Anno XXXIII n. 2, Febbraio 2003 Ordine Direzione e redazione Via Appiani, 2 - 20121 Milano Telefono: 02 63 61 171 Telefax: 02 65 54 307 dei giornalisti della Lombardia http://www.odg.mi.it e-mail:[email protected] Spedizione in a.p. (45%) Comma 20 (lettera b) dell’art. 2 della legge n. 662/96 Filiale di Milano Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo La Finanziaria per il 2003 completa la riforma avviata dalla Finanziaria per il 2001 (legge 388/2000) nei riguardi dei pensionati di vecchiaia I “vecchi” pensionati di anzianità possono comprarsi il diritto al cumulo “A decorrere dal 1º gennaio 2003, il regime di totale cumulabilità tra redditi da lavoro autonomo e dipendente e pensioni di anzianità a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima, previsto dall’articolo 72 (comma 1) della legge 23 dicembre 2000 n. 388, è esteso ai casi di anzianità contributiva pari o superiore ai 37 anni a condizione che il lavoratore abbia compiuto 58 anni di età. I predetti requisiti debbono sussistere all’atto del pensionamento”. Questo principio, stabilito dal primo comma dell’articolo 44 della Finanziaria 2003 (legge n. 289/2002), merita di essere tradotto e volgarizzato. In sostanza chi percepisce la pensione di anzianità dal 1° gennaio 2003, avendo maturato all’atto del pensionamento (appunto il 1° gennaio 2003) i due requisiti (37 anni di contributi e 58 anni di età), può come i titolari di pensione di vecchiaia (o di vecchiaia anticipata) - cumulare liberamente l’assegno Inps (o Inpgi) con i redditi derivanti sia da lavoro dipendente sia da lavoro autonomo. La legge lancia un salvagente anche ai pensionati di anzianità, che percepiscono (almeno dal dicembre 2002) l’assegno maturato con la precedente e doppia regola dei 57 anni di età e dei 35 anni di contributi (in base all’articolo 1, comma 25, della legge 335/1995 assorbito dall’articolo 4 del Rego- L’Assemblea degli iscritti giovedì 27 marzo 2003 «Oro» a 18 colleghi per 50 anni di Albo Milano, 21 gennaio 2003. Sono 18 i colleghi (13 professionisti e 5 pubblicisti) che quest’anno compiono i 50 anni di iscrizione negli elenchi dell’Albo. Riceveranno la medaglia d’oro dell’Ordine della Lombardia in occasione dell’assemblea annuale degli iscritti che si terrà giovedì 27 marzo (h 15) al Circolo della Stampa. Ed ecco i loro nomi: PROFESSIONISTI: Castellani Adriana, Contarini Giorgio, Dall’Ara Renzo, Di Bella Michele, Franchini Vittorio, Frigerio Mario, Monti Massimiliano, Negri Rino, Nidasio Grazia, Passi Mario, Pardieri Giuseppe, Ruggeri Ivo Giovanni, Torelli Rimoldi Clarissa. PUBBLICISTI: Ceppellini Vincenzo, Falchetti Antonia, Guglielmi Franco, Pozzi Alfredo, Zorzi Renzo. ORDINE 2 2003 Analisi di Franco Abruzzo e una lettera di Ezio Chiodini alle pagine 2-6 lamento Inpgi). Chi, infatti, risulta titolare di una pensione di anzianità (a carico dell’Inps o di ente sostitutivo come l’Inpgi) alla data del 1° dicembre 2002 e paga (entro il 17 marzo 2003) un determinato “pedaggio” può assicurarsi il beneficio (della libertà di cumulo) per tutta la vita (comma 2 dell’articolo 44 della Finanziaria 2003). In sostanza i “vecchi” percettori della pensione di anzianità possono “comprarsi” il diritto alla libertà di cumulo La Finanziaria per il 2003 completa in sostanza la riforma avviata dalla Finanziaria per il 2001 (legge 388/2000) nei riguardi dei pensionati di vecchiaia. Questi hanno la libertà di cumulo dal 1° gennaio 2001. Se l’Inpgi è una cassa privatizzata non può non comportarsi come quelle degli avvocati e dei ragionieri, che riconoscono la libertà di cumulo ai propri iscritti; se è, ed è, ente sostitutivo dell’Inps, l’Inpgi deve seguire la normativa dell’Inps come impone il punto 4 dell’articolo 76 della legge n. 388/2000: “Le forme previdenziali gestite dall’Inpgi devono essere coordinate con le norme che regolano il regime delle prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza sociale obbligatoria, sia generali che sostitutive”. Non c’è una terza via. L’Inpgi è con le spalle al muro: il principio costituzionale dell’uguaglianza di trattamento non lascia spazi di manovra. Sulle ricadute sostanziali dell’articolo 3 della Costituzione, la Consulta ha scritto, con la sentenza 437/2002, parole univoche e limpide. SOMMARIO Pensioni e lavoro I “vecchi” pensionati di anzianità possono comprarsi il diritto al cumulo pag 2 Libertà di cumulo: i giornalisti considerati cittadini di serie C pag 6 Detrazioni e ritenute Favoriti dal fisco i giornalisti che trasferiscono la residenza pag 7 Diritto d’autore e Inpgi I giornalisti-autori non sono “clienti” dell’Inpgi-2 Lo dicono Cassazione e Ministero delle Finanze pag 8 Le ferie sono irrinunciabili e non possono essere monetizzate pag 10 Viaggio nell’inferno del mobbing senza mai arrendersi pag 11 La libertà di stampa vittima delle tensioni internazionali pag 12 Comunicare Giornali e Afghanistan. la pace La parola ad Alberto Cairo pag 15 Memoria 1963 2003 L’Ordine dei giornalisti compie quarant’anni. La libertà di stampa e i diritti individuali di libertà Mostre Gianluigi Colin, elaborare l’immagine per capire la fabbrica del presente pag 19 I nostri lutti Federico Patellani, fotografo. Editorialista in bianco e nero pag 20 Milleottocentosettantasei, nasce il cavouriano “Corriere della Sera” pag 22 Giancarlo Masini, giornalista scientifico per vocazione pag 24 Addio a Willy Molco direttore con garbo Giovanni Laccabò, nostro inviato tra i lavoratori La libreria di Tabloid Inserto pag 16 pag 25 pag 25 pag 26 Ifg Tabloid, il giornale degli allievi dell’Istituto “Carlo De Martino” GIORNALISTI NELLA STORIA I nostri Martiri Milano, 2 gennaio 2003. Una sezione del sito dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia (www.odg.mi.it) viene riservata a 12 giornalisti ammazzati dallo squadrismo fascista, dal terrorismo rosso, dal terrorismo internazionale, dalla mafia e dalla camorra. Questa la galleria dei Martiri: 1. Giovanni Amendola; 2. Piero Gobetti; 3. Carlo Casalegno; 4. Walter Tobagi; 5. Ilaria Alpi; 6. Maria Grazia Cutuli; 7. Antonio Russo; 8. Mauro De Mauro; 9. Mario Francese; 10. Giuseppe “Pippo” Fava; 11. Giancarlo Siani; 12. Beppe Alfano. Tutti facevano giornalismo investigativo o d’inchiesta oppure esprimevano posizioni fortemente critiche, chi sul fascismo (Amendola e Gobetti), chi sul terrorismo (Casalegno e Tobagi) o sulle zone calde del pianeta (Ilaria Alpi in Somalia, Maria Grazia Cutuli in Afghanistan, Antonio Russo in Cecenia), altri sulla mafia o sulla camorra (De Mauro, Francese, Fava, Siani e Alfano). L’obiettivo dell’iniziativa è quello di preservare la memoria di questi 12 giornalisti, che hanno scritto ognuno una pagina importante nella storia della nostra nazione, e che sono un esempio di alta coscienza civile da additare ai giovani. Non bisogna dimenticare il loro sacrificio. I giornalisti italiani possono arricchire questa sezione del sito, spedendo saggi e articoli all’indirizzo e-mail [email protected]. Per ora sono stati utilizzati come fonti il web e il mensile Tabloid (organo dell’OgL). C’è bisogno dell’opera di tutti per completare il lavoro. “Oggi i giornalisti, che fanno inchieste – ha dichiarato Franco Abruzzo – sono vittime di un altro terrorismo, quello delle querele miliardiarie”. NELLE PAGINE 10-12 IL DOSSIER DI “REPORTERS SANS FRONTIÈRES” 1 PENSIONI E LAVORO L’Inpgi (ente sostitutivo dell’Inps) è tenuto a rispettare le nuove regole in base all’articolo 3 della Costituzione; alla sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale nonché all’articolo 3 (comma 12) della legge n. 335/1995 e alla sentenza n. 6680/2002 della Cassazione Finanziaria 2003: la libertà di cumulo avanza e guadagna nuovi spazi (nell’Inps) I “vecchi” pensionati di anzianità po analisi di Franco Abruzzo* I “vecchi” pensionati di anzianità hanno l’obbligo di versare il 30 per cento di quanto dovuto entro il 17 marzo 2003 e la differenza in cinque comode rate “secondo modalità definite dall’ente previdenziale di appartenenza”. C’è da augurarsi che l’Inpgi definisca in fretta le “modalità”, perché il 17 marzo 2003 non è lontano. Se l’Inpgi è una cassa privatizzata non può non comportarsi come quelle degli avvocati e dei ragionieri, che riconoscono la libertà di cumulo ai propri Premessa. Fondamentale e decisiva la maturazione dei requisiti di anzianità (37 anni di contributi e 58 anni di età = 95) alla data del 1° gennaio 2003. 1 “A decorrere dal 1º gennaio 2003, il regime di totale cumulabilità tra redditi da lavoro autonomo e dipendente e pensioni di anzianità a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima, previsto dall’articolo 72 (comma 1) della legge 23 dicembre 2000 n. 388, è esteso ai casi di anzianità contributiva pari o superiore ai 37 anni a condizione che il lavoratore abbia compiuto 58 anni di età. I predetti requisiti debbono sussistere all’atto del pensionamento”. Questo principio, stabilito dal primo comma dell’articolo 44 della Finanziaria 2003 (legge n. 289/2002), merita di essere tradotto e volgarizzato. In sostanza chi percepisce la pensione di anzianità dal 1° gennaio 2003, avendo maturato all’atto del pensionamento (appunto il 1° gennaio 2003) i due requisiti (37 anni di contributi e 58 anni di età), può - come i titolari di pensione di vecchiaia (o di vecchiaia anticipata) - cumulare liberamente l’assegno Inps (o Inpgi) con i redditi derivanti sia da lavoro dipendente sia da lavoro autonomo. La legge lancia un salvagente anche ai pensionati di anzianità, che percepiscono (almeno dal dicembre 2002) l’assegno maturato con la precedente e doppia regola dei 57 anni di età e dei 35 anni di contributi (in base all’articolo 1, comma 25, della legge 335/1995 assorbito dall’articolo 4 del Regolamento Inpgi). Chi, infatti, risulta titolare di una pensione di anzianità (a carico dell’Inps o di ente sostitutivo come l’Inpgi) alla data del 1° dicembre 2002 e paga (entro il 17 marzo 2003) un determinato “pedaggio” può assicurarsi il beneficio (della libertà di cumulo) per tutta la vita (comma 2 dell’articolo 44 della Finanziaria 2003). In sostanza i “vecchi” percettori della pensione di anzianità possono “comprarsi” il diritto alla libertà di cumulo. La Finanziaria 2003 stabilisce anche un condono per il pensionato che, soggetto all’incumulabilità totale o parziale, non abbia informato il proprio ente 2 L’esclusione degli enti privatizzati, regolati dal Dlgs n. 509/1994, dall’ambito di applicazione delle leggi generali deve essere esplicitamente prevista per legge. Il legislatore ha da tempo fissato un principio interpretativo regolatore della materia, quando, con il secondo comma dell’articolo 73 della legge n. 448/1998 (legge finanziaria per il 1999), ha stabilito, in tema di trattamenti previdenziali obbligatori, che l’esclusione degli enti privatizzati, regolati dal Dlgs n. 509/1994, dall’ambito di applicazione delle leggi generali debba essere esplicitamente prevista dalla legge e che in assenza di tale esplicita esclusione si determina automaticamente l’applicazione delle relative disposizioni. Il comma 7 dell’articolo 44 della Finanziaria 2003 stabilisce un principio diverso: “Gli enti previdenziali privatizzati possono applicare le disposizioni di cui al presente articolo nel rispetto dei principi di autonomia previsti dal decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, e dall’articolo 3, comma 12, della legge 8 agosto 1995 n. 335”. Nel corso del dibattito al Senato, alcuni parlamentari di diverso schieramento (Viviani, Longhi, Flammia, Brunale, Caddeo da una parte e Demasi e Cozzolino dall’altra) 2 iscritti; se è, ed è, ente sostitutivo dell’Inps, l’Inpgi deve seguire la normativa dell’Inps come impone il punto 4 dell’articolo 76 della legge n. 388/2000: “Le forme previdenziali gestite dall’Inpgi devono essere coordinate con le norme che regolano il regime delle prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza sociale obbligatoria, sia generali che sostitutive”. Non c’è una terza via. L’Inpgi è con le spalle al muro: il principio costituzionale dell’uguaglianza di trattamento non lascia spazi di manovra. Sulle ricadute sostanziali dell’articolo 3 della Costituzione, la Consulta ha scritto, con la sentenza 437/2002, parole univoche e limpide. previdenziale sulle entrate percepite come libero professionista o come dipendente. I cittadini, che non devono preoccuparsi di dichiarare i redditi da lavoro dipendente o autonomo al proprio ente previdenziale in quanto liberi di cumulare, sono: • i pensionati di vecchiaia liquidati con il sistema di calcolo retributivo (misura scattata dal 1° gennaio 2001 per effetto dell’articolo 72 della legge 388/2000); • i pensionati di anzianità equiparati (in base all’art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 503 del 1992) a quelli di vecchiaia al compimento dell’età pensionabile dei 65 anni (dal 1° gennaio 2001); • il titolare di pensione liquidato sulla base di almeno 40 anni di contribuzione (dal 1° gennaio 2001); • i pensionati di anzianità liquidati con 37 anni di contributi e 58 anni di età (requisiti riferiti alla data del 1° gennaio 2003 secondo il primo comma dell’articolo 44 della Finanziaria 2003); • i pensionati di anzianità alla data del 1° dicembre 2002, che sborsano (entro il 17 marzo 2002) una determinata somma in base al comma 2 dell’articolo 44 della legge finanziaria per il 2003); • i titolari di pensione (eccetto l’anzianità) cumulabile totalmente quando dall’attività di lavoro derivi un reddito complessivo annuo non superiore all’importo (402 euro) del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti relativo al corrispondente anno; • i pensionati con redditi derivanti da attività svolte nell’ambito di programmi di reinserimento degli anziani in attività socialmente utili promosse da enti locali e altre istituzioni pubbliche e private (articolo 10, comma 5, del d.lgs. n. 503 del 1992 recepito nel punto 6 dell’articolo 15 del Regolamento Inpgi); • i pensionati che ricevono indennità per l’esercizio della funzione di giudice di pace (articolo 11 della legge 374/91 e articolo 15 della legge 673/94); • i pensionati che ricevono indennità come amministratori locali (legge n. 816/1985) e indennità connesse a cariche pubbliche elettive (circolare Inps 58/98); • i pensionati con indennità percepite da giudici onorari aggregati per l’esercizio delle loro funzioni (articolo 8 della legge n. 276/1997; circolare Inps 67/2000); • i pensionati che percepiscono indennità per lo svolgimento delle funzioni di giudice tributario (articolo 86 della legge n. 342/2000 e circolare Inps 20/2001). hanno tentato di far passare un emendamento che toglieva agli enti privatizzati “sostitutivi dell’assicurazione generale obbligatoria” la discrezionalità di applicare le disposizioni previste dai commi 1 e 2 dell’articolo 44, che sanciscono la libertà di cumulo per i pensionati Inps di anzianità. Gli emendamenti pressoché simili sono stati bocciati sulla base di una considerazione legata alla lettura dell’articolo 3 (comma 12) della legge n. 335/1995 (riforma Dini delle pensioni) richiamato espressamente dal comma 7 dell’articolo 44. I senatori, prima di discutere e di votare, avevano letto sia la sentenza n. 6680 della Cassazione (sezione lavoro) sia la sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale. In breve i senatori hanno ritenuto che il Parlamento non abbia dato il suo assenso al Dlgs n. 509/1994 per consentire alle Casse privatizzare di violare il principio di uguaglianza giuridica ed economica (articolo 3 della Costituzione), trattando conseguentemente i propri iscritti come cittadini di serie B. Quegli emendamenti erano e sono pertanto almeno superflui. 2.1. Il comma 12 dell’articolo 3 della legge n. 335/1995 distingue gli enti privatizzati tra quelli che gestiscono forme di previdenza sostitutive (dell’Inps) e “gli altri” che non svolgono simili funzioni. Il comma 12 dell’articolo 3 della legge n. 335/1995 distingue gli enti privatizzati tra quelli che gestiscono forme di previdenza sostitutive (dell’Inps) e “gli altri” che non svolgono simili funzioni. Soltanto i primi sono tenuti a rispettare la normativa generale previdenziale. Si legge nel comma 12: “Nel rispetto dei princìpi di autonomia affermati dal decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, relativo agli enti previdenziali privatizzati… Nei regimi pensionistici gestiti dai predetti enti, il periodo di riferimento per la determinazione della base pensionabile è definito, ove inferiore, secondo i criteri fissati all’articolo 1, comma 17, (della legge n. 335/1995, ndr), per gli enti che gestiscono forme di previdenza sostitutive e al medesimo articolo 1, comma 18, per gli altri enti. Ai fini dell’accesso ai pensionamenti anticipati di anzianità, trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 25 e 26, per gli enti che gestiscono forme di previdenza sostitutive, e al medesimo articolo 1, comma 28, per gli altri enti”. L’Inpgi - ente sostitutivo dell’Inps in base all’articolo 76 della legge n. 388/2000, che richiama le leggi 20 dicembre 1951 n. 1564; 9 novembre 1955 n. 1122 e 25 febbraio 1987 n. 67 – è tenuto, quindi, ad applicare i commi 1 e 2 dell’articolo 44 della legge finanziaria per il 2003, i quali prevedono la libertà di cumulo per i pensionati Inps di anzianità. Gli emendamenti, quindi, erano e sono inutili. La Fondazione Inpgi, ente sostitutivo dell’Inps, ha l’obbligo di applicare la normativa generale previdenziale, perché il Parlamento non ha escluso esplicitamente tale vincolo. Tale obbligo nasce dallo svolgimento di “una funzione pubblica”: “La prima questione che si pone è quella dell’applicabilità di questa normativa ad un ente di previdenza privatizzato, quale è l’Inpgi. In proposito osserva il Collegio che la natura di ente pubblico o privato è assolutamente irrilevante, perché ciò che conta, ai fini dell’applicabilità delle norme pubblicistiche che regolano i poteri dell’ente, i doveri dei privati e le sanzioni previste per la violazione degli stessi, è la natura dell’attività esercitata, che nella specie è l’assicurazione obbligatoria; per il raggiungimento delle finalità sociali e pubblicistiche di questo tipo di assicurazione, la legge riconosce anche all’istituto privato la natura di ente impositore, cui deve conferire ed in effetti conferisce i poteri necessari, anche sanzionatori; poteri che per la loro stessa natura non rientrano fra quelli che competono ad una persona giuridica privata e non possono essere lasciati, in nessun caso, alla discrezionalità del privato gestore di un servizio pubblico” (sentenza 6680/2002 della sezione lavoro della Corte di Cassazione). La sezione lavoro della Cassazione con il principio affermato (“ciò che conta, ai fini dell’applicabilità delle norme pubblicistiche…, è la natura dell’attività esercitata, che nella specie è l’assicurazione obbligatoria…”) ha affermato in quell’occasione che l’Inpgi fosse tenuto ad applicare l’articolo 116 (sulle sanzioni previdenziali) della Finanziaria per il 2001 (legge n. 388/2001). Quel principio vale ovviamente per la libertà di cumulo proclamata sia dall’articolo 72 della stessa legge n. 388/2000 sia anche dall’articolo 44 della Finanziaria per il 2003. Va detto anche, a tutela della correttezza passata dell’Inpgi, che l’Istituto ha recepito: a. l’articolo 1 (comma 25) della legge 335/1995 nel punto 4 del suo Regolamento: per i giornalisti “il diritto alla pensione di anzianità si consegue al raggiungimento di un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni, in concorrenza con almeno 57 anni di età anagrafica”; b. l’articolo 10 (comma 7) del dlgs. n. 503/1992 nel punto 8 del suo Regolamento: “Le pensioni di anzianità sono equiparate alle pensioni di vecchiaia quando i titolari di esse compiono l’età stabilita per le pensioni di vecchiaia”. Sarebbe veramente difficile per l’ente, in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, opporre oggi un diniego all’applicazione dei commi 1 e 2 dell’articolo 44 della legge finanziaria per il 2003 sulla libertà di cumulo dei propri pensionati di anzianità (e sulla libertà di cumulo dei propri pensionati di vecchiaia compresi nell’articolo 72, primo comma, della legge n. 388/2000). ORDINE 2 2003 I pensionati Inpgi per ora cittadini di serie B ssono comprarsi il diritto al cumulo Le esigenze di bilancio (articolo 2 del Dlgs n. 509/1994) non prevalgono sul diritto all’eguaglianza di trattamento (articolo 3 Costituzione e sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale). 3 È prevedibile, però, che l’Inpgi, invocando autonomia gestionale ed esigenze di bilancio (articolo 2 del Dlgs n. 509/1994), tenti di non applicare i commi 1 e 2 dell’articolo 44 della legge finanziaria per il 2003 sulla libertà di cumulo per i pensionati di anzianità come ha già fatto con l’articolo 72 della legge n. 388/2000, il quale dà la libertà di cumulo ai pensionati di vecchiaia. L’articolo 2 (comma 2) del Dlgs n. 509/1994 dice: “La gestione economico-finanziaria deve assicurare l’equilibrio di bilancio mediante l’adozione di provvedimenti coerenti alle indicazioni risultanti dal bilancio tecnico da redigersi con periodicità almeno triennale”. I provvedimenti coerenti sono quelli indicati dal comma 12 dell’articolo 3 della legge n. 335/1995: “…Provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico nel rispetto del principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti”. Le cautele dell’Inpgi sono state bruciate dalla sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale:”È…da osservare anzitutto che il perseguimento dell’obiettivo tendenziale Gli “altri” pensionati di anzianità possono comprarsi il diritto alla libertà di cumulo, versando un importo pari al 30 per cento della pensione lorda relativa al mese di gennaio 2003. 4 I soggetti pensionati di anzianità alla data del 1 ° dicembre 2002, nei cui confronti trovano applicazione il divieto parziale o totale di cumulo, possono accedere al regime di totale cumulabilità a decorrere dal 1° gennaio 2003, versando un importo pari al 30 per cento della pensione lorda relativa al mese di gennaio 2003, ridotta di un ammontare pari al trattamento minimo mensile Inps (402,12 euro), moltiplicato per il numero risultante come differenza fra la somma dei requisiti di anzianità contributiva e di età anagrafica utili per l’affrancamento del divieto (95, e cioè 37 più 58), e la somma dei predetti requisiti in possesso alla data del pensionamento di anzianità. In sintesi, il coefficiente risulta pari a 3 per chi è andato ìn pensione con 35 anni di contributi e 57 di età (95 meno 92, somma di 57più 35); 2 per chi poteva vantare 57 anni e 36 di contributi, e così via. Dice ancora il comma 2: “Le annualità di anzianità contri- Conclusioni. I pensionati Inpgi cittadini di serie B. Anche la data del 31 dicembre 1994 fissa un altro confine di disuguaglianza tra pensionati Inps e Inpgi. 5 Con la sentenza n. 468/2002, la Corte costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità dell’articolo 128 del Rdl n. 1827/35 nella parte in cui non consente, entro i limiti del quinto, la pignorabilità (per crediti tributari) dei trattamenti Inps, ha affermato sul punto la perfetta uguaglianza tra pensionati Inps e pensionati delle Casse privatizzate (tra le quali l’Inpgi), scrivendo: “Così come per i crediti alimentari, non sussiste ragione alcuna, con riguardo a quelli tributari, perché i titolari di pensioni INPS godano di un trattamento di favore – rispetto ai dipendenti dalle pubbliche amministrazioni e, conseguentemente, ai professionisti che percepiscono assegni dalle rispettive Casse di previdenza – in punto di pignorabilità o sequestrabilità dei crediti da essi vantati, a titolo di pensioni, assegni o altre indennità, nei confronti dell’Inps”. ORDINE 2 2003 dell’equilibrio di bilancio non può essere assicurato da parte degli enti previdenziali delle categorie professionali … con il ricorso ad una normativa che, trattando in modo ingiustificatamente diverso situazioni sostanzialmente uguali, si traduce in una violazione dell’art. 3 della Costituzione. L’iscrizione ad albi o elenchi per lo svolgimento di determinate attività è, infatti, prescritta a tutela della collettività ed in particolare di coloro che dell’opera degli iscritti intendono avvalersi.In secondo luogo, si rileva che le norme concernenti il cumulo tra reddito da lavoro e prestazione previdenziale presuppongono la liceità dell’esercizio dell’attività lavorativa da parte del pensionato ed operano quindi su un piano diverso ed in un momento successivo a quelle del tipo della disposizione censurata, finalizzate ad impedirne lo svolgimento”. Avvocati e ragionieri, comunque, possono cumulare liberamente pensione e redditi da lavoro. Non si comprenderebbe, quindi, un atteggiamento negativo dell’Inpgi. Se l’Istituto è una cassa privatizzata non può non comportarsi come quelle degli avvocati e dei ragionieri, che riconoscono la libertà di cumulo ai propri iscritti; se è, ed è, ente sostitutivo dell’Inps, l’Inpgi deve seguire la normativa dell’Inps come impone il punto 4 dell’articolo 76 della legge n. 388/2000: “Le forme previdenziali gestite dall’Inpgi devono essere coordinate con le norme che regolano il regime delle prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza sociale obbligatoria, sia generali che sostitutive”. Non c’è una terza via. L’Inpgi è con le spalle al muro: il principio costituzionale dell’uguaglianza di trattamento non lascia spazi di manovra. Sulle ricadute sostanziali dell’articolo 3 della Costituzione, la Consulta ha scritto, con la sentenza 437/2002, parole univoche e limpide. butiva e di età sono arrotondate al primo decimale e la loro somma è arrotondata all’intero più vicino. Se l’importo da versare è inferiore al 20 per cento della pensione di gennaio 2003 o se il predetto numero è nullo o negativo, ma alla data del pensionamento non erano stati raggiunti entrambi i requisiti di cui al comma 1, viene comunque versato il 20 per cento della pensione di gennaio 2003. Il versamento massimo è stabilito in misura pari a tre volte la predetta pensione. La disposizione si applica anche agli iscritti che hanno maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità, hanno interrotto il rapporto di lavoro e presentato domanda di pensionamento entro il 30 novembre 2002; qualora essi non percepiscano nel gennaio 2003 la pensione di anzianita`, è considerata come base di calcolo la prima rata di pensione effettivamente percepita. Se la pensione di gennaio 2003 è provvisoria, si effettua un versamento provvisorio, procedendo al ricalcolo entro due mesi dall’erogazione della pensione definitiva”. I “vecchi” pensionati di anzianità hanno l’obbligo di versare il 30 per cento di quanto dovuto entro il 17 marzo 2003 e la differenza in cinque comode rate “secondo modalità definite dall’ente previdenziale di appartenenza”. C’è da augurarsi che l’Inpgi definisca in fretta le “modalità”, perché il 17 marzo 2003 non è lontano. Questa sentenza riserva, quindi, ai pensionati Inps e ai pensionati Inpgi un trattamento improntato alla perfetta uguaglianza sotto il profilo della pignorabilità o della sequestrabilità di un quinto dell’assegno. Per quanto riguarda il cumulo, l’articolo 15 del Regolamento dell’Inpgi è improntato, invece, alla violazione macroscopica dell’articolo 3 della Costituzione, nonostante la sentenza n. 6680/2002 della sezione lavoro della Cassazione abbia scritto che la legge n. 388/2000 (e, di conseguenza, il suo articolo 72) si applichi all’Istituto e nonostante la sentenza 437/2002 della Corte costituzionale abbia sancito che per le Casse privatizzate l’articolo 3 della Costituzione prevalga sulle esigenze di bilancio. Le clausole dell’articolo 15 del Regolamento Inpgi si traducono in una limitazione a tempo indefinito della possibilità di lavoro dei pensionati, circostanza questa censurata (per i ragionieri) dalla sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale. Il diritto al lavoro in sostanza è un diritto perenne garantito dall’articolo 4 della Costituzione. La data del 31 dicembre 1994 fissa un altro confine di disuguaglianza tra pensionati Inps e Inpgi. Gli assicurati Inps, che hanno maturato il diritto all’assegno entro il 31 dicembre 1994, possono (ex comma 8 dell’articolo 10 del dlgs n. 503/1992) liberamente cumulare pensione e redditi da da “Il Sole 24 Ore” del 24 dicembre 2002 Il cumulo totale delle pensioni retributive con i redditi da lavoro dipendente e autonomo dopo la finanziaria 2003 Vecchiaia Decorrenza • pensione liquidata con almeno 40 anni di contributi; • pensione di anzianità equiparata a quella di vecchiaia per compimento dell’età pensionabile Dal 1° gennaio 2001 (articolo 72 della legge 388/2000 Finanziaria 2001) Pensione di anzianità liquidata con almeno 37 anni di contributi e 58 anni di età Decorrenza Titolari di pensione di anzianità alla data del 1° dicembre 2002 Decorrenza Dal 1° gennaio 2003 (articolo 44 Finanziaria 2003) Dal che si sottopongono all’esborso di una 1° gennaio 2003 determinata somma di denaro da (articolo 44 versare entro il 17 marzo 2003, caden- Finanziaria 2003) do di domenica il giorno 16, oppure mediante rateizzazione in cinque rate trimestrali con la maggiorazione degli interessi legali lavoro dipendente e autonomo, mentre i pensionati Inpgi possono cumulare soltanto i redditi da lavoro autonomo (ma non quello da lavoro dipendente). I pensionati di vecchiaia Inps, tali dal 1° gennaio 1995 in poi, hanno conquistato la libertà di cumulo dal 1° gennaio 2001 (per effetto dell’articolo 72 della legge n. 388/2000). Dal 1° gennaio 2003 la stessa libertà di cumulo è riconosciuta ai pensionati Inps di anzianità (con 37 anni di contributi e 58 anni di età), mentre gli “altri” pensionati di anzianità possono “comprarsi” questo diritto. I pensionati Inpgi, oggi cittadini di serie B con i loro diritti “tagliati” e offesi sono eguali, quindi, ai pensionati Inps soltanto sotto il profilo della pignorabilità o sequestrabilità di un quinto dell’assegno. La situazione è davvero insostenibile, perché l’Inpgi si ostina a non volere applicare l’articolo 72 della legge n. 388/2000 e probabilmente (o quasi sicuramente) farà barricate sull’articolo 44 della Finanziaria per il 2003. È indubbio che gli articoli 72 della legge n. 388/2000 e 44 della Finanziaria per il 2003 (sulla libertà di cumulo) costituiscano, sulla base delle sentenze citate della Corte costituzionale e della sezione lavoro della Cassazione, princìpi fondamentali dell’ordinamento economico-sociale della Repubblica e che gli stessi, pertanto, siano vincolanti anche per le Casse privatizzate sostitutive dell’Inps. Le barricate dell’Inpgi hanno il solo effetto di aumentare la litigiosità civilistica e di esporre i suoi dirigenti “politicosindacali” a richieste di risarcimento di danni da parte dei pensionati dell’Istituto vittime di atteggiamenti sia incomprensibili e irragionevoli sia discriminatori e stressanti Si annuncia una lunga guerra nella quale l’Inpgi e i suoi dirigenti “politicosindacali” reciteranno la parte degli sconfitti in partenza. Senza avere l’alibi delle esigenze di bilancio, perché i bilanci, - grazie anche ai “praticanti d’ufficio” lombardi e all’azione trentacinquennale dell’Ordine di Milano contro il “l’abusivato redazionale” -, da anni presentano risultati in nero. *Fonti: l’articolo di Giuseppe Rodà pubblicato da Il Sole 24 Ore del 24 dicembre 2002 dal titolo “Pensioni: con un pedaggio si salta il divieto di cumulo” e quello di Gigi Leonardi, dal titolo “Cumulo totale? Lo si può comprare”, pubblicato da ItaliaOggi del 17 dicembre 2002. segue la normativa 3 I “vecchi” pensionati PENSIONI E LAVORO di anzianità possono comprarsi il diritto al cumulo/la normativa Legge n. 289/2002 (Finanziaria per il 2003). Articolo 44. Abolizione del divieto di cumulo tra pensioni di anzianità e redditi da lavoro. 1. A decorrere dal 1º gennaio 2003, il regime di totale cumulabilità tra redditi da lavoro autonomo e dipendente e pensioni di anzianità a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima, previsto dall’articolo 72, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, è esteso ai casi di anzianità contributiva pari o superiore ai 37 anni a condizione che il lavoratore abbia compiuto 58 anni di età. I predetti requisiti debbono sussistere all’atto del pensionamento. 2. Gli iscritti alle forme di previdenza di cui al comma 1, già pensionati di anzianità alla data del 1º dicembre 2002 e nei cui confronti trovino applicazione i regimi di divieto parziale o totale di cumulo, possono accedere al regime di totale cumulabilità di cui al comma 1 a decorrere dal 1º gennaio 2003 versando un importo pari al 30 per cento della pensione lorda relativa al mese di gennaio 2003, ridotta di un ammontare pari al trattamento minimo mensile del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, moltiplicato per il numero risultante come differenza fra la somma dei requisiti di anzianità contributiva e di età anagrafica di cui al comma 1, pari a 95, e la somma dei predetti requisiti in possesso alla data del pensionamento di anzianità. Le annualità di anzianità contributiva e di età sono arrotondate al primo decimale e la loro somma è arrotondata all’intero più vicino. Se l’importo da versare è inferiore al 20 per cento della pensione di gennaio 2003 o se il predetto numero è nullo o negativo, ma alla data del pensionamento non erano stati raggiunti entrambi i requisiti di cui al comma 1, viene comunque versato il 20 per cento della pensione di gennaio 2003. Il versamento massimo è stabilito in misura pari a tre volte la predetta pensione. La disposizione si applica anche agli iscritti che hanno maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità, hanno interrotto il rapporto di lavoro e presentato domanda di pensionamento entro il 30 novembre 2002; qualora essi non percepiscano nel gennaio 2003 la pensione di anzianità, è considerata come base di calcolo la prima rata di pensione effettivamente percepita. Se la pensione di gennaio 2003 è provvisoria, si effettua un versamento provvisorio, procedendo al ricalcolo entro due mesi dall’erogazione della pensione definitiva. 3. Per gli iscritti alle gestioni di cui al comma 1 titolari di reddito da pensione, che hanno prodotto redditi sottoposti al divieto parziale o totale di cumulo e che non hanno ottemperato agli adempimenti previsti dalla normativa di volta in volta vigente, le penalita` e le trattenute previste, con i relativi interessi e sanzioni, non trovano applicazione, per il periodo fino al 31 marzo 2003, qualora l’interessato versi un importo pari al 70 per cento della pensione relativa al mese di gennaio 2003, moltiplicato per ciascuno degli anni relativamente ai quali si è verificato l’inadempimento. A tal fine le frazioni di anno sono arrotondate all’unita` superiore. Il versamento non può eccedere la misura pari a quattro volte la pensione di gennaio 2003. La quota di versamento relativa ai mesi di gennaio, febbraio e marzo 2003 viene restituita all’iscritto che abbia proceduto anche al versamento di cui al comma 2. Se la pensione di gennaio 2003 è provvisoria, si effettua un versamento provvisorio, e si procede al ricalcolo entro due mesi dall’erogazione della pensione definitiva. 4. Gli importi di cui ai commi 2 e 3 sono versati entro il 16 marzo 2003, secondo modalità definite dall’ente previdenziale di appartenenza. L’interessato può comunque optare per il versamento entro tale data del 30 per cento di quanto dovuto, con rateizzazione in cinque rate trimestrali della differenza, applicando l’interesse legale. Per i pensionati non in attività lavorativa alla data del 30 novembre 2002, il versamento può avvenire successivamente al 16 marzo 2003, purche´ entro tre mesi dall’inizio del rapporto lavorativo, su una base di calcolo costituita dall’ultima mensilità di pensione lorda erogata prima dell’inizio della attivita` lavorativa, con la maggiorazione del 20 per cento rispetto agli importi determinati applicando la procedura di cui al comma 2. Per i soggetti di cui al penultimo periodo del comma 2, il versamento viene effettuato entro sessanta giorni dalla corresponsione della prima rata di pensione. Per i soggetti di cui all’ultimo periodo del comma 2 e all’ultimo periodo del comma 3, il versamento di conguaglio avviene entro due mesi dall’erogazione della pensione definitiva. 5. Dalla data del 1º aprile 2003 i comparti interessati dell’amministrazione pubblica, ed in particolare l’anagrafe tributaria e gli enti previdenziali erogatori di trattamenti pensionistici, procedono all’incrocio dei dati fiscali e previdenziali da essi posseduti, per l’applicazione delle trattenute dovute e delle relative sanzioni nei confronti di quanti non hanno regolarizzato la propria posizione ai sensi del comma 3. 6. In attesa di un complessivo intervento di armonizzazione dei regimi contributivi delle diverse tipologie di attività di lavoro, anche in relazione alla riforma delle relative discipline, l’aliquota di finanziamento e l’aliquota di computo 4 della pensione, per gli iscritti alla gestione previdenziale di cui all’articolo 2, commi 26 e seguenti, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni, che percepiscono redditi da pensione previdenziale diretta, sono incrementate di 2,5 punti a partire dal 1º gennaio 2003 e di ulteriori 2,5 punti a partire dal 1º gennaio 2004, ripartiti tra committente e lavoratore secondo le proporzioni vigenti nel caso di lavoro parasubordinato. Alla predetta gestione affluisce il 10 per cento delle entrate di cui al comma 4, vincolato al finanziamento di iniziative di formazione degli iscritti non pensionati; con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono determinati criteri e modalità di finanziamento e di gestione delle relative risorse. 7. Gli enti previdenziali privatizzati possono applicare le disposizioni di cui al presente articolo nel rispetto dei principi di autonomia previsti dal decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, e dall’articolo 3, comma 12, della legge 8 agosto 1995, n. 335. Legge 8 agosto 1995 n. 335. Articolo 3. Disposizioni diverse in materia assistenziale e previdenziale. Comma 12. Nel rispetto dei princìpi di autonomia affermati dal decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, relativo agli enti previdenziali privatizzati, allo scopo di assicurare l’equilibrio di bilancio in attuazione di quanto previsto dall’articolo 2, comma 2, del predetto decreto legislativo, la stabilità delle rispettive gestioni è da ricondursi ad un arco temporale non inferiore a 15 anni. In esito alle risultanze e in attuazione di quanto disposto dall’articolo 2, comma 2, del predetto decreto, sono adottati dagli enti medesimi provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico nel rispetto del principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti. Nei regimi pensionistici gestiti dai predetti enti, il periodo di riferimento per la determinazione della base pensionabile è definito, ove inferiore, secondo i criteri fissati all’articolo 1, comma 17, (della legge n. 335/1995, ndr), per gli enti che gestiscono forme di previdenza sostitutive e al medesimo articolo 1, comma 18, per gli altri enti. Ai fini dell’accesso ai pensionamenti anticipati di anzianità, trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 25 e 26, per gli enti che gestiscono forme di previdenza sostitutive, e al medesimo articolo 1, comma 28, per gli altri enti. Gli enti possono optare per l’adozione del sistema contributivo definito ai sensi della presente legge. prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza sociale obbligatoria, sia generali che sostitutive”. 2. L’opzione di cui all’articolo 38 della legge 5 agosto 1981, n. 416, come sostituito dal comma 1 del presente articolo, deve essere esercitata entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Legge 8 agosto 1995 n. 335. Articolo 1. Princìpi generali; sistema di calcolo dei trattamenti pensionistici obbligatori e requisiti di accesso; regime dei cumuli. Comma 2. Le disposizioni della presente legge costituiscono princìpi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica. Le successive leggi della Repubblica non possono introdurre eccezioni o deroghe alla presente legge se non mediante espresse modificazioni delle sue disposizioni. Comma 10. Per gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria ed alle forme sostitutive ed esclusive della medesima, l’aliquota per il computo della pensione è fissata al 33 per cento. Per i lavoratori autonomi iscritti all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) detta aliquota è fissata al 20 per cento (4/b). (4/b) Vedi, anche, l’art. 2, D.Lgs. 29 giugno 1996, n. 414. Comma 25. Il diritto alla pensione di anzianità dei lavoratori dipendenti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti e delle forme di essa sostitutive ed esclusive si consegue: a) al raggiungimento di un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni, in concorrenza con almeno 57 anni di età anagrafica; b) al raggiungimento di un’anzianità contributiva non inferiore a 40 anni. Regolamento dell’Inpgi. Articolo 4 - Pensione di vecchiaia e di anzianità 1. Il diritto alla pensione di vecchiaia matura al compimento del sessantacinquesimo anno di età per gli uomini e del sessantesimo anno di età per le donne, quando siano stati versati almeno 240 contributi mensili. Per le pensioni aventi decorrenza dal 1° gennaio 1993 i requisiti di età e di contribuzione sono quelli indicati alle tabelle A e B in conformità alle disposizioni contenute nel Decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 503, secondo la progressione indicata nelle tabelle A e B allegate al presente Regolamento. 2. Il diritto alla pensione di vecchiaia può essere anticipato in presenza di almeno 360 contributi mensili accreditati presso l’Istituto per gli uomini al conseguimento dei requisiti di età indicati nella tabella C allegata. TABELLA A Dlgs n. 509/1994. Articolo 2. Gestione. 2. La gestione economico-finanziaria deve assicurare l’equilibrio di bilancio mediante l’adozione di provvedimenti coerenti alle indicazioni risultanti dal bilancio tecnico da redigersi con periodicità almeno triennale. Legge 388/2000. Articolo 76 (Previdenza giornalisti) 1. L’articolo 38 della legge 5 agosto 1981, n. 416, è sostituito dal seguente: “Art. 38. - (INPGI). - 1. L’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani “Giovanni Amendola” (INPGI) ai sensi delle leggi 20 dicembre 1951, n. 1564, 9 novembre 1955, n. 1122, e 25 febbraio 1987, n. 67, gestisce in regime di sostitutività le forme di previdenza obbligatoria nei confronti dei giornalisti professionisti e praticanti e provvede, altresi’, ad analoga gestione anche in favore dei giornalisti pubblicisti di cui all’articolo 1, commi secondo e quarto, della legge 3 febbraio 1963, n. 69, titolari di un rapporto di lavoro subordinato di natura giornalistica. I giornalisti pubblicisti possono optare per il mantenimento dell’iscrizione presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale. Resta confermata per il personale pubblicista l’applicazione delle vigenti disposizioni in materia di fiscalizzazione degli oneri sociali e di sgravi contributivi. 2. L’INPGI provvede a corrispondere ai propri iscritti: a) il trattamento straordinario di integrazione salariale previsto dall’articolo 35; b) la pensione anticipata di vecchiaia prevista dall’articolo 37. 3. Gli oneri derivanti dalle prestazioni di cui al comma 2 sono a totale carico dell’INPGI. 4. Le forme previdenziali gestite dall’INPGI devono essere coordinate con le norme che regolano il regime delle Età richiesta per il pensionamento di vecchiaia periodo di riferimento dal 1° gennaio 1994 al 30 giugno 1995 dal 1° luglio 1995 al 31 dicembre 1996 dal 1° gennaio 1997 al 30 giugno 1998 dal 1° luglio 1998 al 31 dicembre 1999 dal 1° gennaio 2000 in poi uomini 61°anno 62°anno 63°anno 64°anno 65°anno donne 56°anno 57°anno 58°anno 59°anno 60°anno TABELLA B Requisiti assicurativi e contributivi per la pensione di vecchiaia Periodi dal 1° gennaio dal 1° gennaio dal 1° gennaio dal 1° gennaio dal 1° gennaio 1993 1995 1997 1999 2001 al al al al in 31 dicembre 31 dicembre 31 dicembre 31 dicembre poi Anni 16 17 18 19 20 1994 1996 1998 2000 TABELLA C Età richiesta per il pensionamento di vecchiaia anticipato Decorrenza della pensione dal 1° gennaio 1994 al 30 giugno 1995 dal 1° luglio 1995 al 30 dicembre 1996 dal 1° gennaio 1997 al 30 giugno 1998 dal 1° luglio 1998 al 31 dicembre 1999 dal 1° gennaio 2000 al 30 giugno 2001 dal 1° luglio 2001 al 31 dicembre 2002 dal 1° gennaio 2003 al 30 giugno 2004 dal 1° luglio 2004 al 31 dicembre 2005 dal 1° gennaio 2006 al 30 giugno 2007 dal 1° gennaio 2007 in poi ORDINE Uomini 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 2 2003 3. La pensione di vecchiaia è liquidata, su domanda dell’iscritto avente diritto, con decorrenza dal primo giorno del mese successivo a quello di presentazione della domanda ovvero dal momento della maturazione del diritto. 4. L’iscritto è, a domanda, ammesso, in base alle decorrenze previste per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti, alla pensione di anzianità: a) al raggiungimento di un’anzianità contributiva obbligatoria, volontaria o figurativa pari o superiore a 35 anni, in concorrenza con almeno 57 anni di età; b) al raggiungimento di un’anzianità contributiva non inferiore a 40 anni; c) in via transitoria, alla maturazione dei requisiti ed alle decorrenze previsti ai commi da 6 a 8 dell’articolo 59 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, per i lavoratori dipendenti iscritti all’assicurazione generale obbligatoria per l’invaliditià, la vecchiaia ed i superstiti. professionisti, dei pubblicisti e dei praticanti iscritti presso la Gestione Separata dell’Inpgi, istituita ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. b), del decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103 - sono tenuti al versamento di un contributo di solidarietà pari all’1 per cento del reddito da lavoro autonomo, destinato al finanziamento della spesa previdenziale dell’Inpgi. Il contributo in questione deve essere versato all’Inpgi entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello di riferimento. Comma 26. Per i lavoratori dipendenti iscritti alle forme previdenziali di cui al comma 25, fermo restando il requisito dell’anzianità contributiva pari o superiore a trentacinque anni, nella fase di prima applicazione, il diritto alla pensione di anzianità si consegue in riferimento agli anni indicati nell’allegata tabella B, con il requisito anagrafico di cui alla medesima tabella B, colonna 1, ovvero, a prescindere dall’età anagrafica, al conseguimento della maggiore anzianità contributiva di cui alla medesima tabella B, colonna 2. 5. Il conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia o di anzianità è subordinato alla cessazione del rapporto di lavoro. TABELLA B (articolo 1, comma 26, della legge 335/1995) 6. Ai fini del diritto alla pensione di vecchiaia è riconosciuto utile il periodo di contribuzione nell’assicurazione obbligatoria IVS o in forme sostitutive, esclusive o esonerative e nella Gestione Previdenziale Separata, costituita in favore dei giornalisti che svolgono attività autonoma di libera professione anche sotto forma di collaborazione coordinata e continuativa. Anno 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 7. Ai fini del diritto alla pensione di anzianità è riconosciuto utile il periodo dicontribuzione nell’assicurazione obbligatoria IVS ai sensi e con gli effetti di cui all’art.3 della Legge n.1122 del 9 novembre 1955. 8. I giornalisti pensionati titolari di un rapporto di lavoro autonomo, non iscritti alla Gestione Previdenziale Separata - in base all’art. 1, comma 6, del Regolamento di attuazione delle attività di previdenza a favore dei giornalisti Regolamento dell’Inpgi. Articolo 15 Disciplina del cumulo tra pensioni e redditi da lavoro dipendente ed autonomo A decorrere dal 1° gennaio 1994 le pensioni di vecchiaia, erogate dall’Istituto, non sono cumulabili con i redditi da lavoro dipendente ed autonomo nella misura del 50 per cento della quota eccedente il trattamento minimo di cui al IV comma dell’articolo 7 e fino a concorrenza dei redditi stessi. 1 Le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano nei confronti dei titolari di pensione i cui importi sono esclusi dalla base imponibile ai fini IRPEF, degli assunti con contratti di lavoro a termine qualora la durata degli stessi non superi complessivamente le cinquanta giornate nell’anno solare ovvero di coloro dalla cui attività dipendente o autonoma derivi un reddito complessivo annuo non superiore all’importo del trattamento minimo di cui al comma precedente. 2 Nei casi di cumulo con redditi di lavoro autonomo, i pensionati sono tenuti a produrre all’Istituto una dichiarazione dei redditi da lavoro riferiti all’anno precedente, entro lo stesso termine previsto per la dichiarazione ai fini IRPEF, nei casi di cumulo con redditi da lavoro dipendente, i pensionati devono produrre all’Istituto la certificazione del datore di lavoro attestante la retribuzione corrisposta. 3 2 2003 1 Età anagrafica 52 52 53 53 54 54 55 55 56 56 57 57 2 Anzianità contributiva 36 36 36 37 37 37 37 37 38 38 39 39 | 2008 in poi | 57 | 40 | Questa è la normativa dell’Inpgi che nega ai giornalisti il diritto alla libertà di cumulo, riducendoli a cittadini di serie B 4 5 6 Nei casi di cumulo con redditi da lavoro dipendente o autonomo la trattenuta è effettuata dall’Istituto. La disciplina di cui al presente articolo si applica anche nei casi di cumulo della pensione di invalidità, di cui all’articolo 8, con redditi di lavoro autonomo o dipendente, di natura non giornalistica. I trattamenti pensionistici sono totalmente cumulabili con i redditi derivanti da attività svolte nell’ambito di programmi di reinserimento degli anziani in attività socialmente utili, promosse da enti locali ed altre istituzioni pubbliche e private. I predetti redditi non sono soggetti alle contribuzioni previdenziali né danno luogo al diritto alle relative prestazioni. Le pensioni di anzianità non sono cumulabili con redditi da lavoro dipendente, nella loro interezza, e con quelli da lavoro autonomo nella misura del 50% della eccedenza dell’ammontare corrispondente al trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti dell’ INPS, fino a concorrenza dei redditi stessi. 7 Perequate le pensioni Inpgi sulla base delle percentuali fissate dal ministro Tremonti ORDINE Legge 8 agosto 1995 n. 335. Articolo 1. Princìpi generali; sistema di calcolo dei trattamenti pensionistici obbligatori e requisiti di accesso; regime dei cumuli. Le pensioni di anzianità sono equiparate, agli effetti del presente articolo, alle pensioni di vecchiaia quando i titolari di esse compiono l’età stabilita per le pensioni di vecchiaia. 8 9 Agli iscritti, che alla data del 31 dicembre 1994 risultano già pensionati, ovvero, hanno maturato il diritto a pensionamento di vecchiaia o di anzianità, continuano ad applicarsi, se più favorevoli, le seguenti disposizioni: 1) per i titolari di pensione di vecchiaia, che prestino lavoro subordinato alle dipendenze altrui con una retribuzione non inferiore a un terzo di quella minima di redattore stabilita per l’anno precedente dal contratto di lavoro giornalistico, opera una riduzione del trattamento di pensione pari al 50% dell’importo complessivo, fatto comunque salvo il trattamento minimo; 2) per i titolari di pensione di anzianità il trattamento stesso è totalmente incumulabile con retribuzioni di qualsiasi importo derivanti da rapporti di lavoro a carattere subordinato. Milano, 7 gennaio 2003. L’Inpgi ha recepito il decreto 20 novembre 2002 del ministero del Tesoro sulla perequazione delle pensioni. Ne ha dato notizia il 20 dicembre 2002 al presidente dell’Ogl il dirigente del Servizio prestazioni dell’Istituto, Tommaso Costantini, con questa lettera: “Rispondo, quale dirigente del Servizio prestazioni dell’Inpgi, al Suo quesito formulato con nota 14 dicembre scorso. L’art. 7 dell’attuale Regolamento delle prestazioni previdenziali ed assistenziali - entrato in vigore dopo la privatizzazione dell’ente - al comma 10 dispone che le pensioni erogate dall’lnpgi sono adeguate secondo le disposizioni di legge vigenti in materia. L’Istituto, in piena autonomia, ha deciso, quindi, che in materia di perequazione automatica si applichino le percentuali di volta in volta indicate in apposito decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze. Pertanto, Le confermo che i prossimi ratei dei trattamenti pensionistici erogati dall’Istituto verranno adeguati sulla base di quanto previsto dall’ultimo provvedimento ministeriale”. La lettera di Franco Abruzzo all’Inpgi è stata pubblicata sul numero di gennaio di Tabloid. 5 P E N S I O N I E L A V O R O “ Ciò che mi preme dire è che la categoria deve fare una profonda riflessione sul ruolo e sulla funzione del nostro Istituto. E anche, ovviamente, sul modo in cui è gestito. ” Libertà di cumulo: i giornalisti considerati cittadini di serie C Lettera di Ezio Chiodini Caro direttore, vorrei inserirmi nel dibattito che stai portando avanti sull’iniquità del divieto di cumulo fra redditi da pensione e redditi da lavoro con alcune considerazioni. Cominciamo dalla cronaca legislativa e giuridica. Come sappiamo, la legge finanziaria 2003, di recente approvazione, ha eliminato il divieto di cumulo per chi ha 58 anni e può vantarne almeno 37 di contributi pieni. 1 2 Sappiamo inoltre che la legge finanziaria ha introdotto un principio di equità. Che è il seguente: 58 (anni di età) più 37 (di contributi) fa 95. Chi può “contare 95” fa Bingo, ossia non soggiace più al divieto di cumulo. E chi, invece, può sommare (fra anni d’età e anni di contribuzione) soltanto 90 o 92 o 94…, che cosa può fare? Qui scatta il principio di equità che potrebbe essere sintetizzato con questa affermazione: poiché tu sei andato in pensione un po’ prima rispetto a chi totalizza 95, per equità, e per parificarti ai “95”, devi pagare un quid, calcolato secondo regole matematiche ed economiche. Pagato ciò, è come se anche tu fossi andato in pensione con 58 anni di età e 37 di contributi, o viceversa: poco importa. Insomma, tutti uguali davanti alla previdenza. E alla legge, ovviamente. Conosciamo inoltre una recente sentenza della Corte costituzionale (pubblicata anche da questo giornale) che, nella sostanza, afferma il principio che nessuna cassa di previdenza (nella fattispecie si trattava di quella dei ragionieri) può, per “esigenze di bilancio”, discriminare fra i pensionati, suddividendoli in categorie e penalizzando, di fatto, il diritto al lavoro di alcuni cittadinipensionati, diritto costituzionale che dev’essere uguale per ogni cittadino. Di conseguenza: il divieto di cumulo non esiste più; la legge, togliendolo, ha anche provveduto a sanare le situazioni al margine, introducendo il principio di equità di cui abbiamo detto, il quale, una volta applicato, rende tutti i pensionati uguali dal punto di vista previdenziale e concede ad essi la possibilità di lavorare tranquillamente (pagando le imposte sui redditi conseguiti, s’intende). Inoltre, recependo il principio riaffermato dalla Corte costituzionale, li rende e considera tutti “uguali” anche per quanto riguarda il diritto al lavoro, un diritto ampio che non può essere penalizzato per alcuni. Di fronte alla previdenza e di fronte al lavoro, non esistono più cittadini di serie A e di serie B. 3 Proposta oggi sostenuta dalla Finanziaria per il 2003 che può espandersi a macchia d’olio Le giornaliste e i giornalisti che lavorano nella sede Rai di Saxa Rubra a Roma sollecitano da tempo l’apertura di un asilo-nido o di un micro-nido per i loro bambini. Ora questa richiesta potrà essere finalmente esaudita grazie all’articolo 91 della legge finanziaria per il 2003 che istituisce un Fondo statale a favore delle aziende per gli asili-nido e i micro-nidi nei luoghi di lavoro. La Rai di Saxa Rubra è certamente un’azienda che può beneficiare degli incentivi pubblici sia per l’elevato numero di dipendenti interessati (giornalisti, telecineoperatori, tecnici del montaggio, dirigenti, quadri, funzionari, impiegati, lavoratori dello spettacolo, ecc.), sia per l’ampia possibilità di locali disponibili ad ospitare una nuova e idonea struttura per bambini. Pierluigi Franz, presidente dell’Associazione stampa romana 6 Ora, le considerazioni. 1) Abbiamo detto che non esistono più cittadini di serie A e di serie B per quanto riguarda il divieto di cumulo, che ora non esiste più. Abbiamo anche detto che, di conseguenza, non esistono più cittadini di serie A e di serie B anche per quanto riguarda il diritto al lavoro. Esistono ancora, purtroppo, cittadini di serie C, e questi sono i giornalisti. 2) Mi spiego. Finora i pensionati erano distinti fra chi poteva cumulare (serie A), chi soggiaceva a un divieto di cumulo fino al 30% della pensione (serie B: pensionati Inps e altre categorie) e chi soggiaceva a un divieto di cumulo fino al 50% (serie C: solo i giornalisti iscritti all’Inpgi). Ebbene, la serie B è scomparsa, cancellata dalla legge. Rimarrebbe in vita la serie C, costituita dai giornalisti (pensionati o attivi) iscritti all’Inpgi. È giusto e tollerabile? 3) Certamente è ingiusto e iniquo (oltre che, a mio avviso, illegale) dal punto di vista dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e, aggiungo, nello specifico, di fronte alla previdenza e per quanto riguarda il diritto a poter lavorare. Da un punto di vista sociale, ciò è intollerabile, tanto più che i giornalisti, svolgendo un’attività intellettuale, sono fra i pochi (e con essi gli scrittori, gli artisti, gli scienziati e alcuni professionisti) a poter lavorare anche in tarda età, contribuendo, per così dire, a produrre ricchezza, in questo caso di tipo intellettuale. 4) Com’è possibile che i gestori dell’Inpgi (in massima parte nostri colleghi) si ostinino a sostenere un atteggiamento discriminatorio e penalizzante nei confronti della categoria di cui fanno parte? Non si rendono conto che in questo caso non si tratta di privilegi eventualmente da tutelare nei confronti di altre categorie, bensì di discriminazioni che ci impediscono di essere al livello di tutti gli altri lavoratori, siano essi dipendenti siano essi professionisti? In queste condizioni, essere all’Inpgi è peggio che essere all’Inps. 5) Si risponde: ma se aboliamo il divieto di cumulo le casse dell’Istituto ne risentiranno. La mia risposta: se ciò fosse vero, significa che finora sono stati fatti i conti senza l’oste e che l’Istituto ha potuto stare in piedi grazie a una serie di discriminazioni inique. Non solo: che l’Istituto è stato gestito male: a) perché il suo equilibrio economico è stato conseguito violando principi sanciti dalla Costituzione (diritto al lavoro e all’uguaglianza) e in virtù del mancato recepimento di leggi dello Stato (legge finanziaria); b) perché fra le entrate mancano parecchi soldi derivanti dall’insufficiente contribuzione pagata finora dalle aziende editoriali (che, guarda caso, sono rappresentate in seno all’Inpgi): noi sappiamo, infatti, che fra quanto pagano le aziende industriali e commerciali sottofor- ma di contributi previdenziali e quanto pagano quelle editoriali ballano circa dieci punti (nel senso che quelle editoriali pagano meno), il che vuol dire parecchie decine di miliardi di vecchie lire all’anno, mai pagate in passato e neppure attualmente. 6) Si afferma (all’Inpgi): noi siamo un istituto privato e quindi non siamo tenuti a recepire automaticamente quanto previsto da leggi dello Stato. Rispondo: a) sulla natura strettamente privatistica dell’Istituto c’è molto da discutere e Franco Abruzzo ha molti argomenti da contrapporre; b) in ogni caso nessun istituto o ente può ledere diritti personali e principi sanciti dalla Costituzione perché – pubblico o privato che sia – svolgerebbe un’attività discriminatoria e illegale, b) in altre circostanze (più volte illustrate) l’Istituto ha recepito senza alcun problema le indicazioni derivanti da leggi pubbliche; c) non solo, nei mesi scorsi ha anche introdotto (meglio tardi che mai, io dico) il sistema di calcolo previdenziale contributivo applicandolo pro-rata, con ciò anticipando un dibattito che si sta sviluppando a livello nazionale… Ma mi accorgo che il discorso ci porta lontano e rischia di scivolare su singoli aspetti che possono distoglierci dal nocciolo del problema. Ho citato dei fatti ed esposto alcune considerazioni, che sono opinioni. Qualcuno potrebbe obiettarmi: hai parlato di provvedimenti iniqui e illeciti… Sì, è vero, anche di provvedimenti a mio parere illegali anche se su questi non c’è la sanzione di una sentenza specifica della Magistratura perché finora nessuna l’ha coinvolta su questi temi. Mi chiedo però: si deve arrivare a tanto? Non è possibile rispettare (ora e sempre) i principi generali fissati dalla Costituzione e dalla giurisprudenza? Ma che categoria siamo? Ho sempre pensato che essere giornalista corrispondesse a fare un lavoro da uomini liberi, che si battono anche per la libertà dei principi e la loro applicazione, che si battono per rimuovere lacci e lacciuoli che ostacolano il normale svolgersi della vita democratica. Con quale faccia, mi chiedo, invochiamo la libertà di stampa e l’uguaglianza dei cittadini quando il nostro Istituto – sempre a mio parere, s’intende – per ragioni che ritiene di bottega calpesta questi principi? Di cose, caro direttore, se ne potrebbero dire molte altre. Però non voglio abusare. Ciò che mi preme dire è che la categoria deve fare una profonda riflessione sul ruolo e sulla funzione del nostro Istituto. E anche, ovviamente, sul modo in cui è gestito. Ed i primi ad attivare questa riflessione dovrebbe essere – anche questa è una mia personale opinione – proprio chi siede negli organi decisionali dell’Istituto. Perché l’Istituto è di tutti, non solo di alcuni. Ed essere amministratore è un servizio reso alla collettività dei colleghi: almeno, io la penso così. Un asilo nido alla sede Rai di Saxa Rubra? Questo il testo integrale dell’articolo 91 della legge n. 289/2002 (Finanziaria per il 2003). Asili nido nei luoghi di lavoro. 1. Al fine di assicurare un’adeguata assistenza familiare alle lavoratrici e ai lavoratori dipendenti con prole, è istituito dall’anno 2003 il Fondo di rotazione per il finanziamento dei datori di lavoro che realizzano, nei luoghi di lavoro, servizi di asilo nido e micro-nidi, di cui all’articolo 70 della legge 28 dicembre 2001, n. 448. 2. Ai fini dell’ammissione al finanziamento, i datori di lavoro presentano apposita domanda al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali contenente le seguenti indicazioni: a) stima dei tempi di realizzazione delle opere ammesse al finanziamento; b) entità del finanziamento richiesto, in valore assoluto e in percentuale del costo di progettazione dell’opera; c) stima del costo di esecuzione dell’opera. 3. Il prospetto contenente le informazioni di cui al comma 2 e le relative modalità di trasmissione sono definiti con decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali da emanare entro il 31 marzo 2003. In caso di ingiustificati ritardi o gravi irregolarità nell’impiego del contributo, il finanziamento è revocato con decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali. 4. I criteri per la concessione dei finanziamenti sono determinati con decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze e con il ministro per le Pari oppor- tunità, entro il 31 marzo 2003, tenendo conto in ogni caso dei seguenti princìpi: a) il tasso di interesse da applicare alle somme rimborsate è determinato in misura non inferiore allo 0,50 per cento annuo; b) i finanziamenti devono essere rimborsati al cinquanta per cento mediante un piano di ammortamento di durata non superiore a sette anni, articolato in rate semestrali posticipate corrisposte a decorrere dal terzo anno successivo a quello di effettiva erogazione delle risorse; c) equa distribuzione territoriale dei finanziamenti. 5. Per l’anno 2003, nell’ambito delle risorse stanziate sul Fondo nazionale per le politiche sociali a sostegno delle politiche in favore delle famiglie di cui all’articolo 46, comma 2, e nel limite massimo di 10 milioni di euro, sono preordinate le risorse da destinare per la costituzione del Fondo di rotazione di cui al comma 1. Per gli anni successivi, con decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze, è determinata la quota da attribuire al predetto Fondo di rotazione nell’ambito del menzionato Fondo nazionale per le politiche sociali. 6. Il comma 6 dell’articolo 70 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, si interpreta nel senso che la deduzione relativa alle spese di partecipazione alla gestione dei nidi e dei micro-nidi nei luoghi di lavoro, prevista per i genitori e i datori di lavoro, si applica con riferimento ai nidi e ai micro-nidi gestiti sia dai comuni sia dai datori di lavoro. Dalle disposizioni di cui al periodo precedente non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato. ORDINE 2 2003 D E T R A Z I O N I E R I T E N U T E Chiarimento del ministero dell’Economia e delle Finanze Chi, comunque, “ha la dimora abituale” (per ragioni di stabile occupazione lavorativa) in un dato centro ha l’obbligo giuridico di fissarvi la sua residenza anagrafica (articolo 3, prima comma, del Dpr n. 223/1989 in relazione all’articolo 43 del Codice Civile) anche per far fronte ai suoi obblighi fiscali (addizionale regionale ed eventualmente comunale, tassa rifiuti, Irap, Ici, bollo automobilistico). Favoriti dal fisco i giornalisti che trasferiscono la residenza Sono favoriti dal fisco i lavoratori dipendenti (e, quindi, anche i giornalisti dipendenti siano essi professionisti, pubblicisti o praticanti) che trasferiscono la loro residenza, facendola, quindi, coincidere con il luogo di lavoro. Lo ha chiarito il ministero dell’Economia e delle Finanze con la circolare 12 giugno 2002 n. 50/E (Videoconferenza del 14 maggio 2002 sui modelli di dichiarazione UNICO 2002. Risposte ai quesiti in materia di questioni interpretative). Pubblichiamo il documento in maniera integrale: 6.2 Detrazione per lavoratori che trasferiscono la residenza. D.: L’art. 13-ter, comma 1- bis, riconosce una detrazione «a favore dei lavoratori dipendenti che hanno trasferito o trasferiscono la propria abitazione. I collaboratori coordinati e continuativi e gli altri percettori di redditi assimilati a quello da lavoro dipendente, possono beneficiare della detrazione o la stessa spetta solo ai lavoratori dipendenti? La misura della detrazione, che è rapportata al periodo nell’anno nel quale l’immobile è adibito ad abitazione, deve essere rapportata anche ai giorni nei quali il contribuente è stato lavoratore dipendente? Per usufruire della detrazione il contribuente deve possedere la qualifica di lavoratore dipendente prima del trasferimento della residenza o può acquisirla anche contemporaneamente al trasferimento stesso? La detrazione in questione spetta anche ai contribuenti che hanno trasferito la residenza nei tre anni antecedenti quello di richiesta della detrazione? R.: L’art. 13-ter, comma 2, del Tuir, prevede, a decorrere dall’anno d’imposta 2001, una detrazione a favore dei lavoratori dipendenti che hanno trasferito o trasferiscono la propria residenza nel comune di lavoro o in uno di quelli limitrofi, nei tre anni antecedenti a quello di richiesta della detrazione, purché il nuovo comune di residenza disti dal vecchio almeno 100 chilometri, e comunque al di fuori dalla propria regione, e che siano titolari di qualunque tipo di contratto di loca- zione di unità immobiliari adibite ad abitazione principale degli stessi. Tale detrazione, rapportata al periodo dell’anno durante il quale l’abitazione ha costituito la dimora principale del contribuente, è così determinata: a) euro 991,60 (lire 1.920.000), se il reddito complessivo non supera euro 15.493,71 (lire 30 milioni); b) euro 495,80 (lire 960.000), se il reddito complessivo supera euro 15.493,71 (lire 30 milioni) ma non euro 30.987,41 (lire 60 milioni). Con circolare 18 giugno 2001, n. 58/E, al paragrafo 3.1, è stato chiarito che il termine di tre anni decorre dalla data di variazione della residenza. Se ad esempio, un lavoratore dipendente trasferisce la residenza in ottobre 1998, tenuto conto che per effetto dell’articolo 2, comma 8, della legge n. 388 del 2000 la disposizione si applica a partire dal periodo d’imposta 2001, la detrazione non spetta visto che nel il 2001 sono già trascorsi tre periodi di imposta: il 1998, il 1999 ed il 2000. Tale detrazione spetta, sulla base della formulazione della norma, esclusivamente ai lavoratori dipendenti. Pertanto, restano esclusi i percettori di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente. Per usufruire della detrazione il contribuente deve, tra l’altro, essere titolare di un contratto di lavoro dipendente e deve trasferire la propria residenza nel comune di lavoro o in uno di quelli limitrofi. Il beneficio si applica a favore dei lavoratori dipendenti, compresi quelli che trasferiscono la propria residenza in conseguenza di un contratto appena stipulato. Se nel corso del periodo di spettanza della detrazione, il contribuente cessa di essere lavoratore dipendente, la detrazione non spetta a partire dal periodo di imposta successivo a quello nel quale non sussiste più tale qualifica. ***** Una recente delibera del Consiglio nazionale (5 luglio 2002) “dà la facoltà”, - in applicazione del principio di equiparazione tra residenza e domicilio professionale (l’art. 16 della legge 21 dicembre 1999 n. 526) ai fini dell’iscrizione negli albi professionali anche nei confronti dei giornalisti che abbiano fissa- to nel territorio italiano sia la residenza che il domicilio professionale -, “di opzione agli iscritti nell’Albo dei giornalisti circa l’utilizzo dell’uno o l’altro requisito ai fini dell’iscrizione medesima, ferma restando in ogni caso l’osservanza delle norme in tema di residenza, con i relativi obblighi derivanti dall’art. 3, primo comma, del Dpr n. 223/1989, che identifica la residenza anagrafica nel luogo dove si ha la dimora abituale”. Presso ogni Consiglio dell’Ordine regionale è istituito - dice l’articolo 26 della legge n. 69/1963 - l’Albo dei giornalisti che hanno la residenza nel territorio compreso nella circoscrizione del Consiglio. La residenza, quindi, determina l’appartenenza a un determinato Albo. L’articolo 16 della legge n. 526/1999 equipara residenza e domicilio professionale. Chi, comunque, “ha la dimora abituale” (per ragioni di stabile occupazione lavorativa) in un dato centro ha l’obbligo giuridico di fissarvi la sua residenza anagrafica (articolo 3, prima comma, del Dpr n. 223/1989 in relazione all’articolo 43 del Codice Civile) anche per far fronte ai suoi obblighi fiscali (addizionale regionale ed eventualmente comunale, tassa rifiuti, Irap, Ici, bollo automobilistico). L’articolo 43 del Codice civile fissa il domicilio di una persona “nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi”, mentre “la residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”. L’articolo 3 del Dpr n. 223/1989 (“popolazione residente”) afferma: “1. Per persone residenti nel comune s’intendono quelle aventi la propria dimora abituale nel comune. 2. Non cessano di appartenere alla popolazione residente le persone temporaneamente dimoranti in altri comuni o all’estero per l’esercizio di occupazioni stagionali o per causa di durata limitata”. La giurisprudenza sulla residenza è eloquente: “Ai sensi dell’art. 43 comma 2, c.c. e dell’art. 3 Dpr. 30 maggio 1989 n. 223, la residenza come dimora abituale, cioè stabile, è data dall’elemento oggettivo della permanenza in un dato luogo, la quale non è incompatibile con eventuali allontanamenti, mentre è irrilevante la mera intenzione, sganciata dal dato di fatto, di scegliere altro luogo di residenza (nella specie, mantenendo ivi consuetudini e rapporti sociali)” (Tar Valle d’Aosta, 20 novembre 1995, n. 172; Riviste: Foro Amm., 1996, 1312). La vicenda solleva, infine, questioni di grande profilo: A. Il nuovo articolo 119 della Costituzione stabilisce che “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome... stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri.... dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”. Pertanto Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni avranno compartecipazioni al gettito dei tributi erariali in rapporto al numero dei cittadini residenti nel loro territorio. Conseguentemente la mancata iscrizione nelle liste dei cittadini residenti comporterà un danno alle entrate di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, B. Chi, lavorando in Lombardia, mantiene la residenza (fittizia) altrove, elude non solo l’articolo 119 della Costituzione e l’articolo 43 del Codice Civile quant’anche l’articolo 25 (I comma) della Costituzione: il suo giudice disciplinare naturale è innegabilmente il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. C. È da considerare anche l’opportunità che il rapporto del giornalista venga mantenuto con l’Ordine regionale o interregionale ove viene esercitata la professione, anche per stabilire comunque una relazione oggettiva tra il singolo giornalista e la sua attività; D. Tutti i cittadini “hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi” (articolo 54 Cost.). È evidente il significato della delibera 5 luglio 2002 del Cnog: ogni giornalista può ancorare l’appartenenza all’Albo sia in base alla residenza e sia in base al domicilio professionale, ma non può non collocare la sua residenza nella città dove abbia la dimora abituale. L’art. 13-ter, comma 2, del Tuir – norma varata dal Parlamento nel 2000 – non fa che incoraggiare la regolarizzazione delle posizioni anomale, che tra i giornalisti sono tante. O.T. Conciliazione: non si pagano tasse se si pattuisce una “somma netta” Il patto con cui si obbliga l’azienda a versare al dipendente, in base ad una conciliazione, una “somma netta” è valido e non consente l’applicazione della ritenuta fiscale sull’importo convenuto. Non si configura una violazione della normativa tributaria (Cassazione Sezione Lavoro n. 16312 del 19 novembre 2002, Pres. Trezza, Rel. Celentano). Sotero P., ex dipendente della s.r.l. Valaf, dopo avere iniziato una controversia di lavoro nei confronti dell’azienda, l’ha conciliata davanti al Pretore di Latina, sottoscrivendo un verbale, con il quale la società si è obbligata a corrispondergli, in più rate, “la somma netta omnicomprensiva di lire 250.000.000”. Successivamente il lavoratore ha ceduto il credito risultante dalla conciliazione a Cataldo P., notificando la cessione alla debitrice. La Valaf, dopo avere versato alcune rate, ha comunicato all’ex dipendente e al cessionario del credito che essa intendeva operare, sulle somme dovute, la ritenuta d’acconto per Irpef in misura del 10 per cento. Essa ha quindi versato all’Erario venticinque milioni di lire, trattenendo l’importo su quanto dovuto in base al verbale di conciliazione. ORDINE 2 2003 Cataldo P. ha promosso nei confronti della Valaf un’azione esecutiva, notificandole un precetto di pagamento per il complessivo importo di lire 25.837.500 (di cui 25.000.000 per sorte) e procedendo quindi ad un pignoramento presso tre istituti di credito. La società ha proposto opposizione all’esecuzione, davanti al Pretore di Latina, sostenendo di avere dovuto operare la ritenuta in esecuzione di un preciso obbligo di legge. Cataldo P. si è difeso sostenendo che l’accordo formalizzato con il verbale di conciliazione prevedeva a carico dell’azienda l’obbligo di corrispondere la somma di 250 milioni al netto di imposte e tasse. Il Pretore, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha rigettato l’opposizione. Questa decisione è stata integralmente riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Latina, che ha dichiarato l’inefficacia del pignoramento per inesistenza delle pretesa creditoria. Il Tribunale ha ritenuto nullo il “patto di netto” perché contrastante con le norme di legge imperative vigenti in materia tributaria. Cataldo P. ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza del Tribunale per violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, in quanto ha ritenuto che il Tribunale abbia violato i criteri previsti dalla legge nell’interpretazione dell’accordo risultante dal verbale di conciliazione. Motivando la sua decisione, la Suprema Corte ha affermato quanto segue: «La espressione oggetto di contrasto, così come riportata in sentenza, è la seguente: “la società Valaf offre al Pannone la somma netta onnicomprensiva di lire 250.000.000”. Correttamente i giudici di appello rilevano che il tenore letterale della espressione “somma netta”, anche alla luce dell’importo dei singoli pagamenti concordati (51.000.000 contestualmente all’accordo, 49.000.000 a mezzo assegno bancario, 150.000.000 in quattro rate mensili di pari importo), altro non poteva significare che al signor Sotero P. dovesse essere versata tutta la ricordata somma di lire 250.000.000, il che non sarebbe avvenuto se su tale cifra fosse stata trattenuta dalla società la ritenuta di imposta del 10%. Hanno però ritenuto che tale risultato fosse stato perseguito con la pattuizione (implicita) che il peso tributario della ritenuta, da operarsi a titolo di acconto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, dovesse restare a carico della società per effetto di un illecito esonero dall’obbligo di rivalsa, obbligo sancito dall’art. 64 del Dpr n. 600/73. Il Tribunale non dà conto, però, delle ragioni per le quali ha ritenuto che si fosse in presenza di un tale patto, indubbiamente nullo ove fosse stato realmente stipulato (Cass., 19 giugno 1987 n. 5422), e non fosse, invece, consequenziale a quanto osservato, che la somma di 250.000.000 era “netta”, in contrapposizione ad una somma “lorda” superiore, non indicata ma tale che, detratta la obbligatoria ritenuta di imposta del dieci per cento, al lavoratore residuasse, appunto, il ricordato importo netto di 250.000.000 (secondo la semplice proporzione 250.000.000 : x == 90 : 100). Il criterio della interpretazione letterale, tenuto conto dei termini netto e lordo, risulta violato, così come priva di motivazione è la ritenuta sussistenza di un illecito patto di esonero dalla rivalsa, non esplicitato, da quanto risulta dalla sentenza, in nessuna parte della transazione (nel mentre lo stesso risultato poteva esser raggiunto senza far ricorso ad alcuna illecita pattuizione)». 7 Chi è tenuto (e chi no) ad iscriversi alla gestione separata “I compensi derivanti dall’utilizzazione di opere tutelate dalle norme sul diritto d’autore continuano a costituire redditi di lavoro autonomo e vanno qualificati, ai fini fiscali, come diritto d’autore” ricerca di Franco Abruzzo presidente OgL La Sezione lavoro della Cassazione (sentenza 1° giugno 1998, n. 5370) ha ritenuto applicabile la tutela del diritto d’autore all’opera giornalistica. La massima giurisprudenziale suona così: “Può qualificarsi come giornalistica l’opera svolta in favore di editori di quotidiani e periodici, di agenzie d’informazione o di emittenti televisive, ove esplicata con energie prevalentemente intellettuali e consistente nella raccolta, elaborazione o commento della notizia destinata a formare oggetto di comunicazione di massa; tale opera si distingue da quelle collaterali o ausiliarie per la creatività, ossia per la presenza, nella manifestazione del pensiero finalizzata all’informazione, di un apporto soggettivo e inventivo, secondo i criteri desumibili anche dall’art. 2575 c.c. e Ministero delle Finanze Circolare 26 gennaio 2001 n. 7/E Risposte ai quesiti formulati in occasione della videoconferenza del 18 gennaio 2001 in materia di Irpef e Iva. 5. Collaborazioni coordinate e continuative. 5.1 Redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno. D. I redditi di lavoro autonomo derivante dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno da parte dell’autore non conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali (articolo 49, comma 2, lettera b) del D.P.R. n. 917 del 1986), dichiarati fino all’anno scorso nel rigo RE 29, continueranno ad essere dichiarati allo stesso modo o, a partire dal 2001, saranno ricompresi tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente alla luce delle modifiche relative alle collaborazioni coordinate e continuative apportate con legge 21 novembre 2000 n. 342? R. L’articolo 34 della legge 21 novembre 2000, n. 342, tramite l’inserimento della lettera c-bis) nell’articolo 47 del Tuir (D.P.R. n. 917 del 1986) e la soppressione di alcune disposizioni, ha modificato il regime fiscale delle collaborazioni coordinate e continuative in precedenza assimilate dalla lettera a) dell’articolo 49, ai redditi di lavoro autonomo. Tali modifiche non hanno interessato la lettera b) dell’articolo 49 del Tuir concernente i compensi derivanti dall’utilizzazione di opere e invenzioni tutelate dalle norme sul diritto d’autore. Tali compensi pertanto continuano a costituire redditi di lavoro autonomo. …….. Ministero delle Finanze Circolare 3 maggio 1996 n. 108/E. Risposte a quesiti in materia di imposte sui redditi, Iva, imposta di registro e tasse sulle concessioni governative. Alla Direzione regionale delle entrate Agli Uffici delle entrate Agli Uffici del registro Agli Uffici distrettuali delle imposte dirette Agli Uffici dell’imposta sul valore aggiunto Ai Centri di servizio delle imposte dirette ed indirette Alle Direzioni centrali del dipartimento delle entrate Alla Direzione generale degli affari generali e del personale Al Segretario generale Al Servizio per il controllo interno Al Servizio consultivo ed ispettivo tributario Al Comando generale della Guardia di Finanza DIRITTO D’AUTORE E INPGI I giornalisti-autori non sono Lo dicono Cassazione e Mi dall’art. 1 l. n. 633 del 1941 in materia di protezione delle opere dell’ingegno, letterarie e artistiche”. Circolare 26 gennaio 2001 n. 7/E del ministero delle Finanze: “L’articolo 34 della legge 21 novembre 2000, n. 342, tramite l’inserimento della lettera c-bis) nell’articolo 47 del Tuir. (Dpr. n. 917 del 1986) e la soppressione di alcune disposizioni, ha modificato il regime fiscale delle collaborazioni coordinate e continuative in precedenza assimilate dalla lettera a) dell’articolo 49, ai redditi di lavoro autonomo. Tali modifiche non hanno interessato la lettera b) dell’articolo 49 del Tuir concernente i compensi derivanti dall’utilizzazione di opere e invenzioni tutelate dalle norme sul diritto d’autore. Tali compensi pertanto continuano a costituire redditi di lavoro autonomo”. Il ministero delle Finanze in data 30 gennaio 1996 aveva precisato che quando la collaborazione resa a giornali o riviste ha per oggetto la cessione di un’opera dell’ingegno tutelata dalle norme sul diritto d’autore, il corrispondente provento va qualificato, ai fini fiscali, come diritto d’autore. In sostanza la cessione dei diritti fa “zona franca”. Anche le collaborazioni occasionali escludono l’adesione all’Inpgi/2. Non sono inquadrabili come cessione dei diritti d’autore l’attività di “persone che si limitano a fornire alla redazione del giornale notizie utili per la redazione dell’articolo” (risposta del ministero delle Finanze contenuta nella circolare n. 108/E del 3 maggio 1996) e la stesura di notizie, di “brevi” o di articoli legati al racconto di fatti di cronaca, che non richiedano elaborazione critica o approfondimenti particolari. Vengono segnalati contratti che mascherano con la cessione dei diritti d’autore prestazioni redazionali espresse anche con articoli e servizi giornalistici. 7. Redditi di lavoro autonomo. 7.1 Compensi pagati agli autori di articoli da parte di giornali e riviste 49, comma 2, lett. b), del Tuir, mentre gli altri casi rientrano tra i redditi di cui all’art. 49, comma 2, lett. a). ……………………… D. I compensi pagati dai quotidiani e dalle riviste agli autori di articoli (quindi di opere protette dal diritto d’autore) devono essere trattati come proventi da collaborazioni coordinate e continuative (art. 49, comma 2, lett. a), del Tuir) o come proventi per l’utilizzo dell’opera dell’ingegno (art. 49, comma 2, lett. b), del Tuir)? Parere della Direzione delle entrate per la Lombardia: “Tutte le volte che si realizza la cessione di un’opera dell’ingegno di carattere creativo, tutelata e disciplinata dagli articoli 2575 e seguenti del Codice civile e dalla legge 22.4.1941 n. 633, il relativo compenso costituisce reddito rientrante nella previsione dell’articolo 49, comma 2, lettera b, del Tuir”. L’argomento è stato affrontato nel gennaio 1996 dall’Ordine della Lombardia. Allora il rischio era quello di dover versare il 10% all’Inps. La legge sul diritto d’autore (n. 633/1941) apparve l’ancora di salvezza. L’Ordine raccomandò: “La cessione dei diritti d’autore (articolo, servizio giornalistico o fotografico, progetto grafico) deve risultare da una contrattazione scritta tra le parti (articolo 2581 del Codice civile e articolo 110 della legge sul diritto d’autore n. 633/1941)”. Successivamente il dottor Giuseppe Conac, direttore regionale delle entrate per la Lombardia, ha risposto al quesito che il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, gli aveva posto il 12 febbraio 1996 sulla “qualificazione fiscale del reddito derivante da cessioni di opere dell’ingegno del giornalismo telecinefotografico e del giornalismo grafico”. La risposta è allargata anche al giornalismo scritto (cioè ai giornalisti autori di articoli e servizi). Questa la nota del dottor Conac: «Codesto Ordine ha chiesto di conoscere la qualificazione fiscale del reddito derivante dalla cessione di un’opera dell’ingegno nel settore del giornalismo telecinefotografico e del giornalismo grafico. In particolare viene chiesto di conoscere se tale reddito possa rientrare nelle previsioni di cui alla lettera b, comma secondo, dell’articolo 49 del Tuir (Testo unico imposte dirette, ndr). Tale disposizione contiene una elencazione di diritti su beni immateriali, dalla cui cessione derivano al titolare (autore o inventore) redditi che si considerano di lavoro autonomo, sempre che tali diritti non costituiscano beni relativi ad impresa. Il ministero delle Finanze, per quanto attiene gli articoli redatti da giornalisti, in occasione della teleconferenza tenutasi il 20.1.1996, ha precisato che dalla loro cessione ad editori di giornali e riviste, derivano redditi qualificabili come cessione di diritti d’autore, quando ricorrano tutte le condizioni previste dagli articoli 2575 e seguenti del Codice civile e dalla legge 22.4.1941 n. 633, che R. Nell’ambito della redazione di articoli occorre distinguere l’ipotesi in cui viene ceduta un’opera dell’ingegno, la cui riproduzione sia tutelata dalle norme sul diritto d’autore (art. 2575 del codice civile e legge n. 633 del 1941), da quella in cui si instaura un rapporto di collaborazione a giornali e riviste in relazione al quale l’oggetto complessivo della prestazione esula dalla disciplina relativa alla tutela del diritto d’autore, quale o, ad esempio, l’ipotesi dei correttori di bozze o delle persone che si limitano a fornire alla redazione del giornale notizie utili per la redazione dell’articolo. È soltanto nella prima ipotesi che il reddito derivante dalla redazione di articoli elaborati dall’autore può essere considerato rientrante tra i redditi di cui all’art. disciplinano e tutelano il diritto d’autore. Si ricorda in particolare, che la cessione del diritto d’autore deve risultare da una contrattazione scritta tra le parti (articolo 2581 Codice civile e articolo 110 della legge n. 633/1941). A parere di questa Direzione, conformemente a quanto affermato dal ministero delle Finanze, tutte le volte che si realizza la cessione di un’opera dell’ingegno di carattere creativo, tutelata e disciplinata dalle precitate norme, il relativo compenso costituisce reddito rientrante nella previsione dell’articolo 49, comma 2, lettera b, del Tuir. Considerato che l’articolo 2575 Codice civile prevede che formano oggetto del diritto d’autore le opere dell’ingegno di carattere creativo, “qualunque ne sia il modo o la forma di espressione”, si ritiene che gli stessi criteri siano applicabili alle cessioni delle opere dell’ingegno del giornalismo telecinefotografico, prescindendo dal tipo di supporto utilizzato (pellicola cinematografica, piuttosto che pellicole fotografiche o supporto cartaceo semplice). Anche per il giornalismo grafico, si ritiene che si possa configurare la cessione del diritto d’autore tutte le volte in cui oggetto della cessione sia un’opera originale e creativa, la cui riproduzione sia tutelata dalle specifiche norme sopra richiamate». Conclusioni I compensi a titolo di cessione di diritti d’autore costituiscono redditi di lavoro autonomo ai sensi dell’articolo 49 (comma 2, lettera b) del Dpr n. 917/1986 e, come tali, ridotti del 25% (art. 50, comma 8, del Dpr n. 917/986), sono soggetti a ritenuta d’acconto del 20 % (art. 25 del Dpr n. 600/1973); la ritenuta d’acconto del 20% si applica in sostanza sul 75% del compenso a titolo di cessione di diritti d’autore (art. 110 della legge 633/1941 e art. 2581 del Codice civile); i compensi collegati alla cessione di diritti d’autore vanno denunciati fiscalmente nel Modello unico (Quadro E, Sezione II, Rigo 27); 8 chi cede i propri diritti sulle opere dell’ingegno (articoli, servizi giornalistici o fotografici, progetti grafici) non paga il 12% all’Inpgi-2. La legge 335/1995, il Dlgs 103/1996 e lo stesso Regolamento dell’Inpgi-2 escludono dalla gestione separata i “soggetti” che ricadono nel campo della cessione dei diritti d’autore. “La trasmissione dei diritti di utilizzazione deve essere provata per iscritto” (Articolo 110 della legge 633/1941 sul diritto d’autore). Le circolari ministeriali e le delibere dell’Inpgi in contrasto con le leggi sopra citate non possono correggere o cambiare le leggi stesse. ORDINE 2 2003 Risposta delle Finanze: deducibili i contributi versati per il riscatto degli anni di Università “clienti” dell’Inpgi-2 nistero delle Finanze Il ministero delle Finanze, con la circolare 26 gennaio 2001 n. 7/E, ha risposto ai quesiti formulati (con la videoconferenza del 18 gennaio 2001) in materia di Irpef e Iva. Il ministero in particolare ha fatto chiarezza, per quanto riguarda gli oneri deducibili, sui contributi versati per il riscatto degli anni di università. Ed ecco il testo del quesito e della risposta: D. Sono deducibili ai fini dell’Irpef i contributi versati per il riscatto degli anni di università? R. L’attuale versione della lettera e) dell’articolo 10 del Tuir (Dpr n. 917 del 1986), come modificata dall’articolo 13 del decreto legislativo n. 47/2000, prevede la deducibilità dal reddito, ai fini dell’Irpef, dei contributi versati facoltativamente alla gestione della forma pensionistica obbligatoria di appartenenza. Tra i contributi in questione rientrano quelli versati facoltativamente per il riscatto degli anni di università. RISPOSTA DEL PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI DELLA LOMBARDIA ALL’UFFICIO LEGALE DELL’INPGI Il Ministero competente ad emettere pareri è quello delle Finanze Pubblichiamo integralmente la lettera che Franco Abruzzo in data 30 dicembre 2002 ha indirizzato all’avvocato Elisabetta Angelini, responsabile del Servizio legale dell-Inpgi Gentile Avvocato, ho letto la Sua lettera, che, non se la prenda, ritengo destituita di ogni fondamento giuridico. Le motivazioni del mio giudizio, senz’altro drastico, sono quelle esposte nello studio allegato a Lei ben noto. Lei scrive che il ministero del Lavoro, in tema di cessione dei diritti d’autore, ha approvato “alcuni parametri” interpretativi “attraverso i quali si possa stabilire quando la cessione dei diritti d’autore sia legittima (e quindi non sottoposta all’obbligo di contribuzione) e quando, invece, costituisca un abuso e di conseguenza una elusione dell’obbligo previdenziale previsto dal legislatore”. I parametri – che sostanzialmente negano la cessione dei diritti d’autore – sono quelli suggeriti dall’Inpgi e accolti grazie alla compiacenza di funzionari, che non conoscono (lo dico con amarezza) la materia. Questi fatti mettono a dura prova la mia fiducia nello Stato e il mio senso dello Stato e del dovere. Le ricordo che in materia fiscale la competenza esclusiva (Dlgs n. 300/1999) è del ministero dell’Economia e delle Finanze (il quale sulla cessione dei diritti d’autore si è già espresso con la circolare n. 108-E/1996 e anche attraverso le Direzioni regionali delle entrate in maniera chiara e univoca) e che sull’Ordine dei giornalisti (e sulla professione giornalistica) vigila esclusivamente (Dlgs n. 300/1999) il ministero della Giustizia, abilitato a dare pareri sulla professione giornalistica. La competenza del ministero del Lavoro è fissata nell’articolo 3 (gestione) del Dlgs n. 509/1994. L’articolo 3 stabilisce quanto segue: “1. La vigilanza sulle associazioni o fondazioni di cui all’art. 1 è esercitata dal ministero del lavoro e della previdenza sociale, dal ministero del tesoro, nonché dagli altri ministeri rispettivamente competenti ad esercitare la vigilanza per gli enti trasformati ai sensi dell’art. 1, comma 1. Nei collegi dei sindaci deve essere assicurata la presenza di rappresentanti delle predette Amministrazioni. 2. Nell’esercizio della vigilanza il ministero del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i ministeri di cui al comma 1, approva i seguenti atti: a) lo statuto e i regolamenti, nonché le relative integrazioni o modificazioni; b) le delibere in materia di contributi e prestazioni, sempre che la relativa potestà sia prevista dai singoli ordinamenti vigenti. Per le forme di previdenza sostitutive dell’assicurazione generale obbligatoria le delibere sono adottate sulla base delle determinazioni definite dalla contrattazione collettiva nazionale. 3. Il ministero del lavoro e della previdenza sociale, di intesa con i ministeri di cui al comma 1, può formulare motivati rilievi su: i bilanci preventivi e i conti consuntivi; le note di variazione al bilancio di previsione; i criteri di individuazione e di ripartizione del rischio nella scelta degli investimenti così come sono indicati in ogni bilancio preventivo; le delibere contenenti criteri direttivi generali. Nel formulare tali rilievi il ministero del lavoro e della previdenza sociale, d’intesa con i ministeri di cui al comma 1, rinvia gli atti al nuovo esame da parte degli organi di amministrazione per riceverne una motivata decisione definitiva. I suddetti rilievi devono essere formulati per i bilanci consuntivi entro sessanta giorni dalla data di ricezione e entro trenta giorni dalla data di ricezione, per tutti gli altri atti di cui al presente comma. Trascorsi detti termini ogni atto relativo diventa esecutivo”. Il comma 6 dell’articolo 2 dello stesso Dlgs amplia drammaticamente la vigilanza del ministero del Lavoro: “6. Nel caso in cui gli organi di amministrazione e di rappresentanza si rendessero responsabili di gravi violazioni di legge afferenti la corretta gestione dell’associazione o della fondazione, il ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i ministri di cui all’art. 3, comma 1, nomina un commissario straordinario con il compito di salvaguardare la corretta gestione dell’ente e, entro sei mesi dalla sua nomina, avvia e conclude la procedura per rieleggere gli amministratori dell’ente stesso, così come previsto dallo statuto”. Nel dlgs n. 509/1994 (e nello Statuto della Fondazione Inpgi) non c’è traccia (ovviamente) di competenza dell’Istituto nel campo della cessione dei diritti d’autore anche perché l’Inpgi-2 è nato nel 1996 (ex legge n. 335/1995 e dlgs 103/1996, previo parere del Cnog). Chi denuncia entrate ancorate alla cessione dei diritti d’autore ottiene dallo Stato un buon trattamento (versa all’erario il 20% sul 75% dei compensi). Il punto di vista dell’Inpgi potrà essere accolto soltanto quando scomparirà dalla dichiarazione dei redditi il Quadro E riservato appunto ai redditi da cessione dei diritti d’autore ex legge n. 633/1941. L’Inpgi si dia da fare con il ministro dell’Econonia e delle Finanze, perché il Quadro E venga abolito. In tal caso le argomentazioni da Lei sostenute potrebbero trovare cittadinanza nel sistema giuridico italiano. L’Ordine di Milano ha una storia trentacinquennale limpida sul terreno della lotta al “lavoro nero” e all’abusivato. Non sono inquadrabili come cessione dei diritti d’autore l’attività di “persone che si limitano a fornire alla redazione del giornale notizie utili per la redazione dell’articolo” (risposta del ministero delle Finanze contenuta nella circolare n. 108/E del 3 maggio 1996) oppure la stesura di notizie o di brevi. Vengono segnalati da più parti contratti che mascherano con la cessione dei diritti d’autore prestazioni redazionali espresse anche con articoli e servizi giornalistici. Sono e mi ritengo impegnato personalmente nella repressione di tali abusi. Trovo illegittimo e riprovevole adombrare un rischio civilistico per la collega Righetti, che difende la risorsa della cessione dei diritti d’autore. Resta inteso che do pareri e che non costringo nessuno a seguire i miei pareri. Il diritto di critica è costituzionalmente garantito. Spero che nei piani alti e bassi (Uffici regionali) dell’Inpgi il diritto di critica sia almeno …tollerato. La rimando alla lettura critica del mio saggio. Non me ne voglia. So che Lei è una persona civilissima e preparata. Sono abituato a difendere con ragionevolezza i miei punti di vista. Le auguro un 2003 sereno con l’auspicio che in futuro non sia chiamata a difendere posizioni indifendibili. Cordiali saluti, Il presidente dell’OgL dott. Franco Abruzzo di Mario Fezzi, avvocato in Milano CONTRATTO E DIRITTO In quali casi un giornalista può subire sanzioni disciplinari, e quali? Un’importante novità contenuta nel recente rinnovo contrattuale riguarda l’introduzione di un regolamento di disciplina: infatti, precedentemente il Cnlg era privo di un codice disciplinare. Il nuovo regolamento di disciplina, dopo aver disposto che il giornalista è tenuto al rispetto degli obblighi di diligenza e di fedeltà, contempla anche alcune sanzioni disciplinari e le infrazioni che, se commesse dal giornalista, possono giustificarle. In primo luogo, è previsto il rimprovero verbale, che può essere applicato nelle ipotesi di infrazioni lievi e, comunque, in caso di inosservanza degli obblighi previsti dall’art. 7 Cnlg (sostanzialmente, si tratta della violazione del rispetto dell’orario di lavoro). Il rimprovero scritto, invece, può essere inflitto nel caso di recidiva di un’infrazione già punita con il rimprovero verbale, olre che nel caso di mancata comunicazione di un’assenza, senza giustificato motivo. ORDINE 2 2003 È poi contemplata la multa (che, ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, non può eccedere l’importo corrispondente a quattro ore della retribuzione base), che può essere inflitta in caso di gravi recidive nelle infrazioni di cui si è già detto a proposito del rimprovero verbale e scritto. Sembra di capire che intanto la recidiva possa essere definita grave, in quanto la stessa sia ripetuta: in buona sostanza, l’infrazione lieve dà luogo al rimprovero verbale; alla prima recidiva di questa infrazione, potrà scattare il rimprovero scritto; alla seconda recidiva l’editore potrà applicare la multa. Naturalmente, in caso di mancata comunicazione di un’assenza, che - come si è visto - legittima il rimprovero scritto, sarà sufficiente una sola recidiva per legittimare la multa. Più grave è il caso della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, per un massimo di cinque giorni. Questa sanzione può essere adottata a fronte di una violazione che, al contempo, deve essere grave e ripetuta: in altre parole, per legittimare la sospensione non è sufficiente un’infrazione grave, ma è anche necessaria la recidiva. Tuttavia, sono previste due infrazioni che, in ogni caso e a prescindere dalla recidiva, legittimano la sospensione. La prima riguarda l’uso di strumenti aziendali per un lavoro estraneo all’attività lavorativa. Si deve ritenere che la fattispecie ricorra in casi di particolare gravità, dato che la sanzione della sospensione presuppone comunque una grave infrazione (per esempio, un’unica telefonata urbana per motivi extra-lavorativi, o una fotocopia per motivi personali non potranno mai essere considerate infrazioni che legittimino la sospensione). La seconda ipotesi è il danneggiamento di notevole entità del materiale aziendale, avvenuto per colpa grave: è dunque necessario che il danno sia di notevole entità e che sia stato procurato non per semplice distrazione. Infine, è contemplata l’ipotesi del licenziamento. A tale riguardo, il Regolamento innanzi tutto richiama la legge n. 604/1966 e, dunque, il giornalista può essere licenziato per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, ovvero per notevoli inadempimenti degli obblighi contrattuali. Inoltre, è previsto che possa soggiacere alla sanzione del licenziamento il giornalista che violi l’art. 8 Cnlg. In ogni caso, non si può mancare di rimarcare la genericità del Regolamento. In particolare, come si è visto, non vengono indicate con sufficiente chiarezza (a parte alcuni e sporadici casi specifici) le infrazioni disciplinari e la sanzione conseguentemente applicabile: a tale riguardo, di regola si fa generico riferimento alle in- frazioni, che vengono semplicemente definite lievi o gravi, ma senza indicare quando concretamente una infrazione debba rientrare nell’una o nell’altra categoria. Per di più, non viene neppure fornita una casistica sufficientemente dettagliata, tale da fornire un parametro di riferimento per stabilire la sanzione applicabile per un’infrazione non espressamente contemplata. Spettanze di fine rapporto: l’auto Il valore dell’uso e della disponibilità anche a fini personali di un’autovettura, concessa al lavoratore come beneficio, ha natura retributiva. Dev’essere perciò computato nelle spettanze di fine rapporto. Il valore dell’uso e della disponibilità, anche a fini personali, di una autovettura concessa contrattualmente dal datore al prestatore di lavoro come beneficio in natura, anche indipendentemente dalla sua effettiva utilizzazione, rappresenta il contenuto di una obbligazione che, ove pure non ricollegabile ad una specifica prestazione, è idonea ad essere considerata di natura retributiva, con tutte le relative conseguenze, se pattiziamente inserita nella struttura sinallagmatica del contratto di lavoro cui essa accede. Sicché va ritenuto che il controvalore in danaro dell’uso personale dell’autovettura, concesso appunto in rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa, dev’essere computato nella base di calcolo delle indennità di fine rapporto (Cassazione Sezione Lavoro n. 16129 del 15 novembre 2002, Pres. Trezza, Rel. Mercurio). 9 La questione riguarda tutte le redazioni della Mondadori di Segrate Le ferie sono irrinunciabili e non possono essere monetizzate 1 Abruzzo al Cdr Mondadori: “Le ferie sono irrinunciabili e non possono essere monetizzate” 2 Fezzi: “Molto diverso il caso di arretrati patologici di ferie” 3 Abruzzo: “Fare le ferie nell’anno significa anche avere organici adeguati” Milano 19 dicembre 2002 Da Franco Abruzzo al Cdr della Mondatori (e all’avv. Mario Fezzi) Milano, 20 dicembre 2002 Da Mario Fezzi a Franco Abruzzo Milano 20 dicembre 2002 Avv. Mario Fezzi - Milano p.c.: Cdr della Mondadori- Segrate Cari colleghi, ho appreso, con grande stupore, che nella vostra azienda esiste un accordo in base al quale i redattori sono costretti a vendere o a monetizzare le ferie arretrate. Un accordo simile è una bestemmia giuridica, perché è in radicale contrasto con l’articolo 36 della Costituzione: “...Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Vi fate forti, pare, di un parere dell’avv. Mario Fezzi. Non credo che l’amico Fezzi - che mi legge in copia - possa condividere un protocollo, il quale, in contrasto con la legge fondamentale della Repubblica, è da considerare nullo. Ho lavorato per 19 anni a Il Sole 24 Ore: i redattori della testata di via Lomazzo possono, se vogliono, monetizzare un minimo di 15 giorni di ferie arretrate. È un’altra cosa!!!! Vi saluto con cordialità e vi auguro Buon Natale e un sereno 2003. E vi auguro, se mi consentite, di non seguire i brutti esempi romani (parlo dell’ultimo infausto contratto) e di far vincere sempre la nostra Costituzione. Franco Abruzzo, presidente OgL Caro Franco, ho riletto questa mattina l’accordo Mondadori sulle ferie e, una volta tanto, non sono così d’accordo con te. L’accordo infatti non prevede tout court una monetizzazione delle ferie arretrate, ma specifica che le ferie non godute al 31 dicembre potranno essere godute nell’arco dell’anno successivo; solo al termine dell’anno successivo, in caso di mancato godimento (ma è sufficiente godere nel 2003 le ferie 2002 e non quelle dell’anno in corso per evitare la monetizzazione), le ferie vengono monetizzate. Non mi pare che ci sia una violazione dei principi costituzionali in questa previsione contrattuale. Le ferie, per legge e per Costituzione, debbono servire al recupero psico-fisico dell’individuo, e debbono essere godute e non monetizzate. Ma molto diverso è il caso di arretrati patologici di ferie non godute: l’accordo Mondadori di queste si occupa, non delle ferie annuali. L’ultimo capoverso dell’accordo poi prevede lo smaltimento delle ferie arretrate in 4 anni, con il solo pagamento di un quarto subito e la possibilità di godere di tutte le altre ferie residue o di ottenerne la monetizzazione. Possiamo forse discutere la bontà dell’accordo sul piano sindacale (ma mi pare di avere capito che in cambio sono state ottenute significative migliorie), ma non mi pare proprio che possa dirsi che si tratta di una violazione delle norme costituzionali, che si avrebbe invece sicuramente se le ferie annuali venissero monetizzate anno per anno e il giornalista non potesse mai ristorare le proprie energie. Cari saluti. Mario Fezzi Caro Mario, conosco l’accordo Ame. Contesto che ci possa essere un protocollo aziendale che preveda, comunque, il pagamento obbligatorio e rigido delle ferie non godute anche a distanza di anni. Il mio no nasce dall’articolo 36 (in relazione al 32: salute) della Costituzione e ha come sfondo questioni sindacali di grande profilo: anche in Mondadori accade che molti direttori non consentano ai loro redattori di fare le ferie nell’anno. Il problema di “fare le ferie nell’anno” trascina quello degli organici e delle sostituzioni a termine: se tutti fanno le ferie, distribuite di massima tra maggio e ottobre di ogni anno, allora si porrebbe il problema di assumere un certo numero di disoccupati. Tale politica, come sai, non piace agli editori. Ed è strano che piaccia a certi sindacalisti. Gli “arretrati patologici di ferie non godute”, ai quali tu fai cenno, si formano proprio non sorvegliando – come sarebbe doveroso da parte dei Cdr – il godimento tempestivo delle ferie. La mia visione del sindacato è che lo stesso debba essere conflittuale: non si può cedere sui principi fondamentali per conseguire un po’ di apparenti vantaggi e supposte migliorie. Di cedimento in cedimento, come è avvenuto con l’ultimo contratto, andiamo tutti alla malora e siamo deboli sul fronte dei valori fondamentali della professione (dignità della professione, giornalismo d’inchiesta, sbarramento alla commistione pubblicità/informazione, diritto alla firma, ruolo degli inviati, difesa dei soggetti deboli). Anche per gli avvocati bravi come te sta diventando sempre più difficile difendere i diritti dei giornalisti. Ferie e salute camminano di pari passo. Il modello appena appena accettabile è quello del Sole 24 Ore. Cordiali saluti e auguri, Franco Abruzzo 4 La Mondadori ci ripensa: i giornalisti possono chiedere la sospensione del pagamento e il godimento delle ferie arretrate entro il 31 maggio 2003 Sentenza della Sezione lavoro della Cassazione Segrate, 20 dicembre 2002 Alla cortese attenzione del CdR Gruppo Mondadori (comunicazione urgente da inoltrare a tutti i giornalisti dipendenti) Sulla base delle richieste ricevute in questi giorni dai giornalisti a proposito delle ferie arretrate al 31 dicembre 2001, che saranno poste in liquidazione unitamente alle spettanze del mese di febbraio 2003, si precisa quanto segue: tutti i giornalisti che non intenderanno ricevere compensi di liquidazioni relativi al numero di giorni di ferie già indicati nella comunicazione allegata allo stipendio ricevuto in data odierna, potranno, entro e non oltre il 14 febbraio, inoltrare all’attenzione della Direzione di testata e della Direzione del personale una domanda indicante: 1. richiesta di sospensione della liquidazione del primo dei quattro ratei delle ferie arretrate; 2. indicazione del numero di giorni di ferie che intendono smaltire e che dovranno essere goduti entro e non oltre il 31 maggio 2003, compatibilmente con le esigenze organizzative delle singole testate. Le domande avranno bisogno di essere accompagnate da un visto di approvazione delle rispettive Direzioni per divenire operative. Qualora, nonostante lo smaltimento indicato fino al 31 maggio 2003, residuassero ulteriori giorni di ferie questi saranno posti in liquidazione unitamente alle competenze del mese di giugno 2003. Tutti i giornalisti che non inoltreranno comunicazioni diverse saranno liquidati nel mese di febbraio 2003 e non più a gennaio a causa di questo slittamento. Restano inalterate tutte le altre disposizioni relative alle ferie già indicate nell’accordo integrativo del 27.2.2002. Cordiali saluti. Direzione del personale Vito Ribaudo 10 Il lavoratore che non abbia goduto delle ferie ha diritto anche al risarcimento del danno Il lavoratore che non abbia goduto delle ferie ha diritto, oltre che all’indennità sostitutiva, avente natura retributiva, al risarcimento del danno per la perdita di “cura” personale, familiare e sociale. L’indennità dovuta al lavoratore per ferie non godute ha natura retributiva e non risarcitoria. Il mancato godimento delle ferie comporta, infatti, la prestazione di attività lavorativa contrattualmente non dovuta ed irreversibilmente prestata. Poiché il datore di lavoro non può restituire l’indebita prestazione ricevuta egli è obbligato, in base agli articoli 1463 e 2037 cod. civ., al pagamento di una somma, corrispondente alla retribuzione, che costituisce l’indennità sostitutiva. Oltre che a questa somma il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno per la lesione del suo diritto al godimento delle ferie, in termini di perdita di “cura”personale (energie psico-fisiche e tempo libero) familiare e sociale. Per realizzare questo diritto egli deve tuttavia dare la prova del danno. Da tale risarcimento il datore di lavoro può essere esonerato ove provi che il suo inadempimento sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cassazione Sezione Lavoro n. 15776 del 9 novembre 2002, Pres. Sciarelli, Rel. Cuoco). ORDINE 2 2003 La protagonista della vicenda editoriale “colpevole” di aver chiesto il riconoscimento del titolo di giornalista Viaggio nell’inferno del mobbing senza mai arrendersi di Francesco De Bonis Circola in Internet un volume sul mobbing (www.geocities.com/ampavan). Il titolo è Mobbing e giustizia assente, sino ad oggi ha registrato cinquemila contatti. Leggere questo libro in un formato non certo agevole, quello delle fotocopie e della stampa da computer, è comunque estremamente interessante, perché è una sorta di viaggio nell’inferno che ha per protagonista una redattrice editoriale che ha la colpa di avere chiesto il riconoscimento del titolo di giornalista e di non aver ceduto - mai - al crescendo delle azioni di disturbo nei suoi confronti, nel tentativo di eliminare una lavoratrice indubbiamente scomoda o anche solo in esubero. L’azienda è la Mondadori Editore, della sede staccata di Verona, dove si stampano i libri per ragazzi e i periodici. La sintesi di ciò che le è accaduto, in un arco di tempo di sedici anni, ha attinenza, al di là della certezza di dove si collochi la verità dei fatti, principalmente con la privazione dei diritti. Ma quel che è altrettanto grave, è che ha a che fare con l’annullamento di ogni potenzialità creativa ed espressiva, cui ogni lavoratore ha diritto e che, alla fine, tutto questo è un sopruso che lede profondamente (e talvolta irrimediabilmente) la dignità e anche la salute della persona. Con il mobbing viene meno quel delicato e complesso rapporto di fiducia che dovrebbe essere la base di una relazione di lavoro tra un dipendente e l’azienda stessa e su cui si basa alla fine la firma del contratto di lavoro. Il mobbing, che in Italia colpisce un milione di persone ed è considerato tra le principali cause dell’ assenteismo da stress, non è una invenzione della stampa né una moda che viene dall’America. Mobbing è una parola inglese che letteralmente significa “assalto di un gruppo ad un individuo”. In medicina del lavoro indica una violenza psicologica, talvolta anche fisica, perpetrata sul posto di lavoro da parte dei colleghi o dei datori di lavoro. È una somma di vessazioni e di azioni di disturbo, create attraverso una complessa rete di accuse professionali, non veritiere o parzialmente vere, con l’aiuto di colleghi compiacenti, ma anche di pettegolezzi, che hanno per obiettivo estromettere il lavoratore “scomodo”, distruggendolo psicologicamente e socialmente, incrinandone la sicurezza in modo da provocarne il licenziamento o indurlo alle dimissioni. Il mobbing sfocia spesso in disturbi e vere e proprie malattie anche gravi, che vanno dagli attacchi di panico ai disturbi cardiovascolari, ai dolori muscolari e scheletrici sino alla depressione, con tutto quello che questa sindrome può portare con sé. Descrivere un caso di mobbing in prima persona richiede coraggio e chiarezza per poter ripercorrere le tappe di offese e vessazioni, separando le emozioni dai fatti e soprattutto capendo dove si è incrinato il rapporto tra causa ed effetto, cioè dove si colloca la linea di demarcazione tra accuse e colpe che vengono mosse al lavoratore vittima di queste azioni. L’autrice di questo libro, che è anche la protagonista, ha condensato in un centinaio di pagine la sua complessa storia, un emblematico caso di mobbing con tutte le sue zone di chiaro e scuro sulle responsabilità di chi gestisce il potere. …ma dove scappavo, dice Maria. L’editoria ce l’ho nel sangue Anna Maria Pavan, 53 anni, veronese, laureata in pedagogia, è cresciuta professionalmente nell’azienda più prestigiosa dell’editoria italiana. La Pavan è ancora alla Mondadori, ma da redattore dei libri per ragazzi è “finita” alle Officine grafiche come addetta alla stampa, non avendo ottenuto il contratto come giornalista nella sede che lei desiderava. Nel corso di questi anni è stata anche trasferita a Segrate, ma amando la sua terra, non è riuscita a reggere né il peso né i costi della trasferta quotidiana da Verona a Milano. Oggi, grazie al suo impegno e alla passione per la sua azienda, che mai ha perso, nonostante le difficoltà a cui è stata sottoposta, è delegata nell’esecutivo delle rappresentanze sindacali. La sua è stata certamente una vittoria morale perché, come lei stessa spiega nella premessa, “la professione non si estrinseca solo esercitandola, ma anche difendendo la propria dignità, perché anche il difendersi è lavoro”. Contro il mobbing, dunque, il coraggio di denunciarlo è forse il primo basilare antidoto per due motivi; il primo, per “non morire dentro”, il secondo perché, come dice un vecchio adagio, chi tace acconsente. Lettere di richiamo inviate dall’azienda Tutto è iniziato nell’86, quando Anna Maria Pavan era redattrice dei periodici per ragazzi della Disney, nella sede distaccata di Verona. Un giorno rientrando dalle ferie ricevette la prima di una serie di lettere di richiamo, dove le comunicavano che aveva sbagliato le didascalie sugli animali, invertendole, e aveva “licenziato”, come si dice in gergo, le ultime bozze, senza mettere le correzioni. Invitata a chiarire, si prese un giorno di sospensione, (“il sindacato a cui ero iscritta diede cartabianca alla proprietà”). La Pavan portò le prove che l’errore non era suo, ma di un collaboratore esterno. Ma il sindacato non l’appoggiò anche perché poteva così, disfandosi di lei, fare due nuovi contratti di formazione lavoro. È l’inizio di una serie di lettere di richiamo, di accuse su come lei aveva impostato il lavoro editoriale, che peraltro svolgeva da anni, senza aver ricevuto prima alcun appunto. Fece ricorso in Pretura, dove le chiesero di conciliare ma lei rifiutò. Dall’azienda fioccarono lettere di richiamo, richiami e umiliazioni di vario genere. Dopo quindici giorni il sindacato dichiarò, d’accordo con l’azienda, gli esuberi (e fece estendere così la Cassa integrazione speciale della legge sull’editoria 67/87 dall’area industriale anche alla casa di Verona) e la Pavan finì in Cassa integrazione. Poco prima, nell’88, quando la Mondadori perse la ORDINE 2 2003 concessione della Walt Disney, Anna Maria Pavan andò dal legale e si fece dare le sue prove, cioè le cianografiche, e scoprì che le ciano erano state vistate da un’altra persona. L’accusa era dunque pienamente infondata. Il girotondo delle azioni vessatorie continuò senza tregua. Scattano la paura e il disorientamento Come ha scritto A. Arendt in Le origini del totalitarismo, edizioni Comunità, “si perde dignità umana quando il trattamento subito non dipende da quel che si fa o non si fa”. C’è molto di questo nel mobbing, quando le azioni di disturbo aumentano, accade che non si capisce più che cosa accade e soprattutto perché. Non è un caso, dunque, se molti casi di mobbing sfociano inizialmente in disagi fisici come l’attacco di panico. In più, la solidarietà da parte dei colleghi viene a mancare ed è comprensibile, anche se non giustificabile moralmente, perché scatta la paura e il disorientamento, tutto diventa un rapporto di forza sbilanciato a favore di chi ha il potere, cioè dei capi che spesso tacciono o peggio collaborano con le azioni vessatorie. Si creano così le premesse per ulteriori abusi di potere, anche da parte di colleghi desiderosi solo di approfittare del momento e di mettere in atto vendette personali. Reintegro-lampo durato due ore Nel frattempo Anna Maria Pavan chiede l’iscrizione come pubblicista all’Ordine di Venezia e la ottiene. Chiede anche all’azienda gli arretrati dall’85 come redattore ordinario. Ma non li ottiene perché la Mondadori sostiene che non li meritava in quanto il periodico per cui aveva lavorato come redattore era stato dichiarato tale al Tribunale di Milano per soli fini fiscali e che si trattava in realtà di una collana di libri (e questo nonostante fosse registrato come periodico ordinario). Il sindacato, come si evince dal racconto della Pavan, è rigorosamente assente (il legale della Cgil lo pagherà lei stessa), non solo farà circolare la voce che l’iscrizione altro non era che uno scambio per un prelicenziamento. Isolata e con il morale a pezzi, la Pavan viene reintegrata in redazione per due ore poi subito spedita a casa, perché non c’era lavoro. Dopo una settimana viene collocata negli uffici della stampa libri in offset, ma non le danno nemmeno una scrivania, tanto che è costretta a sedersi nell’angolo dei fattorini, dove si mette a leggere e studiare per “non morire”. Anna Maria Pavan capisce che giorno per giorno le violenze psicologiche e il non lavorare rischiano di distruggerla. Le filosofie di difesa non sono molte, ma una certamente la Pavan l’ha compresa. Leggere voleva proprio dire non far morire il cervello. E tanto legge che si specializza in organizzazione del lavoro. È delusa dai sindacati, che “mi avevano messa in Cassa integrazione in modo da poter mettere mano ad altre assunzioni di giovani con contratti di formazione in base alla legge 416” e non avevano esitato a chiederle: “quanto vuoi per andartene?”. Da redattore editoriale si ritrova al reparto gestori prodotto in produzione offset, insomma le officine grafiche. Come dire un lavoro da operai specializzati. Leggiamo dal libro: “Seduta ad un tavolo contro il muro, con una finestra più alta della mia testa. Inchiostro ovunque, unto e odori, aria neanche a parlarne, ogni volta che uscivo dall’ufficio mi veniva da vomitare”. Essere costretti a svolgere un lavoro a cui non siamo preparati e di livello più basso comporta come conseguenza prima la disistima di sé, poi attriti coi capi e disordine psicologico. E alla fine, ti chiedono: “Scusa quanto vuoi per andartene?”. Le udienze finiscono in continui rinvii Nell’89 fa ricorso in Pretura a Verona per rivendicare la qualifica di gornalista e il relativo trattamento economico dall’85 e per demansionamento, ma tutto finisce in nulla. I fattorini si inteneriscono e dividono i tavoli, uno per i pacchi e uno per la Pavan. Con loro legge, divide le merende, le gioie e le rabbie. L’azienda appesantisce le sue angherie e riparte all’attacco con accuse di errori, altri richiami sull’incapacità di svolgere le sue mansioni e minaccia di portarla in tribunale. Il concetto era “tu non lavorerai più, tanto tutti sapevano ormai la storia”. Nella causa per il riconoscimento del contratto giornalistico le udienze finiscono in rinvii continui, ritardi, mancate presenze dell’azienda a causa anche di irresponsabili rappresentanti dell’editore, fino ad una sentenza che non le riconosce alcun diritto. È l’ennesimo colpo. Ma nella lotta sindacale per la difesa della propria professionalità e dignità c’è posto anche per la creatività. E Anna Maria Pavan scrive una sceneggiatura per la televisione pensando che la sua storia di denuncia possa trovare uno spazio, diciamo popolare, come mini soap, tutta imperniata sulla Mondadori e le sue strategie megaindustriali. Ma alla Rai viene rifiutata. Ora la Pavan è delegata sindacale specializzata in organizzazione del lavoro; dice di conoscere tutto della macchina editoriale che fa i libri e di esserne orgogliosa. Ha messo in piedi un sito a cui arrivano richieste di aiuto, segnalazioni di casi di mobbing da tutta Italia. È un passaparola che ha preso la caratteristica della solidarietà telematica. Leggendo alcune delle tante storie si capisce che il mobbing è diventato anche un modo subdolo per arrestare professionisti che hanno le carte in regola per svolgere al meglio il lavoro, ma che spesso vengono emarginati perché il loro essere seri nel lavoro mette in risalto le magagne degli altri o che le stesse aziende hanno necessità di tenere coperte. Un modo per stoppare il lavoratore troppo coscienzioso, che spesso è un dirigente o comunque un laureato, è quello demansionarlo, facendo sembrare questa scelta una giusta punizione per errori montati ad arte. Ma non c’è spazio per i “creativi” E l’editoria? La conclusione a cui è arrivata la Pavan è questa: “L’editoria sta morendo e lo capisco quando vedo che l’obiettivo finale economico per una rotativa da novanta miliardi viene raggiunto non tanto stampando riviste, - che tanto in Italia simili tirature non le raggiungiamo - ma piuttosto cataloghi pubblicitari”. Mai avuto desiderio di scappare? “Come no! - è la risposta - Ma dove andavo, ero già nella più grande casa editrice. L’editoria ce l’ho nel sangue. Con sofferenza, in anni di lavoro, ho conosciuto tutto dei libri, prima il lavoro editoriale e ora la stampa. Ma non voglio che si parli di mobbing come di un fatto solo psicologico, legato a delle antipatie personali o professionali”. La conclusione a cui è arrivata Anna Maria Pavan riguarda tutto il mercato: “La globalizzazione dell’industria italiana non accetta figure creative, c’è una massificazione mostruosa all’interno della imprenditoria italiana”. In Italia la prima proposta di legge contro il mobbing è stata presentata nel 1996 e si intitola “Norme per la repressione del terrorismo psicologico nei luoghi di lavoro”. Nel settembre del 2001 il Parlamento europeo ha approvato una Risoluzione contro la violenza e le molestie nei luoghi di lavoro. In Italia non abbiamo ancora una specifica legge sul mobbing, che forse da noi tende ancora a rimanere un “male oscuro”, anche se nel 2000 la Cassazione si è pronunciata, in materia ribadendo il diritto al risarcimento del danno biologico (ad esempio i disturbi al sistema nervoso). La strada è tutta da percorrere, per ora, con la denuncia. Il suo sito è www.geocities.com/ampavan 11 BILANCIO ANNUALE 2002 DI REPORTERS M E M O R I A Giornalisti nella storia I nostri Martiri Milano, 2 gennaio 2003. Una sezione del sito dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia (www.odg.mi.it) viene riservata a 12 giornalisti ammazzati dallo squadrismo fascista, dal terrorismo rosso, dal terrorismo internazionale, dalla mafia e dalla camorra. Questa la galleria dei Martiri: 1. Giovanni Amendola; 2. Piero Gobetti; 3. Carlo Casalegno; 4. Walter Tobagi; 5. Ilaria Alpi; 6. Maria Grazia Cutuli; 7. Antonio Russo; 8. Mauro De Mauro; 9. Mario Francese; 10. Giuseppe “Pippo” Fava; 11. Giancarlo Siani; 12. Beppe Alfano. Tutti facevano giornalismo investigativo o d’inchiesta oppure esprimevano posizioni fortemente critiche, chi sul fascismo (Amendola e Gobetti), chi sul terrorismo (Casalegno e Tobagi) o sulle zone calde del pianeta (Ilaria Alpi in Somalia, Maria Grazia Cutuli in Afghanistan, Antonio Russo in Cecenia), altri sulla mafia o sulla camorra (De Mauro, Francese, Fava, Siani e Alfano). L’obiettivo dell’iniziativa è quello di preservare la memoria di questi 12 giornalisti, che hanno scritto ognuno una pagina importante nella storia della nostra Nazione, e che sono un esempio di alta coscienza civile da additare ai giovani. Non bisogna dimenticare il loro sacrificio. I giornalisti italiani possono arricchire questa sezione del sito, spedendo saggi e articoli all’indirizzo e-mail [email protected]. Per ora sono stati utilizzati come fonti il web e il mensile Tabloid (organo dell’OgL). C’è bisogno dell’opera di tutti per completare il lavoro. “Oggi i giornalisti, che fanno inchieste – ha dichiarato Franco Abruzzo – sono vittime di un altro terrorismo, quello delle querele miliardiarie”. Primo contributo all’iniziativa. Lettera di Pierluigi Roesler Franz (presidente dell’Associazione stampa romana) a Franco Abruzzo (presidente OgL) La libertà di stamp La violenza politica colpisce i giornalisti Nel 2002 • 25 giornalisti uccisi • almeno 692 indagati • almeno 1420 aggrediti o minacciati • almeno 389 media censurati • 118 giornalisti prigionieri nel mondo al 1° gennaio 2003 In confronto, nel 2001 • sono stati uccisi 31 giornalisti • 489 indagati • 716 aggrediti o minacciati • 378 media censurati L’azione di Reporters sans Frontières in favore della libertà di stampa Sono 24 i giornalisti Colpevoli d’informare italiani uccisi dal 1943 nelle zone a rischio Caro Franco, come d’accordo, ti invio l’elenco dei 23 colleghi italiani che dalla Resistenza ad oggi sono caduti nell’adempimento del loro dovere di informare correttamente i cittadini. Il loro tributo di sangue non può, né deve essere dimenticato perché hanno immolato la loro vita per un futuro migliore della società e della convivenza civile in Italia e all’estero. Ma deve restare nei nostri cuori e nella nostra mente anche nelle generazioni future. A cominciare dai giornalisti Carlo Merli, nato a Milano il 2/1/1913, e Enzio Malatesta, nato a Carrara Apuania il 22/10/1914, già capo redattore de Il Giornale d’Italia entrambi aderenti al Movimento Comunista d’Italia Bandiera Rossa - furono arrestati durante la Resistenza l’11 dicembre 1943 e fucilati per ordine del Tribunale speciale tedesco. Per continuare con i giornalisti assassinati dalla mafia in Sicilia: i quattro cronisti de L’Ora e del Giornale di Sicilia Cosimo Cristina, Giovanni Spampanato, Mauro De Mauro e Mario Francese negli anni Settanta e Ottanta; Giuseppe Fava, fondatore del settimanale I siciliani; Mauro Rostagno (redattore di una tv privata) nel 1988; Giuseppe Alfano del quotidiano La Sicilia; Giuseppe Impastato, sindacalista, dilaniato da una esplosione, che dai microfoni di Radio Out aveva denunciato gli affari mafiosi della borgata di Cinisi. Poi il pubblicista Giancarlo Siani (camorra) a Napoli e il direttore di OP Carmine Pecorelli ucciso nella capitale in circostanze ancora misteriose (per il suo assassinio è stato di recente condannato come mandante il senatore a vita Giulio Andreotti). Ed ancora: l’ex vicedirettore de La Stampa Carlo Casalegno e l’inviato speciale del Corriere della Sera Walter Tobagi, presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, entrambi assassinati dalle Br. Paradossalmente i nomi dei due grandi giornalisti mancavano nel 1999 nel muro della memoria nel Journalist Memorial, una suggestiva struttura di vetro, che si trova 12 accanto al Newseum di Arlington-Virginia (USA) dove sono incisi circa 1400 nomi di giornalisti, fotografi e operatori morti nel mondo a partire dal 1812. Il triestino Almerigo Grilz dell’agenzia di stampa Albatros fu ucciso in Mozambico nel 1987. Il 20 marzo 1994 furono uccisi insieme in Somalia Ilaria Alpi del Tg3 Rai e il telecineoperatore triestino Miran Hrovatin. A nome di Ilaria Alpi è intitolato il Concorso giornalistico Roma per Roma, indetto dal Comune di Roma insieme al Provveditorato agli studi di Roma e all’Associazione stampa romana sindacato unitario dei giornalisti di Lazio e Molise, (quella che si svolgerà a Pasqua del 2003 sarà la 44 a edizione e la 10 a da quando è stato intitolato dall’A.S.R. il premio “Ilaria Alpi” d’accordo con l’allora sindaco di Roma Francesco Rutelli nel quadro delle celebrazioni del Natale di Roma alla memoria della giovane collega del Tg3 Rai). All’ultima edizione hanno partecipato ben 8 mila alunni della 5 a elementare e 191 scuole di Roma pubbliche e private. Un anno dopo, il 9 febbraio 1995, sempre in Somalia fu assassinato il telecineoperatore Rai Marcello Palmisano nell’agguato in cui rimase per fortuna solo lievemente ferita Carmen Lasorella. Poi toccò ad altri tre triestini il giornalista Marco Luchetta e gli operatori Alessandro Ota e Dario D’Angelo, assassinati a Mostar in Bosnia. A loro tre unitamente a Hrovatin è intitolata l’Associazione solidarietà internazionale Trieste che gestisce la casa di accoglienza di via Volussi che ha aiutato tanti minori a sopravvivere. Quindi Antonio Russo, inviato di Radio Radicale, ucciso due anni fa sulla strada di Tblisi in Georgia. Russo fu l’ultimo a documentare la pulizia etnica a Pristina (Kosovo). E da ultimi il medico reporter Raffaele Ciriello in Palestina e Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera in Afganistan. Cordialmente, Pierluigi Franz di C. Guimaraes Più di 770 giornalisti uccisi dal 1995, 25 vittime nel 2001. Reporters sans Frontières, l’associazione che monitorizza il lavoro della stampa in tutto il mondo, fornisce altre nude cifre, aggiornate all’ottobre scorso: prendendo in esame i 189 paesi aderenti alle Nazioni Unite, risultano “difficili” (in 65 paesi) o “molto difficili” (in 28) le condizioni in cui operano centinaia di reporter, fotografi, operatori di ripresa. In prigioni sparse per il mondo si trovano 97 giornalisti, mentre altri 90 hanno subìto vessazioni o minacce di morte. Ben 25 testate giornalistiche sono state semplicemente soppresse da diversi governi. La morte dell’inviata Maria Grazia Cutuli ha riaperto una ferita che, in un grande numero di nazioni, non rimargina mai. Il lavoro dei corrispondenti nelle zone di guerra presenta pur sempre un grado elevato di rischio. RSF si dice “costernata e commossa” per l’uccisione dei quattro giornalisti, tra cui l’italiana, ma osserva: “Dopo la morte dei due giornalisti francesi e di un tedesco (l’undici novembre scorso, ndr), questo nuovo dramma ci ricorda che la stampa paga un pesante tribuLa scheda to per informare l’opinione pubblica sulla situazione in Afghanistan. Possiamo solo raccomandare affinché i giornalisti richiedano scorte armate ai comandanti Mujaheddin o alle autorità locali quando lasciano le città sotto il controllo degli oppositori al regime talebano. Le nuove autorità di Jalalabad, contattate da RSF, hanno deplorato che il convoglio dei giornalisti sia partito per Kabul senza alcuna sicurezza”. Se il prezzo in termini di vite umane nelle zone di guerra è alto, altissimo è il numero di colleghi imprigionati, spesso senza alcun processo, per il reato di voler informare. Succede in paesi come Iran, Burma (Myanmar), Cina, considerati le più vaste carceri per giornalisti al mondo. Dal 1989, RSF promuove una campagna in favore della “sponsorizzazione” di giornalisti dietro le sbarre per aver svolto il loro mestiere, alla quale aderiscono più di 120 istituzioni. Il 28 novembre 2001, per il dodicesimo anno consecutivo, RSF indice la giornata di solidarietà per i colleghi vittime di persecuzioni. È possibile sostenere la campagna anche scrivendo ai giornalisti stessi e ai loro familiari o inviando lettere di protesta e petizioni alle autorità. (Pubblicato il 20 novembre 2001 13:52 ) (Aggiornato il 13 marzo 2002 11:11 ) “Non aspettare di essere privato della libertà di stampa per difenderla!” Reporters sans frontières Segretariato internazionale 5, rue Geoffroy Marie - 75009 Paris France Tel (33) 1 44 83 84 84 - fax (33) 1 45 23 11 51 - E-mail: [email protected] - Web: http://www.rsf.org Per ulteriori informazioni contattare: Flora Cappelluti (corrispondente Reporters sans frontières-Italia) tel: (39) 02-76 02 27 12 (26 71) Cell: 328/41 89 510 E-mail: [email protected] Reporters sans frontières difende i giornalisti prigionieri e la libertà di stampa nel mondo, ovvero, il diritto di informare e di essere informati, conformemente all’art. 19 della Dichiarazione dei diritti umani. Reporters sans frontières conta nove sezioni nazionali (Germania, Austria, Belgio, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Italia, Svezia e Svizzera), degli uffici di rappresentanza a Abidjan, Bangkok, Buenos Aires, Istanbul, Montreal, Mosca, Nairobi, New York, Tokyo e Washington, e più di 100 corrispondenti nel mondo. ORDINE 2 2003 SANS FRONTIÈRES SULLO STATO DELLA LIBERTÀ DI STAMPA NEL MONDO pa vittima delle tensioni internazionali Foto di Yaghobzadeh / Sipa press: i giornalisti lavorano nell’insicurezza più totale / Olympia foto 1. Tendenze globali Se rispetto al 2001, il numero di giornalisti uccisi è relativamente diminuito, quello dei media censurati è rimasto invariato: gli altri indicatori (giornalisti indagati, aggrediti o minacciati), sono invece tutti in forte rialzo. Il numero di giornalisti messi sotto inchiesta (692 nel 2002) è cresciuto di oltre il 40 %, mentre i giornalisti aggrediti o minacciati (1420) è del 100 % superiore rispetto all’anno precedente. Inoltre, è in crescita esponenziale il numero di giornalisti prigionieri nel mondo: attualmente almeno 118 sono dietro le sbarre di un carcere. Se si aggiungono i collaboratori dei media (3) e i cyberdissidenti (almeno 42), si tocca la cifra di 163 professionisti detenuti semplicemente per aver cercato di fare libera informazione. Come nel 2001, ogni giorno un media viene censurato nel mondo e oltre un terzo della popolazione mondiale vive in paesi dove non esiste alcuna libertà di stampa. In numerosi Stati (come il Bangladesh, l’Eritrea, Haiti, il Nepal, lo Zimbabwe, etc.), la situazione è in continuo peggioramento. Come aveva già denunciato Reporters sans frontières nel 2001, l’impunità di cui godono gli assassini o gli aggressori di giornalisti, ha generato nuovi episodi di violenza. Nel 2002, degli accordi di pace o l’avvio di un piano di riforme politiche hanno permesso in Angola, in Afghanistan o nello Sri Lanka, di migliorare sensibilmente lo stato della libertà di stampa. Ma è stato osservato, nel corso dell’anno, un peggioramento della situazione della libertà di stampa in paesi democratici come l’Italia o gli Stati Uniti, dove sono stati messi in carcere numerosi giornalisti. 2. Uccisi nel 2002 25 giornalisti Dopo aver condotto un’inchiesta su ogni singolo caso, Reporters sans frontières può purtroppo affermare che nel 2002 sono stati ammazzati nel mondo almeno 25 giornalisti, “responsabili”, nella maggior parte dei casi, delle loro opinioni e per questo uccisi (nella gran parte dei casi da gruppi armati), durante l’esercizio della loro funzione. Così, Daniel Pearl, reporter del Wall Street Journal, è stato rapito e assassinato da un gruppo radicale islamico in Pakistan. In Colombia, sono stati uccisi tre reporter, vittime del conflitto armato in atto nel paese, o a causa delle loro rivelazioni sulla corruzione della classe politica. In almeno una decina di casi, lo Stato, e l’esercito in particolare, è direttamente implicato in questi episodi. In Nepal, un editore promaoista è morto sotto tortura in un commissariato di Katmandu, mentre nei Territori palestinesi, l’uso eccessivo della forza da parte dell’esercito israeliano, ha provocato la morte di tre giornalisti lo scorso anno. Nel corso del 2002, l’Asia ha di nuovo riportato il triste primato di continente con l’indice di mortalità più alto per i giornalisti (11 casi). In Bangladesh, due giornalisti sono morti, colpiti dai proiettili dei gruppi armati che agiscono nel sud del paese. Nelle Filippine, due reporter, Benjaline Hernandez e Edgar Damalerio, sono stati assassinati da poliziotti corrotti o dai militari presenti sull’isola settentrionaORDINE 2 2003 le di Mindanao. Subito dietro l’Asia, si posiziona l’America latina: nove professionisti dell’informazione hanno perso la vita, in Brasile in particolare, il paese dove il giornalista Tim Lopes è stato assassinato da dei trafficanti di droga sui quali aveva condotto un’inchiesta. Con quattro giornalisti uccisi nel 2002, la Russia è il paese al mondo dove, per i giornalisti, è diventato più pericoloso lavorare: dietro queste morti, è visibile la mano della mafia o dei notabili locali. Nel 2002, come nel 2001, nessun giornalista è stato assassinato in Nord-Africa. Nell’Africa subsahariana, è stato censito il caso di uno studente di giornalismo ucciso in Uganda da colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia nel corso nel corso di una manifestazione, degenerata in violenti scontri di piazza. Più di 30 casi di assassini di giornalisti nel 2002 sono ancora oggetto di inchiesta, ma, al 1° gennaio 2003, non ci sono elementi per affermare che esiste un legame tra la loro morte e le loro attività professionali. Infine, almeno quattro collaboratori di media, come Elizabeth Obando, distributrice del giornale colombiano El Nuevo Día, sono stati ammazzati nel 2002. 3. L’impunità continua a essere la regola La quasi totalità degli assassini di giornalisti commessi negli ultimi anni sono rimasti impuniti: i loro mandanti sono ancora liberi e non sono mai stati messi sotto inchiesta dalla giustizia del loro paese. Ad Haiti, le indagini che dovevano far luce sul duplice assassinio di Jean Dominique, direttore di Radio Haïti Inter, nell’aprile 2000, e di Brignol Lindor, nel dicembre 2001, non hanno dato seguito a nessun arresto. Malgrado le prove schiaccianti del coinvolgimento delle milizie armate vicine al partito del presidente Aristide, esecutori e mandanti non sono nemmeno mai stati messi sotto accusa. In Afghanistan, l’indagine sull’assassinio di quattro reporter stranieri, avvenuto nel novembre 2001, non ha fatto nessun passo avanti. I ministri della Difesa e degli Interni hanno tentato mascherare, con dei diplomatici europei di passaggio nel paese, tutta la loro impotenza per gli esiti estremamente deludente di questa inchiesta. In Israele, nel 2002, le inchieste condotte dall’esercito israeliano relativamente all’assassinio del fotografo italiano Raffaele Ciriello, reporter per il Corriere della Sera e di due giornalisti palestinesi, non hanno dato luogo a nessuna sanzione. Dei soldati di Tsahal, approfittando di questo sentimento d’impunità, hanno continuato a malmenare numerosi giornalisti che si occupavano del conflitto israelo-palestinese. In Ukraina, nel 2002, l’inchiesta che doveva far luce sulla morte di Igor Alexandrov, direttore di una televisione, ha subito uno stop malgrado la domanda di riapertura delle indagini avanzata dalla Corte suprema. Il tribunale ha nominato, a capo della commissione d’inchiesta, un procuratore che da anni era notoriamente in aperto conflitto con il giornalista assassinato. In Burkina Faso, quattro anni dopo l’assassinio di Norbert Zongo, direttore del settimanale L’Indépendant, l’inchiesta è ancora a un punto morto. Il fratello del presidente della Repubblica, François Compaoré, notoriamente coinvolto in quest’affaire, interrogato nel 2001, non è mai stato tirato direttamente in ballo. Eppure la giustizia, con il sostegno congiunto delle organizzazioni internazionali e locali per la difesa della libertà di stampa, può rivelarsi efficace. Così in Mozambico, è iniziato il processo ai presunti assassini del giornalista Carlos Cardoso. Il figlio del capo dello Stato, accusato di essere il vero mandante di questo assassinio, è già stato interrogato dai giudici. In Ukraina, l’inchiesta sull’assassinio del giornalista Géorgiy Gongadze, ha compiuto finalmente un passo avanti dopo anni di stop in tribunale. Infine, nello Sri Lanka, sono stati arrestati dei sospetti per l’assassinio, avvenuto nel 2000, di Mayilvaganam Nimalarajan, collaboratore della BBC. Ma purtroppo, in quest’inchiesta poliziesca, tenuta bloccata a lungo dagli alleati politici dell’attuale presidente Chandrika Kumaratunga, sono stati persi anni preziosi. 4. Oltre settecento arrestati nel 2002 Al 1° gennaio 2003, almeno 118 giornalisti risultano essere prigionieri in molte carceri del mondo a causa delle loro opinioni o delle loro attività professionali. I giornalisti prigionieri nel 2002 sono quindi in leggero aumento rispetto al 2001, quando ne erano stati censiti 110. Oltre la metà dei giornalisti prigionieri nel mondo è detenuta in un paese del continente asiatico. Per i giornalisti, le più grandi prigioni del mondo sono infatti il Nepal (18), l’Eritrea (18), la Birmania (16), la Cina (11) e l’Iran (9). Nel 2002, oltre 700 giornalisti sono stati privati della loro libertà per periodi più o meno lunghi. Se José Luis Manso Preto, reporter indipendente portoghese, è stato sottoposto a interrogatorio per diverse ore per aver rifiutato di rivelare le sue fonti, è sicuramente andata peggio a Win Tin, celebre giornalista birmano detenuto da oltre 13 anni. Per il Nepal, con almeno 130 giornalisti e collaboratori dei media arrestati dalle forze di sicurezza, il 2002 è stato un anno drammatico. I giornalisti accusati di avere delle simpatie per la guerriglia maoista sono stati fatti prigionieri dall’esercito e dalle forze di polizia senza neppure un processo e sono attualmente sottoposti a delle condizioni di detenzione estremamente difficili. Così, Gopal Budhathoki, direttore di una pubblicazione indipendente, è rimasto in cella per 22 giorni, ammanettato e con gli occhi bendati. La mobilitazione delle organizzazioni dei giornalisti nepalesi ha obbligato il governo a liberare un gran numero di prigionieri, che ha toccato un picco di più di 35 giornalisti detenuti nel 2002. In Eritrea, da fine 2001, 18 professionisti dell’informazione continuano a rimanere a tutt’oggi dietro le sbarre in luoghi tenuti segreti dalle autorità, senza che venga fornita alcuna ragione ufficiale e senza aver avuto diritto a un regolare processo. Inoltre, sono fuggiti dal paese numerosi giornalisti, mentre la stampa privata è ormai praticamente inesistente. In Israele, il governo ha fatto ricorso alla detenzione amministrativa nei confronti di 15 gioirnalisti palestinesi. Hussam Abu Alan, fotografo dell’Agence France-Presse, è stato fatto prigioniero per sei mesi senza nessuna forma di processo. 13 Bilancio annuale 2002 di Reporters sans frontières sullo stato della libertà di stampa nel mondo In Birmania, le autorità hanno un’attitudine criminale nei confronti dei giornalisti prigionieri, mantenendo in detenzione dei giornalisti anziani e malati. Pesantemente condannati per aver “diffuso informazioni ostili nei confronti dello Stato’’, o per aver passato delle informazioni a dei giornalisti stranieri, i giornalisti prigionieri in Birmania sono sottoposti a delle condizioni di detenzione estremamente difficili. In Cina, agli 11 giornalisti prigionieri si aggiungono altri 35 cyberdissidenti arrestati per aver diffuso su Internet delle informazioni giudicate “sovversive”: uno di loro è stato recentemente condannato a quattro anni di prigione. Ma per fortuna, anche qualche buona notizia ha segnato il 2002, come la liberazione, in Rwanda, di Gédéon Mushimiyimana, che dopo sei anni di detenzione è stato proclamato a gran voce innocente dalla popolazione della sua regione d’origine, o come Ayub Khoso, in Pakistan, liberato dopo tre anni di carcere grazie a una sentenza emessa dalla Alta corte di Hyderabad (nel sud del paese). Anche in Birmania, Myo Myint Nyein è tornato in libertà dopo aver passato 12 anni di carcere duro, come Vanessa Leggett, liberata dopo 168 giorni di detenzione negli Stati Uniti per aver rifiutato di rivelare le sue fonti giornalistiche. 5. Oltre 1500 aggrediti o minacciati Le aggressioni o minacce nei confronti dei professionisti dell’informazione, sono aumentate in misura vertiginosa. Almeno 1420 giornalisti o reporter sono stati picchiati o minacciati di morte, rapiti, malmenati dalla polizia o sottoposti ad altri maltrattamenti. Più della metà di queste aggressioni o minacce hanno avuto come scenario l’Asia (589). E questa violenza non è solo monopolio dello Stato. Dei militanti di gruppi politici, di gruppi armati o mafiosi, si sono rivelati essere pericolosi predatori della libertà di stampa. Beninteso, le crisi politiche o sociali favoriscono l’esplosione di episodi di violenza contro i giornalisti. In America latina, per esempio, le tensioni in Venezuela, Haiti o in Argentina, hanno provocato un importante aumento del numero di aggressioni nei confronti di alcuni professionisti dell’informazione. In Bangladesh, più di 380 giornalisti sono stati aggrediti o minacciati da militanti o simpatizzanti di alcuni partiti politici. Spesso, questi attacchi sono stati compiuti dai militanti protetti dai partiti al potere, come il Bangladesh Nationalist Party (BNP) e il Jamaat-e-Islami (islamico). I giornalisti che denunciano degli episodi di corruzione, la violenza politica o l’intolleranza religiosa, diventano quindi obiettivi privilegiati. In Algeria, almeno 20 giornalisti sono stati malmenati dalle forze di sicurezza o dai picchiatori al soldo di alcuni notabili locali. Il corrispondente del quotidiano El-Watan a Tébessa si è suicidato lo scorso ottobre: aveva osato accusare i picchiatori prezzolati del presidente della Camera di commercio e industria di Algeri. Le tensioni religiose e etniche hanno avuto delle ripercussioni molto negative sulle condizioni di lavoro dei reporter. Così, almeno 20 giornalisti sono stati minacciati durante i disordini avvenuti dopo la pubblicazione di un articolo sull’elezione di Miss Mondo, nel nord della Nigeria. Le sollevazioni antimusulmane nello Stato indiano di Gujarat sono state lo scenario delle aggressioni ai danni di una trentina di giornalisti del paese. Nei Territori palestinesi occupati da Israele, almeno 50 reporter sono entrati nel mirino dell’esercito israeliano, (nove professionisti dell’informazione hanno riportato ferite da arma da fuoco). Certi gruppi palestinesi, come Hamas, hanno aggredito dei giornalisti durante le manifestazioni. 6. Più di un media censurato al giorno 7. La stampa estera sorvegliata a vista Nel 2002, nel mondo sono stati censurati ben 389 media. Gli Stati Uniti stanno usando e abusando delle leggi sulla stampa che permettono di chiudere definitivamente o temporaneamente i media, proibire la circolazione della stampa estera o imporre un black-out su alcune informazioni. In Cina, il governo continua a disturbare le frequenze di alcune radio internazionali che emettono in cinese, in tibetano o in ouighour. In luglio, il regime comunista ha sospeso agli abbonati cinese su satellite, la diffusione della rete britannica BBC. Durante la preparazione del XV congresso del Partito comunista, sono state messe a tacere una decina di pubblicazioni, a causa di alcuni articoli critici nei confronti del partito unico. In Turchia, il numero di reti televisive, di stazioni radio e di organi di stampa provvisoriamente sospesi dal RTÜK, l’organo governativo per la sorveglianza del sistema audiovisivo, o dalle diverse Corti di sicurezza dello Stato, è elevato come nel 2001. Sono stati censurati 20 media per “incitazione alla violenza’’ o per “attentato alla sicurezza dello Stato’’. In Iran, la giustizia all’ordine dei conservatori, si è di nuovo accanita contro la stampa riformatrice. Sono state sospese almeno 15 pubblicazioni, tra cui il quotidiano indipendente Bonyan. In Sudan, le autorità hanno censurato più di una decina di pubblicazioni indipendenti a causa di articoli sull’Aids o per aver ventilato ipotesi di pace con i ribelli sudisti. In Europa, l’aumento della censura è stato particolarmente significativo in Russia. In novembre, l’FSB (ex KGB) ha confiscato il server informatico del settimanale Versia per la copertura mediatica data da questa testata all’intervento delle forze speciali per la liberazione degli ostaggi del teatro di Mosca, avvenuto nell’ottobre scorso. In Bangladesh inoltre, la giustizia ha ordinato il ritiro della licenza di diffusione dell’unica rete hertziana privata, che registrava incessantemente un forte successo di pubblico. In Malesia, il governo ha bloccato, nel febbraio scorso, la diffusione di quattro magazine internazionali, come The Economist. E in Birmania, la giunta militare ha dato ordine di sospensione agli articoli di alcuni giornalisti che avevano utilizzato la parola “Tailandia” mentre era in corso una forte crisi diplomatica tra i due paesi. Nei paesi del Golfo, la censura è frequente quanto l’autocensura. In Arabia saudita, prima di essere diffuse al grande pubblico, tutte le pubblicazioni estere passano sistematicamente sotto la lente di ingrandimento. Il regime saudita conduce una campagna per il boicottaggio della rete informativa araba Al-Jazira, alla quale sono stati già sigillati gli uffici in Kuwait, in Giordania e, temporaneamente, anche in Irak. In Maghreb, il regime del presidente Zine el-Abidine Ben Ali è noto per lo stretto controllo esercitato sui media, pubblici e privati, della Tunisia. In Africa, le forze di sicurezza sequestrano regolarmente le copie della pubblicazioni che disturbano il potere. In Zimbabwe, il quotidiano indipendente Daily News è regolarmente sottoposto a perquisizioni, in Togo, la polizia agli ordini del presidente Gnassingbé Eyadéma, ha sequestrato oltre 40 000 esemplari dei giornali d’opposizione. La censura è politicamente assente in America latina, a eccezione notoriamente del regime castrista, che non tollera nessuna voce mediatica indipendente. Per esempio, il governo dell’Avana continua a disturbare le frequenze delle radio che emettono dalla Florida. La Corea del Nord (il paese più repressivo, in termini di libertà di stampa, secondo la classifica mondiale stabilita da Reporters sans frontières nel 2002), autorizza con il contagocce l’entrata di giornalisti esteri nel paese, che devono però essere obbligatoriamente accompagnati, 24 ore si 24, da una guida ufficiale, autorizzata a minacciarli di rappresaglia se li sorprendesse a riprendere immagini “proibite”. Una decina di paesi continua a imporre ai media esteri di lavorare sorvegliati dalle guide ufficiali. È il caso dell’Iraq, della Birmania o della Cecenia. Un gran numero di paesi impone ancora ai giornalisti la richiesta di un accredito specifico per la stampa. I professionisti dell’informazione che decidono di lavorare senza questo visto, rischiano di correre rischi elevatissimi. Due giornalisti della rete televisiva britannica Channel 4 sono stati fatti prigionieri per due settimane in Bangladesh per essere entrati nel paese senza possedere il visto per la stampa. Saleem Samad, corrispondente locale di Reporters sans frontières, è stato fatto prigioniero oltre un mese fa, dopo essere stato a lungo torturato dalla polizia. A Cuba, le pressioni esercitate su alcuni corrispondenti esteri, in alcuni casi dal presidente Fidel Castro in persona, servono da avvertimento per l’insieme della stampa estera. In ottobre, la polizia cubana ha messo sotto sequestro tutto il materiale professionale confiscato a Catherine David, reporter del settimanale francese Le Nouvel Observateur. 8. La lotta al terrorismo e la libertà di stampa La lotta contro il terrorismo ingaggiata dagli Stati Uniti e dai loro alleati dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, ha avuto un impatto significativamente negativo sulla libertà di stampa. In nome di questa lotta, peraltro necessaria, diversi governi hanno intensificato e giustificato la repressione da loro esercitata sulle voci indipendenti o d’opposizione. I giornalisti sospettati, spesso senza alcuna prova, di sostenere i “terroristi maoisti” in Nepal, i “terroristi delle FARC” in Colombia, i “terroristi ceceni “ in Russia o i “terroristi ouighours o tibetani” in Cina, sono diventati dei facili obiettivi. Ben inteso, i movimenti terroristi come Al-Qaida, hanno già dimostrato tutta la loro determinazione nel voler annientare ogni forma di libertà di espressione, ma questo non giustifica minimamente la deriva autoritaria delle forze di sicurezza degli Stati impegnati nella lotta al terrorismo internazionale. In Afghanistan, diversi giornalisti sono stati aggrediti da alcuni soldati americani o dai loro ausiliari afghani. Del resto, tra la dozzina di leggi antiterrorismo adottate nel mondo nel corso del 2002, ci sono degli articoli che rimettono in discussione la confidenzialità e la protezione delle stesse fonti giornalistiche, che sono così diventate argomento di animati dibattiti nell’anno appena trascorso. In alcuni regimi autoritari, ma anche in certe democrazie, sono stati sottoposti a interrogatori decine di giornalisti, messi sotto inchiesta o minacciati per aver rifiutato di rivelare le loro fonti, soprattutto in affaire di terrorismo. Si può concludere quindi che la libertà di stampa non è garantita in oltre metà dei paesi del mondo. Se la giustizia internazionale offre delle nuove prospettive nella lotta contro l’impunità, nel corso di questo anno 2003 sarà comunque necessario rimanere estremamente vigili. ARLINGTON Il Memoriale dei caduti per la libertà di stampa 14 di C. Guimaraes È stato inaugurato nel marzo del 1997, si trova al 1101 di Wilson Boulevard, ad Arlington. Si chiama Newseum ed è un’attrazione turistica di Washington. Si tratta del primo museo interattivo dedicato al mondo della stampa e dell’informazione. Nel giorno dell’inaugurazione, l’allora vicepresidente Al Gore lo ha definito un mezzo per “costruire una conoscenza migliore tra stampa e pubblico”, mentre l’ex presidente Clinton ha reso omaggio al lavoro dei reporter, che spesso “corrono rischi personali per avere le notizie; l’America è più forte e più libera grazie a loro”. Questa sorta di Disneyland dell’informazione consente ai visitatori di diventare per un giorno conduttori della radio o della tv, di vedere come vengono prodotte le notizie giorno per giorno o di rivedere i grandi reportage che sono ormai parte della storia, di parlare con i cronisti che si avvicendano in trasmissioni in diretta. Ma il piatto forte del Newseum, dal punto di vista della conoscenza del mondo dell’informazione, si chiama Freedom Park. Adiacente alla struttura museale si trova infatti il parco “dedicato allo spirito della libertà”. Spirito evocato dai simboli della lotta universale per la libertà come il muro di Berlino. Dai ricordi di quanti si sono battuti in suo nome, in particolare dal “Freedom Forum Journalists Memorial”. Un monumento che omaggia i giornalisti morti in tutto il mondo mentre cercavano di portare a compimento il loro lavoro. Il Memorial è un lunghissimo muro in vetro, alto sette metri, che raccoglie 1.395 nomi. Da quando è stato allestito, il Freedom Forum Journalists Memorial si è visto aggiungere oltre 200 nomi suggeriti da privati e organizzazioni. Ogni anno si accresce di altri nomi, altre date. Il 3 maggio di ogni anno il triste elenco viene aggiornato. Nel 2002, il nome dei caduti in Afghanistan sarà a fianco delle vittime di imboscate in Africa, dei colpi di mortaio in Kosovo, delle esecuzioni in Nigeria e di quelli spariti nel nulla perché davano fastidio. Pubblicato il 20 novembre 2001-15:05). Dal sito: http://www.rai.it/RAInet/news/RNw/pub/articolo/raiRNewsArticolo/0,7605,7108%5Escie nze%5E%5E,00.html ORDINE 2 2003 C O M U N I C A R E L A P A C E Giornali e Afghanistan La parola ad Alberto Cairo di Paola Pastacaldi Il Premio per la Pace della Regione Lombardia, è stato assegnato, tra gli altri, ad Alberto Cairo, piemontese formatosi in Lombardia, impegnato dal 1990 a Kabul, in Afghanistan, responsabile del centro per amputati della Croce rossa internazionale di Kabul e dei sei centri del Progetto ortopedico Afghanistan, promosso dal Comitato internazionale della Croce rossa. Abbiamo rivolto alcune domande al dottor Cairo, che è in prima linea a Kabul non solo per la sua attività di recupero degli amputati, a cui ridà braccia e gambe e per i quali ha inventato un progetto di microcredito per il reinserimento nel mondo del lavoro, ma anche per la sua capacità di comunicazione. Alberto Cairo è in Afghanistan da tredici anni. Su Repubblica gli scritti di Cairo sono stati letti per mesi in prima pagina. È spesso intervistato da giornalisti di tutto il mondo. Come si comunica oggi la pace attraverso i giornali? «Essere aggiornati su tutto quello che è accaduto in Afghanistan negli ultimi vent’anni è difficile e questo in un certo modo assolve tutti. Alcuni giornalisti inseguono la notizia, non vogliono e non cercano di avere anche una visione più generale e approfondita. D’altronde, è comprensibile, è la notizia che fa il giornalista. Purtroppo ho visto molti inseguire il fatterello e senza distinzione di paese, così sono i giornalisti di tutto il mondo. Ma in Afghanistan ho incontrato anche giornalisti che si battono per la verità dei fatti e per educare i lettori alle cose importanti ed essenziali, cercando di sfuggire ai luoghi comuni e ad effetto, cioè non dicendo solo quello che il lettore ama sentirsi raccontare». Può essere più preciso? «Pensavo soprattutto ai giornalisti calati in massa alla fine del 2001 e all’inizio del 2002. Sono arrivate persone che sapevano ben poco di questo Paese, nemmeno dove è la capitale, che mi chiedevano dove è Jallalabad, quali erano i confini col Pakistan e non conoscevano la differenza tra una etnia e l’altra. Sembrava che non avessero aperto nemmeno un libro di geografia o una guida. Questo, naturalmente, con gli inviati delle grandi testate non accade. E soprattutto non sono così quelli che tornano più volte. Questi inviati o giornalisti sono un’altra cosa: dell’Afghanistan ne sanno ben più di me. D’altro lato, c’è di positivo che i giornalisti mi portano informazioni politiche a cui non avrei accesso, quali sono i progetti futuri. È vero, però, che tutti noi siamo, in qualche modo, responsabili della guerra. Nel senso che collaboriamo alla guerra. Io, per esempio, opero in Afghanistan facendo gambe e braccia, ed è un lavoro che dovrebbe fare il Paese per i suoi cittadini, così io facendolo lo lascio libero di fare la guerra, libero da questa incombenza. Siamo tutti dentro un ingranaggio perverso. Detto questo, la cosa che più mi disturba è che se un giornalista viene in Afghanistan per scrivere di questo Paese, dovrebbe venire preparato e attento. Accade, invece, che molti arrivino con un’idea precostituita; per esempio che una Ong è buona e un’altra è cattiva. Purtroppo è accaduto anche che ci siano giornalisti che lavorano solo al seguito di alcune organizzazioni, di cui naturalmente devono scrivere bene e se l’organizzazione non è buona, accade che le informazioni siano tutte distorte. Alla fine hanno la meglio le organizzazioni che hanno un addetto stampa o un pierre. Eppure ci sono piccole strutture che fanno un lavoro eccellente e altre, altrettanto buone, che scelgono di Alberto Cairo, 48 anni, piemontese, formatosi in Lombardia, impegnato dal 1990 a Kabul in Afghanistan, responsabile del centro per amputati della Croce Rossa Internazionale di Kabul e dei sei centri del progetto Ortopedico Afghanistan, promosso dal Comitato Internazionale della Croce Rossa. non farsi pubblicità. È insomma una guerra dell’immagine e i giornalisti possono essere facilmente abbagliati». Parliamo delle fonti, annosa questione, soprattutto in Paesi così complessi. Dove si vanno a prendere, e come, le informazioni indispensabili per scrivere? «Gli afghani sono bravi a intuire quello che il giornalista vorrebbe sapere. Ho assistito ad una intervista fatta al centro ortopedico. Un amputato da mina da oltre dieci anni ha raccontato ad un giornalista che era stato imprigionato dai talebani e picchiato e che alla fine avevano dovuto amputargli la gamba. Il giornalista era contento e l’afgano anche, perché per una mezz’ora si era inventato una storiella. Il traduttore, che sapeva la verità e avrebbe potuto smentire, se ne fregò e non disse nulla». Appena liberato l’Afghanistan, abbiamo letto che tutto stava cambiando, con una certa enfasi. Direi poco credibile. «Certo, all’inizio tutti sorridevano per i fotografi, poi ci si è accorti che non era così e allora si è cominciato a scavare. Soprattutto i giornalisti che erano abituati a venire spesso, hanno cercato di capire. Ma in generale sull’Afghanistan i giornali raccontano sempre le stesse cose. L’Afghanistan è tante cose, forse è sempre stato guerra, non sa cos’è la pace, nel senso di assenza di conflitto. È una esagerazione naturalmente, ma qui si è sempre combattuto. Ora cerchiamo di aiutare la gente anche a riprendere un lavoro». La stampa naturalmente ha fatto di lei anche un personaggio. «Sono molto disponibile con la stampa, ma non accetto di trasformarmi in una specie di Madre Teresa di Kabul. Non cerco l’intervista, ma capisco che è importante anche che si parli dell’Afghanistan, del lavoro che facciamo. Ma non voglio che si dica che resuscito i morti, non accetto di essere trasformato dai media in un martire che si sacrifica per i bambini, con testi lacrimosi». Lei ha scritto per la Repubblica delle corrispondenze da Kabul. «Un giornalista mi aveva chiesto di raccontare storie sulle mine. Chiesi l’autorizzazione della Croce rossa a Ginevra e mi dissero, scrivi quello che vuoi. Io ho l’abitudine di tenere un diario da anni. Perciò iniziai a scrivere. Ma non seppi, per un po’, che pubblicavano pari pari i miei testi. Mi telefonò un giorno mio padre, dicendomi che mi leggeva tutti i giorni. Allora telefonai per sapere e mi chiesero se volevo essere pagato. Dissi loro di no, ma che se volevano, dissi loro che potevano pubblicare il numero del nostro conto corrente. Abbiamo raccolto per Kabul un bel po’ di soldi. Ecco a cosa è servito apparire sui giornali. I soldi non piovono giù dal cielo e nemmeno le protesi. Tra marzo e aprile uscirà anche un libro intitolato Storie da Kabul da Einaudi. Cosa si vede e si legge in Afghanistan? «I ricchi vedono la Cnn e la Bbc, gli altri la tv nazionale con la sua propaganda. Soltanto l’1 per cento ha un satellitare. Io leggo molti giornali stranieri, dal New York Times all’Herald Tribune, Liberation, Le Monde, il settimanale del Guardian, El Pais. Ma dell’Italia non sapevo più niente. Quando torno, mi compero una televisione. Mi preme dire che l’informazione sull’Afghanistan è stata azzerata. L’Afghanistan è stato dimenticato. Eppure ci sarebbero da raccontare le storie nelle prigioni, come vivono i detenuti, le riunioni familiari, cose terribili e cose meravigliose. La gente fuori, anche in Italia, ha una grande voglia di sapere. Io continuo a ricevere moltissime lettere, anche dalle maestre delle scuole italiane, che mi chiedono come spiegare ai bambini le cose. Mi mandano piccoli lavori, ricerche e qualche soldino. Alle volte sono commoventi». Formigoni assegna i premi per la Pace 2002 La Regione Lombardia assegna dal 1997 il Premio per la Pace a favore di enti pubblici, associazioni o persone lombardi che si siano impegnati in questo senso. Quest’anno la giuria (composta dall’assessore Romano Colozzi, delegato del presidente Roberto Formigoni, Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Maurizio Carrara, rappresentante delle Ong Lombarde, Silverio Clerici, rappresentante dell’Anci Lombardia, Roberto Ronza esperto internazionale e Paola Pastacaldi, membro dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia) ha deciso di assegnate il Premio per la Pace 2002 al dottor Alberto Cairo, della Croce rossa internazionale, per le sue attività in Afghanistan, a Giuseppe Fraizzoli, direttore dell’Holy family hospital di Nazareth e a don Ambrogio Galbusera, rappresentante dell’Operazione Mato Grosso, su delega di Ugo De censi per le attività in America Latina. Prima della premiazione, è stata organizzata una intervista aperta sul tema “comunicare la pace o per una cultura della pace” ai tre premiati, Alberto Cairo, Giuseppe Fraizzoli, e don Ambrogio Galbusera, curata dalla giornalista Paola Pastacaldi, consigliera dell’Ordine della Lombardia e componente della giuria di assegnazione del premio. Spesso i media cedono alla tentazione di costruire personaggi anche intorno agli avvenimenti più tragici. I tre premiati hanno sottolineato, raccontando le loro alle volte anche piccole esperienze quotidiane, come le loro azioni rappresentino in realtà dei processi collettivi di costruzione della pace, a cui partecipano molte altre persone che rimangono spesso anonime. Maurizio Carrara della Ong Cesvi, come rappresentante delle Ong Lombarde, è intervenuto in relazione alla sinergia tra processi di pace e cooperazione e sviluppo. Il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, dopo un interessante intervento sulla questione della pace, ha consegnato i premi ai tre vincitori. Una menzione speciale alla memoria è stata riconosciuta a due giornalisti caduti in servizio: Raffaele Ciriello, il chirurgo plastico di 42 anni, che faceva il reporter, morto a Ramallah, in Cisgiordania, il 13 marzo del 2002, e a Maria Grazia Cutuli, giornalista, 39 anni, del Corriere della Sera, assassinata in Afghanistan, sulla strada tra Jalalabad e Kabul, il 19 novembre 2001. Una menzione speciale è stata riconosciuta a monsignor Giorgio Biguzzi, vescovo di Makeni, Sierra Leone, che dall’87 è uno degli uomini più attivi per il riscatto dei bambini soldato. La menzione è stata ritirata da Gaetano Agnini di Mine Action Italy. Secondo Premio nazionale giornalistico “Mauro Gavinelli” Il Gruppo altomilanese giornalisti (Gag), istituito nel 1993, con sede in Legnano, intende ricordare la figura di Mauro Gavinelli, che fu tra i soci fondatori e il primo presidente del Gag. A tale scopo, bandisce la seconda edizione del “Premio nazionale giornalistico Mauro Gavinelli”. REGOLAMENTO art. 1 - Il concorso premia il miglior articolo giornalistico, pubblicato su un quotidiano o un periodico italiano, che affronti un tema inerente l’attualità politica, economica, sociale o sportiva della Lombardia. art. 2 - Il premio è riservato ad autori fino a 35 anni d’età (compiuti entro il 31 marzo 2003), non necessariamente iscritti all’Ordine dei giornalisti, nell’intento di valorizzare le intuizioni e l’impegno di Mauro Gavinelli sulla formazione professionale dei giovani colleghi e degli aspiranti giornalisti. art. 3 - Il vincitore del premio riceverà la somma di euro 2.500 (duemilacinquecento). art. 4 - L’iscrizione al concorso è gratuita. art. 5 - Ogni concorrente può partecipare con un solo articolo che sia stato pubblicato tra il 1° marzo 2002 e il 31 marzo 2003. art. 6 - Non sono ammessi articoli già premiati in altri concorsi giornalistici. art. 7 - Entro il 10 aprile 2003 ogni concorrente dovrà far pervenire alla segreteria del premio - recapito a mano o servendosi del servizio postale - una copia originale del giornale sul quale è stato pubblicato l’articolo firmato o siglato, accompagnata da: a) una breve domanda d’iscrizione al concorso redatta in carta semplice, corredata dai dati anagrafici, dal curriculum ORDINE 2 2003 vitae e dal recapito del concorrente; b) cinque fotocopie dello stesso articolo con cui si intende concorrere al premio. Copie originali dei giornali e fotocopie inviati non saranno restituite. art. 8 - La segreteria del premio, alla quale indirizzare domanda d’iscrizione, articoli in concorso e relative fotocopie è fissata nella sede legale del Gag: presso studio avvocato Fabrizio Conti, via della Liberazione 13, 20025 Legnano (MI). art. 9 - Ogni concorrente conserva la proprietà letteraria dell’articolo in concorso. art. 10 - La giuria del concorso, che valuterà gli articoli giunti alla segreteria stabilendo il vincitore del premio, è composta da tre membri del Consiglio direttivo del Gag, fra cui il presidente in carica, da un membro della famiglia Gavinelli - che finanzia l’iniziativa - e dal presidente dell’Ordine dei giornalisti di Milano o da giornalista da questi indicato. Il giudizio della giuria è insindacabile e inappellabile. art. 11 - La presidenza della giuria è affidata al presidente del Gag. La vice presidenza è ricoperta dal membro designato dalla famiglia Gavinelli. art. 12 - Tutti i partecipanti al concorso riceveranno l’invito alla cerimonia di premiazione che si terrà entro la fine di giugno 2003. art. 13 - La partecipazione al premio implica la piena accettazione delle norme contenute nel presente regolamento. La non osservanza di quanto richiesto comporterà l’esclusione dal concorso, senza che sia dovuta comunicazione al concorrente. Ulteriori informazioni sul concorso possono essere richieste telefonicamente (02.93261923, Mauro Tosi) o scrivendo all’indirizzo di posta elettronica del Gag: [email protected] 15 1963 2003 l’Ordine dei giornalisti compie quarant’anni La libertà di stampa e i di Guido Gonella assolutamente imprecisa nella dottrina si L ibertà di stampa significa facoltà di servirsi afferma comunemente che i diritti nei quali si della stampa per manifestare e diffondere idee o per narrare fatti. L’oggetto, quindi, può concreta la libertà di stampa sono il diritto di essere o speculativo (attività teoretica) o opinione ed il diritto di creazione. estetico (creazione dell’arte) o storico (narra- Questi diritti non possono essere misconosciuti neppure da regimi assoluti che neghino zione di avvenimenti). la libertà di stampa. Quindi, più precisamente, La libertà di stampa si concreta in diritti generalmente riconosciuti da tutti gli ordina- deve dirsi che si tratta del diritto di esprimere idee o di rendere manifesta una creazione menti costituzionali democratici, in termini artistica, o di raccontare pubblicamente un analoghi a quelli contenuti nella nostra Costiavvenimento per mezzo della stampa. tuzione. L’accento va messo non Anche nelle Carte internazionali sull’opinione o sulla creaziodei diritti si afferma l’esigenza Estratto ne artistica o sull’avvenimendella «soppressione degli ostacoto, ma sulla possibilità di li nella libera circolazione delle da Iustitia, esprimere, e di esprimere informazioni e delle idee» (dichian. 4, pubblicamente, e non con la razione della X Conferenza parola ma, specificamente, dell’Unesco). ottobre con la stampa. Ciò che va Per quanto concerne la nostra dicembre sottolineato è l’esteriorizzaCostituzione, è nota la controverzione, è il mezzo di esteriosia relativa al carattere precettivo 1959 rizzazione. Il diritto di pubblio programmatico dell’art. 21. Al ca manifestazione e diffusioriguardo, la giurisprudenza della Corte suprema di Cassazione si è pronun- ne a mezzo della stampa implica non solo il diritto di sostenere un’idea, ma anche di ciata in modo difforme. Infatti, mentre le confutare idee diverse ed opposte, cioè il Sezioni unite penali (15 aprile 1950) hanno diritto di critica che esprime un dissenso, una deciso che il primo comma dell’art. 21 ha carattere puramente direttivo, che abbisogna contrapposizione. Il diritto di rendere pubblica a mezzo della per la pratica attuazione di una elaborazione stampa una creazione artistica può riferirsi a legislativa da non ritenersi esaurita con la qualsiasi oggetto delle arti figurative e narralegge sulla stampa dell’8 febbraio 1948, in tive. altre decisioni delle Sezioni civili e, da ultiIl diritto di cronaca ha per oggetto gli atti ed i mo, con sentenza 12/12/1955, n. 3860, la Corte di Cassazione ha riconosciuto il carat- fatti. È il diritto di narrare, a mezzo della stampa, ciò che è avvenuto o avviene. La tere precettivo della norma sul diritto di libelibertà di informazione soddisfa il bisogno ra manifestazione del pensiero. Per affrontare esattamente il tema conviene, individuale e sociale di conoscere obiettivamente i fatti. in via preliminare, notare che in maniera 1. Doveri verso la verità Il diritto di cronaca è condizionato ad un dovere fondamentale: il dovere di conoscere i fatti che si narrano. Come si concilia il diritto di cronaca con il travisamento della verità, con il compromesso della verità, con le cosiddette “congiure del silenzio” o con lo scandalismo? Accanto alle verità integrali ci sono le verità parziali, le verità reticenti, le simulazioni della verità. Talora – e specialmente nella stampa di partito – nella semplice selezione dei fatti, nell’adozione di un criterio di selezione, è implicita un’opinione o un pregiudizio che rende la verità solo apparente ed il racconto semplice- mente strumentale ai fini di una tesi predeterminata. Inoltre, è facile comprendere come siano labili i confini tra la narrazione del fatto e l’interpretazione o la valutazione; si dice – in maniera troppo approssimativa – che la narrazione è obiettiva e l’interpretazione subiettiva. Quando si considera che ogni giorno, nel mondo, vengono riversati sui lettori 224 milioni di copie di quotidiani, vien fatto di chiedersi se questa sia la storia del mondo raccontata, o invece la storia che si fa, cioè l’operare umano in atto, con tutti i suoi interessi e le sue passioni di cui la stampa è efficace strumento. 2. Limiti del diritto di libertà di stampa Se il dovere di rispetto della verità è la condizione dell’esercizio del diritto di libertà di stampa, conviene pure considerare anche i limiti di tale diritto. L’esigenza del limite non è arbitraria o aggiuntiva al concetto del diritto, ma implicita nel concetto stesso. Ogni soggetto è titolare di una pluralità di diritti che devono coesistere, e possono coesistere, solo a condizione che la sfera di un diritto non invada la sfera di un altro diritto. La libertà di stampa è un diritto della persona e deve coesistere con gli altri diritti della persona. 16 Ancora: di ogni diritto vi è una pluralità di soggetti che ne sono titolari, e ciò implica pure un limite. Inoltre, ogni soggetto è titolare di una pluralità di doveri che limitano la sua facultas agendi, sia in rapporto ai diritti propri, come in rapporto ai diritti altrui. Infatti, il diritto non è solo una facultas agendi, ma anche una potestà di esigere il rispetto dell’esercizio di una facoltà. Ad ogni diritto di un soggetto corrisponde negli altri soggetti l’obbligo di rispettarlo che limita, nell’obbligato, la sua facoltà di operare. Il diritto è sempre connesso con un dovere: doveri del soggetto verso se stesso e doveri verso gli altri in connessione logica con il diritto degli altri (dovere di non invadere la sfera del diritto altrui). La stessa dichiarazione dei diritti dell’uomo affermava che la libertà è una facoltà in virtù della quale è permesso fare ciò che non offende il diritto degli altri. La legge, appunto perché protegge la libertà di tutti, impedisce che il singolo possa sacrificare in tutto o in parte la libertà degli altri. Il diritto di cronaca, cioè il diritto di narrare pubblicamente fatti a mezzo della stampa, è condizionato ai doveri imposti dalla esigenza della tutela della libertà di ciascuno. La limitazione dell’esercizio di un diritto non compromette la sostanza del diritto, ma lo contiene nei limiti richiesti dallo scopo al quale il diritto è ordinato. Inoltre,nell’ordinamento giuridico, accanto ai diritti di libertà, vi sono i doveri di solidarietà e non manca chi, appellandosi alla responsabilità della stampa dal punto di vista etico-sociale, afferma giustamente che perfino la semplice informazione giornalistica, oltre che essere oggetto di un diritto, è anche oggetto di un dovere morale e civico, in quanto si voglia intendere il diritto di cronaca come una categoria del diritto di educazione dei lettori, come l’esercizio di un servizio sociale che contribuisce ad emancipare intellettualmente e moralmente l’uomo; qui però siamo nella sfera delle responsabilità morali e civiche, e non si può esigere che ogni cronista sia tenuto a sentire in sé la vocazione dell’educatore. Ma la connessione esiste, e basta considerare che anche l’educatore può educare narrando, ed esercitare con la storia delle idee e dei fatti la sua funzione educativa. Il riconoscimento di questi limiti giuridici ed etici è ben sottolineato dall’art. 29 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, elaborata dalle Nazioni unite, la quale precisa: «Nell’esercizio dei suoi diritti e nel godimento delle sue libertà ognuno è sottomesso solo alle limitazioni stabilite dalla legge, esclusivamente in vista di assicurare il riconoscimento ed il rispetto del diritto e delle libertà altrui, al fine di soddisfare la giusta esigenza della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale di una società democratica». 3. Coesistenza delle libertà Partendo dalla considerazione della pluralità degli individui e della pluralità delle libertà, ci si chiede come si garantisca la coesistenza delle libertà. Le libertà possono venire a conflitto. Come si risolve il conflitto? Sacrificando una libertà all’altra, e limitando l’esercizio dell’una e dell’altra? La dottrina della coesistenza dei diritti ha precisato che l’esercizio di un diritto non può condurre alla violazione di un altro diritto. Lo Stato di diritto garantisce le libertà di tutti, disciplinando, con l’ordinamento giuridico, la coesistenza delle libertà. Inaccettabile è la tesi kantiana, secondo la quale lo Stato mira semplicemente a garantire la coesistenza. Esso mira pure alla coordinazione delle libertà. I diritti – ha osservato il Capograssi – «sono tra di loro solidali, fanno insieme sistema, nessuno può essere sacrificato col pretesto di arrivare mediante questo sacrificio all’appagamento degli altri» (G. Capograssi, Introduzione alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Cedam, Padova 1957, p. 14). Considerando le libertà nel sistema dei diritti, si osserva che il problema della coordinazione delle libertà può risolversi non nel limitare le libertà ma nell’impedirne l’abuso che implica violazione di libertà. Non vi sarebbe libertà di stampa se non vi fosse repressione degli abusi di questa libertà, cioè repressione di un esercizio di tale libertà che sia offensivo di altri diritti. La libertà di manifestare il pensiero con la stampa – come la libertà di associazione, di locomozione, ecc. –, in quanto riguarda non solo l’individuo, ma la relazione tra individui, ha limiti posti dalla relazione stessa, ed il bene di ciascuno è tale in quanto è combinato con il bene di tutti. La tutela della coesistenza delle libertà esige che, mentre si garantisce all’individuo il diritto di manifestare liberamente le proprie idee per mezzo della stampa, impedendo ogni limitazione di questa libertà, si garantisca pure la libertà del cittadino dalle offese che ai propri diritti possono derivare dall’abuso della manifestazione del pensiero altrui. Il diritto – come si notò – fissa un limite tra i soggetti, e se il limite non viene rispettato nasce nel soggetto che subisce una violazione del suo diritto la pretesa di respingere l’invasione nella sua sfera. Alla violazione di un diritto, consumata a mezzo della stampa, deve corrispondere la possibilità di respingere l’invasione, dovendo essere cooperanti, ma non interferenti, le sfere giuridiche dei soggetti coesistenti. Per questo, la legge – mentre vieta tutto ciò che può essere violazione della libertà di stampa e costrizione della manifestazione del pensiero – stabilisce anche una serie di divieti alla stampa non per quanto riguarda l’esercizio ORDINE 2 2003 Ricordiamo la nascita del massimo ente rappresentativo della professione con un saggio di Guido Gonella, che fu ministro della Giustizia, forte e lungimirante sostenitore della legge n. 69/1963 e primo presidente dell’Istituzione. Gonella va ricordato come esponente di spicco della Dc, antifascista, autore, negli anni della dittattura mussoliniana, della rubrica Acta diurna nell’Osservatore Romano. diritti individuali di libertà A sinistra, “Piccola Scala”. L’on. Gonella tiene la prolusione su: “I problemi del Congresso”. Alla sua sinistra il sottosegretario Salizzoni che ha recato il saluto del Governo. Alla sua destra l’on. Barzini ed il presidente del Consiglio regionale lombardo dell’Ordine dei giornalisti, Carlo De Martino. Qui accanto, palazzo del Quirinale, 24 aprile 1968. L’udienza del presidente della Repubblica Saragat, al Comitato esecutivo dell’Ordine dei giornalisti e ai relatori del Congresso di Milano, sui problemi della libertà di stampa e dell’editoria. della sua libertà, ma per quanto riguarda quella violazione dei diritti di terzi che possono derivare dall’abuso di esercizio della libertà. La legge penale prevede reati commessi per mezzo della stampa, e la legge civile prevede i risarcimenti per eventi dannosi prodotti attraverso notizie divulgate dalla stampa. Inoltre, la coscienza morale può condannare certi atteggiamenti della stampa che – di per sé – possono non essere un illecito giuridico. È recente una vivace polemica che aveva per oggetto non tanto la veridicità di notizie pubblicate quanto l’opportunità della loro pubblicazione, considerata nella sfera della discrezionalità. Non cosa diversa – ai fini della garanzia della coesistenza delle libertà – afferma la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” (art. 29 n. 3) quando dispone che «questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitate in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni unite». Cioè, vi sono principi e fini di valore universale che trascendono e limitano l’esercizio della libertà. Questo articolo – osserva ancora il Capograssi – «viene a dar rilievo all’attività dell’individuo per riconoscere espressamente che esso impegna (come esercizio di questi diritti) l’ordine stesso internazionale instaurato con l’organizzazione delle Nazioni unite e fa corpo con questa» (op. cit., p. 14). A fortiori ciò è valido nell’ambito della comunità statuale nella quale vige un ordinaORDINE 2 2003 mento giuridico positivo, quindi un sistema positivo di diritti e, perciò, una coordinazione dei diritti. E la coordinazione rende necessaria la disciplina del loro esercizio secondo il modo e per opera degli organi stabiliti dalla legge, a garanzia di ogni possibile arbitrio di tale coordinazione. La nostra Corte Costituzionale, discutendo dell’art. 2 della Costituzione sui «diritti inviolabili dell’uomo» ha stabilito che la norma statutaria considera regola fondamentale dello Stato, per tutto quanto attiene al rapporto tra la collettività ed i singoli, il riconoscimento di quei diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana: diritti che appartengono all’uomo inteso come essere libero (sentenza 3/7/1956, n. 11). Ha poi soggiunto (sentenza 26/1/1957, n. 2) che la Dichiarazione dei diritti di libertà implica per sua natura, in senso giuridico, anche la posizione dei limiti, cioè la determinazione della sfera di azione dei vari soggetti entro condizioni tali che ne risulti garantito lo svolgimento della libertà di tutti; la Corte Costituzionale ha inoltre affermato che è da considerare normale che il precetto costituzionale non copra, per tutta la sua estensione, la materia regolata dalle norme ad essa sottordinate nella scala dei valori normativi (sentenza 3/7/1956, n. 9) e che, pertanto, una disciplina delle modalità dell’esercizio di un diritto non è da considerare di per sé violazione o negazione del diritto stesso. 4. Abuso del diritto 5. Tipi di reati Malgrado il travaglio della dottrina sulla nozione di abuso del diritto, dottrina approdata alla negazione di ogni validità del concetto di abuso e senza entrare in questa sede nella delicata e pure fondamentale controversia, se si può parlare di abuso, è evidente che si ha abuso di un diritto quando l’esercizio di esso lede un diritto altrui, quando viola i limiti imposti o dal diritto altrui (la cui sfera viene invasa) o dal dovere proprio che inibisce determinati comportamenti. L’abuso costituisce un illecito civilmente e penalmente sanzionato. Negli ordinamenti positivi è esplicitamente sancito il principio che «l’esercizio di un diritto e l’adempimento di un dovere esclude la punibilità» (art. 51 C.p.). Di converso, punibilità si può avere quando non si esercita un diritto o non si adempie un dovere. L’abuso del diritto di libertà di stampa può essere punito in quanto non è né esercizio di diritto, né adempimento di dovere. Secondo l’ordinamento costituzionale è assoluto ed incondizionato il diritto di stampa, sicché una legge che lo negasse non potrebbe che essere dichiarata incostituzionale dal previsto organo di garanzia della legittimità costituzionale delle leggi. Ma non contrasta con questa assolutezza incondizionata del diritto il divie- È a tutti nota la fenomenologia degli abusi della libertà di stampa attraverso la nozione dei reati previsti dalle norme penali. Non è certo esercizio di libertà l’istigazione, per mezzo della stampa, diretta ad influire sulla volontà altrui, e quindi a limitare la libertà altrui, per determinarla al compimento di atti che la legge qualifica reati. Così è per l’istigazione a disubbidire alla legge (art. 266 C.p.), l’istigazione a commettere delitti contro la personalità dello Stato (art. 303 C.p.), l’istigazione a delinquere (artt. 414415 C.p.). Non è certo esercizio di libertà il servirsi della stampa per consumare il reato di propaganda sovversiva e antinazionale (art. 272 C.p.), di propaganda per l’instaurazione di un diverso regime dinastico (art. 8 legge 3 to di abuso dell’esercizio del diritto stesso. Abuso che comporta la legittimità della repressione per proteggere il bene minacciato o leso dall’abuso. Tanto è vero che la stessa Costituzione, mentre sancisce il diritto assoluto ed incondizionato (art. 21, comma 1), prevede pure il divieto di pubblicare stampa «contraria al buon costume» (art. 21, comma 6), prevede l’ipotesi e le modalità del «sequestro» (art. 21, comma 4), e prevede pure che «la legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni» del divieto di pubblicazioni «contrarie al buon costume» (art. 21, comma 6). È prevista quindi non solo la repressione, ma anche la prevenzione di quelle che la Costituzione definisce «violazioni». In tal modo lo Stato difende la libertà di stampa contro le aggressioni, che possono essere esterne, e quindi tali da impedire l’esercizio del diritto, ma possono anche essere interne, cioè operate da chi in luogo di esercitare il diritto, ne abusi. Oltre questo illecito giuridico, penalmente represso, vi è poi l’illecito morale che comporta lesioni della reputazione morale, della probità, e onestà professionale, lesioni per le quali sono previste sanzioni nell’ambito della disciplina professionale dei giornalisti. dicembre 1947, n. 1546), di propaganda a favore di pratiche antiprocreative (art. 552 C.p.). Si tratta di una propaganda che non è rivolta a persuadere, bensì ad agire in senso contrario alla legge. Non è esercizio della libertà di stampa il servirsi della stampa per l’apologia di fatti contrari alla disciplina ed ai doveri militari (art. 266 C.p.), per l’apologia sovversiva o antinazionale (art. 272 C.p.), per l’apologia di delitti contro la personalità dello Stato (art. 303 C.p.). Con queste apologie non si difendono idee, ma si esaltano comportamenti contrastanti, con diritti e doveri obiettivi. Se la libertà di stampa è un diritto, è pure un diritto la tutela di beni, quali la personalità dello Stato, il regime costituzionale, la disciplina militare e l’osservanza delle leggi. 6. Beni e diritti tutelati contro l’abuso della libertà di stampa La società deve creare le condizioni più favorevoli perché il cittadino raggiunga i suoi fini. Il bene è un oggetto, un fine e la stampa è un mezzo per realizzare questo fine. Ora, vi sono beni e interessi oggettivi, individuali e sociali, che possono essere violati dall’abuso della libertà di stampa. Si è detto che la verità è la condizione prima dell’eserci- zio della libertà di stampa, e che ogni alterazione della verità, turbando la conoscenza del fatto, può essere distorsione del fatto se non falsità. Il diritto tutela la verità, ma tutela anche i beni individuali e sociali che possono essere lesi dall’abuso della libertà di stampa. È un bene lo Stato, un bene segue 17 (25) 1963 2003 l’Ordine dei giornalisti compie quarant’anni supremo che non può essere violato dalla libertà di stampa. È un bene l’ordinamento costituzionale tutelato dal diritto contro ogni pericolo di sovvertimento. È un bene l’ordine pubblico la cui tutela impedisce che la stampa favorisca la consumazione di reati; se non vi è libertà di delinquere non vi è pure la libertà di far delinquere. I beni religiosi sono oggetto di tutela, come pure i beni morali. La legge tutela i diritti della morale sociale in generale, e della morale sessuale in ispecie, con il divieto di esercitare a mezzo della stampa opera di corruzione. La stampa pornografica non può essere oggetto dell’esercizio di un diritto. E ciò dicasi in generale della stampa che devia le coscienze inesperte dei giovani contribuendo a comprimere la loro libertà di formazione o ad asservire la ragione all’istinto sotto l’influenza della stampa diseducativa. I beni familiari sono tutelati contro l’abuso della libertà di stampa, e il diritto tutela la famiglia dall’opera di disgregazione che può essere assecondata dalla stampa. Ma il bene primo che l’ordinamento giuridico tutela è il soggetto del diritto: l’uomo. La dignità dell’uomo è un bene supremo che non può essere sacrificato alla libertà della stampa, e la tutela della onorabilità del cittadino e della sua reputazione è una tutela che ha per oggetto beni essenziali che non possono essere sacrificati alla libertà della stampa. 7. Dignità della persona Il primo limite contro gli abusi del diritto di libertà di stampa è posto dalla dignità della persona. La stampa, in virtù dell’art. 21 della Costituzione, è libera; ma, in virtù dell’art. 13 della Costituzione, «la libertà personale è inviolabile» e, in virtù dell’art. 32 della Costituzione, «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Lo Stato, in virtù dell’art. 3 della Costituzione, intende rimuovere tutti gli ostacoli che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana», e prevede, con l’art. 13, che sia punita ogni violenza, non solo «fisica» ma anche «morale» sulle persone. Dignità della persona, libertà della persona, rispetto della persona, sviluppo della persona, sono beni non solo del patrimonio etico, ma anche beni tutelati dall’ordinamento costituzionale alla pari della libertà di stampa che non può penetrare nella sfera di questi valori costituzionalmente promossi e protetti. È perciò evidente che non è esercizio della libertà di stampa l’offesa della reputazione, l’offesa all’onore della persona, alla stima che un individuo gode nella collettività dal punto di vista morale, sociale e professionale. Quindi, l’ordinamento giuridico non limita la libertà di stampa configurando come reato la diffusione a mezzo della stampa di notizie che offendono l’onorabilità privata (art. 595 C.p.). La tutela dalle ingiurie che «offendono l’onore o il decoro di una persona» (art. 594 C.p.), la tutela dalla diffamazione che «offende l’altrui reputazione» (art. 595 C.p.) e così pure la tutela della riserbatezza riguardano una sfera di libertà giuridicamente protetta nella quale non ha diritto di penetrare non solo la stampa, ma neppure l’autorità giudiziaria se non sia richiesta da necessità di giustizia, e, comunque, sempre e solo nei modi stabiliti dalla legge. 8. Interessi costituzionali Oltre la dignità della persona la legge – come si disse – tutela l’ordine costituzionale ed il prestigio delle alte magistrature dello Stato. Di conseguenza sono considerate reati quelle azioni che, attraverso la stampa, mirano ad offendere l’onore ed il prestigio del presidente della Repubblica (art. 278 C.p.), la Repubblica e le istituzioni costituzionali (art. 290 C.p.), e la Nazione italiana (art. 291 C.p.). Ogni attività di stampa diretta a sovvertire la struttura dell’ordine costituzionale (e non a riformarlo secondo le procedure previste dalla Costituzione stessa) non può essere esercizio di un diritto. La legge vieta tali azioni e le considera reati (artt. 272-283 C.p.). Non è esercizio di libertà la propaganda diretta alla instaurazione violenta di una dittatura di classe, alla sovversione dell’ordine sociale, alla distruzione di ogni ordinamento giuridico e politico della società (art. 272 C.p.). Si tratta di propaganda per un’azione violenta, e quindi incompatibile con il rispetto della libertà. La tutela dei poteri costituzionali (Camere, governo, Forze armate) è una tutela che considera quale reato ogni vilipendio di tali istituzioni (art. 290 C.p.). 9. Interessi pubblici È pubblico interesse la difesa della personalità internazionale e interna dello Stato (art. 3 C.p.), dell’ordine pubblico che non può essere minacciato senza grave pericolo per la libertà di tutti e per la coesistenza sociale; è interesse pubblico la difesa della società contro l’istigazione all’odio di classe, contro l’istigazione a violare 18 (26) le leggi (artt. 266-415 C.p.). Questi beni non possono essere offesi dalla stampa senza offendere il principio stesso della libertà di stampa e, altresì, il suo esercizio, protetto da queste istituzioni e da questi ordinamenti. Il divulgare notizie false, esagerate e tendenziose con le quali può essere turbato l’ordine pubblico è azione passibile di contravvenzione (art. 656 C.p.) e non esercizio di libertà di stampa; ugualmente non è esercizio di libertà di stampa ed è passibile di contravvenzione (art. 661 C.p.) l’abusare con impostura della credulità popolare. Lo Stato – in determinate e limitate situazioni previste dalla legge – può avere interesse al segreto, e chi ha la libertà di narrare non può intendere estesa questa libertà anche al narrare azioni o fatti che debbono restare segreti in quanto sono in gioco beni superiori interni o La libertà di stampa e i diritti individuali di libertà internazionali, cioè beni di tutti, che potrebbero essere compromessi dalla pubblicità. Il segreto di Stato, il segreto militare, il segreto parlamentare, ed il segreto giudiziario, hanno per oggetto atti e fatti attinenti a beni che sono tutelati ad esclusivo servizio degli interessi della comunità (artt. 683-684-685 C.p.). Lo ius narrandi non è contestato, ma sono contestati determinati oggetti della narrazione, in quanto la narrazione di essi è lesiva di libertà, di beni o di interessi pubblici. 10. Interessi giudiziari I diritti della giustizia debbono coesistere con i diritti della stampa e, in ragione di questa coesistenza, la stampa non può ignorare l’art. 27 della Costituzione secondo il quale «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Tale precetto deve essere osservato da tutti, stampa compresa, e la violazione del diritto dell’imputato non è esercizio della libertà di stampa. Accanto alla libertà di stampa vi è la libertà del giudice ed il decoro dell’ordine giudiziario. Se la Costituzione afferma che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» (art. 101) questa indipendenza del giudice deve essere tutelata alla pari della libertà di stampa. Che ne è del diritto del giudice a non essere influenzato se l’abuso della libertà di stampa esercita influenze esterne, dirette o indirette sul giudizio? La libertà dei magistrati e di tutti coloro che sono necessari collaboratori della giustizia (avvocati, testimoni, periti), o sono ad essa soggetti (le parti), è garanzia dell’indipendenza ed efficienza della magistratura. La pubblicità del dibattito giudiziario è garanzia esterna del rispetto delle procedure, e la stampa, in tale materia, può essere legittima ed efficace collaboratrice della giustizia. Egualmente legittima è la critica della giurisprudenza, condizione del progresso giuridico. Ma cosa diversa è la violazione del segreto istruttorio tutelato dalla legge. Segreto istruttorio che esiste anche là dove in luogo del procedimento inquisitorio vige il procedimento accusatorio. Non è esercizio di libertà rendere più difficile alla giustizia il raggiungimento del suo fine che può essere in parte frustrato dalla pubblicità dei fatti la quale può disperdere la traccia dei reati e rendere meno efficace, rapida e conclusiva la fase istruttoria. 11. Interessi religiosi La libertà di stampa è sancita dalla Costituzione, ma sono pure sancite dalla Costituzione la cooperazione tra Chiesa e Stato e la pace religiosa, considerata come un bene perseguito dalla comunità civile e come un diritto del credente. L’esercizio della libertà di stampa non può, quindi, violare l’esercizio della libertà di culto, non meno fondamentale della prima. L’offesa della religione mediante vilipendio di chi la professa (artt. 402-403 C.p.), le offese e ingiurie pubbliche al sommo pontefice (art. 8 del Trattato del Laterano) sono violazioni di diritti, evidentemente incompatibili con l’esercizio della libertà di stampa. 12. Buon costume Lo stesso articolo della Costituzione che sancisce la libertà di stampa stabilisce che «sono vietate» le pubblicazioni «contrarie al buon costume» (art. 21). Quindi il buon costume è un limite costituzionale all’esercizio del diritto della libertà di stampa. Le pubblicazioni oscene sono vietate dall’art. 528 C.p., ritenendosi oscene le pubblicazioni che «secondo il comune sentimento, offendono il pudore» (art. 529 C.p.) e l’onore sessuale. Come è noto, difficili controversie sono sorte attorno a questa nozione e non mancano profonde disparità di valutazioni nella dottrina, nonché oscillazioni giurisprudenziali. Ci condurrebbe lontano l’approfondimento della distinzione tra il riferimento al patrimonio morale permanente e il riferimento alla coscienza attuale e variabile; ugualmente difficile e controversa è la determinazione del rapporto tra l’osceno, l’opera d’arte e l’opera di scienza (art. 519 C.p.). Ma è al di fuori di ogni dibattito il riferimento positivo delle norme al sentimento morale e all’offesa del pudore. La stampa, quindi, non può essere – anche a termini di legge – strumento di degradazione del costume e di corruzione sessuale. È una libertà che non esiste, perché è violazione di beni costituzionalmente e legislativamente protetti. La dignità ed il livello del «sentimento comune» sono determinati dal costume, il quale esercita una influenza decisiva nell’allargare o restringere la sfera di applicazione della norma. 13. Beni familiari La Costituzione «riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» (art. 29) come riconosce i diritti della stampa. È quindi pienamente conforme al precetto costituzionale l’art. 565 C.p. che punisce gli attentati alla morale familiare commessi a mezzo della stampa. Un «attentato» non può essere esercizio di un diritto. La pornografia è un’aggressione ai sentimenti morali dei giovani; è un’aggressione, non è esercizio di diritto. L’art. 14 della legge sulla stampa (8/2/1948, n. 47) dichiara punibili ai sensi dell’art. 528 C.p. «le pubblica- zioni destinate ai fanciulli e agli adolescenti quando, per la sensibilità ed impressionabilità ad essi proprie, siano comunque idonee ad offendere il sentimento morale o a costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto, o al suicidio». Le medesime disposizioni si applicano ai giornali di avventure poliziesche che sfrenano «istinti di violenza e di indisciplina sociale» (art. 14) nonché alle «pubblicazioni di contenuto impressionante o raccapricciante» (art. 15). La stampa – in quanto abbia questo oggetto – non esercita una libertà, ma lede diritti. 14. Responsabilità della stampa L’esigenza della tutela dei diritti che possono essere violati per mezzo della stampa è un’esigenza di giustizia. Ogni esercizio di diritto implica una responsabilità, in quanto implica doveri nei confronti di diritti altrui. Se si vuole trattare la libertà altrui come libertà, e quindi rispettarla, deve essere viva la coscienza della responsabilità intesa in duplice senso, cioè come coerenza interiore del pensiero e come rapporto tra il pensiero proprio e quello altrui. Il problema della responsabilità della stampa per atti illeciti, lesivi di altrui libertà, va posto sul terreno della «responsabilità personale» secondo l’esplicito precetto della Costituzione (art. 27). Lo sforzo per tradurre in norme di legge il principio della responsabilità personale, attraverso la revisione degli artt. 57 e 58 C.p., è stato arduo e si potrebbero fornire molte e personali testimonianze del travaglio compiuto. La soluzione da noi proposta ed accolta dal Parlamento non può essere considerata del tutto soddisfacente. Ma non minori inconvenienti presentano le altre soluzioni prospettate. Le difficoltà nascono anche dalla particolare configurazione dell’attività della moderna stampa quotidiana, attività frazionata tra vari soggetti che spesso operano a distanza, sotto la pressione dell’urgenza che rende estremamente difficile il controllo della verità dei fatti, sotto la pressione dell’esigenza di un mercato impaziente e di gusti volubili, sotto la pressione della necessità dell’uso sempre più vasto, e, in molti casi, pressoché assorbente, del materiale fornito da agenzie di informazioni più sollecite per la rapidità delle trasmissioni meccanizzate delle notizie che dell’accertamento delle notizie stesse. Insomma, la lotta contro il tempo e contro la pressante concorrenza rendono difficile al giornalista il controllo, la ponderazione e la riflessione: inoltre la tecnica moderna dell’informazione contribuisce a frazionare le responsabilità. Ciò non significa che si possa deflettere dal principio della responsabilità personale; ma ciò induce anche a puntare sull’autocontrollo della stampa, nella consapevolezza delle sue responsabilità opportunamente e solennemente sancite dal “Codice etico del giornalismo” accettato all’unanimità dai giornalisti e dagli editori. L’attività dei comitati “Giustizia e Stampa” potrà essere di ausilio in questo particolare settore, e l’istituzione delle Corti di onore, proposta con disegno di legge, potrà agevolare il rapido ristabilimento dell’onorabilità offesa senza ricorrere necessariamente al potere giurisdizionale. Così pure potrà essere perfezionata la norma relativa alla pubblicazione integrale delle rettifiche. 15. Esigenza di organicità delle norme Riconosciamo che molto c’è da operare perché tutte le libertà costituzionali siano ugualmente e giuridicamente tutelate e perché le norme relative alla stampa non abbiano quella disorganicità che non è certo di ausilio ad una tempestiva ed uniforme applicazione, in modo che la stampa sia sempre più libera nell’ambito del rispetto delle altre libertà sancite dalla Costituzione. Ciò comporta responsabilità di governo ma anche responsabilità di Parlamento. È solo con l’azione concorde del potere legislativo ed esecutivo e con l’indipendente attività del potere giudiziario che si può rafforzare la garanzia delle libertà di tutti. La democrazia che intende «sfuggire alle allucinanti imposizioni delle verità ufficiali» (Capograssi, op. cit., p. 13) è ben conscia che la libertà di stampa è uno dei fondamenti del sistema democratico il cui fine è la dignità dell’uomo nell’esercizio di tutte le sue libertà. Guido Gonella ORDINE 2 2003 M O S T R E Gianluigi Colin, Manifacturing the Present-La Fabbrica del Presente, Charta, Milano 2002, pagine 191, euro 34 Ha esposto già le sue opere d’arte, elaborazione fotografica della notizia, a Milano. La mostra è proseguita a Mendosa in Argentina e presto raggiungerà Chicago Gianluigi Colin, elaborare l’immagine per capire la fabbrica del presente ca è ormai un retaggio del Novecento. Alcune foto di cronaca hanno raggiunto quotazioni come vere opere d’arte. È incontestabile che molte altre immagini fotografiche risultano simili ad importanti quadri dell’arte antica, come ne fossero una clonazione che vuole insegnare qualcosa ai posteri. La strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980 e il quadro de La strage degli innocenti di Guido Reni. Alcune immagini della Cecenia nel ‘96 che riprendono l’atmosfera di un quadro di Hieronymus Bosch. Lo sbarco degli albanesi che ricorda la Zattera della medusa di Gericault. Il generale Leon che uccide Nguyem Van Lem a Saigon nel ‘68 e le fucilazioni sul Monte Pio di Goya. di Paola Pastacaldi La fotografia è diventata oggi un surrogato dell’identità di personaggi noti o resi celebri dalla cronaca e dal piccolo schermo, ma anche dei fatti del reale. Come ha scritto Susan Sontag nel suo saggio Sulla Fotografia l’uomo di oggi non è mai abbastanza fotografato né pubblicato. Le foto lo aiutano a confermare la sua esistenza. Non solo, anche la nostra conoscenza è sempre più legata a ciò che vediamo stampato. Ma le immagini possono coincidere con i fatti? In realtà sappiamo che le foto parlano solo della fenomenologia del reale, cioè dell’apparire. Gianlugi Colin, art director coè responsabie della grafica e dell’immagine del Corriere della Sera (autore tra gli altri de Il disegno delle parole, Rizzoli, ‘94), lavora nella redazione milanese di via Solferino, dove è cresciuto sin dagli anni Ottanta partecipando a tutte le tappe di cambiamento tecnologico e qualitativo del principale quotidiano italiano, conosce bene i meccanismi di questa sofisticata macchina del presente, che è l’informazione. Giornalmente deve districarsi nel labirinto delle identità fotografate di personaggi e avvenimenti, dai più normali a quelli più tragici. In altre parole Gianlugi Colin entra giornalmente nella palude dell’esistenza fenomenologica dei fatti. Le immagini dell’attualità giornalistica forniscono oggi al lettore la possibilità di guardare là dove mai avremmo pensato di poter guardare. Spesso siamo chiamati come lettori e telespettatori a conoscere ciò che ci accade intorno in un clima di violenza al quale non siamo impreparati. Le copertine giornalistiche: icone d’arte del presente Nelle riproduzioni delle immagini di Gianluigi Colin, art director del Corriere della sera tratte dalla mostra Manifacturing the present -La Fabbrica del presente Il racconto visivo di un giorno qualunque di notizie Dal mattino alla sera assistiamo ad una ripetizione ossessiva dell’orrore che si sviluppa nel mondo e ogni frammento del reale viene rivisitato dai media attraverso le foto e le riprese televisive. Guerre in diretta, cecchini che uccidono come se fossero davanti ai nostri occhi, cadaveri straziati, parenti che piangono, mischiati a soubrette televisive e personaggi politici della scena mondiale. Nulla ormai esiste nei giornali se non è riconducibile ad una immagine. Per sfuggire all’eccesso dei sentimenti proposto dai media si dovrebbe fare un esercizio mentale quotidiano. Non a tutti riesce, ma soprattutto è sempre più difficile resistere al fiume in piena delle foto. Nel libro Manifacturing the Present -La Fabbrica del presente l’art director Colin ha cercato di vedere che cosa si nasconde dietro l’invasività delle immagini dei media che, essendo troppo incarnate nel sentimento (naturalmente per vendere più copie del prodotto giornale), sono ormai diventata algide. Quindi l’informazione che passa attraverso le foto non informa né comunica. Ma caso mai distorce i fatti. Colin ha dato dignità di opere d’arte ai ritagli fotografati del presente, adunando, deformando, ingrandendo come fanno le fotocopiatrici le pagine dei giornali di tutto il mondo. In un giorno qualunque di tutti quelli triturati dalla macchina che produce l’informazione, il 15 luglio del 1995, Colin, come lui stesso racconta, ha deciso di “fare il racconto visivo di ORDINE 2 2003 Troppo spesso siamo passivi di fronte all’eccesso di immagini e ci limitiamo a sfogliare i giornali e a guardare passivi le riprese in tv, come fossero album o cartoline zeppe di foto di famiglia riviste mille volte. Così nei ritratti dei personaggi pubblicati sui giornali e rielaborati da Colin assistiamo alla creazione di icone d’arte del presente: Diana nella copertina di Newsweek è l’eterna principesa di una favola tragica di Perrault, non sorridono Fidel Castro e il Gorbaciov di Time, mentre Bill Clinton grazie ad un gioco di rossi assume i tratti della vecchiaia dimessa come nel racconto di Oscar Wilde Il ritratto di Dorian Gray; fa paura la Madonna di Vanity Fair, è una femmina di plastica la Naomi Campbell de La Revista, lei l’intramontabile finta nera che ha il carattere e i vizi dei bianchi, mentre l’enigmatico volto del plurimiliardario Bill Gates sulla copertina di Time ci inquieta e tutto sembra scivolare dentro un simbolico bidone di carta straccia. Colin ha esposto già le sue opere d’arte a Milano; in questo momento sono a Mendosa in Argentina e presto raggiungeranno Chicago. Quello che suggerisce il lavoro di Colin è che non dobbiamo scordare alla fine che le foto della cronaca sono foto che dovrebbero provocare compassione, pietà e dolore dati i contenuti che spesso hanno. Serve coraggio per guardare dentro certe raffigurazioni della realtà un giorno di notizie, ho voluto raccontare la microstoria della vita di tutti noi, da New York a Bagdad, da Tokio a Milano, da Pechino a Mosca. Le somiglianze tra immagini storiche e immagini della cronaca E ha scoperto, per esempio, le straordinarie somiglianze che esistono tra le foto storiche, quelle che i media hanno pubblicato per raccontare accadimenti cruciali dell’umanità, e i quadri antichi più noti. Un esempio per tutti la celebre foto del cadavere del Che Guevara che sembra una strana fotocopia del Cristo Morto del Mantegna. D’altro canto la caducità delle foto della crona- Ha scoperto le somiglianze tra foto storiche e della cronaca Serve, è vero, coraggio per guardare dentro certe immagini di cronaca, anche se il dolore messo in scena è quello dei media. Forse è giusto ammettere che la fabbrica del presente, cioè quella dei giornali, è la fabbrica del finto dolore. Le opere d’arte di Colin, che stanno girando il mondo, ci insegnano a scomporre e ricomporre il presente storico proposto dai media - che tra l’altro è diventato la nostra principale, se non unica fonte del reale (e questo dovrebbe certamente preoccuparci per le conseguenze che ha sul piano educativo e sociale). Tutto perché possano riprendere a palpitare di significato, liberandoci dalla mostruosità dell’eccesso. E per ricordarci che, per quanto perfette siano le foto, non sono la realtà e anche la battuta di Humphrey Bogart “... è la stampa bellezza” è un po’ scaduta. 19 (27) M O S T R Solfatara in Sicilia, 1947. E Uno dei volumi dedicati a Patellani con le sue foto di cronaca. Quella riprodotta in copertina è del 1955. Un libro e una mostra itinerante sull’Italia delle miss, realizzati da Kitti Bolognesi e Giovanna Calvenzi, sue prime assistenti, gli rendono omaggio Federico Patellani, fotografo. Editorialista in bianco e nero di Fabrizio de Marinis Storie di uomini veri. Storie alla Federico Patellani, giornalista in bianco e nero che usò la luce al posto dell’inchiostro. Un Curzio Malaparte della camera oscura con i suoi verismi anticipatori, spigoloso e altero nel rappresentare una realtà cruda e ingenua nell’Italia durante e dopo la guerra, immaginifico e possente, neorealista antesignano, vulcanico nella sua creatività quasi irrefrenabile che sfociò in una tumultuosità professionale unica e irripetibile, con centinaia di viaggi e reportage in ogni angolo di mondo. Un lavoro organico e puntiglioso, innovatore e da nuova frontiera tanto da essere il caposcuola del fotogiornalismo italiano. Il suo contributo creativo, rivoluzionò le pagine dei più importanti giornali italiani ed esteri, tra i quali Tempo, cui diede un contributo fondamentale, attraverso l’approfondirsi dei temi ai quali era maggiormente legato, dalla metà degli anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta: la guerra, il dopoguerra e la ricostruzione, la realtà del lavoro e della ritualità del sud, i personaggi del cinema e della cultura italiani, i grandi viaggi in Africa, in Asia, nelle Americhe. Un maestro della camera oscura con la passione del giramondo “A forza di girare il mondo facendo fotografie – scriverà in un suo testo, il Giornalista nuova formula, diventato, nel tempo, una sorta di manifesto del fotoreportage italiano mi ritrovo oggi proprietario e archivista di un cumulo di negative e di una ordinata e ricca serie fotografica di ogni cosa. Collezione di circa 12 anni. Se volessimo dare ora una rapidissima occhiata assieme, vi accorgereste che bruscamente si passa dal dilettantismo al mestiere: sino a un certo momento cronologico della raccolta, unicamente belle fotografie; poi a queste si alternano quelle documentarie. Qui ha inizio il mestiere. Non vorrei si credesse che il giornale usi però solo fotografie documentarie, direi anzi che ho sempre tentato di forzare la mano a me stesso e ad altri per giustificare la pubblicazione della bella fotografia a preferenza di quella documentaria, purchè ciò non tornasse di svantaggio alla chiarezza e alla comunicatività del servizio. Quando non l’ho vinta, la fotografia bella è rimasta per me ed è entrata a far parte del mio archivio personale in luogo di essere numerata e catalogata in quello del giornale”. Nuova Cassino (Frosinone), 1945. Carbonia (Cagliari), minatori 1950. Trasporti pubblici, Milano, 1945. Federico Patellani, 1947. Milano. Bagnanti al canale Villoresi, luglio 1948. Meina, Lago Maggiore, 1947. Foto di gruppo a casa di Mondadori. Thomas Mann al centro e in senso orario, da sinistra: Arturo Tofanelli, Franco Fortini, Guido Lopez, Oreste Del Buono, Roberto Cantini, Enrico Emanuelli, Alberto Mondadori, Lavinia Mazzucchetti, Arnoldo Mondadori, Tom Antongini, Edilio Rusconi, Corrado Pizzinelli, Giansiro Ferrata, Arrigo Benedetti (di spalle). Dalle guerre ai concorsi di bellezza una lunga storia di arte ed amore Più che un archivio, una miniera di oltre 700 mila immagini, per fortuna approdato nella sua totalità a Villa Ghirlanda di Cinisello Balsamo, dove sta nascendo, finalmente, il primo Museo di Fotografia contemporanea e dove gli archivisti stanno procedendo alla catalogazione digitale di tutti i negativi e al recupero dei più vecchi e malconci, in modo da non disperdere il frutto della carriera di uno dei più prestigiosi reporter italiani del secolo. Oggi, una serie di mostre organizzate da Fnac a Milano, Genova e Torino e un libro, 20 (28) ORDINE 2 2003 Copertine di Tempo degli anni 1939, 1946 e 1947 realizzate con fotografie di Federico Patellani. È stato uno dei maggiori fotoreporter italiani del dopoguerra. Ha lasciato un patrimonio di oltre 700 mila immagini, oggi nel neonato Museo della Fotografia di Cinisello Balsamo. A lui si deve per il settimanale Tempo, l’invenzione dei fototesto, piccoli documentari statici con ampie didascalia. Fotografia per la copertina di Tempo del 15 giugno 1946. Al centro l’ultima pubblicazione su “bellezze”e cinema. La più bella sei tu, Peliti Associati Editore, tutte e due le iniziative curate da Giovanna Calvenzi e Kitti Bolognesi, rendono omaggio allo straordinario fotografo di origine monzese scomparso quindici anni fa. Le due curatrici ci svelano l’entusiasmo e la sorpresa, quando riordinando l’archivio, tempo addietro, videro saltar fuori un plico, con la scritta L’era delle Miss, dove il fotografo aveva accumulato tutto il materiale scattato durante il famoso concorso di bellezza che seguiva per il settimanale Tempo. Quasimodo, Munari, Vittorini, amici di un’impresa sulle orme di Life Le immagini di Federico Patellani legate ai concorsi di bellezza e alla nascita del cinema italiano nel dopoguerra – raccontano le curatrici – sono una piccola cosa se commisurate alle 700 mila immagini da lui realizzate in quasi quarant’anni di attività. Anzi, negli anni Sessanta, quando abbiamo iniziato a lavorare con lui, Patellani sembrava aver dimenticato questo capitolo della sua professione, concentrato com’era nei grandi viaggi che erano diventati sua croce e delizia. Deluso, infatti, dall’incompentenza che vedeva crescere nei giornali, aveva abbandonato il fotogiornalismo impegnato che lo aveva reso protagonista dei maggiori eventi nazionali ed esteri, ed aveva scelto la strada dei viaggi, inventandosi periodicamente un pretesto, già venduto, per una nuova avventura fotografica. Appariva, comunque, privo di risentimenti e di ripensamenti. Parlava pochissimo degli anni pieni di fervore creativo nei quali, con Alberto Mondadori e una straordinaria redazione formata da Salvatore Quasimodo, Bruno Munari, Elio Vittorini, Indro Montanelli ed altri, aveva dato vita al settimanale Tempo, il primo grande periodico illustrato italiano, nato a cavallo della guerra sulle orme di Life. Lucia Bosé al concorso di Miss Italia, a Stresa, nel 1947. Milano, 1951. Una candidata al titolo di Miss Tempo sfila davanti ai redattori del settimanale: da sinistra, Domenico Cantatore, Arturo Tofanelli e Ezio Suppini. Dal set con Soldati al fronte russo, seppe interpretare un’epoca Patellani era giornalista e fotografo, in un momento in cui una fotografia serviva quanto la parola scritta per informare il lettore in un paese con un altissimo tasso di analfabetismo. Al servizio dei lettori aveva creato per Tempo il fototesto, piccoli documentari ad immagini fisse con ampie didascalie, dove i testi avevano spesso solo una funzione esplicativa. Dopo l’esperienza di Tempo, nel 1939, si avvicina sempre di più al cinema ed è tra i produttori del film Piccolo Mondo Antico diretto da Mario Soldati. Torna come inviato fotografo sul fronte russo e rientrato in Italia aggiunge alle immagini incredibili realizzate in quel paese, quelle sulla distruzione bellica. Sofia Loren e Cary Grant in Spagna, nel 1956, sul set del film Orgoglio e passione, diretto da Stanley Kramer. Il suo segreto: cogliere il movimento e l’essenziale di ogni cosa In Magna Grecia e Paradiso Nero dall’Italia alle tragedie dell’Africa Nel 1952 realizza un ampio servizio sul meridione dal titolo Italia Magica. Nel 1953 è aiuto regista di Alberto Lattuada per il film La Lupa. Seguiranno altri reportage come Viaggio in Magna Grecia sempre sul meriORDINE 2 2003 dione d’Italia e Viaggio nei Paesi di Ulisse. Per qualche anno continuerà ad essere testimone della realtà italiana e lavorerà per la casa cinematografica di Dino De Laurentis. Nel 1956 realizza un lungometraggio America Pagana che pubblica in fotografie anche su Epoca. Sempre Epoca nel 1957 gli pubblica uno speciale di 160 pagine, Paradiso Nero, un viaggio che compie con il figlio Aldo, dal Congo Belga al Kenya per oltre 25 mila chilometri. Ormai il suo lavoro si svolge soprattutto in viaggio e i suoi servizi vengono pubblicati anche dalla Domenica del Corriere, Successo, Storia Illustrata e Atlante. Ricordo la capacità di narrazione – racconta Kitti Bolognesi che è stata con la Calvenzi sua assistente – la fotografia vissuta come vita e azione. Patellani seppe interpretare un’epoca, dalla distruzione della guerra ad un’Italia senza malizia e con la voglia di fare che si rimetteva in piedi. Silvana Mangano con una delle figlie nella sua casa romana, nel 1954. La fotografia di movimento richiede la scelta di un momento narrativo – concluderà nel suo articolo-manifesto, Il giornalista nuova formula, Patellani – quale solo il cinematografo ci ha abituati a vedere, con l’offrirci la possibilità tecnica di selezionare ed analizzare i valori successivi di ogni atteggiamento e di ogni movimento dell’uomo, delle macchine che egli ha creato e di tutto ciò che vive intorno a lui. Bisogna, insomma, per il servizio e per sé, saper cogliere l’atteggiamento momentaneo, il movimento, il sensazionale, l’essenziale di ogni cosa. Certamente è difficile in una sola fotografia fondere i valori documento-bellezza. Ma…sta qui la classe del fotografo. 21 (29) M O S T R E Eugenio Torelli Viollier, a destra, rocambolesco giornalista napoletano, garibaldino, segretario di Dumas padre, fu il fondatore del Corriere della Sera. In basso, la famosa Sala Albertini, dove si elaborava il giornale e una copertina della Domenica del Corriere del 1907, di Achille Beltrame, sull’ingresso nell’Arena di Milano di Luigi Barzini e Scipione Borghese vincitori del raid Pechino-Parigi. Nella pagina accanto lo splendido ritratto di Ellade Crespi Colombo, opera di Cesare Tallone Mostra sulla modernità, il Mondo Nuovo, Milano 1890-1915, nelle sale di Palazzo Reale a Milano (aperta fino al 28 febbraio 2003) Un barattolo legato ad un filo collegava la redazione, in Galleria Vittorio Emanuele a Milano, con la tipografia per mandare su e giù gli articoli e le bozze da correggere. Tre redattori e appena i soldi per la carta e l’inchiostro. Era il 5 marzo del 1876. Un’impresa, secondo i più, destinata a chiudere in una Milano allora ritenuta la Lipsia d’Italia per il fiorire delle arti, della letteratura, della musica e del teatro. Invece il giornale, diventato emblema della borghesia illuminata milanese, dalle tremila copie iniziali è passato alle 500 mila dell’era Albertini, alle oltre 800 mila di oggi, scavalcando il finire di due secoli. Milleottocentosettantasei, nasce il cavouriano “Corriere della Sera” di Fabrizio de Marinis Le guerre dei titani attraversano le epoche. E così è stato per il Corriere della Sera emblema del finire di un secolo e del nascere del secolo nuovo che fu il Novecento. Il primo numero uscì il 5 marzo 1876, era la prima domenica di quaresima, giorno in cui per tradizione a Milano, i giornali non venivano pubblicati e la città si riposava dopo la baldoria del carnevale. A fondarlo, a sostegno della tradizione politica della destra liberale cavouriana, anche se fin dall’inizio si dichiarò fortemente votato all’equidistanza, fu un giornalista napoletano dalla vita un po’ rocambolesca, Eugenio Torelli Viollier, garibaldino della prima ora impegnato in Irpinia, poi segretario di Alexandre Dumas padre a Parigi, dopo essere stato suo redattore all’Indipendente di Napoli nel 1860. I capitali erano però lombardi. Quel Carnevale si pensò a uno scherzo, era nato il Corriere della Sera Era stato comunque un carnevale clamoroso e affollato, protrattosi fino all’alba di quella domenica. La gente, nel pomeriggio, dopo aver dormito fino a tardi – ricorda il redattore Raffaello Barbiera, storico della società letteraria milanese con il libro Il salotto della contessa Maffei del 1895, nella rievocazione apparsa nel 1919 sulla Rivista Italiana – si era riversata per le strade del centro, nei caffè, in Piazza della Scala e ancora discuteva del carnevale, quando verso le 21 (i giornali allora uscivano tutti di sera) cominciarono ad apparire, portati dagli strilloni, i primi pacchi del nuovo giornale. Per i più fu una sorpresa perché era tradizione che i giornali non uscissero. Quando si seppe che si trattava del Corriere della Sera, del quale ormai tutti avevano sentito parlare, la folla ondeggiante per le vie allora poco rischiarate dai lampioni a gas, strappava dalle mani dei rivenditori frettolosi il Corriere, aspettandosi chi sa quali violente personali polemiche in risposta ai rabbiosi nemici, conoscendo lo spirito battagliero del noto Torelli Viollier. Tra quella sera di domenica e le prime ore della mattina seguente furono vendute tutte le 15 mila copie del primo numero. Milano della Belle Epoque era considerata, all’aprirsi del nuovo secolo, come ha osservato Enrico Decleva, la Lipsia italiana per l’importanza e la diversificazione delle sue industrie editoriali e uno speciale primato cittadino che ha visto crescere aziende attive nel settore dei libri, dei periodici e dei giornali. Arte, letteratura, teatro, musica, poesia confluivano in quella che già si andava definendo come la capitale culturale del paese, in infinite proposizioni e scapigliature. A ricordarcelo, alcune sezioni della mostra sulla Modernità, il Mondo Nuovo, Milano 18901915, nelle sale di Palazzo Reale a Milano (aperta fino al 28 febbraio 2003), voluta dall’Università Bocconi a coronamento delle celebrazioni per il centenario della sua fondazione. Era la Milano dei grandi salotti letterari, come quello della contes- 22 (30) Una locandina di Giacomo Beltrami, dove per la prima volta vengono annunciati i “doni agli abbonati”: La Lettura, nata nel 1901, e La Domenica del Corriere, la cui prima uscita è del 1899. ORDINE 2 2003 I ventotto direttori del “Corriere della Sera” Eugenio Torelli-Viollier Antonio Alfredo Comandini Eugenio Torelli-Viollier Andrea Cantalupi Luca Beltrami Eugenio Torelli-Viollier Domenico Oliva Luigi Albertini Alberto Albertini Pietro Croci Ugo Ojetti Maffio Maffii Aldo Borelli Ettore Janni Filippo Sacchi Ermanno Amicucci Mario Borsa Guglielmo Emanuel Mario Missiroli Alfio Russo Giovanni Spadolini Piero Ottone Franco Di Bella Alberto Cavallari Piero Ostellino Ugo Stille Paolo Mieli Ferruccio De Bortoli dalla fondazione (5 marzo 1876) all’agosto 1891 dal 1 settembre 1891 al 20 novembre 1892 dal 21 novembre 1892 al 1893 dal 1894 all’aprile 1896 dal maggio 1896 al 3 novembre 1896 dal 4 novembre 1896 al maggio 1898 dal maggio 1898 al 23 maggio 1900 dal giugno 1900 (gerente dal luglio 1900) all’ottobre 1921 dall’autunno 1921 al 28 novembre 1925 dal 29 novembre 1925 al 17 marzo 1926 dal 18 marzo 1926 al 17 dicembre 1927 dal 18 dicembre 1927 al 31 agosto 1929 dal 1 settembre 1929 al 26 luglio 1943 dal 1 agosto 1943 al 12 settembre 1943 (direttore del pomeriggio) dal 3 agosto 1943 al 12 settembre 1943 gerenti responsabili due redattori dal 16 settembre 1943 al 5 ottobre 1943 dal 6 ottobre 1943 al 25 aprile 1945 dal 26 aprile 1945 al 6 agosto 1946 dal 7 agosto 1946 al 14 settembre 1952 dal 15 settembre 1952 al 14 ottobre 1961 dal 15 ottobre 1961 al 10 febbraio 1968 dall’11 febbraio 1968 al 14 marzo 1972 dal 15 marzo 1972 al 29 ottobre 1977 dal 30 ottobre 1977 al 19 giugno 1981 dal 20 giugno 1981 al 19 giugno 1984 dal 20 giugno 1984 al 28 febbraio 1987 dal 1 marzo 1987 al 9 settembre 1992 dal 10 settembre 1992 al 7 maggio 1997 dall’8 maggio 1997 sa Maffei, delle prime dannunziane, della Scala dove dirigeva Puccini, dove il mecenatismo editoriale dei Treves e dei Sonzogno scopriva talenti. Accanto ai due colossi Treves e Sonzogno – commentano Fernando Bandini e Anna Modena curatori del catalogo e delle sezioni specializzate – l’uno, il borghese illuminato diventato l’editore dell’allora migliore letteratura contemporanea, l’altro, l’editore popolare che aveva stampato Il Secolo, a lungo il quotidiano più diffuso e l’organo della democrazia lombarda, prosperano editori con aziende settoriali, come Hoepli, la cui collana di Manuali superava i cinquecento titoli, e Vallardi, specializzata in libri per l’infanzia, testi scolastici, supporti didattici e carte geografiche. Baldini e Castoldi rilevano la ditta fondata da Giuseppe Galli, meritevole dei successi di molta buona letteratura milanese da De Marchi a Neera. Galli nel 1896 pubblica Piccolo Mondo Antico di Fogazzaro e Baldini e Castoldi stamperanno in quegli anni Il Santo e Leila, garantendosi anche i successi di Guido da Verona. 1904, l’anno del “grande sorpasso”: il Secolo va in seconda posizione È nel 1890 che il Corriere inizia ad insidiare da vicino le tirature del Secolo (il sorpasso avvenne nel 1904), che aveva raggiunto le centomila copie, costringendo Sonzogno a cambiare politica editoriale e a puntare sempre di più sui libri e la musica. Il giornale di Torelli Viollier era partito con appena tre redattori e aveva a malapena i soldi per pagare carta ed inchiostro (30 mila lire del tempo). Il pronostico fu quindi che questo quotidiano avrebbe avuto vita corta. Invece il Corriere sopravvisse, sia pur avventurosamente, passando dalle iniziali tremila copie di tiratura, alle 100 mila di fine secolo, poi alle 500 mila di Luigi Albertini, infine alle oltre 800 mila di oggi , divenendo tra l’altro, nel 1912, il primo quotidiano a tiratura nazionale. Il sorpasso del Corriere della Sera sul Secolo è del 1904. Il Corriere della Sera non è nato per caso. Soprattutto non è un caso che sia nato a Milano – racconta Glauco Licata nel suo libro Storia del Corriere della Sera – la città era una fucina di iniziative editoriali solide e ponderate come Sonzogno, Treves, Corona e Caimi, Hoepli, Giacomo Agnelli, Ricordi, Crivelli, Politti, Vallardi. Con la Scala e con Casa Ricordi e con Verdi che l’aveva eletta a sua città, Milano era la capitale della musica. Con circa 10 teatri, era la piazza più importante d’Italia per le novità teatrali. Con i fermenti del romanticismo e in seguito della scapigliatura, il verismo era nell’aria, Milano costituì, fin dall’occupazione napoleonica, l’alveo naturale di una cultura in divenire che fu, nel contempo, un nuovo modo di concepire la vita. Durante la scapigliatura i letterati e gli artisti erano scesi in piazza: i caffè e talune osterie fuori porta erano divenuti i moderni circoli culturali, come la Sala Cabrini o il ristorante l’Orologio. Furono questi veri e propri cenacoli letterari in continua polemica con altri come il Caffè Cova, il Gnocchi, il Caffè dell’Accademia di Piazza della Scala; ed infine in ORDINE 2 2003 polemica con il celebre salotto della contessa Clara Maffei. Né va scordato quello della gentildonna Vittoria Cima, filiazione di quello della Maffei, ma aperto agli scapigliati, frequentato oltre che da Arrigo Boito e da Giuseppe Licata anche dal Torelli Viollier. A Milano c’erano ben otto giornali che tiravano insieme un terzo della tiratura nazionale che era di 500 mila copie su una popolazione di 300 mila persone e nel 1837 vi si stampavano tra quotidiani, settimanali e mensili, 137 testate di fronte alle 109 di Roma, alle 107 di Firenze, alle 85 di Torino. I fratelli Treves ricevevano il venerdì sera, Emilio, giorno di riposo della Scala, e la domenica, Giuseppe. Vi si incontravano gli artisti più famosi, da Puccini a Giacosa, a Boito, autori della casa come Rovetta e Ada Negri, D’Annunzio e anche Torelli Viollier e Raffello Barbiera, poi giornalista di punta del nuovo Corriere della Sera, il commediografo Annibale Butti e Giannino Antona Traversi, come il pittore Enrico Scacchetti, Guido da Verona, Umberto Notari, Filippo Tommaso Marinetti, Gustavo Botta. Milano era, insomma, una fucina d’incontri e di propositività, in costante contatto diretto con le altre grandi capitali europee della cultura come Parigi, Berlino e Londra e faceva tendenza in molti settori culturali e dell’industria, com’è ancora oggi. Albertini puntò sull’efficienza e inventò il “redattore viaggiante” In questo contesto di grandi effervescenze di idee nasce il Corriere della Sera, in un momento storico molto delicato perché proprio il 18 marzo 1876, a pochi giorni dalla nascita del giornale, per la cosiddetta rivoluzione parlamentare, la destra cessò di reggere il governo dell’Italia di allora passando la mano alla sinistra non senza gravi contrasti. Ma il giornale seppe navigare quelle acque tutt’altro che tranquille con una personalità propria, soprattutto per le intuizioni di Torelli Viollier che ne divenne comproprietario insieme a Benigno Crespi, industriale tessile lungimirante che per primo capì che si poteva investire (rilevò le quote dei soci uscenti con 100 mila lire) in editoria, guadagnando (i Crespi abbandonarono la proprietà del Corriere con la pronipote Giulia Maria, agli inizi del 1970). Nel 1898, quando il fondatore ne lasciò la direzione, la tiratura dalle tremila copie iniziali, come già detto, era salita quasi a centomila. Dal 1898 al 1900 fu, poi, diretto da Domenico Oliva, poeta, drammaturgo, uomo politico (particolarmente notevoli le sue Lettere di un giovane deputato), critico teatrale, deputato alla XX legislatura, e dal 1900 da Luigi Albertini, nato ad Ancona nel 1871 e senatore del regno dal 1915, che già faceva parte del giornale e ne prese il posto non senza polemiche. Albertini rivoluzionò tutto, potenziando la redazione e istituendo la figura del redattore viaggiante, l’attuale inviato, mandò, poi, corrispondenti nelle principali capitali europee, affidò le varie rubriche del giornale a specialisti di fama e di fatto fece del Corriere il più grande giornale italiano. Al primo supplemento illustrato settimanale, la Domenica del Corriere, iniziato nel 1899 e diventato popolarissimo, si aggiunse nel 1901 la rivista mensile La Lettura, che ebbe come primo direttore Giuseppe Giacosa, poi, nel 1903, Il Romanzo Mensile in omaggio ai lettori, e, nel 1909, il Corriere dei Piccoli. Una figura chiave, Eugenio Balzan, l’uomo dell’organizzazione Ma una delle figure chiave, oltre quella di Albertini, fu quella di Eugenio Balzan, inviato del giornale con le famose inchieste sull’immigrazione italiana in Canada, che nel 1902 assunse la direzione amministrativa di tutta l’azienda dandogli un impulso storico e la potente organizzazione. Il giornale si avvalse della sua autorità e diffusione per sostenere, nel 1911-12, l’impresa libica e, subito dopo, attraverso la penna di Luigi Barzini, prevedendo la grave crisi mondiale, sottolineò i gravi pericoli dei nostri connazionali all’estero sollecitandone la protezione. In quegli anni quello che resta uno dei maggiori inviati della storia del giornalismo italiano raccolse le sue corrispondenze in volumi che ebbero grande fama, come quelli sulla guerra russo-giapponese, il tragico volo di Geo Chavez attraverso le Alpi e il resoconto del suo raid automobilistico Parigi-Pechino con Scipione Borghese. Scoppiata la guerra mondiale, nel 1914, il Corriere considerò subito la neutralità italiana come provvisoria ed ebbe una parte decisiva nel preparare l’opinione pubblica alla guerra. Entrata anche l’Italia nel conflitto sostenne con energia la resistenza ad ogni aggressione e la politica cosiddetta delle nazioni oppresse. Nella crisi che agitò l’Italia dopo la vittoria affermò la necessità di un’intesa non senza polemiche con i fronti dannunziani. Durante i disordini interni al paese del 1919-22, combatté criticamente il socialismo, criticò aspramente la debolezza dei governi e non nascose le simpatie per il movimento fascista. D’Annunzio, Pirandello, Malaparte, Brancati: grandi firme di due secoli Ma quando la marcia su Roma portò al potere Mussolini e il fascismo, il Corriere, fermo nella sua pregiudiziale di liberalismo costituzionale, si trovò ben presto in urto con il nuovo regime rivoluzionario e capeggiò i giornali d’opposizione. Nel novembre del 1925, Luigi Albertini, suo fratello Alberto, ed altri venti redattori furono costretti a lasciare il giornale, che dopo una breve direzione di Pietro Croci, già corrispondente da Parigi, fu condotto nell’orbita del fascismo dal nuovo direttore Ugo Ojetti. Tra i redattori e i collaboratori del Corriere si possono annoverare i più alti nomi della letteratura italiana quali Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello, Francesco Pastonchi, Luca Beltrami, Antonio Fogazzaro, Curzio Malaparte, Grazia Deledda, Vitaliano Brancati, Federico de Roberto e Dino Buzzati. Ai quali ne andrebbero aggiunti molti altri perché in oltre un secolo di storia il Corriere è diventato un testimone epocale, una voce narrante dei grandi eventi del paese, delle grandi avventure del mondo. Fabrizio de Marinis 23 (31) I N O S T R I Sandro Dini, Felice Palasciano e Alfio Colussi L U T T I Giancarlo Masini, giornalista scientifico per vocazione di Paola De Paoli “Dobbiamo essere grati a quelli che, come Giancarlo Masini, fan condividere al pubblico la gioia della creazione scientifica, che è parte integrale dell’impresa intellettuale dell’umanità”. Lo affermava Salvatore L. Luria, premio Nobel per la Medicina 1969, presentando nel 1972 (singolare coincidenza, l’anno in cui lo scienziato aveva fondato a Boston l’Istituto per la ricerca sul cancro) la prima edizione del volume Sulle tracce della vita, uno dei numerosi libri che Giancarlo aveva (e avrebbe in seguito) scritto, oltre alle migliaia di articoli pubblicati da quotidiani e da riviste italiane ed estere. E come Salvatore Luria amava autodefinirsi “un intellettuale senza confini”, certo per la sua innata versatilità di scienziato che aveva spaziato dalla biologia molecolare alla fisica e alla radiologia, così credo si possa ricordare Giancarlo Masini che, partito da una solida formazione scientifica, ha voluto per libera scelta dedicare l’intera sua vita professionale alla diffusione del sapere e delle conquiste della tecnologia. Giancarlo è scomparso a Milano, dove era rientrato da San Francisco sei giorni avanti, alle primissime ore del mattino di lunedì 13 gennaio, dopo una malattia che da oltre due anni lo aveva via via minato nel fisico, alla quale per mesi aveva opposto la sua volontà di reagire, cercando negli Stati Uniti prima e poi soprattutto in Europa ogni possibile rimedio, tentando di convincere se stesso che ce l’avrebbe fatta. Mystères et miracles autour du foie era il titolo del libro che mi aveva preannunciato nell’ottobre del 2001, che pensava scrivere a quattro o sei mani. “Un titolo – diceva quasi compiaciuto – che si traduce bene in italiano e anche in inglese”. Purtroppo, i misteri del fegato hanno avuto il sopravvento. Nato a San Giovanni Valdarno nel giugno 1928, una non facile adolescenza (a soli 15 anni aveva perduto il padre vittima di una rappresaglia) lo costringe a fare il precettore in un collegio fiorentino per mantenersi agli studi liceali. Iscrittosi all’Università, si laurea in Chimica Fisica a pieni voti nel 1958 con una tesi sperimentale sulla struttura molecolare di composti organici iodati e una tesina che è anticipazione teoretica di metodiche analitiche in seguito utilizzate, undici anni più tardi, per lo studio della composizione del suolo lunare attraverso apparecchiature automatiche. Una laurea raggiunta non tra gli agi, ma sudata lavorando per quella che è la sua decisa scelta di vita: giornalismo (si qualifica professionista quando è ancora studente) e soltanto per argomenti scientifici. Inizia, è vero, come reporter al Giornale del Mattino di Firenze, ma la sua carriera è rapida, stimolata dalle esperienze “sul campo” che il suo maestro, il professor di Giuseppe Prunai Fu il primo amico che ebbi a Firenze, quando mi trasferii nel capoluogo toscano, dalla natìa Siena, nel 1956. Firenze è una città chiusa e per chi non è fiorentino da generazioni è difficile inserirsi. Accadde al sottoscritto e qualche anno prima era accaduto a Giancarlo. Fu anche per questo che legammo, oltre che per la comune passione per la scienza, sia pure coltivando discipline diverse. Oltre, naturalmente, al fatto di lavorare nello stesso giornale, il Giornale del mattino, e ad avere orari pressoché identici. Il giornale aveva la sede in una stretta viuzza in zona abbastanza centrale: un palazzo moderno costruito al posto di una casa bombardata. Sulle facciate un’orribile cortina, modanature di travertino, l’interno nobilitato da due affreschi di Ottone Rosai, e insolite le finestre larghe e basse, con dei davanzali di una ampiezza incredibile. Sembravano dei minibalconi. E su questi, Masini, nelle notti d’estate, si sdraiava per 24 (32) Giancarlo Masini nella ricorrenza dei 30 anni Ugis al Circolo della Stampa di Milano. Giorgio Piccardi, gli affida facendolo trasferire per una serie di ricerche nell’isola di Tromsoe, 500 km oltre il Circolo polare artico. Nel 1961 partecipa come ricercatore alla prima spedizione aerea per l’osservazione di una eclisse solare, che porterà alla scoperta delle cosiddette zone fredde del Sole, e ad altre correlate alle ricerche di Piccardi. Iniziano così le sue collaborazioni al Corriere della Sera e a La Stampa che lo portano a trasferirsi a Milano, assunto come redattore al Corriere della Sera dove realizza – un primato in Italia del quale è orgoglioso – la pubblicazione di pagine speciali dedicate alle attività e alle problematiche della scienza e della tecnologia. Nel suo percorso in verità breve da redattore a capo servizio e infine a inviato speciale è presente in ogni luogo del mondo ove avvengono eventi scientifici, dai lanci nello spazio alle evoluzioni della scienza e della tecnologia in ogni settore. Nel 1974 segue Indro Montanelli al Giornale e vi rimane per una decina d’anni. Nel 1984 si trasferisce a San Francisco, nominato addetto scientifico per l’ambasciata d’Italia, incarico che assolve con competente professionalità per otto anni, una capacità peraltro a lui congenita e favorita dalle sue conoscenze nel mondo internazionale della scienza. Nel frattempo, collabora con La Stampa per alcuni anni e poi con il Corriere della Sera, continuando a risiedere a San Francisco e a fare il pendolare con l’Italia. Instancabile, scarsamente ligio alle ore di riposo notturne che dedica ai suoi scritti e alle letture; generoso con gli amici e i conoscenti; toscano “di razza” che per nessuna ragione al mondo può rinunciare ad una battuta, anche se scomoda; una intelligenza brillante, pronta, nitida, sorretta da una vastissima e solida cultura, favorita sovente da felici intuizioni, ad esempio nell’interfaccia giornalismo scientifico e società. In questo contesto è promotore e co-fondatore dell’Ugis – Unione giornalisti italiani scientifici – istituita a Milano nel 1966 con un gruppo di colleghi e scienziati, e fa testo in proposito la “memoria storica” della sua costituzione pubblicata sugli Annuari dell’Ugis a cura di Luciano Ferrari, altro co-fondatore. Ne lascia la presidenza nel 1983, quando si trasferisce a San Francisco, ma conserva quella onoraria della quale si dichiara sempre orgoglioso, mantenendone i rapporti con assiduità, pronto con il suo prezioso supporto anche quando la malattia vuole piegarlo. Alla cena di Natale Ugis del 9 dicembre partecipa con fatica, e non cela un certo disagio per alcune distrazioni da parte dei numerosi presenti. La sua cittadinanza cosmopolita lo porta ad essere promotore e co-fondatore anche dell’Eusja – European Union of Science Journalists’ Associations, della quale sarà presidente per quattro bienni – istituita nel 1971 in Belgio con sei associazioni omologhe dell’Europa occidentale, attualmente con sede a Strasburgo e 22 paesi associati. Il suo dinamismo e la sua carica di energia animano queste istituzioni, ma è soprattutto all’Ugis che si sente maggiormente legato e quando si trasferisce a San Francisco offre ai soci il suo patrimonio di conoscenze favorendo incontri con scienziati e ricercatori sia americani, sia italiani che operano negli Usa. Ed è particolarmente felice quando, grazie ad un lascito di un socio scomparso nel 1993 destinato all’Ugis, l’Associazione realizza una serie di iniziative, dalle borse di studio per giovani giornalisti avviati alla comunicazione scientifica ai viaggi di studio per l’aggiornamento professionale dei soci. “Perché – amava affermare in ogni occasione – noi dobbiamo avere sempre l’umiltà di imparare, come è nostro dovere essere informati per trasferire le conoscenze scientifiche acquisite in modo corretto ed evitando di ingenerare speranze che potrebbero essere disattese”. La mia speranza, caro Giancarlo, è di seguitare lungo quei percorsi che tu sino ad oggi hai approvato. Con maggiore impegno, se possibile, finché avrò forza, affiancata dai tanti soci che ti sono vicini. Una testimonianza di affetto fraterno rivolto anche a tua moglie Luigina ed a tuo figlio Gino, ora ingegnere elettronico, “ che il cielo ha tutto negli occhi” come tu gli hai dedicato, nel 1976, una delle tue tante fatiche che lo stesso astrofisico Guglielmo Righini aveva letto d’un fiato divertendosi. *presidente Ugis, presidente emeritus Eusja “Fu il primo amico che ebbi a Firenze” prendere il fresco e dormire. E il capocronista che urlava: “Non dormire lì, che tu caschi di sotto. Capirai, c’ho il Cresci e il Gattai in ferie, se te tu ti sfracelli, come la fo’ la pagina?” E allora Giancarlo cominciava a girare per i corridoi del giornale. “E ora, icché tu fai?” urlava il capocronista. E lui: “Passeggio per non addormentarmi”. Perché Masini, studente universitario il giorno e cronista la notte, non appena si sedeva, si addormentava. Non ne poteva più dalla stanchezza! Finalmente conquistò la laurea ed offrì una bicchierata a tutti i colleghi alla buvette del giornale sostituendosi al barista dietro al bancone. “Icché tu fai costì?” urlò il solito capocronista. E Masini asciutto: “Bah, voglio guardare il mondo da quell’altra parte della barricata!”. Una battuta o un programma? Poi, lui decollò per Milano, per il Corriere dove andai a trovarlo quando il Giornale del Mattino fallì e rimasi disoccupato. Era ora di cena e lui mi pilotò in una trattoria toscana, vicino a via Solferino. Forse, Pantagruel non aveva mai mangiato e bevuto come noi due quella sera. Al momento di pagare il conto, non volle fare alla romana come facevamo a Firenze quando, usciti dal giornale, alle due, alle tre della notte, finivamo in un ristorante di via Porta Rossa, abituale ritrovo di nottambuli (giornalisti compresi) e nottambule. Ma Giancarlo non volle accettare il mio Milano, 3 gennaio 2003. Sono scomparsi due giornalisti, di origine meridionale, che si erano fatti notare in particolare attività nel settore del giornalismo sportivo ed anche in quello delle organizzazioni professionali. Felice Palasciano era nato a Bari il 17 agosto 1912 e Sandro Dini a Reggio Calabria il 9 luglio 1915. Palasciano è morto il 2 novembre 2002 e Dini il 17 dicembre dello stesso anno. Figuravano nell’Albo dal 1945. Dini fu anche redattore capo alla Rai di Roma. Negli anni successivi lo si trova attivissimo corrispondente da Milano del Messaggero e del Tempo. Nel 1958 Dini ottenne il Premio nazionale Sala Stampa. Sempre in prima linea nel gruppo milanese dei corrispondenti e sempre in prima linea nelle attività professionali come in quelle organizzative dell’Ordine, del sindacato e nei vari dibattiti professionali. Nel 1950 fu un attivo protagonista della realizzazione di due edifici costruiti nei pressi di piazza della Repubblica e destinati a un gruppo di giornalisti professionisti riuniti in cooperativa. Felice Palasciano, “per decenni colonna” della Gazzetta dello Sport, aveva cominciato a collaborare con la “rosea”, quando aveva 17 anni. Ne era diventato collaboratore fisso nel 1938 e redattore nel 1946 (quando condirettore responsabile era Gianni Brera). Va ricordato per avere inventato il giornalismo degli sport minori (ginnastica, lotta, pesi, judo). Era in pensione dal 1973. Alfio Colussi ha lavorato per 40 anni al Corriere della Sera. Esperto di pubblicità, antesignano del management, curò negli anni 60 Prestigio la rivista di pubbliche relazioni dell’editoriale Corriere della Sera per passare poi alle pagine del tempo libero e dell’economia. Negli ultimi anni dirigeva Il Giornale degli ingegneri. Aveva esordito a Fiume come redattore del quotidiano La Vedetta d’Italia soppressa nel 1945 dalle autorità jugoslave all’atto dell’occupazione della città. contributo di disoccupato. “Mi inviterai a cena quando sarai nuovamente a posto”, mi disse e mi indicò un percorso che poi si rivelò una strada maestra. Unico guaio: dovetti trasferirmi a Roma e non a Milano, città per la quale ho sempre avuto un debole. Come, del resto ce l’aveva Giancarlo. Poi ci perdemmo un po’ di vista. Io a Roma, lui a Milano, poi negli Usa. Ci sentivamo per telefono di tanto in tanto o ci incontravamo nei posti più impensati: in Canada, a Londra, in una toilette dell’autostrada. E allora mi ricordavo che gli dovevo una cena. Tentavo di invitarlo, lui si grattava la testa. “Beh, adesso sto partendo. Domani sono a Zurigo, da lì prendo il volo per St. Francisco, ritorno fra un mese. Sentiamoci”. Ma il mese dopo il problema era mio perché il giornale mi aveva spedito chissà dove. Insomma era come giocare al gatto e al topo. Alla cena di Natale dell’Ugis, avevamo finalmente combinato. Fine febbraio, per il mio compleanno. Ma a casa mia, quel giorno, ci sarà un commensale in meno. ORDINE 2 2003 I N O S T R I Addio a Willy Molco direttore con garbo stampa del Tg1, di cui Willy Molco era uno dei responsabili, ed è abitudine diffusa ringraziare per l’attenzione. Invece, Willy Molco voleva dirmi che stava male. Molto male. Con un cancro devastante e già molto avanzato. «Devo combattere una battaglia difficile. Ho parlato con Veronesi. Seguo i suoi consigli, faccio tutto quello che bisogna. Mi dispiace darti una brutta notizia su di me. Se passi da Roma e vieni a trovarmi, mi fa piacere». Ecco, i miei rapporti con Molco erano così: saltuari ma schietti, intensi. E spesso mediati da una sua grande amica: Maria Venturi, scrittrice e giornalista. Era con Maria nella stanza accanto che Willy Molco, tanto tempo fa (fine anni Settanta), dirigeva il settimanale popolare Novella 2000. Willy era un direttore gentile, colto, incuriosito dalle vicende (poco eroiche) dei personaggi raccontati in quel giornale, ma per nulla tentato dalle malizie della vanità. Era un direttore giovane, che sapeva di esteri e di politica, e pure di sport: era stato al vertice del Guerin Sportivo. A Novella 2000 ci restò di Antonio Bozzo Il giorno di Natale è morto a Milano a 59 anni il giornalista Willy Molco. Nato al Cairo, in Egitto, il 20 agosto 1943, dopo la laurea in giurisprudenza conseguita alla Statale di Milano aveva esordito al Guerin Sportivo. Negli anni ‘70 era passato al gruppo Rizzoli, come direttore di Novella 2000, poi di Oggi, di Annabella e di Sette, l’inserto settimanale del Corriere della Sera. Arrivato in Rai, alla redazione del Tg1, si è occupato di inchieste, interviste e speciali a livello internazionale. Sono sue la prima intervista a un giornale europeo rilasciata dall’ayatollah Khomeini e quella al presidente egiziano Sadat il giorno della riapertura del canale di Suez. Nel suo ultimo incarico per il Tg1 ha condotto Non solo Italia, la rassegna stampa dall’Italia e dal mondo. Lascia la moglie e una figlia . L’ultima telefonata la scambiai per una banale cortesia tra colleghi. Ci eravamo occupati, sul magazine Tv del Corriere, della rassegna Molco ha diretto Novella 2000, poi Oggi, Annabella, Sette del Corriere della Sera, Moda, il Radiocorriere. poco: poi fece Oggi, Annabella, Sette del Corriere, Moda, il Radiocorriere. Negli ultimi anni era al Tg1. Non solo per curare la rassegna stampa, da lui condotta con il garbo e la competenza che tutti gli riconoscevano. Willy ogni tanto partiva e tornava con un reportage dai posti che a lui, Giovanni Laccabò, nostro inviato tra i lavoratori una provincia molto ricca e poco “rossa” a scrivere per l’Unità. Amava la cronaca nera. Gli piaceva indagare, seguire il corso delle indagini, immaginare ipotesi investigative. Conosceva bene i codici, aveva una speciale capacità di muoversi tra la gente: la gente comune come i magistrati o i carabinieri, con un gran rispetto, per i gradi, per i titoli e per le forme, rispetto che è poi sostanza di educazione e civiltà. Non andava probabilmente molto d’accordo con il partito di là, di Varese, perché era capace di pensare alla politica con un senso di libertà, che ostinatamente difendeva. Gli capitò un giorno l’offerta di un posto sicuro e ben retribuito, l’ufficio stampa in un ente pubblico. Lo rifiutò: gli piaceva quel po’ d’avventura che un giornale ancora consente e soprattutto l’idea di un’indipendenza di giudizio che l’Unità non ha mai negato a nessuno. Alla fine seguendo il tragitto percorso da tanti altri come lui e come noi, Giovanni arrivò in cronaca, a Milano, e continuò a occuparsi di “nera”, tra questura, commissariati, comandi dei carabinieri, aule giudiziarie. Molti tra i magistrati, i carabinieri o i poli- di Oreste Pivetta Un amico che ha vissuto gran parte della sua vita, breve vita, in questo giornale ci ha lasciato: Giovanni Laccabò è morto ieri, cinquantacinquenne, in un giorno di vacanza, a casa, accanto alla moglie e ai due figli che amava tanto. Di loro era la foto che vedeva tutti i giorni sullo schermo del computer, quando cominciava il lavoro e cominciavano le telefonate, quelle che faceva e quelle che riceveva, tantissime, con i consigli di fabbrica, con i sindacalisti, con i dirigenti. Chi gli stava seduto accanto imparava a riconoscerli tutti: l’Osvaldo Squassina di Brescia, Epifani, Airaudo di Torino, Rinaldini, Nando Liuzzi, Angeletti, Stacchini della Lega Fiom di Mirafiori, una serie infinita. Tra le storie di scioperi e di contratti, in mezzo, non mancava mai un’altra telefonata e una raccomandazione: erano sempre per i figli. Si intuiva un rapporto particolare, felice e ricco di sentimenti e di parole. Giovanni era venuto all’Unità tanti anni fa, con una laurea in legge. Stava a Busto Arsizio e faceva il corrispondente. Imparava in L U T T I ziotti di dieci o vent’anni fa, lo ricorderanno: un po’ curvo, la mano sinistra in tasca, tra le dita dell’altra una sigaretta. Allora fumava le nazionali senza filtro. Poi smise. Probabilmente smise di fumare, quando la storia del giornale gli offrì l’occasione d’occuparsi d’altro, di cambiare strada. La nuova strada fu quella del sindacato, del lavoro, delle fabbriche... Un’altra avventura, per conoscere di tutti, sapere e raccontare, tra la Fiat e i trasporti, le ferrovie e gli edili. Aveva la straordinaria disposizione a raggiungere qualsiasi posto, qualsiasi persona, qualsiasi cosa: gli bastava un telefono. Giovanni, talvolta un po’ scontroso, allora taciturno, metteva tranquillità: sapevi che comunque sarebbe arrivato alla notizia, al personaggio, al caso. Ci metteva pazienza e gentilezza. E quando poi riferiva, scrivendo, sapeva che le prime cose da rispettare erano l’onestà e la correttezza, per sé e per gli altri. Per questo era stimato. Il ritorno dell’Unità, dopo la chiusura, lo visse con entusiasmo: pareva più felice di prima, come se le ragioni del lavoro fossero diventate più forti e di nuovo fresche. ebreo con moglie israeliana (la bellissima Aliza, ex attrice, ex Miss Israele) erano carissimi. Quelle terre di fuoco - il Medio Oriente - erano la sua patria interna, i luoghi che l’aiutavano a decifrare il mondo intero, anche quello tanto normale di casa nostra. Willy partiva e tornava. Con un’intervista al presidente egiziano Mubarak, con un’inchiesta sui progetti idrici nella valle del Nilo, con racconti dai kibbutz, da Gerusalemme, da Tel Aviv.Willy, che è morto la mattina di Natale, partirà ancora una volta. Sarà sepolto in Israele. Nell’ultimo anno aveva avuto la più grande gioia (il matrimonio della figlia Gaia con Raziel) e il più grande dolore (la morte dell’adorata mamma). Ora che se n’è andato, ci mancherà un bravo giornalista. Ci mancherà un uomo che conosceva il valore dell’amicizia, delle amicizie speciali, che sanno nutrirsi anche di lunghi silenzi, di pochi contatti. Un uomo, mi ha detto piangendo Maria Venturi, innamorato della vita, che aveva conservato il senso del meraviglioso. (Dal Corriere della Sera del 27 dicembre 2002) Giovanni aveva altre passioni. Con ironia ricordava talvolta i suoi anni di ragazzo in seminario. Se n’era andato dal seminario, ma gli era rimasta una cultura molto particolare e diversa dalla nostra e la sensibilità per i fatti della Chiesa. Sapeva moltissimo della Chiesa d’oggi, di vescovi e di cardinali e sapeva riconoscere le diverse anime che nella Chiesa si contrastavano. Leggeva con grande acutezza i documenti e i messaggi, che ritrovava, interpretava e spiegava. Amava la musica, che ascoltava in cuffia, quando non stava al telefono. Non so che musica fosse, ma credo che spesso c’entrasse qualcosa con la storia della Chiesa. Musica sacra. Gli piaceva l’organo e gli piacevano certi autori poco conosciuti. S’illuminava di gioia quando raccontava della sua casa in Sicilia e soprattutto quando elencava i preparativi per le ferie e per il lungo viaggio, con la moglie, da Olgiate Olona, dove abitava, a un paese siciliano che non conosco, alto sulla costa, accanto alle rovine greche, davanti a un mare trasparente. Sorrideva quando poteva dire: “Ci saranno anche i ragazzi”. Pensava a quel paese per la pensione, che sarebbe venuta tra molti anni. L’altro ieri era andato in montagna, per una breve passeggiata. Aveva sentito un dolore alle braccia. Poi il dolore era sparito. Ieri, dopo pranzo si era seduto in poltrona e aveva chiuso gli occhi. Giovanni se n’è andato e ci lascia un grande dolore, insieme con la terribile sorpresa di una morte che nessuno si sarebbe mai immaginato, ingiusta e così presto. (Da l’Unità del 9 dicembre 2002) Ordine/Tabloid ORDINE - TABLOID periodico ufficiale del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Mensile / Spedizione in a. p. (45%) Comma 20 (lettera B) art. 2 legge n. 662/96 Filiale di Milano - Anno XXXIII - Numero 2, febbraio 2003 Direttore responsabile Condirettore FRANCO ABRUZZO BRUNO AMBROSI Direzione, redazione, amministrazione Via Appiani, 2 - 20121 Milano Tel. 02/ 63.61.171 - Telefax 02/ 65.54.307 Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo Brunello Tanzi Sergio D’Asnasch Davide Colombo presidente; vicepresidente; consigliere segretario; consigliere tesoriere. Consiglieri: Bruno Ambrosi, Letizia Gonzales, Liviana Nemes Fezzi, Cosma Damiano Nigro, Paola Pastacaldi. ® Collegio dei revisori dei conti Alberto Comuzzi, Maurizio Michelini e Giacinto Sarubbi (presidente) Direttore dell’OgL Elisabetta Graziani Segretaria di redazione Teresa Risé L’informazione su misura. 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Ecostampa Media Monitor SpA Tel 02.748113.1 - Fax 02.748113.444 E-mail [email protected] www.ecostampa.it ORDINE 2 2003 25 (33) L A L I B R E R I A D I TA B L O I D LIBRI IN REDAZIONE Luigi Balsamini Gli arditi del popolo di Emilio Pozzi La storia non si fa con i se, anche se c’è stato chi si è divertito a immaginare capovolgimenti di vicende storiche. Mi riferisco al libro curato da Robert Cowley che dalla battaglia di Salamina, passando per Napoleone a Waterloo, arrivando fino a una vittoria di Hitler, ha ipotizzato per venti episodi famosi conclusioni opposte a quelle che sono state in realtà. Un ventunesimo episodio potrebbe essere suggerito dal libro di Luigi Balsamini che, nel risvolto di copertina, si chiede: “Gli Arditi del popolo avrebbero potuto impedire l’avvento del fascismo e risparmiare vent’anni di dittatura?”. La risposta è certamente no. Almeno tre i motivi: mancanza di un leader carismatico, opposizione formale e sostanziale dei partiti antifascisti (comunista, socialista, repubblicano), tant’è che coloro che si schierarono con gli Arditi del popolo, provenendo dai tre partiti lo fecero in aperto contrasto con le indicazioni delle rispettive dirigenze (gli unici quasi sempre solidali furono i gruppi anarchici), ambiguità sostanziale nella scelta di fronte poiché, alla base dell’iniziativa, c’era come collante il “reducismo”, o meglio riaffermazione dei valori del “volontario di guerra” non rassegnato al ritorno alla normalità. Queste ipotesi si deducono dal volume di Balsamini (rielaborazione di un lavoro di tesi per la laurea conseguita in Storia contemporanea all’Università di Bologna) che non esplicita peraltro conclusioni personali. Il pregio dell’opera consiste nel recupero di documenti e materiali rintracciati negli archivi relativi a un argomento storico e sociale davvero poco analizzato dagli studiosi. La lettura dei documenti riportati, in particolare quelli a firma del fondatore Argo Secondari, mettono in evidenza i problemi pratici, e sempre ricorrenti, di ogni organizzazione fuori dai binari della legalità. Un esempio? Timori di infiltrazioni. In una circolare senza data si legge: “Si rende noto che elementi estranei si sono infiltrati nella massa sobillando, favoriti dalla polizia, allo scopo di disgregare le milizie e per trarne vantaggi personali o di fazione. Si prega perciò di provvedere energicamente contro costoro. I direttori delle varie sezioni dovranno tenersi in stretto contatto con il comandante”. Nulla di nuovo sotto il sole. Nelle vicende alle quali sono stati legati gli Arditi del popolo ce n’è una che emerge sulle altre: la difesa di Parma, che come quelle risorgimentali di Milano nel 1848, furono chiamate le “5 giornate di Parma”. Gli Arditi organizzarono la difesa della popolazione dei borghi, soprattutto Oltretorrente, contro l’invasione di migliaia di fascisti. Era l’agosto 1922, due mesi prima della marcia su Roma. Era praticamente fallito lo sciopero generale, promosso dai sindacati per il 31 luglio (la data avrebbe dovuto restare segreta, per cogliere le controparti di sorpresa ma una ‘fuga di notizie’ aveva consentito alle autorità, ma soprattutto alle minacciose forze fasciste, di organizzare le contromosse). Fu una vera disfatta, una ‘Caporetto’ del sindacato, tranne che a Parma. In un suo diario Italo Balbo arrivato in città con oltre ventimila camicie nere, annota: “La città è rimasta quasi impermeabile al fascismo. Lo sciopero fu più o meno generale. Da tre giorni gli esercizi pubblici, i servizi comunali e perfino quelli statali sono fermi. I negozi chiusi. Anche la stazione ferroviaria in mano ai sovversivi”. Ci furono barricate, messe su con ogni genere di materiali: masserizie lastre di pietra, panche e sedie di chiesa, filo spinato. La popolazione operaia era pervasa da un sacro fuoco: uomini, donne, vecchi, giovani. Tutti per le strade e sui tetti. C’era anche un grosso prete rubicondo che si agitava dietro le barricate. Durò cinque giorni l’assedio. La resistenza, coordinata da Guido Picelli, costrinse le autorità a far intervenire l’esercito, mentre i fascisti di Balbo se ne andavano, dopo aver lasciato sul terreno trenta morti e molti feriti. Il pericolo di scorrerie armate nei quartieri era stato evitato. L’unità di intenti al di là dell’appartenenza a questo o a quel partito era stato superato. Ma non durò. Ricominciarono le polemiche e le divergenze. E il 14 dicembre del ‘22, l’organizzazione si sciolse ufficialmente. C’era chi avrebbe voluto continuare la lotta, clandestinamente. Ma il fascismo cominciava a intorpidire le coscienze e le sinistre non seppero elaborare una strategia comune. Fu certamente, quella di Parma, una generosa utopia. E il volume di Balsamini esamina tutte le mosse successive. Inutili. La lettura dei documenti raccolti sembra anticipare situazioni e stati d’animo, stimoli e perplessità che accompagnano, in tanti paesi e in tempi diversi, gli slanci e le rabbie, contro le ingiustizie palesi e contro le sottili trappole burocratiche e legislativi del potere. Purtroppo le lezioni della storia non vengono sufficientemente studiate e tanto meno suonano alti i campanelli d’allarme. Luigi Balsamini, Gli Arditi del popolo. Dalla guerra alla difesa del popolo contro le violenze fasciste, Galzerano Editore, Casalvelino Scalo (Salerno), pagine 280, 15,00 euro Gian Antonio Stella L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi di Antonella Fiori Ci abbiamo creduto per più di un secolo. Alla favola degli italiani “poveri ma belli”. Alla leggenda che ci voleva immigrati sì, ma mica come i clandestini albanesi che sbarcano a Brindisi, “brutti sporchi , cattivi”, “criminali”, “spacciatori”, “sfruttatori”, “terroristi”… E invece no: clandestini lo siamo sempre stati anche noi. Clandestini la maggior parte degli immigrati in Germania all’inizio del secolo. Clandestini gli operai che passavano il confine con la Francia e ai valichi morivano talmente in tanti che li dovevano seppellire in piedi. Ma non solo. Clandestini i bambini ceduti dai genitori a lavorare nelle vetrerie francesi, clandestini gli spazzacamini venduti per poche lire, clandestini i piccoli che a Londra a suonavano l’organetto (sì proprio l’Italia paese delle mamme, vendeva bambini a tutto il mondo). Clandestini i figli di immigrati 26 (34) svizzeri nati e vissuti in casa, costretti a restare invisibili per anni, perché i genitori non venissero espulsi. Istruzioni per l’uso alla lettura de L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi di Gian Antonio Stella. Essere pronti a prendersi un pugno nello stomaco affrontando un giro del mondo sui generis: un tour che ricostruisce la storia di un popolo di emigranti considerato la feccia della terra in almeno tre continenti: l’America, l’Europa e l’Australia. È per non rimuovere un passato ancora piuttosto recente e scottante – quello dei 26 milioni di italiani immigrati nel mondo nell’ultimo secolo – è per prendere coscienza di una storia fino ad ora sottaciuta e non tanto diversa come odissea da quella degli albanesi che attraccano in massa sulle nostre coste – immenso il lavoro d’archivio che punteggia questa narrazione, a tratti davvero toccante – che l’autore si è dedicato alla costruzione di un puzzle di difficile digestione. Stella, firma di punta del Corriere della Sera, in questo saggio dove all’ironia spesso ha sostituito la pietas, racconta fatti e misfatti, sfata un mito della nostra immigrazione, una pillola resa più dolce dai racconti di chi tornava e più di recente rinzuccherata dai vari “Carramba” televisivi. Non eravamo affatto “poveri ma belli”. Piuttosto, dal Veneto alla Sicilia, dalla Lombardia al Piemonte, ci vedevano come scimmie, zozzoni, mangiatori d’aglio, straccioni, assassini. Uno stereotipo conquistato sul campo, secondo l’autore Franco Cardini, Il ritmo della storia, Rizzoli, pagine 262, euro 17.56. Elisabetta Bucciarelli, Le professioni della scrittura, come trasformare una passione in un lavoro di successo, Calderini, pagine 143, euro 12,39. Annamaria Testa, Farsi capire. Comunicare con efficacia e creatività nel lavoro e nella vita, Rizzoli, pagine 405, euro 17,04. Armando Cillario, Signor giudice, chiuda un occhio, Frontiera, pagine 159, s.i.p. Vittorio Agnoletto, La società dell’Aids. La verità su politici, medici, volontari e multinazionali durante l’emergenza, Baldini & Castoldi, pagine 578, euro 19,63. Piero Gheddo, Il testamento del capitano, San Paolo, pagine 210, euro 12,00. Paola Baratto, Di carta e di luce, Zanetti editore, pagine 245, euro 12,91. Dino Azzalin, Diario d’Africa, Nem, pagine 178, euro 15,49. Vladimiro Bertazzoni, Achille Graffigna 1816-1896. Il più prolifico degli operisti mantovani, editoriale Sometti, euro 12.91. Pietro Oliviero Casi, Bibliografia di e su Pietro Aretino dal 1512 ai nostri giorni, l’Eclettico Pedante, pagine 234, s.i.p. Lido Picarelli, Cetrapoli. Ricordi di gioventù tra Cetraro e Napoli, Pro Loco Civitas Citrarii, pagine 175, s.i.p. Getano Delli Santi e Fausto Pagliano, Fra’ Giordano Bruno redivivo, Fabio d’Ambrosio editore, pagine 237, euro 22,21. Claudio Gobbi, Agriturismo come fare, Horse Service, pagine 254, s.i.p. Maria Rosa Biassoni, La valle Vigezzo. Luci e ombre di una valle italiana dai forti contrasti, Atmosfere editrice, pagine 221, euro 77,00. Fiammetta Postano de’ Vincentiis, Giramondo per amore, Viaggi e avventure pagine 106, euro 12. Maurizio Corte, Stranieri e mass media. Stampa, immigrazione e pedagogia interculturale, Cedam, euro 13,00. Franco Pontiggia Chiara Zocchi, I mondi dentro al mondo, Edizioni del Capricorno, s.i.p. di Schei e Lo spreco. E che parte da lontano, da metà Ottocento, con gli scrittori che affrontavano il Grand Tour nel Bel Paese, da Shelley a Dickens e descrivevano l’Italia come un gigantesco calderone di delinquenti e imbroglioni oltre che una specie di Thailandia, gigantesco postribolo dove poter praticare un turismo sessuale sfrenato. Nemo propheta in patria, certo. All’estero, facevamo di peggio. Il primo attacco terroristico a Wall Street è di un italiano. Le percentuali parlano chiaro: in America gli italiani superavano tutti gli altri immigrati nei reati più gravi come rapimento e assassinio. Il giudizio - unanime - lo leggiamo nei resoconti d’epoca: italiani razza “impulsiva” con una inclinazione ai peggiori crimini. Tutto questo, suffragato da teorie scientifiche, di argomento eugenetico, nate in concomitanza con gli studi di Lombroso, secondo le quali quella italica sarebbe una “razza inferiore di derivazione africana” (in Australia gli italiani erano “dingo”, l’orda color oliva minaccia per la comunità bianca). Insomma, secondo Stella, la differenza tra noi e gli albanesi è solo temporale. Come loro, peggio di loro, eravamo costretti a emigrare su barche dove scoppiavano epidemie di colera, a dormire, in Francia, in cinque in un letto. Come loro, peggio di loro, siamo stati anche perseguitati e uccisi, linciati dalla folla, a Aigues Mortes, in Camargue e a New Orleans, in Louisiana, senza che fosse stato commesso nessun delitto, solo per il fatto di essere immigrati. Un pregiudizio duro a morire quello dell’italiano criminale tout-court, disonesto e imbroglione. Anche oggi che il made in Italy dilaga come lifestyle dall’America al Giappone, secondo uno studio della McCann-Erickson del 1996 la parola più usata in abbinamento all’Italia è sempre la stessa: mafia. Più di tutto, in questo senso ha fatto il cinema, l’immagine dell’italiano di Hollywood, diffusa in tutto il mondo da centinaia di film, da Il padrino a The Sopranos. Come l’indiano è feroce e selvaggio, il messicano baffuto e indemoniato, l’irlandese rosso e focoso, il negro lavativo e stupido, l’italiano è viscido e ricattatore. Lo diceva anche il presidente americano Nixon, intercettato ai tempi dello scandalo Watergate: “Il guaio è che non se ne trova uno onesto”. Gian Antonio Stella, L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, pagine 277, 17,00 euro ORDINE 2 2003 L A L I B R E R I A Un libro nuovo, originale, utile per chi si occupa di informazione, una miniera di idee e di esempi. La tesi di partenza è sintetizzata in una citazione: “Un’immagine dice più di cento parole”. E il libro vuole dimostrare che per raccontare il passato o anche il presente non bastano più i testi scritti o le testimonianze orali, ma sono sempre più necessarie e decisive le “prove” ricavate dalle immagini. Non si sarebbe potuta ricostruire e descrivere la preistoria europea senza i dipinti di Altamura e Lascaux, non si sarebbe potuto raccontare l’antico Egitto senza le pitture tombali; la storia dell’Inghilterra è stata ricostruita con le figure della tappezzeria di Bayeux. Le immagini sono dunque testimoni oculari che forniscono le prove di che cosa è accaduto, di come si viveva, di come si è svolta una vicenda, ecc. Ma Peter Burke sviluppa questa tesi con utili avvertimenti sui problemi connessi all’uso di immagini come fonti. È importante, infatti, datare l’esecuzione dell’immagine, indagare su eventuali riflessi delle circostanze in cui è stata realizzata (un’opera d’arte o una foto o una sequenza filmica, ecc.), evidenziare gli interventi di chi ha preparato la scena, scelti i messaggi, aggiustato gli episodi.Come c’è una lettura critica di testi scrit- ti o orali, così nell’utilizzo delle immagini come prove storiche, per il passato o per il presente occorre verificare vari elementi interpretativi. Hanno un valore particolare le immagini in bianco e nero, più fredde e quindi più veraci di quelle animate dal colore; è importante risalire al momento esatto in cui la foto è partita o è arrivata al destinatario, più o meno vicina al tempo dell’episodio; è poi essenziale saper leggere oggetti reali e oggetti simbolici, significati introdotti per esaltare personaggi o bandiere, finalità attribuite alla esecuzione dell’immagine o alla sua diffusione o la sua destinazione ad un pubblico particolare. “Mentre le fotografie non possono dire bugie, i bugiardi possono scattare fotografie” ha detto un esperto come Lewis Hine. Sono quindi molte le cautele da usare per non cadere nell’illusione del realismo. Fotografie e ritratti possono dire una cosa o anche il contrario. Nel libro sono riportati vari esempi , tra i quali la notissima Morte di un soldato di Robert Capa sulla cui autenticità è aperta tuttora una discussione. Un altro esempio sono le foto relative alla guerra civile americana che simulavano un campo di battaglia disseminato di cadaveri, in realtà composto con comparse addormentate. L’interpretazione delle immagini attraverso l’analisi dei dettagli, ossia l’iconografia o iconologia, è indispensabile per utilizzare al meglio le immagini come prove. Sotto questo profilo le foto o i dipinti che ritraggono scene della vita quotidiana e della cultura materiale contengono solitamente molte informazioni concrete e meritano di essere lette con molta attenzione. Burke dedica un ampio capitolo alle immagini di contenuto religioso, attraverso le quali si può ricostruire i diversi modi di intendere il soprannaturale in periodi e culture differenti: visioni di demoni e dei, di santi e peccatori, di inferni e paradisi. I risultati di questo studio portano a scoperte significative, come il fatto che nella cultura occidentale si incontrano di rado immagini di spettri prima del Trecento, che prima del Duecento non si incontrano rappresentazioni di Diavoli e che la figura di Satana coperto di peli con corna, zampe, coda, ali di pipistrello e forcone in pugno è stata eleborata lungo un arco di tempo assai ampio. Il repertorio religioso, quanto mai interessante in epoca di incontri e scontri, è suddiviso secondo le finalità: immagini di indottrinamento, oggetti di culto, immagini devozionali anche per consolare ammalati, moribondi e condannati a morte, immagini polemiche. E siccome le nostre sensazioni sono stimolate dalle cose viste piuttosto che da quelle lette o sentite, l’iconografia che esprime idee o proteste ha una forza tutta particolare. Un presidente brasiliano appena eletto che di Dario Fertilio viene fotografato quando si affaccia alla folla con la scopa in mano proclama nel modo più diretto ed efficace il suo programma politico. E gli uomini politici ritratti in pose particolari, con determinate divise o gesti clamorosi possono incarnare epoche e rappresentare tutto il movimento che li ha portati al potere. Alla fine il libro di Burke si rivela un autentico manuale per la lettura, la scelta, la critica e l’interpretazione delle immagini: in un’ epoca come la nostra ove tutto è video, la lettura è più che raccomandabile. Peter Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci Editore, pagine 256, 20,00 euro Gianni Spartà Mister Ignis. Giovanni Borghi nell’Italia del miracolo di Giacomo Ferrari Quando si pensa a un selfmade-man, un uomo di grande successo che si è fatto da sé, non si può fare a meno dal pensare a Giovanni Borghi. Il “cumenda”, come veniva definito l’imprenditore che ha legato il proprio nome all’Italia del boom postbellico, diventando il prototipo di una imprenditoria un po’ “ruspante”, ma ricca di intuizioni e di idee, che negli Anni ‘60 il mondo ci invidiava. Nella prefazione, Silvio Berlusconi definisce Borghi “industriale simbolo del miracolo economico italiano” e rileva una curiosità: l’impero da lui costruito si chiamava Ignis, il nome latino di fuoco, mentre i suoi prodotti evocano “cinquant’anni di piatti freddi e di bibite ghiacciate”. Lo stesso concetto lo si ritrova nelle prime pagine del libro di Gianni Spartà, che racconta l’avvenORDINE 2 2003 tura umana e imprenditoriale dell’“Agnelli della Brianza”, dall’apprendistato nella bottega del padre al ruolo di re degli elettrodomestici. Nato a Milano, nel quartiere Garibaldi, figlio di un elettricista, dovette lasciare la metropoli lombarda durante la guerra, sfollando con la famiglia in provincia di Varese, a Comerio. Ebbene, questa cittadina del nord della Lombardia sarà destinata a diventare famosa nel mondo.Qui, infatti, nasce il primo laboratorio artigianale dei Borghi per produrre fornelli e cucine. E da qui, nel giro di pochi anni e grazie all’intuito di Giovanni, prenderà il via un impero industriale dal respiro mondiale. Il gruppo Ignis appunto. Una realtà che ha contribuito a fare dell’Italia il maggiore produttore europeo di elettrodomestici (il primato resiste tuttora, anche se la “creatura” di Borghi è diventa- ta ormai la divisione di una multinazionale del settore). C’è, nella vicenda di questo capitano d’industria, una fetta importante di storia dell’Italia repubblicana: quella, non più lunga di un decennio, che è arrivata subito dopo la ricostruzione, innestandosi anzi su di essa diventandone lo sviluppo naturale. Erano, quelli, anni difficili ma nello stesso tempo contrassegnati dalla speranza. Borghi ha saputo interpretare i tempi, anticipando non solo modelli organizzativi e produttivi, ma anche sofisticate tecniche di marketing. Si può dire per esempio che la sponsorizzazione sportiva moderna sia stata letteralmente “inventata” proprio da Borghi. Dal basket al ciclismo, l’impegno dell’Ignis in quegli anni fu imponente. Uno degli episodi che ben dipingono la personalità di Giovanni Borghi, geniale e generoso ma anche un po’ TA B L O I D Guido Olimpio La rete del terrore Peter Burke Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini di Vincenzo Ceppellini D I sbruffone, si lega direttamente allo sport. Al Tour de France di ciclismo, organizzato allora come oggi dal quotidiano sportivo L’Equipe, non volevano sponsor commerciali. E Borghi, spazientito, sbottò in una delle sue frasi diventate famose: “S’el custa”, in italiano “quanto costa”. Intendendo naturalmente tutta l’organizzazione, che sarebbe stato disposto ad acquistare pur di cambiare quelle regole ormai anacronistiche. Gianni Spartà, Mister Ignis. Giovanni Borghi nell’Italia del miracolo, Mondadori, pagine 189, 15,00 euro Se un regista di film bellici volesse ispirarsi all’ultimo libro di Guido Olimpio, probabilmente darebbe il via alle riprese in una base segreta di Al Qaeda. Infatti, quando Olimpio rivela l’esistenza di scuole per terroristi in luoghi esotici e remoti, costruisce senza saperlo sceneggiature seducenti: proprio perché suscitano in tutti il brivido legato alle forze del Male, apparentemente invincibili. Nessuno, in realtà, ha visto con i suoi occhi quelle accademie di morte ed è poi vissuto abbastanza per raccontarle: a meno che qualche notizia sia trapelata durante gli interrogatori ai reclusi di Guantanamo. Ma tutto ciò che di plausibile si può dire intorno all’argomento è contenuto ne La rete del terrore. Ecco dunque gli elementi visivi di un possibile film su Al Qaeda: l’interno di un casolare sperduto ai confini del mondo, in Mauritania o Ruanda. Un piccolo gruppo di quattro o cinque reclute viene addestrato giorno e notte a pregare, leggere il Corano, imbracciare il mitra, lanciare bombe, uccidere piloti di linea e guidare aerei contro i bersagli, inquinare le acque potabili di grandi città, spargere spore di antrace, virus ebola o altre pestilenze. Da La rete del terrore di Guido Olimpio, in realtà, potrebbero venire non una, ma decine di ottime sceneggiature sul terrorismo: forse proprio perché l’autore rifugge dalle esagerazioni, ed espone freddamente i dati di cui dispone. Del resto gli estimatori di Olimpio lo sanno: corrispondente da Israele per il Corriere della Sera, considerato uno dei massimi esperti mondiali di terrorismo islamico, Guido è stato convocato nientemeno che dalla commissione speciale del congresso americano. Non per nulla si occupa di Medio Oriente dal 1982, avendo seguito per il Corriere la guerra del Libano. E non a caso il suo archivio personale è considerato unanimemente dagli studiosi internazionali uno dei più ricchi e completi. Giornalista-personaggio, Olimpio, benché controvoglia: poco più che quarantenne, incarna un tipo di giornalista investigatore, poliglotta e anticonformista, indomabile e persino vagamente bohemièn, di cui sembravano perse le tracce nel moderno giornalismo virtuale e computerizzato. Olimpio non racconta, descrive; non tratteggia, raccoglie ed espone il suo materiale come in un’ideale vetrina informativa. Poco italiano, certamente, nel taglio pragmatico, di stile americano piuttosto: la sua Rete del terrore passa disinvoltamente dalla descrizione meticolosa della piramide organizzativa di Bin Laden, o della rete internazionale di supporto alle sue lugubri imprese, al glossario terroristico, alle descrizioni particolareggiate delle “vite da kamikaze”. Tragedie in due battute, verrebbe da dire, nelle quali risalta la granitica ottusità dei martiri terroristi. Vale la pena di riportarne un paio fra le tante: vite bruciate per un disegno integralista e funesto. Quella di Imad Zbaidi, ad esempio, diciottenne, che l’autore sintetizza con poche pennellate. “Occupazione: insegnava il Corano e studiava come riparare i televisori. Gruppo: Hamas. Attacco: Kfar Saba, 22 aprile 2001, una vittima. È esploso vicino a un incrocio. Particolari: secondo la famiglia era tranquillo e religioso. Ultime parole: “Non crediate che le persone che hanno dato la vita a Dio se ne siano andate per sempre. Sono vive accanto ad Allah”. O quella di Dia Tawil, vent’anni: “Occupazione: studente di ingegneria. Gruppo: Hamas. Attacco: Gerusalemme, 27 marzo 2001, trentacinque feriti. Si è fatto saltare in aria a una fermata d’autobus. Particolari: molto religioso, figlio di un comunista e con uno zio membro di Hamas. Ultime parole: “Farò a pezzi i loro corpi e le loro ossa”. Storie di ordinaria follia, viene spontaneo pensare, ma anche di straordinaria ferocia se si pensa ai mandanti dei giovani suicidi. Ma non è qui, nell’indignazione, che Guido Olimpio intinge la penna. Piuttosto nella cura dei particolari, nell’attenzione con cui ci racconta il vocabolario in uso fra gli estremisti islamici in Europa. Apprendiamo che “l’agricoltura” significa “l’attentato”; “i serpenti” sono i servizi segreti; “le lenticchie” le munizioni; “jogging” i documenti. È possibile così, pagina dopo pagina, entrare nella mente di un terrorista. E, ancora, ricostruire la tecnica d’attacco dell’11 settembre, in particolare quella attuata sul volo 93 dell’American Airlines (si schiantò a terra per l’eroica reazione dei passeggeri, mancando l’obiettivo della Casa Bianca). Così, forse al di là delle intenzioni, il reportage riserva emozioni, permettendo di sbirciare dentro alla centrale del terrore. E lasciando in sospeso il prossimo capitolo, il peggio che potrebbe accadere: ma un aiuto alla conoscenza della malattia è già un passo verso il rimedio. Guido Olimpio, La rete del terrore, Sperling & Kupfer, pagine 179, 14,50 euro 27 (35) L A L I B R E R I A D I TA B L O I D Mauro Castelli Numeri Uno: 38 protagonisti della economia italiana di Pilade del Buono Trentanove in Questa Italia siamo noi (due ristampe all’attivo), 38 in Numeri Uno, u di Uno doverosamente maiuscola, il racconto continua. Mauro Castelli, una vita al Sole-24 Ore con gradi di ufficiale superiore, ha da poco aggiornato, ovviamente per i tipi del Sole, la galleria delle sue storie imprenditoriali di successo (aggiornato, non concluso: è una previsione). Che, a leggerle senza i nomi degli attori, inducono in taluni casi alla fantascienza. Storie di fatica e sudore, di lampi di genio, vocazione di uomini che si sono fatti dal nulla, come si usa dire, o hanno messo il turbo a quanto era stato affidato o lasciato in appannaggio. Con due fondamentali voci tecniche da tutti impiegate, ricerca & innovazione, al servizio ovviamente dell’intelligenza e dell’intuito. Sulla differenza, se una differenza esiste, nella costruzione di Questa Italia siamo noi rispetto a Numeri Uno, e sulle caratteristiche soprattutto umane dei protagonisti, abbiamo chiesto lumi all’autore. Diciamo che l’ultimo nato, Numeri Uno, raggruppa diverse, intense, storie di famiglia, raccontate dall’ultimo erede issato sulla tolda di comando, storie connotate da un comune sentire volte al vibrante, talvolta eccezionale impulso impresso alla crescita aziendale, dice Castelli. Storie nelle quali compaiono signori per solito non esattamente appartenenti alla compagine dei logorroici. Esattamente, e questo mi ha procurato soddisfazione. Non mi risulta, a esempio, che un Francesco Amadori rilasci interviste a tutto spiano, anche se sa sfruttare assai bene, come Rana, il mezzo televisivo. E parlando di Gennaro Auricchio, che da otto stagioni ha doppiato le 80 primavere, facciamo la conoscenza di un signore che tutto controlla e ritiene di poter dire quello che vuole. Gliene ho offerto la facoltà. Di Armani i giornali parlano un giorno sì e l’altro pure, ma entrare nel privato è un’altra cosa. Ho cercato di farlo. Trecentosettantasette pagine nelle quali si parla di auto, o meglio, di creativi dell’auto, di giochi, di finanza, di vacanza e new economy, di industrie del ferro e di elettrodomestici, di rotative e di moto, di sottosuolo e di biomedicale, di settori alimentari e di alberghi delle cose. Di piccole industrie che magari, non necessariamente, diventano medie e da medie si trasformano in grandi o grandissime. Si può individuare un denominatore comune? Certo che si può, è sintetizzato dal titolo, i protagonisti sono tutti Numeri Uno nel loro cam- po, nessuno escluso. E per Numeri Uno intendo vincenti. Se preferisci, puoi intitolarla il diritto e la capacità di emergere. E sempre di rischiare. Alcuni, per la verità, pressoché nobilmente sconosciuti al grande pubblico. Un obiettivo che ho privilegiato. Prendiamo Paolo Della Porta. Poni il suo nome all’uomo della strada, non è detto sappia compiutamente risponderti.Pure è il leader nei getter, regolarmente quotato a Wall Street, e sul mercato mondiale pesa intorno all’85 per cento. I getter sono gli anelli che servono a far funzionare il televisore o accendere i lampioni stradali. Quanti lo sanno? Ma non solo Della Porta. La galleria di chi ha firmato il nostro miracolo economico è affollatissima, nelle tue pagine. E la lettura stimola la curiosità. Dai getter ai polimeri per esempio. Già, i polimeri, una materia singolare nella quale ci imbattiamo regolarmente nella vita di tutti i giorni, dagli adesivi alle “trasparenze” che avvolgono certi formaggi. I gemelli Medini, Mariano e Massimo, sui quali mi soffermo a pagina 247, ne sono i primi attori. E dai gemelli Medini ai fratelli Colombo il passo è breve. Sono i primi al mondo nella produzione di tessuti d’alto bordo come il cashmere. Mi confesso ignorante al riguardo, ma l’iter della lavorazione Ambrogio Amati Cronache dell’immigrazione 2001 di Giacomo de Antonellis Gli italiani sono passionali, amano schierarsi su una sponda per controbattere quella opposta, desiderano vivere all’ombra del proprio campanile per sostenerne le ragioni particolari. Ciò non toglie che gli italiani siano pure aperti al “nuovo” e al “diverso”, senza soffrire alcun condizionamento. Con tale sfondo si comprende bene il vigore che anima ogni dibattito di profondo respiro nel nostro Paese. E l’immigrazione rientra appunto in questo schema. Si leggono allora con estremo interesse le Cronache dell’immigrazione 2001 rievocate da Ambrogio Amati, un collega con il merito basilare di mantenersi sopra le parti per dare un quadro preciso e articolato di opinioni diverse quanto suggestive. Infatti, nel formulare la struttura del suo volume egli ha riunito una serie di fatti collegandoli al commento di numerosi quotidiani italiani che riflettono appunto posizioni contrastanti e contraddittorie su tanti specifici 28 (36) temi. Ed ha svolto tale lavoro partendo dalla normativa vigente (la legge Bossi-Fini subentrata alla Turco-Napolitano”) posta in stretta relazione con gli eventi che hanno caratterizzato l’immigrazione degli ultimi anni. Un lavoro valido per mole e per analisi. Dopo aver illustrato il quadro problematico, Amati è sceso nei dettagli trattando sia i maggiori aspetti dell’immigrazione regolare sia quelli relativi al fenomeno della clandestinità. Diritto d’asilo, quote d’ingresso, mercato del lavoro, connessioni e distorsioni tra le culture e religioni differenti, flussi e controlli delle frontiere, criminalità ed espulsioni: a contorno di tale sviluppo ha poi raccolto i commenti di alcuni opinionisti come Renzo Foa, Alberto Mingardi, Augusto Minzolini e Giorgio Vittadini. La situazione di Milano e della Lombardia nonché il “caso Bergamo” - ricordando che l’autore lavora in modo particolare nella città orobica - completano il discorso con una successione di statistiche e di relative riflessioni. Senza dubbio l’immigrazione si presta a forti discussioni, sia per l’ampiezza sia per la repentinità del fenomeno che era praticamente sconosciuto fino all’inizio degli anni Novanta. L’impatto con la nostra civiltà è stato traumatico, e rischia di accentuarsi per la pretesa di taluni circoli di immigrati, in particolare musulmani, ad imporre i loro costumi (piccoli esempi: la macellazione per dissanguamento degli animali, i menù differenziati per i figli inseriti nelle scuole, l’abbigliamento delle ragazze e la separazione dai maschi, l’adattamento degli orari di lavoro alle loro consuetudini tipo tempo del Ramadan). Sono richieste sconvolgenti per noi italiani, storicamente popolo di migranti, riversatisi in ogni paese del mondo sempre in punta di piedi con i documenti richiesti e con l’osservanza degli usi e delle leggi locali. Non a caso il politologo americano di visione liberale Patrick J.Buchanan denuncia la remissività occidentale che ha “deresponsabilizzato” nazioni e individui che sono oramai incapaci di difen- di questo prodotto è interessante, si arriva all’utilizzazione di cardi essiccati provenienti dal Portogallo. Oppure Davide Trevisani, un big negli scavi del sottosuolo, che fatalmente diventerà materia di rigore nel nostro futuro. Oppure Franco Timoteo Metelli, nicchia beveraggi d’élite. In Franciacorta lo conoscono bene, e altrettanto conosciuto è da albergatori, ristoratori ed enoteche non solo della Franciacorta, un piccolo impero da 200 milioni di euro. Oppure Mario Preve, proprietario della Riso Gallo, conversando con il quale si scopre che il marchio era stato inventato in Argentina per venire incontro agli analfabeti... Chi vuol conoscere i dettagli di tanti miracoli entrerà in libreria. Soffermiamoci alle curiosità divertenti, che mi sembra abbondino. Sono una vera infinità, i signori che ho incontrato stanno al gioco e rompono amabilmente l’argine dei modi sussiegosi, una volta esaurito il protocollo tecnico. Ti faccio qualche esempio. Gianvittorio Gandolfi, vocazione turismo, ha il debole per il numero 17. Potesse, l’inaugurazione dei suoi villaggi avverrebbe sempre il giorno 17, naturalmente alle 17.17. Questa è divertente: appena uscito in possesso del libro mi ha telefonato ridendo: «Le ho detto o no che il 17 è il mio numero? Guardi a che pagina comincia il mio capitolo, a pagina 197. Uno più 9 cosa fa? Dieci, e 10 più 7? Diciassette. Tiri lei le somme». Diego Della Valle - che ti confessa papale papale di esaurire immancabilmente a fine anno l’appannaggio personale che si è riservato - racconta che il padre va in giro per l’azienda con due diversi tipi di scarpe per testarle sul campo. Luigi Giovanni Carcano, appassionato di storia napoleonica, quando va a caccia di uno stabile per trasformarlo in un albergo delle cose, ingaggia di notte un vecchio tassista per farsi scarrozzare per la città, e se qualcuno lo accusa di stranezze pazienza. Giorgetto Giugiaro sfida i giovani scalando montagne con la sua moto. Poi ci sono le curiosità spicciole. Tipo le amicizie giovanili di Giulio Cesare Alberghini e la frittatona di Amadori? Per l’appunto. Questo bolognese doc, Alberghini, padre delle maggiori manifestazioni fieristiche nazionali, ha stampato nella mente gli incontri con La Pira ed Emilio Colombo. Ti ricorda anche, sotto il repertorio birichinate, la falsificazione quadriennale dell’abbonamento al treno che da Bologna lo portava a Firenze dove era studente universitario. Quanto ad Amadori, non dimenticherà mai le visioni della dissoluzione di qualcosa come 600/700 uova quando si trovava abusivamente, età anni 12, alla guida di un camion paterno. Mario Clementoni invitò, invece, una gaia comitiva di amici e di concorrenti a Mosca: tutti dovevano essere vestiti alla stessa maniera per partecipare a una inesistente fiera del giocattolo. Il medico mancato Giorgio Armani si trovò costretto a fare endovenose durante il periodo militare con la paura boia di far fuori qualcuno. E Bruno Colombo, secondo tour operator nazionale con i Viaggi del Ventaglio, non può scordare la trionfale accoglienza, all’altezza di un Cristoforo Colombo redivivo, che gli venne tributata nel ‘92 alle Bahamas dal ministro del Turismo. Poi ci sono i casi del destino, o come vuoi rubricarli. Se uno diventa un big dell’informatica, come è occorso a Pierluigi Crudele, per essere finito a Napoli, portato dal padre, nel liceo sbagliato, il destino per qualcosa non puoi non chiamarlo in causa. E Giuseppe Diomelli si è, per così dire, salvato la vita rifiutando un viaggio in Turchia che aveva vinto, giustificato dal fatto di avere troppo lavoro: da fotografo è entrato nel mondo dei computer, e oggi ne produce 200mila l’anno. Normalmente si dice nel suo piccolo, trattandosi di Ennio Doris si può capovolgere la dizione. Nel suo grande trovare un Berlusconi che non conosceva sulla piazzetta di Portofino e proporgli un affare che avrebbe procurato a entrambi una montagna di quattrini, è sintomo di un certo stile operativo. Destino sì o destino no, il fatto è che Steno Marcegaglia, impero del ferro, nel ‘90 contava in casa un solo bagno mentre oggi, nella sua reggia di Gazoldo degli Ippoliti - dove peraltro ha inaugurato un quartier generale da emirati - i bagni superano quota venti, forse non lo sa neppure lui. Ma la sua mania sono le statuette di leoni... Complessivamente signori dalla schietta parlantina. Come no? Franco Miroglio, classico capitano d’industria dai modi apparentemente sbrigativi, cuce un abito su misura al Paese. Ernesto Preatoni, ex finanziere d’assalto che non nega di avere in un certo senso pestato i piedi a Enrico Cuccia, ha praticamente inventato Sharm el Sheikh. Di Enrico Preziosi, ramo balocchi, sono gonfie le cronache del pallone e del suo dere il patrimonio di illuminismo e di razionalismo forgiati in secoli e secoli di civiltà. Senza dubbio, in tema di immigrazione, il 2001 ha fatto registrare avvenimenti che hanno superato la sfera italiana per diventare mondiali. La tragedia delle Torri Gemelle, infatti, ha messo in risalto una triste connessione tra il fenomeno migratorio e quello del terrorismo spostando i termini del dibattito su un piano assolutamente impensabili. In mezzo ai duetre milioni di stranieri presenti sul nostro territorio quanti sono motivati dalla violenza prima ancora della ricerca di un lavoro per migliorare la propria condizione? È impossibile dirlo ma l’inquietudine non manca. Amati non prende posizione ma elenca con scrupolo gli eventi e registra i commenti della stampa con citazione di testate come Corriere della Sera, Stampa, Repubblica, Giornale, Libero, Avvenire, Messaggero, Giorno, Resto del Carlino, Secolo XIX, Mattino, in assoluto rispetto del pluralismo delle opinioni. Particolarmente interessante il capitolo sul problema religioso che spesso mette in evidenza il difficile convivere tra cristianesimo (di casa) e islamismo (importato). Per dirne una, la questione dei matrimoni misti che pongono in condizione debole la donna cristiana o non, sposata a un musulmano: l’Islam infatti considera le nozze alla stregua di un contratto privato grazie al quale l’uomo detiene ogni potere (sul ruolo della sposa, per l’educazione dei figli, in diritto ereditario) mentre la Chiesa cattolica considera il vincolo un sacramento e possiede una visione civile dell’unione con diritti e doveri reciproci tra i due coniugi. Il cardinale Giacomo Biffi non ha dubbi:l’accettazione di questi principi scaturisce dalla disarmante “cultura del niente” che si è andata diffondendo in tutto l’Occidente con la perdita della potestas da parte dei genitori, con la riduzione della donna a sesso-oggetto, con l’abbandono del senso di responsabilità ad ogni livello, con la scomparsa della meritocrazia dalla società, con la rinuncia ad una politica di reciprocità con i paesi di provenienza degli immigrati. Ne consegue una progressiva perdita di identità sia spirituale sia civile, visto che il nostro Paese - senza il minimo dubbio - possiede salde radici cristiane e grazie ad esse ha costruito la sua civiltà. Diverso è il parere di molti esponenti islamici i quali lamentano un trattamento discriminatorio nei loro confronti, anche perché non hanno ancora un formale riconoscimento da parte dello Stato italiano nonostante la consistenza della loro immigrazione pari al 36,5% del totale (mentre agli ebrei, il 3% della popolazione, vengono accordati diritti e pri- vilegi: dimenticando però che si tratta di cittadini a pieno titolo da antiche generazioni e non di freschi immigrati). Va precisato che Ambrogio Amati accorda spazio e sviluppa con equilibrio le tesi di ciascuna parte. Nelle conclusione, ad esempio, ricorda che il problema non consiste nel “difendere la cittadella” dall’assalto degli invasori ma di regolare con saggezza il fenomeno immigratorio per valorizzarne gli aspetti positivi e risolverne le contraddizioni. Ormai in Italia il 3 per cento degli abitanti è costituito da nati all’estero, secondo statistiche ufficiali largamente superate (basta prendere un mezzo pubblico o passeggiare in città per rendersi conto di un’altra realtà: solo i clandestini fanno raddoppiare la cifra; non a caso dalla recente “regolarizzazione” sono emersi circa 700mila lavoratori in nero). Il fenomeno dell’immigrazione va quindi affrontato con decisione e pragmatismo. Non è realistico immaginare la chiusura delle frontiere per l’Italia e per l’Europa. Il problema va affrontato con intese bilaterali e con aiuti allo sviluppo del terzo mondo. Ambrogio Amati, Cronache dell’immigrazione 2001. Fatti e commenti secondo alcuni dei maggiori quotidiani italiani, Laterza, pagine 256, 26,00 euro ORDINE 2 2003 L A Como che ha riportato in serie A e in serie A vuole caparbiamente restare: strigliare i dipendenti che non gli danno retta e tirare le orecchie ai concorrenti non rappresenta l’eccezione. Diffondersi compiutamente su tutti non è possibile, ma i nomi vanno fatti. Obbedisco: Francesco Rosario Averna, amari dolcissimi per via dei cioccolatini; Giuseppe e Valerio Calderoni, posateria e affini da 150 anni; Gian Paolo Dallara, progetti che hanno segnato la storia delle quattro ruote sportive; Carlo Frapporti, l’ecologia davanti al fatturato; Adolfo Guzzini e famiglia, una ragnatela di marchi e genio dell’illuminazione; Learco Malaguti, deciso a onorare il mondo delle due ruote; Francesco Merloni, “il ministro imprenditore”; Carlo e Antonella Micca Bocchino, nel segno della grappa; Gianni e Piero Mocarelli, l’auto nel sangue; Mario Veronesi, ovvero il biomedicale; Oscar Zannoni, il culto delle piastrelle e Domenico Zucchetti, il software come amico... E le signore, naturalmente. Naturalmente. Diana Bracco, un impero nel chimico-farmaceutico e biomedicale, con il debole per la musica e ogni forma dell’arte; Lilly Bertone Cortese, la sublimazione del design automobilistico (nel nome del marito), e il più bel giardino pensile di Torino; e Teresa Cerutti Novarese, giustamente regina della stampa. Numeri Uno è in libreria a euro 22.95. Non si poteva fare 23? Mauro Castelli, Numeri Uno: 38 protagonisti della economia italiana, Il Sole 24 Ore Libri, Milano 2002, 22,95 euro Ci vuole davvero coraggio per proporre al pubblico un’analisi sul quotidiano di Gramsci dalla fondazione all’anno del massimo consenso al governo di Mussolini. Coraggio perché parliamo di un’epoca lontanissima che agli anziani ricorda appena qualcosa e per i giovani appartiene alla preistoria della Repubblica. L’autrice, comunque, ha pescato alle giuste sorgenti: l’archivio del partito di Togliatti e altri fondi di istituzioni pubbliche e private (Archivio centrale dello Stato, Fondazione Feltrinelli) ove si conservano tante documentazioni ancora da analizzare. Nel complesso è scaturita una ricostruzione storica che supera le vicende del giornale preso in esame per illustrare l’intera situazione civile e sociale vissuta in Italia in tre lustri di regime. Da parte nostra ci sembra doverosa una breve premessa. Il peso politico dei quotiORDINE 2 2003 D I TA B L O I D Autori vari I Navigli. Da Milano lungo i canali di Mario Mauri È stato presentato al “Giardino” di Milano, a Villa Gina di Trezzo sull’Adda (sede del Parco Adda Nord) e a Cernusco sul Naviglio il volume:I Navigli.Da Milano lungo i canali. La bellezza nell’arte e nel paesaggio. È l’ultima opera realizzata dal Celip di Milano, specializzato nell’edizione di pregiati volumi su Milano e la Lombardia. Il titolare Nicola Partipilo, immigrato a Milano dalla Sicilia alla fine degli anni ‘40, si è integrato così bene nella città e nella regione tanto da dedicare loro una ventina di volumi. L’ultimo è un vero e proprio “manifesto d’amore” per i navigli. Il ponderoso volume consiste in 480 pagine del formato di 34 centimetri per 25 e si può considerare se non l’“opera omnia”, definizione riservata a un singolo autore, un’ antologia sui corsi d’acqua artificiale che convergevano su Milano. Vi sono infatti riprodotte miniature, dipinti, stampe, foto d’epoca in bianco e nero di fine ‘800 e del secolo scorso. Ma poi splendide fotografie d’attualità eseguite da specialisti come Mario De Biasi. L’impegnativa opera è stata coordinata dalla studiosa Roberta Cordani e vi hanno scritto testimonianze, brevi ma succose, ben ottanta autori. Tra questi, in ordine alfabetico, Gaetano Afeltra, Tullio Bar- Fiamma Lussana L’Unità 1924-1939 di Giacomo de Antonellis L I B R E R I A diani nel passato non è assolutamente paragonabile a quello odierno. A quei tempi la stampa esprimeva l’unica, essenziale, base per la formazione della pubblica opinione: ogni articolo veniva letto, analizzato, discusso dai lettori. In sostanza, ogni colonna di piombo possedeva una sua forza calamitatrice e trascinatrice di fortissimo impatto che oggigiorno appare impensabile (non soltanto per l’irruzione sulla scena di canali tv, emittenti radio, collegamenti Internet e mondo informatico, ma per il tempo sempre più ridotto che si suole dedicare agli approfondimenti). A differenza dei nostri giorni allora la lotta politica era vissuta senza mascheramenti: i comunisti si dichiaravano marxisti, i cattolici popolari, i fascisti nazionalisti e patriottardi, i liberali conservatori, e così via. Ciò chiarito, entriamo nel tema. L’Unità ha sempre riflesso la linea progettuale e propagandistica del partito agli or- In alto, foto anni ’20: un barcone trasporta le bobine di carta per il Corriere. bato, Edo Bricchetti, Donatella Caporusso, Carlo Castellaneta, Simonetta Coppa, Elisabetta Ferrario, Elio Fiorucci, Guido Lopez, Empio Malara, Claudio e Italo Mazza, Carlo Perogalli, Arnaldo Pomodoro, Giuseppe Pontiggia, Enzo Proni, Rino Tinelli, Orio Vergani (memoria postuma) e Guido Vergani. Sono cinque i Navigli descritti e illustrati: Grande, Bereguardo, Pavese, Martesana e Paderno. Quest’ultimo è il più breve (meno di tre chilometri), il più recente, ma il più arduo da realizzare. Venne infatti completato solo nel 1777 per volontà della pia, saggia e prolifica (15 figli!) Maria Teresa, imperatrice dini di Mosca. Conferma la Lussana: “Bisogna sempre leggere i discorsi di Stalin, studiare la politica sovietica, assimilare le parole d’ordine”. È dunque un giornale che, dietro l’apparenza di veste nazionale e popolare, tende a forgiare ideologicamente (ma anche settariamente, per i dibattiti in seno al partito) i propri lettori. I quali venivano sballottolati tra posizioni intransigenti verso nemici interni, come i bordigliani e i trockijsti, e atteggiamenti morbidi nei confronti di avversari agguerriti, ad esempio i cattolici a cui più volte si tendeva la mano (nel tentativo di tesorizzare il successo del “caso Miglioli”, deputato popolare lasciatosi incantare dal mondo marxista) e persino i detestati neri (“Lettera ad un fascista della prima ora”, 1936/13, scon- d’Austria. Storico pure il Naviglio della Martesana fatto iniziare nel 1457 dal duca di Milano Francesco Sforza e congiunto agli altri di Milano nel 1497 auspice Leonardo da Vinci. La Martesana esce dall’Adda a Trezzo, corre parallela al fiume sino a Vaprio per poi deviare a occidente e dirigersi verso Milano. Il canale doveva essere senza dubbio familiare a Leonardo in quanto da Milano poteva facilmente raggiungere Vaprio dove era ospitato dal giovane amico, allievo e poi erede, Francesco Melzi che assistette fino alla fine (1519, ad Amboise, vicino a Parigi) il genio del secondo millennio. Della Martesana si servivano certamente i Serbelloni per re- carsi dal loro palazzo di Milano in villeggiatura lungo il Naviglio a Gorgonzola. Palazzo Serbelloni - ora sede del Circolo della Stampa - fu riformato in stile neoclassico alla fine del ‘700 dal grande architetto ticinese Simone Cantoni (17391818). E il Cantoni morirà proprio a Gorgonzola mentre, a quasi 80 anni di età, dirigeva l’erezione della maestosa chiesa prepositurale dei santi Gervasio e Protasio da lui progettata, ma finanziata dai Serbelloni. Collegati tra di loro, i Navigli avvolgevano il centro storico di Milano in una “cerchia” del diametro di circa due chilometri. I palazzi nobiliari o di possidenti che davano sulle attuali vie Senato, San Damiano, Vi- “Amarcord” personale Un giorno feriale a metà degli anni Trenta del secolo scorso, dopo la domenica della prima Comunione, mia madre mi accompagnò in gita premio a Milano. Naturalmente visita (per la prima volta) al Duomo, ma anche a una parente suora in un convento di via Santa Sofia. Camminando la mamma mi disse: “Qui sotto c’è il naviglio”. Anzi in dialetto, con rotacismo (la “elle” tramutata in “erre”), “Ul Naviri”. Durante il viaggio, da tram di Vimercate, avevamo visto il Naviglio della Martesana dapprima sul ponte di Metallino - tra Cologno Monzese e la cascina Gobba e poi a Crescenzago dove fiancheggiava via Padova. Allora io mi inginocchiai sul marciapiede accostando il viso sulla bocchetta di un tombino nell’ingenua speranza di vedere o almeno sentire scorrere l’acqua del “Naviri”. M. Ma. certante per la sua untuosità) ai quali si ricordano i comuni trascorsi rivoluzionari. Il quotidiano comunista è nato quale veicolo immediato di propaganda: da Mosca, in una lettera del 12 settembre 1923, Antonio Gramsci indicava la funzione essenziale: “Dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma e alla tattica della lotta di classe”. Lo staff dirigente, infatti, puntava esclusivamente all’obiettivo designato dai finanziatori sovietici: la conquista del bolscevismo. Perciò avvertiva: “Il giornale non dovrà avere alcuna indicazione di partito, dovrà essere redatto in modo che la sua dipendenza di fatto dal nostro partito non appaia troppo chiaramente... (tuttavia, dovrà) assicurare al partito stesso, che nel campo delle sinistre operaie ha storicamente una posizione dominante, una tribuna legale che permetta di giungere alle più larghe masse”. Proprio sul piano della diffusione, considerate le circostanze, “l’Unità” otteneva buoni risultati attestandosi ben presto sulle 30mila copie con edizioni rivolte soprattutto alle aree produttive, e un tetto di 60mila all’indomani del delitto Matteotti. Il declino coincideva con la stretta nei confronti della stampa di opposizione. Le grandi testate passavano sotto il diretto controllo del neonato regime, i fogli della minoranza erano costretti ad emigrare oppure alla clandestinità (nella prefazione Nicola Tranfaglia cita Avanti! e La Giustizia, dimentica la testata più battagliera cioè Il Popolo fondato da don Luigi Sturzo e diretto dal cattolico Giuseppe Donati, costretto ad abbandonare la patria e morto esule a Parigi) e anche il quotidiano comunista veniva travolto dagli eventi. Ma non demordeva continuando, sua pure saltuariamente prima con quattro poi con otto paginette, ad essere stampato in tipografie amiche e diffuso in silenzio tra i militanti. Costoro erano operai, contadini, studenti, intellettuali. Gente attiva insomma eppure mai sollecitati a partecipare in modo diretto scrivendo su questioni del partito e del paese. “Il suo linguaggio è spesso ridondante e i suoi articoli troppo lunghi, prolissi, poco digeribili per le grandi masse cui dovrebbero rivolgersi”. Si ha dunque l’impressione che l’Unità costituisca una sorta di “contenitore delle posizioni nel dibattito interno, non riuscendo - malgrado le premesse iniziali - a diventare un giornale aperto alle masse popolari”. Ad esse erano riservate parole d’ordine non proprio ori- sconti di Modrone, Francesco Sforza, avevano la loro darsena privata . Poi alla fine degli anni ‘20 del XX secolo la loro copertura che, col senno di poi, si è rilevata una jattura. Siamo però convinti che se allora Milano avesse avuto un’amministrazione democratica, anziché un podestà onnipotente, il problema sarebbe magari stato discusso più a lungo e forse rinviato sine die. Viceversa lo scempio urbanistico ed ambientale è stato irreversibile. Anche la Martesana ha subito la stessa sorte del Naviglio centrale. Coperta nel dopoguerra nel tratto di via Melchiore Gioia, ora ne resta uno scampolo a cielo aperto alla “Cassina di pomm”. Gaetano Afeltra apre le testimonianze su I Navigli con un aneddoto personale. Infatti quando giunse per la prima volta a Milano la proprietaria di una pensione di via San Marco si scusò - quasi fosse colpevole - in quanto dalla finestra della camera in cui alloggiava non si vedeva più il Naviglio che “era così bello”. Concludendo, riteniamo che I Navigli possa essere considerato “strumento di lavoro” per qualche collega anche nell’epoca di Internet e della posta elettronica. Sarà infatti più facile documentarsi e scrivere sull’argomento senza esser costretti a consultare la Raccolta Bertarelli, l’Archivio di Stato, l’Ambrosiana. Senza contare poi che diversi documenti riprodotti nel volume appartengono a collezioni private e quindi difficilmente consultabili. Autori Vari, I Navigli. Da Milano lungo i canali. La bellezza nell’arte e nel paesaggio, Edizioni Celip Milano, s.i.p. ginali (ai tempi della guerra d’Africa) tipo “dopo 12 anni di fascismo i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri” oppure come la vecchia contrapposizione tra “clero alto” e “clero basso” per giustificare le stragi di religiosi in Spagna. Torniamo, per concludere, sulla figura di Gramsci. Fondatore della testata (ma non la diresse mai) ed esaltato in vita, doveva subire le prime critiche proprio sulle pagine del suo giornale. Una questione complessa e sottile che faceva capo ai giudizi espressi dall’esponente sardo nel 1926 in tema di “coscienza della classe operaia”. Le sue ceneri erano ancora calde quando alcuni membri del comitato centrale (Berti e Di Vittorio) cominciarono a rilevare “errori” del mitico capo, che soltanto il cauto Togliatti riusciva a mettere in ombra. Vicende lontane nel tempo. Fiamma Lussana, studiosa della Fondazione Gramsci di Roma, ha fatto bene a ripercorrerle e a riproporle ad uso di anziani e di giovani: un contributo a capire meglio la nostra storia. Fiamma Lussana, “L’Unità” 1924-1939. Un giornale “nazionale” e “popolare”, Edizioni dell’Orso, pagine 400, 23,00 euro 29 (37) “ di Mario Pancera Tutti abbiamo una patria, anche gli apolidi hanno una patria: la loro patria è il mondo. Subito dopo la seconda guerra mondiale, un simpatico globetrotter americano, Garry Davis, si fece conoscere ovunque affermando di essere “cittadino del mondo” e di avere il diritto di passare attraverso le frontiere anche senza documenti. Era come se avesse gettato un seme. Oggi il popolo italiano ha una nuova patria, che non è più la penisola a forma di stivale, è un continente, l’Europa. Ci sono voluti molti decenni, ma c’è l’abbiamo fatta. La prima pallida idea fu espressa agli inizi degli anni Quaranta, poi gli europei hanno compreso l’importanza dell’unità, sia come valore ideale che come espressione di un progresso civile ed economico ineludibile, e già nel 1949 nasce il Consiglio d’Europa. Non staremo a rifare la storia, coraggiosa e complessa. Il mondo era diviso in blocchi, politici e militari, fumavano ancora le rovine dell’ultimo conflitto, ma, pur rispettosi di ogni sentimento e identità nazionale o regionale si doveva guardare avanti, ai figli, ai nipoti. L’uso della moneta comune è ora una pacifica realtà. E occorreva guardare in alto: oltre la piccola statura umana. Naturalmente, ad ogni crescita hanno corrisposto benefici e difficoltà. Oggi siamo orgogliosi di essere insieme cittadini italiani ed europei, di conversare in pace con gli ex nemici, di qualsiasi pelle e fede, di apprendere da tutti e di offrire a tutti qualcosa di noi. Questo volume con il patrocinio di tre ministeri (Affari esteri, Beni e attività culturali, Italiani del mondo), la presentazione di Boris Biancheri, l’introduzione di P. Gaetano L A D I L’orgoglio di essere cittadini europei Lo Russo e il sostegno della Banca Popolare di Milano, raccoglie i vari capitoli i nobili, ma anche concreti, discorsi, o parti di essi, del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che riguardano il nostro Paese ovvero la fierezza, la gioia e l’onore di essere europei. Esso si apre con una frase del Presidente: “Ho fiducia nell’Europa, la nostra patria più grande, che siamo costruendo”. La bellezza di valorizzare le regioni, gli uomini, di camminare e di pensare senza confini. C’è un punto ben preciso per capire il concetto di patria: è un problema di concetto morale, non di semplici espedienti politici, di documenti burocratici o, peggio, di armi. Aveva cercato di insegnare, con le sue piccole forze, un colto prete come Lorenzo Milani. Ci riuscì solo in parte. Ma aveva ragione. Come dimostra la storia, la patria dei muri, dei cippi, dei reticolati, dei confini ottenuti con meri artifici diplomatici e con guerre, e una patria che se ne va con gli anni, cioè con le altre guerre e con gli altri artifici. Per necessità di sopravvivenza, occorre che, nei rivolgimenti, se ne formi un’altra, più vasta è, con il tempo, più solida economicamente, socialmente, culturalmente. L’allargamento provoca la difficoltà delle comunicazioni e il diversificarsi delle lingue. È da qui che bisogna prendere coscienza di una unità superiore alle tante, piccole e giustamente diverse, che la formano. Nel processo in cui l’avrebbero condannato a morte, Socrate dovette difendersi da due accuse di immoralità: cioè di un credere agli dèi e di sovvertire l’animo dei giovani ascoltandoli e discutendo con loro. In pratica, era giudicato un nemico della patria. Il filosofo, che in gioventù aveva combattuto valorosamente per la difesa di Atene, la sua polis, provò il contrario, sostenendo con vigore l’importanza della coscienza morale. Egli difendeva, attraverso se stesso, il valore del concetto di patria, non tanto come espressione esteriore adatta a qualsiasi capriccio dialettico e calcolo per questioni territoriali, religiose o etniche, ma come intima convinzione. La patria come ideale, che non riguarda i confini politici - dei politici aveva un basso concetto - ma riguarda l’umanità ovvero l’unità degli uomini della pace e della giustizia. Grande difensore delle Leggi, il filosofo si sentiva non solo ateniese, ma greco. I suoi ideali erano universali. Arriva all’”anima” dell’uomo. Atene era, certo, la sua patria, gli dèi greci erano i suoi dèi, ma egli cercava di allargare gli orizzonti dei suoi concittadini, a partire dai giovani. Questo insegnamento dovrebbe essere valido anche oggi. Io sono nato a Bozzolo, paese mantovano ai confini con Parma e Cremona. La mia patria, cioè la terra dei miei padri, è qui: le ossa dei miei antenati - in cui si ritrovavano caratteri celtici, normanni, arabi, austriaci, francesi, slavi: sono passati proprio tutti gli eserciti!- sta tra i fiumi Oglio, Chiese e Po. Se guardo le foto dei miei nonni e nonne (più in là non posso andare) trovo biondi e mori, occhi cerulei e neri occhi malinconici, nasi aquilini o con larghe narici. Il mio paese è sotto l’egida di un santo che fu soldato romano, ha avuto una forte componente manifatturiera e bancaria ebraica, ha dato uomini ai Mille di Garibaldi e alla cultura uno dei più importanti filologi italiani, Napoleone Caix. Da questo intreccio, si capisce che la mia patria padana e contadina è già l’Italia, è già l’Europa, è già il mondo. Non posso, dunque, non essere europeo, per nascita, pri- ” ma ancora che per contrattazioni nazionalistiche. L’idea di patria è, in me, italiano, un ideale interiore, che non può essere sradicato, né può angustamente restringersi sulle sponde di tre fiumi. Quando dico “patria”, non dico un pezzo di terra o un vessillo o i miei morti, dico terre, bandiere, unità di pace e di giustizia tra gli uomini vivi. Il 1° gennaio 2002, insieme con altri Paesi, l’Italia è diventata Europa attraverso l’euro. Ai vertici dell’Unione ci sono anche politici, economisti studiosi italiani. Significa, tra l’altro, che abbiamo capito che i nostri avi non sono soltanto lombardi o toscani o calabresi o romani, e che i nostri figli e nipoti hanno una patria ben più grande dell’Italia, della Francia o della Germania: hanno davanti un continente, destinato a ingrandirsi. Questa è l’importanza della parola “patria”: di averne un solito concetto interiore, per evitare le tragedie e guardare con sicurezza il futuro. Siamo soltanto agli inizi ed è sperabile che nipoti e pronipoti portino avanti questa idea: la patria diventi il mondo. Avremo una Costituzione ovvero un atto che, ricorda Ciampi con forza, “coagulerà in un sistema di valori condivisi tutti i Paesi europei: membri in atto e futuri dell’Unione europea. Definirà lo schema di una cittadinanza europea. Contribuirà all’affermazione di un sentimento di unione fra i popoli europei. Faciliterà il dialogo dell’Europa con il resto del mondo”. Le rivoluzioni si fanno con l’idee e la giustizia si realizza con l’intelligenza delle leggi. Occorre tenere le braccia spalancate e pronta la mente verso chi vuol condividere i nostri ideali. Mario Pancera, L’orgoglio di essere cittadini europei, Editori Valecchi voices, s.i.p. Nicola Dante Basile Profumo di vino. Storie di uomini, di imprese, di mercati di Lello Naso Molti libri dedicati all’enogastronomia - è di gran moda scriverne - sembrano sospesi nell’iperuranio. Raccontano di prodotti tipici e tradizionali, di vini, ma anche di ristoranti come fossero variabili indipendenti rispetto ai processi, economici ma non solo, che contribuiscono alla loro affermazione sui mercati. Anche i meccanismi produttivi, le complesse organizzazioni che permettono a un vino, o a un salume, di uscire dall’anonimato e affacciarsi alla ribalta vengono spesso messi in secondo piano. Come si ignorano le leggi e le regole che disciplinano la vita di un settore economico 30 (38) e che spesso risultano determinanti per il successo di un prodotto agroalimentare. Profumo di vino, il libro che Nicola Dante Basile dedica all’enologia non segue il filone modaiolo. Tutt’altro: le Storie di uomini, di imprese, di mercati, come recita il sottotitolo, sono sapientemente immerse nella realtà economica e culturale italiana con un sottile filo che lega i prodotti ai processi. Al punto da diventare un completamento ideale per i numerosi romanzi, saggi e guide rivolti agli amanti del bere e del viaggiare nel segno del vino. Se non fosse così poco à la pàge si potrebbe dire che l’autore, giornalista del Sole24 Ore, per raccontare e descrivere la realtà enologica italiana ha utilizzato un im- pianto filosoficamente marxista: una struttura economica - sostanzialmente la prima parte del libro dedicata ai mercati - e una sovrastruttura ideologica - la parte più corposa del lavoro, con i ritratti delle imprese protagoniste del panorama produttivo. Un impianto rispettato anche nella cifra stilistica, con la sezione iniziale scritta come un saggio ben scritto, chiaro e scorrevole, e la seconda parte pennellata come un romanzo o meglio come tanti racconti brevi quanti sono i ritratti delle imprese. Nicola Dante Basile riesce nella non semplice impresa di spiegare ai lettori i meccanismi del settore del vino, i nuovi mercati, i Paesi produttori tradizionali e le strategie dei competitor da poco giunti sulla scena. E a dare un quadro d’insieme sulle prospettive dell’enologia mondiale, rispondendo senza pedanteria alle domande apparentemente più semplici: quale sarà il ruolo degli Stati Uniti, del Cile, del Sudafrica e degli altri Stati neo-produttori? Riusciranno i Paesi tradizionali, Italia e Francia in primis, a reggere all’impatto dei produttori rampanti? Quali vini si bevono in Cina e quali sono le prospettive dei consumatori orientali che si affacciano sul mercato? Qual è stato l’impatto del Giappone sul mercato nel dopoguerra? Quali sono le ultime novità legislative sulla sanatoria dei vigneti abusivi nell’Unione europea e come cambieranno gli equilibri all’interno del- L I B R E R I A TA B L O I D Falabrino, Garuti e Mazzocchi L’educazione alla legalità di Sabrina Peron Il volume L’educazione alla legalità è un raccolta d’interventi di autori provenienti da varie professionalità, quali magistrati, pedagogisti, studiosi, attori ecc. (ad esempio si va da Gherardo Colombo a Livia Pomodoro, da Moni Ovadia a Guido Petter, solo per citarne alcuni), i quali, dai rispettivi punti di vista, delineano il progetto dell’idea di legalità come valore, non tanto - e non solo - in senso politico-giuridico, ma, piuttosto, in senso etico-morale. Dunque, non solo una legge che garantisca la distribuzione regolata dei poteri ed una giustizia che controlli i conflitti assegnando imparzialmente ragioni e torti, ma, anzitutto, l’interiorizzazione - attraverso un progetto educativo ad ampio respiro democratico - di un piano di valori comuni e condivisi, iscritto nell’orizzonte di un «noi» collaborativo, da sostituire a quello di un «io» agonale, individualista e competitivo. I lettori, a cui gli autori si rivolgono, sono tutti coloro che si sforzano di elaborare, e portare avanti, una presa di coscienza del senso della legge e del suo rispetto, da parte di tutti, a partire dall’agire quotidiano delle piccole cose. la stessa Ue? Il tutto scritto in maniera piana e comprensibile, con la semplicità che mette alla portata di tutti anche i meccanismi comunitari più complicati. Nella seconda parte Nicola Dante Basile, che al Sole-24 Ore si occupa di enologia da 25 anni, racconta le cantine, gli uomini e i prodotti che fanno il sistema vitivinicolo italiano. Niente equivoci: non ci sono, se non di striscio, valutazioni sui vini o paragoni tra le diverse annate; piuttosto c’è, seria e documentata, la ricostruzione della nascita dei prodotto e dell’impresa, le strategie commerciali, l’innovazione dei processi di qualità.Tante piccole chicche, tante curiosità, tanti aneddoti raccontati sempre dai protagonisti. Grandi storie “minime”, che raccontano le sfaccettature della vita quotidiana, un po’ alla maniera del poeta della canzone Francesco Guccini, autore della prefazione. Così spigolando tra le 75 storie d’imprese, si può scoprire, per esempio, come è nato il miracolo del Sagrantino di Montefalco o chi ha rivaluta- Il volume, che si avvale della presentazione di don Ciotti, si divide in più parti. Nella prima parte, i vari interventi tracciano le linee di un programma di legalità, fondato sull’assunzione dei valori di responsabilità individuale e di rispetto per l’altro, su cui inevitabilmente si innesta il rifiuto della furbizia e del privilegio. Nella seconda parte, la funzione educativa di un sistema scolastico, che non si diriga solo all’erogazione di nozioni conoscitive ma che sia finalisticamente vincolato ad un’educazione alla vita democratica ed all’acquisizione di valori, si relaziona e si confronta con i bisogni giovanili di crescita e maturazione. Le ultime due sezioni sono, infine, dedicate, una alla narrazione di alcune “esperienze” nelle scuole, nelle associazioni di volontariato ecc , l’altra consiste in una serie di “documenti”, quali La carta dei doveri, Nove consigli scomodi e per finire un questionario elaborato da alcuni docenti milanesi riguardante proprio le tematiche dell’educazione alla legalità. Falabrino, Garuti, Mazzocchi, L’educazione alla legalità, Libri Scheiwiller, Milano 2002, euro 12,50. to i vini della Campania. Oppure a chi si deve l’importazione del Cabernet in Toscana o la rinascita dell’enologia in Sicilia e in tutto il Sud in generale. Ancora chi è l’enologo che ha contribuito in maniera determinante a impiantare i vitigni fuori dalle aree tradizionali. O anche chi è il designer che ha concepito la bottiglia a forma d’anfora del Verdicchio dei Castelli di Jesi. Intrecciando i racconti il lettore attento ricostruisce i percorsi delle cantine, le reciproche influenze, la nascita dei distretti e delle aree produttive. Leggendo le storie delle imprese si individua il filo conduttore che le lega, così come si possono comprendere i motivi, mai casuali, dell’affermazione delle etichette. Si vede in controluce la mano invisibile che ha fatto dell’enologia italiana la protagonista di una storia di successo. Nicola Dante Basile, Profumo di vino. Storie di uomini, di imprese, di mercati, edizioni Il Sole-24 Ore, pagine 199, 21,00 euro ORDINE 2 2003 L A L I B R E R I A Roberto Gervaso Il Grande Mago di Gregorio F.Terreno Pubblicata per la prima volta nel lontano 1972, gagliardamente nelle librerie una delle biografie più fortunate di Roberto Gervaso. Si tratta di segnatamente de Il Grande Mago, ovvero Vita, morte e miracoli del Conte di Cagliostro, come occhieggia dalla copertina il sottotitolo. Un vero e proprio classico del biografismo di intrattenimento colto, che si avvale comunque di una ricca e agguerrita messe di ricerche, apologie, memoriali d’accusa sedimentatasi in due secoli. L’autore non solo insegue le vestigia sfuggenti tra leggenda e storia del Gran Cofto, come l’ebbe a ribattezzare il padre della letteratura tedesca W. Goethe; ma fronteggia da par suo il cimento di ricomporre il mosaico delle interpretazioni, tra agiografia e auto da fè, che la sfrontata e sgargiante figura di Cagliostro ha inevitabilmente fomentato. Premette infatti Gervaso: “Se la nostra interpretazione di Cagliostro sia quella giusta, non sappiamo. Certamente non è partigiana. Nel conte Alessandro i detrattori hanno visto solo un falsario, un ciurmatore, un prosseneta. Gli apologeti solo un iniziato, un martire, un santo. In realtà fu un miscuglio di ingenuità e di impostura, genio e ciarlataneria, misticismo e sregolatezza. Solo Cagliostro sapeva chi fosse Cagliostro. Forse non lo sapeva nemmeno lui. Se l’avesse saputo non avrebbe fat- to quel che fece, non sarebbe diventato quel che diventò. Ma l’enigmaticità fu il suo fascino”. In ogni caso la parabola di Alessandro Cagliostro, pseudonimo del palermitano Giuseppe Balsamo, principia nel 1743, sotto la volontà latitudinale della città più popolosa di Italia dopo Napoli, in un rione fatiscente. Essa indi corre e si dipana per l’Europa in un vorticoso peregrinare, assieme alla fama di alchimista e taumaturgo che la scia pirica delle sue imprese finisce con il decretargli. Poi a Parigi il destino comincia a riavvolgersi, verso un tramonto annunziato. Colà introduce la massoneria di rito egiziano ed è soprattutto implicato pericolosamente nel famoso processo della collana. Arrestato a Roma e condannato come framassone al carcere perpetuo, spirò nella fortezza di S. Leo. Con un stile sgattaiolante e chiaro, lo scrittore, in coppia con Montanelli della rizzoliana Storia d’Italia, accompagna il lettore nel caleidoscopio delle truffe, riti iniziatici, pratiche mediche, negromanzia , tentativi di protochimica di un individuo divenuto l’idolo di mezzo continente. Come in fondo gli odierni guru della borsa, egli proseguì il disegno chimerico dei facili arricchimenti: dagli esperimenti con i filtri d’amore e le creme di bellezza a base di cicoria, indivia e lattuga alla ricetta della polvere rossa di proiezione, l’irraggiungibile pietra filosofale che seduceva irresistibilmente con la mirifica promessa di trasmutare le vili le- Intrigante. Curioso. Questo “Tracce di sangue a piè di pagina” di Luigi Giliberto si presenta come un romanzo, ma sin dalle prime pagine t’accorgi che la definizione è riduttiva. Perché è un mix tra il giallo intrigante, con tutta la sua tensione, e un curioso saggio ricco di notazioni storiche e d’attualità. Così la lettura corre su due binari paralleli e convergenti: l’invenzione del racconto godibile e la realtà delle informative a piè pagina che lo punteggiano. Dove non sono soltanto annotati i personaggi e i fatti, e sin qui saremmo nella normalità, ma anche tutte quelle notizie di solito lasciate senza approfondimenti ma che possono interessare, incuriosire il lettore. I protagonisti ordinano i ravioli alla ricotta? Ecco la ricetta: “Il ripieno si fa così…Parlano di “puttanate”? Ecco un “caso di ORDINE 2 2003 tolleranza” nella situazione delle “lucciole che punteggiano la statale 32 e la strada per la Malpensa presso Varallo Pombia”… E via così. Mai con un tono saccente e didattico, sempre con la stessa scioltezza di scrittura del racconto che scorre nella parte superiore della pagina. In un’alternanza tra un thriller soft con due protagonisti di fantasia, e le informazioni reali, utili, che dalla narrazione prendono spunto. Sul giallo ci limitiamo a un accenno. Luigi Pigna, cronista del quotidiano “Nazionalpopolare” indaga in proprio sulla morte apparentemente accidentale di un collega, ucciso da una scarica di 220 volt provocata dal phon caduto nella vasca mentre stava facendo il bagno. L’aiuta nelle ricerche una bibliotecaria, al primo colpo d’occhio scialba, ma che si rivelerà una ragazza determinata e tutta da scoprire.Anche a letto. La vicenda si dipana sul filo del TA B L O I D Giovanni Raboni Simoni a teatro di Emilio Pozzi ghe in nobili metalli. Oggi, dopo l’avvento della teoria atomica, si è definitivamente compreso che tutta la questione si riduce ad invertire, ad esempio, il numero dei protoni del piombo con quelli dell’oro, con la conseguente rinunzia ad ogni tipo di progetto in tal senso.Tuttavia, ciò che è stupefacente è la credibilità, tanto negli strati del popolino quanto nelle corti e nei circoli dell’aristocrazia mitteleuropea, che Balsamo ottenne. E proprio in piene temperie del secolo dei lumi e dell’epica, scientifica impresa dell’Enciclopedia. Insomma, un autentico contraltare di monsieur Francois-Marie Arouet, più conosciuto con il soprannome di Voltaire. A tal proposito, questi argomentava mordacemente proprio in questi stessi anni: “Ma tutta la terra fischia chi pretende che non si può piacere a Dio se non si tiene in mano morendo una coda di vacca, chi vuole ci si faccia tagliare l’estremità del prepuzio, chi stima sacri coccodrilli e cipolle, chi fa dipendere la salvezza eterna da certe ossa di morti che si portano sotto la camicia, o da un’ indulgenza plenaria che si compera a Roma per due soldi e mezzo”. Ciò nonostante, è innegabile che il discendente dei conti di Cagliostro fu un autentico protagonista del suo tempo, di cui si sforzò, non senza il proprio tornaconto, di incarnare ed interpretare ansie ed aneliti. Afferma ancora Gervaso: “Mai, come nel secolo dell’Illuminismo, furoreggiò la ma- gia, esorcisti, indovini e guaritori contesero agli enciclopedisti la palma della popolarità. Il Settecento alimentò una corrente irrazionale vagamente spiritualista che trovò sfogo non solo nel profetismo teosofico, ma nella passione delle scienze occulte, lo spiritismo incipiente, l’alchimia, l’astrologia, la teurgia, accompagnata dalla degenerazione mondana della volgarizzazione scientifica”. Sorprendentemente, anche Giacomo Casanova, che lo incontrò a Aix-en-Provence, però suggerì di diffidarne. Fino all’ultimo. Come fece il guardiano della rocca nella quale Balsamo morì nel 1795, passandogli una fiaccola - a morte sopravvenuta - accesa sotto i piedi. Che naturalmente restarono immobili. Roberto Gervaso, Il Grande Mago, Mondadori, Milano 2002, pagine 279, 16,50 euro rosa - nero con tocchi spiritosi nel rapporto di coppia dei due protagonisti, che si mettono continuamente in discussione mentre sono impegnati nella ricerca della verità. Davvero imprevedibile grazie a un intelligente colpo d’ala. Che, ovviamente, lasciamo scoprire al lettore. La storia (inventata) viaggia in contemporanea con un dramma (vero) accaduto in pieno Risorgimento. E qui, nelle note a piè pagina, Giliberto si rivela anche un accurato ricercatore.Che ci regala ghiotti e sin’ora ignoti aneddoti su Garibaldi, Nino Bixio, Umberto I… Dove, spiega lo stesso autore:“i riferimenti storici citati concisamente sono tutti documentati, anche se poco conosciuti”. Compreso il rapporto adulterino, chiave del thriller, tra la nobildonna Carolina Berra e lo scrittore garibaldino Giuseppe Guerzoni, che “scoprii per primo una ventina d’anni fa. L’indagine ricalca quella ricerca romanzandola”. Luigi Giliberto, una vita nei quotidiani (“Gazzettino”,” Carlino”, 22 anni al “Corriere”) ha ambientato tutta la coinvolgente vicenda in un giornale. Il libro, come scrive nella prefazione Mino Durant (suo collega in via Solferino e ora direttore della Prealpina”) “ è anche un gustoso spaccato della vita di redazione che mostra i giornalisti come veramente sono nella goliardesca e a suo modo cinica vita di tutti i giorni. Curiosi, invidiosi, e soprattutto impegnati in una doppia battaglia: quella modesta e personale - per emergere o perlomeno per non essere sopraffatti, e quella - più grande - con il mondo, spesso triste e spietato, che quotidianamente devono indagare e raccontare agli altri”. D’accordo. Con solo interrogativo nostalgico pensando al passato e guardando il presente: “Devono” o “dovrebbero”indagare? Luigi Giliberto, Tracce di sangue a piè di pagina, prefazione di Mino Durand, Supernova, pagine 152,10,00 euro Luigi Giliberto Tracce di sangue a piè di pagina di Gigi Speroni D I Per fortuna che nella sua città natale, Verona, si ricordano di lui. Almeno con un libro. In quella di adozione, Milano, dove è vissuto fino alla morte, nel 1952, scende l’oblio, ad esempio pochi ricordano che a Renato Simoni è dedicato un teatro, quello di via Manzoni, e che alla Biblioteca del Museo teatrale alla Scala, nella nuova sede, ci sono a migliaia, i suoi libri, amorevolmente raccolti. E non risultano che siano in gestazione iniziative per ricordare il mezzo secolo della morte. Il volume che ho tra le mani raccoglie 41 recensioni, scelte tra le centinaia, fra le migliaia scritte sul Corriere della sera, dal 1915 al 1952. Immagino la fatica di Giovanni Raboni, il poeta che per alcuni anni si è seduto sulla poltrona che Simoni aveva lasciato in eredità a Eligio Possenti (i successori furono poi Raul Radice e Roberto De Monticelli), incaricato dalla curatela. L’uscita di questo meritorio volume suscita numerosi interrogativi: esiste ancora la critica teatrale dei quotidiani? Ha ancora spazio e rispetto? Ha ancora una utile funzione mediatrice verso i lettori-spettatori? Imbarazzanti interrogativi e penose risposte. Una volta, almeno la consorteria dei critici tentava, ogni tanto, un esame autocritico, (e ovviamente, prima di battersi il petto c’era il tentativo di spostare il dito accusatore verso un altro obiettivo: il mondo del teatro, comprendendo autori, attori, impresari, strutture pubbliche, gli spettatori. E quando non si concludeva, drasticamente; che il teatro era definitivamente morto, lo si dava per agonizzare. E nei più ottimistici dei casi ci si chiedeva: dove sta andando? È come nei corsi e ricorsi vichiani le risposte erano, a turno, sempre uguali. Oggi le domande cadrebbero nel vuoto, senza rumore, nel silenzio dell’indifferenza. Consoliamoci, come testimoni del passato, di rileggere la nitida prosa, traboccante di ragionata passione per il teatro, di un critico (ma lui preferiva che le sue recensioni fossero definite cronache). E diamo il merito che gli spetta a Michelangelo Belinetti, intelligente cultore delle glorie veronesi. La racconta così «Simoni rappresenta un evento rivoluzionario nel mondo del teatro fino ad allora avvolto dai fiumi dell’accademismo e strangolato dalle insufficienze espressive». E giustamente sostiene «Forse per lui è stata fondamentale la lezione giornalistica veronese maturata a l’Adige e a l’Arena, scuola semplice, destinata a creare cronache minute ma non banali, racconti immediati, immediatamente riscontrabili. Il rispetto per l’accaduto e la necessità di riferirlo rispettosamente, imparati alla scuola semplice del giornalismo di provincia, finirono per costituire l’armatura sostanziale del suo stile». Non entro nel merito della selezione operata da Raboni, vincolato certamente a un preciso numero di pagine. I suoi criteri si possono forse individuare, scorrendo l’elenco di quello che c’è: “prime” assolute, interpretazioni attorali o registiche, individuazioni esemplificative di autori, incrociando un’esigenza con l’altra. Chi cerca, ad esempio la prima volta di Ruggeri con Amleto, la trova (1915) chi è interessato a Pirandello, può leggere dei I sei personaggi in cerca d’autore alla prima rappresentazione a Milano (1921), chi è incuriosito dalla scoperta dei fratelli De Filippo, al Nord (1931), e di testi rivelatori dell’Eduardo dei giorni dispari (1946), non è deluso. Personalmente mi chiedo sommessamente come mai Questi fantasmi e non Filumena Marturano o Napoli milionaria. Ma l’analisi dei testi scelti sarebbe deviante rispetto certi capisaldi. Ecco dunque, e non poteva mancare, il commento scritto da Simoni per l’inaugurazione del Piccolo Teatro di Milano (1947), nato dalla caparbietà di due giovani Paolo Grassi e Giorgio Strehler - due bravi putei li definiva (come ha ricordato a sua volta Giulio Nascimbeni raccontando un emozionante incontro con Simoni a Milano). Il selezionatore ha proposto cronache su Ruzante, Cecov, Gorki, Eliot, Cocteau, Miller, Williams, (cito alla rinfusa) ma anche su De Benedetti e De Filippo (sia Eduardo che Peppino). Raboni nel suo saggio introduttivo non motiva scelte ed esclusioni. Mette l’accento sul magistero di Simoni, sulla sua “autorevolezza assoluta” («una recensione di Simoni non era un parere ma il parere»). E analizza i suoi articoli linguisticamente, semiologicamente, scientificamente, non trascurando la sua etica professionale. Non si può che sottoscrivere una amare e polemica riflessione finale: «Sono alcuni anni che con rara e sciagurata imprevidenza i responsabili dell’informazione non soltanto l’hanno trascurata e quasi messa fra parentesi, tale funzione, ma sembrano far di tutto per ostacolarla, per renderla impraticabile e questo a dispetto del fatto che il teatro mostra, nonostante tutto, sorprendenti segni di vitalità sia a livello propriamente creativo, sia per quanto riguarda l’interesse e il gradimento del pubblico. È sotto gli occhi di tutti che di teatro sui giornali si parla sempre meno e sempre peggio… Simoni a teatro. Commedie drammatiche (1915-1952), scelte da Giovanni Raboni, Gemma edicto, Verona 2002, pagine 264, 13,00 euro 31 (39)