mezzogiorno protegge i nostri passi.
Ma a questo punto la poesia cambia registro
Dipinta di azzurro e di bianco
la Brise Marine raccoglie gente che non ha
questi giardini riflessi negli occhi,
né le tracce feriali di una pigra incuria.
Mi affaccio distante per vedere
quei musi di pesce e la vernice
azzurra e viola che cola sulla pelle
di chi non sosta quando il tempo non ha più direzione:
nella pianura totale, deserta, e nel confine a taglio che si annebbia. 37
36. U. Bellintani, Nella grande pianura, Mondadori, Milano 1998, p. 152.
37. M. Cucchi, “La casa al mare”, in: Id., Poesia della fonte, Mondadori, Milano 1993,
p. 19.
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Vediamo come i versi della prima parte appaiano compatti, nella fresca
fluidità dell’ispirazione, stato contemplativo mosso da quello stesso “vento
ignaro” di cui parla Bellintani. Sono percezioni sensoriali che emergono in
trasparenza da un sottofondo musicale avvolgente che tende a svuotare i
contenuti di ogni determinazione, luminosa sospensione da cui è escluso ogni
giudizio. Al contrario, nella seconda parte il ritmo sembra perdere la fluidità
per concentrare l’espressività sui contenuti: la determinazione di un luogo,
con particolari connotati visivi, il giudizio sulla “gente” che «non ha questi
giardini riflessi negli occhi, / né le tracce feriali di una pigra incuria», giudizio
che arriva al disgusto e all’insulto “musi di pesce” incapaci di «sosta quando
il tempo non ha più direzione», che manca cioè proprio di quello stato che
la prima parte della poesia ci fa vivere così intensamente. Si tratta dunque
di due stati opposti emergenti da zone diverse della coscienza, che portano a
esiti estetici altrettanto diversi. Nella prima parte vediamo come l’intensità
dionisiaca sia distribuita orizzontalmente in modo uniforme, portando durante la lettura, come nell’ascolto della musica, al crescere progressivo di
uno stato particolare, un sentimento del bello che non è ascrivibile completamente alla particolarità del verso, delle immagini, dei contenuti, mentre
sembra invece prodursi in uno splendore interno, che si deposita come esperienza diretta di rinnovata vitalità. Viceversa la seconda parte appare come
“raccontata” in immagini opache, si creano suggestioni nella descrizione dei
colori, delle situazioni, dove a tratti interviene, nel lampeggiare verticale
del verso, la bellezza apollinea dei concetti: «le tracce feriali di una pigra
incuria», «nel confine a taglio che si annebbia».
Occorre dire che Cucchi negli anni successivi ha scritto un’altra versione
di questa poesia, pubblicata in L’ultimo viaggio di Glenn 38 , in una sintesi
che privilegia la prima parte, nella tendenza tuttavia a rimescolare i due
momenti, nella prima versione così distinti.
Continuando l’excursus sulla poesia del Novecento italiano possiamo cogliere come nelle generazioni successive proprio quando negli anni settanta
la poesia è nel momento critico della crisi apollinea, il dionisiaco sembra
irrompere nella coscienza di due poeti con una forza alla quale loro stessi
non riusciranno a resistere: Beppe Salvia (1954-1985) e Giuseppe Piccoli
(1949-1987), entrambi suicidi. Non a caso è lo stesso periodo in cui la pittura incominciava a recuperare la percezione dei rapporti ritmici di forme e
colori, nei decenni precedenti completamente tramontati.
Salvia, dalla poesia Lettera: «Viene la sera, è vero, silenziosa / piove una
luce d’ombra e come / fossero i nostri sensi inevitabili / improvvisi, noi lamentiamo / una più vasta scienza» 39 . Piccoli, da Fratello Poeta: «Baci. Ma
nell’aria c’è una / malattia dell’Essere la chiami / noia per ripetermi e quindi
evadere ogni possibilità di offesa. / La chiamo “mondo” e, rinnovandomi, /
38. M. Cucchi, L’ultimo viaggio di Glenn, Mondadori, Milano 1999, p. 49.
39. B. Salvia, “Lettera”, in: Id., Cuore, Rotundo, Roma 1988.
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c’è questa splendida facoltà di intesa» 40 .
In questi due poeti il dionisiaco si presenta a uno stato quasi puro, come
argento vivo, pericolosa sostanza che sgorga nei loro versi con una rara fluidità, da cui sembra che i concetti stiano prendendo forma, ma che rimangono
spesso in una sorta di indeterminatezza, tutti risonanti dell’originario afflato
cosmico da cui sono sorti.
Questa predisposizione dionisiaca del poeta lirico, è descritta come esperienza personale da Schiller e riportata da Nietzsche nella Nascita della
tragedia come esempio che sembra sancire la stessa essenza della lirica:
Sul processo del poetare Schiller ci ha illuminati con un’osservazione
psicologica per lui stesso inesplicabile, ma che non pare dubbia; egli
confessa infatti di aver avuto davanti a sé e in sé, come stato preparatorio prima dell’atto del poetare, non già una serie di immagini, con
un’ordinata causalità di pensieri, ma piuttosto una disposizione musicale (“Da principio il sentimento è in me senza oggetto determinato e
chiaro; quest’ultimo si forma solo più tardi. Precede una certa disposizione d’animo, musicale, e solo a questa segue in me l’idea poetica”)
se ora aggiungiamo a ciò il fenomeno più importante di tutta la lirica
antica, l’unione, anzi l’identità, considerata dappertutto naturale, del
lirico con il musicista, – in confronto alla quale la nostra lirica moderna
appare come il simulacro di un dio senza testa – possiamo poi, in base
alla nostra metafisica estetica dapprima precedentemente esposta, spiegarci il lirico nella maniera seguente. Dapprima egli è divenuto, come
artista dionisiaco, assolutamente una cosa sola con l’uno originario, col
suo dolore e la sua contraddizione, e genera l’esemplare di questo uno
originario come musica, [. . . ] ma in seguito, sotto l’influsso apollineo
del sogno, questa musica gli ridiventa visibile come in un’immagine di
sogno simbolica. Quel riflesso senza immagine e senza concetto del dolore originario nella musica, con la sua liberazione nell’illusione produce poi un secondo rispecchiamento, come singola immagine o esempio.
L’artista ha già annullato la sua soggettività nel processo dionisiaco:
l’immagine che ora la sua unità col cuore del mondo gli mostra è una
scena di sogno, che dà una figura sensibile a quella contraddizione e a
quel dolore originari, oltre che alla gioia originaria dell’illusione. L’“io”
del lirico risuona dunque dall’abisso dell’essere: la sua “soggettività”
nel senso dell’estetica moderna è un’immaginazione. 41
Nei versi di Salvia e di Piccoli i concetti sembrano formarsi da un’urgenza
che li precede, dinamica, che tende a “svuotare” le parole facendovi emergere
la potenza simbolica degli archetipi, che si riversa in una singolare tensione
gnomica, oracolare. Beppe Salvia: «Non luci non serene passioni di / nuda
vastità dimorano gli uomini, / ma vagabonde mete e improvvise / rauche voci
come fosser nodi / d’un filo che circonda, perimetro, / la rete che pescano
[. . . ]», «Mi sveglio e veglio ancora il canto / di quest’acqua che distratto
40. G. Piccoli, da “Fratello poeta”, in: Id., Poesia Tre, Guanda, Milano 1981, p. 208.
41. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., pp. 40, 41.
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seguito / a distrarre da me come se un canto / qual è, mai forse udito, è quel
che medito.» 42 . Giuseppe Piccoli: «Questa fonte che lava la mia veste / ora
tu la conosci, la devi consacrare: / e la fede tenuta alla massa della roccia
rupestre / tu la devi svuotare nell’abisso: / in quel frastuono dell’acqua che
non s’imbriglia / tu saprai di te stessa [. . . ]», «Verrà il colore dell’ombra /
a darci pace e giustizia d’anima: / lo sento che verrà, e sarà / più che una
biga con tanti cavalli. / Né io vile sarò: sarà un segno / trovato nel libro tre
volte aperto, / tre volte chiuso, quando al Signore / tocca d’ungere d’olio il
capo: / e la grazia d’un baleno su di noi, / sulle nostre parole temendo dette
/ sulle impaurite parole che non si fanno» 43 .
Vi è qualcosa di inattuale in questa poesia così “alta”, non condizionata
da alcuna determinazione spazio temporale, poesia da cui sgorga una “materia” rigenerata, una parola pregna di segreti di rigenerazione, in cui risuona
il richiamo “tragico” dell’origine.
Se in Salvia e in Piccoli il dionisiaco invade pericolosamente i loro versi e le loro vite, vediamo come nel 1980 esce un libro singolare, in cui per
una straordinaria combinazione di equilibrio, apollineo e dionisiaco sembrano coincidere. Si tratta di Hora serrata retinae di Valerio Magrelli, un libro
scritto da un poeta ventenne che ha una spiccata propensione intellettuale.
«Io abito il mio cervello / come un tranquillo possidente le sue terre. / Per
tutto il giorno / il mio lavoro è nel farle fruttare / il mio frutto nel farle
lavorare. / E prima di dormire / mi affaccio a guardarle / con il pudore
dell’uomo / per la sua immagine. / Il mio cervello abita in me / come un
tranquillo possidente le sue terre.» 44 . La reciprocità di coscienza ed essere
sembra dichiarata in questa poesia, che nel flusso di un’ispirazione pacata,
riflessiva («Bisogna riflettere sulle idee / come fossero formaggi / e farle bollire e farle / fermentare.» 45 ) con un ritmo sicuro, un verso trasparente e
leggero, indaga i meccanismi del pensiero, le strutture originarie della coscienza, che emergono in uno scenario domestico, disciplinato dalla scrittura
e dalla lettura. «Non ho un bicchiere d’acqua / sopra il letto: / ho questo
quaderno. / A volte ci segno parole nel buio / e il giorno che segue le trovo
/ deformate e mute. / Sono oggetti notturni / posati ad asciugare, / che nel
sole s’incrinano / e scoppiano. [. . . ]» 46 La “scrittura” assume qui il senso di
una disciplina spirituale, laboratorio alchemico dove le riflessioni sul pensiero
che si fa linguaggio diventano, in passaggi metaforici, immagini originarie di
vasta portata simbolica. «Ogni sera chino sul chiaro / orto delle pagine, /
colgo i frutti del giorno / e li raduno. Allineati / su filari paralleli corrono
i pensieri, / tracce di accorti innesti. / La mia vita è legata / al frugale
42.
43.
44.
45.
46.
B. Salvia, Cieli celesti, cit.
G. Piccoli, op. cit., p. 209.
V. Magrelli, Hora serrata retinae, Feltrinelli, Milano 1980, p. 32.
Ibid., p. 84.
Ibid., p. 48.
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raccolto, / il suo consumo è quotidiano, dimesso» 47 .
Tuttavia negli anni successivi, come accadde a Valery, in Magrelli prevale
l’aspetto intellettuale, sembra che l’ispirazione che aveva dettato un libro così
straordinario sia venuta a esaurirsi.
Vediamo dunque come questa rinascita collettiva della percezione del dionisiaco, e della sua valorizzazione, appare sin dalla fine dagli anni settanta
come una lotta faticosa dagli esiti discontinui, questione d’altro canto fisiologica in quanto non si tratta affatto di una scelta totalmente cosciente ma
di una disposizione d’animo, di una tensione creativa così lontana da ogni
atteggiamento stilistico. Pare che le file dei poeti che stanno coltivando questo orientamento vadano ingrossandosi; tra le generazioni recenti Annalisa
Manstretta (1968) mi sembra stia lavorando in questo senso con profitto. «Il
nostro amore non è un’alleanza / per sopravvivere a condizioni difficili: /
bilocale con cucina abitabile. / Senti come la nostra organizzazione / parla
un suo misterioso linguaggio / vicino a quello degli uccelli / che stanno sopra
il ciliegio. / Siamo semplici e millenari / come le migrazioni delle antilopi /
all’alterna stagione» 48 .
“Semplici e millenari” scrive Manstretta nella sua poesia trasparente,
densa di immagini originarie, è questa la meta che si presenta ora per noi in
una rinnovata disposizione esistenziale e creativa, così lontano dal concetto
di “nuovo” che la cultura moderna ha portato all’esasperazione. Una cultura
che, nel tentativo di una radicale oggettivazione delle rappresentazioni, ha
perso la facoltà di percepire il soffio dell’invisibile che ordina e sorregge il
mondo.
Nicola Vitale
Nicola Vitale, poeta e pittore, è nato a Milano, dove vive, nel 1956. I suoi dipinti sono
stati esposti in mostre personali e collettive, in gallerie private e spazi pubblici, in Italia,
Svizzera, Stati Uniti e Islanda. È stato incluso nella nuova edizione dell’antologia: Poeti
italiani del secondo Novecento (Milano, 2004). Tra i suoi ultimi lavori poetici si ricorda la
raccolta: Condominio delle sorprese (Milano, 2008). Dei suoi più recenti saggi ricordiamo
La crisi e il paradosso dell’arte contemporanea. Riflessioni sulla fine della modernità e
sulla morte dell’arte (Mutamenti, Lugano 2008).
47. Ibid., p. 27.
48. A. Manstretta, La dolce manodopera, Moretti e Vitali, Milano 2006, p. 38.
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Figura 1: Salvo, Paesaggio, 1994 (olio su tela, cm. 160×270)
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Figura 2: Jan Knap, senza titolo, 1989 (olio su tela cm. 80×110)
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Figura 3: Milan Kunc, Magic, 1996 (olio su tela, cm. 125×95)
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Figura 4: Peter Angermann, Picnic di orsi, 1988 (olio su tela, cm. 170×200)
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Figura 5: Helgi Friðjónsson, Il dado, 1991 (olio su tela cm. 161×140)
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