Una esigua parte di vita
Sono andata a vedere l’acqua. Per me l'acqua
si identifica con l'idea di vacanza, anche se
quella vera ha l’acqua del mio fiume.
La spiaggia era deserta e scura, la superficie
sembrava ferma, poi si allargava e si allungava fino al punto in cui si confondeva con il
cielo.
È incantevole il mare a settembre inoltrato. Il
vuoto di persone rende il tempo più lungo e
più largo, per far posto a sè.
Tra vita, tempo sprecato e tempo vissuto tento
sempre di fare chiarezza in astratto.
Questo, nel mio intento, voglio che sia tempo
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vissuto. Tale pensiero, che mi è più frequente
nell’antitesi (questa non è vita), si riferisce ad
una frase di Seneca che ricordo così: Minima
est pars vitae qua vivimus, ceterum non vita est
sed tempus, che è poi la dedica ad un libretto di
incisioni della Vienna fine Ottocento che mi
regalò Lucio, parentesi della mia vita.
La sua scrittura esatta è questa: Exigua pars
vitae, qua vivimus. Ceterum quidem omne
spatium non vita sed tempus est. L'ho riletta in
treno, nel volumetto della BUR acquistato alla
stazione, avendo dimenticato il ‘De Brevitate
vitae’ sul tavolo d’ingresso, così bene in evidenza da non vederlo.
Era tempo che lo rileggessi. E capisco che non
cambia nulla la mia versione a memoria.
Semmai è il concetto di tempo, opaco succedersi di ore, di negozi e di affanni. Il vero
tempo Seneca lo chiamava otium, questo sì
termine intraducibile nella nostra lingua e
sospetto.
dove finalmente sono venuta a rendergli giustizia (tu non ti sei degnato di guardare dentro di te, di ascoltarti).
Ma per quella frase, scritta da Lucio, io l'ho
amato in altro modo, che non è né degno né
legittimo, perché l’ho amato per interposta
persona, anche se lo conoscevo prima e
meglio di lui. E mi rammarico che per tanti
anni sia stato Lucio il mio esegeta verso quell’altro Lucio, Anneo Seneca, troppo alto nella
sua saggezza perché io, allora giovane e per
definizione immortale, fossi consapevole che
il tempo, oltre che limitato, è variabile a seconda dell’uso.
Quella dedica voleva rappresentare, con
parole importanti, il significato del nostro
incontro. Continuo a volere che Lucio lo credesse, non importa per quanto tempo.
Che ami Seneca, voce del mio doppio e guru
inascoltato, qualunque sia il peso che ha
avuto sul mio agire, è talmente legittimo e
degno che non può che venirmene un effetto
positivo, come quello che ha operato qui,
Ho incontrato Lucio all’inizio degli anni
Sessanta, in una scuola di paese, dove facevamo entrambi il nostro tirocinio di insegnanti.
La sede era una vecchia canonica adattata, ma
non per questo inefficiente.
Ci stavamo bene, ci sentivamo un pò come
pionieri, la scuola viveva nel limbo di sempre,
ma noi credevamo che contasse il nostro entu-
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siasmo e che il nostro modo un pò ingenuo e
non tanto professionale di insegnare fosse
riscattato da qualche scintilla che si accendeva.
Non avevamo studiato tecniche dell'apprendimento o frequentato un tirocinio pedagogico. Il canovaccio era il nostro precedente
percorso scolastico sul quale operavamo,
ognuno a proprio modo, le modifiche per
quanto non ci era piaciuto. Inoltre eravamo
giovani, andavamo spesso al cinema e prendevamo le difficoltà logistiche come un
inesauribile set, senza confondere le favole
americane con la nostra concreta capacità di
arrangiarci.
La vecchia canonica adibita all’uso era un edificio a due piani, con belle finestre alte e alti
soffitti che davano alle classi un dignitoso
respiro. D’estate c’era un'ottima circolazione
d’aria, le finestre di dietro erano aperte sui
campi. D’inverno, avendo noi una sola stufa
per aula e venendo queste accese al mattino e
abbandonate all’una, subito dopo le vacanze
natalizie la temperatura non saliva oltre i
dodici gradi.
La bidella, che era il nostro vero capo, si occupava di accendere le stufe, suonava la campanella e rassicurava la Preside sulla nostra
puntualità. Abitavamo quasi tutti nello stesso
paese, una mia allieva era sua nipote, altri tre
ragazzi della sua famiglia stavano in diverse
classi, maschili e femminili naturalmente,
ancora separate. E poi c’erano il Parroco che
era il padrone di casa e copriva le ore di religione, l’insegnante di disegno che abitava di
fronte a casa mia e sognava di affermarsi
come pittore. Il professore di matematica,
invece, proveniva dalla città, era l’unico con
una lunga esperienza, principi molto solidi,
temuto dai ragazzi.
Ogni tanto giungeva all’improvviso, in
ispezione, la Preside della scuola media da cui
si dipendeva e che aveva sede in città. “Arriva
arriva” sibilava la bidella, infilando veloce la
testa nelle classi, quando scorgeva la Seicento
bianca che sobbalzava davanti all’ingresso.
Doveva avere uno strano concetto di noi
insegnanti, ma le eravamo tutti grati per la
sua protezione. I ragazzi si mettevano all’erta
e anche noi, che applicavamo metodi non proprio ortodossi, come quando le lezioni di
scienze si svolgevano all’aperto, in giro per i
campi del paese, o si andava in latteria a
vedere come si faceva il formaggio ed erano i
ragazzi che ci istruivano, per non parlare
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delle lezioni di disegno, tutte fuori, tempo
permettendo, e quando faceva molto freddo
tre classi in una sola stanza.
Stavamo studiando l’Iliade, una mattina, e
mettendo a punto la recita che ci eravamo
inventati. C’erano da assegnare le parti ai
maschi, ma avevamo fatto venire anche le
bambine, la parte di Elena era la più ambita e
così davamo loro il turno, perché Cassandra
faceva paura, di Ecuba non sapevano come
impostare la voce, e il coro doveva comprenderle quasi tutte per non fare dei torti.
Credo che la bidella, quel giorno, abbia
ritenuto inutile avvertirci, non avremmo
potuto rientrare nei ranghi, la Preside era già
sulla porta e ci inchiodò: tre professori e
cinquanta ragazzi, ammutoliti.
Fummo convocati nella sala insegnanti, sei
metri quadri ricavati nel corridoio, in cima
alle scale del primo piano, dove per nostra
fortuna la temperatura era di poco superiore
allo zero non avendo, la sala insegnanti, la
stufa. Così ci andò abbastanza bene e i rimproveri furono solo verbali, senza conseguenze peggiori. Anzi, la Preside decise che
avrebbe provveduto ad allungare il tempo
dell’alimentazione delle stufe in modo che
non avessimo più scuse, poi, per quella
promiscuità che da un punto di vista didattico poteva generare solo confusione e perdita
di tempo. Stabilì che avremmo appeso un termometro in ogni classe e le avremmo comunicato giornalmente la temperatura, con una
telefonata puntuale alle nove. Fui io l’incaricata. Ogni mattina, tra la prima e la seconda
ora, facevo il giro delle classi e rilevavo i gradi
usando una seggiola perché il termometro era
stato appeso al chiodo del crocefisso, un pò
troppo in alto, ma il Parroco non voleva altri
buchi nel muro.
Il bollettino meteorologico fu motivo di incontri quotidiani, anche divertenti, finché un
giorno ‘più non vi leggemmo avanti’ perché la
temperatura diventava meno rigida, era un
febbraio secco e pieno di sole, e Lucio prese a
parlarmi dei problemi di Mario, un nostro
alunno svogliato e irrequieto, e delle difficoltà
che aveva in famiglia.
Così a Mario fu assegnata la parte di Achille;
suo padre, che faceva il lattoniere, ci diede
una mano nella realizzazione di elmi e scudi,
sua madre ci aiutò a cucire tuniche per la
recita che ci stava tanto a cuore e Lucio ed io
ci innamorammo.
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Non ricordo - la mia memoria elude con
l’oblio - quando fu che Lucio mi disse le
parole fatali, forse non me le disse subito o
non le disse mai. Ricordo invece due scene,
nettamente.
La prima, all’uscita dal cinema parrocchiale
dove di pomeriggio tenevamo le prove, con i
ragazzi che vociavano intorno, i colleghi che
dicevano di aver fatto troppo tardi, le auto
sgangherate che si mettevano in moto, io che
mi avvicino alla Cinquecento blu, infilo le
chiavi, apro la portiera (controvento, allora),
scarico libri, fogli (la sceneggiatura), la borsa,
mi volto per entrare e Lucio che trattiene la
porta e mi chiede:
“Hai fretta?”
“Sì... no.” “Non molta.”
Ecco il suo sorriso, sempre appena accennato
e appena ironico.
“Chiudi la macchina - mi dice - andiamo con
la mia a bere qualcosa.”
Non risposi, lo seguii. Salendo sulla sua vettura notai un particolare che mi era sfuggito: i
mignoli delle sue mani restavano sempre piegati a metà.
La seconda è di qualche tempo dopo.
Eravamo nel cortile della scuola e il fotografo
sistemava le panche per la foto di fine anno.
Le bambine erano eccitate, perché di foto allora ne circolavano poche. Le più alte dietro, tu
scendi, vieni in prima fila, ecco lei professore
venga qui, al centro, anche lei signor Parroco,
un momento (dicono le ragazze che la
vogliono vicina) manca la bidella, dov’è la
bidella?
Mi sposto, cercando di fare qualcosa che mi
giustifichi, dico: sistematevi un pò, siete tutte
in disordine, rassetto un ciuffo, raddrizzo un
collettino bianco, mi sollecitano a rientrare e
io mi faccio spazio tra Lucio e il collega di
francese. Le gambe mi tremano, non lo sfioro
neppure, stringo le braccia davanti, il
fotografo dice: sorridete! Sarà l’unica
immagine stampata che potrò conservare.
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La recita riuscì bene a giudizio di tutti, non
parliamo poi dei ragazzi che avevano vissuto
quei mesi con eccitazione. Fu così convincente
il risultato che la Preside propose delle
repliche per le classi seconde di città che vennero trasportate in paese da un pullman
noleggiato appositamente.
Ma il debutto fu il vero momento felice, non
credevamo ai nostri occhi e alle nostre orec-
chie. Fino alla prova finale c’era qualcuno che
si ingarbugliava o dimenticava le battute, il
fondale scivolava di sbieco, il duello tra Ettore
e Achille sembrava una parodia di pupi. Quel
giorno invece, come per la vera gente di
teatro, che sente il pubblico e ne trae la spinta
a dare il meglio di sè, tutto si svolse con una
convinzione che non si sarebbe più ripetuta.
Ettore combatté il duello con la consapevolezza del suo infausto destino mentre Mario
infieriva, Achille predestinato e finalmente
vincente, per vendicare l’amico perduto e
riscattare la sua ingloriosa carriera scolastica.
La fine della scuola fu un giorno triste. Le
vacanze ci avrebbero separati. Mai vissi le
vacanze con tanto desiderio che finissero. Ero
al mare con la mia bambina, che quell’estate
tolse le rotelle alla bicicletta e imparò a stare
in equilibrio su due ruote. Incontrai Lucio, e
non per caso, proprio in una di queste strade
storte che erano state progettate con l’intento
di non rivelare la natura costruita. Era ancora
un luogo di grande seduzione la pineta che
occultava gli uomini come gli uccelli e gli
scoiattoli. Lucio mi chiese di raggiungerlo
verso sera, sullo sperone di spiaggia alla foce
del fiume, allora abbandonata e deserta.
Ci andai, affidando il mio bambino ad una
parente con una scusa tanto impacciata e
inverosimile da sollevare sospetti sulla mia
persona.
Non ricordo nulla di quei momenti passati a
camminare sulla sabbia, soltanto che era calda
sotto i piedi nudi e che il tempo si riduceva,
come se già non fossi più lì un attimo dopo
esserci arrivata.
Lo spreco del presente, che ho praticato tutta
la vita, arrivò con Lucio a momenti di totale
annullamento.
Mi diede una lettera.
Arrivata a casa, il mio piccolino reclamava
attenzioni, tutti avevano qualcosa da dirmi,
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Gli applausi furono lunghi e sinceri, non
importa per quali ragioni. Genitori, fratelli e
amici, seduti in platea, avevano motivi diversi per battere le mani, molti di loro non avranno capito granché del dramma rappresentato,
ma l’orgoglio di sentire i loro figli capaci di
recitare litanie in rima con tanta scioltezza e di
compiere gesti rituali oltre la loro goffaggine
di adolescenti, li lasciò stupefatti: qualcuno
intuì che la loro infanzia era finita.
sembrava che due ore di assenza avessero rivoluzionato il mondo familiare e io diedi loro
quello che si aspettavano, lavai, asciugai,
preparai la cena, ascoltai, risposi, andai a
dormire, aspettando nel cuore della notte di
potermi chiudere in bagno. La lettera cominciava così: “Elisa mia, sei mia perché sei sempre presente nei miei pensieri...” il resto è
bianco, eppure credevo di saperne le parole a
memoria, mentre la bruciavo, un anno dopo.
Quando la scuola riaprì, alcuni dei colleghi
mancavano. Il severo professore di matematica era stato trasferito alla sede centrale, in
città. Il professore di disegno, che aveva dipinto la quadriremi dello spettacolo, era stato
nominato al liceo. Neppure Lucio c’era, aveva
finito la sua esperienza di supplente ed era
stato assunto in una grande azienda.
C’erano la bidella, il suo caffè delle dieci e i
ragazzi, cresciuti come le piante che filano
nella bella stagione.
Solo un’immagine mi viene incontro, piena di
fuoco, i larici del bellunese che Lucio volle
portarmi a vedere un giorno d’autunno. Mi
disse che voleva regalarmi un giorno diverso
e non mi diede neppure un bacio, quel giorno,
quasi a riscattare la tristezza degli incontri
nascosti.
Ebbi anche una vigilia di Natale in stile hollywoodiano. Per tutto il giorno era sceso un leggero nevischio e quando ci incontrammo la
neve cadeva così fitta, a fiocchi così grandi
che i lampioni facevano fatica ad illuminare le
strade, le auto andavano pianissimo e tutto
era quasi pronto per fermarsi.
Cominciò un periodo di sotterfugi e rivedo
immagini oblique: non mi restituiscono nulla
delle attese e delle emozioni che traboccavano
fino a togliermi il respiro.
Infatti, dopo dieci mesi il tempo era scaduto.
Che lo spazio per la nostra storia fosse
effimero lo sapevo dall’inizio. Non ho mai
avuto la percezione di quello che pensasse
veramente Lucio del breve e già consumato
futuro. Non domandavo, per vigliaccheria.
Non facevamo progetti, neppure su quando
rivederci. Un senso di fine che per me aveva i
connotati del buio, pesava ormai anche sui
gesti abituali. Solo una volta, dopo quella vigilia di Natale che segnò il culmine irreale di
una storia non reale, mi disse con franchezza
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e inconsapevole crudeltà che non si poteva
dare un senso alla nostra vicenda, io una
donna sposata e con una figlia, lui che voleva
costruirsi una famiglia.
Mi stava preparando, come poteva, alla decisione già presa.
Ho un’immagine in bianco e nero: sono sola
per strada, è sera, fa un freddo di ghiaccio. La
fine è stata consumata.
Mi sono sempre rifiutata di esorcizzare quel
dolore. Voglio bene a quella ragazza straniata
che non sapeva dove stare e si sentiva da
buttare via. Che scriveva sull’agenda pensieri
smozzicati, di una veglia funebre da vivere in
silenzio, senza il conforto di amici o parenti, e
di una malattia del corpo che la impallidiva
come un cero spento.
Neppure la mia nonna avrebbe potuto capire.
E se lei non poteva capire, avevo commesso
un imperdonabile errore. Diceva che si resiste
a tutto, ai piccoli come ai grandi dolori. Ma
come, non me l’ha mai rivelato.
bello e alla luce favorisse la mia voglia di
vivere), durante un consiglio di classe che era
di una noia mortale per il grigiore dei presenti, il Preside, uomo di esperienza - lo affermava sempre, per questo lo ricordo - si mise a
disputare sulle donne, sulle loro fragilità, e
finì col parlare di fedeltà e infedeltà, facendo
le dovute distinzioni tra quella maschile e
quella femminile.
Il campionario di banalità espresse con
sicurezza avrebbe fatto la fortuna di uno di
quegli stupidari non ancora di moda. Poi
disse le sue parole definitive:
“E per le donne una cosa è certa, il primo
tradimento è quello difficile, poi vanno via
lisce come l’olio.”
Qualche anno dopo, un giorno di maggio (è
significativo che fosse maggio, che fiorissero
le mie amate rose, che la stagione volgendo al
Portarsi dentro, per anni, una storia finita è
come viaggiare con una cambiale scaduta che
speri ancora di incassare. Neppure i danni di
guerra sono previsti se i guasti alle cose non
sono dimostrabili, non parliamo di quelli alle
persone che se rimangono vive possono
ringraziare il loro santo protettore: rimboccarsi le maniche e ricominciare daccapo. È che si
perdono anni, prima di sapere esattamente
quali sono i diritti che non hai e intanto il
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tempo se ne va.
Oggi, però, è una splendente giornata d’autunno. Ci sono colori rossi in un’ultima
fiammata, la più accesa prima del cadere delle
foglie, tra verdi scuri che si appoggiano sull’azzurro. Posso goderne, senza fretta, senza
domani, immersa in questo presente interamente mio.
Raccolgo le mie cose, chiudo le finestre e le
porte, porto la valigia fino al cancello e lo
accosto alle mie spalle. La pineta profuma.
“Tu non ti sei degnato di guardare dentro di
te, di ascoltarti”, mi ripete il maestro.
Poco per volta, maestro.
Ho tentato. Ritenterò.
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