PINO SCHETTINO SUL CRINALE di PierLuigi Albini Molti sono i motivi della pittura di Pino Schettino e la versatilità delle soluzioni cromatiche e formali che propone. Il complesso delle sue opere dà una sensazione di multiformità, di un universo differenziato in cui riesce difficile, a uno sguardo disattento, rintracciare un‟unitarietà di ispirazione e di espressione. Né ci può aiutare, in questa operazione di ricostruzione della sua poetica, la traccia cronologica. Tutte le opere di maggiore interesse – quelle, per chiamarle così, della sua maturità tecnica e espressiva – sono rinchiuse in un fazzoletto di circa sette anni nei quali la sperimentazione di linguaggi è stata simultanea. Ci sono artisti, anche grandissimi, che per tutta la vita hanno ripetuto, con piccolissime variazioni, i segni e i motivi innovativi per i quali raggiunsero il successo, con un‟opera infaticabile di cesello, alla ricerca di una perfezione in sé conchiusa. Ci sono artisti che, pur non essendo grandissimi, sono spinti dal sistema di mercato imperante a ricercare una visibilità riconosciuta, una cifra, un segno della pittura che ne renda subito identificabili le opere. L‟importante, qui, è accertare chi è l‟autore e a quale tendenza appartiene, più che il valore estetico del quadro: esito forse imprevisto, questo, della rivoluzione dei primi decenni del Novecento, che ha sancito la maggiore significatività del soggetto-artista rispetto all‟oggetto rappresentato, nonché il predominio del mercato. Ci sono altri artisti nei quali il passaggio e la sperimentazione delle tecniche e degli stili si svolge lungo tutto il corso della vita, con un‟evoluzione, più o meno lenta, di temi e di sintassi estetiche, che obbliga la critica a parlare di “periodi”. Mi sembra che in Pino Schettino la sincronia degli stili utilizzati nasca da altre esigenze e utilizzi un processo di reciproci e progressivi innesti tra le varie sintassi espressive che ha le sue radici nella condizione umana attuale e non in una vocazione all‟eclettismo. Del resto, oggi, porre un questione di stile significa fare dell‟estetismo un po‟ arcaico. Lo stile, per dirla con E. Gombrich, “come ogni altra uniforme, è una maschera che nasconde quanto rivela.” Non amo il termine di postmoderno e lo trovo molto equivoco, nonostante tutto il parlare e scrivere che se n‟è fatto. Renato Barilli e molta critica nordamericana, come si sa, collocano il postmoderno addirittura a partire dalla Rivoluzione francese, mentre in Italia, nella comune e di gran lunga prevalente opinione, il moderno finisce in un arco di anni che va dalla fine della seconda Guerra mondiale all‟inizio degli anni ottanta del secolo scorso. In realtà, la discussione non è affatto peregrina perché esprime valutazioni profondamente diverse sui fondamenti dell‟estetica, sulla storia dell‟arte e sulle ragioni che portano al mutamento delle tendenze artistiche. Sullo sfondo di una tale discussione sta l‟interrogativo sulle ragioni e sul senso della storia. Qui non è il caso di soffermarci su questo problema, per cui mi sembra più produttivo andare al di là della diatriba e usare il termine in senso lato, senza connotazioni storiche. Se con postmoderno indichiamo una condizione di attesa, nella quale non si sa bene quale direzione prendere, in cui si è del tutto perso il senso del futuro e del passato, e si accetta di vivere in un specie di eterno presente; se con esso intendiamo trasversalità delle esperienze e casuale mescolamento delle tradizioni, collages espressivi e citazionismo sistematico; se nel suo orizzonte riemerge una specie di estetismo fine a se stesso e un ricupero del tutto formalistico di stili e motivi intercambiabili a piacere (una specie di self-service artistico); se con il termine di postmoderno intendiamo, almeno in larga parte, tutto questo, allora Schettino non è postmoderno. Se con postmoderno vogliamo invece esprimere l‟angoscia della condizione di transitorietà e di incertezza in cui ci troviamo dopo l‟esperienza modernista del Novecento (con le sue speranze e con i suoi disastri), e l‟incognita di un futuro che intravediamo confusamente e che spesso avvertiamo minaccioso, temendo l‟inimicizia del buio conoscitivo che abbiamo davanti, allora Schettino è postmoderno, nel senso di una partecipazione piena a un ricerca di futuro, a un tentativo tormentato di svincolarsi dalla miopia del presente. L‟incessante sperimentazione artistica del Novecento sembrerebbe infatti aver esaurito tutte le possibilità espressive. Sul vecchio mondo e sulla transizione verso il nuovo tutto è stato in pratica detto, dal punto di vista artistico, e ora sembriamo condannati all‟afasia. E che si tratti di una lunga transizione, la quale ha prodotto anche splendidi tentativi di superamento o di ribaltamento - senza peraltro riuscirci pienamente - delle esplosive avanguardie del primo Novecento (Cubismo, Futurismo, Espressionismo e Dada), non ci sono dubbi. Per poter parlare di “nuovo” abbiamo bisogno di un diverso codice: quello di un mondo che riconosce se stesso come epoca differente e che fonda punti di vista inediti. Gli storici sanno bene che questa è la condizione per riscrivere incessantemente la storia. Essere eredi delle avanguardie del Novecento – come Schettino reclama di essere e come obbiettivamente appare nelle sue opere – non significa perciò né continuità né salto nell‟incognito né girovagare senza meta nei campi dell‟arte, ma ricerca di un nuovo passaggio e di nuova moralità, di un senso dei rapporti umani e del mondo diversi dal passato e che con il passato sappiamo tuttavia misurarsi. È questa la ragione della appartenenza di Pino Schettino alla seconda nozione di postmoderno, in quanto rifiuta di rimanere in un eterno e rarefatto presente. Ciò appare evidente in quella che una volta si chiamava la scelta del soggetto, rappresentato da Schettino in un arco temporale che va dall‟antico mito religioso all‟attuale civiltà urbana, nello sforzo di dare una dimensione storica al rapporto tra uomo e mondo, tra uomo altro da sé. Si tratta di rifiutare il cinismo tipico dell‟altro postmoderno che associa la lucidità all‟indifferenza etica e al conformismo, e che mette sullo stesso piano Monna Lisa e Topolino, in un diluvio di immagini intercambiabili la cui caratteristica iconica è essenzialmente la velocità di successione. 2 Natura morta urbana Tuttavia, poiché il senso del futuro sembra essersi oscurato, il nuovo è ancora in una gestazione di difficile decifrazione. La poetica di Schettino è precisamente questa gestazione: un‟attenzione inquieta e ricorsiva ai sintomi di una sensibilità nuova, un‟esplorazione sistematica e razionale, un atto di fiducia sulla validità dell‟istinto artistico come azione individuale e come affidamento a chi guarda del proseguimento del discorso. Per lui – ama ripetere – un quadro è davvero terminato quando diventa di altri. Ma questo accade perché con la perdita del dipinto finisce la possibilità di costringere la forma – ritornandoci continuamente sopra - a quella continua metamorfosi il cui svolgimento lascia aperta la possibilità (o impossibilità) di stringere finalmente la verità ultima. L‟esperienza artistica del Novecento ha cancellato un‟intera tradizione, che non potrà più riapparire negli stessi termini. L‟arte è divenuta un‟attività speculativa, un altro dei modi con cui si può leggere il mondo e, soprattutto, scrutare il futuro. L‟operare è diventato per l‟artista la produzione di una testimonianza diretta sull‟esperienza-mondo nella sua totalità oggettiva e soggettiva. Tutto ciò ha travolto l‟estetica e ha stabilito un rapporto diretto tra arte e filosofia. Schettino si trova a proprio agio in questa dimensione. Questa radice, che è anch‟essa etica, si accompagna in lui ad un interrogativo ambizioso. Come si fa a essere gli eredi del Novecento, uno dei secoli più grandi nell‟arte e, nello stesso tempo, andare oltre? Viene spontaneo, guardando i lavori di Schettino, chiedersi: e ora? cosa avverrà, ora? Siamo portati su una specie di soglia, dove futuro e passato s‟intrecciano in un presente di difficile interpretazione. Schettino sa bene di essere su un crinale. È da lì che scommette sulla persistenza della pittura come tentativo di rappresentazione della profondità e dell‟ampiezza del mondo, della storia e della coscienza individuale. È da lì che cerca di governare l‟ansia di conoscere la realtà, sia trasfigurandola, sia cercando di leggerne la trama nascosta. Ma, come sostiene Mario Perniola, poiché l‟arte “contiene un nucleo incomunicabile che è la sorgente di un‟infinità di interpretazioni”, Schettino sente il duplice sbarramento proprio dell‟arte, che consiste nel conflitto tra la difficoltà di esprimere compiutamente ciò che si avverte come reale e l‟impossibilità di comprenderlo davvero. L‟insieme dei segni e 3 dei metodi propri della scienza per cogliere i fenomeni non appartengono all‟arte, cosicché quest‟ultima appare sempre come terra incognita in cui avventurarsi senza un mappa, inseguendo sensazioni, intuizioni illuminanti e visioni improvvise, cercando e inventandosi un ordinamento del mondo, che tuttavia continua ad essere sfuggente alle sensazioni e alla ragione. Infiniti (è anche una questione di storicità) sono i punti di vista da cui si può scrutare il reale, come infinite sono le interpretazioni dell‟arte. Ma finite – o meglio, legate al livello di evoluzione dei mezzi tecnici disponibili - sono le forme in cui tutto ciò si può esprimere. Schettino vive questa vertigine ingaggiando una lotta con il mondo esterno e interno. Spesso lo fa attenuandone la corporeità, piegandolo a una dimensione in cui appare eppure non è, come se riducendolo a fantasma si potessero leggerne i fondamenti senza perderne la materialità e senza rimanervi intrappolati. Interno/Esterno È uno sforzo quasi fisico di acquisire un punto di vista contemporaneamente “dal di fuori” e “dal di dentro”, come fa in Interno/esterno. Qui l‟uso dell‟astrattismo geometrico varia dall‟intento didascalico al puro piacere dell‟associazione tra geometria e colore: una futuristica presenza di due punti di osservazione contemporanei. Oppure come fa in altri dipinti, di stile diverso ma con lo stesso intento, come in Trittico. Trittico 4 Questo del crinale, del bordo su cui si svolge l‟esperienza artistica di Schettino - sospeso tra gli echi memorabili del Mediterraneo, gli autunni e le primavere di epoche che segnarono un culmine nella storia dell‟arte italiana - ossia l‟interrogativo su quali esiti diversi avrebbero potuto avere le cose, e l‟ansia di confrontarsi in parte con la nostalgia e in parte con l‟angoscia del domani, questo è esattamente il filo conduttore che presiede alla sperimentazione di Schettino, come cercherò di chiarire. Quello suo è, in buona sostanza, un tentativo di traghettare nel nuovo mondo ciò che di valido ancora può esserci nell‟antico umanesimo, attraverso la lezione del „900. Egli appare seriamente impegnato a distillare il significato di un passaggio d‟epoca che non ha precedenti nella storia dell‟uomo (se non risalendo molto indietro nei millenni). Di qui i rifacimenti in chiave moderna, spesso estraniante, di alcuni capolavori della classicità. In effetti, la storia incombe su di lui, come su tutti i pittori europei: la meravigliosa e pesante storia di una civiltà che ha prodotto indifferentemente eventi terribili e splendidi frutti. Qui, forse, è la ragione dell‟innesto delle citazioni mitico-religiose di Schettino e dell‟uso insistito degli ori nei suoi quadri. Babele Come in Babele, dove l‟oro simboleggia la sabbia del deserto che tutto ricoprirà dopo la caduta delle ambizioni umane; dove il colore rinvia all‟antichità dell‟evento, mentre la compatta opacità delle mura coincide con l‟inconoscibilità del futuro. Le mura e i piani sfalsati indicano insieme l‟impeto dell‟elevazione umana e l‟opera di demolizione operata dal tempo (non si presentano così le ziggurat mesopotamiche, oggi?). Il sole è morente e asfittico, la sabbia del deserto, in basso, si appresta a coprire tutto. Ma, in quasi tutti i quadri l‟intervento del Cielo (la luce) è schiacciante, quando si parla di storie dell‟antico e del nuovo Testamento. Cioè degli aspetti più arcaici del sentire umano, per i quali il problema più urgente è capire come possono trapassare in un‟età postumanistica. 5 L’attesa dei più L‟effimera attesa dell‟eternità dell‟uomo si confronta con il mondo, il quale sembra essere solo un riflesso di sé, mentre l‟altrove, anche quando incombe, è illeggibile nella sua luminosità. Può solo schiacciare. È il problema affrontato nella serie delle Pentecoste, come nell‟umanità accosciata de L’attesa dei più, in cui la patina antica dei colori si sovrappone a un‟attesa priva di senso e forse di speranza. Qui la distribuzione spaziale delle figure e le tonalità richiamano esplicitamente L’addio (1914) di August Macke, esponente di primo piano dell‟Espressionismo tedesco. Come si sa Macke era del tutto alieno dalle tendenze spiritualiste dei suoi amici del Circolo di Monaco, eppure è proprio il mistero, dei rapporti umani in Macke, di un altrove in Schettino, che unisce le due rappresentazioni. Nefertiti È lo stesso interrogativo espresso in Nefertiti, che suggerisce il fascino dell‟antico e il sentimento del mistero derivante dalle deformazioni del tempo. Nefertiti appare mummificata, un occhio è vitreo. Sembra affermare che se la bellezza passa, rimane quella della regalità, del senso del potere esercitato. Il potere e le sue espressioni sono sicuramente tra le cose che transiteranno nel nuovo mondo, sotto spoglie apparentemente diverse. Anche in ciò – nell‟evocare aspetti della religiosità esiste un intento, una radice morale. Nel senso della necessità di fronteggiare nello stesso tempo passato e futuro, di riflettere sul significato dell‟attuale transizione, di cercare di comprendere la nostra prospettiva. 6 Per ora, se il messaggio, lo schema di ragionamento sono formulati, la situazione è del tutto aperta a esiti diversi. Nella splendida e recente Deposizione l‟oro senese che si oppone al rosso sangue, i tratti da Transavanguardia dei personaggi (che nel caso della figura di sinistra evocano addirittura Piero della Francesca), la disposizione frammentaria delle persone, come sperdute nei grandi spazi alla ricerca di un senso, questa condizione è perfettamente rappresentata. Stanno tutti (l‟intero quadro è) come sul limitare di un orlo. Le figure sospese nello spazio reso astratto dal fondo oro alludono alla distanza tra il mondo umano e una verità inconoscibile. Chi guarda non può sfuggire ad un interrogativo: c‟è un mondo dietro la raffigurazione, oppure è proprio questo il mondo, ridotto all‟essenziale di monadi umane disperse sullo sfondo di vicende solo in parte conoscibili? Accanto a questo senso morale, c‟è in Schettino uno sguardo smaliziato e, talora, lo sconfinamento nell‟ironia di chi osserva con spirito critico la realtà che si va svolgendo dentro e fuori di lui. Questo sentimento del disincanto ha forse un ascendente nella napoletanità originaria di Pino Schettino, la quale non viene però accettata come rassegnazione, come eterna ripetizione e, dunque, come scettica osservazione di ciò che accade. Come si concilia questo disincanto con la necessità del cambiamento? Cosa occorre conservare e cosa si deve scartare? Il loico greco-napoletano che è in lui registra un conflitto lacerante tra pulsioni antiche e razionalizzazione del mondo. Da qui nasce anche il sentimento della nostalgia, prepotente nell‟uso dei colori, in particolare dei gialli e degli ori. Che affollamento sotto l’albero del male: il serpente non sa a chi dare i resti 7 I colori che usa e il loro timbro non sono mai puri: sono sempre carichi di un‟emozionalità che richiama spesso i suoni della viola e del contrabbasso, se posso usare un paragone musicale. Questo timbro continuo è interrotto, in molti quadri o in quadri diversi, dallo squillo di splendidi gialli e dall‟antico oro, usato in modo del tutto moderno. Schettino ha perfettamente assorbito la lezione di Umberto Boccioni, quando affermava che “l‟occhio dell‟uomo percepirà i colori come sentimenti in sé. I colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi”. Ma l‟oro e il giallo rivestono un‟importanza particolare, usato insieme a combinazioni cromatiche di ampio spettro: rappresentano un mondo, un messaggio in sé compiuto che è dispensato sulla tela in un gioco di vero-falso di non agevole interpretazione. La combinazione insistita tra l‟oro e i colori moderni rinvia anch‟essa a quel rapporto tra antico e moderno che rappresenta una costante della poetica di Schettino. L‟oro è la classicità imperiale che transita per il mondo grecobizantino (ancora un‟eredità napoletana) e raggiunge il suo culmine nella pittura senese, la quale ha rappresentato per Schettino (così egli afferma esplicitamente) una folgorazione. Come in L’albero del male, dove il giallo indica l‟arcaico, dove bene e male non rinviano alla conoscenza ma alla falsità agognata da una gran folla. Oppure, come in L’attesa dei più. Cosa attendono le figure immobili? Sembrano gli affittuari di una vita che trascorre priva di una direzione, di un senso. In realtà, non sanno cosa stanno aspettando. È una metafora della società di massa, del consumismo senza direzione? È il vuoto dopo la frenesia, che si placa in un‟attesa impotente? L’attesa dei più Qui c‟è, ancora una volta, a proposito dell‟uso dei gialli e dell‟oro, un bordo, un orlo rammemorato, una fase di passaggio: quella tra il culmine 8 del modo pittorico gotico-medievale e il Rinascimento incipiente. Schettino è affascinato dalle transizioni. Si tratta di periodi storici in bilico, come si sta in bilico su un crinale, quando gli eventi avrebbero potuto avere un corso diverso, prendere una strada che può essere esplorata a posteriori non per tornare indietro, ma per allenare l‟immaginazione e la sensibilità ad uno dei tanti futuri possibili. Anche qui una vena di nostalgia sembra profilarsi al di là dell‟utilizzazione della pittura informale, dell‟espressionismo astratto e dello stesso figurativo. Forse è la nostalgia di un mondo perduto, non di ieri ma di ieri l‟altro, quando il posto degli uomini e quello della divinità - meglio: della sacralità - erano ben definiti. Il rapporto tra l‟aldiqua e l‟aldilà - sempre inteso come sacralità, come fondo di valori condivisi, come universo che è dirimpetto all‟uomo e, anche, come meraviglioso mistero - allora erano chiari. Lo sfondo dell‟oro è lì a simboleggiarlo. Sacralità e umanità erano partecipi di uno stesso destino, di una rappresentazione che aveva un senso definito, pur essendo rigorosamente distinte nei ruoli. Del resto, anche la pittura senese si colloca tra vecchio e nuovo mondo, quando si profilavano insieme la fine del Medioevo e un incipiente Rinascimento. Schettino sembra interrogarsi sul perché nelle età di passaggio si debbano perdere le radici. Testimonia che è necessario una laboriosa ricerca degli intrecci, dei lasciti e delle novità per entrare nel futuro. È la stessa posizione che assume nei confronti di ciò che è seguito al modernismo del Novecento, da dove scruta il passato per rintracciare i vagiti inconsapevoli della modernità e di ciò che viene e verrà dopo. Schettino mi ha raccontato un episodio difficile del suo impegno politico e sociale che a me è sembrato indicativo anche in rapporto al suo itinerario artistico. Quando si trattò di prendere atto della fine di un‟esperienza politica dallo svolgimento drammatico e esaltante, che affondava le radici nelle profondità della moderna storia italiana, e di interrogarsi che cosa fosse opportuno fare per conservarla e renderla di nuovo attuale, il suo parere fu di fare come Enea. Il quale non si caricò sulle spalle né tesori né altri beni materiali, ma il padre Anchise. Nell‟andare esule a fondare una nuova patria, Enea portò con sé l‟unica cosa che alla nuova città potesse dare un‟identità e la consapevolezza del futuro: il vecchio padre, vale a dire le proprie radici. È questo l‟altro aspetto della poetica di Schettino, quello di un‟ispirazione più mitica che banalmente religiosa, nonostante la rivisitazione dei luoghi del vecchio e dell‟antico Testamento: come ansia di ricongiunzione tra passato e presente, ricuperando l‟immaginario antico e piegandolo alle esigenze della modernità (come potrebbe essere interpretato oggi questo mito? è ancora attuale? cos‟è oggi una Gerico?). Talvolta, questo ricupero della storia appare come un fardello, tanto da apparire giustapposto alla modernità. Allora quest‟ultima sembra ribellarsi e prendere il sopravvento, cancella il figurativo, si trasforma in struttura architettonica e colore, mentre gli stili si ibridano. Quanto più sullo sfondo appare l‟antichità, tanto più il segno di altri quadri diviene astratto e i grumi di pittura si addensano e si diradano come a tentare di riaprire un varco verso il futuro. 9 Gerico Questo cambiamento di registro prende anche una veste allusiva. Come nel caso del dipinto La morte. Qui il viola del fondo è una tesi, come tutto il quadro: nel giallo della bara, nei verdi pallidi dei vivi. La scena diventa persino minacciosa, perturbante. L‟umanità si trasforma in un fantasma informe e privo di identità personale, in qualcosa di inorganico. Il senso cromatico del dramma è doppiato dall‟opposizione tra il biologico delle gambe che sorreggono la bara e l‟aspetto minerale della stessa. Organico e inorganico si giustappongono e si affiancano nelle stesso tempo. Penso che qui Schettino abbia voluto dare una qualche ineffabile veste al trauma dell‟incontro con il reale. Voglio dire che in tutta la sua pittura emergono l‟ansia, l‟angoscia di toccare, di testimoniare il maggior numero possibile di sfaccettature della realtà, compresa quella primordiale dell‟angoscia di un mondo minaccioso, temendo di non fare in tempo a enumerarle, dubitando che possano sfuggire alla presa dell‟artista, cercando di passare continuamente dal simbolico all‟immaginario al reale, secondo lo schema dei tre luoghi psichici fondamentali elaborato da Lacan. Insomma, proprio la pittura di Schettino mostra come l‟arte sia più un dialogo inquieto con una realtà che scivola su livelli sempre diversi, piuttosto che una sua rappresentazione. Il sentiero dell‟informale astratto o dell‟espressionismo astratto, sia nella composizione, sia nella grande dimensione delle tele è molto frequentato da Schettino. In qualche quadro sembra riemergere la drammaticità delle figure di Georges Rouault ma, in genere, si avverte l‟influenza di Mark Rotko e delle sue forme pure, il rigore di una logica interna del colore, la progettazione di un‟architettura preliminare che è, prima di tutto, necessità di dare un ordine al mondo in modo da lasciare liberamente fluire l‟inconscio. La costruzione dei quadri di Schettino è, infatti, tenacemente, e sempre, geometrico-architettonica, secondo i canoni classici. Ad essa sono piegati il timbro e la distribuzione delle masse cromatiche e dei segni, anche quando esplora certi calligrammi che richiamano forse Hans Hartung. 10 L‟organizzazione dello spazio pittorico denota un‟esattezza e un equilibrio attentamente studiati nella disposizione delle forme e nell‟organizzazione delle varie parti, in cui talvolta irrompe il fuori posto, l‟inserto che determina uno scarto, un deragliamento della visione, come una sequenza di note dissonanti, alla Shostakovich. Il rigore e la disciplina dei colori e delle forme evoca l‟uso di una sintassi e di una coerenza del tutto interne al quadro, come in gran parte della pittura contemporanea. Per questo, anche quando sembra concedervisi, Schettino non può essere considerato un figurativo. Ma nemmeno l‟informale La morte cammina sulle gambe dei vivi è per Schettino un approdo sereno, perché subito è ossessionato dalla distruzione della forma-colore, attraverso l‟uso insistito dello sverniciatore, che per me non è solo un uso tecnico del mezzo. Si veda, ad esempio, Fraveca e sfraveca, che è il simbolo di questo lavorio di costruzione e distruzione finanche nel titolo. Quasi una painting action a ritroso, applicata dopo la creazione del dipinto, nella quale lo strumento che indirizza le soluzioni formali - come sempre è accaduto nella storia artistica – è il mezzo che permette un passaggio inverso della conoscenza, ossia dalla forma conquistata all‟informe che vi è contenuto, dall‟ordine al caos, alla ricerca di una matrice originaria che è oltre l‟apparenza. Le immagini, facendosi fantasmi di se stesse, tentano di ritornare alla vibrazione luminosa e indistinta della materia. L‟altro registro che Schettino ama usare è di diretta derivazione cubista - o meglio, secondo il mio giudizio - cubo-futurista. L‟attira verso questo stile, oltre che la sua ispirazione iniziale, la poliedricità permessa dal segno, quasi che attraverso il cubismo potesse rappresentare - come, in effetti, quel movimento tentò di fare - l‟insieme dello spazio che l‟artista aveva in mente di esprimere o che vedeva. La stessa cosa che Schettino sperimenta attraverso la molteplicità delle tecniche usate, guardando spesso a Braque piuttosto che a Picasso. In La caduta di Boccioni, ad esempio, più che l‟apparente omaggio al Futurismo, più che l‟incidente equestre, prelusivo alla morte del maestro, conta l‟universo del quadro, il momento in cui terra e cavallo e uomo perdono le identità separate. La raffigurazione rinvia alla scommessa futurista di rappresentare lo spazio dal punto di vista dell‟energia emanata. La coscienza di Boccioni che si spegne (come l‟energia che si degrada) è fissata sul nero dello sfondo. 11 L‟inquietudine domina insomma una sperimentazione molteplice. Come se, giunto a quello che può considerare come il quasi-finito di una tela, Schettino avvertisse già la necessità di passare oltre, pur conservando in ciò che sta facendo l‟esattezza artigianale e l‟uso rigoroso dei mezzi espressivi. E qualcosa, pur nel variare di tali mezzi, transita così da un quadro all‟altro. Schettino sente che il mondo, dopo il Novecento, invece di essersi ristretto, come troppo banalmente si usa dire, è diventato immenso, in un modo che sentiamo contraddittorio. Questa immensità la chiamiamo ora complessità, ora caos, ora perdita di un centro, ora inattualità delle grandi narrazioni. Invece, dobbiamo riflettere su ciò che chiamiamo microcosmo e macrocosmo, su come sia oggi deludente e pericoloso pensare l‟umanità come misura dell‟Universo, sulla maggiore e non minore Chi fraveca e sfraveca non pierde mai tempo grandiosità dei fenomeni che in passato riuscivamo a interpretare solo rifugiandoci nel mito e nella fantasia delle metamorfosi. E persino sulla maggiore drammatica poeticità del tempo moderno. La caduta di Boccioni L‟uomo vitruviano di Leonardo da Vinci non è più credibile. Il cerchio in cui egli era inscritto e di cui definiva diametro e circonferenza, tende ormai da tempo all‟Universo illimitato: un Universo apparso casualmente nella piega di uno spazio-tempo per noi intuibile solo 12 attraverso la matematica. La figura umana è diventata soltanto una piccola icona sperduta nella nuova immensità. È da qui che nasce il modernismo, nonché la sua crisi: da una lacerante contraddizione tra una storia umana che per la prima volta è divenuta davvero mondiale (la globalizzazione, appunto) - e cioè, in qualche modo più ristretta, più a portata di mano - e una realtà in cui i confini dell‟estremamente piccolo, dell‟estremamente grande, della pluridimensionalità e del senso della diversità si sono dilatati a dismisura. Mentre il rapporto dell‟umanità con il mondo tocca vette impensabili pochi decenni fa (si pensi alla biologia e all‟informatica, dopo l‟età della meccanica), il senso delle cose e della stessa vita si trasformano in qualcosa di incomprensibile, spezzettandosi in una serie di spazi apparentemente non comunicanti eppure strettamente interconnessi, come ci suggerisce il nuovo paradigma della Rete. Riuscire a comprendere un insieme e le sue correlazioni, uscire dai confini della conoscenza specialistica, è ormai diventata un‟attività di riassemblaggio, di ricupero di collegamenti poco evidenti, di costruzione di circuiti transdisciplinari. È qui che si colloca Pino Schettino e la sua difficile ricerca. È qui il nuovo malessere di una transizione e di una rinascita umane che non avranno mai fine, essendo proprio questo il destino evolutivo della specie: un viaggio, non una meta. Dopo tante battaglie e tante sconfitte, l‟idea otto-novecentesca che attraverso l‟arte, in quanto potenza che orienta l‟immaginario dell‟uomo, sia possibile cambiare il mondo è ormai tramontata. La disillusione degli artisti sembra aver prodotto un esito perverso: se non si può cambiare il mondo tanto vale esserne comprati e mettere su un bel business. Invece l‟idea – questa volta fondata - che non si tratta per l‟arte di pretendere di cambiare il mondo, ma che ponendosi come sguardo critico nei suoi confronti possa diventare capace di produrre culture nuove e diversità di punti di vista, appare poco popolare. Il dilagare dei media standardizzati e monocordi non aiuta certo a coltivare una diversità drammaticamente urgente, proprio nel momento in cui la Terra deve unificarsi. Manca, in questo caso, quella che ho chiamato una moralità. La stessa che – lo ripeto – anima invece l‟incessante ricerca di Schettino. Egli sa che il mondo è diventato davvero grande; che si può ormai cogliere la più tenue vibrazione di un sentimento o offrire una sempre più precisa rappresentazione della realtà; che è urgente una sintesi più efficace tra emozione e ragione; che lo storico dualismo su cui è fondata la civiltà occidentale (corpo/anima, spirito/materia, soggetto/oggetto e così via) non ha più molte prospettive e che, anzi, rischia di fare danni ancora più grandi di quanti ne ha fatti in passato; che occorre rivisitare il passato assieme a quella che appare la deformazione-prospettiva del presente; che si tratta dei due registri sui quali l‟umanità è tuttora in bilico. Da qui, in Schettino, l‟uso delle geometrie variate, dei timbri discordi/complementari del colore, dell‟intrecciarsi degli stili. In questo senso occorre leggere anche il sentimento del tempo espresso nei dipinti: non come rappresentazione esplicita, ma proprio come tempus fugit incardinato nella stessa qualità dell‟opera, come tempo che minaccia di sbriciolare la possibilità di suturare i due orli del crepaccio su cui poggiano i piedi dell‟umanità. Parlo ancora dell‟eredità classica, 13 dell‟umanesimo, da un lato, e del passaggio inaudito di questo nostro tempo, dall‟altro (penso a Ribellismo urbano e a Why don’t speak Mr. Hyde?). Quest‟ultimo è uno dei dipinti più enigmatici, e non solo per l‟apposizione sorprendente della domanda, che ha fatto parlare qualcuno, con scarse ragioni, di post dadaismo. La spiegazione è più complessa. È nella tecnica usata: polvere di marmo e colla, oro vero/oro finto, il basamento della statua in schede Braille. Il senso è nell‟uccisione della classicità, nel suo lato oscuro che solo i ciechi, cioè coloro che non possono credere a sensi traditori come la vista, ma sono costretti a rendere concreta un‟astrazione come la scrittura/cultura (e che perciò sono solo ciechi apparenti) possono comprendere. Hyde è il doppio malvagio e depistante che ci portiamo dentro e che ci impedisce di vedere che il capolavoro evocato sulla tela (il Mosè) è ormai il fantasma di se Why don’t you speak Mr. Hyde? stesso. Nello stesso tempo Hyde è lo stesso Mosé classico. La domanda che Michelangelo avrebbe fatto al risultato della sua creatività è infatti rivolta ora al suo simulacro, che sotto il nome di Hyde si rovescia nell‟oscuro, nell‟ignoto, nell‟angoscia di riposte che non possono più provenire dalla classicità, divenuta muta e impotente. Ma Hyde è anche il lato irriducibile della realtà, quello che sfugge a una qualsiasi definizione perché affonda nelle profondità delle connessioni psichiche che organizzano il nostro rapporto con il mondo. L‟uso della scrittura nel quadro risponde così, in un altro senso, al tentativo di superare l‟universo simbolico della pittura e di afferrare la cosa in sé interrogandola con altri strumenti, come la parola. È un esperimento che Schettino compie anche in altre tele, per esempio utilizzando caratteri giapponesi su fondi gialli, cioè associando un‟attività simbolica (il colore) con un‟altra attività simbolica (gli ideogrammi), quasi che con questo raddoppio la lente dell‟interpretazione potesse rendere più chiaro il senso delle cose. Scrivere e dipingere non sono, 14 è vero, due atti omologhi, persino quando parlano della stessa cosa. Ma se i meccanismi associativi della nostra mente sono diversi, in quanto condizionati dal mezzo tecnico utilizzato e da percorsi neuronali specifici, non è forse vero che – come nel caso della materia subnucleare, che può essere spiegata sia come un‟onda sia come un corpuscolo – si può legittimamente usarli in modo combinato per avvicinarsi alla realtà? Del resto, è scoperta recente che il sistema neuronale che presiede al riconoscimento dei caratteri della scrittura è lo stesso che viene utilizzato per analizzare le forme visive. Questa non è forse la strada per ridurre l‟area di ciò non è dicibile, per esprimere indicazioni ulteriori su quella parte di senso che rimane sempre al di fuori di un testo, che è sempre perduta, come ha chiarito Roland Barthes? Per altri versi, ripeto che la chiave principale dell‟esperienza artistica di Pino Schettino è nel tentativo di riconquistare una visione organica della vita attraverso il ricupero di una dignità equivalente tra due mondi, di una fusione, o meglio, in un nuovo esito, forse di un nuovo inizio, tra lo stato attuale della nostra potenza materiale e le eredità dalla nostra sfera culturale. Un dualismo tuttora irrisolto, dal quale la realtà continua a traboccare, avendo l‟umanità quasi perduto la pretesa di racchiudere il mondo in un‟unica narrazione immaginaria. L‟arte, oggi, è l‟estremo e disperato sforzo di continuare ad essere una sorgente di interpretazioni, pur conservando la sua irriducibilità al senso comune. Ma è anche la sede di un conflitto permanente tra il bisogno dell‟artista di raggiungere una dimensione estetica pacificata e il tormento di un flusso interminabile di nuovi significati da dare alla realtà, che passa attraverso il turbamento, l‟angoscia, l‟oscuro, il senso della diversità. La strada sarà faticosa e non ne è scontata la conclusione, se mai essa ci sarà. Pino Schettino (anche se in lui appare talvolta una vena scettica e pessimistica) sembra volerci dire che il percorso ci obbliga a un nuovo salto dell‟evoluzione culturale, che è necessaria una nuova antropologia. Il sentiero che egli segue è una sinusoide che si snoda su un crinale da esplorare; una contemporaneità degli stili lavorando su quadri diversi, alla ricerca di una convergenza, di possibilità di ibridazione nuove, di trasversalità impensate, di impuri connubi. La sua attualità consiste appunto in due parole chiave: convergenza e ibridazione. Queste, non a caso, sono anche le parole chiave della nuova fase scientifica e tecnologica del mondo, ossia la capacità di unificare campi del sapere e del saper fare distanti tra loro; di scoprire il sistema di innestare, di ibridare tecniche e domini tradizionalmente estranei; di abbattere steccati accademici; di collegare punti di vista dislocati su coordinate discordi; di praticare un nomadismo espressivo e culturale che faciliti gli incontri e la conoscenza dell‟alterità, insomma, di una nuova epistemologia. Pino Schettino si muove verso questo postumanesimo? Al di là di quanto egli può pensare di se stesso, sicuramente ne perlustra l‟accesso attraverso la sperimentazione. La sua insistente frequentazione dei bordi è la ricerca dei sentieri che potrebbero portare a una nuova valle, alla scoperta di paesaggi inimmaginati. Continua l‟operazione cominciata con le avanguardie del Novecento, quando furono distrutte le separazioni tra le arti 15 e furono forniti all‟artista nuovi mezzi espressivi nell‟ansia di arrivare a un‟arte totale; quando per questo furono mescolati gli stili e le tecniche; quando la materia – tutta la materia – divenne mezzo di espressione in inaudite configurazioni e fertilizzazioni incrociate. Ribellismo urbano Come ci ha ricordato Bruno Zevi, il sogno fallito di Boccioni nel 1914 era di unire le forze del futurismo italiano, dell‟espressionismo tedesco e del cubismo francese. Si trattava della ricerca di un‟unificazione estetica anticipatrice, se vogliamo, degli sforzi della fisica attuale – non ancora coronati dal successo - di unificare le leggi che possono spiegare la realtà ultima della materia. Schettino si muove in questo solco, oggi, a cavallo di due secoli. Anche lui spera che da una fusione estetica possa uscire un mondo nuovo, una nuova “bellezza”, ma ha anche il sospetto che essa non potrà essere troppo anticipata rispetto all‟evoluzione del mondo reale e della tecnologia. D‟altra parte, in Schettino il sovrapporsi degli stili, delle sperimentazioni, esprime una sintonia profonda con la fase attuale dell‟evoluzione tecnologica. Se, citando Mario Costa nell‟Estetica dei media “ogni innovazione tecnologica dà luogo ad una nuova sequenza formale”, allora dobbiamo tenere ben presente che oggi ci troviamo in un‟età di sovrapposizione continua, incalzante, delle tecnologie. Siamo in una fase di accelerazione dell‟innovazione tale che non sappiamo più dire se questa è l‟epoca dell‟informatica, della genetica, dello spazio cosmico, dei nuovi materiali o di qualche altro dei tanti paradigmi tecnologici che sono penetrati nella nostra vita quotidiana. Voglio dire che, come il susseguirsi degli stili e la sperimentazione continua esprimono il volto artistico di una realtà in tumultuoso cambiamento e solo secondariamente la transitorietà delle mode - il cosiddetto gusto della novità per la novità, come spesso dicono i gazzettieri in eterno ritardo sulla comprensione delle tecnologie così la multiformità delle espressioni di Schettino riflette l‟impossibilità di definire questo tempo in modo univoco e richiede l‟uso contemporaneo di sguardi diversi. Proprio perché multiformi sono le tecnologie che attraversano la nostra vita. 16 Da Paolo Uccello: Conflitto urbano Per usare la sintesi di un‟utile classificazione di N. Berdjaev, Schettino guarda a uno stile sintetico-figurativo quando è attratto dal mistero del sacro e a uno stile analitico-informale quando ritiene necessario disgregare l‟organicità del mondo. Una delle tecniche per tentare questo passaggio – lo abbiamo visto – è l‟uso dello sverniciatore. Ma queste operazioni Schettino le compie guardando avanti, non attardandosi in discussioni sul rapporto tra arte e scienza, tra spiritualità e materialismo, locuzioni di un umanesimo tradizionale ormai in affanno, divenuto un ostacolo alla storia. Schettino le svolge con periodici tentativi di chiudere la rete della sintesi, per scoprire ciò che può essere vitale e ciò che deve essere considerato definitivamente perduto. Come tenta di fare in Il conflitto urbano, dove uomini palazzi e natura si integrano in un nuovo organismo, e notte e giorno sono compresenti in un apparente caos metropolitano. Insisto sul fatto che Schettino si muove su questo bordo, in una feconda cernita di materiali e di stili per ricostruirne una legittimità nel nuovo ambiente dell‟uomo, dove la distinzione tra naturale e artificiale non ha più senso, dove la realtà interiore e esteriore è costituita da una serie di rimandi, secondo il paradigma imperante della Rete. L‟unitarietà formale delle sue opere è in questo processo, che è il riflesso di quanto sta avvenendo nel campo della conoscenza e della scienza. Nello stesso tempo è nell‟eterna irriducibilità dell‟arte ad una identità univoca, che ne mantiene inalterata l‟enigmaticità e la possibilità di un‟interpretazione che sempre si rinnova, come avviene per il mondo e per la storia. Perciò la sua arte è un laboratorio alchemico, un cantiere sperimentale e onnivoro, dove ogni elemento si giustifica di per sé e dove l‟ignoto che è davanti a noi ricomporrà la nuova macchina sensitiva e senziente. maggio 2003 aggiornato nel 2010 17 BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO Aa.Vv. - Novecento. Arte e Storia in Italia, Roma, 2000 Albini P. – Manifesti futuristi. Scienza Macchine Natura (in corso di stampa) Barilli R. – L‟arte contemporanea. 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