Corriere della Sera Giovedì 11 Dicembre 2014 Addio allo scrittore Ralph Giordano: sfuggì alla Shoah criticò l’islam di Ida Bozzi CULTURA Un sopravvissuto della Shoah, un testimone degli anni dello stalinismo, ma anche un critico di ciò che definiva il fallimento delle politiche di integrazione: ieri a Colonia, all’età di 91 anni, è morto Ralph Giordano (nella foto) scrittore e giornalista tedesco. Figlio di padre siciliano e di madre ebrea, nacque ad Amburgo nel 1923, e proprio in quella città affrontò con la famiglia la persecuzione nazista. I Giordano, nascosti da amici in una cantina, vennero liberati nel ‘45 Istantanee L’ELEGANZA DEL CANE TRA I LITIGANTI Segna libro di Claudio Magris dall’ottava armata britannica: la vicenda divenne un libro autobiografico, Die Bertinis (1982), ma la lotta contro il revisionismo, la sensibilizzazione contro l’antisemitismo e contro la violenza neonazista furono tra i temi della sua produzione pubblicistica e letteraria, che ottenne nel 2003 il Premio Leo Baeck del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi. Ma lo scrittore, in Germania Ovest, esercitò la sua critica anche contro il Partito comunista tedesco, cui era iscritto e dal quale 45 uscì durante la guerra fredda: ne scrisse nel libro Die Partei hat immer Recht («Il partito ha sempre ragione»). Come ricordano i giornali tedeschi, di recente Ralph Giordano definì fallimentare la politica di integrazione per gli immigrati musulmani, accusando il governo di aver creato «due società parallele», e contestò la costruzione della moschea di Colonia ricevendo numerose minacce di morte. © RIPRODUZIONE RISERVATA L’artista napoletano alla Fondazione Marconi di Milano Lucio Del Pezzo e la modernità: una questione (quasi) matematica di Sebastiano Grasso S ulla Frecciabianca Milano-Trieste, di pomeriggio. Da qualche parte, alle mie spalle, un cane ogni tanto abbaia. Non è un gran fastidio, i viaggiatori infatti non protestano; si guardano, qualcuno con l’aria più seccata, altri con bonaria ironia. Arriva il controllore e invita la proprietaria del cane a zittire l’animale e anche a cambiare vettura, visto che il suo biglietto è di seconda classe; la donna ha un volto incartapecorito, un’espressione sempre uguale, assente e indifferente. È evidentemente disturbata, probabilmente pure alterata dall’alcool. Sembra non capire ciò che le viene detto, rilutta, rifiuta di andarsene. Il controllore alza la voce, la spinge, lei gli chiede farfugliando di mostrare i suoi documenti, lui urla, lei lo insulta con termini pesanti e volgari, lui è preda di un vero accesso di furore, la insulta con parole ancor più pesanti e volgari; lei guarda nel vuoto e ripete le sue ingiurie, lui stravolto e scatenato, paonazzo, urla che le spaccherà le ossa a costo di finire in galera. I viaggiatori si guardano, ci guardiamo, interdetti, chiedendoci vagamente se è il caso di intervenire e chi lo farà, impacciati dall’universale viltà che induce a passare imbarazzati anche accanto a situazioni ben più gravi. Il cane, più David Hockney, Stanley (1995) dignitoso dei due contendenti, se ne sta per conto suo. Soltanto una signora, più vicina alla degradante scena, cerca di interporsi, spingendo delicatamente la donna verso la porta della vettura, fra il turpiloquio bofonchiante di lei e le urla e minacce di lui. La donna finalmente esce, si viene a sapere che è stata fatta scendere a Desenzano. Il controllore ripassa per la vettura e dice qualche parola di scusa. Forse è esasperato da chissà quanti altri penosi e gravosi incidenti che gli accadono ogni giorno e che possono far imbestialire. Controllare l’osservanza della legge è più faticoso che violarla. Per quel che riguarda la donna, chissà quali infelicità, esclusioni, magari violenze hanno segnato il suo volto spento e avvizzito che la fa assomigliare a un’impassibile pellerossa molto più vecchia della sua età. Quante tristezze la vita, incisore maligno, ci graffia sul viso. © RIPRODUZIONE RISERVATA A Il film intervista a Gilles Deleuze (1925-95) pubblicato da DeriveApprrodi, ABeCedario è un ottimo vademecum per decifrare l’odierno Paese dei Balocchi. Dove chi è al potere usa sia le armi della cultura ufficiale sia quelle della controcultura. Il film, a cura di Claire Parnet, girato da Pierre André Boutang, mette in fila oltre 7 ore di conversazione in cui il filosofo offre il proprio pensiero in 24 parole-chiave. Quasi un autoritratto filosofico, che permette di riscoprire un pensiero attingendo alla fonte primaria. Dalla «a» di animale alla «z» di zigzag, passando per Kant, sinistra, gioia, malattia, cultura, fedeltà, tennis e stile (cofanetto da 3 dvd, più libretto, 20). a cura di Luca Mastrantonio rcheologia di oggetti geometrici recenti. Lucio Del Pezzo (Napoli, 1933) non li trova sottoterra; preferisce farseli prestare da Euclide, col quale ha un buon rapporto personale; anzi qualcuno afferma che sono amici da lunga data. Alla bisogna, rimpasta pure qualche teorema, attingendo a uno degli otto Elementi (gli altri cinque, come si sa, sono andati distrutti nell’incendio della Biblioteca di Alessandria). Spesso Lucio fissa il matematico greco in viso, lo squadra, lo studia, lo indaga, gli sorride. Ama la sua aria dimessa, il volto incorniciato dalla barba e la tunica che scivola dalle spalle ricurve per gli anni. Ed è questa l’immagine che l’artista partenopeo si porta dietro quando da casa raggiunge lo studio milanese sui Navigli per costruire grandi e piccole scenografie. Lucio ha compiuto 81 anni e, anche se vive a Milano dal 1960, è rimasto un napoletano verace. Chi lo conosce bene, però, sa che potrebbe benissimo essere un andaluso (stessa fantasia e curiosità del mondo) o, magari, uno svizzero-tedesco di Zurigo (con un occhio al Dadaismo del Cabaret Voltaire) o, ancora, un inglese anni Cinquanta (che annusa la Pop art di Hamilton). Alla fine, però, il napoletano si mangia l’andaluso, lo zurighese e il londinese, perché quella che domina è la fantasia partenopea che non conosce limiti. Una conferma, in questo senso, viene dalla mostra Sagittarius (carte, multipli, sculture componibili, pitture a rilievo, collage) alla Fondazione Marconi di Milano (sino al 10 gennaio): anni Sessanta-Settanta. Un colpo d’occhio sugli inizi. Lucio arriva nel capoluogo lombardo nel ’60, a 27 anni. La città è aperta ai fermenti europei e un grande scopritore di talenti come Arturo Schwarz lo coopta nella propria galleria: Lucio Del Pezzo (Napoli, 1933), Casellario 40 elementi (1974, tecnica mista su tavola, particolare) ed ecco la sua prima personale. Segue l’avventura parigina. Nel ’77, Del Pezzo occupa l’ex studio di Max Ernst, morto l’anno prima («Arrivi lì per vivere un’esperienza cosmopolita, internazionale e ti accorgi che lì vengono fuori le tue origini»). Insomma, da qualunque prospettiva lo si guardi, Del Pezzo conferma l’idea di essere un artista girovago. Rientrato a Milano, si registrano varie «fasi»: neo-dadaista, surrealista, metafisico e altro. Ballo e Dorfles registrano il suo passaggio da un’esperienza all’altra. Il suo credo? Sperimentare. Il suo repertorio spazia dall’arte egizia all’oro del Trecento, dai codici miniati al Rinascimento, alla Metafisica. Man mano il suo lavoro perde la dimensione pittorica per convertirsi alla scultura. Scultura-pittura-architettura respirano un clima surreale. Certo, per lo più la struttura è quella tipica del quadro, ma gli elementi inseriti nella composizione sono oggetti veri e propri, quasi sempre geometrici. I suoi parenti più stretti — ha scritto Giorgio Soavi — so- no triangoli, silhouettes di mani, chiavi inglesi, cerchi, obelischi, macine, pennelli, campane, compassi, dadi, pseudo-falci col manico a croce, bersagli da tirassegno, esagoni, mezzelune, nodi marinari, birilli, sirene sdraiate su pavimenti a scacchi. Elementi tutti con cui Lucio Del Pezzo, Visual Box (1968) Lucio — Narciso a tutto tondo, travestito da piramide od ottagono, da aquilone o aeroplano, da birillo o colonna di tempio greco — scrive dei racconti fantastici: teatrini in miniatura che oscillano fra gioco e invenzione. La genesi di tutto ciò? Napoli, ovviamente, il più grande teatro naturale del mondo. E Napoli — precisa Del Pezzo — vuol dire coincidenze, incroci di culture diverse, influssi del Barocco, dell’irrazionale, dell’informale; e anche tutto il suo contrario, Lucio, cioè, diventa una sorta di giocoliere delle suggestioni. Si vedano, in proposito, le tavole-sculture che accompagnano i versi di Géza Szocs (Da dove arriva, di notte, questo frullio d’ali e il ridere tuo e il tuo pianto?), libro d’arte della Colophon, appena uscito. Il frullio d’ali porta «il giocoliere» a inventare variazioni infinite, come ha fatto leggendo Goethe (La teoria e i colori) e Kandinsky (Lo spirituale dell’arte), Borges e Calvino. Al regista si affianca il clown, l’illusionista del colore che dà corpo a sogni e chimere. Da buon figlio del Vesuvio, Lucio ha una marcia in più degli altri: nella sua città natale invenzione e aria per respirare sono tutt’uno. [email protected] © RIPRODUZIONE RISERVATA Allarme democrazia, ha un «disturbo bipolare» Leader plebiscitari per Stati ormai impotenti. L’analisi pessimista di Francesco Tuccari sul «Mulino» di Antonio Carioti La rivista L a democrazia è gravemente malata, soffre «di un inedito disturbo bipolare» che la sta privando della sua stessa ragione d’essere. Del «Mulino» non si può certo dire che sia una pubblicazione sensazionalista o allarmista. Ma proprio per questo colpisce la gravità della diagnosi contenuta nell’articolo del politologo Francesco Tuccari che apre il nuovo fascicolo della rivista diretta da Michele Salvati. In che cosa consiste la malattia che mina i sistemi rappresentativi? Tuccari la definisce «bipolare» perché presenta ● La copertina dell’ultimo numero (6/14) della rivista «il Mulino», diretta da Michele Salvati, edita dal marchio editoriale bolognese due aspetti in apparenza contraddittori. Da una parte c’è il crescente successo di leadership personalistiche e carismatiche, dal forte impatto sui media vecchi e nuovi, che hanno conferito all’attività politica un’impronta sempre più spettacolarizzante, con vistose venature populiste. Ma dall’altra i meccanismi della finanza globale hanno sottratto allo Stato nazionale gran parte del suo «potere di decidere», ponendolo in una condizione subalterna rispetto ai verdetti inappellabili dei mercati. Il risultato è una patologica democrazia «plebiscitaria, ma soprattutto acefala», perché governanti apparentemente forti spesso di fatto risultano impotenti, quando non si tratta addirittura di «marionette», espressione dei potenti «comitati d’affari» che pagano le loro dispendiosissime campagne elettorali. Un quadro buio, come si vede: Tuccari scrive apertamente che la democrazia «si sta volatilizzando». Ma non tutti la pensano così, tra gli animatori del «Mulino». Proprio il direttore Salvati, che analizza in un altro articolo le innovazioni introdotte da Matteo Renzi nella vita del Partito democratico, si mostra più in linea con la teoria del politologo francese Bernard Manin (autore del libro Principi del governo rappre- sentativo), secondo cui avrebbe preso piede una «democrazia del pubblico», non più fondata sul ruolo centrale delle macchine di partito, ma sulla comunicazione diretta tra leadership e cittadini, con un comportamento nel complesso più fluido e consapevole degli elettori. Un’analisi che, secondo Tuccari, «non convince affatto». Si delinea dunque nella prestigiosa rivista bolognese una dialettica tra «apocalittici e integrati», per usare la famosa formula lanciata mezzo secolo fa da Umberto Eco? Un altro indizio, sempre in questo numero, sembra emergere dal confronto tra un intervento di Ni- ❞ Salvati analizza le innovazioni portate da Matteo Renzi nel Pd cola Melloni e Anna Soci sulla diseguaglianza, in cui gli autori prospettano per le economie capitaliste un futuro di sempre maggiore iniquità, e il testo della «Lettura del Mulino», tenuta il 18 ottobre dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, nella quale i cambiamenti in corso vengono piuttosto presentati come una sfida, certamente non facile, che presenta tuttavia anche opportunità positive da cogliere. Ma forse si tratta soltanto di fisiologiche manifestazioni del sano pluralismo che al «Mulino», per la verità, non è mai mancato. @A_Carioti © RIPRODUZIONE RISERVATA