Anno XXXIII
n. 2, Febbraio 2003
Ordine
Direzione e redazione
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Telefono: 02 63 61 171
Telefax: 02 65 54 307
dei
giornalisti
della
Lombardia
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Spedizione in a.p. (45%)
Comma 20 (lettera b)
dell’art. 2 della legge n. 662/96
Filiale di Milano
Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo
Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo
La Finanziaria per il 2003 completa
la riforma avviata dalla Finanziaria
per il 2001 (legge 388/2000) nei riguardi
dei pensionati di vecchiaia
I “vecchi” pensionati
di anzianità
possono comprarsi
il diritto al cumulo
“A decorrere dal 1º gennaio 2003, il regime di
totale cumulabilità tra redditi da lavoro autonomo
e dipendente e pensioni di anzianità a carico
dell’assicurazione generale obbligatoria e delle
forme sostitutive, esclusive ed esonerative della
medesima, previsto dall’articolo 72 (comma 1)
della legge 23 dicembre 2000 n. 388, è esteso ai
casi di anzianità contributiva pari o superiore ai
37 anni a condizione che il lavoratore abbia
compiuto 58 anni di età. I predetti requisiti debbono sussistere all’atto del pensionamento”.
Questo principio, stabilito dal primo comma
dell’articolo 44 della Finanziaria 2003 (legge
n. 289/2002), merita di essere tradotto e
volgarizzato. In sostanza chi percepisce la
pensione di anzianità dal 1° gennaio 2003,
avendo maturato all’atto del pensionamento
(appunto il 1° gennaio 2003) i due requisiti
(37 anni di contributi e 58 anni di età), può come i titolari di pensione di vecchiaia (o di
vecchiaia anticipata) - cumulare liberamente
l’assegno Inps (o Inpgi) con i redditi derivanti
sia da lavoro dipendente sia da lavoro autonomo.
La legge lancia un salvagente anche ai
pensionati di anzianità, che percepiscono
(almeno dal dicembre 2002) l’assegno maturato con la precedente e doppia regola dei
57 anni di età e dei 35 anni di contributi (in
base all’articolo 1, comma 25, della legge
335/1995 assorbito dall’articolo 4 del Rego-
L’Assemblea degli iscritti
giovedì 27 marzo 2003
«Oro» a 18 colleghi
per 50 anni di Albo
Milano, 21 gennaio 2003. Sono 18 i colleghi (13 professionisti e 5 pubblicisti) che quest’anno compiono i 50 anni
di iscrizione negli elenchi dell’Albo. Riceveranno la medaglia d’oro dell’Ordine della Lombardia in occasione dell’assemblea annuale degli iscritti che si terrà giovedì 27 marzo
(h 15) al Circolo della Stampa. Ed ecco i loro nomi:
PROFESSIONISTI: Castellani Adriana, Contarini Giorgio,
Dall’Ara Renzo, Di Bella Michele, Franchini Vittorio, Frigerio Mario, Monti Massimiliano, Negri Rino, Nidasio Grazia,
Passi Mario, Pardieri Giuseppe, Ruggeri Ivo Giovanni,
Torelli Rimoldi Clarissa.
PUBBLICISTI: Ceppellini Vincenzo, Falchetti Antonia,
Guglielmi Franco, Pozzi Alfredo, Zorzi Renzo.
ORDINE
2
2003
Analisi
di Franco
Abruzzo
e una
lettera
di Ezio
Chiodini
alle
pagine 2-6
lamento Inpgi). Chi, infatti, risulta titolare di
una pensione di anzianità (a carico dell’Inps
o di ente sostitutivo come l’Inpgi) alla data del
1° dicembre 2002 e paga (entro il 17 marzo
2003) un determinato “pedaggio” può assicurarsi il beneficio (della libertà di cumulo) per
tutta la vita (comma 2 dell’articolo 44 della
Finanziaria 2003). In sostanza i “vecchi”
percettori della pensione di anzianità possono “comprarsi” il diritto alla libertà di cumulo
La Finanziaria per il 2003 completa in
sostanza la riforma avviata dalla Finanziaria
per il 2001 (legge 388/2000) nei riguardi dei
pensionati di vecchiaia. Questi hanno la
libertà di cumulo dal 1° gennaio 2001.
Se l’Inpgi è una cassa privatizzata non può
non comportarsi come quelle degli avvocati
e dei ragionieri, che riconoscono la libertà di
cumulo ai propri iscritti; se è, ed è, ente sostitutivo dell’Inps, l’Inpgi deve seguire la normativa dell’Inps come impone il punto 4 dell’articolo 76 della legge n. 388/2000: “Le forme
previdenziali gestite dall’Inpgi devono essere
coordinate con le norme che regolano il regime delle prestazioni e dei contributi delle
forme di previdenza sociale obbligatoria, sia
generali che sostitutive”. Non c’è una terza
via.
L’Inpgi è con le spalle al muro: il principio
costituzionale dell’uguaglianza di trattamento
non lascia spazi di manovra. Sulle ricadute
sostanziali dell’articolo 3 della Costituzione,
la Consulta ha scritto, con la sentenza
437/2002, parole univoche e limpide.
SOMMARIO
Pensioni
e lavoro
I “vecchi” pensionati di anzianità
possono comprarsi il diritto al cumulo
pag 2
Libertà di cumulo: i giornalisti
considerati cittadini di serie C
pag 6
Detrazioni
e ritenute
Favoriti dal fisco i giornalisti
che trasferiscono la residenza
pag 7
Diritto
d’autore
e Inpgi
I giornalisti-autori
non sono “clienti” dell’Inpgi-2
Lo dicono Cassazione
e Ministero delle Finanze
pag 8
Le ferie sono irrinunciabili e non possono
essere monetizzate
pag 10
Viaggio nell’inferno del mobbing
senza mai arrendersi
pag 11
La libertà di stampa vittima
delle tensioni internazionali
pag 12
Comunicare Giornali e Afghanistan.
la pace
La parola ad Alberto Cairo
pag 15
Memoria
1963
2003
L’Ordine dei giornalisti
compie quarant’anni.
La libertà di stampa
e i diritti individuali di libertà
Mostre
Gianluigi Colin, elaborare l’immagine
per capire la fabbrica del presente
pag 19
I nostri
lutti
Federico Patellani, fotografo.
Editorialista in bianco e nero
pag 20
Milleottocentosettantasei, nasce
il cavouriano “Corriere della Sera”
pag 22
Giancarlo Masini,
giornalista scientifico per vocazione pag 24
Addio a Willy Molco
direttore con garbo
Giovanni Laccabò,
nostro inviato tra i lavoratori
La libreria di Tabloid
Inserto
pag 16
pag 25
pag 25
pag 26
Ifg Tabloid, il giornale degli allievi
dell’Istituto “Carlo De Martino”
GIORNALISTI NELLA STORIA
I nostri
Martiri
Milano, 2 gennaio 2003. Una sezione del sito dell’Ordine
dei Giornalisti della Lombardia (www.odg.mi.it) viene riservata a 12 giornalisti ammazzati dallo squadrismo fascista,
dal terrorismo rosso, dal terrorismo internazionale, dalla
mafia e dalla camorra.
Questa la galleria dei Martiri: 1. Giovanni Amendola; 2.
Piero Gobetti; 3. Carlo Casalegno; 4. Walter Tobagi; 5.
Ilaria Alpi; 6. Maria Grazia Cutuli; 7. Antonio Russo; 8.
Mauro De Mauro; 9. Mario Francese; 10. Giuseppe
“Pippo” Fava; 11. Giancarlo Siani; 12. Beppe Alfano.
Tutti facevano giornalismo investigativo o d’inchiesta oppure
esprimevano posizioni fortemente critiche, chi sul fascismo
(Amendola e Gobetti), chi sul terrorismo (Casalegno e Tobagi) o sulle zone calde del pianeta (Ilaria Alpi in Somalia, Maria
Grazia Cutuli in Afghanistan, Antonio Russo in Cecenia), altri
sulla mafia o sulla camorra (De Mauro, Francese, Fava, Siani
e Alfano).
L’obiettivo dell’iniziativa è quello di preservare la memoria di
questi 12 giornalisti, che hanno scritto ognuno una pagina
importante nella storia della nostra nazione, e che sono un
esempio di alta coscienza civile da additare ai giovani.
Non bisogna dimenticare il loro sacrificio. I giornalisti italiani
possono arricchire questa sezione del sito, spedendo saggi
e articoli all’indirizzo e-mail [email protected]. Per ora sono
stati utilizzati come fonti il web e il mensile Tabloid (organo
dell’OgL). C’è bisogno dell’opera di tutti per completare il
lavoro. “Oggi i giornalisti, che fanno inchieste – ha dichiarato
Franco Abruzzo – sono vittime di un altro terrorismo, quello
delle querele miliardiarie”.
NELLE PAGINE 10-12 IL DOSSIER DI “REPORTERS SANS FRONTIÈRES”
1
PENSIONI E LAVORO
L’Inpgi (ente sostitutivo dell’Inps) è tenuto a
rispettare le nuove regole in base all’articolo 3
della Costituzione; alla sentenza n. 437/2002
della Corte costituzionale nonché all’articolo 3
(comma 12) della legge n. 335/1995 e alla
sentenza n. 6680/2002 della Cassazione
Finanziaria 2003: la libertà
di cumulo avanza e guadagna
nuovi spazi (nell’Inps)
I “vecchi” pensionati di anzianità po
analisi di Franco Abruzzo*
I “vecchi” pensionati di anzianità hanno l’obbligo di versare il 30 per cento di
quanto dovuto entro il 17 marzo 2003 e la differenza in cinque comode rate
“secondo modalità definite dall’ente previdenziale di appartenenza”. C’è da
augurarsi che l’Inpgi definisca in fretta le “modalità”, perché il 17 marzo 2003
non è lontano.
Se l’Inpgi è una cassa privatizzata non può non comportarsi come quelle
degli avvocati e dei ragionieri, che riconoscono la libertà di cumulo ai propri
Premessa. Fondamentale e decisiva la
maturazione dei requisiti di anzianità (37
anni di contributi e 58 anni di età = 95)
alla data del 1° gennaio 2003.
1
“A decorrere dal 1º gennaio 2003, il regime di totale cumulabilità tra redditi da lavoro autonomo e dipendente e
pensioni di anzianità a carico dell’assicurazione generale
obbligatoria e delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima, previsto dall’articolo 72 (comma 1)
della legge 23 dicembre 2000 n. 388, è esteso ai casi di
anzianità contributiva pari o superiore ai 37 anni a condizione che il lavoratore abbia compiuto 58 anni di età. I
predetti requisiti debbono sussistere all’atto del pensionamento”.
Questo principio, stabilito dal primo comma dell’articolo 44
della Finanziaria 2003 (legge n. 289/2002), merita di essere tradotto e volgarizzato. In sostanza chi percepisce la
pensione di anzianità dal 1° gennaio 2003, avendo maturato all’atto del pensionamento (appunto il 1° gennaio
2003) i due requisiti (37 anni di contributi e 58 anni di età),
può - come i titolari di pensione di vecchiaia (o di vecchiaia
anticipata) - cumulare liberamente l’assegno Inps (o Inpgi)
con i redditi derivanti sia da lavoro dipendente sia da lavoro autonomo. La legge lancia un salvagente anche ai
pensionati di anzianità, che percepiscono (almeno dal
dicembre 2002) l’assegno maturato con la precedente e
doppia regola dei 57 anni di età e dei 35 anni di contributi
(in base all’articolo 1, comma 25, della legge 335/1995
assorbito dall’articolo 4 del Regolamento Inpgi).
Chi, infatti, risulta titolare di una pensione di anzianità (a
carico dell’Inps o di ente sostitutivo come l’Inpgi) alla data
del 1° dicembre 2002 e paga (entro il 17 marzo 2003) un
determinato “pedaggio” può assicurarsi il beneficio (della
libertà di cumulo) per tutta la vita (comma 2 dell’articolo 44
della Finanziaria 2003). In sostanza i “vecchi” percettori
della pensione di anzianità possono “comprarsi” il diritto
alla libertà di cumulo. La Finanziaria 2003 stabilisce anche
un condono per il pensionato che, soggetto all’incumulabilità totale o parziale, non abbia informato il proprio ente
2
L’esclusione degli enti privatizzati,
regolati dal Dlgs n. 509/1994, dall’ambito di applicazione delle leggi generali deve essere esplicitamente prevista
per legge.
Il legislatore ha da tempo fissato un principio interpretativo
regolatore della materia, quando, con il secondo comma
dell’articolo 73 della legge n. 448/1998 (legge finanziaria
per il 1999), ha stabilito, in tema di trattamenti previdenziali obbligatori, che l’esclusione degli enti privatizzati, regolati dal Dlgs n. 509/1994, dall’ambito di applicazione delle
leggi generali debba essere esplicitamente prevista dalla
legge e che in assenza di tale esplicita esclusione si determina automaticamente l’applicazione delle relative disposizioni.
Il comma 7 dell’articolo 44 della Finanziaria 2003 stabilisce un principio diverso: “Gli enti previdenziali privatizzati
possono applicare le disposizioni di cui al presente articolo nel rispetto dei principi di autonomia previsti dal decreto
legislativo 30 giugno 1994, n. 509, e dall’articolo 3, comma
12, della legge 8 agosto 1995 n. 335”.
Nel corso del dibattito al Senato, alcuni parlamentari di
diverso schieramento (Viviani, Longhi, Flammia, Brunale,
Caddeo da una parte e Demasi e Cozzolino dall’altra)
2
iscritti; se è, ed è, ente sostitutivo dell’Inps, l’Inpgi deve seguire la normativa
dell’Inps come impone il punto 4 dell’articolo 76 della legge n. 388/2000: “Le
forme previdenziali gestite dall’Inpgi devono essere coordinate con le norme
che regolano il regime delle prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza sociale obbligatoria, sia generali che sostitutive”. Non c’è una terza
via.
L’Inpgi è con le spalle al muro: il principio costituzionale dell’uguaglianza di
trattamento non lascia spazi di manovra. Sulle ricadute sostanziali dell’articolo 3 della Costituzione, la Consulta ha scritto, con la sentenza 437/2002,
parole univoche e limpide.
previdenziale sulle entrate percepite come libero professionista o come dipendente.
I cittadini, che non devono preoccuparsi di dichiarare i
redditi da lavoro dipendente o autonomo al proprio ente
previdenziale in quanto liberi di cumulare, sono:
• i pensionati di vecchiaia liquidati con il sistema di calcolo
retributivo (misura scattata dal 1° gennaio 2001 per effetto dell’articolo 72 della legge 388/2000);
• i pensionati di anzianità equiparati (in base all’art. 10,
comma 7, del d.lgs. n. 503 del 1992) a quelli di vecchiaia
al compimento dell’età pensionabile dei 65 anni (dal 1°
gennaio 2001);
• il titolare di pensione liquidato sulla base di almeno 40
anni di contribuzione (dal 1° gennaio 2001);
• i pensionati di anzianità liquidati con 37 anni di contributi
e 58 anni di età (requisiti riferiti alla data del 1° gennaio
2003 secondo il primo comma dell’articolo 44 della
Finanziaria 2003);
• i pensionati di anzianità alla data del 1° dicembre 2002,
che sborsano (entro il 17 marzo 2002) una determinata
somma in base al comma 2 dell’articolo 44 della legge
finanziaria per il 2003);
• i titolari di pensione (eccetto l’anzianità) cumulabile totalmente quando dall’attività di lavoro derivi un reddito
complessivo annuo non superiore all’importo (402 euro)
del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori
dipendenti relativo al corrispondente anno;
• i pensionati con redditi derivanti da attività svolte nell’ambito di programmi di reinserimento degli anziani in attività
socialmente utili promosse da enti locali e altre istituzioni
pubbliche e private (articolo 10, comma 5, del d.lgs. n.
503 del 1992 recepito nel punto 6 dell’articolo 15 del
Regolamento Inpgi);
• i pensionati che ricevono indennità per l’esercizio della
funzione di giudice di pace (articolo 11 della legge 374/91
e articolo 15 della legge 673/94);
• i pensionati che ricevono indennità come amministratori
locali (legge n. 816/1985) e indennità connesse a cariche
pubbliche elettive (circolare Inps 58/98);
• i pensionati con indennità percepite da giudici onorari
aggregati per l’esercizio delle loro funzioni (articolo 8
della legge n. 276/1997; circolare Inps 67/2000);
• i pensionati che percepiscono indennità per lo svolgimento delle funzioni di giudice tributario (articolo 86 della
legge n. 342/2000 e circolare Inps 20/2001).
hanno tentato di far passare un emendamento che toglieva agli enti privatizzati “sostitutivi dell’assicurazione generale obbligatoria” la discrezionalità di applicare le disposizioni previste dai commi 1 e 2 dell’articolo 44, che sanciscono la libertà di cumulo per i pensionati Inps di anzianità.
Gli emendamenti pressoché simili sono stati bocciati sulla
base di una considerazione legata alla lettura dell’articolo
3 (comma 12) della legge n. 335/1995 (riforma Dini delle
pensioni) richiamato espressamente dal comma 7 dell’articolo 44.
I senatori, prima di discutere e di votare, avevano letto sia
la sentenza n. 6680 della Cassazione (sezione lavoro) sia
la sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale. In breve
i senatori hanno ritenuto che il Parlamento non abbia dato
il suo assenso al Dlgs n. 509/1994 per consentire alle
Casse privatizzare di violare il principio di uguaglianza
giuridica ed economica (articolo 3 della Costituzione), trattando conseguentemente i propri iscritti come cittadini di
serie B. Quegli emendamenti erano e sono pertanto almeno superflui.
2.1. Il comma 12 dell’articolo 3 della legge n. 335/1995
distingue gli enti privatizzati tra quelli che gestiscono
forme di previdenza sostitutive (dell’Inps) e “gli altri”
che non svolgono simili funzioni.
Il comma 12 dell’articolo 3 della legge n. 335/1995 distingue gli enti privatizzati tra quelli che gestiscono forme di
previdenza sostitutive (dell’Inps) e “gli altri” che non svolgono simili funzioni.
Soltanto i primi sono tenuti a rispettare la normativa generale previdenziale. Si legge nel comma 12: “Nel rispetto
dei princìpi di autonomia affermati dal decreto legislativo
30 giugno 1994, n. 509, relativo agli enti previdenziali
privatizzati…
Nei regimi pensionistici gestiti dai predetti enti, il periodo
di riferimento per la determinazione della base pensionabile è definito, ove inferiore, secondo i criteri fissati all’articolo 1, comma 17, (della legge n. 335/1995, ndr), per gli
enti che gestiscono forme di previdenza sostitutive e
al medesimo articolo 1, comma 18, per gli altri enti. Ai fini
dell’accesso ai pensionamenti anticipati di anzianità, trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 1, commi
25 e 26, per gli enti che gestiscono forme di previdenza sostitutive, e al medesimo articolo 1, comma 28, per
gli altri enti”.
L’Inpgi - ente sostitutivo dell’Inps in base all’articolo 76
della legge n. 388/2000, che richiama le leggi 20 dicembre
1951 n. 1564; 9 novembre 1955 n. 1122 e 25 febbraio 1987
n. 67 – è tenuto, quindi, ad applicare i commi 1 e 2 dell’articolo 44 della legge finanziaria per il 2003, i quali prevedono la libertà di cumulo per i pensionati Inps di anzianità.
Gli emendamenti, quindi, erano e sono inutili.
La Fondazione Inpgi, ente sostitutivo dell’Inps, ha l’obbligo
di applicare la normativa generale previdenziale, perché il
Parlamento non ha escluso esplicitamente tale vincolo.
Tale obbligo nasce dallo svolgimento di “una funzione
pubblica”: “La prima questione che si pone è quella dell’applicabilità di questa normativa ad un ente di previdenza
privatizzato, quale è l’Inpgi. In proposito osserva il Collegio
che la natura di ente pubblico o privato è assolutamente
irrilevante, perché ciò che conta, ai fini dell’applicabilità
delle norme pubblicistiche che regolano i poteri dell’ente, i
doveri dei privati e le sanzioni previste per la violazione
degli stessi, è la natura dell’attività esercitata, che nella
specie è l’assicurazione obbligatoria; per il raggiungimento
delle finalità sociali e pubblicistiche di questo tipo di assicurazione, la legge riconosce anche all’istituto privato la
natura di ente impositore, cui deve conferire ed in effetti
conferisce i poteri necessari, anche sanzionatori; poteri
che per la loro stessa natura non rientrano fra quelli che
competono ad una persona giuridica privata e non possono essere lasciati, in nessun caso, alla discrezionalità del
privato gestore di un servizio pubblico” (sentenza
6680/2002 della sezione lavoro della Corte di Cassazione).
La sezione lavoro della Cassazione con il principio affermato (“ciò che conta, ai fini dell’applicabilità delle norme
pubblicistiche…, è la natura dell’attività esercitata, che
nella specie è l’assicurazione obbligatoria…”) ha affermato
in quell’occasione che l’Inpgi fosse tenuto ad applicare l’articolo 116 (sulle sanzioni previdenziali) della Finanziaria
per il 2001 (legge n. 388/2001). Quel principio vale ovviamente per la libertà di cumulo proclamata sia dall’articolo
72 della stessa legge n. 388/2000 sia anche dall’articolo
44 della Finanziaria per il 2003.
Va detto anche, a tutela della correttezza passata dell’Inpgi, che l’Istituto ha recepito:
a. l’articolo 1 (comma 25) della legge 335/1995 nel punto
4 del suo Regolamento: per i giornalisti “il diritto alla
pensione di anzianità si consegue al raggiungimento di
un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni, in
concorrenza con almeno 57 anni di età anagrafica”;
b. l’articolo 10 (comma 7) del dlgs. n. 503/1992 nel punto
8 del suo Regolamento: “Le pensioni di anzianità sono
equiparate alle pensioni di vecchiaia quando i titolari di
esse compiono l’età stabilita per le pensioni di vecchiaia”.
Sarebbe veramente difficile per l’ente, in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, opporre oggi un diniego all’applicazione dei commi 1 e 2 dell’articolo 44 della legge
finanziaria per il 2003 sulla libertà di cumulo dei propri
pensionati di anzianità (e sulla libertà di cumulo dei propri
pensionati di vecchiaia compresi nell’articolo 72, primo
comma, della legge n. 388/2000).
ORDINE
2
2003
I pensionati
Inpgi per ora
cittadini di serie B
ssono comprarsi il diritto al cumulo
Le esigenze di bilancio (articolo 2 del
Dlgs n. 509/1994) non prevalgono sul
diritto all’eguaglianza di trattamento
(articolo 3 Costituzione e sentenza n.
437/2002 della Corte costituzionale).
3
È prevedibile, però, che l’Inpgi, invocando autonomia
gestionale ed esigenze di bilancio (articolo 2 del Dlgs n.
509/1994), tenti di non applicare i commi 1 e 2 dell’articolo
44 della legge finanziaria per il 2003 sulla libertà di cumulo per i pensionati di anzianità come ha già fatto con l’articolo 72 della legge n. 388/2000, il quale dà la libertà di
cumulo ai pensionati di vecchiaia.
L’articolo 2 (comma 2) del Dlgs n. 509/1994 dice: “La
gestione economico-finanziaria deve assicurare l’equilibrio
di bilancio mediante l’adozione di provvedimenti coerenti
alle indicazioni risultanti dal bilancio tecnico da redigersi
con periodicità almeno triennale”. I provvedimenti coerenti
sono quelli indicati dal comma 12 dell’articolo 3 della legge
n. 335/1995: “…Provvedimenti di variazione delle aliquote
contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico nel rispetto del principio del pro rata
in relazione alle anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti
suddetti”.
Le cautele dell’Inpgi sono state bruciate dalla sentenza n.
437/2002 della Corte costituzionale:”È…da osservare
anzitutto che il perseguimento dell’obiettivo tendenziale
Gli “altri” pensionati di anzianità
possono comprarsi il diritto alla libertà
di cumulo, versando un importo pari al
30 per cento della pensione lorda relativa al mese di gennaio 2003.
4
I soggetti pensionati di anzianità alla data del 1 ° dicembre
2002, nei cui confronti trovano applicazione il divieto
parziale o totale di cumulo, possono accedere al regime di
totale cumulabilità a decorrere dal 1° gennaio 2003,
versando un importo pari al 30 per cento della pensione
lorda relativa al mese di gennaio 2003, ridotta di un
ammontare pari al trattamento minimo mensile Inps
(402,12 euro), moltiplicato per il numero risultante come
differenza fra la somma dei requisiti di anzianità contributiva e di età anagrafica utili per l’affrancamento del divieto
(95, e cioè 37 più 58), e la somma dei predetti requisiti in
possesso alla data del pensionamento di anzianità. In
sintesi, il coefficiente risulta pari a 3 per chi è andato ìn
pensione con 35 anni di contributi e 57 di età (95 meno
92, somma di 57più 35); 2 per chi poteva vantare 57 anni
e 36 di contributi, e così via.
Dice ancora il comma 2: “Le annualità di anzianità contri-
Conclusioni. I pensionati Inpgi cittadini di serie B. Anche la data del 31
dicembre 1994 fissa un altro confine di
disuguaglianza tra pensionati Inps e
Inpgi.
5
Con la sentenza n. 468/2002, la Corte costituzionale, nel
dichiarare l’illegittimità dell’articolo 128 del Rdl n. 1827/35
nella parte in cui non consente, entro i limiti del quinto, la
pignorabilità (per crediti tributari) dei trattamenti Inps, ha
affermato sul punto la perfetta uguaglianza tra pensionati
Inps e pensionati delle Casse privatizzate (tra le quali l’Inpgi), scrivendo: “Così come per i crediti alimentari, non
sussiste ragione alcuna, con riguardo a quelli tributari,
perché i titolari di pensioni INPS godano di un trattamento
di favore – rispetto ai dipendenti dalle pubbliche amministrazioni e, conseguentemente, ai professionisti che percepiscono assegni dalle rispettive Casse di previdenza – in
punto di pignorabilità o sequestrabilità dei crediti da essi
vantati, a titolo di pensioni, assegni o altre indennità, nei
confronti dell’Inps”.
ORDINE
2
2003
dell’equilibrio di bilancio non può essere assicurato da
parte degli enti previdenziali delle categorie professionali
… con il ricorso ad una normativa che, trattando in modo
ingiustificatamente diverso situazioni sostanzialmente
uguali, si traduce in una violazione dell’art. 3 della Costituzione. L’iscrizione ad albi o elenchi per lo svolgimento di
determinate attività è, infatti, prescritta a tutela della collettività ed in particolare di coloro che dell’opera degli iscritti
intendono avvalersi.In secondo luogo, si rileva che le
norme concernenti il cumulo tra reddito da lavoro e prestazione previdenziale presuppongono la liceità dell’esercizio
dell’attività lavorativa da parte del pensionato ed operano
quindi su un piano diverso ed in un momento successivo
a quelle del tipo della disposizione censurata, finalizzate
ad impedirne lo svolgimento”.
Avvocati e ragionieri, comunque, possono cumulare liberamente pensione e redditi da lavoro. Non si comprenderebbe, quindi, un atteggiamento negativo dell’Inpgi.
Se l’Istituto è una cassa privatizzata non può non comportarsi come quelle degli avvocati e dei ragionieri, che riconoscono la libertà di cumulo ai propri iscritti; se è, ed è,
ente sostitutivo dell’Inps, l’Inpgi deve seguire la normativa
dell’Inps come impone il punto 4 dell’articolo 76 della legge
n. 388/2000: “Le forme previdenziali gestite dall’Inpgi devono essere coordinate con le norme che regolano il regime
delle prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza
sociale obbligatoria, sia generali che sostitutive”.
Non c’è una terza via. L’Inpgi è con le spalle al muro: il principio costituzionale dell’uguaglianza di trattamento non
lascia spazi di manovra. Sulle ricadute sostanziali dell’articolo 3 della Costituzione, la Consulta ha scritto, con la
sentenza 437/2002, parole univoche e limpide.
butiva e di età sono arrotondate al primo decimale e la loro
somma è arrotondata all’intero più vicino. Se l’importo da
versare è inferiore al 20 per cento della pensione di
gennaio 2003 o se il predetto numero è nullo o negativo,
ma alla data del pensionamento non erano stati raggiunti
entrambi i requisiti di cui al comma 1, viene comunque
versato il 20 per cento della pensione di gennaio 2003. Il
versamento massimo è stabilito in misura pari a tre volte
la predetta pensione.
La disposizione si applica anche agli iscritti che hanno
maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità,
hanno interrotto il rapporto di lavoro e presentato domanda di pensionamento entro il 30 novembre 2002; qualora
essi non percepiscano nel gennaio 2003 la pensione di
anzianita`, è considerata come base di calcolo la prima
rata di pensione effettivamente percepita. Se la pensione
di gennaio 2003 è provvisoria, si effettua un versamento
provvisorio, procedendo al ricalcolo entro due mesi dall’erogazione della pensione definitiva”.
I “vecchi” pensionati di anzianità hanno l’obbligo di versare
il 30 per cento di quanto dovuto entro il 17 marzo 2003 e
la differenza in cinque comode rate “secondo modalità
definite dall’ente previdenziale di appartenenza”. C’è da
augurarsi che l’Inpgi definisca in fretta le “modalità”,
perché il 17 marzo 2003 non è lontano.
Questa sentenza riserva, quindi, ai pensionati Inps e ai
pensionati Inpgi un trattamento improntato alla perfetta
uguaglianza sotto il profilo della pignorabilità o della
sequestrabilità di un quinto dell’assegno.
Per quanto riguarda il cumulo, l’articolo 15 del Regolamento dell’Inpgi è improntato, invece, alla violazione macroscopica dell’articolo 3 della Costituzione, nonostante la
sentenza n. 6680/2002 della sezione lavoro della Cassazione abbia scritto che la legge n. 388/2000 (e, di conseguenza, il suo articolo 72) si applichi all’Istituto e nonostante la sentenza 437/2002 della Corte costituzionale
abbia sancito che per le Casse privatizzate l’articolo 3
della Costituzione prevalga sulle esigenze di bilancio. Le
clausole dell’articolo 15 del Regolamento Inpgi si traducono in una limitazione a tempo indefinito della possibilità di
lavoro dei pensionati, circostanza questa censurata (per i
ragionieri) dalla sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale. Il diritto al lavoro in sostanza è un diritto perenne
garantito dall’articolo 4 della Costituzione.
La data del 31 dicembre 1994 fissa un altro confine di disuguaglianza tra pensionati Inps e Inpgi. Gli assicurati Inps,
che hanno maturato il diritto all’assegno entro il 31 dicembre 1994, possono (ex comma 8 dell’articolo 10 del dlgs n.
503/1992) liberamente cumulare pensione e redditi da
da “Il Sole 24 Ore” del 24 dicembre 2002
Il cumulo totale
delle pensioni retributive
con i redditi da lavoro
dipendente e autonomo
dopo la finanziaria 2003
Vecchiaia
Decorrenza
• pensione liquidata con almeno 40
anni di contributi;
• pensione di anzianità equiparata a
quella di vecchiaia per compimento
dell’età pensionabile
Dal
1° gennaio 2001
(articolo 72
della legge
388/2000 Finanziaria 2001)
Pensione di anzianità liquidata
con almeno 37 anni di contributi
e 58 anni di età
Decorrenza
Titolari di pensione di anzianità
alla data del 1° dicembre 2002
Decorrenza
Dal
1° gennaio 2003
(articolo 44
Finanziaria 2003)
Dal
che si sottopongono all’esborso di una 1° gennaio 2003
determinata somma di denaro da (articolo 44
versare entro il 17 marzo 2003, caden- Finanziaria 2003)
do di domenica il giorno 16, oppure
mediante rateizzazione in cinque rate
trimestrali con la maggiorazione degli
interessi legali
lavoro dipendente e autonomo, mentre i pensionati Inpgi
possono cumulare soltanto i redditi da lavoro autonomo
(ma non quello da lavoro dipendente). I pensionati di
vecchiaia Inps, tali dal 1° gennaio 1995 in poi, hanno
conquistato la libertà di cumulo dal 1° gennaio 2001 (per
effetto dell’articolo 72 della legge n. 388/2000).
Dal 1° gennaio 2003 la stessa libertà di cumulo è riconosciuta ai pensionati Inps di anzianità (con 37 anni di contributi e 58 anni di età), mentre gli “altri” pensionati di anzianità possono “comprarsi” questo diritto. I pensionati Inpgi, oggi cittadini di serie B con i loro diritti “tagliati” e offesi sono eguali, quindi, ai pensionati Inps soltanto sotto il profilo della pignorabilità o sequestrabilità di un quinto dell’assegno.
La situazione è davvero insostenibile, perché l’Inpgi si ostina a non volere applicare l’articolo 72 della legge n.
388/2000 e probabilmente (o quasi sicuramente) farà
barricate sull’articolo 44 della Finanziaria per il 2003.
È indubbio che gli articoli 72 della legge n. 388/2000 e 44
della Finanziaria per il 2003 (sulla libertà di cumulo) costituiscano, sulla base delle sentenze citate della Corte costituzionale e della sezione lavoro della Cassazione, princìpi
fondamentali dell’ordinamento economico-sociale della
Repubblica e che gli stessi, pertanto, siano vincolanti
anche per le Casse privatizzate sostitutive dell’Inps. Le
barricate dell’Inpgi hanno il solo effetto di aumentare la litigiosità civilistica e di esporre i suoi dirigenti “politicosindacali” a richieste di risarcimento di danni da parte dei
pensionati dell’Istituto vittime di atteggiamenti sia incomprensibili e irragionevoli sia discriminatori e stressanti Si
annuncia una lunga guerra nella quale l’Inpgi e i suoi dirigenti “politicosindacali” reciteranno la parte degli sconfitti
in partenza. Senza avere l’alibi delle esigenze di bilancio,
perché i bilanci, - grazie anche ai “praticanti d’ufficio”
lombardi e all’azione trentacinquennale dell’Ordine di Milano contro il “l’abusivato redazionale” -, da anni presentano
risultati in nero.
*Fonti: l’articolo di Giuseppe Rodà pubblicato da Il
Sole 24 Ore del 24 dicembre 2002 dal titolo “Pensioni:
con un pedaggio si salta il divieto di cumulo” e quello
di Gigi Leonardi, dal titolo “Cumulo totale? Lo si può
comprare”, pubblicato da ItaliaOggi del 17 dicembre
2002.
segue la normativa
3
I “vecchi” pensionati
PENSIONI E LAVORO di anzianità possono
comprarsi il diritto
al cumulo/la normativa
Legge n. 289/2002 (Finanziaria per il 2003). Articolo 44. Abolizione del
divieto di cumulo tra
pensioni di anzianità e
redditi da lavoro.
1. A decorrere dal 1º gennaio 2003, il regime di totale
cumulabilità tra redditi da lavoro autonomo e dipendente e
pensioni di anzianità a carico dell’assicurazione generale
obbligatoria e delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima, previsto dall’articolo 72, comma 1,
della legge 23 dicembre 2000, n. 388, è esteso ai casi di
anzianità contributiva pari o superiore ai 37 anni a condizione che il lavoratore abbia compiuto 58 anni di età. I
predetti requisiti debbono sussistere all’atto del pensionamento.
2. Gli iscritti alle forme di previdenza di cui al comma 1, già
pensionati di anzianità alla data del 1º dicembre 2002 e
nei cui confronti trovino applicazione i regimi di divieto
parziale o totale di cumulo, possono accedere al regime di
totale cumulabilità di cui al comma 1 a decorrere dal 1º
gennaio 2003 versando un importo pari al 30 per cento
della pensione lorda relativa al mese di gennaio 2003,
ridotta di un ammontare pari al trattamento minimo mensile del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, moltiplicato per
il numero risultante come differenza fra la somma dei
requisiti di anzianità contributiva e di età anagrafica di cui
al comma 1, pari a 95, e la somma dei predetti requisiti in
possesso alla data del pensionamento di anzianità.
Le annualità di anzianità contributiva e di età sono arrotondate al primo decimale e la loro somma è arrotondata
all’intero più vicino.
Se l’importo da versare è inferiore al 20 per cento della
pensione di gennaio 2003 o se il predetto numero è nullo
o negativo, ma alla data del pensionamento non erano stati
raggiunti entrambi i requisiti di cui al comma 1, viene
comunque versato il 20 per cento della pensione di
gennaio 2003. Il versamento massimo è stabilito in misura
pari a tre volte la predetta pensione.
La disposizione si applica anche agli iscritti che hanno
maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità,
hanno interrotto il rapporto di lavoro e presentato domanda di pensionamento entro il 30 novembre 2002; qualora
essi non percepiscano nel gennaio 2003 la pensione di
anzianità, è considerata come base di calcolo la prima rata
di pensione effettivamente percepita. Se la pensione di
gennaio 2003 è provvisoria, si effettua un versamento
provvisorio, procedendo al ricalcolo entro due mesi dall’erogazione della pensione definitiva.
3. Per gli iscritti alle gestioni di cui al comma 1 titolari di
reddito da pensione, che hanno prodotto redditi sottoposti
al divieto parziale o totale di cumulo e che non hanno
ottemperato agli adempimenti previsti dalla normativa di
volta in volta vigente, le penalita` e le trattenute previste,
con i relativi interessi e sanzioni, non trovano applicazione, per il periodo fino al 31 marzo 2003, qualora l’interessato versi un importo pari al 70 per cento della pensione
relativa al mese di gennaio 2003, moltiplicato per ciascuno
degli anni relativamente ai quali si è verificato l’inadempimento.
A tal fine le frazioni di anno sono arrotondate all’unita`
superiore. Il versamento non può eccedere la misura pari
a quattro volte la pensione di gennaio 2003. La quota di
versamento relativa ai mesi di gennaio, febbraio e marzo
2003 viene restituita all’iscritto che abbia proceduto anche
al versamento di cui al comma 2. Se la pensione di
gennaio 2003 è provvisoria, si effettua un versamento
provvisorio, e si procede al ricalcolo entro due mesi dall’erogazione della pensione definitiva.
4. Gli importi di cui ai commi 2 e 3 sono versati entro il 16
marzo 2003, secondo modalità definite dall’ente previdenziale di appartenenza. L’interessato può comunque optare
per il versamento entro tale data del 30 per cento di quanto dovuto, con rateizzazione in cinque rate trimestrali della
differenza, applicando l’interesse legale. Per i pensionati
non in attività lavorativa alla data del 30 novembre 2002, il
versamento può avvenire successivamente al 16 marzo
2003, purche´ entro tre mesi dall’inizio del rapporto lavorativo, su una base di calcolo costituita dall’ultima mensilità
di pensione lorda erogata prima dell’inizio della attivita`
lavorativa, con la maggiorazione del 20 per cento rispetto
agli importi determinati applicando la procedura di cui al
comma 2.
Per i soggetti di cui al penultimo periodo del comma 2, il
versamento viene effettuato entro sessanta giorni dalla
corresponsione della prima rata di pensione. Per i soggetti
di cui all’ultimo periodo del comma 2 e all’ultimo periodo
del comma 3, il versamento di conguaglio avviene entro
due mesi dall’erogazione della pensione definitiva.
5. Dalla data del 1º aprile 2003 i comparti interessati
dell’amministrazione pubblica, ed in particolare l’anagrafe
tributaria e gli enti previdenziali erogatori di trattamenti
pensionistici, procedono all’incrocio dei dati fiscali e previdenziali da essi posseduti, per l’applicazione delle trattenute dovute e delle relative sanzioni nei confronti di quanti
non hanno regolarizzato la propria posizione ai sensi del
comma 3.
6. In attesa di un complessivo intervento di armonizzazione dei regimi contributivi delle diverse tipologie di attività di
lavoro, anche in relazione alla riforma delle relative discipline, l’aliquota di finanziamento e l’aliquota di computo
4
della pensione, per gli iscritti alla gestione previdenziale di
cui all’articolo 2, commi 26 e seguenti, della legge 8 agosto
1995, n. 335, e successive modificazioni, che percepiscono redditi da pensione previdenziale diretta, sono incrementate di 2,5 punti a partire dal 1º gennaio 2003 e di ulteriori 2,5 punti a partire dal 1º gennaio 2004, ripartiti tra
committente e lavoratore secondo le proporzioni vigenti
nel caso di lavoro parasubordinato.
Alla predetta gestione affluisce il 10 per cento delle entrate di cui al comma 4, vincolato al finanziamento di iniziative di formazione degli iscritti non pensionati; con decreto
del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto
con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare
entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della
presente legge, sono determinati criteri e modalità di finanziamento e di gestione delle relative risorse.
7. Gli enti previdenziali privatizzati possono applicare
le disposizioni di cui al presente articolo nel rispetto
dei principi di autonomia previsti dal decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, e dall’articolo 3, comma 12,
della legge 8 agosto 1995, n. 335.
Legge 8 agosto 1995 n.
335. Articolo 3. Disposizioni diverse in materia
assistenziale e previdenziale.
Comma 12. Nel rispetto dei princìpi di autonomia affermati dal decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, relativo
agli enti previdenziali privatizzati, allo scopo di assicurare l’equilibrio di bilancio in attuazione di quanto previsto
dall’articolo 2, comma 2, del predetto decreto legislativo, la
stabilità delle rispettive gestioni è da ricondursi ad un arco
temporale non inferiore a 15 anni.
In esito alle risultanze e in attuazione di quanto disposto
dall’articolo 2, comma 2, del predetto decreto, sono adottati dagli enti medesimi provvedimenti di variazione delle
aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti
di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione
del trattamento pensionistico nel rispetto del principio
del pro rata in relazione alle anzianità già maturate
rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai
provvedimenti suddetti.
Nei regimi pensionistici gestiti dai predetti enti, il periodo di
riferimento per la determinazione della base pensionabile
è definito, ove inferiore, secondo i criteri fissati all’articolo
1, comma 17, (della legge n. 335/1995, ndr), per gli enti
che gestiscono forme di previdenza sostitutive e al
medesimo articolo 1, comma 18, per gli altri enti.
Ai fini dell’accesso ai pensionamenti anticipati di anzianità,
trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 1,
commi 25 e 26, per gli enti che gestiscono forme di
previdenza sostitutive, e al medesimo articolo 1, comma
28, per gli altri enti. Gli enti possono optare per l’adozione
del sistema contributivo definito ai sensi della presente
legge.
prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza
sociale obbligatoria, sia generali che sostitutive”.
2. L’opzione di cui all’articolo 38 della legge 5 agosto 1981,
n. 416, come sostituito dal comma 1 del presente articolo,
deve essere esercitata entro sei mesi dalla data di entrata
in vigore della presente legge.
Legge 8 agosto 1995 n.
335. Articolo 1. Princìpi
generali; sistema di
calcolo dei trattamenti
pensionistici obbligatori
e requisiti di accesso;
regime dei cumuli.
Comma 2. Le disposizioni della presente legge costituiscono princìpi fondamentali di riforma economico-sociale
della Repubblica. Le successive leggi della Repubblica non
possono introdurre eccezioni o deroghe alla presente
legge se non mediante espresse modificazioni delle sue
disposizioni.
Comma 10. Per gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria ed alle forme sostitutive ed esclusive della medesima, l’aliquota per il computo della pensione è fissata al 33
per cento. Per i lavoratori autonomi iscritti all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) detta aliquota è fissata al 20 per cento (4/b).
(4/b) Vedi, anche, l’art. 2, D.Lgs. 29 giugno 1996, n. 414.
Comma 25. Il diritto alla pensione di anzianità dei lavoratori dipendenti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti e delle
forme di essa sostitutive ed esclusive si consegue:
a) al raggiungimento di un’anzianità contributiva pari o
superiore a 35 anni, in concorrenza con almeno 57 anni di
età anagrafica;
b) al raggiungimento di un’anzianità contributiva non
inferiore a 40 anni.
Regolamento dell’Inpgi.
Articolo 4 - Pensione di
vecchiaia e di anzianità
1. Il diritto alla pensione di vecchiaia matura al compimento
del sessantacinquesimo anno di età per gli uomini e del
sessantesimo anno di età per le donne, quando siano stati
versati almeno 240 contributi mensili. Per le pensioni aventi
decorrenza dal 1° gennaio 1993 i requisiti di età e di contribuzione sono quelli indicati alle tabelle A e B in conformità
alle disposizioni contenute nel Decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 503, secondo la progressione indicata nelle
tabelle A e B allegate al presente Regolamento.
2. Il diritto alla pensione di vecchiaia può essere anticipato
in presenza di almeno 360 contributi mensili accreditati
presso l’Istituto per gli uomini al conseguimento dei requisiti di età indicati nella tabella C allegata.
TABELLA A
Dlgs n. 509/1994. Articolo
2. Gestione.
2. La gestione economico-finanziaria deve assicurare
l’equilibrio di bilancio mediante l’adozione di provvedimenti coerenti alle indicazioni risultanti dal bilancio
tecnico da redigersi con periodicità almeno triennale.
Legge 388/2000. Articolo
76 (Previdenza giornalisti)
1. L’articolo 38 della legge 5 agosto 1981, n. 416, è sostituito dal seguente:
“Art. 38. - (INPGI). - 1. L’Istituto nazionale di previdenza
dei giornalisti italiani “Giovanni Amendola” (INPGI) ai sensi
delle leggi 20 dicembre 1951, n. 1564, 9 novembre 1955,
n. 1122, e 25 febbraio 1987, n. 67, gestisce in regime di
sostitutività le forme di previdenza obbligatoria nei
confronti dei giornalisti professionisti e praticanti e
provvede, altresi’, ad analoga gestione anche in favore dei
giornalisti pubblicisti di cui all’articolo 1, commi secondo
e quarto, della legge 3 febbraio 1963, n. 69, titolari di un
rapporto di lavoro subordinato di natura giornalistica. I giornalisti pubblicisti possono optare per il mantenimento dell’iscrizione presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale. Resta confermata per il personale pubblicista l’applicazione delle vigenti disposizioni in materia di fiscalizzazione
degli oneri sociali e di sgravi contributivi.
2. L’INPGI provvede a corrispondere ai propri iscritti:
a) il trattamento straordinario di integrazione salariale
previsto dall’articolo 35;
b) la pensione anticipata di vecchiaia prevista dall’articolo
37.
3. Gli oneri derivanti dalle prestazioni di cui al comma 2
sono a totale carico dell’INPGI.
4. Le forme previdenziali gestite dall’INPGI devono essere coordinate con le norme che regolano il regime delle
Età richiesta
per il pensionamento di vecchiaia
periodo di riferimento
dal 1° gennaio 1994 al 30 giugno 1995
dal 1° luglio 1995 al 31 dicembre 1996
dal 1° gennaio 1997 al 30 giugno 1998
dal 1° luglio 1998 al 31 dicembre 1999
dal 1° gennaio 2000 in poi
uomini
61°anno
62°anno
63°anno
64°anno
65°anno
donne
56°anno
57°anno
58°anno
59°anno
60°anno
TABELLA B
Requisiti assicurativi e contributivi
per la pensione di vecchiaia
Periodi
dal 1° gennaio
dal 1° gennaio
dal 1° gennaio
dal 1° gennaio
dal 1° gennaio
1993
1995
1997
1999
2001
al
al
al
al
in
31 dicembre
31 dicembre
31 dicembre
31 dicembre
poi
Anni
16
17
18
19
20
1994
1996
1998
2000
TABELLA C
Età richiesta per il pensionamento
di vecchiaia anticipato
Decorrenza della pensione
dal 1° gennaio 1994 al 30 giugno 1995
dal 1° luglio 1995 al 30 dicembre 1996
dal 1° gennaio 1997 al 30 giugno 1998
dal 1° luglio 1998 al 31 dicembre 1999
dal 1° gennaio 2000 al 30 giugno 2001
dal 1° luglio 2001 al 31 dicembre 2002
dal 1° gennaio 2003 al 30 giugno 2004
dal 1° luglio 2004 al 31 dicembre 2005
dal 1° gennaio 2006 al 30 giugno 2007
dal 1° gennaio 2007 in poi
ORDINE
Uomini
56
57
58
59
60
61
62
63
64
65
2
2003
3. La pensione di vecchiaia è liquidata, su domanda dell’iscritto avente diritto, con decorrenza dal primo giorno del
mese successivo a quello di presentazione della domanda
ovvero dal momento della maturazione del diritto.
4. L’iscritto è, a domanda, ammesso, in base alle decorrenze previste per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti, alla pensione di anzianità:
a) al raggiungimento di un’anzianità contributiva obbligatoria, volontaria o figurativa pari o superiore a 35
anni, in concorrenza con almeno 57 anni di età;
b) al raggiungimento di un’anzianità contributiva non
inferiore a 40 anni;
c) in via transitoria, alla maturazione dei requisiti ed
alle decorrenze previsti ai commi da 6 a 8 dell’articolo
59 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, per i lavoratori dipendenti iscritti all’assicurazione generale obbligatoria per l’invaliditià, la vecchiaia ed i superstiti.
professionisti, dei pubblicisti e dei praticanti iscritti presso
la Gestione Separata dell’Inpgi, istituita ai sensi dell’art. 7,
comma 1, lett. b), del decreto legislativo 10 febbraio 1996,
n. 103 - sono tenuti al versamento di un contributo di solidarietà pari all’1 per cento del reddito da lavoro autonomo,
destinato al finanziamento della spesa previdenziale
dell’Inpgi. Il contributo in questione deve essere versato
all’Inpgi entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello di
riferimento.
Comma 26. Per i lavoratori dipendenti iscritti alle forme
previdenziali di cui al comma 25, fermo restando il requisito dell’anzianità contributiva pari o superiore a trentacinque anni, nella fase di prima applicazione, il diritto alla
pensione di anzianità si consegue in riferimento agli anni
indicati nell’allegata tabella B, con il requisito anagrafico di
cui alla medesima tabella B, colonna 1, ovvero, a prescindere dall’età anagrafica, al conseguimento della maggiore
anzianità contributiva di cui alla medesima tabella B,
colonna 2.
5. Il conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia o
di anzianità è subordinato alla cessazione del rapporto di
lavoro.
TABELLA B (articolo 1, comma 26, della legge 335/1995)
6. Ai fini del diritto alla pensione di vecchiaia è riconosciuto utile il periodo di contribuzione nell’assicurazione obbligatoria IVS o in forme sostitutive, esclusive o esonerative
e nella Gestione Previdenziale Separata, costituita in favore dei giornalisti che svolgono attività autonoma di libera
professione anche sotto forma di collaborazione coordinata e continuativa.
Anno
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
7. Ai fini del diritto alla pensione di anzianità è riconosciuto
utile il periodo dicontribuzione nell’assicurazione obbligatoria IVS ai sensi e con gli effetti di cui all’art.3 della Legge
n.1122 del 9 novembre 1955.
8. I giornalisti pensionati titolari di un rapporto di lavoro
autonomo, non iscritti alla Gestione Previdenziale Separata - in base all’art. 1, comma 6, del Regolamento di attuazione delle attività di previdenza a favore dei giornalisti
Regolamento dell’Inpgi.
Articolo 15 Disciplina del cumulo
tra pensioni e redditi
da lavoro dipendente
ed autonomo
A decorrere dal 1° gennaio 1994 le pensioni di
vecchiaia, erogate dall’Istituto, non sono cumulabili
con i redditi da lavoro dipendente ed autonomo nella
misura del 50 per cento della quota eccedente il trattamento minimo di cui al IV comma dell’articolo 7 e fino a
concorrenza dei redditi stessi.
1
Le disposizioni di cui al comma precedente non si
applicano nei confronti dei titolari di pensione i cui
importi sono esclusi dalla base imponibile ai fini
IRPEF, degli assunti con contratti di lavoro a termine qualora la durata degli stessi non superi complessivamente le
cinquanta giornate nell’anno solare ovvero di coloro dalla
cui attività dipendente o autonoma derivi un reddito
complessivo annuo non superiore all’importo del trattamento minimo di cui al comma precedente.
2
Nei casi di cumulo con redditi di lavoro autonomo, i
pensionati sono tenuti a produrre all’Istituto una
dichiarazione dei redditi da lavoro riferiti all’anno
precedente, entro lo stesso termine previsto per la dichiarazione ai fini IRPEF, nei casi di cumulo con redditi da lavoro dipendente, i pensionati devono produrre all’Istituto la
certificazione del datore di lavoro attestante la retribuzione
corrisposta.
3
2
2003
1
Età
anagrafica
52
52
53
53
54
54
55
55
56
56
57
57
2
Anzianità
contributiva
36
36
36
37
37
37
37
37
38
38
39
39
| 2008 in poi | 57 | 40 |
Questa è la normativa dell’Inpgi
che nega ai giornalisti
il diritto alla libertà di cumulo,
riducendoli a cittadini di serie B
4
5
6
Nei casi di cumulo con redditi da lavoro dipendente o
autonomo la trattenuta è effettuata dall’Istituto.
La disciplina di cui al presente articolo si applica
anche nei casi di cumulo della pensione di invalidità,
di cui all’articolo 8, con redditi di lavoro autonomo o
dipendente, di natura non giornalistica.
I trattamenti pensionistici sono totalmente cumulabili
con i redditi derivanti da attività svolte nell’ambito di
programmi di reinserimento degli anziani in attività
socialmente utili, promosse da enti locali ed altre istituzioni
pubbliche e private. I predetti redditi non sono soggetti alle
contribuzioni previdenziali né danno luogo al diritto alle
relative prestazioni.
Le pensioni di anzianità non sono cumulabili con
redditi da lavoro dipendente, nella loro interezza, e
con quelli da lavoro autonomo nella misura del 50%
della eccedenza dell’ammontare corrispondente al trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti
dell’ INPS, fino a concorrenza dei redditi stessi.
7
Perequate le pensioni Inpgi
sulla base delle percentuali
fissate dal ministro Tremonti
ORDINE
Legge 8 agosto 1995 n.
335. Articolo 1. Princìpi
generali; sistema di
calcolo dei trattamenti
pensionistici obbligatori
e requisiti di accesso;
regime dei cumuli.
Le pensioni di anzianità sono equiparate, agli effetti
del presente articolo, alle pensioni di vecchiaia quando i titolari di esse compiono l’età stabilita per le
pensioni di vecchiaia.
8
9
Agli iscritti, che alla data del 31 dicembre 1994 risultano già pensionati, ovvero, hanno maturato il diritto
a pensionamento di vecchiaia o di anzianità, continuano ad applicarsi, se più favorevoli, le seguenti disposizioni:
1) per i titolari di pensione di vecchiaia, che prestino lavoro
subordinato alle dipendenze altrui con una retribuzione
non inferiore a un terzo di quella minima di redattore
stabilita per l’anno precedente dal contratto di lavoro
giornalistico, opera una riduzione del trattamento di
pensione pari al 50% dell’importo complessivo, fatto
comunque salvo il trattamento minimo;
2) per i titolari di pensione di anzianità il trattamento stesso è totalmente incumulabile con retribuzioni di qualsiasi importo derivanti da rapporti di lavoro a carattere
subordinato.
Milano, 7 gennaio 2003. L’Inpgi ha recepito
il decreto 20 novembre 2002 del ministero
del Tesoro sulla perequazione delle pensioni. Ne ha dato notizia il 20 dicembre 2002 al
presidente dell’Ogl il dirigente del Servizio
prestazioni dell’Istituto, Tommaso Costantini,
con questa lettera: “Rispondo, quale dirigente del Servizio prestazioni dell’Inpgi, al Suo
quesito formulato con nota 14 dicembre
scorso. L’art. 7 dell’attuale Regolamento
delle prestazioni previdenziali ed assistenziali - entrato in vigore dopo la privatizzazione dell’ente - al comma 10 dispone che le
pensioni erogate dall’lnpgi sono adeguate
secondo le disposizioni di legge vigenti in
materia.
L’Istituto, in piena autonomia, ha deciso,
quindi, che in materia di perequazione automatica si applichino le percentuali di volta in
volta indicate in apposito decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze. Pertanto, Le confermo che i prossimi ratei dei trattamenti pensionistici erogati dall’Istituto
verranno adeguati sulla base di quanto
previsto dall’ultimo provvedimento ministeriale”. La lettera di Franco Abruzzo all’Inpgi è
stata pubblicata sul numero di gennaio di
Tabloid.
5
P E N S I O N I
E
L A V O R O
“
Ciò che mi preme dire è
che la categoria deve fare
una profonda riflessione
sul ruolo e sulla funzione
del nostro Istituto.
E anche, ovviamente,
sul modo in cui è gestito.
”
Libertà di cumulo: i giornalisti
considerati cittadini di serie C
Lettera di Ezio Chiodini
Caro direttore, vorrei inserirmi nel dibattito che stai portando
avanti sull’iniquità del divieto di cumulo fra redditi da pensione e redditi da lavoro con alcune considerazioni. Cominciamo dalla cronaca legislativa e giuridica.
Come sappiamo, la legge finanziaria 2003, di recente
approvazione, ha eliminato il divieto di cumulo per chi
ha 58 anni e può vantarne almeno 37 di contributi pieni.
1
2
Sappiamo inoltre che la legge finanziaria ha introdotto un principio di equità. Che è il seguente: 58 (anni
di età) più 37 (di contributi) fa 95. Chi può “contare
95” fa Bingo, ossia non soggiace più al divieto di cumulo.
E chi, invece, può sommare (fra anni d’età e anni di contribuzione) soltanto 90 o 92 o 94…, che cosa può fare? Qui
scatta il principio di equità che potrebbe essere sintetizzato con questa affermazione: poiché tu sei andato in
pensione un po’ prima rispetto a chi totalizza 95, per
equità, e per parificarti ai “95”, devi pagare un quid, calcolato secondo regole matematiche ed economiche. Pagato
ciò, è come se anche tu fossi andato in pensione con 58
anni di età e 37 di contributi, o viceversa: poco importa.
Insomma, tutti uguali davanti alla previdenza. E alla legge,
ovviamente.
Conosciamo inoltre una recente sentenza della
Corte costituzionale (pubblicata anche da questo
giornale) che, nella sostanza, afferma il principio che
nessuna cassa di previdenza (nella fattispecie si trattava
di quella dei ragionieri) può, per “esigenze di bilancio”,
discriminare fra i pensionati, suddividendoli in categorie e
penalizzando, di fatto, il diritto al lavoro di alcuni cittadinipensionati, diritto costituzionale che dev’essere uguale per
ogni cittadino.
Di conseguenza: il divieto di cumulo non esiste più; la legge,
togliendolo, ha anche provveduto a sanare le situazioni al
margine, introducendo il principio di equità di cui abbiamo
detto, il quale, una volta applicato, rende tutti i pensionati
uguali dal punto di vista previdenziale e concede ad essi la
possibilità di lavorare tranquillamente (pagando le imposte
sui redditi conseguiti, s’intende). Inoltre, recependo il principio riaffermato dalla Corte costituzionale, li rende e considera tutti “uguali” anche per quanto riguarda il diritto al lavoro,
un diritto ampio che non può essere penalizzato per alcuni.
Di fronte alla previdenza e di fronte al lavoro, non esistono
più cittadini di serie A e di serie B.
3
Proposta oggi
sostenuta dalla
Finanziaria per il 2003
che può espandersi
a macchia d’olio
Le giornaliste e i giornalisti che
lavorano nella sede Rai di Saxa
Rubra a Roma sollecitano da
tempo l’apertura di un asilo-nido o
di un micro-nido per i loro bambini.
Ora questa richiesta potrà essere
finalmente esaudita grazie all’articolo 91 della legge finanziaria per
il 2003 che istituisce un Fondo
statale a favore delle aziende per
gli asili-nido e i micro-nidi nei
luoghi di lavoro. La Rai di Saxa
Rubra è certamente un’azienda
che può beneficiare degli incentivi
pubblici sia per l’elevato numero di
dipendenti interessati (giornalisti,
telecineoperatori, tecnici del
montaggio, dirigenti, quadri,
funzionari, impiegati, lavoratori
dello spettacolo, ecc.), sia per
l’ampia possibilità di locali disponibili ad ospitare una nuova e
idonea struttura per bambini.
Pierluigi Franz,
presidente dell’Associazione
stampa romana
6
Ora, le considerazioni.
1) Abbiamo detto che non esistono più cittadini di serie A e
di serie B per quanto riguarda il divieto di cumulo, che ora
non esiste più. Abbiamo anche detto che, di conseguenza,
non esistono più cittadini di serie A e di serie B anche per
quanto riguarda il diritto al lavoro. Esistono ancora, purtroppo, cittadini di serie C, e questi sono i giornalisti.
2) Mi spiego. Finora i pensionati erano distinti fra chi poteva
cumulare (serie A), chi soggiaceva a un divieto di cumulo
fino al 30% della pensione (serie B: pensionati Inps e altre
categorie) e chi soggiaceva a un divieto di cumulo fino al
50% (serie C: solo i giornalisti iscritti all’Inpgi). Ebbene, la
serie B è scomparsa, cancellata dalla legge. Rimarrebbe in
vita la serie C, costituita dai giornalisti (pensionati o attivi)
iscritti all’Inpgi. È giusto e tollerabile?
3) Certamente è ingiusto e iniquo (oltre che, a mio avviso,
illegale) dal punto di vista dell’eguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge e, aggiungo, nello specifico, di fronte alla
previdenza e per quanto riguarda il diritto a poter lavorare.
Da un punto di vista sociale, ciò è intollerabile, tanto più che
i giornalisti, svolgendo un’attività intellettuale, sono fra i pochi
(e con essi gli scrittori, gli artisti, gli scienziati e alcuni professionisti) a poter lavorare anche in tarda età, contribuendo,
per così dire, a produrre ricchezza, in questo caso di tipo
intellettuale.
4) Com’è possibile che i gestori dell’Inpgi (in massima parte
nostri colleghi) si ostinino a sostenere un atteggiamento
discriminatorio e penalizzante nei confronti della categoria di
cui fanno parte? Non si rendono conto che in questo caso
non si tratta di privilegi eventualmente da tutelare nei
confronti di altre categorie, bensì di discriminazioni che ci
impediscono di essere al livello di tutti gli altri lavoratori, siano
essi dipendenti siano essi professionisti? In queste condizioni, essere all’Inpgi è peggio che essere all’Inps.
5) Si risponde: ma se aboliamo il divieto di cumulo le casse
dell’Istituto ne risentiranno. La mia risposta: se ciò fosse vero,
significa che finora sono stati fatti i conti senza l’oste e che
l’Istituto ha potuto stare in piedi grazie a una serie di discriminazioni inique. Non solo: che l’Istituto è stato gestito male:
a) perché il suo equilibrio economico è stato conseguito
violando principi sanciti dalla Costituzione (diritto al lavoro e
all’uguaglianza) e in virtù del mancato recepimento di leggi
dello Stato (legge finanziaria); b) perché fra le entrate mancano parecchi soldi derivanti dall’insufficiente contribuzione
pagata finora dalle aziende editoriali (che, guarda caso, sono
rappresentate in seno all’Inpgi): noi sappiamo, infatti, che fra
quanto pagano le aziende industriali e commerciali sottofor-
ma di contributi previdenziali e quanto pagano quelle editoriali ballano circa dieci punti (nel senso che quelle editoriali
pagano meno), il che vuol dire parecchie decine di miliardi di
vecchie lire all’anno, mai pagate in passato e neppure attualmente.
6) Si afferma (all’Inpgi): noi siamo un istituto privato e quindi
non siamo tenuti a recepire automaticamente quanto previsto da leggi dello Stato. Rispondo: a) sulla natura strettamente privatistica dell’Istituto c’è molto da discutere e Franco
Abruzzo ha molti argomenti da contrapporre; b) in ogni caso
nessun istituto o ente può ledere diritti personali e principi
sanciti dalla Costituzione perché – pubblico o privato che sia
– svolgerebbe un’attività discriminatoria e illegale, b) in altre
circostanze (più volte illustrate) l’Istituto ha recepito senza
alcun problema le indicazioni derivanti da leggi pubbliche; c)
non solo, nei mesi scorsi ha anche introdotto (meglio tardi
che mai, io dico) il sistema di calcolo previdenziale contributivo applicandolo pro-rata, con ciò anticipando un dibattito che
si sta sviluppando a livello nazionale…
Ma mi accorgo che il discorso ci porta lontano e rischia di
scivolare su singoli aspetti che possono distoglierci dal
nocciolo del problema.
Ho citato dei fatti ed esposto alcune considerazioni, che sono
opinioni. Qualcuno potrebbe obiettarmi: hai parlato di provvedimenti iniqui e illeciti… Sì, è vero, anche di provvedimenti a
mio parere illegali anche se su questi non c’è la sanzione di
una sentenza specifica della Magistratura perché finora
nessuna l’ha coinvolta su questi temi.
Mi chiedo però: si deve arrivare a tanto? Non è possibile
rispettare (ora e sempre) i principi generali fissati dalla Costituzione e dalla giurisprudenza? Ma che categoria siamo? Ho
sempre pensato che essere giornalista corrispondesse a fare
un lavoro da uomini liberi, che si battono anche per la libertà
dei principi e la loro applicazione, che si battono per rimuovere lacci e lacciuoli che ostacolano il normale svolgersi della
vita democratica. Con quale faccia, mi chiedo, invochiamo la
libertà di stampa e l’uguaglianza dei cittadini quando il nostro
Istituto – sempre a mio parere, s’intende – per ragioni che
ritiene di bottega calpesta questi principi?
Di cose, caro direttore, se ne potrebbero dire molte altre.
Però non voglio abusare. Ciò che mi preme dire è che la
categoria deve fare una profonda riflessione sul ruolo e sulla
funzione del nostro Istituto. E anche, ovviamente, sul modo
in cui è gestito. Ed i primi ad attivare questa riflessione
dovrebbe essere – anche questa è una mia personale
opinione – proprio chi siede negli organi decisionali dell’Istituto. Perché l’Istituto è di tutti, non solo di alcuni. Ed essere
amministratore è un servizio reso alla collettività dei colleghi:
almeno, io la penso così.
Un asilo nido alla sede Rai
di Saxa Rubra?
Questo il testo integrale dell’articolo 91 della legge n. 289/2002
(Finanziaria per il 2003). Asili nido nei luoghi di lavoro.
1. Al fine di assicurare un’adeguata assistenza familiare alle lavoratrici e
ai lavoratori dipendenti con prole, è istituito dall’anno 2003 il Fondo di
rotazione per il finanziamento dei datori di lavoro che realizzano, nei
luoghi di lavoro, servizi di asilo nido e micro-nidi, di cui all’articolo 70
della legge 28 dicembre 2001, n. 448.
2. Ai fini dell’ammissione al finanziamento, i datori di lavoro presentano
apposita domanda al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali contenente le seguenti indicazioni:
a) stima dei tempi di realizzazione delle opere ammesse al finanziamento;
b) entità del finanziamento richiesto, in valore assoluto e in percentuale
del costo di progettazione dell’opera;
c) stima del costo di esecuzione dell’opera.
3. Il prospetto contenente le informazioni di cui al comma 2 e le relative
modalità di trasmissione sono definiti con decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali da emanare entro il 31 marzo 2003. In caso di
ingiustificati ritardi o gravi irregolarità nell’impiego del contributo, il finanziamento è revocato con decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche
sociali.
4. I criteri per la concessione dei finanziamenti sono determinati con
decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il
ministro dell’Economia e delle Finanze e con il ministro per le Pari oppor-
tunità, entro il 31 marzo 2003, tenendo conto in ogni caso dei seguenti
princìpi:
a) il tasso di interesse da applicare alle somme rimborsate è determinato in misura non inferiore allo 0,50 per cento annuo;
b) i finanziamenti devono essere rimborsati al cinquanta per cento mediante un piano di ammortamento di durata non superiore a sette anni, articolato in rate semestrali posticipate corrisposte a decorrere dal terzo
anno successivo a quello di effettiva erogazione delle risorse;
c) equa distribuzione territoriale dei finanziamenti.
5. Per l’anno 2003, nell’ambito delle risorse stanziate sul Fondo nazionale per le politiche sociali a sostegno delle politiche in favore delle famiglie di cui all’articolo 46, comma 2, e nel limite massimo di 10 milioni di
euro, sono preordinate le risorse da destinare per la costituzione del
Fondo di rotazione di cui al comma 1. Per gli anni successivi, con decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze, è determinata la quota da attribuire
al predetto Fondo di rotazione nell’ambito del menzionato Fondo nazionale per le politiche sociali.
6. Il comma 6 dell’articolo 70 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, si
interpreta nel senso che la deduzione relativa alle spese di partecipazione alla gestione dei nidi e dei micro-nidi nei luoghi di lavoro, prevista per i genitori e i datori di lavoro, si applica con riferimento ai nidi e
ai micro-nidi gestiti sia dai comuni sia dai datori di lavoro. Dalle disposizioni di cui al periodo precedente non devono derivare nuovi o
maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato.
ORDINE
2
2003
D E T R A Z I O N I
E
R I T E N U T E
Chiarimento
del ministero
dell’Economia
e delle Finanze
Chi, comunque, “ha la dimora abituale” (per ragioni di stabile occupazione lavorativa) in un dato centro ha l’obbligo
giuridico di fissarvi la sua residenza anagrafica (articolo 3, prima comma, del Dpr n. 223/1989 in relazione all’articolo
43 del Codice Civile) anche per far fronte ai suoi obblighi fiscali (addizionale regionale ed eventualmente comunale,
tassa rifiuti, Irap, Ici, bollo automobilistico).
Favoriti dal fisco i giornalisti
che trasferiscono la residenza
Sono favoriti dal fisco i lavoratori dipendenti
(e, quindi, anche i giornalisti dipendenti siano
essi professionisti, pubblicisti o praticanti)
che trasferiscono la loro residenza, facendola, quindi, coincidere con il luogo di lavoro.
Lo ha chiarito il ministero dell’Economia e
delle Finanze con la circolare 12 giugno
2002 n. 50/E (Videoconferenza del 14
maggio 2002 sui modelli di dichiarazione
UNICO 2002. Risposte ai quesiti in materia
di questioni interpretative).
Pubblichiamo il documento in maniera integrale:
6.2 Detrazione per lavoratori che trasferiscono la residenza.
D.: L’art. 13-ter, comma 1- bis, riconosce una
detrazione «a favore dei lavoratori dipendenti che hanno trasferito o trasferiscono la
propria abitazione. I collaboratori coordinati
e continuativi e gli altri percettori di redditi
assimilati a quello da lavoro dipendente,
possono beneficiare della detrazione o la
stessa spetta solo ai lavoratori dipendenti?
La misura della detrazione, che è rapportata
al periodo nell’anno nel quale l’immobile è
adibito ad abitazione, deve essere rapportata anche ai giorni nei quali il contribuente è
stato lavoratore dipendente?
Per usufruire della detrazione il contribuente
deve possedere la qualifica di lavoratore
dipendente prima del trasferimento della
residenza o può acquisirla anche contemporaneamente al trasferimento stesso?
La detrazione in questione spetta anche ai
contribuenti che hanno trasferito la residenza nei tre anni antecedenti quello di richiesta
della detrazione?
R.: L’art. 13-ter, comma 2, del Tuir, prevede,
a decorrere dall’anno d’imposta 2001, una
detrazione a favore dei lavoratori dipendenti
che hanno trasferito o trasferiscono la
propria residenza nel comune di lavoro o in
uno di quelli limitrofi, nei tre anni antecedenti
a quello di richiesta della detrazione, purché
il nuovo comune di residenza disti dal
vecchio almeno 100 chilometri, e comunque
al di fuori dalla propria regione, e che siano
titolari di qualunque tipo di contratto di loca-
zione di unità immobiliari adibite ad abitazione principale degli stessi. Tale detrazione,
rapportata al periodo dell’anno durante il
quale l’abitazione ha costituito la dimora principale del contribuente, è così determinata:
a) euro 991,60 (lire 1.920.000), se il reddito
complessivo non supera euro 15.493,71 (lire
30 milioni); b) euro 495,80 (lire 960.000), se
il reddito complessivo supera euro 15.493,71
(lire 30 milioni) ma non euro 30.987,41 (lire
60 milioni).
Con circolare 18 giugno 2001, n. 58/E, al
paragrafo 3.1, è stato chiarito che il termine
di tre anni decorre dalla data di variazione
della residenza.
Se ad esempio, un lavoratore dipendente
trasferisce la residenza in ottobre 1998, tenuto conto che per effetto dell’articolo 2,
comma 8, della legge n. 388 del 2000 la
disposizione si applica a partire dal periodo
d’imposta 2001, la detrazione non spetta
visto che nel il 2001 sono già trascorsi tre
periodi di imposta: il 1998, il 1999 ed il 2000.
Tale detrazione spetta, sulla base della
formulazione della norma, esclusivamente ai
lavoratori dipendenti. Pertanto, restano
esclusi i percettori di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente.
Per usufruire della detrazione il contribuente
deve, tra l’altro, essere titolare di un contratto
di lavoro dipendente e deve trasferire la propria
residenza nel comune di lavoro o in uno di
quelli limitrofi. Il beneficio si applica a favore dei
lavoratori dipendenti, compresi quelli che
trasferiscono la propria residenza in conseguenza di un contratto appena stipulato.
Se nel corso del periodo di spettanza della
detrazione, il contribuente cessa di essere
lavoratore dipendente, la detrazione non
spetta a partire dal periodo di imposta
successivo a quello nel quale non sussiste
più tale qualifica.
*****
Una recente delibera del Consiglio nazionale (5 luglio 2002) “dà la facoltà”, - in applicazione del principio di equiparazione tra residenza e domicilio professionale (l’art. 16
della legge 21 dicembre 1999 n. 526) ai fini
dell’iscrizione negli albi professionali anche
nei confronti dei giornalisti che abbiano fissa-
to nel territorio italiano sia la residenza che il
domicilio professionale -, “di opzione agli
iscritti nell’Albo dei giornalisti circa l’utilizzo
dell’uno o l’altro requisito ai fini dell’iscrizione
medesima, ferma restando in ogni caso l’osservanza delle norme in tema di residenza,
con i relativi obblighi derivanti dall’art. 3,
primo comma, del Dpr n. 223/1989, che
identifica la residenza anagrafica nel luogo
dove si ha la dimora abituale”.
Presso ogni Consiglio dell’Ordine regionale è
istituito - dice l’articolo 26 della legge n.
69/1963 - l’Albo dei giornalisti che hanno la
residenza nel territorio compreso nella circoscrizione del Consiglio. La residenza, quindi,
determina l’appartenenza a un determinato
Albo. L’articolo 16 della legge n. 526/1999
equipara residenza e domicilio professionale.
Chi, comunque, “ha la dimora abituale” (per
ragioni di stabile occupazione lavorativa) in
un dato centro ha l’obbligo giuridico di fissarvi la sua residenza anagrafica (articolo 3,
prima comma, del Dpr n. 223/1989 in relazione all’articolo 43 del Codice Civile) anche
per far fronte ai suoi obblighi fiscali (addizionale regionale ed eventualmente comunale,
tassa rifiuti, Irap, Ici, bollo automobilistico).
L’articolo 43 del Codice civile fissa il domicilio di una persona “nel luogo in cui essa ha
stabilito la sede principale dei suoi affari e
interessi”, mentre “la residenza è nel luogo
in cui la persona ha la dimora abituale”.
L’articolo 3 del Dpr n. 223/1989 (“popolazione residente”) afferma: “1. Per persone residenti nel comune s’intendono quelle aventi
la propria dimora abituale nel comune. 2.
Non cessano di appartenere alla popolazione residente le persone temporaneamente
dimoranti in altri comuni o all’estero per
l’esercizio di occupazioni stagionali o per
causa di durata limitata”. La giurisprudenza
sulla residenza è eloquente: “Ai sensi
dell’art. 43 comma 2, c.c. e dell’art. 3 Dpr. 30
maggio 1989 n. 223, la residenza come
dimora abituale, cioè stabile, è data dall’elemento oggettivo della permanenza in un
dato luogo, la quale non è incompatibile con
eventuali allontanamenti, mentre è irrilevante la mera intenzione, sganciata dal dato di
fatto, di scegliere altro luogo di residenza
(nella specie, mantenendo ivi consuetudini e
rapporti sociali)” (Tar Valle d’Aosta, 20
novembre 1995, n. 172; Riviste: Foro Amm.,
1996, 1312).
La vicenda solleva, infine, questioni di grande profilo:
A. Il nuovo articolo 119 della Costituzione
stabilisce che “I Comuni, le Province, le Città
metropolitane e le Regioni hanno risorse
autonome... stabiliscono e applicano tributi
ed entrate propri.... dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al
loro territorio”. Pertanto Comuni, Province,
Città metropolitane e Regioni avranno
compartecipazioni al gettito dei tributi erariali
in rapporto al numero dei cittadini residenti
nel loro territorio. Conseguentemente la
mancata iscrizione nelle liste dei cittadini
residenti comporterà un danno alle entrate
di Comuni, Province, Città metropolitane e
Regioni,
B. Chi, lavorando in Lombardia, mantiene la
residenza (fittizia) altrove, elude non solo l’articolo 119 della Costituzione e l’articolo 43
del Codice Civile quant’anche l’articolo 25 (I
comma) della Costituzione: il suo giudice
disciplinare naturale è innegabilmente il
Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della
Lombardia.
C. È da considerare anche l’opportunità che
il rapporto del giornalista venga mantenuto
con l’Ordine regionale o interregionale ove
viene esercitata la professione, anche per
stabilire comunque una relazione oggettiva
tra il singolo giornalista e la sua attività;
D. Tutti i cittadini “hanno il dovere di essere
fedeli alla Repubblica e di osservare la
Costituzione e le leggi” (articolo 54 Cost.).
È evidente il significato della delibera 5 luglio
2002 del Cnog: ogni giornalista può ancorare l’appartenenza all’Albo sia in base alla
residenza e sia in base al domicilio professionale, ma non può non collocare la sua
residenza nella città dove abbia la dimora
abituale.
L’art. 13-ter, comma 2, del Tuir – norma
varata dal Parlamento nel 2000 – non fa
che incoraggiare la regolarizzazione delle
posizioni anomale, che tra i giornalisti
sono tante.
O.T.
Conciliazione: non si pagano tasse
se si pattuisce una “somma netta”
Il patto con cui si obbliga l’azienda a versare
al dipendente, in base ad una conciliazione,
una “somma netta” è valido e non consente
l’applicazione della ritenuta fiscale sull’importo convenuto. Non si configura una violazione
della normativa tributaria (Cassazione Sezione Lavoro n. 16312 del 19 novembre 2002,
Pres. Trezza, Rel. Celentano).
Sotero P., ex dipendente della s.r.l. Valaf, dopo
avere iniziato una controversia di lavoro nei
confronti dell’azienda, l’ha conciliata davanti
al Pretore di Latina, sottoscrivendo un verbale, con il quale la società si è obbligata a corrispondergli, in più rate, “la somma netta omnicomprensiva di lire 250.000.000”. Successivamente il lavoratore ha ceduto il credito risultante dalla conciliazione a Cataldo P., notificando la cessione alla debitrice.
La Valaf, dopo avere versato alcune rate, ha
comunicato all’ex dipendente e al cessionario
del credito che essa intendeva operare, sulle
somme dovute, la ritenuta d’acconto per Irpef
in misura del 10 per cento.
Essa ha quindi versato all’Erario venticinque
milioni di lire, trattenendo l’importo su quanto
dovuto in base al verbale di conciliazione.
ORDINE
2
2003
Cataldo P. ha promosso nei confronti della
Valaf un’azione esecutiva, notificandole un
precetto di pagamento per il complessivo
importo di lire 25.837.500 (di cui 25.000.000
per sorte) e procedendo quindi ad un pignoramento presso tre istituti di credito.
La società ha proposto opposizione all’esecuzione, davanti al Pretore di Latina, sostenendo
di avere dovuto operare la ritenuta in esecuzione di un preciso obbligo di legge. Cataldo P.
si è difeso sostenendo che l’accordo formalizzato con il verbale di conciliazione prevedeva
a carico dell’azienda l’obbligo di corrispondere
la somma di 250 milioni al netto di imposte e
tasse. Il Pretore, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha rigettato l’opposizione. Questa decisione è stata integralmente riformata, in grado
di appello, dal Tribunale di Latina, che ha
dichiarato l’inefficacia del pignoramento per
inesistenza delle pretesa creditoria.
Il Tribunale ha ritenuto nullo il “patto di netto”
perché contrastante con le norme di legge
imperative vigenti in materia tributaria. Cataldo P. ha proposto ricorso per cassazione
censurando la sentenza del Tribunale per
violazione di legge. La Suprema Corte ha
accolto il ricorso, in quanto ha ritenuto che il
Tribunale abbia violato i criteri previsti dalla
legge nell’interpretazione dell’accordo risultante dal verbale di conciliazione. Motivando
la sua decisione, la Suprema Corte ha affermato quanto segue: «La espressione oggetto
di contrasto, così come riportata in sentenza,
è la seguente: “la società Valaf offre al Pannone la somma netta onnicomprensiva di lire
250.000.000”.
Correttamente i giudici di appello rilevano che
il tenore letterale della espressione “somma
netta”, anche alla luce dell’importo dei singoli
pagamenti concordati (51.000.000 contestualmente all’accordo, 49.000.000 a mezzo assegno bancario, 150.000.000 in quattro rate
mensili di pari importo), altro non poteva significare che al signor Sotero P. dovesse essere
versata tutta la ricordata somma di lire
250.000.000, il che non sarebbe avvenuto se
su tale cifra fosse stata trattenuta dalla società
la ritenuta di imposta del 10%.
Hanno però ritenuto che tale risultato fosse
stato perseguito con la pattuizione (implicita)
che il peso tributario della ritenuta, da operarsi a titolo di acconto dell’imposta sul reddito
delle persone fisiche, dovesse restare a carico della società per effetto di un illecito esonero dall’obbligo di rivalsa, obbligo sancito
dall’art. 64 del Dpr n. 600/73. Il Tribunale non
dà conto, però, delle ragioni per le quali ha
ritenuto che si fosse in presenza di un tale
patto, indubbiamente nullo ove fosse stato
realmente stipulato (Cass., 19 giugno 1987 n.
5422), e non fosse, invece, consequenziale a
quanto osservato, che la somma di
250.000.000 era “netta”, in contrapposizione
ad una somma “lorda” superiore, non indicata
ma tale che, detratta la obbligatoria ritenuta di
imposta del dieci per cento, al lavoratore residuasse, appunto, il ricordato importo netto di
250.000.000 (secondo la semplice proporzione 250.000.000 : x == 90 : 100). Il criterio della
interpretazione letterale, tenuto conto dei
termini netto e lordo, risulta violato, così come
priva di motivazione è la ritenuta sussistenza
di un illecito patto di esonero dalla rivalsa, non
esplicitato, da quanto risulta dalla sentenza,
in nessuna parte della transazione (nel
mentre lo stesso risultato poteva esser
raggiunto senza far ricorso ad alcuna illecita
pattuizione)».
7
Chi è tenuto (e chi no)
ad iscriversi alla gestione separata
“I compensi derivanti
dall’utilizzazione di opere
tutelate dalle norme
sul diritto d’autore continuano
a costituire redditi di lavoro
autonomo e vanno qualificati,
ai fini fiscali,
come diritto d’autore”
ricerca di Franco Abruzzo
presidente OgL
La Sezione lavoro della Cassazione (sentenza 1°
giugno 1998, n. 5370) ha ritenuto applicabile la tutela
del diritto d’autore all’opera giornalistica. La massima
giurisprudenziale suona così: “Può qualificarsi come
giornalistica l’opera svolta in favore di editori di quotidiani e periodici, di agenzie d’informazione o di emittenti
televisive, ove esplicata con energie prevalentemente
intellettuali e consistente nella raccolta, elaborazione o
commento della notizia destinata a formare oggetto di
comunicazione di massa; tale opera si distingue da
quelle collaterali o ausiliarie per la creatività, ossia per la
presenza, nella manifestazione del pensiero finalizzata
all’informazione, di un apporto soggettivo e inventivo,
secondo i criteri desumibili anche dall’art. 2575 c.c. e
Ministero delle Finanze
Circolare 26 gennaio 2001
n. 7/E
Risposte ai quesiti formulati in occasione della
videoconferenza del 18
gennaio 2001 in materia
di Irpef e Iva.
5. Collaborazioni coordinate e continuative.
5.1 Redditi derivanti
dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno.
D. I redditi di lavoro autonomo derivante dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno da parte dell’autore non conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali (articolo 49, comma 2,
lettera b) del D.P.R. n. 917
del 1986), dichiarati fino
all’anno scorso nel rigo RE
29, continueranno ad essere dichiarati allo stesso
modo o, a partire dal 2001,
saranno ricompresi tra i
redditi assimilati a quelli di
lavoro dipendente alla luce
delle modifiche relative alle
collaborazioni coordinate e
continuative apportate con
legge 21 novembre 2000 n.
342?
R. L’articolo 34 della legge
21 novembre 2000, n. 342,
tramite l’inserimento della
lettera c-bis) nell’articolo 47
del Tuir (D.P.R. n. 917 del
1986) e la soppressione di
alcune disposizioni, ha modificato il regime fiscale
delle collaborazioni coordinate e continuative in precedenza assimilate dalla lettera a) dell’articolo 49, ai
redditi di lavoro autonomo.
Tali modifiche non hanno
interessato la lettera b)
dell’articolo 49 del Tuir concernente i compensi derivanti dall’utilizzazione di
opere e invenzioni tutelate
dalle norme sul diritto d’autore.
Tali compensi pertanto
continuano a costituire redditi di lavoro autonomo.
……..
Ministero delle Finanze
Circolare 3 maggio 1996
n. 108/E.
Risposte a quesiti in materia di imposte sui redditi,
Iva, imposta di registro e
tasse sulle concessioni governative.
Alla Direzione regionale
delle entrate
Agli Uffici delle entrate
Agli Uffici del registro
Agli Uffici distrettuali delle imposte dirette
Agli Uffici dell’imposta sul
valore aggiunto
Ai Centri di servizio delle
imposte dirette ed indirette
Alle Direzioni centrali del
dipartimento delle entrate
Alla Direzione generale
degli affari generali e del
personale
Al Segretario generale
Al Servizio per il controllo
interno
Al Servizio consultivo ed
ispettivo tributario
Al Comando generale
della Guardia di Finanza
DIRITTO
D’AUTORE
E
INPGI
I giornalisti-autori non sono
Lo dicono Cassazione e Mi
dall’art. 1 l. n. 633 del 1941 in materia di protezione delle
opere dell’ingegno, letterarie e artistiche”.
Circolare 26 gennaio 2001 n. 7/E del ministero delle
Finanze: “L’articolo 34 della legge 21 novembre 2000,
n. 342, tramite l’inserimento della lettera c-bis) nell’articolo 47 del Tuir. (Dpr. n. 917 del 1986) e la soppressione di alcune disposizioni, ha modificato il regime fiscale
delle collaborazioni coordinate e continuative in precedenza assimilate dalla lettera a) dell’articolo 49, ai
redditi di lavoro autonomo. Tali modifiche non hanno
interessato la lettera b) dell’articolo 49 del Tuir concernente i compensi derivanti dall’utilizzazione di opere e
invenzioni tutelate dalle norme sul diritto d’autore. Tali
compensi pertanto continuano a costituire redditi di
lavoro autonomo”. Il ministero delle Finanze in data
30 gennaio 1996 aveva precisato che quando la collaborazione resa a giornali o riviste ha per oggetto la
cessione di un’opera dell’ingegno tutelata dalle norme
sul diritto d’autore, il corrispondente provento va qualificato, ai fini fiscali, come diritto d’autore. In sostanza la
cessione dei diritti fa “zona franca”. Anche le collaborazioni occasionali escludono l’adesione all’Inpgi/2.
Non sono inquadrabili come cessione dei diritti d’autore
l’attività di “persone che si limitano a fornire alla redazione del giornale notizie utili per la redazione dell’articolo” (risposta del ministero delle Finanze contenuta
nella circolare n. 108/E del 3 maggio 1996) e la stesura
di notizie, di “brevi” o di articoli legati al racconto di fatti
di cronaca, che non richiedano elaborazione critica o
approfondimenti particolari. Vengono segnalati contratti
che mascherano con la cessione dei diritti d’autore
prestazioni redazionali espresse anche con articoli e
servizi giornalistici.
7. Redditi di lavoro autonomo.
7.1 Compensi pagati agli
autori di articoli da parte
di giornali e riviste
49, comma 2, lett. b), del
Tuir, mentre gli altri casi
rientrano tra i redditi di cui
all’art. 49, comma 2, lett. a).
………………………
D. I compensi pagati dai
quotidiani e dalle riviste agli
autori di articoli (quindi di
opere protette dal diritto
d’autore) devono essere
trattati come proventi da
collaborazioni coordinate e
continuative (art. 49, comma 2, lett. a), del Tuir) o
come proventi per l’utilizzo
dell’opera dell’ingegno (art.
49, comma 2, lett. b), del
Tuir)?
Parere della Direzione
delle entrate per la
Lombardia:
“Tutte le volte che si
realizza la cessione di
un’opera dell’ingegno di
carattere creativo, tutelata
e disciplinata dagli articoli 2575 e seguenti del
Codice civile e dalla legge
22.4.1941 n. 633, il relativo
compenso
costituisce
reddito rientrante nella
previsione dell’articolo 49,
comma 2, lettera b, del
Tuir”. L’argomento è stato
affrontato nel gennaio 1996
dall’Ordine della Lombardia.
Allora il rischio era quello di
dover versare il 10% all’Inps.
La legge sul diritto d’autore
(n. 633/1941) apparve l’ancora di salvezza.
L’Ordine raccomandò: “La
cessione dei diritti d’autore
(articolo, servizio giornalistico o fotografico, progetto
grafico) deve risultare da
una contrattazione scritta
tra le parti (articolo 2581 del
Codice civile e articolo 110
della legge sul diritto d’autore n. 633/1941)”.
Successivamente il dottor
Giuseppe Conac, direttore
regionale delle entrate per
la Lombardia, ha risposto al
quesito che il presidente
dell’Ordine dei giornalisti
della Lombardia, gli aveva
posto il 12 febbraio 1996
sulla “qualificazione fiscale
del reddito derivante da
cessioni di opere dell’ingegno del giornalismo telecinefotografico e del giornalismo grafico”. La risposta è
allargata anche al giornalismo scritto (cioè ai giornalisti autori di articoli e servizi). Questa la nota del dottor
Conac:
«Codesto Ordine ha chiesto
di conoscere la qualificazione fiscale del reddito derivante dalla cessione di
un’opera dell’ingegno nel
settore del giornalismo telecinefotografico e del giornalismo grafico. In particolare
viene chiesto di conoscere
se tale reddito possa rientrare nelle previsioni di cui
alla lettera b, comma
secondo, dell’articolo 49 del
Tuir (Testo unico imposte
dirette, ndr).
Tale disposizione contiene
una elencazione di diritti su
beni immateriali, dalla cui
cessione derivano al titolare (autore o inventore)
redditi che si considerano di
lavoro autonomo, sempre
che tali diritti non costituiscano beni relativi ad
impresa.
Il ministero delle Finanze,
per quanto attiene gli articoli redatti da giornalisti, in
occasione della teleconferenza tenutasi il 20.1.1996,
ha precisato che dalla loro
cessione ad editori di giornali e riviste, derivano
redditi qualificabili come
cessione di diritti d’autore,
quando ricorrano tutte le
condizioni previste dagli
articoli 2575 e seguenti del
Codice civile e dalla legge
22.4.1941 n. 633, che
R. Nell’ambito della redazione di articoli occorre
distinguere l’ipotesi in cui
viene ceduta un’opera
dell’ingegno, la cui riproduzione sia tutelata dalle
norme sul diritto d’autore
(art. 2575 del codice civile
e legge n. 633 del 1941),
da quella in cui si instaura
un rapporto di collaborazione a giornali e riviste in
relazione al quale l’oggetto
complessivo della prestazione esula dalla disciplina
relativa alla tutela del diritto
d’autore, quale o, ad esempio, l’ipotesi dei correttori di
bozze o delle persone che
si limitano a fornire alla
redazione del giornale notizie utili per la redazione
dell’articolo.
È soltanto nella prima ipotesi che il reddito derivante
dalla redazione di articoli
elaborati dall’autore può
essere considerato rientrante tra i redditi di cui all’art.
disciplinano e tutelano il
diritto d’autore. Si ricorda in
particolare, che la cessione
del diritto d’autore deve
risultare da una contrattazione scritta tra le parti
(articolo 2581 Codice civile
e articolo 110 della legge n.
633/1941).
A parere di questa Direzione, conformemente a quanto affermato dal ministero
delle Finanze, tutte le volte
che si realizza la cessione
di un’opera dell’ingegno di
carattere creativo, tutelata e
disciplinata dalle precitate
norme, il relativo compenso
costituisce reddito rientrante nella previsione dell’articolo 49, comma 2, lettera b,
del Tuir.
Considerato che l’articolo
2575 Codice civile prevede
che formano oggetto del
diritto d’autore le opere
dell’ingegno di carattere
creativo, “qualunque ne sia
il modo o la forma di espressione”, si ritiene che gli stessi criteri siano applicabili alle
cessioni delle opere dell’ingegno del giornalismo telecinefotografico, prescindendo dal tipo di supporto utilizzato (pellicola cinematografica, piuttosto che pellicole
fotografiche o supporto
cartaceo semplice).
Anche per il giornalismo
grafico, si ritiene che si
possa
configurare
la
cessione del diritto d’autore
tutte le volte in cui oggetto
della cessione sia un’opera
originale e creativa, la cui
riproduzione sia tutelata
dalle specifiche norme
sopra richiamate».
Conclusioni
I compensi a titolo di cessione di diritti d’autore costituiscono redditi di
lavoro autonomo ai sensi dell’articolo 49 (comma 2, lettera b) del Dpr n.
917/1986 e, come tali, ridotti del 25% (art. 50, comma 8, del Dpr n.
917/986), sono soggetti a ritenuta d’acconto del 20 % (art. 25 del Dpr n.
600/1973);
la ritenuta d’acconto del 20% si applica in sostanza sul 75% del compenso a titolo di cessione di diritti d’autore (art. 110 della legge 633/1941 e
art. 2581 del Codice civile);
i compensi collegati alla cessione di diritti d’autore vanno denunciati
fiscalmente nel Modello unico (Quadro E, Sezione II, Rigo 27);
8
chi cede i propri diritti sulle opere dell’ingegno (articoli, servizi giornalistici o fotografici, progetti grafici) non paga il 12% all’Inpgi-2. La legge
335/1995, il Dlgs 103/1996 e lo stesso Regolamento dell’Inpgi-2 escludono dalla gestione separata i “soggetti” che ricadono nel campo della
cessione dei diritti d’autore.
“La trasmissione dei diritti di utilizzazione deve essere provata per iscritto” (Articolo 110 della legge 633/1941 sul diritto d’autore).
Le circolari ministeriali e le delibere dell’Inpgi in contrasto con le leggi
sopra citate non possono correggere o cambiare le leggi stesse.
ORDINE
2
2003
Risposta delle Finanze:
deducibili i contributi
versati per il riscatto
degli anni di Università
“clienti” dell’Inpgi-2
nistero delle Finanze
Il ministero delle Finanze, con la circolare
26 gennaio 2001 n. 7/E, ha risposto ai quesiti formulati (con la videoconferenza del 18
gennaio 2001) in materia di Irpef e Iva. Il
ministero in particolare ha fatto chiarezza,
per quanto riguarda gli oneri deducibili, sui
contributi versati per il riscatto degli anni di
università. Ed ecco il testo del quesito e
della risposta:
D. Sono deducibili ai fini dell’Irpef i contributi
versati per il riscatto degli anni di università?
R. L’attuale versione della lettera e) dell’articolo 10 del Tuir (Dpr n. 917 del 1986), come
modificata dall’articolo 13 del decreto legislativo n. 47/2000, prevede la deducibilità
dal reddito, ai fini dell’Irpef, dei contributi
versati facoltativamente alla gestione della
forma pensionistica obbligatoria di appartenenza.
Tra i contributi in questione rientrano quelli versati facoltativamente per il riscatto
degli anni di università.
RISPOSTA DEL PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI DELLA LOMBARDIA ALL’UFFICIO LEGALE DELL’INPGI
Il Ministero competente ad emettere pareri è quello delle Finanze
Pubblichiamo integralmente la lettera che
Franco Abruzzo in data 30 dicembre 2002
ha indirizzato all’avvocato Elisabetta
Angelini, responsabile del Servizio legale
dell-Inpgi
Gentile Avvocato, ho letto la Sua lettera,
che, non se la prenda, ritengo destituita di
ogni fondamento giuridico. Le motivazioni del
mio giudizio, senz’altro drastico, sono quelle
esposte nello studio allegato a Lei ben noto.
Lei scrive che il ministero del Lavoro, in tema
di cessione dei diritti d’autore, ha approvato
“alcuni parametri” interpretativi “attraverso i
quali si possa stabilire quando la cessione
dei diritti d’autore sia legittima (e quindi non
sottoposta all’obbligo di contribuzione) e
quando, invece, costituisca un abuso e di
conseguenza una elusione dell’obbligo
previdenziale previsto dal legislatore”. I parametri – che sostanzialmente negano la
cessione dei diritti d’autore – sono quelli
suggeriti dall’Inpgi e accolti grazie alla
compiacenza di funzionari, che non conoscono (lo dico con amarezza) la materia.
Questi fatti mettono a dura prova la mia fiducia nello Stato e il mio senso dello Stato e
del dovere.
Le ricordo che in materia fiscale la competenza esclusiva (Dlgs n. 300/1999) è del
ministero dell’Economia e delle Finanze (il
quale sulla cessione dei diritti d’autore si è
già espresso con la circolare n. 108-E/1996
e anche attraverso le Direzioni regionali delle
entrate in maniera chiara e univoca) e che
sull’Ordine dei giornalisti (e sulla professione
giornalistica) vigila esclusivamente (Dlgs n.
300/1999) il ministero della Giustizia, abilitato a dare pareri sulla professione giornalistica.
La competenza del ministero del Lavoro è
fissata nell’articolo 3 (gestione) del Dlgs n.
509/1994. L’articolo 3 stabilisce quanto
segue:
“1. La vigilanza sulle associazioni o fondazioni di cui all’art. 1 è esercitata dal ministero del
lavoro e della previdenza sociale, dal ministero del tesoro, nonché dagli altri ministeri
rispettivamente competenti ad esercitare la
vigilanza per gli enti trasformati ai sensi
dell’art. 1, comma 1. Nei collegi dei sindaci
deve essere assicurata la presenza di rappresentanti delle predette Amministrazioni.
2. Nell’esercizio della vigilanza il ministero
del lavoro e della previdenza sociale, di
concerto con i ministeri di cui al comma 1,
approva i seguenti atti:
a) lo statuto e i regolamenti, nonché le relative integrazioni o modificazioni;
b) le delibere in materia di contributi e
prestazioni, sempre che la relativa potestà
sia prevista dai singoli ordinamenti vigenti.
Per le forme di previdenza sostitutive dell’assicurazione generale obbligatoria le delibere
sono adottate sulla base delle determinazioni definite dalla contrattazione collettiva
nazionale.
3. Il ministero del lavoro e della previdenza
sociale, di intesa con i ministeri di cui al
comma 1, può formulare motivati rilievi su: i
bilanci preventivi e i conti consuntivi; le note
di variazione al bilancio di previsione; i criteri
di individuazione e di ripartizione del rischio
nella scelta degli investimenti così come
sono indicati in ogni bilancio preventivo; le
delibere contenenti criteri direttivi generali.
Nel formulare tali rilievi il ministero del lavoro
e della previdenza sociale, d’intesa con i
ministeri di cui al comma 1, rinvia gli atti al
nuovo esame da parte degli organi di amministrazione per riceverne una motivata decisione definitiva. I suddetti rilievi devono essere formulati per i bilanci consuntivi entro
sessanta giorni dalla data di ricezione e
entro trenta giorni dalla data di ricezione, per
tutti gli altri atti di cui al presente comma.
Trascorsi detti termini ogni atto relativo
diventa esecutivo”.
Il comma 6 dell’articolo 2 dello stesso Dlgs
amplia drammaticamente la vigilanza del
ministero del Lavoro: “6. Nel caso in cui gli
organi di amministrazione e di rappresentanza si rendessero responsabili di gravi violazioni di legge afferenti la corretta gestione
dell’associazione o della fondazione, il ministro del lavoro e della previdenza sociale, di
concerto con i ministri di cui all’art. 3, comma
1, nomina un commissario straordinario con
il compito di salvaguardare la corretta gestione dell’ente e, entro sei mesi dalla sua nomina, avvia e conclude la procedura per rieleggere gli amministratori dell’ente stesso, così
come previsto dallo statuto”.
Nel dlgs n. 509/1994 (e nello Statuto della
Fondazione Inpgi) non c’è traccia (ovviamente) di competenza dell’Istituto nel campo della
cessione dei diritti d’autore anche perché
l’Inpgi-2 è nato nel 1996 (ex legge n. 335/1995
e dlgs 103/1996, previo parere del Cnog).
Chi denuncia entrate ancorate alla cessione
dei diritti d’autore ottiene dallo Stato un buon
trattamento (versa all’erario il 20% sul 75%
dei compensi). Il punto di vista dell’Inpgi
potrà essere accolto soltanto quando scomparirà dalla dichiarazione dei redditi il
Quadro E riservato appunto ai redditi da
cessione dei diritti d’autore ex legge n.
633/1941. L’Inpgi si dia da fare con il ministro
dell’Econonia e delle Finanze, perché il
Quadro E venga abolito. In tal caso le argomentazioni da Lei sostenute potrebbero
trovare cittadinanza nel sistema giuridico
italiano.
L’Ordine di Milano ha una storia trentacinquennale limpida sul terreno della lotta al
“lavoro nero” e all’abusivato. Non sono inquadrabili come cessione dei diritti d’autore l’attività di “persone che si limitano a fornire alla
redazione del giornale notizie utili per la
redazione dell’articolo” (risposta del ministero delle Finanze contenuta nella circolare n.
108/E del 3 maggio 1996) oppure la stesura
di notizie o di brevi. Vengono segnalati da più
parti contratti che mascherano con la cessione dei diritti d’autore prestazioni redazionali
espresse anche con articoli e servizi giornalistici. Sono e mi ritengo impegnato personalmente nella repressione di tali abusi.
Trovo illegittimo e riprovevole adombrare un
rischio civilistico per la collega Righetti, che
difende la risorsa della cessione dei diritti
d’autore. Resta inteso che do pareri e che
non costringo nessuno a seguire i miei pareri. Il diritto di critica è costituzionalmente
garantito. Spero che nei piani alti e bassi
(Uffici regionali) dell’Inpgi il diritto di critica
sia almeno …tollerato.
La rimando alla lettura critica del mio saggio.
Non me ne voglia. So che Lei è una persona
civilissima e preparata. Sono abituato a
difendere con ragionevolezza i miei punti di
vista.
Le auguro un 2003 sereno con l’auspicio che
in futuro non sia chiamata a difendere posizioni indifendibili. Cordiali saluti,
Il presidente dell’OgL
dott. Franco Abruzzo
di Mario Fezzi, avvocato in Milano
CONTRATTO E DIRITTO
In quali casi un giornalista può subire sanzioni disciplinari, e quali?
Un’importante novità contenuta nel recente rinnovo
contrattuale riguarda l’introduzione di un regolamento di
disciplina: infatti, precedentemente il Cnlg era privo di un
codice disciplinare.
Il nuovo regolamento di disciplina, dopo aver disposto che
il giornalista è tenuto al
rispetto degli obblighi di diligenza e di fedeltà, contempla
anche alcune sanzioni disciplinari e le infrazioni che, se
commesse dal giornalista,
possono giustificarle. In
primo luogo, è previsto il
rimprovero verbale, che può
essere applicato nelle ipotesi
di infrazioni lievi e, comunque, in caso di inosservanza
degli obblighi previsti dall’art.
7 Cnlg (sostanzialmente, si
tratta della violazione del
rispetto dell’orario di lavoro).
Il rimprovero scritto, invece,
può essere inflitto nel caso di
recidiva di un’infrazione già
punita con il rimprovero
verbale, olre che nel caso di
mancata comunicazione di
un’assenza, senza giustificato motivo.
ORDINE
2
2003
È poi contemplata la multa
(che, ai sensi dell’art. 7 dello
Statuto dei Lavoratori, non
può eccedere l’importo corrispondente a quattro ore
della retribuzione base), che
può essere inflitta in caso di
gravi recidive nelle infrazioni
di cui si è già detto a proposito del rimprovero verbale e
scritto. Sembra di capire che
intanto la recidiva possa
essere definita grave, in
quanto la stessa sia ripetuta:
in buona sostanza, l’infrazione lieve dà luogo al rimprovero verbale; alla prima recidiva di questa infrazione,
potrà scattare il rimprovero
scritto; alla seconda recidiva
l’editore potrà applicare la
multa. Naturalmente, in caso
di mancata comunicazione
di un’assenza, che - come si
è visto - legittima il rimprovero scritto, sarà sufficiente
una sola recidiva per legittimare la multa.
Più grave è il caso della
sospensione dal lavoro e
dalla retribuzione, per un
massimo di cinque giorni.
Questa sanzione può essere
adottata a fronte di una violazione che, al contempo,
deve essere grave e ripetuta: in altre parole, per legittimare la sospensione non è
sufficiente un’infrazione grave, ma è anche necessaria
la recidiva. Tuttavia, sono
previste due infrazioni che, in
ogni caso e a prescindere
dalla recidiva, legittimano la
sospensione.
La prima riguarda l’uso di
strumenti aziendali per un
lavoro estraneo all’attività
lavorativa. Si deve ritenere
che la fattispecie ricorra in
casi di particolare gravità,
dato che la sanzione della
sospensione presuppone
comunque una grave infrazione (per esempio, un’unica
telefonata urbana per motivi
extra-lavorativi, o una fotocopia per motivi personali non
potranno mai essere considerate infrazioni che legittimino la sospensione). La
seconda ipotesi è il danneggiamento di notevole entità
del materiale aziendale,
avvenuto per colpa grave: è
dunque necessario che il
danno sia di notevole entità
e che sia stato procurato non
per semplice distrazione.
Infine, è contemplata l’ipotesi del licenziamento. A tale
riguardo, il Regolamento
innanzi tutto richiama la
legge n. 604/1966 e, dunque, il giornalista può essere
licenziato per giusta causa o
per
giustificato
motivo
soggettivo, ovvero per notevoli inadempimenti degli
obblighi contrattuali.
Inoltre, è previsto che possa
soggiacere alla sanzione del
licenziamento il giornalista
che violi l’art. 8 Cnlg.
In ogni caso, non si può
mancare di rimarcare la
genericità del Regolamento.
In particolare, come si è
visto, non vengono indicate
con sufficiente chiarezza (a
parte alcuni e sporadici casi
specifici) le infrazioni disciplinari e la sanzione conseguentemente applicabile: a
tale riguardo, di regola si fa
generico riferimento alle in-
frazioni, che vengono semplicemente definite lievi o
gravi, ma senza indicare
quando concretamente una
infrazione debba rientrare
nell’una o nell’altra categoria.
Per di più, non viene neppure fornita una casistica sufficientemente dettagliata, tale
da fornire un parametro di
riferimento per stabilire la
sanzione applicabile per
un’infrazione non espressamente contemplata.
Spettanze di fine rapporto: l’auto
Il valore dell’uso e della disponibilità
anche a fini personali di un’autovettura,
concessa al lavoratore come beneficio,
ha natura retributiva. Dev’essere perciò
computato nelle spettanze di fine
rapporto.
Il valore dell’uso e della disponibilità, anche
a fini personali, di una autovettura concessa
contrattualmente dal datore al prestatore di
lavoro come beneficio in natura, anche indipendentemente dalla sua effettiva utilizzazione, rappresenta il contenuto di una obbligazione che, ove pure non ricollegabile ad una
specifica prestazione, è idonea ad essere
considerata di natura retributiva, con tutte le
relative conseguenze, se pattiziamente inserita nella struttura sinallagmatica del contratto di lavoro cui essa accede.
Sicché va ritenuto che il controvalore in
danaro dell’uso personale dell’autovettura,
concesso appunto in rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa, dev’essere
computato nella base di calcolo delle indennità di fine rapporto (Cassazione Sezione
Lavoro n. 16129 del 15 novembre 2002,
Pres. Trezza, Rel. Mercurio).
9
La questione riguarda tutte le redazioni della Mondadori di Segrate
Le ferie sono irrinunciabili
e non possono essere monetizzate
1
Abruzzo al Cdr Mondadori:
“Le ferie sono irrinunciabili
e non possono essere
monetizzate”
2
Fezzi:
“Molto diverso il caso
di arretrati patologici
di ferie”
3
Abruzzo:
“Fare le ferie nell’anno
significa anche
avere organici adeguati”
Milano 19 dicembre 2002
Da Franco Abruzzo al Cdr della Mondatori
(e all’avv. Mario Fezzi)
Milano, 20 dicembre 2002
Da Mario Fezzi
a Franco Abruzzo
Milano 20 dicembre 2002
Avv. Mario Fezzi - Milano
p.c.: Cdr della Mondadori- Segrate
Cari colleghi, ho appreso, con grande stupore, che nella
vostra azienda esiste un accordo in base al quale i redattori
sono costretti a vendere o a monetizzare le ferie arretrate.
Un accordo simile è una bestemmia giuridica, perché è in
radicale contrasto con l’articolo 36 della Costituzione: “...Il
lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie
annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Vi fate forti,
pare, di un parere dell’avv. Mario Fezzi. Non credo che l’amico Fezzi - che mi legge in copia - possa condividere un protocollo, il quale, in contrasto con la legge fondamentale della
Repubblica, è da considerare nullo. Ho lavorato per 19 anni
a Il Sole 24 Ore: i redattori della testata di via Lomazzo
possono, se vogliono, monetizzare un minimo di 15 giorni di
ferie arretrate. È un’altra cosa!!!!
Vi saluto con cordialità e vi auguro Buon Natale e un sereno
2003. E vi auguro, se mi consentite, di non seguire i brutti
esempi romani (parlo dell’ultimo infausto contratto) e di far
vincere sempre la nostra Costituzione.
Franco Abruzzo,
presidente OgL
Caro Franco, ho riletto questa mattina l’accordo Mondadori
sulle ferie e, una volta tanto, non sono così d’accordo con te.
L’accordo infatti non prevede tout court una monetizzazione
delle ferie arretrate, ma specifica che le ferie non godute al
31 dicembre potranno essere godute nell’arco dell’anno
successivo; solo al termine dell’anno successivo, in caso di
mancato godimento (ma è sufficiente godere nel 2003 le ferie
2002 e non quelle dell’anno in corso per evitare la monetizzazione), le ferie vengono monetizzate.
Non mi pare che ci sia una violazione dei principi costituzionali in questa previsione contrattuale. Le ferie, per legge
e per Costituzione, debbono servire al recupero psico-fisico dell’individuo, e debbono essere godute e non monetizzate. Ma molto diverso è il caso di arretrati patologici di
ferie non godute: l’accordo Mondadori di queste si occupa,
non delle ferie annuali. L’ultimo capoverso dell’accordo poi
prevede lo smaltimento delle ferie arretrate in 4 anni, con il
solo pagamento di un quarto subito e la possibilità di godere di tutte le altre ferie residue o di ottenerne la monetizzazione.
Possiamo forse discutere la bontà dell’accordo sul piano
sindacale (ma mi pare di avere capito che in cambio sono
state ottenute significative migliorie), ma non mi pare
proprio che possa dirsi che si tratta di una violazione delle
norme costituzionali, che si avrebbe invece sicuramente
se le ferie annuali venissero monetizzate anno per anno e
il giornalista non potesse mai ristorare le proprie energie.
Cari saluti.
Mario Fezzi
Caro Mario, conosco l’accordo Ame. Contesto che ci possa
essere un protocollo aziendale che preveda, comunque, il
pagamento obbligatorio e rigido delle ferie non godute anche a
distanza di anni. Il mio no nasce dall’articolo 36 (in relazione al
32: salute) della Costituzione e ha come sfondo questioni sindacali di grande profilo: anche in Mondadori accade che molti
direttori non consentano ai loro redattori di fare le ferie nell’anno. Il problema di “fare le ferie nell’anno” trascina quello degli
organici e delle sostituzioni a termine: se tutti fanno le ferie,
distribuite di massima tra maggio e ottobre di ogni anno, allora
si porrebbe il problema di assumere un certo numero di disoccupati. Tale politica, come sai, non piace agli editori. Ed è strano che piaccia a certi sindacalisti. Gli “arretrati patologici di ferie
non godute”, ai quali tu fai cenno, si formano proprio non sorvegliando – come sarebbe doveroso da parte dei Cdr – il godimento tempestivo delle ferie. La mia visione del sindacato è
che lo stesso debba essere conflittuale: non si può cedere sui
principi fondamentali per conseguire un po’ di apparenti vantaggi e supposte migliorie. Di cedimento in cedimento, come è
avvenuto con l’ultimo contratto, andiamo tutti alla malora e
siamo deboli sul fronte dei valori fondamentali della professione
(dignità della professione, giornalismo d’inchiesta, sbarramento
alla commistione pubblicità/informazione, diritto alla firma, ruolo
degli inviati, difesa dei soggetti deboli). Anche per gli avvocati
bravi come te sta diventando sempre più difficile difendere i
diritti dei giornalisti. Ferie e salute camminano di pari passo. Il
modello appena appena accettabile è quello del Sole 24 Ore.
Cordiali saluti e auguri,
Franco Abruzzo
4
La Mondadori ci ripensa:
i giornalisti possono
chiedere la sospensione del
pagamento e il godimento
delle ferie arretrate entro
il 31 maggio 2003
Sentenza della Sezione
lavoro della Cassazione
Segrate, 20 dicembre 2002
Alla cortese attenzione del CdR Gruppo Mondadori
(comunicazione urgente da inoltrare a tutti i giornalisti dipendenti)
Sulla base delle richieste ricevute in questi giorni dai giornalisti a proposito delle ferie arretrate al 31 dicembre 2001, che
saranno poste in liquidazione unitamente alle spettanze del
mese di febbraio 2003, si precisa quanto segue:
tutti i giornalisti che non intenderanno ricevere compensi di
liquidazioni relativi al numero di giorni di ferie già indicati nella
comunicazione allegata allo stipendio ricevuto in data odierna, potranno, entro e non oltre il 14 febbraio, inoltrare all’attenzione della Direzione di testata e della Direzione del
personale una domanda indicante:
1. richiesta di sospensione della liquidazione del primo dei
quattro ratei delle ferie arretrate;
2. indicazione del numero di giorni di ferie che intendono
smaltire e che dovranno essere goduti entro e non oltre il
31 maggio 2003, compatibilmente con le esigenze organizzative delle singole testate.
Le domande avranno bisogno di essere accompagnate da un
visto di approvazione delle rispettive Direzioni per divenire
operative. Qualora, nonostante lo smaltimento indicato fino al
31 maggio 2003, residuassero ulteriori giorni di ferie questi
saranno posti in liquidazione unitamente alle competenze del
mese di giugno 2003. Tutti i giornalisti che non inoltreranno
comunicazioni diverse saranno liquidati nel mese di febbraio
2003 e non più a gennaio a causa di questo slittamento.
Restano inalterate tutte le altre disposizioni relative alle ferie
già indicate nell’accordo integrativo del 27.2.2002.
Cordiali saluti.
Direzione del personale
Vito Ribaudo
10
Il lavoratore che non abbia goduto delle ferie
ha diritto anche al risarcimento del danno
Il lavoratore che non abbia goduto delle ferie ha diritto, oltre
che all’indennità sostitutiva, avente natura retributiva, al
risarcimento del danno per la perdita di “cura” personale,
familiare e sociale. L’indennità dovuta al lavoratore per ferie
non godute ha natura retributiva e non risarcitoria. Il mancato godimento delle ferie comporta, infatti, la prestazione di
attività lavorativa contrattualmente non dovuta ed irreversibilmente prestata. Poiché il datore di lavoro non può restituire l’indebita prestazione ricevuta egli è obbligato, in base
agli articoli 1463 e 2037 cod. civ., al pagamento di una
somma, corrispondente alla retribuzione, che costituisce
l’indennità sostitutiva. Oltre che a questa somma il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno per la lesione del suo
diritto al godimento delle ferie, in termini di perdita di
“cura”personale (energie psico-fisiche e tempo libero) familiare e sociale. Per realizzare questo diritto egli deve tuttavia dare la prova del danno. Da tale risarcimento il datore di
lavoro può essere esonerato ove provi che il suo inadempimento sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cassazione
Sezione Lavoro n. 15776 del 9 novembre 2002, Pres. Sciarelli, Rel. Cuoco).
ORDINE
2
2003
La protagonista della vicenda editoriale “colpevole” di aver chiesto il riconoscimento del titolo di giornalista
Viaggio nell’inferno del mobbing
senza mai arrendersi
di Francesco De Bonis
Circola
in
Internet
un
volume
sul
mobbing
(www.geocities.com/ampavan). Il titolo è Mobbing e giustizia
assente, sino ad oggi ha registrato cinquemila contatti.
Leggere questo libro in un formato non certo agevole, quello
delle fotocopie e della stampa da computer, è comunque
estremamente interessante, perché è una sorta di viaggio
nell’inferno che ha per protagonista una redattrice editoriale
che ha la colpa di avere chiesto il riconoscimento del titolo di
giornalista e di non aver ceduto - mai - al crescendo delle
azioni di disturbo nei suoi confronti, nel tentativo di eliminare
una lavoratrice indubbiamente scomoda o anche solo in
esubero.
L’azienda è la Mondadori Editore, della sede staccata di
Verona, dove si stampano i libri per ragazzi e i periodici. La
sintesi di ciò che le è accaduto, in un arco di tempo di sedici
anni, ha attinenza, al di là della certezza di dove si collochi la
verità dei fatti, principalmente con la privazione dei diritti. Ma
quel che è altrettanto grave, è che ha a che fare con l’annullamento di ogni potenzialità creativa ed espressiva, cui ogni
lavoratore ha diritto e che, alla fine, tutto questo è un sopruso che lede profondamente (e talvolta irrimediabilmente) la
dignità e anche la salute della persona. Con il mobbing viene
meno quel delicato e complesso rapporto di fiducia che
dovrebbe essere la base di una relazione di lavoro tra un
dipendente e l’azienda stessa e su cui si basa alla fine la
firma del contratto di lavoro.
Il mobbing, che in Italia colpisce un milione di persone ed è
considerato tra le principali cause dell’ assenteismo da
stress, non è una invenzione della stampa né una moda che
viene dall’America.
Mobbing è una parola inglese che letteralmente significa
“assalto di un gruppo ad un individuo”. In medicina del lavoro
indica una violenza psicologica, talvolta anche fisica, perpetrata sul posto di lavoro da parte dei colleghi o dei datori di
lavoro. È una somma di vessazioni e di azioni di disturbo,
create attraverso una complessa rete di accuse professionali, non veritiere o parzialmente vere, con l’aiuto di colleghi
compiacenti, ma anche di pettegolezzi, che hanno per obiettivo estromettere il lavoratore “scomodo”, distruggendolo
psicologicamente e socialmente, incrinandone la sicurezza
in modo da provocarne il licenziamento o indurlo alle dimissioni. Il mobbing sfocia spesso in disturbi e vere e proprie
malattie anche gravi, che vanno dagli attacchi di panico ai
disturbi cardiovascolari, ai dolori muscolari e scheletrici sino
alla depressione, con tutto quello che questa sindrome può
portare con sé.
Descrivere un caso di mobbing in prima persona richiede
coraggio e chiarezza per poter ripercorrere le tappe di offese
e vessazioni, separando le emozioni dai fatti e soprattutto
capendo dove si è incrinato il rapporto tra causa ed effetto,
cioè dove si colloca la linea di demarcazione tra accuse e
colpe che vengono mosse al lavoratore vittima di queste
azioni.
L’autrice di questo libro, che è anche la protagonista, ha
condensato in un centinaio di pagine la sua complessa
storia, un emblematico caso di mobbing con tutte le sue zone
di chiaro e scuro sulle responsabilità di chi gestisce il potere.
…ma dove scappavo, dice Maria. L’editoria ce l’ho nel sangue
Anna Maria Pavan, 53 anni, veronese,
laureata in pedagogia, è cresciuta professionalmente nell’azienda più prestigiosa dell’editoria italiana.
La Pavan è ancora alla Mondadori, ma da
redattore dei libri per ragazzi è “finita” alle
Officine grafiche come addetta alla stampa,
non avendo ottenuto il contratto come giornalista nella sede che lei desiderava. Nel
corso di questi anni è stata anche trasferita
a Segrate, ma amando la sua terra, non è
riuscita a reggere né il peso né i costi della
trasferta quotidiana da Verona a Milano.
Oggi, grazie al suo impegno e alla passione
per la sua azienda, che mai ha perso, nonostante le difficoltà a cui è stata sottoposta, è
delegata nell’esecutivo delle rappresentanze
sindacali.
La sua è stata certamente una vittoria morale perché, come lei stessa spiega nella
premessa, “la professione non si estrinseca
solo esercitandola, ma anche difendendo la
propria dignità, perché anche il difendersi è
lavoro”. Contro il mobbing, dunque, il coraggio di denunciarlo è forse il primo basilare
antidoto per due motivi; il primo, per “non
morire dentro”, il secondo perché, come dice
un vecchio adagio, chi tace acconsente.
Lettere di richiamo
inviate dall’azienda
Tutto è iniziato nell’86, quando Anna Maria
Pavan era redattrice dei periodici per ragazzi
della Disney, nella sede distaccata di Verona. Un giorno rientrando dalle ferie ricevette
la prima di una serie di lettere di richiamo,
dove le comunicavano che aveva sbagliato
le didascalie sugli animali, invertendole, e
aveva “licenziato”, come si dice in gergo, le
ultime bozze, senza mettere le correzioni.
Invitata a chiarire, si prese un giorno di
sospensione, (“il sindacato a cui ero iscritta
diede cartabianca alla proprietà”). La Pavan
portò le prove che l’errore non era suo, ma
di un collaboratore esterno. Ma il sindacato
non l’appoggiò anche perché poteva così,
disfandosi di lei, fare due nuovi contratti di
formazione lavoro.
È l’inizio di una serie di lettere di richiamo, di
accuse su come lei aveva impostato il lavoro
editoriale, che peraltro svolgeva da anni,
senza aver ricevuto prima alcun appunto.
Fece ricorso in Pretura, dove le chiesero di
conciliare ma lei rifiutò. Dall’azienda fioccarono lettere di richiamo, richiami e umiliazioni di vario genere.
Dopo quindici giorni il sindacato dichiarò,
d’accordo con l’azienda, gli esuberi (e fece
estendere così la Cassa integrazione speciale della legge sull’editoria 67/87 dall’area
industriale anche alla casa di Verona) e la
Pavan finì in Cassa integrazione. Poco
prima, nell’88, quando la Mondadori perse la
ORDINE
2
2003
concessione della Walt Disney, Anna Maria
Pavan andò dal legale e si fece dare le sue
prove, cioè le cianografiche, e scoprì che le
ciano erano state vistate da un’altra persona. L’accusa era dunque pienamente infondata. Il girotondo delle azioni vessatorie
continuò senza tregua.
Scattano la paura
e il disorientamento
Come ha scritto A. Arendt in Le origini del
totalitarismo, edizioni Comunità, “si perde
dignità umana quando il trattamento subito
non dipende da quel che si fa o non si fa”.
C’è molto di questo nel mobbing, quando le
azioni di disturbo aumentano, accade che
non si capisce più che cosa accade e soprattutto perché.
Non è un caso, dunque, se molti casi di
mobbing sfociano inizialmente in disagi fisici
come l’attacco di panico. In più, la solidarietà
da parte dei colleghi viene a mancare ed è
comprensibile, anche se non giustificabile
moralmente, perché scatta la paura e il disorientamento, tutto diventa un rapporto di
forza sbilanciato a favore di chi ha il potere,
cioè dei capi che spesso tacciono o peggio
collaborano con le azioni vessatorie. Si creano così le premesse per ulteriori abusi di
potere, anche da parte di colleghi desiderosi
solo di approfittare del momento e di mettere in atto vendette personali.
Reintegro-lampo
durato due ore
Nel frattempo Anna Maria Pavan chiede
l’iscrizione come pubblicista all’Ordine di
Venezia e la ottiene. Chiede anche all’azienda gli arretrati dall’85 come redattore ordinario. Ma non li ottiene perché la Mondadori
sostiene che non li meritava in quanto il
periodico per cui aveva lavorato come redattore era stato dichiarato tale al Tribunale di
Milano per soli fini fiscali e che si trattava in
realtà di una collana di libri (e questo nonostante fosse registrato come periodico ordinario).
Il sindacato, come si evince dal racconto
della Pavan, è rigorosamente assente (il
legale della Cgil lo pagherà lei stessa), non
solo farà circolare la voce che l’iscrizione
altro non era che uno scambio per un prelicenziamento. Isolata e con il morale a pezzi,
la Pavan viene reintegrata in redazione per
due ore poi subito spedita a casa, perché
non c’era lavoro.
Dopo una settimana viene collocata negli
uffici della stampa libri in offset, ma non le
danno nemmeno una scrivania, tanto che è
costretta a sedersi nell’angolo dei fattorini,
dove si mette a leggere e studiare per “non
morire”.
Anna Maria Pavan capisce che giorno per
giorno le violenze psicologiche e il non lavorare rischiano di distruggerla. Le filosofie di
difesa non sono molte, ma una certamente
la Pavan l’ha compresa. Leggere voleva
proprio dire non far morire il cervello. E tanto
legge che si specializza in organizzazione
del lavoro.
È delusa dai sindacati, che “mi avevano
messa in Cassa integrazione in modo da
poter mettere mano ad altre assunzioni di
giovani con contratti di formazione in base
alla legge 416” e non avevano esitato a chiederle: “quanto vuoi per andartene?”. Da
redattore editoriale si ritrova al reparto gestori prodotto in produzione offset, insomma le
officine grafiche. Come dire un lavoro da
operai specializzati.
Leggiamo dal libro: “Seduta ad un tavolo
contro il muro, con una finestra più alta della
mia testa. Inchiostro ovunque, unto e odori,
aria neanche a parlarne, ogni volta che uscivo dall’ufficio mi veniva da vomitare”. Essere
costretti a svolgere un lavoro a cui non siamo
preparati e di livello più basso comporta
come conseguenza prima la disistima di sé,
poi attriti coi capi e disordine psicologico. E
alla fine, ti chiedono: “Scusa quanto vuoi per
andartene?”.
Le udienze finiscono
in continui rinvii
Nell’89 fa ricorso in Pretura a Verona per
rivendicare la qualifica di gornalista e il relativo trattamento economico dall’85 e per
demansionamento, ma tutto finisce in nulla.
I fattorini si inteneriscono e dividono i tavoli,
uno per i pacchi e uno per la Pavan. Con loro
legge, divide le merende, le gioie e le rabbie.
L’azienda appesantisce le sue angherie e
riparte all’attacco con accuse di errori, altri
richiami sull’incapacità di svolgere le sue
mansioni e minaccia di portarla in tribunale.
Il concetto era “tu non lavorerai più, tanto tutti
sapevano ormai la storia”.
Nella causa per il riconoscimento del contratto giornalistico le udienze finiscono in rinvii
continui, ritardi, mancate presenze dell’azienda a causa anche di irresponsabili
rappresentanti dell’editore, fino ad una
sentenza che non le riconosce alcun diritto.
È l’ennesimo colpo.
Ma nella lotta sindacale per la difesa della
propria professionalità e dignità c’è posto
anche per la creatività. E Anna Maria Pavan
scrive una sceneggiatura per la televisione
pensando che la sua storia di denuncia
possa trovare uno spazio, diciamo popolare,
come mini soap, tutta imperniata sulla
Mondadori e le sue strategie megaindustriali. Ma alla Rai viene rifiutata.
Ora la Pavan è delegata sindacale specializzata in organizzazione del lavoro; dice di
conoscere tutto della macchina editoriale
che fa i libri e di esserne orgogliosa. Ha
messo in piedi un sito a cui arrivano richieste di aiuto, segnalazioni di casi di mobbing
da tutta Italia.
È un passaparola che ha preso la caratteristica della solidarietà telematica. Leggendo
alcune delle tante storie si capisce che il
mobbing è diventato anche un modo subdolo per arrestare professionisti che hanno le
carte in regola per svolgere al meglio il lavoro, ma che spesso vengono emarginati
perché il loro essere seri nel lavoro mette in
risalto le magagne degli altri o che le stesse
aziende hanno necessità di tenere coperte.
Un modo per stoppare il lavoratore troppo
coscienzioso, che spesso è un dirigente o
comunque un laureato, è quello demansionarlo, facendo sembrare questa scelta una
giusta punizione per errori montati ad arte.
Ma non c’è spazio
per i “creativi”
E l’editoria? La conclusione a cui è arrivata
la Pavan è questa: “L’editoria sta morendo e
lo capisco quando vedo che l’obiettivo finale
economico per una rotativa da novanta
miliardi viene raggiunto non tanto stampando riviste, - che tanto in Italia simili tirature
non le raggiungiamo - ma piuttosto cataloghi
pubblicitari”.
Mai avuto desiderio di scappare? “Come no!
- è la risposta - Ma dove andavo, ero già
nella più grande casa editrice. L’editoria ce
l’ho nel sangue. Con sofferenza, in anni di
lavoro, ho conosciuto tutto dei libri, prima il
lavoro editoriale e ora la stampa. Ma non
voglio che si parli di mobbing come di un
fatto solo psicologico, legato a delle antipatie
personali o professionali”.
La conclusione a cui è arrivata Anna Maria
Pavan riguarda tutto il mercato: “La globalizzazione dell’industria italiana non accetta
figure creative, c’è una massificazione
mostruosa all’interno della imprenditoria
italiana”.
In Italia la prima proposta di legge contro il
mobbing è stata presentata nel 1996 e si intitola “Norme per la repressione del terrorismo
psicologico nei luoghi di lavoro”. Nel settembre del 2001 il Parlamento europeo ha
approvato una Risoluzione contro la violenza e le molestie nei luoghi di lavoro. In Italia
non abbiamo ancora una specifica legge sul
mobbing, che forse da noi tende ancora a
rimanere un “male oscuro”, anche se nel
2000 la Cassazione si è pronunciata, in
materia ribadendo il diritto al risarcimento del
danno biologico (ad esempio i disturbi al
sistema nervoso). La strada è tutta da
percorrere, per ora, con la denuncia.
Il suo sito è www.geocities.com/ampavan
11
BILANCIO ANNUALE 2002 DI REPORTERS
M
E
M
O
R
I
A
Giornalisti nella storia
I nostri
Martiri
Milano, 2 gennaio 2003. Una sezione del sito dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
(www.odg.mi.it) viene riservata a 12 giornalisti ammazzati dallo squadrismo fascista,
dal terrorismo rosso, dal terrorismo internazionale, dalla mafia e dalla camorra. Questa
la galleria dei Martiri: 1. Giovanni Amendola; 2. Piero Gobetti; 3. Carlo Casalegno; 4.
Walter Tobagi; 5. Ilaria Alpi; 6. Maria Grazia Cutuli; 7. Antonio Russo; 8. Mauro De
Mauro; 9. Mario Francese; 10. Giuseppe “Pippo” Fava; 11. Giancarlo Siani; 12.
Beppe Alfano.
Tutti facevano giornalismo investigativo o d’inchiesta oppure esprimevano posizioni fortemente critiche, chi sul fascismo (Amendola e Gobetti), chi sul terrorismo (Casalegno e
Tobagi) o sulle zone calde del pianeta (Ilaria Alpi in Somalia, Maria Grazia Cutuli in
Afghanistan, Antonio Russo in Cecenia), altri sulla mafia o sulla camorra (De Mauro,
Francese, Fava, Siani e Alfano). L’obiettivo dell’iniziativa è quello di preservare la memoria di questi 12 giornalisti, che hanno scritto ognuno una pagina importante nella storia
della nostra Nazione, e che sono un esempio di alta coscienza civile da additare ai giovani. Non bisogna dimenticare il loro sacrificio. I giornalisti italiani possono arricchire questa
sezione del sito, spedendo saggi e articoli all’indirizzo e-mail [email protected]. Per ora
sono stati utilizzati come fonti il web e il mensile Tabloid (organo dell’OgL). C’è bisogno
dell’opera di tutti per completare il lavoro. “Oggi i giornalisti, che fanno inchieste – ha
dichiarato Franco Abruzzo – sono vittime di un altro terrorismo, quello delle querele
miliardiarie”.
Primo contributo all’iniziativa. Lettera di Pierluigi Roesler Franz (presidente
dell’Associazione stampa romana) a Franco Abruzzo (presidente OgL)
La libertà di stamp
La violenza
politica
colpisce
i giornalisti
Nel 2002
• 25 giornalisti uccisi
• almeno 692 indagati
• almeno 1420 aggrediti
o minacciati
• almeno 389 media censurati
• 118 giornalisti prigionieri
nel mondo al 1° gennaio 2003
In confronto, nel 2001
• sono stati uccisi 31 giornalisti
• 489 indagati
• 716 aggrediti o minacciati
• 378 media censurati
L’azione di Reporters sans Frontières
in favore della libertà di stampa
Sono 24 i giornalisti Colpevoli d’informare
italiani uccisi dal 1943 nelle zone a rischio
Caro Franco, come d’accordo, ti invio l’elenco dei 23 colleghi italiani che dalla Resistenza ad oggi sono caduti nell’adempimento del
loro dovere di informare correttamente i cittadini. Il loro tributo di sangue non può, né
deve essere dimenticato perché hanno
immolato la loro vita per un futuro migliore
della società e della convivenza civile in Italia
e all’estero. Ma deve restare nei nostri cuori
e nella nostra mente anche nelle generazioni future.
A cominciare dai giornalisti Carlo Merli, nato
a Milano il 2/1/1913, e Enzio Malatesta,
nato a Carrara Apuania il 22/10/1914, già
capo redattore de Il Giornale d’Italia entrambi aderenti al Movimento Comunista d’Italia Bandiera Rossa - furono arrestati durante la
Resistenza l’11 dicembre 1943 e fucilati per
ordine del Tribunale speciale tedesco.
Per continuare con i giornalisti assassinati
dalla mafia in Sicilia: i quattro cronisti de
L’Ora e del Giornale di Sicilia Cosimo Cristina, Giovanni Spampanato, Mauro De
Mauro e Mario Francese negli anni Settanta e Ottanta; Giuseppe Fava, fondatore del
settimanale I siciliani; Mauro Rostagno
(redattore di una tv privata) nel 1988;
Giuseppe Alfano del quotidiano La Sicilia;
Giuseppe Impastato, sindacalista, dilaniato
da una esplosione, che dai microfoni di
Radio Out aveva denunciato gli affari mafiosi della borgata di Cinisi.
Poi il pubblicista Giancarlo Siani (camorra) a Napoli e il direttore di OP Carmine
Pecorelli ucciso nella capitale in circostanze ancora misteriose (per il suo
assassinio è stato di recente condannato
come mandante il senatore a vita Giulio
Andreotti).
Ed ancora: l’ex vicedirettore de La Stampa
Carlo Casalegno e l’inviato speciale del
Corriere della Sera Walter Tobagi, presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, entrambi assassinati dalle Br. Paradossalmente i nomi dei due grandi giornalisti mancavano nel 1999 nel muro della
memoria nel Journalist Memorial, una
suggestiva struttura di vetro, che si trova
12
accanto al Newseum di Arlington-Virginia
(USA) dove sono incisi circa 1400 nomi di
giornalisti, fotografi e operatori morti nel
mondo a partire dal 1812.
Il triestino Almerigo Grilz dell’agenzia di
stampa Albatros fu ucciso in Mozambico nel
1987. Il 20 marzo 1994 furono uccisi insieme in Somalia Ilaria Alpi del Tg3 Rai e il
telecineoperatore triestino Miran Hrovatin.
A nome di Ilaria Alpi è intitolato il Concorso
giornalistico Roma per Roma, indetto dal
Comune di Roma insieme al Provveditorato
agli studi di Roma e all’Associazione stampa romana sindacato unitario dei giornalisti
di Lazio e Molise, (quella che si svolgerà a
Pasqua del 2003 sarà la 44 a edizione e la
10 a da quando è stato intitolato dall’A.S.R. il
premio “Ilaria Alpi” d’accordo con l’allora
sindaco di Roma Francesco Rutelli nel
quadro delle celebrazioni del Natale di
Roma alla memoria della giovane collega
del Tg3 Rai). All’ultima edizione hanno
partecipato ben 8 mila alunni della 5 a
elementare e 191 scuole di Roma pubbliche
e private.
Un anno dopo, il 9 febbraio 1995, sempre in
Somalia fu assassinato il telecineoperatore
Rai Marcello Palmisano nell’agguato in cui
rimase per fortuna solo lievemente ferita
Carmen Lasorella.
Poi toccò ad altri tre triestini il giornalista
Marco Luchetta e gli operatori Alessandro
Ota e Dario D’Angelo, assassinati a Mostar
in Bosnia. A loro tre unitamente a Hrovatin è
intitolata l’Associazione solidarietà internazionale Trieste che gestisce la casa di accoglienza di via Volussi che ha aiutato tanti
minori a sopravvivere.
Quindi Antonio Russo, inviato di Radio
Radicale, ucciso due anni fa sulla strada
di Tblisi in Georgia. Russo fu l’ultimo a
documentare la pulizia etnica a Pristina
(Kosovo).
E da ultimi il medico reporter Raffaele
Ciriello in Palestina e Maria Grazia Cutuli
del Corriere della Sera in Afganistan.
Cordialmente, Pierluigi Franz
di C. Guimaraes
Più di 770 giornalisti uccisi dal 1995, 25 vittime nel 2001. Reporters sans Frontières, l’associazione che monitorizza il lavoro della
stampa in tutto il mondo, fornisce altre nude
cifre, aggiornate all’ottobre scorso: prendendo in esame i 189 paesi aderenti alle Nazioni Unite, risultano “difficili” (in 65 paesi) o
“molto difficili” (in 28) le condizioni in cui
operano centinaia di reporter, fotografi,
operatori di ripresa. In prigioni sparse per il
mondo si trovano 97 giornalisti, mentre altri
90 hanno subìto vessazioni o minacce di
morte. Ben 25 testate giornalistiche sono
state semplicemente soppresse da diversi
governi.
La morte dell’inviata Maria Grazia Cutuli ha
riaperto una ferita che, in un grande numero
di nazioni, non rimargina mai. Il lavoro dei
corrispondenti nelle zone di guerra presenta
pur sempre un grado elevato di rischio. RSF
si dice “costernata e commossa” per l’uccisione dei quattro giornalisti, tra cui l’italiana,
ma osserva: “Dopo la morte dei due giornalisti francesi e di un tedesco (l’undici novembre scorso, ndr), questo nuovo dramma ci
ricorda che la stampa paga un pesante tribuLa scheda
to per informare l’opinione pubblica sulla
situazione in Afghanistan. Possiamo solo
raccomandare affinché i giornalisti richiedano scorte armate ai comandanti Mujaheddin
o alle autorità locali quando lasciano le città
sotto il controllo degli oppositori al regime
talebano. Le nuove autorità di Jalalabad,
contattate da RSF, hanno deplorato che il
convoglio dei giornalisti sia partito per Kabul
senza alcuna sicurezza”.
Se il prezzo in termini di vite umane nelle
zone di guerra è alto, altissimo è il numero di
colleghi imprigionati, spesso senza alcun
processo, per il reato di voler informare.
Succede in paesi come Iran, Burma (Myanmar), Cina, considerati le più vaste carceri
per giornalisti al mondo. Dal 1989, RSF
promuove una campagna in favore della
“sponsorizzazione” di giornalisti dietro le
sbarre per aver svolto il loro mestiere, alla
quale aderiscono più di 120 istituzioni. Il 28
novembre 2001, per il dodicesimo anno
consecutivo, RSF indice la giornata di solidarietà per i colleghi vittime di persecuzioni.
È possibile sostenere la campagna anche
scrivendo ai giornalisti stessi e ai loro familiari o inviando lettere di protesta e petizioni
alle autorità.
(Pubblicato il 20 novembre 2001 13:52 )
(Aggiornato il 13 marzo 2002 11:11 )
“Non aspettare di essere privato della libertà di stampa per difenderla!”
Reporters sans frontières
Segretariato internazionale 5, rue Geoffroy Marie - 75009 Paris France
Tel (33) 1 44 83 84 84 - fax (33) 1 45 23 11 51 - E-mail: [email protected] - Web: http://www.rsf.org
Per ulteriori informazioni contattare: Flora Cappelluti (corrispondente Reporters sans
frontières-Italia) tel: (39) 02-76 02 27 12 (26 71) Cell: 328/41 89 510
E-mail: [email protected]
Reporters sans frontières difende i giornalisti prigionieri e la libertà di stampa nel
mondo, ovvero, il diritto di informare e di essere informati, conformemente all’art. 19
della Dichiarazione dei diritti umani.
Reporters sans frontières conta nove sezioni nazionali (Germania, Austria, Belgio,
Spagna, Francia, Gran Bretagna, Italia, Svezia e Svizzera), degli uffici di rappresentanza a Abidjan, Bangkok, Buenos Aires, Istanbul, Montreal, Mosca, Nairobi, New York,
Tokyo e Washington, e più di 100 corrispondenti nel mondo.
ORDINE
2
2003
SANS FRONTIÈRES SULLO STATO DELLA LIBERTÀ DI STAMPA NEL MONDO
pa vittima delle tensioni internazionali
Foto di Yaghobzadeh / Sipa press: i giornalisti lavorano nell’insicurezza più totale / Olympia foto
1. Tendenze globali
Se rispetto al 2001, il numero di giornalisti uccisi è relativamente diminuito, quello dei media censurati è rimasto
invariato: gli altri indicatori (giornalisti indagati, aggrediti o
minacciati), sono invece tutti in forte rialzo. Il numero di
giornalisti messi sotto inchiesta (692 nel 2002) è cresciuto
di oltre il 40 %, mentre i giornalisti aggrediti o minacciati
(1420) è del 100 % superiore rispetto all’anno precedente.
Inoltre, è in crescita esponenziale il numero di giornalisti
prigionieri nel mondo: attualmente almeno 118 sono dietro
le sbarre di un carcere. Se si aggiungono i collaboratori
dei media (3) e i cyberdissidenti (almeno 42), si tocca la
cifra di 163 professionisti detenuti semplicemente per aver
cercato di fare libera informazione.
Come nel 2001, ogni giorno un media viene censurato nel
mondo e oltre un terzo della popolazione mondiale vive in
paesi dove non esiste alcuna libertà di stampa. In numerosi Stati (come il Bangladesh, l’Eritrea, Haiti, il Nepal, lo
Zimbabwe, etc.), la situazione è in continuo peggioramento. Come aveva già denunciato Reporters sans frontières
nel 2001, l’impunità di cui godono gli assassini o gli aggressori di giornalisti, ha generato nuovi episodi di violenza.
Nel 2002, degli accordi di pace o l’avvio di un piano di riforme politiche hanno permesso in Angola, in Afghanistan o
nello Sri Lanka, di migliorare sensibilmente lo stato della
libertà di stampa. Ma è stato osservato, nel corso dell’anno, un peggioramento della situazione della libertà di
stampa in paesi democratici come l’Italia o gli Stati Uniti,
dove sono stati messi in carcere numerosi giornalisti.
2. Uccisi nel 2002
25 giornalisti
Dopo aver condotto un’inchiesta su ogni singolo caso,
Reporters sans frontières può purtroppo affermare che nel
2002 sono stati ammazzati nel mondo almeno 25 giornalisti, “responsabili”, nella maggior parte dei casi, delle loro
opinioni e per questo uccisi (nella gran parte dei casi da
gruppi armati), durante l’esercizio della loro funzione. Così,
Daniel Pearl, reporter del Wall Street Journal, è stato rapito e assassinato da un gruppo radicale islamico in Pakistan. In Colombia, sono stati uccisi tre reporter, vittime del
conflitto armato in atto nel paese, o a causa delle loro rivelazioni sulla corruzione della classe politica. In almeno una
decina di casi, lo Stato, e l’esercito in particolare, è direttamente implicato in questi episodi. In Nepal, un editore promaoista è morto sotto tortura in un commissariato di
Katmandu, mentre nei Territori palestinesi, l’uso eccessivo
della forza da parte dell’esercito israeliano, ha provocato
la morte di tre giornalisti lo scorso anno.
Nel corso del 2002, l’Asia ha di nuovo riportato il triste
primato di continente con l’indice di mortalità più alto per i
giornalisti (11 casi). In Bangladesh, due giornalisti sono
morti, colpiti dai proiettili dei gruppi armati che agiscono nel
sud del paese. Nelle Filippine, due reporter, Benjaline
Hernandez e Edgar Damalerio, sono stati assassinati da
poliziotti corrotti o dai militari presenti sull’isola settentrionaORDINE
2
2003
le di Mindanao. Subito dietro l’Asia, si posiziona l’America
latina: nove professionisti dell’informazione hanno perso la
vita, in Brasile in particolare, il paese dove il giornalista Tim
Lopes è stato assassinato da dei trafficanti di droga sui quali
aveva condotto un’inchiesta. Con quattro giornalisti uccisi
nel 2002, la Russia è il paese al mondo dove, per i giornalisti, è diventato più pericoloso lavorare: dietro queste morti,
è visibile la mano della mafia o dei notabili locali.
Nel 2002, come nel 2001, nessun giornalista è stato
assassinato in Nord-Africa. Nell’Africa subsahariana, è
stato censito il caso di uno studente di giornalismo ucciso
in Uganda da colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia
nel corso nel corso di una manifestazione, degenerata in
violenti scontri di piazza.
Più di 30 casi di assassini di giornalisti nel 2002 sono
ancora oggetto di inchiesta, ma, al 1° gennaio 2003, non
ci sono elementi per affermare che esiste un legame tra la
loro morte e le loro attività professionali. Infine, almeno
quattro collaboratori di media, come Elizabeth Obando,
distributrice del giornale colombiano El Nuevo Día, sono
stati ammazzati nel 2002.
3. L’impunità continua
a essere la regola
La quasi totalità degli assassini di giornalisti commessi
negli ultimi anni sono rimasti impuniti: i loro mandanti sono
ancora liberi e non sono mai stati messi sotto inchiesta
dalla giustizia del loro paese.
Ad Haiti, le indagini che dovevano far luce sul duplice
assassinio di Jean Dominique, direttore di Radio Haïti Inter,
nell’aprile 2000, e di Brignol Lindor, nel dicembre 2001, non
hanno dato seguito a nessun arresto. Malgrado le prove
schiaccianti del coinvolgimento delle milizie armate vicine
al partito del presidente Aristide, esecutori e mandanti non
sono nemmeno mai stati messi sotto accusa.
In Afghanistan, l’indagine sull’assassinio di quattro reporter stranieri, avvenuto nel novembre 2001, non ha fatto
nessun passo avanti. I ministri della Difesa e degli Interni
hanno tentato mascherare, con dei diplomatici europei di
passaggio nel paese, tutta la loro impotenza per gli esiti
estremamente deludente di questa inchiesta.
In Israele, nel 2002, le inchieste condotte dall’esercito israeliano relativamente all’assassinio del fotografo italiano
Raffaele Ciriello, reporter per il Corriere della Sera e di due
giornalisti palestinesi, non hanno dato luogo a nessuna
sanzione. Dei soldati di Tsahal, approfittando di questo sentimento d’impunità, hanno continuato a malmenare numerosi
giornalisti che si occupavano del conflitto israelo-palestinese.
In Ukraina, nel 2002, l’inchiesta che doveva far luce sulla
morte di Igor Alexandrov, direttore di una televisione, ha
subito uno stop malgrado la domanda di riapertura delle
indagini avanzata dalla Corte suprema. Il tribunale ha
nominato, a capo della commissione d’inchiesta, un procuratore che da anni era notoriamente in aperto conflitto con
il giornalista assassinato.
In Burkina Faso, quattro anni dopo l’assassinio di Norbert
Zongo, direttore del settimanale L’Indépendant, l’inchiesta
è ancora a un punto morto. Il fratello del presidente della
Repubblica, François Compaoré, notoriamente coinvolto in
quest’affaire, interrogato nel 2001, non è mai stato tirato
direttamente in ballo.
Eppure la giustizia, con il sostegno congiunto delle organizzazioni internazionali e locali per la difesa della libertà
di stampa, può rivelarsi efficace. Così in Mozambico, è
iniziato il processo ai presunti assassini del giornalista
Carlos Cardoso. Il figlio del capo dello Stato, accusato di
essere il vero mandante di questo assassinio, è già stato
interrogato dai giudici. In Ukraina, l’inchiesta sull’assassinio del giornalista Géorgiy Gongadze, ha compiuto finalmente un passo avanti dopo anni di stop in tribunale. Infine, nello Sri Lanka, sono stati arrestati dei sospetti per l’assassinio, avvenuto nel 2000, di Mayilvaganam Nimalarajan, collaboratore della BBC. Ma purtroppo, in quest’inchiesta poliziesca, tenuta bloccata a lungo dagli alleati politici dell’attuale presidente Chandrika Kumaratunga, sono
stati persi anni preziosi.
4. Oltre settecento
arrestati nel 2002
Al 1° gennaio 2003, almeno 118 giornalisti risultano essere
prigionieri in molte carceri del mondo a causa delle loro
opinioni o delle loro attività professionali. I giornalisti prigionieri nel 2002 sono quindi in leggero aumento rispetto al
2001, quando ne erano stati censiti 110. Oltre la metà dei
giornalisti prigionieri nel mondo è detenuta in un paese del
continente asiatico. Per i giornalisti, le più grandi prigioni del
mondo sono infatti il Nepal (18), l’Eritrea (18), la Birmania
(16), la Cina (11) e l’Iran (9).
Nel 2002, oltre 700 giornalisti sono stati privati della loro
libertà per periodi più o meno lunghi. Se José Luis Manso
Preto, reporter indipendente portoghese, è stato sottoposto
a interrogatorio per diverse ore per aver rifiutato di rivelare le
sue fonti, è sicuramente andata peggio a Win Tin, celebre
giornalista birmano detenuto da oltre 13 anni.
Per il Nepal, con almeno 130 giornalisti e collaboratori dei
media arrestati dalle forze di sicurezza, il 2002 è stato un
anno drammatico. I giornalisti accusati di avere delle simpatie per la guerriglia maoista sono stati fatti prigionieri dall’esercito e dalle forze di polizia senza neppure un processo e
sono attualmente sottoposti a delle condizioni di detenzione estremamente difficili. Così, Gopal Budhathoki, direttore
di una pubblicazione indipendente, è rimasto in cella per 22
giorni, ammanettato e con gli occhi bendati. La mobilitazione delle organizzazioni dei giornalisti nepalesi ha obbligato
il governo a liberare un gran numero di prigionieri, che ha
toccato un picco di più di 35 giornalisti detenuti nel 2002.
In Eritrea, da fine 2001, 18 professionisti dell’informazione
continuano a rimanere a tutt’oggi dietro le sbarre in luoghi
tenuti segreti dalle autorità, senza che venga fornita alcuna
ragione ufficiale e senza aver avuto diritto a un regolare
processo. Inoltre, sono fuggiti dal paese numerosi giornalisti,
mentre la stampa privata è ormai praticamente inesistente.
In Israele, il governo ha fatto ricorso alla detenzione amministrativa nei confronti di 15 gioirnalisti palestinesi. Hussam
Abu Alan, fotografo dell’Agence France-Presse, è stato fatto
prigioniero per sei mesi senza nessuna forma di processo.
13
Bilancio annuale 2002
di Reporters sans frontières
sullo stato della libertà
di stampa nel mondo
In Birmania, le autorità hanno un’attitudine criminale nei
confronti dei giornalisti prigionieri, mantenendo in detenzione
dei giornalisti anziani e malati. Pesantemente condannati per
aver “diffuso informazioni ostili nei confronti dello Stato’’, o
per aver passato delle informazioni a dei giornalisti stranieri,
i giornalisti prigionieri in Birmania sono sottoposti a delle
condizioni di detenzione estremamente difficili.
In Cina, agli 11 giornalisti prigionieri si aggiungono altri 35
cyberdissidenti arrestati per aver diffuso su Internet delle
informazioni giudicate “sovversive”: uno di loro è stato recentemente condannato a quattro anni di prigione.
Ma per fortuna, anche qualche buona notizia ha segnato il
2002, come la liberazione, in Rwanda, di Gédéon Mushimiyimana, che dopo sei anni di detenzione è stato proclamato a
gran voce innocente dalla popolazione della sua regione
d’origine, o come Ayub Khoso, in Pakistan, liberato dopo tre
anni di carcere grazie a una sentenza emessa dalla Alta
corte di Hyderabad (nel sud del paese). Anche in Birmania,
Myo Myint Nyein è tornato in libertà dopo aver passato 12
anni di carcere duro, come Vanessa Leggett, liberata dopo
168 giorni di detenzione negli Stati Uniti per aver rifiutato di
rivelare le sue fonti giornalistiche.
5. Oltre 1500 aggrediti
o minacciati
Le aggressioni o minacce nei confronti dei professionisti
dell’informazione, sono aumentate in misura vertiginosa.
Almeno 1420 giornalisti o reporter sono stati picchiati o
minacciati di morte, rapiti, malmenati dalla polizia o sottoposti ad altri maltrattamenti. Più della metà di queste aggressioni o minacce hanno avuto come scenario l’Asia (589). E
questa violenza non è solo monopolio dello Stato. Dei militanti di gruppi politici, di gruppi armati o mafiosi, si sono rivelati essere pericolosi predatori della libertà di stampa.
Beninteso, le crisi politiche o sociali favoriscono l’esplosione
di episodi di violenza contro i giornalisti. In America latina,
per esempio, le tensioni in Venezuela, Haiti o in Argentina,
hanno provocato un importante aumento del numero di
aggressioni nei confronti di alcuni professionisti dell’informazione.
In Bangladesh, più di 380 giornalisti sono stati aggrediti o
minacciati da militanti o simpatizzanti di alcuni partiti politici.
Spesso, questi attacchi sono stati compiuti dai militanti
protetti dai partiti al potere, come il Bangladesh Nationalist
Party (BNP) e il Jamaat-e-Islami (islamico). I giornalisti che
denunciano degli episodi di corruzione, la violenza politica o
l’intolleranza religiosa, diventano quindi obiettivi privilegiati.
In Algeria, almeno 20 giornalisti sono stati malmenati dalle
forze di sicurezza o dai picchiatori al soldo di alcuni notabili
locali. Il corrispondente del quotidiano El-Watan a Tébessa si
è suicidato lo scorso ottobre: aveva osato accusare i picchiatori prezzolati del presidente della Camera di commercio e
industria di Algeri.
Le tensioni religiose e etniche hanno avuto delle ripercussioni molto negative sulle condizioni di lavoro dei reporter. Così,
almeno 20 giornalisti sono stati minacciati durante i disordini
avvenuti dopo la pubblicazione di un articolo sull’elezione di
Miss Mondo, nel nord della Nigeria. Le sollevazioni antimusulmane nello Stato indiano di Gujarat sono state lo
scenario delle aggressioni ai danni di una trentina di giornalisti del paese.
Nei Territori palestinesi occupati da Israele, almeno 50 reporter sono entrati nel mirino dell’esercito israeliano, (nove
professionisti dell’informazione hanno riportato ferite da arma
da fuoco). Certi gruppi palestinesi, come Hamas, hanno
aggredito dei giornalisti durante le manifestazioni.
6. Più di un media
censurato al giorno
7. La stampa estera
sorvegliata a vista
Nel 2002, nel mondo sono stati censurati ben 389 media.
Gli Stati Uniti stanno usando e abusando delle leggi sulla
stampa che permettono di chiudere definitivamente o
temporaneamente i media, proibire la circolazione della
stampa estera o imporre un black-out su alcune informazioni.
In Cina, il governo continua a disturbare le frequenze di alcune radio internazionali che emettono in cinese, in tibetano o
in ouighour. In luglio, il regime comunista ha sospeso agli
abbonati cinese su satellite, la diffusione della rete britannica
BBC. Durante la preparazione del XV congresso del Partito
comunista, sono state messe a tacere una decina di pubblicazioni, a causa di alcuni articoli critici nei confronti del partito unico.
In Turchia, il numero di reti televisive, di stazioni radio e di
organi di stampa provvisoriamente sospesi dal RTÜK, l’organo governativo per la sorveglianza del sistema audiovisivo, o
dalle diverse Corti di sicurezza dello Stato, è elevato come
nel 2001. Sono stati censurati 20 media per “incitazione alla
violenza’’ o per “attentato alla sicurezza dello Stato’’.
In Iran, la giustizia all’ordine dei conservatori, si è di nuovo
accanita contro la stampa riformatrice. Sono state sospese almeno 15 pubblicazioni, tra cui il quotidiano indipendente Bonyan. In Sudan, le autorità hanno censurato più
di una decina di pubblicazioni indipendenti a causa di articoli sull’Aids o per aver ventilato ipotesi di pace con i ribelli sudisti.
In Europa, l’aumento della censura è stato particolarmente
significativo in Russia. In novembre, l’FSB (ex KGB) ha confiscato il server informatico del settimanale Versia per la
copertura mediatica data da questa testata all’intervento
delle forze speciali per la liberazione degli ostaggi del teatro
di Mosca, avvenuto nell’ottobre scorso.
In Bangladesh inoltre, la giustizia ha ordinato il ritiro della
licenza di diffusione dell’unica rete hertziana privata, che
registrava incessantemente un forte successo di pubblico. In
Malesia, il governo ha bloccato, nel febbraio scorso, la diffusione di quattro magazine internazionali, come The Economist. E in Birmania, la giunta militare ha dato ordine di
sospensione agli articoli di alcuni giornalisti che avevano
utilizzato la parola “Tailandia” mentre era in corso una forte
crisi diplomatica tra i due paesi.
Nei paesi del Golfo, la censura è frequente quanto l’autocensura. In Arabia saudita, prima di essere diffuse al grande
pubblico, tutte le pubblicazioni estere passano sistematicamente sotto la lente di ingrandimento. Il regime saudita
conduce una campagna per il boicottaggio della rete informativa araba Al-Jazira, alla quale sono stati già sigillati gli
uffici in Kuwait, in Giordania e, temporaneamente, anche in
Irak. In Maghreb, il regime del presidente Zine el-Abidine Ben
Ali è noto per lo stretto controllo esercitato sui media, pubblici e privati, della Tunisia.
In Africa, le forze di sicurezza sequestrano regolarmente
le copie della pubblicazioni che disturbano il potere. In
Zimbabwe, il quotidiano indipendente Daily News è regolarmente sottoposto a perquisizioni, in Togo, la polizia
agli ordini del presidente Gnassingbé Eyadéma, ha
sequestrato oltre 40 000 esemplari dei giornali d’opposizione.
La censura è politicamente assente in America latina, a
eccezione notoriamente del regime castrista, che non tollera
nessuna voce mediatica indipendente. Per esempio, il governo dell’Avana continua a disturbare le frequenze delle radio
che emettono dalla Florida.
La Corea del Nord (il paese più repressivo, in termini di
libertà di stampa, secondo la classifica mondiale stabilita da
Reporters sans frontières nel 2002), autorizza con il contagocce l’entrata di giornalisti esteri nel paese, che devono
però essere obbligatoriamente accompagnati, 24 ore si 24,
da una guida ufficiale, autorizzata a minacciarli di rappresaglia se li sorprendesse a riprendere immagini “proibite”.
Una decina di paesi continua a imporre ai media esteri di lavorare sorvegliati dalle guide ufficiali. È il caso dell’Iraq, della
Birmania o della Cecenia. Un gran numero di paesi impone
ancora ai giornalisti la richiesta di un accredito specifico per la
stampa. I professionisti dell’informazione che decidono di lavorare senza questo visto, rischiano di correre rischi elevatissimi.
Due giornalisti della rete televisiva britannica Channel 4 sono
stati fatti prigionieri per due settimane in Bangladesh per essere entrati nel paese senza possedere il visto per la stampa.
Saleem Samad, corrispondente locale di Reporters sans frontières, è stato fatto prigioniero oltre un mese fa, dopo essere
stato a lungo torturato dalla polizia.
A Cuba, le pressioni esercitate su alcuni corrispondenti esteri, in alcuni casi dal presidente Fidel Castro in persona,
servono da avvertimento per l’insieme della stampa estera.
In ottobre, la polizia cubana ha messo sotto sequestro tutto il
materiale professionale confiscato a Catherine David, reporter del settimanale francese Le Nouvel Observateur.
8. La lotta al terrorismo
e la libertà di stampa
La lotta contro il terrorismo ingaggiata dagli Stati Uniti e
dai loro alleati dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, ha
avuto un impatto significativamente negativo sulla libertà
di stampa. In nome di questa lotta, peraltro necessaria,
diversi governi hanno intensificato e giustificato la repressione da loro esercitata sulle voci indipendenti o d’opposizione. I giornalisti sospettati, spesso senza alcuna prova,
di sostenere i “terroristi maoisti” in Nepal, i “terroristi delle
FARC” in Colombia, i “terroristi ceceni “ in Russia o i “terroristi ouighours o tibetani” in Cina, sono diventati dei facili
obiettivi.
Ben inteso, i movimenti terroristi come Al-Qaida, hanno già
dimostrato tutta la loro determinazione nel voler annientare ogni forma di libertà di espressione, ma questo non
giustifica minimamente la deriva autoritaria delle forze di
sicurezza degli Stati impegnati nella lotta al terrorismo
internazionale. In Afghanistan, diversi giornalisti sono stati
aggrediti da alcuni soldati americani o dai loro ausiliari
afghani.
Del resto, tra la dozzina di leggi antiterrorismo adottate nel
mondo nel corso del 2002, ci sono degli articoli che rimettono in discussione la confidenzialità e la protezione delle stesse fonti giornalistiche, che sono così diventate argomento di
animati dibattiti nell’anno appena trascorso. In alcuni regimi
autoritari, ma anche in certe democrazie, sono stati sottoposti a interrogatori decine di giornalisti, messi sotto inchiesta o
minacciati per aver rifiutato di rivelare le loro fonti, soprattutto
in affaire di terrorismo.
Si può concludere quindi che la libertà di stampa non è
garantita in oltre metà dei paesi del mondo. Se la giustizia
internazionale offre delle nuove prospettive nella lotta contro
l’impunità, nel corso di questo anno 2003 sarà comunque
necessario rimanere estremamente vigili.
ARLINGTON
Il Memoriale dei caduti
per la libertà di stampa
14
di C. Guimaraes
È stato inaugurato nel marzo del 1997, si
trova al 1101 di Wilson Boulevard, ad Arlington. Si chiama Newseum ed è un’attrazione
turistica di Washington. Si tratta del primo
museo interattivo dedicato al mondo della
stampa e dell’informazione.
Nel giorno dell’inaugurazione, l’allora vicepresidente Al Gore lo ha definito un mezzo
per “costruire una conoscenza migliore tra
stampa e pubblico”, mentre l’ex presidente
Clinton ha reso omaggio al lavoro dei reporter, che spesso “corrono rischi personali per
avere le notizie; l’America è più forte e più
libera grazie a loro”.
Questa sorta di Disneyland dell’informazione
consente ai visitatori di diventare per un giorno conduttori della radio o della tv, di vedere
come vengono prodotte le notizie giorno per
giorno o di rivedere i grandi reportage che
sono ormai parte della storia, di parlare con i
cronisti che si avvicendano in trasmissioni in
diretta.
Ma il piatto forte del Newseum, dal punto di
vista della conoscenza del mondo dell’informazione, si chiama Freedom Park. Adiacente alla struttura museale si trova infatti il
parco “dedicato allo spirito della libertà”.
Spirito evocato dai simboli della lotta universale per la libertà come il muro di Berlino. Dai
ricordi di quanti si sono battuti in suo nome,
in particolare dal “Freedom Forum Journalists Memorial”. Un monumento che omaggia
i giornalisti morti in tutto il mondo mentre
cercavano di portare a compimento il loro
lavoro.
Il Memorial è un lunghissimo muro in vetro,
alto sette metri, che raccoglie 1.395 nomi.
Da quando è stato allestito, il Freedom
Forum Journalists Memorial si è visto
aggiungere oltre 200 nomi suggeriti da privati e organizzazioni. Ogni anno si accresce di
altri nomi, altre date. Il 3 maggio di ogni anno
il triste elenco viene aggiornato. Nel 2002, il
nome dei caduti in Afghanistan sarà a fianco
delle vittime di imboscate in Africa, dei colpi
di mortaio in Kosovo, delle esecuzioni in
Nigeria e di quelli spariti nel nulla perché
davano fastidio.
Pubblicato il 20 novembre 2001-15:05).
Dal sito:
http://www.rai.it/RAInet/news/RNw/pub/articolo/raiRNewsArticolo/0,7605,7108%5Escie
nze%5E%5E,00.html
ORDINE
2
2003
C O M U N I C A R E
L A
P A C E
Giornali e Afghanistan
La parola ad Alberto Cairo
di Paola Pastacaldi
Il Premio per la Pace della Regione Lombardia,
è stato assegnato, tra gli altri, ad Alberto Cairo,
piemontese formatosi in Lombardia, impegnato
dal 1990 a Kabul, in Afghanistan, responsabile
del centro per amputati della Croce rossa internazionale di Kabul e dei sei centri del Progetto
ortopedico Afghanistan, promosso dal Comitato
internazionale della Croce rossa.
Abbiamo rivolto alcune domande al dottor Cairo,
che è in prima linea a Kabul non solo per la sua
attività di recupero degli amputati, a cui ridà
braccia e gambe e per i quali ha inventato un
progetto di microcredito per il reinserimento nel
mondo del lavoro, ma anche per la sua capacità
di comunicazione. Alberto Cairo è in Afghanistan
da tredici anni. Su Repubblica gli scritti di Cairo
sono stati letti per mesi in prima pagina. È spesso intervistato da giornalisti di tutto il mondo.
Come si comunica oggi la pace attraverso i
giornali?
«Essere aggiornati su tutto quello che è accaduto in Afghanistan negli ultimi vent’anni è difficile e questo in un certo modo assolve tutti. Alcuni
giornalisti inseguono la notizia, non vogliono e
non cercano di avere anche una visione più
generale e approfondita. D’altronde, è comprensibile, è la notizia che fa il giornalista.
Purtroppo ho visto molti inseguire il fatterello e
senza distinzione di paese, così sono i giornalisti di tutto il mondo. Ma in Afghanistan ho
incontrato anche giornalisti che si battono per
la verità dei fatti e per educare i lettori alle cose
importanti ed essenziali, cercando di sfuggire
ai luoghi comuni e ad effetto, cioè non dicendo
solo quello che il lettore ama sentirsi raccontare».
Può essere più preciso?
«Pensavo soprattutto ai giornalisti calati in
massa alla fine del 2001 e all’inizio del 2002.
Sono arrivate persone che sapevano ben poco
di questo Paese, nemmeno dove è la capitale,
che mi chiedevano dove è Jallalabad, quali
erano i confini col Pakistan e non conoscevano
la differenza tra una etnia e l’altra. Sembrava che
non avessero aperto nemmeno un libro di
geografia o una guida. Questo, naturalmente,
con gli inviati delle grandi testate non accade. E
soprattutto non sono così quelli che tornano più
volte. Questi inviati o giornalisti sono un’altra
cosa: dell’Afghanistan ne sanno ben più di me.
D’altro lato, c’è di positivo che i giornalisti mi
portano informazioni politiche a cui non avrei
accesso, quali sono i progetti futuri. È vero, però,
che tutti noi siamo, in qualche modo, responsabili della guerra. Nel senso che collaboriamo alla
guerra. Io, per esempio, opero in Afghanistan
facendo gambe e braccia, ed è un lavoro che
dovrebbe fare il Paese per i suoi cittadini, così io
facendolo lo lascio libero di fare la guerra, libero
da questa incombenza. Siamo tutti dentro un
ingranaggio perverso. Detto questo, la cosa che
più mi disturba è che se un giornalista viene in
Afghanistan per scrivere di questo Paese,
dovrebbe venire preparato e attento. Accade,
invece, che molti arrivino con un’idea precostituita; per esempio che una Ong è buona e un’altra è cattiva.
Purtroppo è accaduto anche che ci siano giornalisti che lavorano solo al seguito di alcune
organizzazioni, di cui naturalmente devono scrivere bene e se l’organizzazione non è buona,
accade che le informazioni siano tutte distorte.
Alla fine hanno la meglio le organizzazioni che
hanno un addetto stampa o un pierre. Eppure ci
sono piccole strutture che fanno un lavoro eccellente e altre, altrettanto buone, che scelgono di
Alberto Cairo, 48 anni,
piemontese, formatosi
in Lombardia, impegnato
dal 1990 a Kabul
in Afghanistan,
responsabile del centro
per amputati
della Croce Rossa
Internazionale di Kabul
e dei sei centri del progetto
Ortopedico Afghanistan,
promosso dal Comitato
Internazionale
della Croce Rossa.
non farsi pubblicità. È insomma una guerra
dell’immagine e i giornalisti possono essere facilmente abbagliati».
Parliamo delle fonti, annosa questione,
soprattutto in Paesi così complessi. Dove si
vanno a prendere, e come, le informazioni
indispensabili per scrivere?
«Gli afghani sono bravi a intuire quello che il
giornalista vorrebbe sapere. Ho assistito ad una
intervista fatta al centro ortopedico. Un amputato da mina da oltre dieci anni ha raccontato ad
un giornalista che era stato imprigionato dai talebani e picchiato e che alla fine avevano dovuto
amputargli la gamba. Il giornalista era contento
e l’afgano anche, perché per una mezz’ora si
era inventato una storiella. Il traduttore, che
sapeva la verità e avrebbe potuto smentire, se
ne fregò e non disse nulla».
Appena liberato l’Afghanistan, abbiamo letto
che tutto stava cambiando, con una certa
enfasi. Direi poco credibile.
«Certo, all’inizio tutti sorridevano per i fotografi,
poi ci si è accorti che non era così e allora si è
cominciato a scavare.
Soprattutto i giornalisti che erano abituati a venire spesso, hanno cercato di capire. Ma in generale sull’Afghanistan i giornali raccontano
sempre le stesse cose. L’Afghanistan è tante
cose, forse è sempre stato guerra, non sa cos’è
la pace, nel senso di assenza di conflitto. È una
esagerazione naturalmente, ma qui si è sempre
combattuto. Ora cerchiamo di aiutare la gente
anche a riprendere un lavoro».
La stampa naturalmente ha fatto di lei anche
un personaggio.
«Sono molto disponibile con la stampa, ma non
accetto di trasformarmi in una specie di Madre
Teresa di Kabul. Non cerco l’intervista, ma capisco che è importante anche che si parli dell’Afghanistan, del lavoro che facciamo. Ma non
voglio che si dica che resuscito i morti, non
accetto di essere trasformato dai media in un
martire che si sacrifica per i bambini, con testi
lacrimosi».
Lei ha scritto per la Repubblica delle corrispondenze da Kabul.
«Un giornalista mi aveva chiesto di raccontare
storie sulle mine. Chiesi l’autorizzazione della
Croce rossa a Ginevra e mi dissero, scrivi quello
che vuoi. Io ho l’abitudine di tenere un diario da
anni.
Perciò iniziai a scrivere. Ma non seppi, per un
po’, che pubblicavano pari pari i miei testi. Mi
telefonò un giorno mio padre, dicendomi che mi
leggeva tutti i giorni. Allora telefonai per sapere e
mi chiesero se volevo essere pagato. Dissi loro
di no, ma che se volevano, dissi loro che potevano pubblicare il numero del nostro conto corrente.
Abbiamo raccolto per Kabul un bel po’ di soldi.
Ecco a cosa è servito apparire sui giornali. I soldi
non piovono giù dal cielo e nemmeno le protesi.
Tra marzo e aprile uscirà anche un libro intitolato Storie da Kabul da Einaudi.
Cosa si vede e si legge in Afghanistan?
«I ricchi vedono la Cnn e la Bbc, gli altri la tv
nazionale con la sua propaganda. Soltanto l’1
per cento ha un satellitare. Io leggo molti giornali stranieri, dal New York Times all’Herald Tribune, Liberation, Le Monde, il settimanale del
Guardian, El Pais. Ma dell’Italia non sapevo più
niente. Quando torno, mi compero una televisione. Mi preme dire che l’informazione sull’Afghanistan è stata azzerata.
L’Afghanistan è stato dimenticato. Eppure ci
sarebbero da raccontare le storie nelle prigioni,
come vivono i detenuti, le riunioni familiari, cose
terribili e cose meravigliose. La gente fuori,
anche in Italia, ha una grande voglia di sapere.
Io continuo a ricevere moltissime lettere, anche
dalle maestre delle scuole italiane, che mi chiedono come spiegare ai bambini le cose. Mi
mandano piccoli lavori, ricerche e qualche soldino. Alle volte sono commoventi».
Formigoni
assegna
i premi per
la Pace 2002
La Regione Lombardia assegna dal
1997 il Premio per la Pace a favore
di enti pubblici, associazioni o persone lombardi che si siano impegnati
in questo senso.
Quest’anno la giuria (composta
dall’assessore Romano Colozzi,
delegato del presidente Roberto
Formigoni, Lorenzo Ornaghi, rettore
dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano, Maurizio Carrara,
rappresentante delle Ong Lombarde,
Silverio Clerici, rappresentante
dell’Anci Lombardia, Roberto Ronza
esperto internazionale e Paola
Pastacaldi, membro dell’Ordine dei
giornalisti della Lombardia) ha deciso di assegnate il Premio per la Pace
2002 al dottor Alberto Cairo, della
Croce rossa internazionale, per le
sue attività in Afghanistan, a Giuseppe Fraizzoli, direttore dell’Holy family
hospital di Nazareth e a don Ambrogio Galbusera, rappresentante
dell’Operazione Mato Grosso, su
delega di Ugo De censi per le attività
in America Latina.
Prima della premiazione, è stata
organizzata una intervista aperta sul
tema “comunicare la pace o per una
cultura della pace” ai tre premiati,
Alberto Cairo, Giuseppe Fraizzoli, e
don Ambrogio Galbusera, curata
dalla giornalista Paola Pastacaldi,
consigliera dell’Ordine della Lombardia e componente della giuria di
assegnazione del premio. Spesso i
media cedono alla tentazione di
costruire personaggi anche intorno
agli avvenimenti più tragici.
I tre premiati hanno sottolineato,
raccontando le loro alle volte anche
piccole esperienze quotidiane, come
le loro azioni rappresentino in realtà
dei processi collettivi di costruzione
della pace, a cui partecipano molte
altre persone che rimangono spesso
anonime. Maurizio Carrara della Ong
Cesvi, come rappresentante delle
Ong Lombarde, è intervenuto in relazione alla sinergia tra processi di
pace e cooperazione e sviluppo.
Il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, dopo un
interessante
intervento
sulla
questione della pace, ha consegnato i premi ai tre vincitori. Una
menzione speciale alla memoria è
stata riconosciuta a due giornalisti
caduti in servizio: Raffaele Ciriello, il
chirurgo plastico di 42 anni, che
faceva il reporter, morto a Ramallah,
in Cisgiordania, il 13 marzo del
2002, e a Maria Grazia Cutuli, giornalista, 39 anni, del Corriere della
Sera, assassinata in Afghanistan,
sulla strada tra Jalalabad e Kabul, il
19 novembre 2001.
Una menzione speciale è stata riconosciuta a monsignor Giorgio Biguzzi, vescovo di Makeni, Sierra Leone,
che dall’87 è uno degli uomini più
attivi per il riscatto dei bambini soldato. La menzione è stata ritirata da
Gaetano Agnini di Mine Action Italy.
Secondo Premio nazionale giornalistico “Mauro Gavinelli”
Il Gruppo altomilanese giornalisti (Gag), istituito nel 1993, con sede in Legnano, intende
ricordare la figura di Mauro Gavinelli, che fu tra i soci fondatori e il primo presidente del Gag.
A tale scopo, bandisce la seconda edizione del “Premio nazionale giornalistico Mauro Gavinelli”.
REGOLAMENTO
art. 1 - Il concorso premia il miglior articolo giornalistico, pubblicato su un quotidiano o un
periodico italiano, che affronti un tema inerente l’attualità politica, economica, sociale o sportiva della Lombardia.
art. 2 - Il premio è riservato ad autori fino a 35 anni d’età (compiuti entro il 31 marzo 2003),
non necessariamente iscritti all’Ordine dei giornalisti, nell’intento di valorizzare le intuizioni e
l’impegno di Mauro Gavinelli sulla formazione professionale dei giovani colleghi e degli aspiranti giornalisti.
art. 3 - Il vincitore del premio riceverà la somma di euro 2.500 (duemilacinquecento).
art. 4 - L’iscrizione al concorso è gratuita.
art. 5 - Ogni concorrente può partecipare con un solo articolo che sia stato pubblicato tra il 1°
marzo 2002 e il 31 marzo 2003.
art. 6 - Non sono ammessi articoli già premiati in altri concorsi giornalistici.
art. 7 - Entro il 10 aprile 2003 ogni concorrente dovrà far pervenire alla segreteria del premio
- recapito a mano o servendosi del servizio postale - una copia originale del giornale sul
quale è stato pubblicato l’articolo firmato o siglato, accompagnata da: a) una breve domanda
d’iscrizione al concorso redatta in carta semplice, corredata dai dati anagrafici, dal curriculum
ORDINE
2
2003
vitae e dal recapito del concorrente; b) cinque fotocopie dello stesso articolo con cui si intende concorrere al premio. Copie originali dei giornali e fotocopie inviati non saranno restituite.
art. 8 - La segreteria del premio, alla quale indirizzare domanda d’iscrizione, articoli in concorso e relative fotocopie è fissata nella sede legale del Gag: presso studio avvocato Fabrizio
Conti, via della Liberazione 13, 20025 Legnano (MI).
art. 9 - Ogni concorrente conserva la proprietà letteraria dell’articolo in concorso.
art. 10 - La giuria del concorso, che valuterà gli articoli giunti alla segreteria stabilendo il
vincitore del premio, è composta da tre membri del Consiglio direttivo del Gag, fra cui il presidente in carica, da un membro della famiglia Gavinelli - che finanzia l’iniziativa - e dal presidente dell’Ordine dei giornalisti di Milano o da giornalista da questi indicato. Il giudizio della
giuria è insindacabile e inappellabile.
art. 11 - La presidenza della giuria è affidata al presidente del Gag. La vice presidenza è
ricoperta dal membro designato dalla famiglia Gavinelli.
art. 12 - Tutti i partecipanti al concorso riceveranno l’invito alla cerimonia di premiazione che
si terrà entro la fine di giugno 2003.
art. 13 - La partecipazione al premio implica la piena accettazione delle norme contenute nel
presente regolamento. La non osservanza di quanto richiesto comporterà l’esclusione dal
concorso, senza che sia dovuta comunicazione al concorrente.
Ulteriori informazioni sul concorso possono essere richieste telefonicamente (02.93261923,
Mauro Tosi) o scrivendo all’indirizzo di posta elettronica del Gag: [email protected]
15
1963
2003
l’Ordine dei giornalisti
compie quarant’anni
La libertà di stampa e i
di Guido Gonella
assolutamente imprecisa nella dottrina si
L ibertà di stampa significa facoltà di servirsi
afferma comunemente che i diritti nei quali si
della stampa per manifestare e diffondere
idee o per narrare fatti. L’oggetto, quindi, può concreta la libertà di stampa sono il diritto di
essere o speculativo (attività teoretica) o opinione ed il diritto di creazione.
estetico (creazione dell’arte) o storico (narra- Questi diritti non possono essere misconosciuti neppure da regimi assoluti che neghino
zione di avvenimenti).
la libertà di stampa. Quindi, più precisamente,
La libertà di stampa si concreta in diritti
generalmente riconosciuti da tutti gli ordina- deve dirsi che si tratta del diritto di esprimere
idee o di rendere manifesta una creazione
menti costituzionali democratici, in termini
artistica, o di raccontare pubblicamente un
analoghi a quelli contenuti nella nostra Costiavvenimento per mezzo della stampa.
tuzione.
L’accento va messo non
Anche nelle Carte internazionali
sull’opinione o sulla creaziodei diritti si afferma l’esigenza
Estratto
ne artistica o sull’avvenimendella «soppressione degli ostacoto, ma sulla possibilità di
li nella libera circolazione delle
da Iustitia,
esprimere, e di esprimere
informazioni e delle idee» (dichian. 4,
pubblicamente, e non con la
razione della X Conferenza
parola ma, specificamente,
dell’Unesco).
ottobre
con la stampa. Ciò che va
Per quanto concerne la nostra
dicembre
sottolineato è l’esteriorizzaCostituzione, è nota la controverzione, è il mezzo di esteriosia relativa al carattere precettivo
1959
rizzazione. Il diritto di pubblio programmatico dell’art. 21. Al
ca manifestazione e diffusioriguardo, la giurisprudenza della
Corte suprema di Cassazione si è pronun- ne a mezzo della stampa implica non solo il
diritto di sostenere un’idea, ma anche di
ciata in modo difforme. Infatti, mentre le
confutare idee diverse ed opposte, cioè il
Sezioni unite penali (15 aprile 1950) hanno
diritto di critica che esprime un dissenso, una
deciso che il primo comma dell’art. 21 ha
carattere puramente direttivo, che abbisogna contrapposizione.
Il diritto di rendere pubblica a mezzo della
per la pratica attuazione di una elaborazione
stampa una creazione artistica può riferirsi a
legislativa da non ritenersi esaurita con la
qualsiasi oggetto delle arti figurative e narralegge sulla stampa dell’8 febbraio 1948, in
tive.
altre decisioni delle Sezioni civili e, da ultiIl diritto di cronaca ha per oggetto gli atti ed i
mo, con sentenza 12/12/1955, n. 3860, la
Corte di Cassazione ha riconosciuto il carat- fatti. È il diritto di narrare, a mezzo della
stampa, ciò che è avvenuto o avviene. La
tere precettivo della norma sul diritto di libelibertà di informazione soddisfa il bisogno
ra manifestazione del pensiero.
Per affrontare esattamente il tema conviene, individuale e sociale di conoscere obiettivamente i fatti.
in via preliminare, notare che in maniera
1. Doveri verso la verità
Il diritto di cronaca è condizionato ad un dovere fondamentale: il dovere di conoscere i fatti che si narrano.
Come si concilia il diritto di
cronaca con il travisamento
della verità, con il compromesso della verità, con le
cosiddette “congiure del silenzio” o con lo scandalismo?
Accanto alle verità integrali
ci sono le verità parziali, le
verità reticenti, le simulazioni della verità. Talora – e
specialmente nella stampa
di partito – nella semplice
selezione dei fatti, nell’adozione di un criterio di selezione, è implicita un’opinione o un pregiudizio che
rende la verità solo apparente ed il racconto semplice-
mente strumentale ai fini di
una tesi predeterminata.
Inoltre, è facile comprendere
come siano labili i confini tra
la narrazione del fatto e l’interpretazione o la valutazione; si dice – in maniera troppo approssimativa – che la
narrazione è obiettiva e l’interpretazione subiettiva.
Quando si considera che
ogni giorno, nel mondo,
vengono riversati sui lettori
224 milioni di copie di quotidiani, vien fatto di chiedersi
se questa sia la storia del
mondo raccontata, o invece
la storia che si fa, cioè l’operare umano in atto, con tutti i
suoi interessi e le sue
passioni di cui la stampa è
efficace strumento.
2. Limiti del diritto
di libertà di stampa
Se il dovere di rispetto della
verità è la condizione dell’esercizio del diritto di libertà
di stampa, conviene pure
considerare anche i limiti di
tale diritto. L’esigenza del
limite non è arbitraria o
aggiuntiva al concetto del
diritto, ma implicita nel
concetto stesso.
Ogni soggetto è titolare di
una pluralità di diritti che
devono coesistere, e possono coesistere, solo a condizione che la sfera di un diritto
non invada la sfera di un altro
diritto. La libertà di stampa è
un diritto della persona e
deve coesistere con gli altri
diritti della persona.
16
Ancora: di ogni diritto vi è
una pluralità di soggetti che
ne sono titolari, e ciò implica
pure un limite.
Inoltre, ogni soggetto è titolare di una pluralità di doveri
che limitano la sua facultas
agendi, sia in rapporto ai
diritti propri, come in rapporto ai diritti altrui. Infatti, il diritto non è solo una facultas
agendi, ma anche una potestà di esigere il rispetto
dell’esercizio di una facoltà.
Ad ogni diritto di un soggetto corrisponde negli altri
soggetti l’obbligo di rispettarlo che limita, nell’obbligato,
la sua facoltà di operare.
Il diritto è sempre connesso
con un dovere: doveri del
soggetto verso se stesso e
doveri verso gli altri in
connessione logica con il
diritto degli altri (dovere di
non invadere la sfera del
diritto altrui). La stessa
dichiarazione dei diritti
dell’uomo affermava che la
libertà è una facoltà in virtù
della quale è permesso fare
ciò che non offende il diritto
degli altri. La legge, appunto
perché protegge la libertà di
tutti, impedisce che il singolo possa sacrificare in tutto o
in parte la libertà degli altri.
Il diritto di cronaca, cioè il
diritto di narrare pubblicamente fatti a mezzo della
stampa, è condizionato ai
doveri imposti dalla esigenza della tutela della libertà di
ciascuno.
La limitazione dell’esercizio
di un diritto non compromette la sostanza del diritto, ma
lo contiene nei limiti richiesti
dallo scopo al quale il diritto
è ordinato.
Inoltre,nell’ordinamento
giuridico, accanto ai diritti di
libertà, vi sono i doveri di
solidarietà e non manca chi,
appellandosi alla responsabilità della stampa dal punto
di vista etico-sociale,
afferma giustamente
che perfino la semplice informazione giornalistica, oltre che
essere oggetto di un
diritto, è anche oggetto
di un dovere morale e
civico, in quanto si voglia
intendere il diritto di
cronaca come una categoria del diritto di educazione dei lettori, come
l’esercizio di un servizio
sociale che contribuisce ad
emancipare intellettualmente e moralmente l’uomo; qui
però siamo nella sfera delle
responsabilità morali e civiche, e non si può esigere
che ogni cronista sia tenuto
a sentire in sé la vocazione
dell’educatore.
Ma
la
connessione esiste, e basta
considerare che anche
l’educatore può educare
narrando, ed esercitare con
la storia delle idee e dei fatti
la sua funzione educativa.
Il riconoscimento di questi
limiti giuridici ed etici è ben
sottolineato dall’art. 29 della
“Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo”, elaborata dalle Nazioni unite, la
quale precisa: «Nell’esercizio dei suoi diritti e nel godimento delle sue libertà
ognuno è sottomesso solo
alle limitazioni stabilite dalla
legge, esclusivamente in
vista di assicurare il riconoscimento ed il rispetto del
diritto e delle libertà altrui, al
fine di soddisfare la giusta
esigenza della morale,
dell’ordine pubblico e del
benessere generale di una
società democratica».
3. Coesistenza delle libertà
Partendo dalla considerazione della pluralità degli individui e della pluralità delle
libertà, ci si chiede come si
garantisca la coesistenza
delle libertà.
Le libertà possono venire a
conflitto. Come si risolve il
conflitto? Sacrificando una
libertà all’altra, e limitando
l’esercizio dell’una e dell’altra?
La dottrina della coesistenza
dei diritti ha precisato che
l’esercizio di un diritto non può
condurre alla violazione di un
altro diritto. Lo Stato di diritto
garantisce le libertà di tutti,
disciplinando, con l’ordinamento giuridico, la coesistenza delle libertà. Inaccettabile
è la tesi kantiana, secondo la
quale lo Stato mira semplicemente a garantire la coesistenza. Esso mira pure alla
coordinazione delle libertà.
I diritti – ha osservato il Capograssi – «sono tra di loro solidali, fanno insieme sistema,
nessuno può essere sacrificato col pretesto di arrivare
mediante questo sacrificio
all’appagamento degli altri»
(G. Capograssi, Introduzione
alla Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo, Cedam,
Padova 1957, p. 14).
Considerando le libertà nel
sistema dei diritti, si osserva
che il problema della coordinazione delle libertà può risolversi non nel limitare le libertà
ma nell’impedirne l’abuso che
implica violazione di libertà.
Non vi sarebbe libertà di
stampa se non vi fosse
repressione degli abusi di
questa libertà, cioè repressione di un esercizio di tale
libertà che sia offensivo di altri
diritti.
La libertà di manifestare il
pensiero con la stampa –
come la libertà di associazione, di locomozione, ecc. –, in
quanto riguarda non solo l’individuo, ma la relazione tra
individui, ha limiti posti dalla
relazione stessa, ed il bene di
ciascuno è tale in quanto è
combinato con il bene di tutti.
La tutela della coesistenza
delle libertà esige che, mentre
si garantisce all’individuo il
diritto di manifestare liberamente le proprie idee per
mezzo della stampa, impedendo ogni limitazione di
questa libertà, si garantisca
pure la libertà del cittadino
dalle offese che ai propri diritti
possono derivare dall’abuso
della manifestazione del
pensiero altrui.
Il diritto – come si notò – fissa
un limite tra i soggetti, e se il
limite non viene rispettato
nasce nel soggetto che subisce una violazione del suo
diritto la pretesa di respingere
l’invasione nella sua sfera. Alla
violazione di un diritto, consumata a mezzo della stampa,
deve corrispondere la possibilità di respingere l’invasione,
dovendo essere cooperanti,
ma non interferenti, le sfere
giuridiche dei soggetti coesistenti.
Per questo, la legge – mentre
vieta tutto ciò che può essere
violazione della libertà di
stampa e costrizione della
manifestazione del pensiero –
stabilisce anche una serie di
divieti alla stampa non per
quanto riguarda l’esercizio
ORDINE
2
2003
Ricordiamo la nascita del massimo ente rappresentativo della professione con
un saggio di Guido Gonella, che fu ministro della Giustizia, forte e lungimirante
sostenitore della legge n. 69/1963 e primo presidente dell’Istituzione. Gonella va
ricordato come esponente di spicco della Dc, antifascista, autore, negli anni della
dittattura mussoliniana, della rubrica Acta diurna nell’Osservatore Romano.
diritti individuali di libertà
A sinistra, “Piccola Scala”.
L’on. Gonella tiene la
prolusione su: “I problemi
del Congresso”.
Alla sua sinistra il
sottosegretario Salizzoni
che ha recato il saluto
del Governo.
Alla sua destra
l’on. Barzini ed il
presidente del Consiglio
regionale lombardo
dell’Ordine dei giornalisti,
Carlo De Martino.
Qui accanto, palazzo
del Quirinale, 24 aprile
1968. L’udienza
del presidente
della Repubblica Saragat,
al Comitato esecutivo
dell’Ordine dei giornalisti
e ai relatori del Congresso
di Milano, sui problemi
della libertà di stampa
e dell’editoria.
della sua libertà, ma per
quanto riguarda quella violazione dei diritti di terzi che
possono derivare dall’abuso
di esercizio della libertà.
La legge penale prevede reati
commessi per mezzo della
stampa, e la legge civile
prevede i risarcimenti per
eventi dannosi prodotti attraverso notizie divulgate dalla
stampa. Inoltre, la coscienza
morale può condannare certi
atteggiamenti della stampa
che – di per sé – possono non
essere un illecito giuridico. È
recente una vivace polemica
che aveva per oggetto non
tanto la veridicità di notizie
pubblicate quanto l’opportunità della loro pubblicazione,
considerata nella sfera della
discrezionalità.
Non cosa diversa – ai fini
della garanzia della coesistenza delle libertà – afferma
la “Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo” (art. 29 n.
3) quando dispone che
«questi diritti e queste libertà
non possono in nessun caso
essere esercitate in contrasto
con i fini e i principi delle
Nazioni unite». Cioè, vi sono
principi e fini di valore universale che trascendono e limitano l’esercizio della libertà.
Questo articolo – osserva
ancora il Capograssi –
«viene a dar rilievo all’attività
dell’individuo per riconoscere
espressamente che esso
impegna (come esercizio di
questi diritti) l’ordine stesso
internazionale instaurato con
l’organizzazione delle Nazioni unite e fa corpo con
questa» (op. cit., p. 14).
A fortiori ciò è valido nell’ambito della comunità statuale
nella quale vige un ordinaORDINE
2
2003
mento giuridico positivo, quindi un sistema positivo di diritti
e, perciò, una coordinazione
dei diritti. E la coordinazione
rende necessaria la disciplina
del loro esercizio secondo il
modo e per opera degli organi stabiliti dalla legge, a garanzia di ogni possibile arbitrio di
tale coordinazione.
La nostra Corte Costituzionale, discutendo dell’art. 2 della
Costituzione sui «diritti inviolabili dell’uomo» ha stabilito
che la norma statutaria
considera regola fondamentale dello Stato, per tutto
quanto attiene al rapporto tra
la collettività ed i singoli, il
riconoscimento di quei diritti
che formano il patrimonio
irretrattabile della persona
umana: diritti che appartengono all’uomo inteso come
essere libero (sentenza
3/7/1956, n. 11). Ha poi
soggiunto
(sentenza
26/1/1957, n. 2) che la
Dichiarazione dei diritti di
libertà implica per sua natura, in senso giuridico, anche
la posizione dei limiti, cioè la
determinazione della sfera di
azione dei vari soggetti entro
condizioni tali che ne risulti
garantito lo svolgimento della
libertà di tutti; la Corte Costituzionale ha inoltre affermato
che è da considerare normale che il precetto costituzionale non copra, per tutta la
sua estensione, la materia
regolata dalle norme ad essa
sottordinate nella scala dei
valori normativi (sentenza
3/7/1956, n. 9) e che, pertanto, una disciplina delle modalità dell’esercizio di un diritto
non è da considerare di per
sé violazione o negazione
del diritto stesso.
4. Abuso del diritto
5. Tipi di reati
Malgrado il travaglio della
dottrina sulla nozione di
abuso del diritto, dottrina
approdata alla negazione di
ogni validità del concetto di
abuso e senza entrare in
questa sede nella delicata e
pure fondamentale controversia, se si può parlare di
abuso, è evidente che si ha
abuso di un diritto quando
l’esercizio di esso lede un
diritto altrui, quando viola i
limiti imposti o dal diritto
altrui (la cui sfera viene invasa) o dal dovere proprio che
inibisce determinati comportamenti.
L’abuso costituisce un illecito civilmente e penalmente
sanzionato. Negli ordinamenti positivi è esplicitamente sancito il principio
che «l’esercizio di un diritto
e l’adempimento di un dovere esclude la punibilità» (art.
51 C.p.). Di converso, punibilità si può avere quando
non si esercita un diritto o
non si adempie un dovere.
L’abuso del diritto di libertà di
stampa può essere punito in
quanto non è né esercizio di
diritto, né adempimento di
dovere.
Secondo
l’ordinamento
costituzionale è assoluto
ed incondizionato il diritto
di stampa, sicché una
legge che lo negasse non
potrebbe
che
essere
dichiarata incostituzionale
dal previsto organo di
garanzia della legittimità
costituzionale delle leggi.
Ma non contrasta con
questa assolutezza incondizionata del diritto il divie-
È a tutti nota la fenomenologia degli abusi della libertà di
stampa attraverso la nozione
dei reati previsti dalle norme
penali. Non è certo esercizio
di libertà l’istigazione, per
mezzo della stampa, diretta
ad influire sulla volontà altrui,
e quindi a limitare la libertà
altrui, per determinarla al
compimento di atti che la
legge qualifica reati. Così è
per l’istigazione a disubbidire
alla legge (art. 266 C.p.), l’istigazione a commettere delitti
contro la personalità dello
Stato (art. 303 C.p.), l’istigazione a delinquere (artt. 414415 C.p.).
Non è certo esercizio di
libertà il servirsi della stampa
per consumare il reato di
propaganda sovversiva e
antinazionale (art. 272 C.p.),
di propaganda per l’instaurazione di un diverso regime
dinastico (art. 8 legge 3
to di abuso dell’esercizio
del diritto stesso. Abuso
che comporta la legittimità
della
repressione
per
proteggere il bene minacciato o leso dall’abuso.
Tanto è vero che la stessa
Costituzione, mentre sancisce il diritto assoluto ed
incondizionato (art. 21,
comma 1), prevede pure il
divieto di pubblicare stampa «contraria al buon
costume» (art. 21, comma
6), prevede l’ipotesi e le
modalità del «sequestro»
(art. 21, comma 4), e prevede pure che «la legge
stabilisce provvedimenti
adeguati a prevenire e a
reprimere le violazioni» del
divieto di pubblicazioni
«contrarie al buon costume» (art. 21, comma 6). È
prevista quindi non solo la
repressione, ma anche la
prevenzione di quelle che
la Costituzione definisce
«violazioni». In tal modo lo
Stato difende la libertà di
stampa contro le aggressioni, che possono essere
esterne, e quindi tali da
impedire l’esercizio del
diritto, ma possono anche
essere interne, cioè operate da chi in luogo di esercitare il diritto, ne abusi.
Oltre questo illecito giuridico,
penalmente represso, vi è
poi l’illecito morale che
comporta lesioni della reputazione
morale,
della
probità, e onestà professionale, lesioni per le quali
sono previste sanzioni
nell’ambito della disciplina
professionale dei giornalisti.
dicembre 1947, n. 1546), di
propaganda a favore di pratiche antiprocreative (art. 552
C.p.). Si tratta di una propaganda che non è rivolta a
persuadere, bensì ad agire in
senso contrario alla legge.
Non è esercizio della libertà
di stampa il servirsi della
stampa per l’apologia di fatti
contrari alla disciplina ed ai
doveri militari (art. 266 C.p.),
per l’apologia sovversiva o
antinazionale (art. 272 C.p.),
per l’apologia di delitti contro
la personalità dello Stato (art.
303 C.p.). Con queste apologie non si difendono idee, ma
si esaltano comportamenti
contrastanti, con diritti e doveri obiettivi.
Se la libertà di stampa è un
diritto, è pure un diritto la tutela di beni, quali la personalità
dello Stato, il regime costituzionale, la disciplina militare e
l’osservanza delle leggi.
6. Beni e diritti tutelati
contro l’abuso
della libertà di stampa
La società deve creare le
condizioni più favorevoli
perché il cittadino raggiunga i
suoi fini. Il bene è un oggetto,
un fine e la stampa è un
mezzo per realizzare questo
fine. Ora, vi sono beni e interessi oggettivi, individuali e
sociali, che possono essere
violati dall’abuso della libertà
di stampa.
Si è detto che la verità è la
condizione prima dell’eserci-
zio della libertà di stampa, e
che ogni alterazione della
verità, turbando la conoscenza del fatto, può essere distorsione del fatto se non falsità. Il
diritto tutela la verità, ma tutela anche i beni individuali e
sociali che possono essere
lesi dall’abuso della libertà di
stampa.
È un bene lo Stato, un bene
segue
17 (25)
1963
2003
l’Ordine dei giornalisti
compie quarant’anni
supremo che non può essere
violato dalla libertà di stampa.
È un bene l’ordinamento
costituzionale tutelato dal diritto contro ogni pericolo di
sovvertimento.
È un bene l’ordine pubblico la
cui tutela impedisce che la
stampa favorisca la consumazione di reati; se non vi è
libertà di delinquere non vi è
pure la libertà di far delinquere.
I beni religiosi sono oggetto di
tutela, come pure i beni morali. La legge tutela i diritti della
morale sociale in generale, e
della morale sessuale in ispecie, con il divieto di esercitare
a mezzo della stampa opera
di corruzione. La stampa
pornografica non può essere
oggetto dell’esercizio di un
diritto. E ciò dicasi in generale
della stampa che devia le
coscienze inesperte dei
giovani
contribuendo
a
comprimere la loro libertà di
formazione o ad asservire la
ragione all’istinto sotto l’influenza della stampa diseducativa. I beni familiari sono
tutelati contro l’abuso della
libertà di stampa, e il diritto
tutela la famiglia dall’opera di
disgregazione che può essere assecondata dalla stampa.
Ma il bene primo che l’ordinamento giuridico tutela è il
soggetto del diritto: l’uomo.
La dignità dell’uomo è un
bene supremo che non può
essere sacrificato alla libertà
della stampa, e la tutela della
onorabilità del cittadino e della
sua reputazione è una tutela
che ha per oggetto beni
essenziali che non possono
essere sacrificati alla libertà
della stampa.
7. Dignità della persona
Il primo limite contro gli abusi
del diritto di libertà di stampa
è posto dalla dignità della
persona.
La stampa, in virtù dell’art. 21
della Costituzione, è libera;
ma, in virtù dell’art. 13 della
Costituzione, «la libertà
personale è inviolabile» e, in
virtù dell’art. 32 della Costituzione, «la legge non può in
nessun caso violare i limiti
imposti dal rispetto della
persona umana». Lo Stato, in
virtù dell’art. 3 della Costituzione, intende rimuovere tutti
gli ostacoli che «impediscono
il pieno sviluppo della persona umana», e prevede, con
l’art. 13, che sia punita ogni
violenza, non solo «fisica»
ma anche «morale» sulle
persone.
Dignità della persona, libertà
della persona, rispetto della
persona, sviluppo della persona, sono beni non solo del
patrimonio etico, ma anche
beni tutelati dall’ordinamento
costituzionale alla pari della
libertà di stampa che non può
penetrare nella sfera di questi
valori
costituzionalmente
promossi e protetti.
È perciò evidente che non è
esercizio della libertà di stampa l’offesa della reputazione,
l’offesa all’onore della persona, alla stima che un individuo gode nella collettività dal
punto di vista morale, sociale
e professionale.
Quindi, l’ordinamento giuridico non limita la libertà di
stampa configurando come
reato la diffusione a mezzo
della stampa di notizie che
offendono l’onorabilità privata
(art. 595 C.p.).
La tutela dalle ingiurie che
«offendono l’onore o il decoro
di una persona» (art. 594
C.p.), la tutela dalla diffamazione che «offende l’altrui
reputazione» (art. 595 C.p.) e
così pure la tutela della riserbatezza riguardano una sfera
di libertà giuridicamente
protetta nella quale non ha
diritto di penetrare non solo la
stampa, ma neppure l’autorità giudiziaria se non sia
richiesta da necessità di
giustizia, e, comunque,
sempre e solo nei modi stabiliti dalla legge.
8. Interessi costituzionali
Oltre la dignità della persona
la legge – come si disse –
tutela l’ordine costituzionale ed
il prestigio delle alte magistrature dello Stato. Di conseguenza sono considerate reati
quelle azioni che, attraverso la
stampa, mirano ad offendere
l’onore ed il prestigio del presidente della Repubblica (art.
278 C.p.), la Repubblica e le
istituzioni costituzionali (art.
290 C.p.), e la Nazione italiana (art. 291 C.p.).
Ogni attività di stampa diretta a sovvertire la struttura
dell’ordine costituzionale (e
non a riformarlo secondo le
procedure previste dalla
Costituzione stessa) non
può essere esercizio di un
diritto. La legge vieta tali
azioni e le considera reati
(artt. 272-283 C.p.).
Non è esercizio di libertà la
propaganda diretta alla
instaurazione violenta di una
dittatura di classe, alla
sovversione
dell’ordine
sociale, alla distruzione di
ogni ordinamento giuridico e
politico della società (art.
272 C.p.). Si tratta di propaganda per un’azione violenta, e quindi incompatibile
con il rispetto della libertà.
La tutela dei poteri costituzionali (Camere, governo,
Forze armate) è una tutela
che considera quale reato
ogni vilipendio di tali istituzioni (art. 290 C.p.).
9. Interessi pubblici
È pubblico interesse la difesa della personalità internazionale e interna dello Stato
(art. 3 C.p.), dell’ordine
pubblico che non può essere minacciato senza grave
pericolo per la libertà di tutti
e per la coesistenza sociale;
è interesse pubblico la difesa della società contro l’istigazione all’odio di classe,
contro l’istigazione a violare
18 (26)
le leggi (artt. 266-415 C.p.).
Questi beni non possono
essere offesi dalla stampa
senza offendere il principio
stesso della libertà di stampa e, altresì, il suo esercizio,
protetto da queste istituzioni
e da questi ordinamenti.
Il divulgare notizie false,
esagerate e tendenziose
con le quali può essere
turbato l’ordine pubblico è
azione passibile di contravvenzione (art. 656 C.p.) e
non esercizio di libertà di
stampa; ugualmente non è
esercizio di libertà di stampa
ed è passibile di contravvenzione (art. 661 C.p.) l’abusare con impostura della
credulità popolare.
Lo Stato – in determinate e
limitate situazioni previste
dalla legge – può avere interesse al segreto, e chi ha la
libertà di narrare non può
intendere estesa questa
libertà anche al narrare azioni o fatti che debbono restare segreti in quanto sono in
gioco beni superiori interni o
La libertà di stampa
e i diritti individuali di libertà
internazionali, cioè beni di
tutti, che potrebbero essere
compromessi dalla pubblicità.
Il segreto di Stato, il segreto
militare, il segreto parlamentare, ed il segreto giudiziario,
hanno per oggetto atti e fatti
attinenti a beni che sono
tutelati ad esclusivo servizio
degli interessi della comunità (artt. 683-684-685 C.p.).
Lo ius narrandi non è contestato, ma sono contestati
determinati oggetti della
narrazione, in quanto la
narrazione di essi è lesiva di
libertà, di beni o di interessi
pubblici.
10. Interessi giudiziari
I diritti della giustizia debbono
coesistere con i diritti della
stampa e, in ragione di questa
coesistenza, la stampa non
può ignorare l’art. 27 della
Costituzione secondo il quale
«l’imputato non è considerato
colpevole sino alla condanna
definitiva». Tale precetto deve
essere osservato da tutti,
stampa compresa, e la violazione del diritto dell’imputato
non è esercizio della libertà di
stampa.
Accanto alla libertà di stampa vi è la libertà del giudice
ed il decoro dell’ordine giudiziario. Se la Costituzione
afferma che «i giudici sono
soggetti soltanto alla legge»
(art. 101) questa indipendenza del giudice deve
essere tutelata alla pari della
libertà di stampa. Che ne è
del diritto del giudice a non
essere influenzato se l’abuso della libertà di stampa
esercita influenze esterne,
dirette o indirette sul giudizio? La libertà dei magistrati
e di tutti coloro che sono
necessari collaboratori della
giustizia (avvocati, testimoni,
periti), o sono ad essa
soggetti (le parti), è garanzia
dell’indipendenza ed efficienza della magistratura.
La pubblicità del dibattito
giudiziario è garanzia esterna del rispetto delle procedure, e la stampa, in tale
materia, può essere legittima ed efficace collaboratrice della giustizia. Egualmente legittima è la critica della
giurisprudenza, condizione
del progresso giuridico.
Ma cosa diversa è la violazione del segreto istruttorio
tutelato dalla legge. Segreto
istruttorio che esiste anche
là dove in luogo del procedimento inquisitorio vige il
procedimento accusatorio.
Non è esercizio di libertà
rendere più difficile alla
giustizia il raggiungimento
del suo fine che può essere
in parte frustrato dalla
pubblicità dei fatti la quale
può disperdere la traccia dei
reati e rendere meno efficace, rapida e conclusiva la
fase istruttoria.
11. Interessi religiosi
La libertà di stampa è sancita dalla Costituzione, ma
sono pure sancite dalla
Costituzione la cooperazione tra Chiesa e Stato e la
pace religiosa, considerata
come un bene perseguito
dalla comunità civile e come
un diritto del credente.
L’esercizio della libertà di
stampa non può, quindi,
violare l’esercizio della
libertà di culto, non meno
fondamentale della prima.
L’offesa della religione
mediante vilipendio di chi la
professa (artt. 402-403 C.p.),
le offese e ingiurie pubbliche
al sommo pontefice (art. 8
del Trattato del Laterano)
sono violazioni di diritti,
evidentemente incompatibili
con l’esercizio della libertà di
stampa.
12. Buon costume
Lo stesso articolo della
Costituzione che sancisce la
libertà di stampa stabilisce
che «sono vietate» le pubblicazioni «contrarie al buon
costume» (art. 21). Quindi il
buon costume è un limite
costituzionale all’esercizio
del diritto della libertà di
stampa.
Le pubblicazioni oscene
sono vietate dall’art. 528
C.p., ritenendosi oscene le
pubblicazioni che «secondo
il comune sentimento, offendono il pudore» (art. 529
C.p.) e l’onore sessuale.
Come è noto, difficili controversie sono sorte attorno a
questa nozione e non
mancano profonde disparità
di valutazioni nella dottrina,
nonché oscillazioni giurisprudenziali.
Ci condurrebbe lontano
l’approfondimento
della
distinzione tra il riferimento
al
patrimonio
morale
permanente e il riferimento
alla coscienza attuale e
variabile; ugualmente difficile e controversa è la
determinazione del rapporto tra l’osceno, l’opera d’arte e l’opera di scienza (art.
519 C.p.). Ma è al di fuori di
ogni dibattito il riferimento
positivo delle norme al
sentimento morale e all’offesa del pudore.
La stampa, quindi, non può
essere – anche a termini di
legge – strumento di degradazione del costume e di
corruzione sessuale. È una
libertà che non esiste, perché
è violazione di beni costituzionalmente e legislativamente protetti.
La dignità ed il livello del
«sentimento comune» sono
determinati dal costume, il
quale esercita una influenza
decisiva nell’allargare o
restringere la sfera di applicazione della norma.
13. Beni familiari
La Costituzione «riconosce i
diritti della famiglia come
società naturale fondata sul
matrimonio» (art. 29) come
riconosce i diritti della stampa.
È quindi pienamente conforme al precetto costituzionale l’art. 565 C.p. che punisce
gli attentati alla morale familiare commessi a mezzo
della stampa. Un «attentato» non può essere esercizio di un diritto.
La pornografia è un’aggressione ai sentimenti morali
dei giovani; è un’aggressione, non è esercizio di diritto.
L’art. 14 della legge sulla
stampa (8/2/1948, n. 47)
dichiara punibili ai sensi
dell’art. 528 C.p. «le pubblica-
zioni destinate ai fanciulli e
agli adolescenti quando, per
la sensibilità ed impressionabilità ad essi proprie, siano
comunque idonee ad offendere il sentimento morale o a
costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto, o
al suicidio». Le medesime
disposizioni si applicano ai
giornali di avventure poliziesche che sfrenano «istinti di
violenza e di indisciplina
sociale» (art. 14) nonché alle
«pubblicazioni di contenuto
impressionante o raccapricciante» (art. 15).
La stampa – in quanto abbia
questo oggetto – non esercita una libertà, ma lede
diritti.
14. Responsabilità
della stampa
L’esigenza della tutela dei
diritti che possono essere
violati per mezzo della stampa è un’esigenza di giustizia. Ogni esercizio di diritto
implica una responsabilità,
in quanto implica doveri nei
confronti di diritti altrui.
Se si vuole trattare la libertà
altrui come libertà, e quindi
rispettarla, deve essere viva
la coscienza della responsabilità intesa in duplice senso,
cioè come coerenza interiore del pensiero e come
rapporto tra il pensiero
proprio e quello altrui.
Il problema della responsabilità della stampa per atti
illeciti, lesivi di altrui libertà,
va posto sul terreno della
«responsabilità personale»
secondo l’esplicito precetto
della Costituzione (art. 27).
Lo sforzo per tradurre in
norme di legge il principio
della responsabilità personale, attraverso la revisione
degli artt. 57 e 58 C.p., è
stato arduo e si potrebbero
fornire molte e personali
testimonianze del travaglio
compiuto.
La soluzione da noi proposta ed accolta dal Parlamento non può essere considerata del tutto soddisfacente.
Ma non minori inconvenienti
presentano le altre soluzioni
prospettate.
Le difficoltà nascono anche
dalla particolare configurazione dell’attività della
moderna stampa quotidiana, attività frazionata tra vari
soggetti che spesso operano a distanza, sotto la pressione dell’urgenza che
rende estremamente difficile
il controllo della verità dei
fatti, sotto la pressione
dell’esigenza di un mercato
impaziente e di gusti volubili, sotto la pressione della
necessità dell’uso sempre
più vasto, e, in molti casi,
pressoché assorbente, del
materiale fornito da agenzie
di informazioni più sollecite
per la rapidità delle trasmissioni meccanizzate delle
notizie che dell’accertamento delle notizie stesse.
Insomma, la lotta contro il
tempo e contro la pressante
concorrenza rendono difficile al giornalista il controllo, la
ponderazione e la riflessione: inoltre la tecnica moderna dell’informazione contribuisce a frazionare le
responsabilità.
Ciò non significa che si
possa deflettere dal principio della responsabilità
personale; ma ciò induce
anche a puntare sull’autocontrollo della stampa, nella
consapevolezza delle sue
responsabilità opportunamente e solennemente
sancite dal “Codice etico
del giornalismo” accettato
all’unanimità dai giornalisti
e dagli editori.
L’attività dei comitati “Giustizia e Stampa” potrà essere
di ausilio in questo particolare settore, e l’istituzione
delle Corti di onore, proposta con disegno di legge,
potrà agevolare il rapido
ristabilimento dell’onorabilità
offesa senza ricorrere
necessariamente al potere
giurisdizionale. Così pure
potrà essere perfezionata la
norma relativa alla pubblicazione integrale delle rettifiche.
15. Esigenza di organicità
delle norme
Riconosciamo che molto c’è
da operare perché tutte le
libertà costituzionali siano
ugualmente e giuridicamente
tutelate e perché le norme
relative alla stampa non
abbiano quella disorganicità
che non è certo di ausilio ad
una tempestiva ed uniforme
applicazione, in modo che la
stampa sia sempre più libera
nell’ambito del rispetto delle
altre libertà sancite dalla
Costituzione. Ciò comporta
responsabilità di governo
ma anche responsabilità di
Parlamento. È solo con
l’azione concorde del potere
legislativo ed esecutivo e
con l’indipendente attività
del potere giudiziario che si
può rafforzare la garanzia
delle libertà di tutti.
La democrazia che intende
«sfuggire alle allucinanti
imposizioni delle verità ufficiali» (Capograssi, op. cit., p.
13) è ben conscia che la
libertà di stampa è uno dei
fondamenti del sistema
democratico il cui fine è la
dignità dell’uomo nell’esercizio di tutte le sue libertà.
Guido Gonella
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2003
M
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E
Gianluigi Colin, Manifacturing the Present-La Fabbrica
del Presente, Charta, Milano 2002, pagine 191, euro 34
Ha esposto già le sue opere
d’arte, elaborazione
fotografica della notizia,
a Milano. La mostra
è proseguita a Mendosa
in Argentina e presto
raggiungerà Chicago
Gianluigi Colin, elaborare
l’immagine per capire
la fabbrica del presente
ca è ormai un retaggio del Novecento. Alcune
foto di cronaca hanno raggiunto quotazioni
come vere opere d’arte. È incontestabile che
molte altre immagini fotografiche risultano simili ad importanti quadri dell’arte antica, come
ne fossero una clonazione che vuole insegnare qualcosa ai posteri.
La strage della stazione di Bologna del 2
agosto 1980 e il quadro de La strage degli
innocenti di Guido Reni. Alcune immagini della
Cecenia nel ‘96 che riprendono l’atmosfera di
un quadro di Hieronymus Bosch.
Lo sbarco degli albanesi che ricorda la Zattera
della medusa di Gericault. Il generale Leon che
uccide Nguyem Van Lem a Saigon nel ‘68 e le
fucilazioni sul Monte Pio di Goya.
di Paola Pastacaldi
La fotografia è diventata oggi un surrogato
dell’identità di personaggi noti o resi celebri
dalla cronaca e dal piccolo schermo, ma
anche dei fatti del reale. Come ha scritto
Susan Sontag nel suo saggio Sulla Fotografia
l’uomo di oggi non è mai abbastanza fotografato né pubblicato. Le foto lo aiutano a confermare la sua esistenza. Non solo, anche la
nostra conoscenza è sempre più legata a ciò
che vediamo stampato.
Ma le immagini possono coincidere con i fatti?
In realtà sappiamo che le foto parlano solo
della fenomenologia del reale, cioè dell’apparire. Gianlugi Colin, art director coè responsabie
della grafica e dell’immagine del Corriere della
Sera (autore tra gli altri de Il disegno delle
parole, Rizzoli, ‘94), lavora nella redazione
milanese di via Solferino, dove è cresciuto sin
dagli anni Ottanta partecipando a tutte le tappe
di cambiamento tecnologico e qualitativo del
principale quotidiano italiano, conosce bene i
meccanismi di questa sofisticata macchina del
presente, che è l’informazione. Giornalmente
deve districarsi nel labirinto delle identità fotografate di personaggi e avvenimenti, dai più
normali a quelli più tragici.
In altre parole Gianlugi Colin entra giornalmente nella palude dell’esistenza fenomenologica
dei fatti.
Le immagini dell’attualità giornalistica forniscono oggi al lettore la possibilità di guardare là
dove mai avremmo pensato di poter guardare.
Spesso siamo chiamati come lettori e telespettatori a conoscere ciò che ci accade intorno in
un clima di violenza al quale non siamo impreparati.
Le copertine giornalistiche:
icone d’arte del presente
Nelle riproduzioni delle immagini di Gianluigi Colin, art
director del Corriere della sera tratte dalla mostra
Manifacturing the present -La Fabbrica del presente
Il racconto visivo di un giorno
qualunque di notizie
Dal mattino alla sera assistiamo ad una ripetizione ossessiva dell’orrore che si sviluppa nel
mondo e ogni frammento del reale viene rivisitato dai media attraverso le foto e le riprese
televisive.
Guerre in diretta, cecchini che uccidono come
se fossero davanti ai nostri occhi, cadaveri
straziati, parenti che piangono, mischiati a
soubrette televisive e personaggi politici della
scena mondiale. Nulla ormai esiste nei giornali se non è riconducibile ad una immagine.
Per sfuggire all’eccesso dei sentimenti proposto dai media si dovrebbe fare un esercizio
mentale quotidiano. Non a tutti riesce, ma
soprattutto è sempre più difficile resistere al
fiume in piena delle foto.
Nel libro Manifacturing the Present -La Fabbrica del presente l’art director Colin ha cercato
di vedere che cosa si nasconde dietro l’invasività delle immagini dei media che, essendo
troppo incarnate nel sentimento (naturalmente
per vendere più copie del prodotto giornale),
sono ormai diventata algide. Quindi l’informazione che passa attraverso le foto non informa
né comunica. Ma caso mai distorce i fatti.
Colin ha dato dignità di opere d’arte ai ritagli
fotografati del presente, adunando, deformando, ingrandendo come fanno le fotocopiatrici le
pagine dei giornali di tutto il mondo.
In un giorno qualunque di tutti quelli triturati
dalla macchina che produce l’informazione, il
15 luglio del 1995, Colin, come lui stesso
racconta, ha deciso di “fare il racconto visivo di
ORDINE
2
2003
Troppo spesso siamo passivi di fronte all’eccesso di immagini e ci limitiamo a sfogliare i
giornali e a guardare passivi le riprese in tv,
come fossero album o cartoline zeppe di foto
di famiglia riviste mille volte.
Così nei ritratti dei personaggi pubblicati sui
giornali e rielaborati da Colin assistiamo alla
creazione di icone d’arte del presente: Diana
nella copertina di Newsweek è l’eterna principesa di una favola tragica di Perrault, non sorridono Fidel Castro e il Gorbaciov di Time,
mentre Bill Clinton grazie ad un gioco di rossi
assume i tratti della vecchiaia dimessa come
nel racconto di Oscar Wilde Il ritratto di Dorian
Gray; fa paura la Madonna di Vanity Fair, è una
femmina di plastica la Naomi Campbell de La
Revista, lei l’intramontabile finta nera che ha il
carattere e i vizi dei bianchi, mentre l’enigmatico volto del plurimiliardario Bill Gates sulla
copertina di Time ci inquieta e tutto sembra
scivolare dentro un simbolico bidone di carta
straccia.
Colin ha esposto già le sue opere d’arte a
Milano; in questo momento sono a Mendosa
in Argentina e presto raggiungeranno Chicago. Quello che suggerisce il lavoro di Colin è
che non dobbiamo scordare alla fine che le
foto della cronaca sono foto che dovrebbero
provocare compassione, pietà e dolore dati i
contenuti che spesso hanno.
Serve coraggio per guardare dentro
certe raffigurazioni della realtà
un giorno di notizie, ho voluto raccontare la
microstoria della vita di tutti noi, da New York a
Bagdad, da Tokio a Milano, da Pechino a
Mosca.
Le somiglianze tra immagini storiche
e immagini della cronaca
E ha scoperto, per esempio, le straordinarie
somiglianze che esistono tra le foto storiche,
quelle che i media hanno pubblicato per
raccontare accadimenti cruciali dell’umanità, e
i quadri antichi più noti. Un esempio per tutti la
celebre foto del cadavere del Che Guevara
che sembra una strana fotocopia del Cristo
Morto del Mantegna.
D’altro canto la caducità delle foto della crona-
Ha scoperto le somiglianze tra foto storiche e
della cronaca
Serve, è vero, coraggio per guardare dentro
certe immagini di cronaca, anche se il dolore
messo in scena è quello dei media. Forse è
giusto ammettere che la fabbrica del presente,
cioè quella dei giornali, è la fabbrica del finto
dolore.
Le opere d’arte di Colin, che stanno girando il
mondo, ci insegnano a scomporre e ricomporre il presente storico proposto dai media - che
tra l’altro è diventato la nostra principale, se
non unica fonte del reale (e questo dovrebbe
certamente preoccuparci per le conseguenze
che ha sul piano educativo e sociale).
Tutto perché possano riprendere a palpitare di
significato, liberandoci dalla mostruosità
dell’eccesso. E per ricordarci che, per quanto
perfette siano le foto, non sono la realtà e
anche la battuta di Humphrey Bogart “... è la
stampa bellezza” è un po’ scaduta.
19 (27)
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T
R
Solfatara
in Sicilia,
1947.
E
Uno dei volumi dedicati a Patellani con le sue foto di
cronaca. Quella riprodotta in copertina è del 1955.
Un libro e una mostra
itinerante sull’Italia
delle miss, realizzati da Kitti
Bolognesi e Giovanna
Calvenzi, sue prime
assistenti, gli rendono
omaggio
Federico Patellani,
fotografo. Editorialista
in bianco e nero
di Fabrizio de Marinis
Storie di uomini veri. Storie alla Federico
Patellani, giornalista in bianco e nero che
usò la luce al posto dell’inchiostro. Un Curzio
Malaparte della camera oscura con i suoi
verismi anticipatori, spigoloso e altero nel
rappresentare una realtà cruda e ingenua
nell’Italia durante e dopo la guerra, immaginifico e possente, neorealista antesignano,
vulcanico nella sua creatività quasi irrefrenabile che sfociò in una tumultuosità professionale unica e irripetibile, con centinaia di viaggi e reportage in ogni angolo di mondo. Un
lavoro organico e puntiglioso, innovatore e
da nuova frontiera tanto da essere il caposcuola del fotogiornalismo italiano. Il suo
contributo creativo, rivoluzionò le pagine dei
più importanti giornali italiani ed esteri, tra i
quali Tempo, cui diede un contributo fondamentale, attraverso l’approfondirsi dei temi ai
quali era maggiormente legato, dalla metà
degli anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta: la guerra, il dopoguerra e la ricostruzione,
la realtà del lavoro e della ritualità del sud, i
personaggi del cinema e della cultura italiani, i grandi viaggi in Africa, in Asia, nelle
Americhe.
Un maestro della camera oscura
con la passione del giramondo
“A forza di girare il mondo facendo fotografie
– scriverà in un suo testo, il Giornalista
nuova formula, diventato, nel tempo, una
sorta di manifesto del fotoreportage italiano mi ritrovo oggi proprietario e archivista di un
cumulo di negative e di una ordinata e ricca
serie fotografica di ogni cosa. Collezione di
circa 12 anni. Se volessimo dare ora una
rapidissima occhiata assieme, vi accorgereste che bruscamente si passa dal dilettantismo al mestiere: sino a un certo momento
cronologico della raccolta, unicamente belle
fotografie; poi a queste si alternano quelle
documentarie. Qui ha inizio il mestiere. Non
vorrei si credesse che il giornale usi però
solo fotografie documentarie, direi anzi che
ho sempre tentato di forzare la mano a me
stesso e ad altri per giustificare la pubblicazione della bella fotografia a preferenza di
quella documentaria, purchè ciò non tornasse di svantaggio alla chiarezza e alla comunicatività del servizio. Quando non l’ho vinta,
la fotografia bella è rimasta per me ed è
entrata a far parte del mio archivio personale in luogo di essere numerata e catalogata
in quello del giornale”.
Nuova Cassino (Frosinone), 1945.
Carbonia (Cagliari), minatori 1950.
Trasporti pubblici, Milano, 1945.
Federico Patellani, 1947.
Milano. Bagnanti al canale Villoresi, luglio 1948.
Meina, Lago Maggiore, 1947. Foto di gruppo a casa di
Mondadori. Thomas Mann al centro e in senso orario, da
sinistra: Arturo Tofanelli, Franco Fortini, Guido Lopez,
Oreste Del Buono, Roberto Cantini, Enrico Emanuelli,
Alberto Mondadori, Lavinia Mazzucchetti, Arnoldo
Mondadori, Tom Antongini, Edilio Rusconi, Corrado
Pizzinelli, Giansiro Ferrata, Arrigo Benedetti (di spalle).
Dalle guerre ai concorsi di bellezza
una lunga storia di arte ed amore
Più che un archivio, una miniera di oltre 700
mila immagini, per fortuna approdato nella
sua totalità a Villa Ghirlanda di Cinisello
Balsamo, dove sta nascendo, finalmente, il
primo Museo di Fotografia contemporanea e
dove gli archivisti stanno procedendo alla
catalogazione digitale di tutti i negativi e al
recupero dei più vecchi e malconci, in modo
da non disperdere il frutto della carriera di
uno dei più prestigiosi reporter italiani del
secolo. Oggi, una serie di mostre organizzate
da Fnac a Milano, Genova e Torino e un libro,
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2003
Copertine di Tempo degli anni 1939, 1946 e 1947
realizzate con fotografie di Federico Patellani.
È stato uno dei maggiori fotoreporter
italiani del dopoguerra. Ha lasciato un
patrimonio di oltre 700 mila immagini,
oggi nel neonato Museo della Fotografia
di Cinisello Balsamo. A lui si deve
per il settimanale Tempo, l’invenzione
dei fototesto, piccoli documentari statici
con ampie didascalia.
Fotografia per la copertina di Tempo del 15 giugno 1946.
Al centro l’ultima pubblicazione su “bellezze”e cinema.
La più bella sei tu, Peliti Associati Editore,
tutte e due le iniziative curate da Giovanna
Calvenzi e Kitti Bolognesi, rendono omaggio
allo straordinario fotografo di origine monzese scomparso quindici anni fa. Le due curatrici ci svelano l’entusiasmo e la sorpresa,
quando riordinando l’archivio, tempo addietro, videro saltar fuori un plico, con la scritta
L’era delle Miss, dove il fotografo aveva accumulato tutto il materiale scattato durante il
famoso concorso di bellezza che seguiva per
il settimanale Tempo.
Quasimodo, Munari, Vittorini, amici
di un’impresa sulle orme di Life
Le immagini di Federico Patellani legate ai
concorsi di bellezza e alla nascita del cinema italiano nel dopoguerra – raccontano le
curatrici – sono una piccola cosa se commisurate alle 700 mila immagini da lui realizzate in quasi quarant’anni di attività. Anzi, negli
anni Sessanta, quando abbiamo iniziato a
lavorare con lui, Patellani sembrava aver
dimenticato questo capitolo della sua professione, concentrato com’era nei grandi viaggi
che erano diventati sua croce e delizia. Deluso, infatti, dall’incompentenza che vedeva
crescere nei giornali, aveva abbandonato il
fotogiornalismo impegnato che lo aveva reso
protagonista dei maggiori eventi nazionali ed
esteri, ed aveva scelto la strada dei viaggi,
inventandosi periodicamente un pretesto, già
venduto, per una nuova avventura fotografica. Appariva, comunque, privo di risentimenti e di ripensamenti. Parlava pochissimo
degli anni pieni di fervore creativo nei quali,
con Alberto Mondadori e una straordinaria
redazione formata da Salvatore Quasimodo,
Bruno Munari, Elio Vittorini, Indro Montanelli
ed altri, aveva dato vita al settimanale
Tempo, il primo grande periodico illustrato
italiano, nato a cavallo della guerra sulle
orme di Life.
Lucia Bosé al concorso di Miss Italia, a Stresa,
nel 1947.
Milano, 1951. Una candidata al titolo di Miss Tempo sfila davanti
ai redattori del settimanale: da sinistra, Domenico Cantatore,
Arturo Tofanelli e Ezio Suppini.
Dal set con Soldati al fronte russo,
seppe interpretare un’epoca
Patellani era giornalista e fotografo, in un
momento in cui una fotografia serviva quanto la parola scritta per informare il lettore in
un paese con un altissimo tasso di analfabetismo. Al servizio dei lettori aveva creato per
Tempo il fototesto, piccoli documentari ad
immagini fisse con ampie didascalie, dove i
testi avevano spesso solo una funzione
esplicativa. Dopo l’esperienza di Tempo, nel
1939, si avvicina sempre di più al cinema ed
è tra i produttori del film Piccolo Mondo Antico diretto da Mario Soldati. Torna come inviato fotografo sul fronte russo e rientrato in
Italia aggiunge alle immagini incredibili
realizzate in quel paese, quelle sulla distruzione bellica.
Sofia Loren e Cary Grant in Spagna, nel 1956, sul set
del film Orgoglio e passione, diretto da Stanley Kramer.
Il suo segreto: cogliere il movimento
e l’essenziale di ogni cosa
In Magna Grecia e Paradiso Nero
dall’Italia alle tragedie dell’Africa
Nel 1952 realizza un ampio servizio sul
meridione dal titolo Italia Magica. Nel 1953
è aiuto regista di Alberto Lattuada per il film
La Lupa. Seguiranno altri reportage come
Viaggio in Magna Grecia sempre sul meriORDINE
2
2003
dione d’Italia e Viaggio nei Paesi di Ulisse.
Per qualche anno continuerà ad essere
testimone della realtà italiana e lavorerà per
la casa cinematografica di Dino De Laurentis. Nel 1956 realizza un lungometraggio
America Pagana che pubblica in fotografie
anche su Epoca. Sempre Epoca nel 1957
gli pubblica uno speciale di 160 pagine,
Paradiso Nero, un viaggio che compie con il
figlio Aldo, dal Congo Belga al Kenya per
oltre 25 mila chilometri. Ormai il suo lavoro
si svolge soprattutto in viaggio e i suoi servizi vengono pubblicati anche dalla Domenica del Corriere, Successo, Storia Illustrata e
Atlante.
Ricordo la capacità di narrazione – racconta
Kitti Bolognesi che è stata con la Calvenzi
sua assistente – la fotografia vissuta come
vita e azione. Patellani seppe interpretare
un’epoca, dalla distruzione della guerra ad
un’Italia senza malizia e con la voglia di fare
che si rimetteva in piedi.
Silvana Mangano con una delle figlie nella sua casa
romana, nel 1954.
La fotografia di movimento richiede la scelta
di un momento narrativo – concluderà nel
suo articolo-manifesto, Il giornalista nuova
formula, Patellani – quale solo il cinematografo ci ha abituati a vedere, con l’offrirci la
possibilità tecnica di selezionare ed analizzare i valori successivi di ogni atteggiamento e di ogni movimento dell’uomo, delle
macchine che egli ha creato e di tutto ciò che
vive intorno a lui. Bisogna, insomma, per il
servizio e per sé, saper cogliere l’atteggiamento momentaneo, il movimento, il sensazionale, l’essenziale di ogni cosa. Certamente è difficile in una sola fotografia fondere i
valori documento-bellezza. Ma…sta qui la
classe del fotografo.
21 (29)
M
O
S
T
R
E
Eugenio Torelli Viollier, a destra, rocambolesco
giornalista napoletano, garibaldino, segretario
di Dumas padre, fu il fondatore del Corriere della Sera.
In basso, la famosa Sala Albertini, dove si elaborava
il giornale e una copertina della Domenica del Corriere
del 1907, di Achille Beltrame, sull’ingresso
nell’Arena di Milano di Luigi Barzini e Scipione
Borghese vincitori del raid Pechino-Parigi.
Nella pagina accanto lo splendido ritratto di Ellade
Crespi Colombo, opera di Cesare Tallone
Mostra sulla modernità,
il Mondo Nuovo,
Milano 1890-1915,
nelle sale
di Palazzo Reale
a Milano
(aperta fino al 28 febbraio
2003)
Un barattolo legato ad un filo collegava la redazione,
in Galleria Vittorio Emanuele a Milano,
con la tipografia per mandare su e giù gli articoli
e le bozze da correggere.
Tre redattori e appena i soldi per la carta e l’inchiostro.
Era il 5 marzo del 1876.
Un’impresa, secondo i più, destinata a chiudere in una
Milano allora ritenuta la Lipsia d’Italia
per il fiorire delle arti, della letteratura,
della musica e del teatro.
Invece il giornale, diventato emblema della borghesia
illuminata milanese, dalle tremila copie iniziali
è passato alle 500 mila dell’era Albertini,
alle oltre 800 mila di oggi,
scavalcando il finire di due secoli.
Milleottocentosettantasei,
nasce il cavouriano
“Corriere della Sera”
di Fabrizio de Marinis
Le guerre dei titani attraversano le epoche.
E così è stato per il Corriere della Sera
emblema del finire di un secolo e del
nascere del secolo nuovo che fu il Novecento. Il primo numero uscì il 5 marzo
1876, era la prima domenica di quaresima,
giorno in cui per tradizione a Milano, i giornali non venivano pubblicati e la città si
riposava dopo la baldoria del carnevale. A
fondarlo, a sostegno della tradizione politica della destra liberale cavouriana, anche
se fin dall’inizio si dichiarò fortemente votato all’equidistanza, fu un giornalista napoletano dalla vita un po’ rocambolesca,
Eugenio Torelli Viollier, garibaldino della
prima ora impegnato in Irpinia, poi segretario di Alexandre Dumas padre a Parigi,
dopo essere stato suo redattore all’Indipendente di Napoli nel 1860. I capitali
erano però lombardi.
Quel Carnevale si pensò a uno
scherzo, era nato il Corriere della Sera
Era stato comunque un carnevale clamoroso e affollato, protrattosi fino all’alba di
quella domenica. La gente, nel pomeriggio, dopo aver dormito fino a tardi – ricorda il redattore Raffaello Barbiera, storico
della società letteraria milanese con il libro
Il salotto della contessa Maffei del 1895,
nella rievocazione apparsa nel 1919 sulla
Rivista Italiana – si era riversata per le
strade del centro, nei caffè, in Piazza della
Scala e ancora discuteva del carnevale,
quando verso le 21 (i giornali allora uscivano tutti di sera) cominciarono ad apparire, portati dagli strilloni, i primi pacchi del
nuovo giornale. Per i più fu una sorpresa
perché era tradizione che i giornali non
uscissero. Quando si seppe che si trattava
del Corriere della Sera, del quale ormai
tutti avevano sentito parlare, la folla ondeggiante per le vie allora poco rischiarate dai
lampioni a gas, strappava dalle mani dei
rivenditori frettolosi il Corriere, aspettandosi chi sa quali violente personali polemiche in risposta ai rabbiosi nemici, conoscendo lo spirito battagliero del noto Torelli Viollier. Tra quella sera di domenica e le
prime ore della mattina seguente furono
vendute tutte le 15 mila copie del primo
numero.
Milano della Belle Epoque era considerata, all’aprirsi del nuovo secolo, come ha
osservato Enrico Decleva, la Lipsia italiana per l’importanza e la diversificazione
delle sue industrie editoriali e uno speciale
primato cittadino che ha visto crescere
aziende attive nel settore dei libri, dei
periodici e dei giornali. Arte, letteratura,
teatro, musica, poesia confluivano in quella che già si andava definendo come la
capitale culturale del paese, in infinite
proposizioni e scapigliature. A ricordarcelo, alcune sezioni della mostra sulla
Modernità, il Mondo Nuovo, Milano 18901915, nelle sale di Palazzo Reale a Milano
(aperta fino al 28 febbraio 2003), voluta
dall’Università Bocconi a coronamento
delle celebrazioni per il centenario della
sua fondazione. Era la Milano dei grandi
salotti letterari, come quello della contes-
22 (30)
Una locandina di Giacomo
Beltrami, dove per la prima volta
vengono annunciati i “doni agli abbonati”: La Lettura, nata nel 1901,
e La Domenica del Corriere, la cui
prima uscita è del 1899.
ORDINE
2
2003
I ventotto direttori del “Corriere della Sera”
Eugenio Torelli-Viollier
Antonio Alfredo Comandini
Eugenio Torelli-Viollier
Andrea Cantalupi
Luca Beltrami
Eugenio Torelli-Viollier
Domenico Oliva
Luigi Albertini
Alberto Albertini
Pietro Croci
Ugo Ojetti
Maffio Maffii
Aldo Borelli
Ettore Janni
Filippo Sacchi
Ermanno Amicucci
Mario Borsa
Guglielmo Emanuel
Mario Missiroli
Alfio Russo
Giovanni Spadolini
Piero Ottone
Franco Di Bella
Alberto Cavallari
Piero Ostellino
Ugo Stille
Paolo Mieli
Ferruccio De Bortoli
dalla fondazione (5 marzo 1876) all’agosto 1891
dal 1 settembre 1891 al 20 novembre 1892
dal 21 novembre 1892 al 1893
dal 1894 all’aprile 1896
dal maggio 1896 al 3 novembre 1896
dal 4 novembre 1896 al maggio 1898
dal maggio 1898 al 23 maggio 1900
dal giugno 1900 (gerente dal luglio 1900) all’ottobre 1921
dall’autunno 1921 al 28 novembre 1925
dal 29 novembre 1925 al 17 marzo 1926
dal 18 marzo 1926 al 17 dicembre 1927
dal 18 dicembre 1927 al 31 agosto 1929
dal 1 settembre 1929 al 26 luglio 1943
dal 1 agosto 1943 al 12 settembre 1943
(direttore del pomeriggio) dal 3 agosto 1943 al 12 settembre 1943
gerenti responsabili due redattori dal 16 settembre 1943 al 5 ottobre 1943
dal 6 ottobre 1943 al 25 aprile 1945
dal 26 aprile 1945 al 6 agosto 1946
dal 7 agosto 1946 al 14 settembre 1952
dal 15 settembre 1952 al 14 ottobre 1961
dal 15 ottobre 1961 al 10 febbraio 1968
dall’11 febbraio 1968 al 14 marzo 1972
dal 15 marzo 1972 al 29 ottobre 1977
dal 30 ottobre 1977 al 19 giugno 1981
dal 20 giugno 1981 al 19 giugno 1984
dal 20 giugno 1984 al 28 febbraio 1987
dal 1 marzo 1987 al 9 settembre 1992
dal 10 settembre 1992 al 7 maggio 1997
dall’8 maggio 1997
sa Maffei, delle prime dannunziane, della
Scala dove dirigeva Puccini, dove il mecenatismo editoriale dei Treves e dei Sonzogno scopriva talenti.
Accanto ai due colossi Treves e Sonzogno
– commentano Fernando Bandini e Anna
Modena curatori del catalogo e delle sezioni specializzate – l’uno, il borghese illuminato diventato l’editore dell’allora migliore
letteratura contemporanea, l’altro, l’editore
popolare che aveva stampato Il Secolo, a
lungo il quotidiano più diffuso e l’organo
della democrazia lombarda, prosperano
editori con aziende settoriali, come Hoepli,
la cui collana di Manuali superava i cinquecento titoli, e Vallardi, specializzata in libri
per l’infanzia, testi scolastici, supporti didattici e carte geografiche. Baldini e Castoldi
rilevano la ditta fondata da Giuseppe Galli,
meritevole dei successi di molta buona
letteratura milanese da De Marchi a Neera.
Galli nel 1896 pubblica Piccolo Mondo Antico di Fogazzaro e Baldini e Castoldi stamperanno in quegli anni Il Santo e Leila,
garantendosi anche i successi di Guido da
Verona.
1904, l’anno del “grande sorpasso”:
il Secolo va in seconda posizione
È nel 1890 che il Corriere inizia ad insidiare
da vicino le tirature del Secolo (il sorpasso
avvenne nel 1904), che aveva raggiunto le
centomila copie, costringendo Sonzogno a
cambiare politica editoriale e a puntare
sempre di più sui libri e la musica. Il giornale di Torelli Viollier era partito con appena
tre redattori e aveva a malapena i soldi per
pagare carta ed inchiostro (30 mila lire del
tempo). Il pronostico fu quindi che questo
quotidiano avrebbe avuto vita corta. Invece
il Corriere sopravvisse, sia pur avventurosamente, passando dalle iniziali tremila
copie di tiratura, alle 100 mila di fine secolo,
poi alle 500 mila di Luigi Albertini, infine alle
oltre 800 mila di oggi , divenendo tra l’altro,
nel 1912, il primo quotidiano a tiratura
nazionale. Il sorpasso del Corriere della
Sera sul Secolo è del 1904.
Il Corriere della Sera non è nato per caso.
Soprattutto non è un caso che sia nato a
Milano – racconta Glauco Licata nel suo
libro Storia del Corriere della Sera – la città
era una fucina di iniziative editoriali solide
e ponderate come Sonzogno, Treves,
Corona e Caimi, Hoepli, Giacomo Agnelli,
Ricordi, Crivelli, Politti, Vallardi. Con la
Scala e con Casa Ricordi e con Verdi che
l’aveva eletta a sua città, Milano era la
capitale della musica. Con circa 10 teatri,
era la piazza più importante d’Italia per le
novità teatrali.
Con i fermenti del romanticismo e in seguito
della scapigliatura, il verismo era nell’aria,
Milano costituì, fin dall’occupazione napoleonica, l’alveo naturale di una cultura in divenire che fu, nel contempo, un nuovo modo di
concepire la vita. Durante la scapigliatura i
letterati e gli artisti erano scesi in piazza: i
caffè e talune osterie fuori porta erano divenuti i moderni circoli culturali, come la Sala
Cabrini o il ristorante l’Orologio.
Furono questi veri e propri cenacoli letterari in continua polemica con altri come il
Caffè Cova, il Gnocchi, il Caffè dell’Accademia di Piazza della Scala; ed infine in
ORDINE
2
2003
polemica con il celebre salotto della
contessa Clara Maffei. Né va scordato
quello della gentildonna Vittoria Cima, filiazione di quello della Maffei, ma aperto agli
scapigliati, frequentato oltre che da Arrigo
Boito e da Giuseppe Licata anche dal
Torelli Viollier. A Milano c’erano ben otto
giornali che tiravano insieme un terzo della
tiratura nazionale che era di 500 mila copie
su una popolazione di 300 mila persone e
nel 1837 vi si stampavano tra quotidiani,
settimanali e mensili, 137 testate di fronte
alle 109 di Roma, alle 107 di Firenze, alle
85 di Torino.
I fratelli Treves ricevevano il venerdì sera,
Emilio, giorno di riposo della Scala, e la
domenica, Giuseppe. Vi si incontravano gli
artisti più famosi, da Puccini a Giacosa, a
Boito, autori della casa come Rovetta e Ada
Negri, D’Annunzio e anche Torelli Viollier e
Raffello Barbiera, poi giornalista di punta
del nuovo Corriere della Sera, il commediografo Annibale Butti e Giannino Antona
Traversi, come il pittore Enrico Scacchetti,
Guido da Verona, Umberto Notari, Filippo
Tommaso Marinetti, Gustavo Botta. Milano
era, insomma, una fucina d’incontri e di
propositività, in costante contatto diretto
con le altre grandi capitali europee della
cultura come Parigi, Berlino e Londra e
faceva tendenza in molti settori culturali e
dell’industria, com’è ancora oggi.
Albertini puntò sull’efficienza
e inventò il “redattore viaggiante”
In questo contesto di grandi effervescenze di
idee nasce il Corriere della Sera, in un
momento storico molto delicato perché
proprio il 18 marzo 1876, a pochi giorni dalla
nascita del giornale, per la cosiddetta rivoluzione parlamentare, la destra cessò di
reggere il governo dell’Italia di allora passando la mano alla sinistra non senza gravi
contrasti.
Ma il giornale seppe navigare quelle acque
tutt’altro che tranquille con una personalità
propria, soprattutto per le intuizioni di Torelli
Viollier che ne divenne comproprietario insieme a Benigno Crespi, industriale tessile
lungimirante che per primo capì che si poteva investire (rilevò le quote dei soci uscenti
con 100 mila lire) in editoria, guadagnando (i
Crespi abbandonarono la proprietà del
Corriere con la pronipote Giulia Maria, agli
inizi del 1970). Nel 1898, quando il fondatore
ne lasciò la direzione, la tiratura dalle tremila
copie iniziali, come già detto, era salita quasi
a centomila.
Dal 1898 al 1900 fu, poi, diretto da Domenico Oliva, poeta, drammaturgo, uomo politico
(particolarmente notevoli le sue Lettere di un
giovane deputato), critico teatrale, deputato
alla XX legislatura, e dal 1900 da Luigi Albertini, nato ad Ancona nel 1871 e senatore del
regno dal 1915, che già faceva parte del
giornale e ne prese il posto non senza polemiche.
Albertini rivoluzionò tutto, potenziando la
redazione e istituendo la figura del redattore
viaggiante, l’attuale inviato, mandò, poi, corrispondenti nelle principali capitali europee,
affidò le varie rubriche del giornale a specialisti di fama e di fatto fece del Corriere il più
grande giornale italiano.
Al primo supplemento illustrato settimanale,
la Domenica del Corriere, iniziato nel 1899 e
diventato popolarissimo, si aggiunse nel
1901 la rivista mensile La Lettura, che ebbe
come primo direttore Giuseppe Giacosa, poi,
nel 1903, Il Romanzo Mensile in omaggio ai
lettori, e, nel 1909, il Corriere dei Piccoli.
Una figura chiave, Eugenio Balzan,
l’uomo dell’organizzazione
Ma una delle figure chiave, oltre quella di
Albertini, fu quella di Eugenio Balzan, inviato
del giornale con le famose inchieste sull’immigrazione italiana in Canada, che nel 1902
assunse la direzione amministrativa di tutta
l’azienda dandogli un impulso storico e la
potente organizzazione.
Il giornale si avvalse della sua autorità e
diffusione per sostenere, nel 1911-12, l’impresa libica e, subito dopo, attraverso la
penna di Luigi Barzini, prevedendo la grave
crisi mondiale, sottolineò i gravi pericoli dei
nostri connazionali all’estero sollecitandone
la protezione. In quegli anni quello che resta
uno dei maggiori inviati della storia del giornalismo italiano raccolse le sue corrispondenze in volumi che ebbero grande fama,
come quelli sulla guerra russo-giapponese, il
tragico volo di Geo Chavez attraverso le Alpi
e il resoconto del suo raid automobilistico
Parigi-Pechino con Scipione Borghese.
Scoppiata la guerra mondiale, nel 1914, il
Corriere considerò subito la neutralità italiana come provvisoria ed ebbe una parte decisiva nel preparare l’opinione pubblica alla
guerra. Entrata anche l’Italia nel conflitto
sostenne con energia la resistenza ad ogni
aggressione e la politica cosiddetta delle
nazioni oppresse.
Nella crisi che agitò l’Italia dopo la vittoria
affermò la necessità di un’intesa non senza
polemiche con i fronti dannunziani. Durante i
disordini interni al paese del 1919-22, combatté criticamente il socialismo, criticò aspramente la debolezza dei governi e non nascose le simpatie per il movimento fascista.
D’Annunzio, Pirandello, Malaparte,
Brancati: grandi firme di due secoli
Ma quando la marcia su Roma portò al potere Mussolini e il fascismo, il Corriere, fermo
nella sua pregiudiziale di liberalismo costituzionale, si trovò ben presto in urto con il
nuovo regime rivoluzionario e capeggiò i
giornali d’opposizione.
Nel novembre del 1925, Luigi Albertini, suo
fratello Alberto, ed altri venti redattori furono
costretti a lasciare il giornale, che dopo una
breve direzione di Pietro Croci, già corrispondente da Parigi, fu condotto nell’orbita
del fascismo dal nuovo direttore Ugo Ojetti.
Tra i redattori e i collaboratori del Corriere si
possono annoverare i più alti nomi della
letteratura italiana quali Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello, Francesco Pastonchi,
Luca Beltrami, Antonio Fogazzaro, Curzio
Malaparte, Grazia Deledda, Vitaliano Brancati, Federico de Roberto e Dino Buzzati.
Ai quali ne andrebbero aggiunti molti altri
perché in oltre un secolo di storia il Corriere è diventato un testimone epocale, una
voce narrante dei grandi eventi del paese,
delle grandi avventure del mondo.
Fabrizio de Marinis
23 (31)
I
N O S T R I
Sandro Dini,
Felice Palasciano
e Alfio Colussi
L U T T I
Giancarlo Masini, giornalista
scientifico per vocazione
di Paola De Paoli
“Dobbiamo essere grati a quelli che, come
Giancarlo Masini, fan condividere al pubblico
la gioia della creazione scientifica, che è parte
integrale dell’impresa intellettuale dell’umanità”. Lo affermava Salvatore L. Luria, premio
Nobel per la Medicina 1969, presentando nel
1972 (singolare coincidenza, l’anno in cui lo
scienziato aveva fondato a Boston l’Istituto per
la ricerca sul cancro) la prima edizione del
volume Sulle tracce della vita, uno dei numerosi libri che Giancarlo aveva (e avrebbe in
seguito) scritto, oltre alle migliaia di articoli
pubblicati da quotidiani e da riviste italiane ed
estere. E come Salvatore Luria amava autodefinirsi “un intellettuale senza confini”, certo
per la sua innata versatilità di scienziato che
aveva spaziato dalla biologia molecolare alla
fisica e alla radiologia, così credo si possa
ricordare Giancarlo Masini che, partito da una
solida formazione scientifica, ha voluto per
libera scelta dedicare l’intera sua vita professionale alla diffusione del sapere e delle
conquiste della tecnologia.
Giancarlo è scomparso a Milano, dove era rientrato da San Francisco sei giorni avanti, alle
primissime ore del mattino di lunedì 13 gennaio,
dopo una malattia che da oltre due anni lo
aveva via via minato nel fisico, alla quale per
mesi aveva opposto la sua volontà di reagire,
cercando negli Stati Uniti prima e poi soprattutto in Europa ogni possibile rimedio, tentando di
convincere se stesso che ce l’avrebbe fatta.
Mystères et miracles autour du foie era il titolo
del libro che mi aveva preannunciato nell’ottobre del 2001, che pensava scrivere a quattro o
sei mani. “Un titolo – diceva quasi compiaciuto
– che si traduce bene in italiano e anche in
inglese”. Purtroppo, i misteri del fegato hanno
avuto il sopravvento.
Nato a San Giovanni Valdarno nel giugno
1928, una non facile adolescenza (a soli 15
anni aveva perduto il padre vittima di una
rappresaglia) lo costringe a fare il precettore in
un collegio fiorentino per mantenersi agli studi
liceali. Iscrittosi all’Università, si laurea in
Chimica Fisica a pieni voti nel 1958 con una
tesi sperimentale sulla struttura molecolare di
composti organici iodati e una tesina che è
anticipazione teoretica di metodiche analitiche
in seguito utilizzate, undici anni più tardi, per lo
studio della composizione del suolo lunare
attraverso apparecchiature automatiche. Una
laurea raggiunta non tra gli agi, ma sudata
lavorando per quella che è la sua decisa scelta di vita: giornalismo (si qualifica professionista quando è ancora studente) e soltanto per
argomenti scientifici. Inizia, è vero, come reporter al Giornale del Mattino di Firenze, ma la
sua carriera è rapida, stimolata dalle esperienze “sul campo” che il suo maestro, il professor
di Giuseppe Prunai
Fu il primo amico che ebbi a Firenze, quando mi trasferii nel capoluogo toscano, dalla
natìa Siena, nel 1956. Firenze è una città
chiusa e per chi non è fiorentino da generazioni è difficile inserirsi. Accadde al sottoscritto e qualche anno prima era accaduto
a Giancarlo.
Fu anche per questo che legammo, oltre
che per la comune passione per la scienza,
sia pure coltivando discipline diverse. Oltre,
naturalmente, al fatto di lavorare nello stesso giornale, il Giornale del mattino, e ad
avere orari pressoché identici.
Il giornale aveva la sede in una stretta viuzza in zona abbastanza centrale: un palazzo
moderno costruito al posto di una casa
bombardata. Sulle facciate un’orribile cortina, modanature di travertino, l’interno nobilitato da due affreschi di Ottone Rosai, e
insolite le finestre larghe e basse, con dei
davanzali di una ampiezza incredibile.
Sembravano dei minibalconi. E su questi,
Masini, nelle notti d’estate, si sdraiava per
24 (32)
Giancarlo Masini nella ricorrenza dei 30
anni Ugis al Circolo della Stampa di Milano.
Giorgio Piccardi, gli affida facendolo trasferire
per una serie di ricerche nell’isola di Tromsoe,
500 km oltre il Circolo polare artico. Nel 1961
partecipa come ricercatore alla prima spedizione aerea per l’osservazione di una eclisse
solare, che porterà alla scoperta delle cosiddette zone fredde del Sole, e ad altre correlate
alle ricerche di Piccardi. Iniziano così le sue
collaborazioni al Corriere della Sera e a La
Stampa che lo portano a trasferirsi a Milano,
assunto come redattore al Corriere della Sera
dove realizza – un primato in Italia del quale è
orgoglioso – la pubblicazione di pagine speciali dedicate alle attività e alle problematiche
della scienza e della tecnologia.
Nel suo percorso in verità breve da redattore a
capo servizio e infine a inviato speciale è
presente in ogni luogo del mondo ove avvengono eventi scientifici, dai lanci nello spazio
alle evoluzioni della scienza e della tecnologia
in ogni settore. Nel 1974 segue Indro Montanelli al Giornale e vi rimane per una decina
d’anni. Nel 1984 si trasferisce a San Francisco,
nominato addetto scientifico per l’ambasciata
d’Italia, incarico che assolve con competente
professionalità per otto anni, una capacità
peraltro a lui congenita e favorita dalle sue
conoscenze nel mondo internazionale della
scienza. Nel frattempo, collabora con La
Stampa per alcuni anni e poi con il Corriere
della Sera, continuando a risiedere a San
Francisco e a fare il pendolare con l’Italia.
Instancabile, scarsamente ligio alle ore di riposo notturne che dedica ai suoi scritti e alle
letture; generoso con gli amici e i conoscenti;
toscano “di razza” che per nessuna ragione al
mondo può rinunciare ad una battuta, anche
se scomoda; una intelligenza brillante, pronta,
nitida, sorretta da una vastissima e solida
cultura, favorita sovente da felici intuizioni, ad
esempio nell’interfaccia giornalismo scientifico
e società.
In questo contesto è promotore e co-fondatore
dell’Ugis – Unione giornalisti italiani scientifici –
istituita a Milano nel 1966 con un gruppo di
colleghi e scienziati, e fa testo in proposito la
“memoria storica” della sua costituzione pubblicata sugli Annuari dell’Ugis a cura di Luciano
Ferrari, altro co-fondatore. Ne lascia la presidenza nel 1983, quando si trasferisce a San Francisco, ma conserva quella onoraria della quale si
dichiara sempre orgoglioso, mantenendone i
rapporti con assiduità, pronto con il suo prezioso supporto anche quando la malattia vuole
piegarlo. Alla cena di Natale Ugis del 9 dicembre partecipa con fatica, e non cela un certo
disagio per alcune distrazioni da parte dei
numerosi presenti.
La sua cittadinanza cosmopolita lo porta ad
essere promotore e co-fondatore anche dell’Eusja – European Union of Science Journalists’
Associations, della quale sarà presidente per
quattro bienni – istituita nel 1971 in Belgio con
sei associazioni omologhe dell’Europa occidentale, attualmente con sede a Strasburgo e 22
paesi associati. Il suo dinamismo e la sua carica di energia animano queste istituzioni, ma è
soprattutto all’Ugis che si sente maggiormente
legato e quando si trasferisce a San Francisco
offre ai soci il suo patrimonio di conoscenze
favorendo incontri con scienziati e ricercatori sia
americani, sia italiani che operano negli Usa.
Ed è particolarmente felice quando, grazie ad
un lascito di un socio scomparso nel 1993
destinato all’Ugis, l’Associazione realizza una
serie di iniziative, dalle borse di studio per giovani giornalisti avviati alla comunicazione scientifica ai viaggi di studio per l’aggiornamento
professionale dei soci. “Perché – amava affermare in ogni occasione – noi dobbiamo avere
sempre l’umiltà di imparare, come è nostro
dovere essere informati per trasferire le conoscenze scientifiche acquisite in modo corretto
ed evitando di ingenerare speranze che potrebbero essere disattese”.
La mia speranza, caro Giancarlo, è di seguitare
lungo quei percorsi che tu sino ad oggi hai
approvato. Con maggiore impegno, se possibile, finché avrò forza, affiancata dai tanti soci che
ti sono vicini. Una testimonianza di affetto fraterno rivolto anche a tua moglie Luigina ed a tuo
figlio Gino, ora ingegnere elettronico, “ che il
cielo ha tutto negli occhi” come tu gli hai dedicato, nel 1976, una delle tue tante fatiche che lo
stesso astrofisico Guglielmo Righini aveva letto
d’un fiato divertendosi.
*presidente Ugis, presidente emeritus Eusja
“Fu il primo amico
che ebbi a Firenze”
prendere il fresco e dormire. E il capocronista che urlava: “Non dormire lì, che tu
caschi di sotto. Capirai, c’ho il Cresci e il
Gattai in ferie, se te tu ti sfracelli, come la
fo’ la pagina?”
E allora Giancarlo cominciava a girare per i
corridoi del giornale. “E ora, icché tu fai?”
urlava il capocronista. E lui: “Passeggio per
non addormentarmi”. Perché Masini,
studente universitario il giorno e cronista la
notte, non appena si sedeva, si addormentava. Non ne poteva più dalla stanchezza!
Finalmente conquistò la laurea ed offrì una
bicchierata a tutti i colleghi alla buvette del
giornale sostituendosi al barista dietro al
bancone. “Icché tu fai costì?” urlò il solito
capocronista. E Masini asciutto: “Bah, voglio
guardare il mondo da quell’altra parte della
barricata!”. Una battuta o un programma?
Poi, lui decollò per Milano, per il Corriere
dove andai a trovarlo quando il Giornale del
Mattino fallì e rimasi disoccupato. Era ora di
cena e lui mi pilotò in una trattoria toscana,
vicino a via Solferino. Forse, Pantagruel non
aveva mai mangiato e bevuto come noi due
quella sera. Al momento di pagare il conto,
non volle fare alla romana come facevamo
a Firenze quando, usciti dal giornale, alle
due, alle tre della notte, finivamo in un ristorante di via Porta Rossa, abituale ritrovo di
nottambuli (giornalisti compresi) e nottambule. Ma Giancarlo non volle accettare il mio
Milano, 3 gennaio 2003. Sono scomparsi
due giornalisti, di origine meridionale, che si
erano fatti notare in particolare attività nel
settore del giornalismo sportivo ed anche in
quello delle organizzazioni professionali.
Felice Palasciano era nato a Bari il 17 agosto
1912 e Sandro Dini a Reggio Calabria il 9
luglio 1915. Palasciano è morto il 2 novembre 2002 e Dini il 17 dicembre dello stesso
anno. Figuravano nell’Albo dal 1945.
Dini fu anche redattore
capo alla Rai di Roma.
Negli anni successivi lo si
trova attivissimo corrispondente da Milano del
Messaggero e del Tempo.
Nel 1958 Dini ottenne il
Premio nazionale Sala
Stampa. Sempre in prima
linea nel gruppo milanese
dei corrispondenti e sempre
in prima linea nelle attività
professionali come in quelle
organizzative dell’Ordine,
del sindacato e nei vari
dibattiti professionali. Nel
1950 fu un attivo protagonista della realizzazione di
due edifici costruiti nei pressi di piazza della Repubblica e destinati a un gruppo
di giornalisti professionisti
riuniti in cooperativa.
Felice Palasciano, “per
decenni colonna” della Gazzetta dello Sport, aveva cominciato a collaborare con la
“rosea”, quando aveva 17
anni. Ne era diventato collaboratore fisso nel 1938 e
redattore nel 1946 (quando
condirettore responsabile
era Gianni Brera).
Va ricordato per avere inventato il giornalismo degli sport
minori (ginnastica, lotta, pesi, judo). Era in pensione dal
1973.
Alfio Colussi ha lavorato per
40 anni al Corriere della
Sera. Esperto di pubblicità,
antesignano del management, curò negli anni 60
Prestigio la rivista di pubbliche relazioni dell’editoriale
Corriere della Sera per
passare poi alle pagine del
tempo libero e dell’economia.
Negli ultimi anni dirigeva Il
Giornale degli ingegneri.
Aveva esordito a Fiume
come redattore del quotidiano La Vedetta d’Italia
soppressa nel 1945 dalle
autorità jugoslave all’atto
dell’occupazione della città.
contributo di disoccupato.
“Mi inviterai a cena quando sarai nuovamente a posto”, mi disse e mi indicò un
percorso che poi si rivelò una strada
maestra. Unico guaio: dovetti trasferirmi a
Roma e non a Milano, città per la quale ho
sempre avuto un debole. Come, del resto
ce l’aveva Giancarlo.
Poi ci perdemmo un po’ di vista. Io a Roma,
lui a Milano, poi negli Usa. Ci sentivamo per
telefono di tanto in tanto o ci incontravamo
nei posti più impensati: in Canada, a
Londra, in una toilette dell’autostrada. E
allora mi ricordavo che gli dovevo una cena.
Tentavo di invitarlo, lui si grattava la testa.
“Beh, adesso sto partendo. Domani sono a
Zurigo, da lì prendo il volo per St. Francisco,
ritorno fra un mese. Sentiamoci”. Ma il mese
dopo il problema era mio perché il giornale
mi aveva spedito chissà dove. Insomma era
come giocare al gatto e al topo.
Alla cena di Natale dell’Ugis, avevamo finalmente combinato. Fine febbraio, per il mio
compleanno. Ma a casa mia, quel giorno, ci
sarà un commensale in meno.
ORDINE
2
2003
I
N O S T R I
Addio a Willy Molco
direttore con garbo
stampa del Tg1, di cui Willy Molco era uno dei
responsabili, ed è abitudine diffusa ringraziare
per l’attenzione. Invece, Willy Molco voleva dirmi che stava male. Molto male. Con un cancro
devastante e già molto avanzato. «Devo combattere una battaglia difficile. Ho parlato con
Veronesi. Seguo i suoi consigli, faccio tutto
quello che bisogna. Mi dispiace darti una brutta
notizia su di me. Se passi da Roma e vieni a
trovarmi, mi fa piacere».
Ecco, i miei rapporti con Molco erano così: saltuari ma schietti, intensi. E spesso mediati da
una sua grande amica: Maria Venturi, scrittrice
e giornalista.
Era con Maria nella stanza accanto che Willy
Molco, tanto tempo fa (fine anni Settanta), dirigeva il settimanale popolare Novella 2000.
Willy era un direttore gentile, colto, incuriosito
dalle vicende (poco eroiche) dei personaggi
raccontati in quel giornale, ma per nulla tentato
dalle malizie della vanità.
Era un direttore giovane, che sapeva di esteri e
di politica, e pure di sport: era stato al vertice
del Guerin Sportivo. A Novella 2000 ci restò
di Antonio Bozzo
Il giorno di Natale è morto a Milano a 59 anni il
giornalista Willy Molco. Nato al Cairo, in Egitto,
il 20 agosto 1943, dopo la laurea in giurisprudenza conseguita alla Statale di Milano aveva
esordito al Guerin Sportivo.
Negli anni ‘70 era passato al gruppo Rizzoli,
come direttore di Novella 2000, poi di Oggi, di
Annabella e di Sette, l’inserto settimanale del
Corriere della Sera. Arrivato in Rai, alla redazione del Tg1, si è occupato di inchieste, interviste e speciali a livello internazionale. Sono
sue la prima intervista a un giornale europeo rilasciata dall’ayatollah Khomeini e quella al presidente egiziano Sadat il giorno della riapertura
del canale di Suez. Nel suo ultimo incarico per
il Tg1 ha condotto Non solo Italia, la rassegna
stampa dall’Italia e dal mondo. Lascia la moglie
e una figlia .
L’ultima telefonata la scambiai per una banale
cortesia tra colleghi. Ci eravamo occupati, sul
magazine Tv del Corriere, della rassegna
Molco ha diretto Novella 2000, poi Oggi,
Annabella, Sette del Corriere della Sera,
Moda, il Radiocorriere.
poco: poi fece Oggi, Annabella, Sette del
Corriere, Moda, il Radiocorriere. Negli ultimi
anni era al Tg1.
Non solo per curare la rassegna stampa, da lui
condotta con il garbo e la competenza che tutti
gli riconoscevano. Willy ogni tanto partiva e tornava con un reportage dai posti che a lui,
Giovanni Laccabò,
nostro inviato tra i lavoratori
una provincia molto ricca e poco “rossa” a
scrivere per l’Unità. Amava la cronaca nera.
Gli piaceva indagare, seguire il corso delle
indagini, immaginare ipotesi investigative.
Conosceva bene i codici, aveva una speciale capacità di muoversi tra la gente: la gente
comune come i magistrati o i carabinieri, con
un gran rispetto, per i gradi, per i titoli e per
le forme, rispetto che è poi sostanza di
educazione e civiltà. Non andava probabilmente molto d’accordo con il partito di là, di
Varese, perché era capace di pensare alla
politica con un senso di libertà, che ostinatamente difendeva.
Gli capitò un giorno l’offerta di un posto sicuro e ben retribuito, l’ufficio stampa in un ente
pubblico. Lo rifiutò: gli piaceva quel po’ d’avventura che un giornale ancora consente e
soprattutto l’idea di un’indipendenza di giudizio che l’Unità non ha mai negato a nessuno. Alla fine seguendo il tragitto percorso da
tanti altri come lui e come noi, Giovanni
arrivò in cronaca, a Milano, e continuò a
occuparsi di “nera”, tra questura, commissariati, comandi dei carabinieri, aule giudiziarie. Molti tra i magistrati, i carabinieri o i poli-
di Oreste Pivetta
Un amico che ha vissuto gran parte della sua
vita, breve vita, in questo giornale ci ha lasciato: Giovanni Laccabò è morto ieri, cinquantacinquenne, in un giorno di vacanza, a casa,
accanto alla moglie e ai due figli che amava
tanto. Di loro era la foto che vedeva tutti i giorni sullo schermo del computer, quando cominciava il lavoro e cominciavano le telefonate,
quelle che faceva e quelle che riceveva, tantissime, con i consigli di fabbrica, con i sindacalisti, con i dirigenti. Chi gli stava seduto accanto
imparava a riconoscerli tutti: l’Osvaldo Squassina di Brescia, Epifani, Airaudo di Torino,
Rinaldini, Nando Liuzzi, Angeletti, Stacchini
della Lega Fiom di Mirafiori, una serie infinita.
Tra le storie di scioperi e di contratti, in mezzo,
non mancava mai un’altra telefonata e una
raccomandazione: erano sempre per i figli. Si
intuiva un rapporto particolare, felice e ricco di
sentimenti e di parole.
Giovanni era venuto all’Unità tanti anni fa,
con una laurea in legge. Stava a Busto Arsizio e faceva il corrispondente. Imparava in
L U T T I
ziotti di dieci o vent’anni fa, lo ricorderanno:
un po’ curvo, la mano sinistra in tasca, tra le
dita dell’altra una sigaretta. Allora fumava le
nazionali senza filtro. Poi smise.
Probabilmente smise di fumare, quando la
storia del giornale gli offrì l’occasione d’occuparsi d’altro, di cambiare strada. La nuova
strada fu quella del sindacato, del lavoro,
delle fabbriche... Un’altra avventura, per
conoscere di tutti, sapere e raccontare, tra la
Fiat e i trasporti, le ferrovie e gli edili.
Aveva la straordinaria disposizione a
raggiungere qualsiasi posto, qualsiasi persona, qualsiasi cosa: gli bastava un telefono.
Giovanni, talvolta un po’ scontroso, allora
taciturno, metteva tranquillità: sapevi che
comunque sarebbe arrivato alla notizia, al
personaggio, al caso. Ci metteva pazienza e
gentilezza. E quando poi riferiva, scrivendo,
sapeva che le prime cose da rispettare erano
l’onestà e la correttezza, per sé e per gli altri.
Per questo era stimato. Il ritorno dell’Unità,
dopo la chiusura, lo visse con entusiasmo:
pareva più felice di prima, come se le ragioni
del lavoro fossero diventate più forti e di
nuovo fresche.
ebreo con moglie israeliana (la bellissima
Aliza, ex attrice, ex Miss Israele) erano carissimi. Quelle terre di fuoco - il Medio Oriente - erano la sua patria interna, i luoghi che l’aiutavano
a decifrare il mondo intero, anche quello tanto
normale di casa nostra. Willy partiva e tornava.
Con un’intervista al presidente egiziano
Mubarak, con un’inchiesta sui progetti idrici
nella valle del Nilo, con racconti dai kibbutz, da
Gerusalemme, da Tel Aviv.Willy, che è morto la
mattina di Natale, partirà ancora una volta.
Sarà sepolto in Israele.
Nell’ultimo anno aveva avuto la più grande
gioia (il matrimonio della figlia Gaia con Raziel)
e il più grande dolore (la morte dell’adorata
mamma).
Ora che se n’è andato, ci mancherà un bravo
giornalista. Ci mancherà un uomo che conosceva il valore dell’amicizia, delle amicizie speciali, che sanno nutrirsi anche di lunghi silenzi,
di pochi contatti. Un uomo, mi ha detto piangendo Maria Venturi, innamorato della vita, che
aveva conservato il senso del meraviglioso.
(Dal Corriere della Sera del 27 dicembre 2002)
Giovanni aveva altre passioni. Con ironia
ricordava talvolta i suoi anni di ragazzo in
seminario. Se n’era andato dal seminario,
ma gli era rimasta una cultura molto particolare e diversa dalla nostra e la sensibilità per
i fatti della Chiesa. Sapeva moltissimo della
Chiesa d’oggi, di vescovi e di cardinali e
sapeva riconoscere le diverse anime che
nella Chiesa si contrastavano. Leggeva con
grande acutezza i documenti e i messaggi,
che ritrovava, interpretava e spiegava.
Amava la musica, che ascoltava in cuffia,
quando non stava al telefono. Non so che
musica fosse, ma credo che spesso c’entrasse qualcosa con la storia della Chiesa.
Musica sacra. Gli piaceva l’organo e gli
piacevano certi autori poco conosciuti.
S’illuminava di gioia quando raccontava della
sua casa in Sicilia e soprattutto quando elencava i preparativi per le ferie e per il lungo
viaggio, con la moglie, da Olgiate Olona, dove
abitava, a un paese siciliano che non conosco, alto sulla costa, accanto alle rovine
greche, davanti a un mare trasparente. Sorrideva quando poteva dire: “Ci saranno anche i
ragazzi”. Pensava a quel paese per la pensione, che sarebbe venuta tra molti anni.
L’altro ieri era andato in montagna, per una
breve passeggiata. Aveva sentito un dolore
alle braccia. Poi il dolore era sparito. Ieri, dopo
pranzo si era seduto in poltrona e aveva chiuso gli occhi. Giovanni se n’è andato e ci lascia
un grande dolore, insieme con la terribile
sorpresa di una morte che nessuno si sarebbe mai immaginato, ingiusta e così presto.
(Da l’Unità del 9 dicembre 2002)
Ordine/Tabloid
ORDINE - TABLOID periodico ufficiale del Consiglio
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La tiratura di questo numero è stata di 21.500 copie
Chiuso in redazione il 20 gennaio 2003
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ORDINE
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2003
25 (33)
L A
L I B R E R I A
D I
TA B L O I D
LIBRI
IN REDAZIONE
Luigi Balsamini
Gli arditi del popolo
di Emilio Pozzi
La storia non si fa con i se, anche se c’è stato chi si è divertito a immaginare capovolgimenti di vicende storiche. Mi riferisco al libro curato da
Robert Cowley che dalla battaglia di Salamina, passando
per Napoleone a Waterloo, arrivando fino a una vittoria di
Hitler, ha ipotizzato per venti
episodi famosi conclusioni opposte a quelle che sono state
in realtà. Un ventunesimo episodio potrebbe essere suggerito dal libro di Luigi Balsamini
che, nel risvolto di copertina, si
chiede: “Gli Arditi del popolo
avrebbero potuto impedire
l’avvento del fascismo e risparmiare vent’anni di dittatura?”.
La risposta è certamente no.
Almeno tre i motivi: mancanza
di un leader carismatico, opposizione formale e sostanziale dei partiti antifascisti (comunista, socialista, repubblicano), tant’è che coloro che si
schierarono con gli Arditi del
popolo, provenendo dai tre
partiti lo fecero in aperto contrasto con le indicazioni delle
rispettive dirigenze (gli unici
quasi sempre solidali furono i
gruppi anarchici), ambiguità
sostanziale nella scelta di
fronte poiché, alla base dell’iniziativa, c’era come collante il
“reducismo”, o meglio riaffermazione dei valori del “volontario di guerra” non rassegnato al ritorno alla normalità.
Queste ipotesi si deducono
dal volume di Balsamini (rielaborazione di un lavoro di tesi
per la laurea conseguita in
Storia contemporanea all’Università di Bologna) che non
esplicita peraltro conclusioni
personali.
Il pregio dell’opera consiste
nel recupero di documenti e
materiali rintracciati negli archivi relativi a un argomento
storico e sociale davvero poco
analizzato dagli studiosi.
La lettura dei documenti riportati, in particolare quelli a firma
del fondatore Argo Secondari,
mettono in evidenza i problemi pratici, e sempre ricorrenti,
di ogni organizzazione fuori
dai binari della legalità. Un
esempio? Timori di infiltrazioni. In una circolare senza data
si legge:
“Si rende noto che elementi
estranei si sono infiltrati nella
massa sobillando, favoriti dalla polizia, allo scopo di disgregare le milizie e per trarne
vantaggi personali o di fazione. Si prega perciò di provvedere energicamente contro
costoro. I direttori delle varie
sezioni dovranno tenersi in
stretto contatto con il comandante”.
Nulla di nuovo sotto il sole.
Nelle vicende alle quali sono
stati legati gli Arditi del popolo
ce n’è una che emerge sulle
altre: la difesa di Parma, che
come quelle risorgimentali di
Milano nel 1848, furono chiamate le “5 giornate di Parma”.
Gli Arditi organizzarono la difesa della popolazione dei borghi, soprattutto Oltretorrente,
contro l’invasione di migliaia di
fascisti. Era l’agosto 1922, due
mesi prima della marcia su
Roma. Era praticamente fallito
lo sciopero generale, promosso dai sindacati per il 31 luglio
(la data avrebbe dovuto restare segreta, per cogliere le controparti di sorpresa ma una ‘fuga di notizie’ aveva consentito
alle autorità, ma soprattutto alle minacciose forze fasciste, di
organizzare le contromosse).
Fu una vera disfatta, una
‘Caporetto’ del sindacato, tranne che a Parma. In un suo diario Italo Balbo arrivato in città
con oltre ventimila camicie nere, annota: “La città è rimasta
quasi impermeabile al fascismo. Lo sciopero fu più o meno generale. Da tre giorni gli
esercizi pubblici, i servizi comunali e perfino quelli statali
sono fermi. I negozi chiusi.
Anche la stazione ferroviaria in
mano ai sovversivi”.
Ci furono barricate, messe su
con ogni genere di materiali:
masserizie lastre di pietra,
panche e sedie di chiesa, filo
spinato. La popolazione operaia era pervasa da un sacro
fuoco: uomini, donne, vecchi,
giovani.
Tutti per le strade e sui tetti.
C’era anche un grosso prete
rubicondo che si agitava dietro le barricate. Durò cinque
giorni l’assedio. La resistenza,
coordinata da Guido Picelli,
costrinse le autorità a far intervenire l’esercito, mentre i fascisti di Balbo se ne andavano, dopo aver lasciato sul terreno trenta morti e molti feriti. Il
pericolo di scorrerie armate
nei quartieri era stato evitato.
L’unità di intenti al di là dell’appartenenza a questo o a quel
partito era stato superato.
Ma non durò. Ricominciarono
le polemiche e le divergenze.
E il 14 dicembre del ‘22, l’organizzazione si sciolse ufficialmente. C’era chi avrebbe voluto continuare la lotta, clandestinamente. Ma il fascismo
cominciava a intorpidire le coscienze e le sinistre non seppero elaborare una strategia
comune.
Fu certamente, quella di
Parma, una generosa utopia.
E il volume di Balsamini esamina tutte le mosse successive. Inutili. La lettura dei documenti raccolti sembra anticipare situazioni e stati d’animo,
stimoli e perplessità che accompagnano, in tanti paesi e
in tempi diversi, gli slanci e le
rabbie, contro le ingiustizie palesi e contro le sottili trappole
burocratiche e legislativi del
potere. Purtroppo le lezioni
della storia non vengono sufficientemente studiate e tanto
meno suonano alti i campanelli d’allarme.
Luigi Balsamini,
Gli Arditi del popolo.
Dalla guerra alla difesa
del popolo
contro le violenze fasciste,
Galzerano Editore,
Casalvelino Scalo
(Salerno),
pagine 280, 15,00 euro
Gian Antonio Stella
L’orda. Quando
gli albanesi eravamo noi
di Antonella Fiori
Ci abbiamo creduto per più
di un secolo. Alla favola degli
italiani “poveri ma belli”. Alla
leggenda che ci voleva immigrati sì, ma mica come i
clandestini albanesi che
sbarcano a Brindisi, “brutti
sporchi , cattivi”, “criminali”,
“spacciatori”, “sfruttatori”,
“terroristi”…
E invece no: clandestini lo
siamo sempre stati anche
noi. Clandestini la maggior
parte degli immigrati in
Germania all’inizio del secolo. Clandestini gli operai che
passavano il confine con la
Francia e ai valichi morivano
talmente in tanti che li dovevano seppellire in piedi. Ma
non solo. Clandestini i bambini ceduti dai genitori a lavorare nelle vetrerie francesi, clandestini gli spazzacamini venduti per poche lire,
clandestini i piccoli che a
Londra a suonavano l’organetto (sì proprio l’Italia paese delle mamme, vendeva
bambini a tutto il mondo).
Clandestini i figli di immigrati
26 (34)
svizzeri nati e vissuti in casa, costretti a restare invisibili per anni, perché i genitori non venissero espulsi.
Istruzioni per l’uso alla lettura de L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi di Gian
Antonio Stella. Essere pronti
a prendersi un pugno nello
stomaco affrontando un giro
del mondo sui generis: un
tour che ricostruisce la storia di un popolo di emigranti
considerato la feccia della
terra in almeno tre continenti: l’America, l’Europa e
l’Australia.
È per non rimuovere un
passato ancora piuttosto recente e scottante – quello
dei 26 milioni di italiani immigrati nel mondo nell’ultimo secolo – è per prendere
coscienza di una storia fino
ad ora sottaciuta e non tanto diversa come odissea da
quella degli albanesi che attraccano in massa sulle nostre coste – immenso il lavoro d’archivio che punteggia questa narrazione, a
tratti davvero toccante –
che l’autore si è dedicato alla costruzione di un puzzle
di difficile digestione. Stella,
firma di punta del Corriere
della Sera, in questo saggio
dove all’ironia spesso ha
sostituito la pietas, racconta
fatti e misfatti, sfata un mito
della nostra immigrazione,
una pillola resa più dolce
dai racconti di chi tornava e
più di recente rinzuccherata
dai vari “Carramba” televisivi. Non eravamo affatto “poveri ma belli”.
Piuttosto, dal Veneto alla
Sicilia, dalla Lombardia al
Piemonte, ci vedevano come scimmie, zozzoni, mangiatori d’aglio, straccioni,
assassini.
Uno stereotipo conquistato
sul campo, secondo l’autore
Franco Cardini, Il ritmo della storia, Rizzoli, pagine 262,
euro 17.56.
Elisabetta Bucciarelli, Le professioni della scrittura, come
trasformare una passione in un lavoro di successo,
Calderini, pagine 143, euro 12,39.
Annamaria Testa, Farsi capire. Comunicare con efficacia
e creatività nel lavoro e nella vita, Rizzoli, pagine 405, euro
17,04.
Armando Cillario, Signor giudice, chiuda un occhio,
Frontiera, pagine 159, s.i.p.
Vittorio Agnoletto, La società dell’Aids. La verità su politici, medici, volontari e multinazionali durante l’emergenza, Baldini & Castoldi, pagine 578, euro 19,63.
Piero Gheddo, Il testamento del capitano, San Paolo, pagine 210, euro 12,00.
Paola Baratto, Di carta e di luce, Zanetti editore, pagine 245,
euro 12,91.
Dino Azzalin, Diario d’Africa, Nem, pagine 178, euro 15,49.
Vladimiro Bertazzoni, Achille Graffigna 1816-1896. Il più
prolifico degli operisti mantovani, editoriale Sometti, euro
12.91.
Pietro Oliviero Casi, Bibliografia di e su Pietro Aretino dal
1512 ai nostri giorni, l’Eclettico Pedante, pagine 234, s.i.p.
Lido Picarelli, Cetrapoli. Ricordi di gioventù tra Cetraro e
Napoli, Pro Loco Civitas Citrarii,
pagine 175, s.i.p.
Getano Delli Santi e Fausto Pagliano, Fra’ Giordano Bruno
redivivo, Fabio d’Ambrosio editore, pagine 237, euro 22,21.
Claudio Gobbi, Agriturismo come fare, Horse Service, pagine 254, s.i.p.
Maria Rosa Biassoni, La valle Vigezzo. Luci e ombre di
una valle italiana dai forti contrasti, Atmosfere editrice,
pagine 221, euro 77,00.
Fiammetta Postano de’ Vincentiis, Giramondo per amore,
Viaggi e avventure pagine 106, euro 12.
Maurizio Corte, Stranieri e mass media. Stampa, immigrazione e pedagogia interculturale, Cedam, euro 13,00.
Franco Pontiggia Chiara Zocchi, I mondi dentro al mondo,
Edizioni del Capricorno, s.i.p.
di Schei e Lo spreco.
E che parte da lontano, da
metà Ottocento, con gli
scrittori che affrontavano il
Grand Tour nel Bel Paese,
da Shelley a Dickens e descrivevano l’Italia come un
gigantesco calderone di delinquenti e imbroglioni oltre
che una specie di Thailandia, gigantesco postribolo dove poter praticare un
turismo sessuale sfrenato.
Nemo propheta in patria,
certo. All’estero, facevamo
di peggio. Il primo attacco
terroristico a Wall Street è di
un italiano. Le percentuali
parlano chiaro: in America
gli italiani superavano tutti
gli altri immigrati nei reati più
gravi come rapimento e assassinio. Il giudizio - unanime - lo leggiamo nei resoconti d’epoca: italiani razza
“impulsiva” con una inclinazione ai peggiori crimini.
Tutto questo, suffragato da
teorie scientifiche, di argomento eugenetico, nate in
concomitanza con gli studi
di Lombroso, secondo le
quali quella italica sarebbe
una “razza inferiore di derivazione africana” (in Australia gli italiani erano “dingo”, l’orda color oliva minaccia per la comunità bianca).
Insomma, secondo Stella, la
differenza tra noi e gli albanesi è solo temporale.
Come loro, peggio di loro,
eravamo costretti a emigrare su barche dove scoppiavano epidemie di colera, a
dormire, in Francia, in cinque in un letto. Come loro,
peggio di loro, siamo stati
anche perseguitati e uccisi,
linciati dalla folla, a Aigues
Mortes, in Camargue e a
New Orleans, in Louisiana,
senza che fosse stato commesso nessun delitto, solo
per il fatto di essere immigrati.
Un pregiudizio duro a morire
quello dell’italiano criminale
tout-court, disonesto e imbroglione. Anche oggi che il
made in Italy dilaga come lifestyle dall’America al Giappone, secondo uno studio
della McCann-Erickson del
1996 la parola più usata in
abbinamento all’Italia è
sempre la stessa: mafia. Più
di tutto, in questo senso ha
fatto il cinema, l’immagine
dell’italiano di Hollywood,
diffusa in tutto il mondo da
centinaia di film, da Il padrino a The Sopranos. Come
l’indiano è feroce e selvaggio, il messicano baffuto e
indemoniato, l’irlandese rosso e focoso, il negro lavativo
e stupido, l’italiano è viscido
e ricattatore. Lo diceva anche il presidente americano
Nixon, intercettato ai tempi
dello scandalo Watergate: “Il
guaio è che non se ne trova
uno onesto”.
Gian Antonio Stella,
L’orda. Quando
gli albanesi eravamo noi,
Rizzoli,
pagine 277, 17,00 euro
ORDINE
2
2003
L A
L I B R E R I A
Un libro nuovo, originale, utile
per chi si occupa di informazione, una miniera di idee e di
esempi. La tesi di partenza è
sintetizzata in una citazione:
“Un’immagine dice più di
cento parole”.
E il libro vuole dimostrare che
per raccontare il passato o
anche il presente non bastano più i testi scritti o le testimonianze orali, ma sono
sempre più necessarie e decisive le “prove” ricavate dalle
immagini.
Non si sarebbe potuta ricostruire e descrivere la preistoria europea senza i dipinti di
Altamura e Lascaux, non si
sarebbe potuto raccontare
l’antico Egitto senza le pitture
tombali; la storia dell’Inghilterra è stata ricostruita con le
figure della tappezzeria di
Bayeux.
Le immagini sono dunque testimoni oculari che forniscono le prove di che cosa è accaduto, di come si viveva, di
come si è svolta una vicenda,
ecc.
Ma Peter Burke sviluppa
questa tesi con utili avvertimenti sui problemi connessi
all’uso di immagini come fonti. È importante, infatti, datare
l’esecuzione dell’immagine,
indagare su eventuali riflessi
delle circostanze in cui è stata realizzata (un’opera d’arte
o una foto o una sequenza filmica, ecc.), evidenziare gli interventi di chi ha preparato la
scena, scelti i messaggi, aggiustato gli episodi.Come c’è
una lettura critica di testi scrit-
ti o orali, così nell’utilizzo delle immagini come prove storiche, per il passato o per il
presente occorre verificare
vari elementi interpretativi.
Hanno un valore particolare
le immagini in bianco e nero,
più fredde e quindi più veraci
di quelle animate dal colore;
è importante risalire al momento esatto in cui la foto è
partita o è arrivata al destinatario, più o meno vicina al
tempo dell’episodio; è poi essenziale saper leggere oggetti reali e oggetti simbolici,
significati introdotti per esaltare personaggi o bandiere,
finalità attribuite alla esecuzione dell’immagine o alla
sua diffusione o la sua destinazione ad un pubblico particolare.
“Mentre le fotografie non possono dire bugie, i bugiardi
possono scattare fotografie”
ha detto un esperto come
Lewis Hine. Sono quindi molte le cautele da usare per non
cadere nell’illusione del realismo. Fotografie e ritratti possono dire una cosa o anche il
contrario. Nel libro sono riportati vari esempi , tra i quali la
notissima Morte di un soldato
di Robert Capa sulla cui autenticità è aperta tuttora una
discussione.
Un altro esempio sono le foto
relative alla guerra civile
americana che simulavano
un campo di battaglia disseminato di cadaveri, in realtà
composto con comparse addormentate.
L’interpretazione delle immagini attraverso l’analisi dei
dettagli, ossia l’iconografia o
iconologia, è indispensabile
per utilizzare al meglio le immagini come prove. Sotto
questo profilo le foto o i dipinti
che ritraggono scene della vita quotidiana e della cultura
materiale contengono solitamente molte informazioni
concrete e meritano di essere lette con molta attenzione.
Burke dedica un ampio capitolo alle immagini di contenuto religioso, attraverso le quali
si può ricostruire i diversi modi di intendere il soprannaturale in periodi e culture differenti: visioni di demoni e dei,
di santi e peccatori, di inferni
e paradisi.
I risultati di questo studio portano a scoperte significative,
come il fatto che nella cultura
occidentale si incontrano di
rado immagini di spettri prima
del Trecento, che prima del
Duecento non si incontrano
rappresentazioni di Diavoli e
che la figura di Satana coperto di peli con corna, zampe,
coda, ali di pipistrello e forcone in pugno è stata eleborata
lungo un arco di tempo assai
ampio. Il repertorio religioso,
quanto mai interessante in
epoca di incontri e scontri, è
suddiviso secondo le finalità:
immagini di indottrinamento,
oggetti di culto, immagini devozionali anche per consolare ammalati, moribondi e
condannati a morte, immagini polemiche.
E siccome le nostre sensazioni sono stimolate dalle cose viste piuttosto che da
quelle lette o sentite, l’iconografia che esprime idee o
proteste ha una forza tutta
particolare. Un presidente
brasiliano appena eletto che
di Dario Fertilio
viene fotografato quando si
affaccia alla folla con la scopa
in mano proclama nel modo
più diretto ed efficace il suo
programma politico.
E gli uomini politici ritratti in
pose particolari, con determinate divise o gesti clamorosi
possono incarnare epoche e
rappresentare tutto il movimento che li ha portati al potere.
Alla fine il libro di Burke si rivela un autentico manuale
per la lettura, la scelta, la critica e l’interpretazione delle
immagini: in un’ epoca come
la nostra ove tutto è video, la
lettura è più che raccomandabile.
Peter Burke,
Testimoni oculari.
Il significato storico
delle immagini,
Carocci Editore,
pagine 256, 20,00 euro
Gianni Spartà
Mister Ignis. Giovanni Borghi
nell’Italia del miracolo
di Giacomo Ferrari
Quando si pensa a un selfmade-man, un uomo di grande successo che si è fatto da
sé, non si può fare a meno dal
pensare a Giovanni Borghi. Il
“cumenda”, come veniva definito l’imprenditore che ha legato il proprio nome all’Italia
del boom postbellico, diventando il prototipo di una imprenditoria un po’ “ruspante”,
ma ricca di intuizioni e di idee,
che negli Anni ‘60 il mondo ci
invidiava. Nella prefazione,
Silvio Berlusconi definisce
Borghi “industriale simbolo del
miracolo economico italiano”
e rileva una curiosità: l’impero
da lui costruito si chiamava
Ignis, il nome latino di fuoco,
mentre i suoi prodotti evocano
“cinquant’anni di piatti freddi e
di bibite ghiacciate”. Lo stesso
concetto lo si ritrova nelle prime pagine del libro di Gianni
Spartà, che racconta l’avvenORDINE
2
2003
tura umana e imprenditoriale
dell’“Agnelli della Brianza”,
dall’apprendistato nella bottega del padre al ruolo di re degli elettrodomestici.
Nato a Milano, nel quartiere
Garibaldi, figlio di un elettricista, dovette lasciare la metropoli lombarda durante la guerra, sfollando con la famiglia in
provincia di Varese, a Comerio.
Ebbene, questa cittadina del
nord della Lombardia sarà destinata a diventare famosa nel
mondo.Qui, infatti, nasce il primo laboratorio artigianale dei
Borghi per produrre fornelli e
cucine. E da qui, nel giro di pochi anni e grazie all’intuito di
Giovanni, prenderà il via un
impero industriale dal respiro
mondiale. Il gruppo Ignis appunto. Una realtà che ha contribuito a fare dell’Italia il maggiore produttore europeo di
elettrodomestici (il primato resiste tuttora, anche se la
“creatura” di Borghi è diventa-
ta ormai la divisione di una
multinazionale del settore).
C’è, nella vicenda di questo
capitano d’industria, una fetta
importante di storia dell’Italia
repubblicana: quella, non più
lunga di un decennio, che è
arrivata subito dopo la ricostruzione, innestandosi anzi
su di essa diventandone lo
sviluppo naturale. Erano, quelli, anni difficili ma nello stesso
tempo contrassegnati dalla
speranza. Borghi ha saputo
interpretare i tempi, anticipando non solo modelli organizzativi e produttivi, ma anche
sofisticate tecniche di marketing. Si può dire per esempio
che la sponsorizzazione sportiva moderna sia stata letteralmente “inventata” proprio da
Borghi. Dal basket al ciclismo,
l’impegno dell’Ignis in quegli
anni fu imponente.
Uno degli episodi che ben dipingono la personalità di
Giovanni Borghi, geniale e generoso ma anche un po’
TA B L O I D
Guido Olimpio
La rete del terrore
Peter Burke
Testimoni oculari. Il significato
storico delle immagini
di Vincenzo Ceppellini
D I
sbruffone, si lega direttamente
allo sport. Al Tour de France di
ciclismo, organizzato allora
come oggi dal quotidiano
sportivo L’Equipe, non volevano sponsor commerciali. E
Borghi, spazientito, sbottò in
una delle sue frasi diventate
famose: “S’el custa”, in italiano
“quanto costa”. Intendendo
naturalmente tutta l’organizzazione, che sarebbe stato disposto ad acquistare pur di
cambiare quelle regole ormai
anacronistiche.
Gianni Spartà,
Mister Ignis.
Giovanni Borghi nell’Italia
del miracolo,
Mondadori,
pagine 189, 15,00 euro
Se un regista di film bellici volesse ispirarsi all’ultimo libro di
Guido Olimpio, probabilmente darebbe il via alle riprese in
una base segreta di Al
Qaeda. Infatti,
quando
Olimpio rivela l’esistenza di
scuole per terroristi in luoghi
esotici e remoti, costruisce
senza saperlo sceneggiature
seducenti: proprio perché suscitano in tutti il brivido legato
alle forze del Male, apparentemente invincibili.
Nessuno, in realtà, ha visto
con i suoi occhi quelle accademie di morte ed è poi vissuto abbastanza per raccontarle: a meno che qualche notizia sia trapelata durante gli interrogatori ai reclusi di Guantanamo.
Ma tutto ciò che di plausibile
si può dire intorno all’argomento è contenuto ne La rete
del terrore.
Ecco dunque gli elementi visivi di un possibile film su Al
Qaeda: l’interno di un casolare sperduto ai confini del
mondo, in Mauritania o Ruanda. Un piccolo gruppo di quattro o cinque reclute viene addestrato giorno e notte a pregare, leggere il Corano, imbracciare il mitra, lanciare
bombe, uccidere piloti di linea
e guidare aerei contro i bersagli, inquinare le acque potabili
di grandi città, spargere spore
di antrace, virus ebola o altre
pestilenze.
Da La rete del terrore di
Guido Olimpio, in realtà, potrebbero venire non una, ma
decine di ottime sceneggiature sul terrorismo: forse proprio
perché l’autore rifugge dalle
esagerazioni, ed espone freddamente i dati di cui dispone.
Del resto gli estimatori di
Olimpio lo sanno: corrispondente da Israele per il Corriere della Sera, considerato
uno dei massimi esperti mondiali di terrorismo islamico,
Guido è stato convocato nientemeno che dalla commissione speciale del congresso
americano.
Non per nulla si occupa di
Medio Oriente dal 1982,
avendo seguito per il Corriere
la guerra del Libano.
E non a caso il suo archivio
personale è considerato unanimemente dagli studiosi internazionali uno dei più ricchi
e completi.
Giornalista-personaggio,
Olimpio, benché controvoglia:
poco più che quarantenne, incarna un tipo di giornalista investigatore, poliglotta e anticonformista, indomabile e
persino vagamente bohemièn, di cui sembravano perse le tracce nel moderno giornalismo virtuale e computerizzato. Olimpio non racconta,
descrive; non tratteggia, raccoglie ed espone il suo materiale come in un’ideale vetrina
informativa.
Poco italiano, certamente, nel
taglio pragmatico, di stile
americano piuttosto: la sua
Rete del terrore passa disinvoltamente dalla descrizione
meticolosa della piramide organizzativa di Bin Laden, o
della rete internazionale di
supporto alle sue lugubri imprese, al glossario terroristico,
alle descrizioni particolareggiate delle “vite da kamikaze”.
Tragedie in due battute, verrebbe da dire, nelle quali risalta la granitica ottusità dei martiri terroristi.
Vale la pena di riportarne un
paio fra le tante: vite bruciate
per un disegno integralista e
funesto.
Quella di Imad Zbaidi, ad
esempio, diciottenne, che
l’autore sintetizza con poche
pennellate.
“Occupazione: insegnava il
Corano e studiava come riparare i televisori. Gruppo: Hamas. Attacco: Kfar Saba, 22
aprile 2001, una vittima. È
esploso vicino a un incrocio.
Particolari: secondo la famiglia era tranquillo e religioso.
Ultime parole: “Non crediate
che le persone che hanno dato la vita a Dio se ne siano andate per sempre. Sono vive
accanto ad Allah”.
O quella di Dia Tawil, vent’anni: “Occupazione: studente di
ingegneria. Gruppo: Hamas.
Attacco: Gerusalemme, 27
marzo 2001, trentacinque feriti. Si è fatto saltare in aria a
una fermata d’autobus. Particolari: molto religioso, figlio di
un comunista e con uno zio
membro di Hamas. Ultime parole: “Farò a pezzi i loro corpi
e le loro ossa”.
Storie di ordinaria follia, viene
spontaneo pensare, ma anche di straordinaria ferocia se
si pensa ai mandanti dei giovani suicidi.
Ma non è qui, nell’indignazione, che Guido Olimpio intinge
la penna. Piuttosto nella cura
dei particolari, nell’attenzione
con cui ci racconta il vocabolario in uso fra gli estremisti
islamici in Europa.
Apprendiamo che “l’agricoltura” significa “l’attentato”; “i serpenti” sono i servizi segreti; “le
lenticchie” le munizioni; “jogging” i documenti. È possibile
così, pagina dopo pagina, entrare nella mente di un terrorista.
E, ancora, ricostruire la tecnica d’attacco dell’11 settembre, in particolare quella attuata sul volo 93 dell’American Airlines (si schiantò a
terra per l’eroica reazione dei
passeggeri, mancando l’obiettivo della Casa Bianca).
Così, forse al di là delle intenzioni, il reportage riserva
emozioni, permettendo di
sbirciare dentro alla centrale
del terrore.
E lasciando in sospeso il
prossimo capitolo, il peggio
che potrebbe accadere: ma
un aiuto alla conoscenza della malattia è già un passo verso il rimedio.
Guido Olimpio,
La rete del terrore,
Sperling & Kupfer,
pagine 179, 14,50 euro
27 (35)
L A
L I B R E R I A
D I
TA B L O I D
Mauro Castelli
Numeri Uno: 38 protagonisti
della economia italiana
di Pilade del Buono
Trentanove in Questa Italia siamo noi (due ristampe all’attivo),
38 in Numeri Uno, u di Uno doverosamente maiuscola, il racconto continua. Mauro Castelli,
una vita al Sole-24 Ore con gradi di ufficiale superiore, ha da
poco aggiornato, ovviamente
per i tipi del Sole, la galleria delle
sue storie imprenditoriali di successo (aggiornato, non concluso: è una previsione). Che, a
leggerle senza i nomi degli attori, inducono in taluni casi alla
fantascienza. Storie di fatica e
sudore, di lampi di genio, vocazione di uomini che si sono fatti
dal nulla, come si usa dire, o
hanno messo il turbo a quanto
era stato affidato o lasciato in
appannaggio. Con due fondamentali voci tecniche da tutti impiegate, ricerca & innovazione,
al servizio ovviamente dell’intelligenza e dell’intuito.
Sulla differenza, se una differenza esiste, nella costruzione
di Questa Italia siamo noi rispetto a Numeri Uno, e sulle
caratteristiche
soprattutto
umane dei protagonisti, abbiamo chiesto lumi all’autore.
Diciamo che l’ultimo nato,
Numeri Uno, raggruppa diverse, intense, storie di famiglia,
raccontate dall’ultimo erede issato sulla tolda di comando,
storie connotate da un comune sentire volte al vibrante, talvolta eccezionale impulso impresso alla crescita aziendale,
dice Castelli.
Storie nelle quali compaiono signori per solito non
esattamente appartenenti
alla compagine dei logorroici.
Esattamente, e questo mi ha
procurato soddisfazione. Non
mi risulta, a esempio, che un
Francesco Amadori rilasci interviste a tutto spiano, anche
se sa sfruttare assai bene, come Rana, il mezzo televisivo.
E parlando di Gennaro
Auricchio, che da otto stagioni ha doppiato le 80 primavere, facciamo la conoscenza di un signore che
tutto controlla e ritiene di
poter dire quello che vuole.
Gliene ho offerto la facoltà. Di
Armani i giornali parlano un
giorno sì e l’altro pure, ma entrare nel privato è un’altra cosa. Ho cercato di farlo.
Trecentosettantasette pagine nelle quali si parla di auto, o meglio, di creativi dell’auto, di giochi, di finanza,
di vacanza e new economy,
di industrie del ferro e di
elettrodomestici, di rotative
e di moto, di sottosuolo e di
biomedicale, di settori alimentari e di alberghi delle
cose. Di piccole industrie
che magari, non necessariamente, diventano medie e
da medie si trasformano in
grandi o grandissime. Si
può individuare un denominatore comune?
Certo che si può, è sintetizzato
dal titolo, i protagonisti sono
tutti Numeri Uno nel loro cam-
po, nessuno escluso. E per
Numeri Uno intendo vincenti.
Se preferisci, puoi intitolarla il
diritto e la capacità di emergere. E sempre di rischiare.
Alcuni, per la verità, pressoché nobilmente sconosciuti
al grande pubblico.
Un obiettivo che ho privilegiato. Prendiamo Paolo Della
Porta. Poni il suo nome all’uomo della strada, non è detto
sappia compiutamente risponderti.Pure è il leader nei getter,
regolarmente quotato a Wall
Street, e sul mercato mondiale
pesa intorno all’85 per cento. I
getter sono gli anelli che servono a far funzionare il televisore o accendere i lampioni
stradali. Quanti lo sanno?
Ma non solo Della Porta. La
galleria di chi ha firmato il
nostro miracolo economico
è affollatissima, nelle tue pagine. E la lettura stimola la
curiosità. Dai getter ai polimeri per esempio.
Già, i polimeri, una materia
singolare nella quale ci imbattiamo regolarmente nella vita
di tutti i giorni, dagli adesivi alle
“trasparenze” che avvolgono
certi formaggi. I gemelli
Medini, Mariano e Massimo,
sui quali mi soffermo a pagina
247, ne sono i primi attori. E
dai gemelli Medini ai fratelli
Colombo il passo è breve.
Sono i primi al mondo nella
produzione di tessuti d’alto
bordo come il cashmere. Mi
confesso ignorante al riguardo, ma l’iter della lavorazione
Ambrogio Amati
Cronache
dell’immigrazione 2001
di Giacomo de Antonellis
Gli italiani sono passionali,
amano schierarsi su una
sponda per controbattere
quella opposta, desiderano vivere all’ombra del proprio
campanile per sostenerne le
ragioni particolari. Ciò non toglie che gli italiani siano pure
aperti al “nuovo” e al “diverso”,
senza soffrire alcun condizionamento. Con tale sfondo si
comprende bene il vigore che
anima ogni dibattito di profondo respiro nel nostro Paese. E
l’immigrazione rientra appunto
in questo schema. Si leggono
allora con estremo interesse le
Cronache dell’immigrazione
2001 rievocate da Ambrogio
Amati, un collega con il merito
basilare di mantenersi sopra le
parti per dare un quadro preciso e articolato di opinioni diverse quanto suggestive. Infatti,
nel formulare la struttura del
suo volume egli ha riunito una
serie di fatti collegandoli al
commento di numerosi quotidiani italiani che riflettono appunto posizioni contrastanti e
contraddittorie su tanti specifici
28 (36)
temi. Ed ha svolto tale lavoro
partendo dalla normativa vigente (la legge Bossi-Fini subentrata alla Turco-Napolitano”) posta in stretta relazione con gli eventi che hanno
caratterizzato l’immigrazione
degli ultimi anni. Un lavoro valido per mole e per analisi.
Dopo aver illustrato il quadro
problematico, Amati è sceso
nei dettagli trattando sia i maggiori aspetti dell’immigrazione
regolare sia quelli relativi al fenomeno della clandestinità.
Diritto d’asilo, quote d’ingresso, mercato del lavoro, connessioni e distorsioni tra le culture e religioni differenti, flussi
e controlli delle frontiere, criminalità ed espulsioni: a contorno di tale sviluppo ha poi raccolto i commenti di alcuni opinionisti come Renzo Foa,
Alberto Mingardi, Augusto
Minzolini e Giorgio Vittadini. La
situazione di Milano e della
Lombardia nonché il “caso
Bergamo” - ricordando che
l’autore lavora in modo particolare nella città orobica - completano il discorso con una
successione di statistiche e di
relative riflessioni.
Senza dubbio l’immigrazione
si presta a forti discussioni, sia
per l’ampiezza sia per la repentinità del fenomeno che
era praticamente sconosciuto
fino all’inizio degli anni
Novanta. L’impatto con la nostra civiltà è stato traumatico, e
rischia di accentuarsi per la
pretesa di taluni circoli di immigrati, in particolare musulmani,
ad imporre i loro costumi (piccoli esempi: la macellazione
per dissanguamento degli animali, i menù differenziati per i
figli inseriti nelle scuole, l’abbigliamento delle ragazze e la
separazione dai maschi, l’adattamento degli orari di lavoro
alle loro consuetudini tipo tempo del Ramadan). Sono richieste sconvolgenti per noi italiani, storicamente popolo di migranti, riversatisi in ogni paese
del mondo sempre in punta di
piedi con i documenti richiesti
e con l’osservanza degli usi e
delle leggi locali. Non a caso il
politologo americano di visione liberale Patrick J.Buchanan
denuncia la remissività occidentale che ha “deresponsabilizzato” nazioni e individui che
sono oramai incapaci di difen-
di questo prodotto è interessante, si arriva all’utilizzazione
di cardi essiccati provenienti
dal Portogallo. Oppure Davide
Trevisani, un big negli scavi del
sottosuolo, che fatalmente diventerà materia di rigore nel
nostro futuro. Oppure Franco
Timoteo Metelli, nicchia beveraggi d’élite. In Franciacorta lo
conoscono bene, e altrettanto
conosciuto è da albergatori, ristoratori ed enoteche non solo
della Franciacorta, un piccolo
impero da 200 milioni di euro.
Oppure Mario Preve, proprietario della Riso Gallo, conversando con il quale si scopre
che il marchio era stato inventato in Argentina per venire incontro agli analfabeti...
Chi vuol conoscere i dettagli di tanti miracoli entrerà in
libreria. Soffermiamoci alle
curiosità divertenti, che mi
sembra abbondino.
Sono una vera infinità, i signori
che ho incontrato stanno al
gioco e rompono amabilmente
l’argine dei modi sussiegosi,
una volta esaurito il protocollo
tecnico. Ti faccio qualche
esempio.
Gianvittorio Gandolfi, vocazione turismo, ha il debole per il
numero 17. Potesse, l’inaugurazione dei suoi villaggi avverrebbe sempre il giorno 17, naturalmente alle 17.17. Questa
è divertente: appena uscito in
possesso del libro mi ha telefonato ridendo: «Le ho detto
o no che il 17 è il mio numero? Guardi a che pagina comincia il mio capitolo, a pagina 197. Uno più 9 cosa fa?
Dieci, e 10 più 7? Diciassette.
Tiri lei le somme».
Diego Della Valle - che ti confessa papale papale di esaurire immancabilmente a fine
anno l’appannaggio personale che si è riservato - racconta
che il padre va in giro per l’azienda con due diversi tipi di
scarpe per testarle sul campo.
Luigi Giovanni Carcano, appassionato di storia napoleonica, quando va a caccia di
uno stabile per trasformarlo in
un albergo delle cose, ingaggia di notte un vecchio tassista
per farsi scarrozzare per la
città, e se qualcuno lo accusa
di stranezze pazienza.
Giorgetto Giugiaro sfida i giovani scalando montagne con
la sua moto. Poi ci sono le curiosità spicciole.
Tipo le amicizie giovanili di
Giulio Cesare Alberghini e
la frittatona di Amadori?
Per l’appunto. Questo bolognese doc, Alberghini, padre
delle maggiori manifestazioni
fieristiche nazionali, ha stampato nella mente gli incontri
con La Pira ed Emilio Colombo. Ti ricorda anche, sotto
il repertorio birichinate, la falsificazione quadriennale dell’abbonamento al treno che
da Bologna lo portava a
Firenze dove era studente
universitario. Quanto ad
Amadori, non dimenticherà
mai le visioni della dissoluzione di qualcosa come 600/700
uova quando si trovava abusivamente, età anni 12, alla guida di un camion paterno.
Mario Clementoni invitò, invece, una gaia comitiva di amici
e di concorrenti a Mosca: tutti
dovevano essere vestiti alla
stessa maniera per partecipare a una inesistente fiera del
giocattolo. Il medico mancato
Giorgio Armani si trovò costretto a fare endovenose durante il periodo militare con la
paura boia di far fuori qualcuno.
E Bruno Colombo, secondo
tour operator nazionale con i
Viaggi del Ventaglio, non può
scordare la trionfale accoglienza, all’altezza di un Cristoforo
Colombo redivivo, che gli venne tributata nel ‘92 alle
Bahamas dal ministro del
Turismo.
Poi ci sono i casi del destino, o come vuoi rubricarli.
Se uno diventa un big dell’informatica, come è occorso
a Pierluigi Crudele, per essere
finito a Napoli, portato dal padre, nel liceo sbagliato, il destino per qualcosa non puoi non
chiamarlo in causa. E Giuseppe Diomelli si è, per così
dire, salvato la vita rifiutando
un viaggio in Turchia che aveva vinto, giustificato dal fatto di
avere troppo lavoro: da fotografo è entrato nel mondo dei
computer, e oggi ne produce
200mila l’anno. Normalmente
si dice nel suo piccolo, trattandosi di Ennio Doris si può capovolgere la dizione. Nel suo
grande trovare un Berlusconi
che non conosceva sulla piazzetta di Portofino e proporgli
un affare che avrebbe procurato a entrambi una montagna
di quattrini, è sintomo di un
certo stile operativo. Destino sì
o destino no, il fatto è che
Steno Marcegaglia, impero
del ferro, nel ‘90 contava in casa un solo bagno mentre oggi,
nella sua reggia di Gazoldo
degli Ippoliti - dove peraltro ha
inaugurato un quartier generale da emirati - i bagni superano
quota venti, forse non lo sa
neppure lui. Ma la sua mania
sono le statuette di leoni...
Complessivamente signori
dalla schietta parlantina.
Come no? Franco Miroglio,
classico capitano d’industria
dai modi apparentemente
sbrigativi, cuce un abito su misura al Paese. Ernesto
Preatoni, ex finanziere d’assalto che non nega di avere in un
certo senso pestato i piedi a
Enrico Cuccia, ha praticamente inventato Sharm el Sheikh.
Di Enrico Preziosi, ramo balocchi, sono gonfie le cronache del pallone e del suo
dere il patrimonio di illuminismo e di razionalismo forgiati
in secoli e secoli di civiltà.
Senza dubbio, in tema di immigrazione, il 2001 ha fatto registrare avvenimenti che hanno
superato la sfera italiana per
diventare mondiali. La tragedia
delle Torri Gemelle, infatti, ha
messo in risalto una triste connessione tra il fenomeno migratorio e quello del terrorismo
spostando i termini del dibattito su un piano assolutamente
impensabili. In mezzo ai duetre milioni di stranieri presenti
sul nostro territorio quanti sono
motivati dalla violenza prima
ancora della ricerca di un lavoro per migliorare la propria
condizione?
È impossibile dirlo ma l’inquietudine non manca. Amati non
prende posizione ma elenca
con scrupolo gli eventi e registra i commenti della stampa
con citazione di testate come
Corriere della Sera, Stampa,
Repubblica, Giornale, Libero,
Avvenire, Messaggero, Giorno, Resto del Carlino, Secolo
XIX, Mattino, in assoluto rispetto del pluralismo delle opinioni.
Particolarmente interessante il
capitolo sul problema religioso
che spesso mette in evidenza
il difficile convivere tra cristianesimo (di casa) e islamismo
(importato). Per dirne una, la
questione dei matrimoni misti
che pongono in condizione
debole la donna cristiana o
non, sposata a un musulmano: l’Islam infatti considera le
nozze alla stregua di un contratto privato grazie al quale
l’uomo detiene ogni potere (sul
ruolo della sposa, per l’educazione dei figli, in diritto ereditario) mentre la Chiesa cattolica
considera il vincolo un sacramento e possiede una visione
civile dell’unione con diritti e
doveri reciproci tra i due coniugi.
Il cardinale Giacomo Biffi non
ha dubbi:l’accettazione di questi principi scaturisce dalla disarmante “cultura del niente”
che si è andata diffondendo in
tutto l’Occidente con la perdita
della potestas da parte dei genitori, con la riduzione della
donna a sesso-oggetto, con
l’abbandono del senso di responsabilità ad ogni livello, con
la scomparsa della meritocrazia dalla società, con la rinuncia ad una politica di reciprocità con i paesi di provenienza
degli immigrati. Ne consegue
una progressiva perdita di
identità sia spirituale sia civile,
visto che il nostro Paese - senza il minimo dubbio - possiede
salde radici cristiane e grazie
ad esse ha costruito la sua civiltà. Diverso è il parere di molti
esponenti islamici i quali lamentano un trattamento discriminatorio nei loro confronti,
anche perché non hanno ancora un formale riconoscimento da parte dello Stato italiano
nonostante la consistenza della loro immigrazione pari al
36,5% del totale (mentre agli
ebrei, il 3% della popolazione,
vengono accordati diritti e pri-
vilegi: dimenticando però che
si tratta di cittadini a pieno titolo
da antiche generazioni e non
di freschi immigrati).
Va precisato che Ambrogio
Amati accorda spazio e sviluppa con equilibrio le tesi di ciascuna parte. Nelle conclusione, ad esempio, ricorda che il
problema non consiste nel “difendere la cittadella” dall’assalto degli invasori ma di regolare
con saggezza il fenomeno immigratorio per valorizzarne gli
aspetti positivi e risolverne le
contraddizioni. Ormai in Italia il
3 per cento degli abitanti è costituito da nati all’estero, secondo statistiche ufficiali largamente superate (basta prendere un mezzo pubblico o passeggiare in città per rendersi
conto di un’altra realtà: solo i
clandestini fanno raddoppiare
la cifra; non a caso dalla recente “regolarizzazione” sono
emersi circa 700mila lavoratori
in nero).
Il fenomeno dell’immigrazione
va quindi affrontato con decisione e pragmatismo. Non è
realistico immaginare la chiusura delle frontiere per l’Italia e
per l’Europa. Il problema va affrontato con intese bilaterali e
con aiuti allo sviluppo del terzo
mondo.
Ambrogio Amati,
Cronache
dell’immigrazione 2001.
Fatti e commenti secondo
alcuni dei maggiori
quotidiani italiani,
Laterza,
pagine 256, 26,00 euro
ORDINE
2
2003
L A
Como che ha riportato in serie
A e in serie A vuole caparbiamente restare: strigliare i dipendenti che non gli danno
retta e tirare le orecchie ai concorrenti non rappresenta l’eccezione.
Diffondersi compiutamente
su tutti non è possibile, ma i
nomi vanno fatti.
Obbedisco: Francesco Rosario Averna, amari dolcissimi
per via dei cioccolatini; Giuseppe e Valerio Calderoni, posateria e affini da 150 anni;
Gian Paolo Dallara, progetti
che hanno segnato la storia
delle quattro ruote sportive;
Carlo Frapporti, l’ecologia davanti al fatturato; Adolfo Guzzini e famiglia, una ragnatela di
marchi e genio dell’illuminazione; Learco Malaguti, deciso a
onorare il mondo delle due
ruote; Francesco Merloni, “il
ministro imprenditore”; Carlo e
Antonella Micca Bocchino, nel
segno della grappa; Gianni e
Piero Mocarelli, l’auto nel sangue; Mario Veronesi, ovvero il
biomedicale; Oscar Zannoni, il
culto delle piastrelle e Domenico Zucchetti, il software come amico...
E le signore, naturalmente.
Naturalmente. Diana Bracco,
un impero nel chimico-farmaceutico e biomedicale, con il
debole per la musica e ogni
forma dell’arte; Lilly Bertone
Cortese, la sublimazione del
design automobilistico (nel nome del marito), e il più bel giardino pensile di Torino; e Teresa
Cerutti Novarese, giustamente
regina della stampa.
Numeri Uno è in libreria a euro
22.95. Non si poteva fare 23?
Mauro Castelli,
Numeri Uno:
38 protagonisti
della economia italiana,
Il Sole 24 Ore Libri,
Milano 2002, 22,95 euro
Ci vuole davvero coraggio
per proporre al pubblico
un’analisi sul quotidiano di
Gramsci dalla fondazione all’anno del massimo consenso al governo di Mussolini.
Coraggio perché parliamo di
un’epoca lontanissima che
agli anziani ricorda appena
qualcosa e per i giovani appartiene alla preistoria della
Repubblica. L’autrice, comunque, ha pescato alle
giuste sorgenti: l’archivio del
partito di Togliatti e altri fondi
di istituzioni pubbliche e private (Archivio centrale dello
Stato, Fondazione Feltrinelli)
ove si conservano tante documentazioni ancora da
analizzare. Nel complesso è
scaturita una ricostruzione
storica che supera le vicende del giornale preso in esame per illustrare l’intera situazione civile e sociale vissuta in Italia in tre lustri di regime.
Da parte nostra ci sembra
doverosa una breve premessa. Il peso politico dei quotiORDINE
2
2003
D I
TA B L O I D
Autori vari
I Navigli. Da Milano
lungo i canali
di Mario Mauri
È stato presentato al “Giardino” di Milano, a Villa Gina di
Trezzo sull’Adda (sede del
Parco Adda Nord) e a
Cernusco sul Naviglio il volume:I Navigli.Da Milano lungo i
canali. La bellezza nell’arte e
nel paesaggio.
È l’ultima opera realizzata dal
Celip di Milano, specializzato
nell’edizione di pregiati volumi
su Milano e la Lombardia. Il titolare Nicola Partipilo, immigrato a Milano dalla Sicilia alla
fine degli anni ‘40, si è integrato così bene nella città e nella
regione tanto da dedicare loro
una ventina di volumi. L’ultimo
è un vero e proprio “manifesto
d’amore” per i navigli.
Il ponderoso volume consiste in 480 pagine del formato
di 34 centimetri per 25 e si
può considerare se non
l’“opera omnia”, definizione
riservata a un singolo autore,
un’ antologia sui corsi d’acqua artificiale che convergevano su Milano. Vi sono infatti riprodotte miniature, dipinti,
stampe, foto d’epoca in bianco e nero di fine ‘800 e del
secolo scorso. Ma poi splendide fotografie d’attualità
eseguite da specialisti come
Mario De Biasi.
L’impegnativa opera è stata
coordinata dalla studiosa Roberta Cordani e vi hanno scritto testimonianze, brevi ma
succose, ben ottanta autori.
Tra questi, in ordine alfabetico,
Gaetano Afeltra, Tullio Bar-
Fiamma Lussana
L’Unità
1924-1939
di Giacomo de Antonellis
L I B R E R I A
diani nel passato non è assolutamente paragonabile a
quello odierno.
A quei tempi la stampa
esprimeva l’unica, essenziale, base per la formazione
della pubblica opinione: ogni
articolo veniva letto, analizzato, discusso dai lettori. In
sostanza, ogni colonna di
piombo possedeva una sua
forza calamitatrice e trascinatrice di fortissimo impatto
che oggigiorno appare impensabile (non soltanto per
l’irruzione sulla scena di canali tv, emittenti radio, collegamenti Internet e mondo
informatico, ma per il tempo
sempre più ridotto che si
suole dedicare agli approfondimenti).
A differenza dei nostri giorni
allora la lotta politica era vissuta senza mascheramenti: i
comunisti si dichiaravano
marxisti, i cattolici popolari, i
fascisti nazionalisti e patriottardi, i liberali conservatori, e
così via. Ciò chiarito, entriamo nel tema.
L’Unità ha sempre riflesso la
linea progettuale e propagandistica del partito agli or-
In alto, foto anni ’20: un
barcone trasporta le bobine di carta per il Corriere.
bato, Edo Bricchetti, Donatella
Caporusso, Carlo Castellaneta, Simonetta Coppa, Elisabetta Ferrario, Elio Fiorucci,
Guido Lopez, Empio Malara,
Claudio e Italo Mazza, Carlo
Perogalli, Arnaldo Pomodoro,
Giuseppe Pontiggia, Enzo
Proni, Rino Tinelli, Orio Vergani (memoria postuma) e
Guido Vergani.
Sono cinque i Navigli descritti
e illustrati: Grande, Bereguardo, Pavese, Martesana e
Paderno. Quest’ultimo è il più
breve (meno di tre chilometri),
il più recente, ma il più arduo
da realizzare.
Venne infatti completato solo
nel 1777 per volontà della pia,
saggia e prolifica (15 figli!)
Maria Teresa, imperatrice
dini di Mosca. Conferma la
Lussana: “Bisogna sempre
leggere i discorsi di Stalin,
studiare la politica sovietica,
assimilare le parole d’ordine”.
È dunque un giornale che,
dietro l’apparenza di veste
nazionale e popolare, tende
a forgiare ideologicamente
(ma anche settariamente,
per i dibattiti in seno al partito) i propri lettori.
I quali venivano sballottolati
tra posizioni intransigenti
verso nemici interni, come i
bordigliani e i trockijsti, e atteggiamenti morbidi nei confronti di avversari agguerriti,
ad esempio i cattolici a cui
più volte si tendeva la mano
(nel tentativo di tesorizzare il
successo del “caso Miglioli”,
deputato popolare lasciatosi
incantare dal mondo marxista) e persino i detestati neri
(“Lettera ad un fascista della
prima ora”, 1936/13, scon-
d’Austria. Storico pure il
Naviglio della Martesana fatto
iniziare nel 1457 dal duca di
Milano Francesco Sforza e
congiunto agli altri di Milano
nel 1497 auspice Leonardo da
Vinci.
La Martesana esce dall’Adda
a Trezzo, corre parallela al fiume sino a Vaprio per poi deviare a occidente e dirigersi verso
Milano. Il canale doveva essere senza dubbio familiare a
Leonardo in quanto da Milano
poteva facilmente raggiungere
Vaprio dove era ospitato dal
giovane amico, allievo e poi
erede, Francesco Melzi che
assistette fino alla fine (1519,
ad Amboise, vicino a Parigi) il
genio del secondo millennio.
Della Martesana si servivano
certamente i Serbelloni per re-
carsi dal loro palazzo di Milano
in villeggiatura lungo il Naviglio
a Gorgonzola. Palazzo Serbelloni - ora sede del Circolo
della Stampa - fu riformato in
stile neoclassico alla fine del
‘700 dal grande architetto ticinese Simone Cantoni (17391818). E il Cantoni morirà proprio a Gorgonzola mentre, a
quasi 80 anni di età, dirigeva
l’erezione della maestosa
chiesa prepositurale dei santi
Gervasio e Protasio da lui progettata, ma finanziata dai
Serbelloni.
Collegati tra di loro, i Navigli avvolgevano il centro storico di
Milano in una “cerchia” del diametro di circa due chilometri. I
palazzi nobiliari o di possidenti
che davano sulle attuali vie
Senato, San Damiano, Vi-
“Amarcord” personale
Un giorno feriale a metà degli anni Trenta del secolo scorso, dopo la domenica della prima Comunione, mia madre mi accompagnò in gita premio a
Milano. Naturalmente visita (per la prima volta) al
Duomo, ma anche a una parente suora in un
convento di via Santa Sofia.
Camminando la mamma mi disse: “Qui sotto c’è il
naviglio”. Anzi in dialetto, con rotacismo (la “elle”
tramutata in “erre”), “Ul Naviri”.
Durante il viaggio, da tram di Vimercate, avevamo visto
il Naviglio della Martesana dapprima sul ponte di
Metallino - tra Cologno Monzese e la cascina Gobba e poi a Crescenzago dove fiancheggiava via Padova.
Allora io mi inginocchiai sul marciapiede accostando il viso sulla bocchetta di un tombino nell’ingenua
speranza di vedere o almeno sentire scorrere l’acqua del “Naviri”.
M. Ma.
certante per la sua untuosità) ai quali si ricordano i comuni trascorsi rivoluzionari.
Il quotidiano comunista è nato quale veicolo immediato
di propaganda: da Mosca, in
una lettera del 12 settembre
1923, Antonio Gramsci indicava la funzione essenziale:
“Dovrà essere un giornale di
sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma e alla tattica della
lotta di classe”. Lo staff dirigente, infatti, puntava esclusivamente all’obiettivo designato dai finanziatori sovietici: la conquista del bolscevismo.
Perciò avvertiva: “Il giornale
non dovrà avere alcuna indicazione di partito, dovrà essere redatto in modo che la
sua dipendenza di fatto dal
nostro partito non appaia
troppo chiaramente... (tuttavia, dovrà) assicurare al partito stesso, che nel campo
delle sinistre operaie ha storicamente una posizione dominante, una tribuna legale
che permetta di giungere alle più larghe masse”.
Proprio sul piano della diffusione, considerate le circostanze, “l’Unità” otteneva
buoni risultati attestandosi
ben presto sulle 30mila copie con edizioni rivolte soprattutto alle aree produttive,
e un tetto di 60mila all’indomani del delitto Matteotti. Il
declino coincideva con la
stretta nei confronti della
stampa di opposizione.
Le grandi testate passavano
sotto il diretto controllo del
neonato regime, i fogli della
minoranza erano costretti ad
emigrare oppure alla clandestinità (nella prefazione
Nicola Tranfaglia cita Avanti!
e La Giustizia, dimentica la
testata più battagliera cioè Il
Popolo fondato da don Luigi
Sturzo e diretto dal cattolico
Giuseppe Donati, costretto
ad abbandonare la patria e
morto esule a Parigi) e anche il quotidiano comunista
veniva travolto dagli eventi.
Ma non demordeva continuando, sua pure saltuariamente prima con quattro poi
con otto paginette, ad essere stampato in tipografie
amiche e diffuso in silenzio
tra i militanti.
Costoro erano operai, contadini, studenti, intellettuali.
Gente attiva insomma eppure mai sollecitati a partecipare in modo diretto scrivendo
su questioni del partito e del
paese. “Il suo linguaggio è
spesso ridondante e i suoi
articoli troppo lunghi, prolissi, poco digeribili per le grandi masse cui dovrebbero rivolgersi”.
Si ha dunque l’impressione
che l’Unità costituisca una
sorta di “contenitore delle
posizioni nel dibattito interno, non riuscendo - malgrado le premesse iniziali - a diventare un giornale aperto
alle masse popolari”.
Ad esse erano riservate parole d’ordine non proprio ori-
sconti di Modrone, Francesco
Sforza, avevano la loro darsena privata .
Poi alla fine degli anni ‘20 del
XX secolo la loro copertura
che, col senno di poi, si è rilevata una jattura. Siamo però
convinti che se allora Milano
avesse avuto un’amministrazione democratica, anziché un
podestà onnipotente, il problema sarebbe magari stato discusso più a lungo e forse rinviato sine die. Viceversa lo
scempio urbanistico ed ambientale è stato irreversibile.
Anche la Martesana ha subito
la stessa sorte del Naviglio
centrale. Coperta nel dopoguerra nel tratto di via
Melchiore Gioia, ora ne resta
uno scampolo a cielo aperto
alla “Cassina di pomm”.
Gaetano Afeltra apre le testimonianze su I Navigli con un
aneddoto personale. Infatti
quando giunse per la prima
volta a Milano la proprietaria di
una pensione di via San
Marco si scusò - quasi fosse
colpevole - in quanto dalla finestra della camera in cui alloggiava non si vedeva più il
Naviglio che “era così bello”.
Concludendo, riteniamo che I
Navigli possa essere considerato “strumento di lavoro” per
qualche collega anche nell’epoca di Internet e della posta
elettronica.
Sarà infatti più facile documentarsi e scrivere sull’argomento
senza esser costretti a consultare la Raccolta Bertarelli,
l’Archivio di Stato, l’Ambrosiana. Senza contare poi che
diversi documenti riprodotti nel
volume appartengono a collezioni private e quindi difficilmente consultabili.
Autori Vari,
I Navigli. Da Milano lungo
i canali. La bellezza
nell’arte e nel paesaggio,
Edizioni Celip Milano, s.i.p.
ginali (ai tempi della guerra
d’Africa) tipo “dopo 12 anni
di fascismo i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri
più poveri” oppure come la
vecchia contrapposizione tra
“clero alto” e “clero basso”
per giustificare le stragi di religiosi in Spagna.
Torniamo, per concludere,
sulla figura di Gramsci.
Fondatore della testata (ma
non la diresse mai) ed esaltato in vita, doveva subire le
prime critiche proprio sulle
pagine del suo giornale.
Una questione complessa e
sottile che faceva capo ai
giudizi espressi dall’esponente sardo nel 1926 in tema di “coscienza della classe operaia”. Le sue ceneri
erano ancora calde quando
alcuni membri del comitato
centrale (Berti e Di Vittorio)
cominciarono a rilevare “errori” del mitico capo, che soltanto il cauto Togliatti riusciva a mettere in ombra.
Vicende lontane nel tempo.
Fiamma Lussana, studiosa
della Fondazione Gramsci di
Roma, ha fatto bene a ripercorrerle e a riproporle ad
uso di anziani e di giovani:
un contributo a capire meglio la nostra storia.
Fiamma Lussana,
“L’Unità” 1924-1939.
Un giornale “nazionale”
e “popolare”,
Edizioni dell’Orso,
pagine 400, 23,00 euro
29 (37)
“
di Mario Pancera
Tutti abbiamo una patria, anche gli apolidi hanno una patria: la loro patria è il mondo.
Subito dopo la seconda guerra mondiale, un simpatico globetrotter americano, Garry
Davis, si fece conoscere
ovunque affermando di essere “cittadino del mondo” e di
avere il diritto di passare attraverso le frontiere anche senza documenti. Era come se
avesse gettato un seme. Oggi
il popolo italiano ha una nuova patria, che non è più la penisola a forma di stivale, è un
continente, l’Europa. Ci sono
voluti molti decenni, ma c’è
l’abbiamo fatta. La prima pallida idea fu espressa agli inizi
degli anni Quaranta, poi gli
europei hanno compreso l’importanza dell’unità, sia come
valore ideale che come
espressione di un progresso
civile ed economico ineludibile, e già nel 1949 nasce il
Consiglio d’Europa.
Non staremo a rifare la storia,
coraggiosa e complessa. Il
mondo era diviso in blocchi,
politici e militari, fumavano
ancora le rovine dell’ultimo
conflitto, ma, pur rispettosi di
ogni sentimento e identità nazionale o regionale si doveva
guardare avanti, ai figli, ai nipoti. L’uso della moneta comune è ora una pacifica
realtà. E occorreva guardare
in alto: oltre la piccola statura
umana. Naturalmente, ad
ogni crescita hanno corrisposto benefici e difficoltà. Oggi
siamo orgogliosi di essere insieme cittadini italiani ed europei, di conversare in pace
con gli ex nemici, di qualsiasi
pelle e fede, di apprendere da
tutti e di offrire a tutti qualcosa
di noi.
Questo volume con il patrocinio di tre ministeri (Affari esteri, Beni e attività culturali,
Italiani del mondo), la presentazione di Boris Biancheri,
l’introduzione di P. Gaetano
L A
D I
L’orgoglio
di essere
cittadini
europei
Lo Russo e il sostegno della
Banca Popolare di Milano,
raccoglie i vari capitoli i nobili,
ma anche concreti, discorsi, o
parti di essi, del Presidente
della Repubblica, Carlo
Azeglio Ciampi, che riguardano il nostro Paese ovvero la
fierezza, la gioia e l’onore di
essere europei. Esso si apre
con una frase del Presidente:
“Ho fiducia nell’Europa, la nostra patria più grande, che
siamo costruendo”. La bellezza di valorizzare le regioni, gli
uomini, di camminare e di
pensare senza confini.
C’è un punto ben preciso per
capire il concetto di patria: è
un problema di concetto morale, non di semplici espedienti politici, di documenti burocratici o, peggio, di armi.
Aveva cercato di insegnare,
con le sue piccole forze, un
colto prete come Lorenzo
Milani. Ci riuscì solo in parte.
Ma aveva ragione. Come dimostra la storia, la patria dei
muri, dei cippi, dei reticolati,
dei confini ottenuti con meri
artifici diplomatici e con guerre, e una patria che se ne va
con gli anni, cioè con le altre
guerre e con gli altri artifici.
Per necessità di sopravvivenza, occorre che, nei rivolgimenti, se ne formi un’altra, più
vasta è, con il tempo, più solida economicamente, socialmente, culturalmente.
L’allargamento provoca la difficoltà delle comunicazioni e il
diversificarsi delle lingue. È da
qui che bisogna prendere coscienza di una unità superiore
alle tante, piccole e giustamente diverse, che la formano.
Nel processo in cui l’avrebbero condannato a morte,
Socrate dovette difendersi da
due accuse di immoralità:
cioè di un credere agli dèi e di
sovvertire l’animo dei giovani
ascoltandoli e discutendo con
loro. In pratica, era giudicato
un nemico della patria. Il filosofo, che in gioventù aveva
combattuto valorosamente
per la difesa di Atene, la sua
polis, provò il contrario, sostenendo con vigore l’importanza della coscienza morale.
Egli difendeva, attraverso se
stesso, il valore del concetto
di patria, non tanto come
espressione esteriore adatta
a qualsiasi capriccio dialettico
e calcolo per questioni territoriali, religiose o etniche, ma
come intima convinzione. La
patria come ideale, che non
riguarda i confini politici - dei
politici aveva un basso concetto - ma riguarda l’umanità
ovvero l’unità degli uomini
della pace e della giustizia.
Grande difensore delle Leggi,
il filosofo si sentiva non solo
ateniese, ma greco. I suoi
ideali erano universali. Arriva
all’”anima” dell’uomo. Atene
era, certo, la sua patria, gli dèi
greci erano i suoi dèi, ma egli
cercava di allargare gli orizzonti dei suoi concittadini, a
partire dai giovani.
Questo insegnamento dovrebbe essere valido anche
oggi. Io sono nato a Bozzolo,
paese mantovano ai confini
con Parma e Cremona. La
mia patria, cioè la terra dei
miei padri, è qui: le ossa dei
miei antenati - in cui si ritrovavano caratteri celtici, normanni, arabi, austriaci, francesi,
slavi: sono passati proprio tutti
gli eserciti!- sta tra i fiumi
Oglio, Chiese e Po. Se guardo
le foto dei miei nonni e nonne
(più in là non posso andare)
trovo biondi e mori, occhi cerulei e neri occhi malinconici,
nasi aquilini o con larghe narici. Il mio paese è sotto l’egida
di un santo che fu soldato romano, ha avuto una forte
componente manifatturiera e
bancaria ebraica, ha dato uomini ai Mille di Garibaldi e alla
cultura uno dei più importanti
filologi italiani, Napoleone
Caix. Da questo intreccio, si
capisce che la mia patria padana e contadina è già l’Italia,
è già l’Europa, è già il mondo.
Non posso, dunque, non essere europeo, per nascita, pri-
”
ma ancora che per contrattazioni nazionalistiche. L’idea di
patria è, in me, italiano, un
ideale interiore, che non può
essere sradicato, né può angustamente restringersi sulle
sponde di tre fiumi. Quando
dico “patria”, non dico un pezzo di terra o un vessillo o i
miei morti, dico terre, bandiere, unità di pace e di giustizia
tra gli uomini vivi.
Il 1° gennaio 2002, insieme
con altri Paesi, l’Italia è diventata Europa attraverso l’euro.
Ai vertici dell’Unione ci sono
anche politici, economisti studiosi italiani. Significa, tra l’altro, che abbiamo capito che i
nostri avi non sono soltanto
lombardi o toscani o calabresi
o romani, e che i nostri figli e
nipoti hanno una patria ben
più grande dell’Italia, della
Francia o della Germania:
hanno davanti un continente,
destinato a ingrandirsi.
Questa è l’importanza della
parola “patria”: di averne un
solito concetto interiore, per
evitare le tragedie e guardare
con sicurezza il futuro.
Siamo soltanto agli inizi ed è
sperabile che nipoti e pronipoti portino avanti questa
idea: la patria diventi il mondo.
Avremo una Costituzione ovvero un atto che, ricorda
Ciampi con forza, “coagulerà
in un sistema di valori condivisi tutti i Paesi europei: membri
in atto e futuri dell’Unione europea. Definirà lo schema di
una cittadinanza europea.
Contribuirà all’affermazione di
un sentimento di unione fra i
popoli europei. Faciliterà il
dialogo dell’Europa con il resto del mondo”. Le rivoluzioni
si fanno con l’idee e la giustizia si realizza con l’intelligenza delle leggi. Occorre tenere
le braccia spalancate e pronta la mente verso chi vuol
condividere i nostri ideali.
Mario Pancera,
L’orgoglio di essere
cittadini europei,
Editori Valecchi voices, s.i.p.
Nicola Dante Basile
Profumo di vino.
Storie di uomini, di imprese, di mercati
di Lello Naso
Molti libri dedicati all’enogastronomia - è di gran moda
scriverne - sembrano sospesi nell’iperuranio.
Raccontano di prodotti tipici
e tradizionali, di vini, ma anche di ristoranti come fossero variabili indipendenti rispetto ai processi, economici ma non solo, che contribuiscono alla loro affermazione sui mercati. Anche i
meccanismi produttivi, le
complesse organizzazioni
che permettono a un vino, o
a un salume, di uscire dall’anonimato e affacciarsi alla ribalta vengono spesso messi
in secondo piano.
Come si ignorano le leggi e
le regole che disciplinano la
vita di un settore economico
30 (38)
e che spesso risultano determinanti per il successo di
un prodotto agroalimentare.
Profumo di vino, il libro che
Nicola Dante Basile dedica
all’enologia non segue il filone modaiolo. Tutt’altro: le
Storie di uomini, di imprese,
di mercati, come recita il sottotitolo, sono sapientemente
immerse nella realtà economica e culturale italiana con
un sottile filo che lega i prodotti ai processi. Al punto da
diventare un completamento
ideale per i numerosi romanzi, saggi e guide rivolti agli
amanti del bere e del viaggiare nel segno del vino.
Se non fosse così poco à la
pàge si potrebbe dire che
l’autore, giornalista del Sole24 Ore, per raccontare e descrivere la realtà enologica
italiana ha utilizzato un im-
pianto filosoficamente marxista: una struttura economica
- sostanzialmente la prima
parte del libro dedicata ai
mercati - e una sovrastruttura ideologica - la parte più
corposa del lavoro, con i ritratti delle imprese protagoniste del panorama produttivo.
Un impianto rispettato anche
nella cifra stilistica, con la sezione iniziale scritta come un
saggio ben scritto, chiaro e
scorrevole, e la seconda
parte pennellata come un
romanzo o meglio come tanti racconti brevi quanti sono i
ritratti delle imprese. Nicola
Dante Basile riesce nella
non semplice impresa di
spiegare ai lettori i meccanismi del settore del vino, i
nuovi mercati, i Paesi produttori tradizionali e le strategie dei competitor da poco
giunti sulla scena.
E a dare un quadro d’insieme sulle prospettive dell’enologia mondiale, rispondendo senza pedanteria alle
domande apparentemente
più semplici: quale sarà il
ruolo degli Stati Uniti, del
Cile, del Sudafrica e degli altri Stati neo-produttori?
Riusciranno i Paesi tradizionali, Italia e Francia in primis,
a reggere all’impatto dei produttori rampanti? Quali vini
si bevono in Cina e quali sono le prospettive dei consumatori orientali che si affacciano sul mercato? Qual è
stato l’impatto del Giappone
sul mercato nel dopoguerra?
Quali sono le ultime novità
legislative sulla sanatoria dei
vigneti abusivi nell’Unione
europea e come cambieranno gli equilibri all’interno del-
L I B R E R I A
TA B L O I D
Falabrino,
Garuti
e Mazzocchi
L’educazione
alla legalità
di Sabrina Peron
Il volume L’educazione alla
legalità è un raccolta d’interventi di autori provenienti da
varie professionalità, quali
magistrati, pedagogisti, studiosi, attori ecc. (ad esempio
si va da Gherardo Colombo a
Livia Pomodoro, da Moni
Ovadia a Guido Petter, solo
per citarne alcuni), i quali, dai
rispettivi punti di vista, delineano il progetto dell’idea di
legalità come valore, non tanto - e non solo - in senso politico-giuridico, ma, piuttosto, in
senso etico-morale.
Dunque, non solo una legge
che garantisca la distribuzione regolata dei poteri ed una
giustizia che controlli i conflitti
assegnando imparzialmente
ragioni e torti, ma, anzitutto,
l’interiorizzazione - attraverso
un progetto educativo ad ampio respiro democratico - di
un piano di valori comuni e
condivisi, iscritto nell’orizzonte di un «noi» collaborativo,
da sostituire a quello di un
«io» agonale, individualista e
competitivo.
I lettori, a cui gli autori si rivolgono, sono tutti coloro che si
sforzano di elaborare, e portare avanti, una presa di coscienza del senso della legge
e del suo rispetto, da parte di
tutti, a partire dall’agire quotidiano delle piccole cose.
la stessa Ue? Il tutto scritto
in maniera piana e comprensibile, con la semplicità che
mette alla portata di tutti anche i meccanismi comunitari
più complicati.
Nella seconda parte Nicola
Dante Basile, che al Sole-24
Ore si occupa di enologia da
25 anni, racconta le cantine,
gli uomini e i prodotti che
fanno il sistema vitivinicolo
italiano.
Niente equivoci: non ci sono,
se non di striscio, valutazioni
sui vini o paragoni tra le diverse annate; piuttosto c’è,
seria e documentata, la ricostruzione della nascita dei
prodotto e dell’impresa, le
strategie commerciali, l’innovazione dei processi di qualità.Tante piccole chicche,
tante curiosità, tanti aneddoti
raccontati sempre dai protagonisti.
Grandi storie “minime”, che
raccontano le sfaccettature
della vita quotidiana, un po’
alla maniera del poeta della
canzone Francesco Guccini,
autore della prefazione. Così
spigolando tra le 75 storie
d’imprese, si può scoprire,
per esempio, come è nato il
miracolo del Sagrantino di
Montefalco o chi ha rivaluta-
Il volume, che si avvale della
presentazione di don Ciotti,
si divide in più parti. Nella
prima parte, i vari interventi
tracciano le linee di un programma di legalità, fondato
sull’assunzione dei valori di
responsabilità individuale e
di rispetto per l’altro, su cui
inevitabilmente si innesta il
rifiuto della furbizia e del privilegio. Nella seconda parte,
la funzione educativa di un
sistema scolastico, che non
si diriga solo all’erogazione
di nozioni conoscitive ma
che sia finalisticamente vincolato ad un’educazione alla
vita democratica ed all’acquisizione di valori, si relaziona e si confronta con i bisogni giovanili di crescita e
maturazione.
Le ultime due sezioni sono,
infine, dedicate, una alla narrazione di alcune “esperienze” nelle scuole, nelle associazioni di volontariato ecc ,
l’altra consiste in una serie di
“documenti”, quali La carta
dei doveri, Nove consigli scomodi e per finire un questionario elaborato da alcuni docenti milanesi riguardante
proprio le tematiche dell’educazione alla legalità.
Falabrino, Garuti,
Mazzocchi,
L’educazione alla legalità,
Libri Scheiwiller, Milano
2002, euro 12,50.
to i vini della Campania.
Oppure a chi si deve l’importazione del Cabernet in
Toscana o la rinascita dell’enologia in Sicilia e in tutto il
Sud in generale.
Ancora chi è l’enologo che
ha contribuito in maniera determinante a impiantare i vitigni fuori dalle aree tradizionali. O anche chi è il designer che ha concepito la
bottiglia a forma d’anfora del
Verdicchio dei Castelli di
Jesi. Intrecciando i racconti il
lettore attento ricostruisce i
percorsi delle cantine, le reciproche influenze, la nascita dei distretti e delle aree
produttive.
Leggendo le storie delle imprese si individua il filo conduttore che le lega, così come si possono comprendere
i motivi, mai casuali, dell’affermazione delle etichette. Si
vede in controluce la mano
invisibile che ha fatto dell’enologia italiana la protagonista di una storia di successo.
Nicola Dante Basile,
Profumo di vino.
Storie di uomini,
di imprese, di mercati,
edizioni Il Sole-24 Ore,
pagine 199, 21,00 euro
ORDINE
2
2003
L A
L I B R E R I A
Roberto Gervaso
Il Grande Mago
di Gregorio F.Terreno
Pubblicata per la prima volta
nel lontano 1972, gagliardamente nelle librerie una delle
biografie più fortunate di
Roberto Gervaso. Si tratta di
segnatamente de Il Grande
Mago, ovvero Vita, morte e
miracoli del Conte di
Cagliostro, come occhieggia
dalla copertina il sottotitolo. Un
vero e proprio classico del biografismo di intrattenimento
colto, che si avvale comunque
di una ricca e agguerrita messe di ricerche, apologie, memoriali d’accusa sedimentatasi in due secoli.
L’autore non solo insegue le
vestigia sfuggenti tra leggenda e storia del Gran Cofto, come l’ebbe a ribattezzare il padre della letteratura tedesca
W. Goethe; ma fronteggia da
par suo il cimento di ricomporre il mosaico delle interpretazioni, tra agiografia e auto da
fè, che la sfrontata e sgargiante figura di Cagliostro ha inevitabilmente fomentato.
Premette infatti Gervaso: “Se
la nostra interpretazione di
Cagliostro sia quella giusta,
non sappiamo. Certamente
non è partigiana. Nel conte
Alessandro i detrattori hanno
visto solo un falsario, un ciurmatore, un prosseneta. Gli
apologeti solo un iniziato, un
martire, un santo. In realtà fu
un miscuglio di ingenuità e di
impostura, genio e ciarlataneria, misticismo e sregolatezza.
Solo Cagliostro sapeva chi
fosse Cagliostro. Forse non lo
sapeva nemmeno lui. Se l’avesse saputo non avrebbe fat-
to quel che fece, non sarebbe
diventato quel che diventò. Ma
l’enigmaticità fu il suo fascino”.
In ogni caso la parabola di
Alessandro Cagliostro, pseudonimo del palermitano
Giuseppe Balsamo, principia
nel 1743, sotto la volontà latitudinale della città più popolosa di Italia dopo Napoli, in un
rione fatiscente.
Essa indi corre e si dipana per
l’Europa in un vorticoso peregrinare, assieme alla fama di
alchimista e taumaturgo che
la scia pirica delle sue imprese finisce con il decretargli. Poi
a Parigi il destino comincia a
riavvolgersi, verso un tramonto annunziato. Colà introduce
la massoneria di rito egiziano
ed è soprattutto implicato pericolosamente nel famoso processo della collana. Arrestato
a Roma e condannato come
framassone al carcere perpetuo, spirò nella fortezza di S.
Leo. Con un stile sgattaiolante
e chiaro, lo scrittore, in coppia
con Montanelli della rizzoliana
Storia d’Italia, accompagna il
lettore nel caleidoscopio delle
truffe, riti iniziatici, pratiche
mediche, negromanzia , tentativi di protochimica di un individuo divenuto l’idolo di mezzo
continente.
Come in fondo gli odierni guru
della borsa, egli proseguì il disegno chimerico dei facili arricchimenti: dagli esperimenti
con i filtri d’amore e le creme
di bellezza a base di cicoria,
indivia e lattuga alla ricetta
della polvere rossa di proiezione, l’irraggiungibile pietra filosofale che seduceva irresistibilmente con la mirifica promessa di trasmutare le vili le-
Intrigante. Curioso. Questo
“Tracce di sangue a piè di pagina” di Luigi Giliberto si presenta come un romanzo, ma
sin dalle prime pagine t’accorgi
che la definizione è riduttiva.
Perché è un mix tra il giallo intrigante, con tutta la sua tensione, e un curioso saggio ricco di
notazioni storiche e d’attualità.
Così la lettura corre su due binari paralleli e convergenti: l’invenzione del racconto godibile
e la realtà delle informative a
piè pagina che lo punteggiano.
Dove non sono soltanto annotati i personaggi e i fatti, e sin
qui saremmo nella normalità,
ma anche tutte quelle notizie di
solito lasciate senza approfondimenti ma che possono interessare, incuriosire il lettore.
I protagonisti ordinano i ravioli
alla ricotta? Ecco la ricetta: “Il
ripieno si fa così…Parlano di
“puttanate”? Ecco un “caso di
ORDINE
2
2003
tolleranza” nella situazione delle “lucciole che punteggiano la
statale 32 e la strada per la
Malpensa presso Varallo
Pombia”… E via così. Mai con
un tono saccente e didattico,
sempre con la stessa scioltezza di scrittura del racconto che
scorre nella parte superiore
della pagina. In un’alternanza
tra un thriller soft con due protagonisti di fantasia, e le informazioni reali, utili, che dalla
narrazione prendono spunto.
Sul giallo ci limitiamo a un accenno. Luigi Pigna, cronista del
quotidiano “Nazionalpopolare”
indaga in proprio sulla morte
apparentemente accidentale
di un collega, ucciso da una
scarica di 220 volt provocata
dal phon caduto nella vasca
mentre stava facendo il bagno.
L’aiuta nelle ricerche una bibliotecaria, al primo colpo d’occhio
scialba, ma che si rivelerà una
ragazza determinata e tutta da
scoprire.Anche a letto.
La vicenda si dipana sul filo del
TA B L O I D
Giovanni Raboni
Simoni a teatro
di Emilio Pozzi
ghe in nobili metalli. Oggi, dopo l’avvento della teoria atomica, si è definitivamente compreso che tutta la questione si
riduce ad invertire, ad esempio, il numero dei protoni del
piombo con quelli dell’oro, con
la conseguente rinunzia ad
ogni tipo di progetto in tal senso.Tuttavia, ciò che è stupefacente è la credibilità, tanto negli strati del popolino quanto
nelle corti e nei circoli dell’aristocrazia mitteleuropea, che
Balsamo ottenne.
E proprio in piene temperie
del secolo dei lumi e dell’epica,
scientifica
impresa
dell’Enciclopedia. Insomma,
un autentico contraltare di
monsieur
Francois-Marie
Arouet, più conosciuto con il
soprannome di Voltaire. A tal
proposito, questi argomentava mordacemente proprio in
questi stessi anni: “Ma tutta la
terra fischia chi pretende che
non si può piacere a Dio se
non si tiene in mano morendo
una coda di vacca, chi vuole ci
si faccia tagliare l’estremità del
prepuzio, chi stima sacri coccodrilli e cipolle, chi fa dipendere la salvezza eterna da
certe ossa di morti che si portano sotto la camicia, o da un’
indulgenza plenaria che si
compera a Roma per due soldi e mezzo”.
Ciò nonostante, è innegabile
che il discendente dei conti di
Cagliostro fu un autentico protagonista del suo tempo, di cui
si sforzò, non senza il proprio
tornaconto, di incarnare ed interpretare ansie ed aneliti.
Afferma ancora Gervaso:
“Mai, come nel secolo dell’Illuminismo, furoreggiò la ma-
gia, esorcisti, indovini e guaritori contesero agli enciclopedisti la palma della popolarità.
Il Settecento alimentò una
corrente irrazionale vagamente spiritualista che trovò sfogo
non solo nel profetismo teosofico, ma nella passione delle
scienze occulte, lo spiritismo
incipiente, l’alchimia, l’astrologia, la teurgia, accompagnata
dalla degenerazione mondana della volgarizzazione
scientifica”.
Sorprendentemente, anche
Giacomo Casanova, che lo incontrò a Aix-en-Provence,
però suggerì di diffidarne. Fino
all’ultimo. Come fece il guardiano della rocca nella quale
Balsamo morì nel 1795, passandogli una fiaccola - a morte sopravvenuta - accesa sotto i piedi. Che naturalmente
restarono immobili.
Roberto Gervaso,
Il Grande Mago,
Mondadori, Milano 2002,
pagine 279, 16,50 euro
rosa - nero con tocchi spiritosi
nel rapporto di coppia dei due
protagonisti, che si mettono
continuamente in discussione
mentre sono impegnati nella ricerca della verità. Davvero imprevedibile grazie a un intelligente colpo d’ala. Che, ovviamente, lasciamo scoprire al lettore. La storia (inventata) viaggia in contemporanea con un
dramma (vero) accaduto in pieno Risorgimento. E qui, nelle
note a piè pagina, Giliberto si rivela anche un accurato ricercatore.Che ci regala ghiotti e sin’ora ignoti aneddoti su Garibaldi,
Nino Bixio, Umberto I… Dove,
spiega lo stesso autore:“i riferimenti storici citati concisamente
sono tutti documentati, anche
se poco conosciuti”. Compreso
il rapporto adulterino, chiave del
thriller, tra la nobildonna
Carolina Berra e lo scrittore garibaldino Giuseppe Guerzoni,
che “scoprii per primo una ventina d’anni fa. L’indagine ricalca
quella ricerca romanzandola”.
Luigi Giliberto, una vita nei quotidiani (“Gazzettino”,” Carlino”,
22 anni al “Corriere”) ha ambientato tutta la coinvolgente vicenda in un giornale. Il libro, come scrive nella prefazione Mino
Durant (suo collega in via
Solferino e ora direttore della
Prealpina”) “ è anche un gustoso spaccato della vita di redazione che mostra i giornalisti come veramente sono nella goliardesca e a suo modo cinica
vita di tutti i giorni. Curiosi, invidiosi, e soprattutto impegnati in
una doppia battaglia: quella modesta e personale - per
emergere o perlomeno per non
essere sopraffatti, e quella - più
grande - con il mondo, spesso
triste e spietato, che quotidianamente devono indagare e raccontare agli altri”. D’accordo.
Con solo interrogativo nostalgico pensando al passato e guardando il presente: “Devono” o
“dovrebbero”indagare?
Luigi Giliberto,
Tracce di sangue
a piè di pagina,
prefazione di Mino Durand,
Supernova,
pagine 152,10,00 euro
Luigi Giliberto
Tracce di sangue
a piè di pagina
di Gigi Speroni
D I
Per fortuna che nella sua città
natale, Verona, si ricordano di
lui. Almeno con un libro. In
quella di adozione, Milano,
dove è vissuto fino alla morte,
nel 1952, scende l’oblio, ad
esempio pochi ricordano che
a Renato Simoni è dedicato
un teatro, quello di via
Manzoni, e che alla Biblioteca
del Museo teatrale alla Scala,
nella nuova sede, ci sono a
migliaia, i suoi libri, amorevolmente raccolti. E non risultano che siano in gestazione
iniziative per ricordare il mezzo secolo della morte.
Il volume che ho tra le mani
raccoglie 41 recensioni, scelte
tra le centinaia, fra le migliaia
scritte sul Corriere della sera,
dal 1915 al 1952. Immagino la
fatica di Giovanni Raboni, il
poeta che per alcuni anni si è
seduto sulla poltrona che
Simoni aveva lasciato in eredità a Eligio Possenti (i successori furono poi Raul Radice e
Roberto De Monticelli), incaricato dalla curatela.
L’uscita di questo meritorio
volume suscita numerosi interrogativi: esiste ancora la
critica teatrale dei quotidiani?
Ha ancora spazio e rispetto?
Ha ancora una utile funzione
mediatrice verso i lettori-spettatori? Imbarazzanti interrogativi e penose risposte.
Una volta, almeno la consorteria dei critici tentava, ogni
tanto, un esame autocritico,
(e ovviamente, prima di battersi il petto c’era il tentativo di
spostare il dito accusatore
verso un altro obiettivo: il
mondo del teatro, comprendendo autori, attori, impresari,
strutture pubbliche, gli spettatori. E quando non si concludeva, drasticamente; che il
teatro era definitivamente
morto, lo si dava per agonizzare. E nei più ottimistici dei
casi ci si chiedeva: dove sta
andando? È come nei corsi e
ricorsi vichiani le risposte erano, a turno, sempre uguali.
Oggi le domande cadrebbero
nel vuoto, senza rumore, nel silenzio dell’indifferenza.
Consoliamoci, come testimoni
del passato, di rileggere la nitida prosa, traboccante di ragionata passione per il teatro, di
un critico (ma lui preferiva che
le sue recensioni fossero definite cronache). E diamo il merito che gli spetta a Michelangelo Belinetti, intelligente cultore delle glorie veronesi.
La racconta così «Simoni rappresenta un evento rivoluzionario nel mondo del teatro fino ad allora avvolto dai fiumi
dell’accademismo e strangolato dalle insufficienze espressive». E giustamente
sostiene «Forse per lui è stata
fondamentale la lezione giornalistica veronese maturata a
l’Adige e a l’Arena, scuola
semplice, destinata a creare
cronache minute ma non banali, racconti immediati, immediatamente riscontrabili. Il
rispetto per l’accaduto e la necessità di riferirlo rispettosamente, imparati alla scuola
semplice del giornalismo di
provincia, finirono per costituire l’armatura sostanziale del
suo stile».
Non entro nel merito della selezione operata da Raboni,
vincolato certamente a un
preciso numero di pagine.
I suoi criteri si possono forse
individuare, scorrendo l’elenco di quello che c’è: “prime”
assolute, interpretazioni attorali o registiche, individuazioni
esemplificative di autori, incrociando un’esigenza con l’altra.
Chi cerca, ad esempio la prima volta di Ruggeri con
Amleto, la trova (1915) chi è
interessato a Pirandello, può
leggere dei I sei personaggi
in cerca d’autore alla prima
rappresentazione a Milano
(1921), chi è incuriosito dalla
scoperta dei fratelli De
Filippo, al Nord (1931), e di testi rivelatori dell’Eduardo dei
giorni dispari (1946), non è
deluso. Personalmente mi
chiedo sommessamente come mai Questi fantasmi e non
Filumena Marturano o Napoli
milionaria. Ma l’analisi dei testi scelti sarebbe deviante rispetto certi capisaldi. Ecco
dunque, e non poteva mancare, il commento scritto da
Simoni per l’inaugurazione
del Piccolo Teatro di Milano
(1947), nato dalla caparbietà
di due giovani Paolo Grassi e
Giorgio Strehler - due bravi
putei li definiva (come ha ricordato a sua volta Giulio
Nascimbeni raccontando un
emozionante incontro con
Simoni a Milano). Il selezionatore ha proposto cronache su
Ruzante, Cecov, Gorki, Eliot,
Cocteau, Miller, Williams, (cito
alla rinfusa) ma anche su De
Benedetti e De Filippo (sia
Eduardo che Peppino).
Raboni nel suo saggio introduttivo non motiva scelte ed
esclusioni. Mette l’accento sul
magistero di Simoni, sulla sua
“autorevolezza
assoluta”
(«una recensione di Simoni
non era un parere ma il parere»). E analizza i suoi articoli
linguisticamente, semiologicamente, scientificamente,
non trascurando la sua etica
professionale. Non si può che
sottoscrivere una amare e polemica riflessione finale:
«Sono alcuni anni che con rara e sciagurata imprevidenza i
responsabili dell’informazione
non soltanto l’hanno trascurata e quasi messa fra parentesi, tale funzione, ma sembrano far di tutto per ostacolarla,
per renderla impraticabile e
questo a dispetto del fatto che
il teatro mostra, nonostante
tutto, sorprendenti segni di vitalità sia a livello propriamente creativo, sia per quanto riguarda l’interesse e il gradimento del pubblico. È sotto gli
occhi di tutti che di teatro sui
giornali si parla sempre meno
e sempre peggio…
Simoni a teatro.
Commedie drammatiche
(1915-1952),
scelte da Giovanni Raboni,
Gemma edicto,
Verona 2002,
pagine 264, 13,00 euro
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Febbraio 2003 - Ordine dei Giornalisti