Anna Lavatelli Anna Vivarelli SENZA NULLA IN CAMBIO Francesco Gli amici erano invidiosi. Perfino il conte Lorenzo Boncompagni, che pure era un discreto giovane, alto e slanciato. Perfino Urbano Pescarini, che invece era brutto e grasso, ma era figlio del banchiere più in vista della città, e dunque poteva comprarsi i cuori delle migliori dame con i gran soldi che rastrellava il suo babbo. Niente da fare: le ragazze preferivano ammirare quel capolavoro della natura che rispondeva al nome di Francesco Morselli. Dire che fosse bello era dire poco.... Il vecchio Dionigi Morselli si era ormai ritirato dagli affari. E non perché gli fosse venuto a noia il lavoro, o perché non gli piacesse più stare in negozio, fra i ripiani coperti di sete, cotoni, damaschi e taffetà. Anzi: a volte, nei giorni di festa, quando i familiari andavano sulle colline di Fiesole per una visita, e lui restava solo in casa, scendeva dalla scala di servizio, apriva la porta sul retro, e passava ore a contemplare le stoffe. DIONIGI A quasi sessant’anni, Lucio Morselli era piuttosto soddisfatto della sua vita, come non mancava di ripetersi ogni mattina, quando scendeva nella sua lussuosa bottega a ricevere un cliente di riguardo. Per questi ospiti, che costituivano l’orgoglio di Lucio, era stato allestito un piccolo salottino nel retro. Nel giro di qualche mese Costanza avrebbe sposato l’unico erede di un banchiere, e se le cose fossero andate come Lucio sperava, si sarebbe potuto fidanzare ufficialmente anche Francesco. LUCREZIA Una carrozza si era fermata un pomeriggio in via delle Seggiole e un lacchè ne era sceso per aprire la porta del negozio e farvi entrare la sua padrona. I clienti si erano girati a guardare quella giovane che avanzava con passo leggero, così bella e raffinata da sembrare irreale, una creatura di un altro mondo, l’incarnazione di una dea. Il commesso che serviva al banco - Lucio era a Lione in quei giorni, a prendere visione di nuovi tessuti - si era dovuto far ripetere due volte cosa desiderasse, tanto era rimasto basito. - Vorrei vedere delle sete nel vostro salottino! - aveva ripetuto Lucrezia, con una voce inaspettatamente stridula, unica nota stonata in quel quadro di suprema bellezza. JACOPO Questo appunto aveva fatto lui: aveva creduto di partecipare a un cambiamento che avrebbe dato all’Italia dignità di nazione, e si era sacrificato per questo. Ma gli eventi lo avevano castigato duramente e il suo esempio - per piccolo che fosse - non era servito a nulla: un seme buttato fuori dal solco, destinato a marcire. Nel giro di poco tempo aveva perso la donna che amava, l’affetto della famiglia e la benevolenza dei suoi concittadini. E non poteva essere neanche il buon padre che avrebbe voluto, così lontano dalla Toscana e dalla sua adorata Paolina. Eugenia Francesco la vide dalla finestra, anzi, vide i suoi capelli sciolti che nuotavano nell’aria mentre il cavallo passava al galoppo. Intuì un corpo sottile, una vitalità insolita per una ragazza, e nient’altro. Fu un attimo, poi i pensieri cambiarono direzione e tornarono al suo futuro immediato, a tutto quello che si era lasciato alle spalle. Che ci faceva lì? Cosa avrebbe fatto nei giorni a venire? Chi era lui, adesso? Per Leopoldina, unica erede dei conti Torrile di San Secondo, infatti, alla discesa di Napoleone in Italia era legato il ricordo di un periodo straordinario della sua vita. Tra i militari francesi di stanza a Parma, un ufficiale non bello ma piacente nel viso severo e nei suoi ben portati cinquant’anni, si era invaghito di lei. In pochi minuti gli arrivò una coppa di crema tiepida, dolce e liquorosa, che lo incantò. E in quell’istante la vide: era di spalle, in piedi di fronte al bancone, infagottata in un mantello nero di panno pesante. Non poteva vederle il volto, ma era certo che fosse lei: l’energia che emanava il suo corpo, il modo di muovere le mani, di scrollare la testa... La strage degli studenti marzo 1821