UNIVERSITÀ POLITECNICA DELLE MARCHE FACOLTÀ DI ECONOMIA “GIORGIO FUÀ” _______________________________________________________________ Dottorato in Economia aziendale CATEGORY MANAGEMENT: IL VALORE DELLA RELAZIONE NELLA SUPPLY CHAIN Relatore: Chiar.mo Tesi di Dottorato di: Prof. Gian Luca Gregori Eleonora Fiori Scuola di Dottorato X ciclo INDICE Introduzione ..................................................................................................................................... 1 CAPITOLO I DAL MARKETING MIX AL RELATIONSHIP MARKETING ............................................. 7 I.1. La Traditional Marketing Theory ........................................................................................ 7 I.2. Gli elementi di crisi della Traditional Marketing Theory ................................................... 10 I.2.1. Il cambiamento delle dinamiche competitive ......................................................... 11 I.2.2. La rigidità del marketing mix ................................................................................... 14 I.2.3. La visione limitata del marketing tradizionale ........................................................ 18 I.2.4. La stagnazione del marketing come area di studio ................................................. 21 I.3. Lo sviluppo del Relationship Marketing ............................................................................ 25 I.4. Il valore aggiunto della relazione ..................................................................................... 32 I.4.1. Meeting customer requirements ............................................................................ 33 I.4.2. Trust and belonging ................................................................................................ 39 I.4.2.1. I.4.3. L’approccio interattivo .................................................................................. 44 The human touch .................................................................................................... 50 I.5. Modelli e approcci al relationship marketing ................................................................... 58 I.6. Un vero salto paradigmatico? .......................................................................................... 66 I CAPITOLO II L’EVOLUZIONE RELAZIONALE NELLA SUPPLY CHAIN ............................................. 73 II.1. Il contesto di applicazione del marketing relazionale ............................................. 73 II.2. L’importanza della relazione nell’economia dell’ipercompetizione ........................ 77 II.3. L’analisi relazionale della domanda finale .............................................................. 86 II.3.1. Il profilo del nuovo consumatore ............................................................................ 88 II.3.2. Nuovi scenari di consumo ....................................................................................... 91 II.3.2.1. La de-materializzazione del consumo ........................................................... 92 II.3.2.2. L’infedeltà alla marca e “sindrome di Stendhal” ........................................... 95 II.3.2.3. L’individualismo, l’edonismo e il narcisismo ............................................... 100 II.3.2.4. Il polisensualismo ........................................................................................ 105 II.3.3. L’evoluzione della relazione con il consumatore .................................................. 109 II.3.4. Rifondare la relazione con il consumatore: la gestione delle relazioni ................. 116 II.4. L’analisi relazionale della domanda intermedia: i canali distributivi .................... 126 II.4.1. I cambiamenti interni ed esterni al settore distributivo ....................................... 128 II.4.2. Relazioni di collaborazione nei rapporti distribuzione-industria .......................... 135 II.4.3. L’analisi dinamica delle relazioni distributive ....................................................... 142 II.5. Il nuovo ruolo della funzione marketing................................................................ 148 CAPITOLO III IL CATEGORY MANAGEMENT: FORME INNOVATIVE DI PARTNERSHIP NELLA SUPPLY CHAIN ........................................................................................................................ 159 III.1. III.1.1. II Il category management ....................................................................................... 159 Verso un “customer-based” category management ........................................ 162 III.1.2. Il consumatore come fattore aggregante ........................................................ 167 III.1.3. Gli effetti del category management ............................................................... 172 III.2. Metodologia .......................................................................................................... 175 III.3. I risultati della ricerca empirica ............................................................................. 177 III.3.1. La centralità del consumatore nel processo di category management ........... 180 III.3.2. La definizione della categoria in ottica customer based .................................. 182 III.3.3. I ruoli strategici di categoria ............................................................................. 188 III.3.4. L’assegnazione degli obiettivi di marketing di categoria.................................. 191 III.3.5. Il piano strategico di categoria e il retailing mix .............................................. 192 III.3.6. Risultati e prime considerazioni conclusive ..................................................... 197 III.4. Il panorama internazionale: intervista al category manager di Unilever Uk ........ 199 III.4.1. Il ruolo del category management in Unilever UK ........................................... 200 III.4.2. L’importanza della relazione ............................................................................ 207 III.4.3. Il cliente come terzo partner nella relazione industria-distribuzione .............. 216 III.4.4. La definizione della categoria ........................................................................... 222 III.4.5. Le politiche assorti mentali .............................................................................. 223 III.4.6. La leva promozionale ....................................................................................... 227 III.4.7. La relazione tra category e sales ...................................................................... 229 III.5. Considerazioni conclusive...................................................................................... 232 Bibliografia .................................................................................................................................... 239 III Introduzione La tecnologia, l’integrazione socio-culturale e negli stili di vita, i processi di deregolamentazione e la stessa attività di marketing delle imprese stanno modificando significantemente i fattori critici per operare con successo nelle arene competitive. L’allargamento dei confini di mercato continua a generare un forte incremento dell’intensità competitiva, sia perché aumenta il numero complessivo dei competitors, sia perché i ritmi incalzanti della competizione impegnano le imprese ad uno sforzo di previsione, adattamento e innovazione continua. Questi elementi si traducono in una continua crescita e variabilità delle risorse necessarie al sostegno del processo competitivo che spingono le imprese a ricercare livelli sempre più alti di un mix combinato di efficacia e efficienza (Ferrero, 1992). Il ricorso ad una logica product-for-money può rivelarsi fortemente inadeguato rispetto all’obiettivo di sostenere il processo competitivo. Tutto questo fa emergere un concetto chiave per comprendere le logiche vincenti di gestione del rapporto impresa-mercato: la relazione. La logica relazionale rappresenta uno dei nuovi e più proficui paradigmi del marketing management: nella letteratura, il relationship marketing é stato spesso 1 definito come ”new marketing paradigm” (Kotler, 1992; Grönroos, 1994; Gummesson, 1999) o come “paradigm shift” (Sheth & Parvatiyar, 1993; Morgan & Hunt, 1994; Gummesson, 1997; Buttle, 1997). Si impone, infatti, il passaggio da transazioni unilaterali e istantanee a relazioni di lungo periodo di tipo reticolari, in cui la propensione a interfacciarsi con altri soggetti diventa un elemento fondamentale ai fini del conseguimento del vantaggio competitivo di impresa (Morgan & Hunt, 1999). La capacità di connettersi con il mercato finale e, più in generale, con tutti i soggetti economici che contribuiscono alla formazione della base di risorse e di conoscenze (Rullani, 2004) necessarie per l’innescarsi di processi di generazione di valore risulta determinante per lo sviluppo aziendale. In questo modo, viene a crearsi non solo una connessione relazionale tra un set di imprese che contribuiscono alla soddisfazione dello stesso “grappolo di bisogni” (Busacca, 1994), ma si riduce anche la distanza cognitiva tra l’impresa e la domanda, che diviene anche essa co-produttrice della base di conoscenza reticolare. La capacità di connettersi con la domanda finale e con tutti i soggetti economici che contribuiscono alla formazione della base di risorse necessarie per un efficiente funzionamento dei processi di generazione di valore risulta determinante per lo sviluppo aziendale (Castaldo, 2002). 2 Il concetto di cliente, infatti, deve essere inteso in senso ampio: può riferirsi a imprese fornitori del prodotto, distributori, consumatori finali, acquirenti, ma anche influenzatori e altri soggetti in grado d’intervenire nel processo di acquisto. Nella nuova economia della connessione, la complessità ambientale e scientifica si trasforma in articolazione relazionale, accrescendo il fabbisogni di elementi, come la fiducia e il commitment, in grado di governare questa nuova dimensione della complessità. Per comprendere come la relazione si traduca effettivamente in elemento di coordinamento e in ultima istanza in valore economico, sono state approfondite le modalità di collaborazione all’interno della filiera dei consumer goods, prendendo in considerazione tre soggetti fondamentali: l’impresa industriale, l’impresa commerciale e il consumatore finale. L’obiettivo conoscitivo è di dimostrare che tutte le forme di relazione siano strumentali allo sviluppo e consolidamento delle relazioni con la domanda. L’importanza dell’orientamento al cliente nella collaborazione industriadistribuzione è stata messa in evidenza analizzando il tema del category management. Il category management è stato definito come una nuova filosofia gestionale che individua le categorie di prodotti quali fondamentali Aree Strategiche di Affari (Harris, 1993). L’adozione del nuovo approccio manageriale prevede una riprogettazione dei processi aziendali e di quelli organizzativi in ottica custumer-based, trovando proprio nella categoria un codice di linguaggio 3 comune alle imprese commerciali e a quelle industriali. In questo modo, il category management tende a superare i confini della singola impresa per diventare un nuovo modo di intendere la relazione di canale in chiave collaborativa. La ricerca ha permesso di portare avanti, oltre ad una riflessione teorica e speculativa sulla prospettiva del marketing relazionale e delle relazioni industriadistributore-consumatore, una indagine empirica che ha rappresentato il supporto di verifica di ipotesi relative al funzionamento del category management quale strumento relazionale. Nel primo capitolo, si sono sintetizzate le riflessioni sviluppate dalla ricerca in tema di marketing relazionale, partendo da una analisi del concetto di relationship marketing come portatore di una nuova idea di gestione del rapporto impresamercato. Inoltre, si è cercato di analizzare la relazione come sistema multidimensionale, descrivibile ed interpretabile attraverso un complesso di variabili di natura non solo economica. Nel secondo capitolo, il sistema di relazioni è stato calato all’interno della supply chain, individuando l’impresa produttrice come focal firm e la relazione con la domanda come unità di analisi, dove per “domanda” si intendono la relazioni sia la domanda finale (il consumatore) sia con la domanda intermedia (il distributore). In particolare, viene analizzato il ruolo della funzione marketing nella gestione strategica ed operativa della singola relazione e del sistema di relazioni. 4 Nel terzo capitolo, vengono esaminati due casi di studio1 relativi a due progetti di category management, con l’obiettivo di analizzare dal punto di vista empirico le ripercussioni che la nuova modalità gestionale ha nelle relazioni all’interno della supply chain. Infine, viene presentata un’intervista in profondità con Joe Chomiskey, category manager di Unilever UK, effettuata durante il periodo di ricerca alla Kingston University London - Kingston Business School. La tesi che si vuole sostenere nella ricerca è che soltanto una profonda comprensione della domanda e una reale partnership tra industria e distribuzione possono creare le vere basi per un vantaggio competitivo sostenibile e di lungo periodo. 1 Yin R. (1994), Case Study Research, Design and methods. Thousand Oaks, CA: Sage Publications 5 6 CAPITOLO I DAL MARKETING MIX AL RELATIONSHIP MARKETING I.1. La Traditional Marketing Theory Il paradigma del marketing management è una teoria relativamente recente: con qualche eccezione, lo sviluppo della letteratura risale circa a 50 anni fa. Eppure in questi ultimi 50 anni, il concetto di marketing si è profondamente evoluto. Nelle prime teorizzazioni, il focus consisteva principalmente nel soddisfare i bisogni/desideri dei consumatori attraverso le leve del marketing mix. Nella prima edizione del libro Marketing Management, Philip Kotler (1967) coglie l’essenza del concetto tradizionale di marketing definendolo come: “the analysing, organising, planning and controlling of the firm’s customer-impinging resources, policies, and activities with a view to satisfying the needs and wants of chosen customer groups at a profit.”. La definizione di Kotler è perfettamente coerente con un mercato in crescita come quello degli anni 60-70, in cui l’obiettivo era semplicemente quello di conquistare la quota di mercato più ampia nel più breve tempo possibile. Questa visione può 7 essere definita come “concetto tradizionale di marketing” o anche come “approccio transazionale al marketing”. La premessa di fondo che sottende alla teoria tradizionale del marketing pone al centro dell’attenzione le singole transazioni poste in essere dall’azienda con la clientela. Il comportamento delle parti coinvolte nello scambio è visto in funzione di alcuni parametri che caratterizzano la transazione stessa, che sono tipicamente identificabili in termini di prodotto/prestazione e di prezzo. Tali parametri vengono gestiti unilateralmente dal venditore, che rappresenta l’unico soggetto attivo dello scambio. Il problema di marketing per quest’ultimo si identifica nella definizione della migliore combinazione dei parametri dell’offerta, al fine di suscitare una risposta positiva nella controparte (Varaldo & Stanton, 1987). Inoltre, il tradizionale concetto di marketing tende a essere orientato al breve termine e più centrato sul suo ruolo da un punto di vista funzionale nel coordinamento e nella gestione delle 4P per promuovere l’offerta dell’impresa (Lambin, 2004). Il paradigma di marketing transazionale individua uno strumento semplice ed 1 immediato per la gestione dei parametri dell’offerta: il marketing mix (Borden, 1964). 1 In realtà, il marketing mix ipotizzato da Borden (1964) era composto da 12 elementi: product planning, pricing, branding, channel of distribution, personal selling, advertising, promotions, packaging, display, servicing, physical handling, fact finding and analysis. Borden sostiene: “I liked his idea of calling a marketing executive a ‘mixer of ingredients’, one who is constantly engaged in fashioning creatively a mix of marketing procedures and policies in his efforts to 8 Le 4P del marketing mix diventano il framework predominante sia nella ricerca accademica sia nella pratica aziendale, la cui validità risultava a quel tempo indubitabile2 (Grönroos, 1989, 1990; Kent, 1986). Queste caratteristiche hanno favorito l’adozione di questo strumento da parte della generalità delle imprese, evidenziandone al contempo alcuni rilevanti limiti. In particolare al marketing management viene riconosciuta una autonomia funzionale che non rende possibile l’individuazione e lo sviluppo delle sinergie derivanti da un orientamento strategico maggiormente integrato. Questo approccio si caratterizza, inoltre, per una scarsa attenzione al contesto internazionale e per un orientamento adattivo nei confronti dell’ambiente. I cambiamenti strutturali che hanno interessato, a partire dagli anni settanta, il contesto competitivo in cui le imprese sono chiamate ad operare hanno reso i limiti dell’approccio di marketing tradizionale maggiormente evidenti3. Negli ultimi 10-15 anni, un approccio alternativo ha preso campo nell’area del marketing: il relationship marketing, ovvero l’insieme delle strategie di marketing produce a profitable enterprise.”. Fu poi McCarthy (1978) a sintetizzare il mix of ingredients di Borden nelle classiche 4P del marketing mix (Product, Price, Place, Promotions). 2 Kent (1986) descrive le 4P del marketing mix come “the holy quadruple…of the marketing faith…written in tablets of stone”. 3 Brady e Davis (1993), Doyle (1995), Kashani (1996) parlano di declino o addirittura di morte del marketing come disciplina. Al di là di affermazioni forse esageratamente melodrammatiche, si evidenzia sempre con più forza la necessità di una rivisitazione della tradizionale teoria di marketing. The Chartered Institute of Marketing ammette: “the old ways of marketing have become increasingly expensive, wasteful and inefficient.” 9 volte a costruire, mantenere e sviluppare relazioni stabili nel tempo con i clienti e gli altri stakeholders (Godson, 2009). Il dibattito che si è sviluppato tra gli studiosi sui limiti e le possibilità del paradigma di marketing relazionale si è tradotto in due differenti correnti di pensiero: alcuni autori individuano una sostanziale compatibilità con gli assunti base della teoria tradizionale del marketing, evidenziandone solo una parziale revisione, ma non un vero e proprio superamento del marketing concept; altri invece reputano questo approccio su posizioni opposte ed inconciliabili con il marketing management, considerando il paradigma tradizionale incompatibile con il nuovo ambiente competitivo. I.2. Gli elementi di crisi della Traditional Marketing Theory Il marketing mix é stato il modello domaninante per oltre 40 anni, anche per il suo “seductive sense of semplicity” (Christopher, Payne, & Ballantyne, 1991) che nonostante le sue virtù pedagogiche ha portato ad una stasi negli approcci di marketing nel mondo accademico e manageriale (Grönroos, 1990) 10 Infatti, il “toolbox approach” (Grönroos, 1994) ha sminuito le potenzialità della relazione nei vari livelli di interscambio e ha oscurato il ruolo della relazione nel marketing4 (Harris, O'Malley, & Patterson, 2003). Alla fine degli anni ’70 il paradigma del marketing concept inizia ad essere sottoposto a forti critiche. I fattori di crisi possono essere sintetizzati essenzialmente in quattro elementi: 1. il cambiamento delle dinamiche competitive; 2. la rigidità del marketing mix; 3. la visione limitata del marketing tradizionale; 4. la stagnazione del marketing come area di studio. I.2.1. Il cambiamento delle dinamiche competitive La nascita delle prime teorie di marketing si riscontrano proprio nelle logiche della produzione di massa e del consumo di massa tipiche dell’economia americana degli anni ’60. In un mercato dove la domanda era in continua crescita e dove le industrie producevano in grandi quantità al fine di raggiungere i 4 Brown afferma (1995) “the fundamental issue to which we should address ourselves is not marketing myopia but me myopia of marketing.”. Il concetto di marketing myopia fu introdotto da (Levitt, 1960). In questo articolo pioneristico, Levitt si sofferma sulla necessità che hanno le imprese di definire con precisione il mercato in cui operano, applicando una visione più ampia di quella che guida di solito le scelte dei dirigenti aziendali, orientate in genere più ai prodotti che vendono (production orientation) piuttosto che alle esigenze del consumatore (marketing orientation). 11 vantaggi di costo delle economie di scala. L’obiettivo principale consisteva essenzialmente nel trovare nuovi mercati dove poi vendere maggiori quantità di beni possibili, in modo da ridurre al minimo le stock dei prodotti in magazzino. E’ in questo contesto che nel marketing assumono maggiore rilevanza i concetti di distribuzione e promozione, ovvero quegli strumenti che facilitassero il collocamento (nel tempo e nello spazio)5 e la richiesta di beni e servizi. Le azioni di marketing venivano considerate efficaci solo se risultavano in un aumento delle vendite e delle quote di mercato. L’orientamento era principalmente di breve periodo. Le strategie di marketing non venivano costruite intorno al consumatore: come sostiene Baker (2000), l’approccio transazionale vedeva i consumatori come “people to whom something is done, as opposed to people for whom something is done”. In questa ottica, il marketing mix rappresenta un concetto del marketing molto più production-oriented che non market-oriented o customer-oriented. (Grönroos, 1989) Con la saturazione dei mercati, si assiste ad una serie di drastici cambiamenti. Si inizia a comprendere l’importanza della ripetizione degli acquisti, della brand loyalty e della brand differentiation. Secondo Sheth e Parvatiyar (1995), cambia anche la visione del distributore da parte dell’industria: “Brand marketing that 5 I primi teorici nel campo del marketing, come E. D. James, Simon Lifman e James Hagerty, hanno infatti concentrato i loro studi nel campo della distribuzione. Sempre nello stesso periodo, iniziano a prendere forma anche le prime pratiche moderni di vendita, promozione e advertising, con l’obiettivo di creare nuova domanda e assorbire quindi l’eccesso di offerta. Ralph Butler fu tra i primi autori ad articolare le prime teorie di marketing riguardo il promotional concept (Barrels, 1965). 12 grew during this period supported the philosophy that the retailer was not the salesman for the manufacturer but rather the buyer for the consumer”. Inoltre, la segmentazione dei mercati inizia a diventare lo strumento fondamentale per la pianificazione di marketing. Per differenziarsi dai competitor, le aziende si focalizzano su specifici gruppi di consumatori verso cui costruire strategie di marketing su misura. Il branding, considerato una delle colonne portanti delle 4P e in particolare ella politica di prodotto, sembra perdere la sua componente fiduciaria6 (Busacca & Troilo, 1992) fino a diventare un semplice strumento per facilitare la segmentazione del mercato e non per portare effettivi benefici al consumatore (Egan, 2004). I consumatori iniziano a diventare molto più sofisticati e la semplice leva della promozione non sembra essere più efficace: non più parte della massa 6 Le componenti costitutive della marca e le sue funzioni possono essere classificate in tre tipologie (Busacca & Troilo, 1992): - identificativa; - valutativa; - fiduciaria. La componente identificativa è costituita dai segni di riconoscimento della marca (ad esempio, il nome, i simboli, i colori, il jingle, lo slogan, il logo), ossia tutti gli elementi che consentono l’identificazione distintiva della marca; essa comprende anche i valori imprenditoriali che ne giustificano l’esistenza. La componente valutativa è l’insieme delle valenze denotative (connesse ai benefici tecnico-funzionali) e connotative (direttamente connesse ai benefici psico-sociali) che il consumatore attribuisce alla marca; è, quindi, l’insieme dei significati che, se correttamente percepiti dai consumatori, sono stabilmente associati alla marca. La componente fiduciaria consiste nelle strutture e nei processi organizzativi che consentono all’impresa o all’organizzazione di generare soddisfazione e fiducia in coloro i quali sperimentano l’acquisto o il consumo dei prodotti recanti una determinata marca; si tratta di un meta-significato, relativo alla dinamica esperienza-apprendimento, che finisce per rendere intensa e radicata la componente valutativa, grazie alla percezione di affidabilità cumulata nel tempo. 13 indifferenziata a cui rivolgersi con una comunicazione uni-direzionale, ora i consumatori si aspettano di essere ascoltati come individui. In questo contesto, i parametri con cui valutare un’azienda di successo non sono più vendite e quota di mercato, ma la capacità di instaurare una relazione con il cliente che permetta di aggiungere valore alla transazione, creando un prodotto/servizio coerente con un stile di vita in continua evoluzione. Nell’era delle connessioni one-to-one, non conta più la singola transazione o il singolo acquisto, l’obiettivo è ora di costruire una relazione tra le parti e di prolungarla nel tempo. In conclusione, a partire dagli anni settanta, i cambiamenti strutturali che hanno interessato il contesto competitivo in cui le imprese sono chiamate ad operare hanno reso i limiti dell’approccio transazionale maggiormente evidenti. La teoria tradizionale del marketing, teorizzata sulla base delle caratteristiche dell’economia americana degli anni ’60, non può essere applicata indistintamente ad altri scenari competitivi (Grönroos, 2007). I.2.2. La rigidità del marketing mix La seconda critica rivolta alla teoria tradizionale riguarda l’estrema rigidità del modello: si fa riferimento, in particolare, alla scarsa flessibilità del tool-box 14 approach (Grönroos, 2007), ovvero alla possibilità di poter sviluppare le strategie di marketing in ogni organizzazione semplicemente adattando le quattro variabili base, le 4P. Idea sicuramente molto chiara, facile da applicare e di facile memorizzazione. L’approccio inizia presto ad essere messo in discussione: in primo luogo, viene sottolineata la mancanza di interazioni tra le quattro variabili del marketing mix. Nonostante McCarthy (1978) riconosca la necessità di un collegamento tra le 4P, il modello di per sé non include alcuna interazione né viene descritta la natura e lo scopo di tali interazioni. Un secondo elemento di critica ha preso avvio dai tentativi di ampliamento degli ambiti applicativi dell’approccio tradizionale. Il modello delle 4P dimostra spesso un carattere troppo prescrittivo: alcuni autori hanno quindi tentato di aggiornare e ampliare il modello, ma sostanzialmente senza portare drastici cambiamenti agli standard del classico tablet of faith (Grönroos, 1994). Tra gli adattamenti più noti nella letteratura, Booms e Bitner (1981) teorizzano il modello delle 7P, sottolineando l’importanza di tre nuove variabili: People, Physical Evidence e Process. Baumgartner (1991), invece, propone un modello con 15P. Nel modello del megamarketing, Kotler (1986) afferma la necessità, per imprese che vogliono entrare in mercati protetti da alte barriere all’ingresso, di ampliare la classica lista delle 4P aggiungendo altre due variabili, Public Relations e Politics, riferite rispettivamente a strategie di pressione e di attrazione 15 verso le persone e i gruppi che dispongono di capacità di influenza sulle scelte che vengono attuate in quei mercati. Christopher et al. (1991), invece, adottano il modello delle 7P, ma evolvendolo e aggiungendo il Customer Service, come elemento centrale. Kotler et al. (1999) propongono un approccio differente: gli autori sottolineano come le tradizionali 4P rappresentino il punto di vista dell’azienda che produce e vende i suoi prodotti nel mercato. Sarebbe auspicabile, invece, adottare una reale prospettiva customer-oriented: le 4P si trasformano così nelle 4C (Lauterborn, 1990), dove la ricerca del valore per il consumatore si sostituisce alla pura vendita del prodotto da parte dell’impresa (Figura I.2.2-1). Figura I.2.2-1. Alcuni adattamenti al modello delle 4Ps 6Ps 7Ps 15Ps 4Cs Product, Price, Promotion, Place, Public Relations, Politics. Product, Price, Promotion, Place, People, Physical Evidence, Process. Product/Service, Price, Promotion, Place, People, Politics, Public Relations, Probe, Partition, Prioritize, Position, Profit, Plan, Performance, Positive Implementations. Custumer needs and wants; Cost to the user, Communication, Convenince. Fonte: elaborazione propria Secondo Grönroos (1996), il tradizionale marketing mix potrebbe essere ancora utilizzato, ma altri elementi, che spesso non sono considerati attività caratteristica 16 della funzione marketing, andrebbero presi in considerazione: ad esempio, logistica, installazione, sostituzione o riparazione, assistenza, reclami, formazione rivolta al cliente. Anche Gummesson (1994) sostiene che il classico marketing mix sia ancora necessario, ma sta diventando sempre più marginale rispetto alla gestione delle relazioni che l’azienda crea con i suoi stakeholders7. In ogni caso, nonostante il tentativo di molti autori di evolvere il modello delle 4P, il marketing management si è tradotto nella semplice gestione della quattro variabili principali, senza prendere in considerazione il vero significato e le possibili conseguenze che una vera applicazione del marketing concept può portare (Grönroos, 1994). Nel tool-box approach manca totalmente la visione dell’elemento relazionale, il fattore umano che spesso guida i rapporti di business. 7 Altri autori sono stati molto più radicali nelle critiche al tradizionale marketing mix. In un articolo recente, pubblicato dal Journal of Marketing, van Waterschoot e Van den Bulte (1992) sotengono che il problema è in realtà di natura teoretica. Gli autori scrivono: “To our knowledge, the classification property or rationale for distinguishing four categories labelled ‘product’, ‘price’, ‘place’ and ‘promotion’ have never been explicated…Though casual observation of practitioners, students, and textbooks suggest a general consensus to classify marketing mix elements in the same categories, the lack of any formal and precise specification of the properties or characteristics according to which marketing mix elements should be classified is a major flaw”. Gli autori identificano poi tre principali punti di debolezza del modello delle 4P: “The properties or characteristics that are the basis for classification have never been identified. The categories are not mutually exclusive. There is a catch-all subcategory that is continually growing.” 17 I.2.3. La visione limitata del marketing tradizionale La terza critica è fortemente legata alla precedente. Innanzitutto, viene negato il valore oggettivo e universale delle conoscenze e dei modelli interpretativi originati dagli studi di marketing8. Il tradizionale marketing mix non si adatta perfettamente ad altri campi del marketing come il service marketing e l’industrial marketing, dove le relazioni personali giocano spesso un ruolo decisivo. In realtà, il modello delle 4P sembra essere spesso inappropriato anche nel contesto del business to consumer (B2C) (Gummesson, 2002): infatti, molte aziende che operano nel settore del B2C si trovano spesso a instaurare relazioni di business anche con altri soggetti. Ad esempio, molte aziende industriali tipiche del mercato al consumo, prima di arrivare ai loro consumatori finali, devono prima vendere ai vari distributori: grande distribuzione, ma anche ristoranti, mense, ospedali. Questo significa che una azienda si può trovare ad operare 8 L’abbandono dell’empirismo logico come fondamento del metodo scientifico a favore di criteri epistemologici di tipo relativistico apre la strada alla nascita di paradigmi alternativi a quello dominante, superando una impostazione che fino ad allora aveva teso a ricondurre in un quadro organico unitario tutti i diversi approcci, comprimendone le peculiari potenzialità (Ferrero, 1992). L’empirismo logico, infatti, afferma che la scienza è epistemologicamente unica, in quanto esistono regole universali per accertare la validità delle teorie proposte; che il sapere scientifico è assoluto e cumulativo; che la scienza progredisce attraverso l’acquisizione, mediante verifiche empiriche, di molteplici conferme alle ipotesi dedotte dalle teorie elaborate. Le teorie relativistiche-costruzionalistiche, invece, sostengono che è possibile un pluralismo epistemologico in quanto possono essere elaborati criteri diversi per valutare la validità delle teorie; che lo sviluppo del sapere scientifico è solo in parte cumulativo. 18 contemporaneamente sia nel settore B2C sia nel B2B; e nel mercato odierno questo fenomeno è sempre più frequente se non la normalità. Figura I.2.3-1. Dalla singola transazione alla costellazione di relazioni Supplier Customer Transazione lineare supplier-customer Suppliers Competitors Customers Company Employees Influencers Distributors Costellazione di relazioni Fonte: adattamento da Godson (2009) Questa potenziali dualità di approccio richiede un sistema flessibile che il modello prescrittivo delle 4P da solo non può assicurare. Affermare l’esistenza di differenti tipologie di clienti è invece un concetto fondamentale in prospettiva relazionale: 19 ogni cliente ha le proprie caratteristiche e deve essere gestito con strumenti ad hoc (Figura I.2.3-1). Questa visione espande considerevolmente la semplice relazione lineare suppliercustomer fino a trasformarsi in una costellazione di relazioni tra l’azienda e i vari soggetti con cui entra in contatto (Godson, 2009). In aggiunta, molte aziende manifatturiere sono ora coinvolte anche nell’ambito del service marketing, spesso sotto forma di formazione, servizi finanziari, assistenza al cliente pre e post-vendita. Nell’attuale contesto competitivo, questi servizi accessori stanno diventando cruciali per la vendita del prodotto, soprattutto in funzione di un acquisto ripetuto in futuro. Eppure quest’area è stata spesso sottovalutata dal teoria transazionale del marketing (Gummesson, 2002). Un altro aspetto trascurato dal paradigma tradizionale è la proiezione nel futuro della relazione: una volta venduto il prodotto, al miglior prezzo, con la promozione più efficace nel canale desiderato, la transazione si può considerare terminata. E ad ogni transazione successiva il processo prende avvio di nuovo dall’inizio; non viene fatta alcuna distinzione tra una transazione reiterata nel tempo e una nuova transazione: entrambe hanno lo stesso valore. Evolvendo invece in ottica relazionale, il vero obiettivo diventa invece il mantenimento e lo sviluppo del rapporto con i clienti consolidati, piuttosto che a quello dell'acquisizione di clienti nuovi. Questo comporta la necessità di una prospettiva temporale più ampia e capace di includere da un lato l'apprendimento, 20 dall'altro le aspettative. In tale visione, ogni scambio non può essere considerato come un'entità a sé stante, ma assume un preciso significato in funzione della sua interconnessione con episodi passati e futuri. I.2.4. La stagnazione del marketing come area di studio L’ultimo filone di critica al paradigma tradizionale di marketing riguarda la sua scarsa evoluzione (Gummesson, 1987). Molti Autori hanno semplicemente aggiunto nuovi strumenti al classico tool-box delle 4P (evolvendo in 7P, 15P, 4C, ecc…), ma senza portare reali innovazioni al concetto di marketing. Al contrario, altre aree come l’operations management o il financial management hanno fatto dei grandi passi avanti: basti pensare alla teorie del just in time (JIT), del total quality management (TQM),dell’activity based costing (ABC), del business process re-engineering9 (BPRE). La ricerca nell’area del marketing sembra avere invece orizzonti limitati, sembrando in alcuni casi quasi “miope”10 (Arndt, 1980), concentrandosi spesso più su questioni metodologiche che su problemi sostanziali. 9 Doyle (1995) sostiene che mentre nelle altre aree le nuove teorie si sono concentrate sui core processes, “marketing has just tinkered around with the components”. 10 Arndt (1980) scrive “Research in marketing gives the impression of being based on a conceptually sterile and unimaginative positivism…The consequence is that most of the resources are directed toward less significant issues, overexplaining what we already know, and toward supporting and legitimizing the status quo”. 21 Una ricerca svolta Denison e McDonald (1995) ha inoltre messo in luce alcuni aspetti problematici della funzione marketing all’interno di molte organizzazioni: secondo gli Autori, il marketing sembra avere una scarsa reputazione, spesso autoreferenzialità e un basso livello di integrazione con le altre funzioni organizzative. L’immagine dell’ufficio marketing sembra essere particolarmente negativa soprattutto quando viene vista come “una funzione di supporto alle vendite”. L’approccio organizzativo inerente al marketing mix management paradigm non aiuta a risolvere questo problema (Grönroos, 1990; Pierce, 1992). Sia nella letteratura di marketing sia nella pratica aziendale, l’espressione “marketing department”, in riferimento all’unità organizzativa, viene spesso usato erroneamente come sinonimo di “marketing function”, che invece rappresenta quel processo che mira a soddisfare i bisogni e desideri del cliente. Secondo Denison e McDonald (1995), si è venuta a creare una scissione culturale11 tra il marketing e le altre aree aziendali. Questa distacco rappresenta un grave errore a livello strategico, soprattutto in un’era di consumatori esperti, intensa competizione e rapido sviluppo tecnologico: in questi contesti, sarebbe 11 Grönroos (1982) sostiene: “The psychological effect on the rest of the organization of a separate marketing department is, in the long run, often devastating to the development of a customer orientation or market orientation in a firm. A marketing orientation with, for example, high-budget advertising campaigns may be developed, but this does not necessarily have much to do with true market orientation and a real appreciation for the needs and desires of the customers. The existence or introduction of such a department may be a trigger that makes everybody else lose whatever little interest in the customers they may have had.”. 22 auspicabile al contrario raggiungere il massimo grado di integrazione12 tra la funzione marketing e le altre aree organizzative, e in particolare tra la funzione marketing e l’area commerciale. Avere una “funzione di marketing integrata” significa essere capaci di fornire a tutte le altre funzioni aziendali quelle informazioni market-related di cui l’azienda ha bisogno per essere realmente market-oriented e raggiungere lo stadio di co-ordinated marketing (Piercy, 1992). Inoltre, secondo l’approccio relazionale, la funzione marketing ha un ruolo più ampio e di natura diversa nella gestione dei rapporti impresa e ambiente. Il marketing non deve perseguire il fine di ridurre la complessità dell’ambiente, ma quella di creare le condizioni per accrescere la capacità dell’impresa di comprendere, gestire e valorizzare la complessità (Cozzi, 1988). Le relazioni con i clienti devono essere indirizzate da un lato a favorire una migliore comprensione della varietà e variabilità della domanda, dall’altro a sviluppare processi di adattamento e di apprendimento nel produttore e nell’utilizzatore dei prodotti, che consentano una piena valorizzazione delle risorse da essi possedute e un ampliamento delle potenziali soluzioni adottate per risolvere eventuali problemi. La funzione marketing ha il ruolo di favorire una più efficace integrazione tra l’impresa e l’ambiente operando in diverse direzioni: 12 Procter&Gamble, ad esempio, ha ridotto il personale della funzione marketing centrale, creando invece delle piccole business units nelle diverse aree aziendali, in modo da diffondere la cultura di marketing in tutta l’azienda. In ogni caso, il marketing sembra essere necessariamente costretto ad un cambiamento (Kashani, 1996). 23 1. ampliando le risorse attivabili dall’impresa, grazie alle relazioni instaurate con gli altri attori e riducendo i vincoli che ne condizionano le possibilità di azione; 2. favorendo la personalizzazione delle prestazioni offerte e la partecipazione degli utilizzatori alla loro progettazione; ciò deve avvenire accrescendo le capacità di autospecificazione delle aspettative da parte degli utilizzatori, sia rendendoli consapevoli delle possibilità offerte dalla tecnologia, sia attribuendo loro un ruolo attivo nei processi di ricerca volti a dilatare tali possibilità; 3. creando le condizioni di sviluppo di forme di efficace collaborazione tra produttore e utilizzatori, funzionali alla ricerca di percorsi di sviluppo convergenti, che possano rendere compatibili i sistemi di vincoli ed obiettivi che orientano i loro comportamenti. Ciò richiede linguaggi comuni, obiettivi condivisi, fiducia reciproca, strutture organizzative e sistemi tecnici compatibili. E’ il marketing che deve costruire queste fondamenta sulle quali sviluppare le relazioni e fondare poi la forza competitiva dell’impresa. 24 I.3. Lo sviluppo del Relationship Marketing A seguito delle riflessioni che hanno interessato il paradigma tradizionale di marketing si sviluppa un approccio innovativo: il relationship marketing. La prospettiva relazionale (relationship perspective) viene a sostituire la prospettiva transazionale (exchange perspective) quale fenomeno principale all’interno della disciplina del marketing. Berry (1983) fu uno tra i primi Autori ad introdurre il termine di relationship marketing come moderno concetto di marketing. Nei suoi primi tentativi definitori, l’Autore lo definì come “un approccio di marketing volto a cominciare, mantenere e migliorare le relazioni con i clienti”. Il contributo di Berry va valutato soprattutto con riferimento all’impegno esercitato nel tentativo di costituire una vera e propria teoria di marketing relazionale, indipendente dagli approcci precedenti13. Inoltre, questa prima definizione attribuisce la stessa enfasi all’attività di attrarre e mantenere relazioni con il consumatore, mentre l’obiettivo prioritario del marketing tradizionale era semplicemente quello di conquistare nuovi clienti attraverso la leva della comunicazione e promozione. 13 Su questo punto, un punto di svolta è l’articolo di Berry e Parasuraman del 1993 in cui viene proposta l’autonomia teorica del marketing relazionale: “Building a New Accademic Field – The Case of Services Marketing”, in Journal of Retailing, vol. 60, Spring. 25 Questo concetto viene esplicitato molto chiaramente nella definizione proposta da Christopher et al. (1991): “relationship marketing has as its concern the dual focus of getting and keeping customers”. Molte definizioni si sono susseguite nel tempo, ognuna delle quali volta ad esaltare differenti aspetti della relazione. Grönroos (1990) sottolinea l’importanza della visione di lungo periodo: “relationship marketing relates marketing to the development of long-term relationships with customers and other parties”. Gummesson (1994), invece, dà maggiore enfasi al concetto di rete e di interazione: “relationship marketing is marketing seen as relationships, networks and interaction”. In termini più generali, Grönroos (1991) sostiene che il relationship marketing può essere definito all’interno di un concetto di marketing allargato: “Marketing is to manage the firm’s market relationship.”. La definizione implica una visione del marketing strettamente connessa alle relazioni che l’azienda intrattiene con il suo ambiente. L’Autore sostiene che il marketing deve prevedere necessariamente tutti le azioni volte alla creazione e alla gestione delle relazioni che l’azienda instaura con i suoi stakeholders: clienti, distributori, fornitori, partners, competitors, etc. 26 Nel 1994, Grönroos fornisce la definizione di marketing relazionale più completa ed esaustiva14, sostenendo che il principale obiettivo del relationship marketing è di ”identify and establish, maintain and enhance and, when necessary, terminate relationships with customers and other stakeholders, at a profit so that the objectives of all parties involved are met; and this is done by mutual exchange and fulfillment promises”. Dalla definizione emergono quattro principi chiave (Gummesson, 1997): 1. Il concetto di marketing management viene inteso in senso piú ampio come marketing-oriented company management: il marketing management richiede un orientamento al marketing di tutte le aree aziendali e non solo della specifica funzione marketing. Per descrivere in modo efficace questo concetto, Gummesson individua due tipologie di soggetti: i full-time marketers (FTMs) e i part-time marketers (PTMs). L’obiettivo é quello di evidenziare come tutti all’interno dell’azienda, indipendentemente dalla loro funzione di appartenenza, possano influenzare la relazione con il cliente. 2. Collaborazione stabile e duratura nel tempo e approccio win-win. La relazione crea un valore per tutti i soggetti coinvolti15. In questa ottica il 14 Harker (1999) scrive: “of all the definitions collated it can be argued that the definition presented by Grönroos (1994) is the ‘best’ in terms of its coverage of the underlying conceptualizations of relationship marketing and its acceptability throughout the RM community”. 15 Baker (1976) definisce il marketing come “mutually satisfying exchange relationships”. Questa visione é supportata da una definizione piú recente proposta da Lusch & Vargo (2006) secondo cui 27 relationalship marketing adotta un approccio win-win, piuttosto che winlose. La relazione é un plus sum game, in cui ogni partner crea e acquisisce valore, e non gioco a somma zero (zero sum game), in cui il guadagno di un soggetto è perfettamente bilanciato da una perdita dell’altro soggetto. Inoltre, estendere la durata della relazione diventa il principale obiettivo del marketing: troppo spesso l’enfasi viene concentrata sull’acquisizione di nuovi clienti, prestando poca attenzione alla clientela attuale. Il relationship marketing invece enfatizza in primo luogo il ruolo della customer retention, attivitá primaria rispetto all’acquisizione di nuovi clienti (marketing attraction). 3. Tutte le parti sono attive e assumono responsabilitá. Contrariamente a quanto stabilito dalle teorie tradizionali del marketing, il fornitore non é necessariamente l’unica parte attiva nello scambio. Nel settore BtoB, ad esempio, é il cliente spesso a chiedere nuovi prodotti/servizi o a spingerlo verso un maggiore livello di innovazione. Un altro esempio nel settore CtoC é invece rappresentato dall’irrefrenabile sviluppo del web (chat, social network, ecc...), il quale permette di raggiungere i propri clienti in tempo reale e a costo zero. In questo modo, non solo si espande il grado di interazione customer-to-customer, ma anche le aziende possono ora avere “marketing is the process in society and organisations that facilitates voluntary exchange through collaborative relationships that create reciprocal value through the application of complementary resources”. 28 a disposizione un elevato numero di informazioni, cu cui poi costruire le proprie politiche di marketing. La relazione, infatti, non è rivolto solo allo scambio di risorse già esistenti e con un valore pre-definito, ma genera processi di apprendimento e di adattamento, che contribuiscono ad accrescere il valore delle risorse direttamente controllate dai soggetti coinvolti, specializzandole in funzione dei loro utilizzi (Snehota, 1992) e creando le condizioni affinchè possano essere sfruttate le sinergie ottenibili da un loro uso congiunto. 4. Relazione e servizio invece di legami burocratici-contrattuali. Il relationship marketing richiede dei valori fondati sulla relazione e sul servizio, dove ogni cliente è un mercato a sé e viene riconosciuto per le sue singole peculiarità ed esigenze. Si afferma un modello cooperativo di gestione del rapporto organizzazione-mercato che si affianca e talvolta prevale rispetto ad una visione di tipo competitivo, che vede l’impresa inserita in un sistema di concorrenza allargata regolato da rapporti di forza contrattuale. Quindi, un’organizzazione che compete come singola entità, seppur inserita in una catena del valore di fornitori e clienti (Porter, 1984). I clienti, inoltre, non sono più entità anonime ed omogenee, ma soggetti con caratteristiche specifiche e differenziate. Il cliente é la vera fonte del valore; comprenderlo e soddisfare i suoi bisogni/desideri gli unici strumenti per creare profitto. 29 Il posizionamento strategico e lo sviluppo di competenze distintive non dipendono più dalla capacità di adattamento all’ambiente e dall’efficacia nel combinare i fattori di produzione direttamente controllabili, ma dalle capacità relazionali dell’impresa, dal complesso di risorse che, attraverso le relazioni, essa riesce a mobilitare, dalla crescita delle conoscenze e dalla valorizzazione delle risorse possedute conseguibili attraverso i processi di interazione tra imprese (Ferrero, 1992). Come suggerisce Bagozzi (1975), sebbene la maggior parte degli scambi si basa su una transazione di mercato, il valore creato in uno scambio va al di là della componente economica ed è da ricercare nel contenuto sociale e psicologico che caratterizza l’esperienza di ciascuno dei partecipanti16. In tal senso vale anche ricordare l’osservazione di Vaccà (1986), secondo il quale la focalizzazione sulla transazione, in quanto tale, finisce per far perdere di vista la natura complessa dei rapporti tra i soggetti economici, i quali non sono mai isolabili, ma trovano significato economico solo in un coordinamento complessivo con tutte le altre relazioni che l’impresa stringe con l’esterno. Elemento innovativo di tale approccio è, dunque, la centralità e l’interattività dei rapporti che si sviluppano tra le parti: entrambi gli attori coinvolti ricoprono, infatti, un ruolo attivo nelle transazioni poste in essere. Il modello di scambio 16 Sulla stessa linea di pensiero, Wilson (1972), concependo la struttura del mercato come il risultato di relazioni di lungo periodo tra fornitori e acquirenti, sostiene che l’analisi dei fattori sottostanti a simili relazioni non possa essere affrontata attraverso i tradizionali strumenti del marketing management. 30 preso a riferimento si caratterizza per la bi-direzionalità, ed assume caratteristiche di maggiore complessità, in quanto non riguarda più solamente beni e denaro, ma anche informazioni e rapporti di natura sociale. Ulteriore elemento distintivo è l’evoluzione dell’orizzonte temporale di riferimento che in questo ambito si individua nel medio-lungo periodo, in quanto le relazioni richiedono tempo per essere analizzate, costruite e mantenute. La tabella sottostante (Figura I.3-1) riassume le determinanti che caratterizzano le due diverse tipologie di marketing: transazionale e relazionale. Figura I.3-1. Marketing transazionale e relazionale a confronto Focus Enfasi Orizzonte temporale Customer service Customer contact Concetto di qualitá Transaction marketing Singola transazione e volume d’affari. Caratteristiche del prodotto. Breve periodo Bassa importanza. Basso livello. Qualitá del prodotto. Relationship marketing Customer retention e customer loyalty. Customer value. Lungo periodo. Alta importanza. Alto livello. Qualita della relazione. Fonte: adattamento Christopher, Payne e Ballantyne (1991) 31 I.4. Il valore aggiunto della relazione Il processo di creazione del valore per il consumatore è diverso nella prospettiva relazionale rispetto alla prospettiva transazionale (Sheth & Parvatiyar, 1995). Nel modello tradizionale di marketing, il valore per il cliente viene creato unicamente dall’azienda e incorporato nel prodotto/servizio che poi viene distribuito/erogato al consumatore. Questo significa che l’azienda si occupa principalmente di distribuire il valore (distribution of value). Il focus del marketing in questo caso è quello di gestire l’outcome del processo di produzione e “the exchange of value for money”, oltre ad effettuare adeguate ricerche di mercato per creare quel valore che il cliente si aspetta. Nella prospettiva relazionale, il valore non è predeterminato dall’azienda e inglobato nel prodotto. Al contrario, il valore è creato tramite la relazione instaurata con il consumatore e spesso anche tramite le interazioni con il distributore e gli altri soggetti che entrano in gioco nella relazione. Si può affermare che il valore è co-creato17 dai soggetti in relazione (Prahalad & Ramaswamy, 2004). La relazione può aggiungere valore in tre diversi modi (Figura I.4-1): 1. meeting customer requirements; 17 Prahalad & Ramaswamy (2004) sostengono che il futuro della competizione risiede in un nuovo approccio alla creazione del valore basato su un “individual-centered co-creation of value” tra l’azienda e il consumatore. Il concetto di co-creazione di valore con il si basa sulla capacità delle imprese di costruire e gestire “lo spazio competitivo che si forma intorno ad esperienze personalizzate del cliente, attraverso interazioni attive tra il consumatore e l’impresa”. 32 2. trust and belonging; 3. the personal trust. Figura I.4-1. The value added by relationship Meeting customer requirements VALUE ADDED BY RELATIONSHIP Mass customization Customized comunication Personal and social networks Trust and belonging Business network Customer interaction The personal touch Personal service Fonte: Godson (2009) I.4.1. Meeting customer requirements La customizzazione è una strategia quasi obbligata per creare il vantaggio competitivo nei mercato globali. I consumatori chiedono prodotti ad hoc e le aziende devono saper generare offerte adatte in condizioni di alta efficienza, secondo una schema che ha portato all’affermazione del micro marketing, del 33 marketing individuale o anche alla one-to-one relationship, strategia fortemente potenziata dallo sviluppo di internet. La mass customization (“personalizzazione di massa”) viene definita come un approccio di business che consente di fornire prodotti o servizi personalizzati a consumatori individuali o segmenti di nicchia su larga scala e con tecnologie flessibili, senza la perdita dei benifici della produzione di massa (efficienza, produttività, qualità, contenimento dei costi e velocità di risposta). Questo impone all’azienda orientata al cliente un diverso approccio gestionale, che deve passare da un modello MTS (make to stock, produrre per il magazzino) al più evoluto BTO (build to order, produrre su commessa)18. La flessibilità del sistema di produzione risulta così importante: non significa solo produrre nuovi prodotti, ma avere anche la capacità di adeguarsi alla domanda in termini qualitativi, quantitativi e in tempi di risposta. Anche se la tecnologia ne ha ridotto notevolmente i costi, la customizzazione richiede un alto grado di flessibilità organizzativa, forti capacità di relazione con la domanda, abilità di progettazione, programmazione e riorganizzazione dei processi aziendali. Per molte aziende, la customizzazione si associa ad un incremento della complessità e ad una riduzione dei tempi dei cicli di progettazione-produzione-consegna, che diviene importante fattore critico di 18 Pine (1997) sottolinea l’importanza del modello di mass customization: “Le imprese orientate alla produzione di massa non sono in grado di servire il mercato così come si configura oggi: il processo di frammentazione che ha, rende inadeguate le economie di scala e i sistemi rigidi e dedicati su cui si basa la produzione di massa”. 34 successo nella considerazione che può essere molto difficile prevedere quello che il mercato potrà chiedere. In ogni modo, il potenziale espresso della mass customization si traduce in notevole fonte di vantaggio competitivo19, in quanto è il cliente stesso che attribuisce valore all’offerta attraverso una forte mediazione del marketing interattivo. Il rapporto è proficuo per entrambe le parti: l’azienda ottiene in modo semplice informazioni utili per riuscire a soddisfare le esigenze del cliente (e il costo marginale della singola transazione diminuisce); il cliente, invece, si sente pienamente soddisfatto e ha fiducia nell’azienda. Il valore per un’impresa non è in funzione del prodotto, ma in funzione del cliente. Esistono quattro forme principali di mass customization: 1. combination of options (modularità): il tradizionale processo di sviluppo di nuovi prodotti viene lentamente ad essere sostituito da piattaforme di personalizzazione di massa che consentono ai clienti di progettare prodotti 19 I benefici che si ricavano sono sono molteplici: - possibilità di sottoporre al cliente più alternative di acquisto; - riduzione/eliminazione dell’obsolescenza commerciale; - riduzione del gap di sacrificio per il cliente tramite l’identificazione delle common uniqueness (ovvero delle differenze nelle preferenze manifestate dai clienti di un prodotto/servizio); - possibilità di ottenere prezzi più elevati; - possibilità di differenziare e personalizzare il prezzo, riducendo la possibilità di adattamento da parte dei competitor; - miglioramento anche dei prodotti standard attraverso verifica continua delle esigenze e preferenze del mercato; - possibilità di assumere un ruolo importante nel portafoglio fornitori del retailer. 35 e servizi; la personalizzazione è realizzata attraverso la combinazione di diverse configurazioni, ottenibili dalla scelta di molteplici componenti modulari; in questo modo, il cliente si sente padrone delle proprie scelte e possessore di un prodotto unico e inimitabile; 2. postponement: si basa sull’idea di progettare i prodotti usando piattaforme comuni, componenti o moduli, grazie ai quali la personalizzazione avviene solo durante l’assemblaggio finale, quando le richieste del cliente sono note20; 3. personalization (personalizzazione): il prodotto stesso incorpora al proprio interno un potenziale di varietà: è un singolo attributo che offrendo una varietà di soluzioni permette di personalizzare il prodotto21; 4. bespoke products: sono prodotti o servizi che vengono creati interamente secondo le richieste del cliente (ad esempio, gli abiti da sposa o i vestiti su miura); di solito sono molto costosi, ma rappresentano il massimo della personalizzazione, in quanto la relazione strettamente one-to-one è la base per la creazione di un prodotto/servizio impossibile da imitare. 20 I vantaggi di questa strategia sono molteplici: riduzione del magazzino prodotti finiti; i sottoinsiemi possono essere combinati in modi diversi consentendo una notevole profondità della gamma prodotti; le previsioni sono più semplici a livelli di sottoinsieme che a livello di prodotto finito (Van Hoek, 1998). 21 Gilmore & Pine (1997) definiscono questo fenomeno come “cosmetic customization” e spiegano: “Cosmetic customizers present a standard product differently to different customers. The cosmetic approach is appropriate when customers use a product the same way and differ only in how they want it presented. For example, the product is displayed differently, its attributes and benefits are advertised in different ways, the customer’s name is placed on each item, or promotional programs are designed and communicated differently”. 36 La mass customization non si ferma solo a livello di prodotto. La comunicazione, e in particolare la mass comunication, rappresenta il principale veicolo con cui instaurare l’interazione tra azienda e cliente. Tradizionalmente, il promotion mix di una azienda orientata alla produzione per il mercato di massa era incentrata sui media più diffusi, come la televisione, la stampa, le affissioni: Gordon (1998) definisce questa strategia come “broadcasting”, in quanto esclusivamente unidirezionale e diretta a un pubblico vasto e indifferenziato. In questo caso, non esiste la volontà di instaurare una relazione con il cliente né di aggiungere valore alla relazione. Oggi, le imprese vogliono “avvicinarsi” al più possibile al consumatore, al fine di costruire una comunicazione di tipo bi-direzionale, personalizzando gli strumenti e i contenuti della comunicazione secondo le caratteristiche del singolo ricevente. La linea evolutiva dei sistemi di comunicazione è chiaramente segnata in direzione dell’ipermedialità22 (Giulivi, 2004). Per le imprese, la comunicazione impermediale è una risorsa notevole nella misura in cui facilita l’acquisizione e la circolazione delle informazioni, moltiplica le opportunità di contatto, personalizza le modalità di contatto, agevola la ricerca di clienti potenziali, favorisce la logica del micro-marketing (Figura I.4.1-1). 22 La comunicazione multimediale è caratterizzata dall'uso integrato di tecnologie dell'informazione e della comunicazione che utilizzano media diversi, linguaggi diversi, strategie comunicative diverse. Il sapere ipermediale è stratificato (non necessariamente in modo gerarchico), ogni dato è affastellato su un altro, non basta voltare pagina e proseguire il ragionamento, bisogna scegliere, “saltare” e proseguire. Bisogna confrontarsi con l’intera struttura che è costituita da “spazi di sapere” che, collegati fra loro, danno vita ad una rete. 37 Figura I.4.1-1. From broadcasting to individual, two-way communication Company Customers Customer Customer Company Customer Customer Fonte: Gordon (2004) La tecnologia informatica ed elettronica23 ha consentito alle aziende di ampliare notevolmente la propria gamma di offerta superandone il trade-off costodifferenziazione; ha permesso alle imprese più capaci di abbattere significatamente i costi di produzione e ha consentito la creazione dell’azienda flessibile (Cuneo, 1993). Ha praticamente eliminato i problemi di comunicazione attraverso lo sviluppo di internet e delle reti interne; ha ridotto i tempi di quasi 23 La tecnologia è forse la variabile che ha modificato in modo più incisivo la realtà di tutti i mercati e che oggi, con il commercio elettronico, si ripropone come veicolo primario di cambiamento. La tecnologia impegna le imprese in uno sforzo di adeguamento dei processi aziendali, implica investimenti di potenziamento e riprogettazione della struttura, attività di riqualificazione delle risorse umane, nella consapevolezza che lo sforzo dovrà essere continuo e incrementale. 38 tutti i processi aziendali ed ha favorito incrementi notevoli sulla produttività delle risorse umane. I.4.2. Trust and belonging Nel paragrafo precedente è stato analizzato come la personalizzazione di massa può aggiungere valore alla relazione. Un’altra tipologia di processi che creano valore sono di natura interpersonale: tale aspetto si riflette anche nel sottolineare come le relazioni tra organizzazioni siano di fatto relazioni tra individui, dove alla dimensione non-task si affianca a quella più operativa e è suscettibile di condizionare la qualità complessiva della relazione. Un numero crescente di autori hanno enfatizzato come i legami di natura sociale possano fortemente influenzare processi e risultati (Uzzi, 1996). Il ruolo che la fiducia assolve nell’amplificare la performance relazionale discende infatti da ulteriori elementi che possono incidere sulla configurazione della partnership: il riferimento è alla propensione al rischio che gli attori manifestano rispetto alle azioni eventualmente promosse dalla controparte e al dar vita all’aggregazione stessa, nonché l’incertezza percepita circa le condizioni che caratterizzano l’ambiente economico e al il comportamento dei suoi operatori. 39 Un altro modo per creare valore aggiunto è infatti attraverso la creazione di un legame fiduciario. Il concetto di fiducia è riconosciuto come la variabile fondamentale nel processo di nascita e sviluppo di una relazione24. Secondo Dwyer, Schurr e Oh (1987) la fiducia è l’elemento fondamentale per instaurare una relazione, ponendo le basi per la cooperazione e per un rapporto interattivo. Wilson (1995) sostiene che la fiducia influenza profondamente il rapporto tra buyer e account e sull’intera attività di negoziazione: il legame fiduciario e personale sono gli “ideal outcomes” della relazione. Al contrario, se non si ottiene l’instaurarsi di questa situazione ideale fallisce, la relazione è destinata a fallire a causa di “lack of personal trust” o “incompatible personal chemistry”25. La definizione di fiducia si presenta piuttosto controversa, soprattutto per il fatto che la fiducia può essere di fatto considerata sia un input sia un output, in quanto “trust leads to increased trust” (Anderson & Narus, 1984). 24 Gli studi cui si fa riferimento riscontrano nella fiducia uno degli elementi chiave del successo relazionale. Infatti, De Jong e Woolthuis (2004) scrivono: “trust increases commitment and the willingness to accept control by other parties; trust promotes openness and increases the efficiency of relationships; trust reduces the need for monitoring, and vertical quasi-integration; trust decreases ex ante and ex post transaction costs.”. La circoscrizione che gli autori fanno del concetto di fiducia è conclusiva di un processo di analisi di altri studi che pongono al centro delle relazioni il comportamento collaborativo tra gli attori. 25 Wilson (1995) continua: “At this stage the relationship needs to reach a business friendship level. Due to the apparent absence of common culture and understanding, scope and goal definition are critical decisions for the relationship partners. In the second phase norms, that dictate standards of conduct, are adopted. In effect regulations of exchange are created and become ‘ground rules’ for future exchanges. These generalised expectations guide perceptions of social exchange and accordingly exert powerful influences upon behaviour”. 40 Secondo Anderson e Narus (1990), la fiducia26 può essere definita come lo stato psicologico di un individuo o di un gruppo verso un altro individuo o gruppo, basato sull’esperienza e l’informazione, che denota l’aspettativa da parte del primo che il secondo: 1. agirà a favore e non contro di lui; 2. sia affidabile; 3. terrà fede ai proprio impegni. La fiducia si sviluppa quando si potenziano le attività di comunicazione e cresce il livello di cooperazione (Anderson & Narus, 1990) ed è fondamentale per accrescere le aspettative di stabilità di relazione (Ganesan, 1994). La forza dei legami sociali può determinare spesso l’accesso a informazioni critiche (Hamfelt & Lindberg, 1987), sfruttando i vantaggi dell’accesso alla conoscenza condivisa con altri “nodi” della rete sociale rispetto all’appropriabilità esclusiva dell’informazione, che preclude l’attivazione di rapporti di complementarità. 26 Molti autori hanno fornito diverse definizioni del concetto di fiducia. Secondo Hurley (2006) “Trust is a measure of the quality of a relationship – between two people, between groups of people, or between a person and an organization. In totally predictable situations the question of trust doesn’t arise: when you know exactly what to expect, there’s no need to make a judgement call”. Secondo Costabile (2000) invece “la fiducia si qualifica come pregiudizio, generato da una sequenza di conferme o disconferme delle attese di comportamento (performance) che in forma di estrema razionalità si concretizza in una probabilità assegnata al verificarsi di un dato comportamento (una performance) di una definita controparte (un’impresa).”. 41 Lo sviluppo di rapporti interpersonali inoltre favorisce il superamento di problemi legati al tempo, alla distanza, al linguaggio, alla cultura27 (Witkowski & Thibodeau, 1999) e riduce il livello di rischio percepito favorendo la formazione di un clima di fiducia, caratterizzato da un maggior livello di informalità (Cunningham & Turnbull, 1982). Esiste poi un certo numero di autori che afferma che la fiducia riflette la credibilità di un partner, la quale aumenta la predisposizione del cliente al mantenimento della relazione, riducendone l’incertezza e diminuendo il rischio di comportamenti opportunistici della controparte (Grönroos, 1994; Ganesan, 1994; Sheth & Parvatiyar, 1995). Quest’ultima definizione rende labile il confine tra il concetto di fiducia e commitment, ritenendo quest’ultimo un elemento antecedente della fiducia. Morgan e Hunt (1994), infatti, ritengono che se una parte si fida dell’altra è altamente probabile che essa sviluppi un atteggiamento positivo nei suoi confronti, che lo porterà a desiderare di continuare la relazione. Il commitment, dunque, può essere considerato come la propensione del cliente ad intrattenere una relazione di lungo periodo con il fornitore (Dwyer, Schurr, & Oh, 1987; Anderson & Weitz, 1992; Scheer & Stern, 1992; Morgan & Hunt, 1994; Young & 27 In un recente studio, Witkowski & Thibodeau (1999) evidenziano la reputazione personale, la presenza di aspettative comuni, la conoscenza di un comune linguaggio e i legami etnici come precondizioni per la formazione di legami interpersonali, i quali poi si manifestano prevalentemente nelle forme di comunicazione a distanza e di visita, potendo generare fiducia e amicizia. 42 Denize, 1995; Kumar, Scheer, & Steenkamp, 1995). Tale propensione può essere di due tipi: affettiva, derivante dalla fiducia nel partner, e cognitiva, derivante dalla convinzione che essa porterà benefici maggiori rispetto al caso in cui si decidesse di interromperla. Morgan e Hunt (1994), inoltre, identificato le determinanti principali che incidono nella volontà di mantenere una particolare relazione: la congruenza dei valori (il grado in cui il cliente e l’azienda condividono alcuni valori di fondo), la congruenza degli obiettivi (il livello delle mete condivise nell’ambito della relazione), i benefici derivanti dalla relazione rispetto ai costi determinati da una pura transizione. La fiducia e l’impegno si sono dimostrate essere variabili correlate positivamente (Ganesan, 1994); in effetti, lo sviluppo di un clima di fiducia reciproca genera una aspettativa di impegno, e viceversa. Inoltre, lo sviluppo della fiducia e dell’impegno hanno la funzionale fondamentale di ridurre la percezione di rischio di comportamenti opportunistici. Se i concetti di trust e commitment erano impliciti nella tipologia di scambi cliente-artigiano precedenti alla rivoluzione industriale, con il passaggio alla produzione di massa viene a perdersi quel contatto diretto che era alla base del legame fiduciario. Nell’era industriale, i prodotti vengono prodotti in modo standardizzato nelle fabbriche e venduti tramite intermediari, perdendo così il legame diretto cliente-produttore. La situazione è rimasta inalterata fino ad oggi. 43 I produttori che non possono raggiungere il consumatore in modo diretto, sono dovuti ricorrere a metodi indiretti di creazione e sviluppo della fiducia e dell’appartenenza, principalmente attraverso lo strumento del branding28. In ogni modo, ci sono numerosi esempi nel B2C, B2B e nel marketing dei servizi che dimostrano come l’importanza di un legame personale o di una rete sociale possa accrescere di molto la propensione ad attivare una relazione di business. I.4.2.1. L’approccio interattivo L’importanza dell’interazioni tra imprese era già stata stabilita prima della nascita della filosofia del relationship marketing. Nella seconda metà degli anni Ottanta, l’Industrial Marketing and Purchansing Group (IMP) costituito nel 1976 da un gruppo di ricercatori29 delle università di Uppsala, Bath, Munich, UMIST, ESC Lyon inizia a sviluppare schemi interpretativi adatti a descrivere la realtà dei mercati industriali, concentrando sull’analisi delle relazioni diadiche che si instaurano fra specifiche coppie di 28 Secondo Palmer (1996), i consumatori non hanno più bisogno di avere fiducia della marca o, direttamente, nei produttori, in quanto “their increased confidence has reduced their need for risk reduction”. 29 Questo gruppo di lavoro nasce in Svezia, avendo come centro di riferimento principalmente l’Università di Uppsala, con l’obiettivo di condurre una ricerca empirica sugli approcci di marketing seguiti dalle imprese nel settore dei beni industriali. L’IMP era inizialmente formato da studiosi europei di varia provenienza: J.P. Valla e M. Perrin, francesi; M. Kitschker, tedesco; I. Snehota, italiano; J. Johanson, svedese; M. Cunningham, P. Turnbull, D. Ford e E. Homse, britannici. 44 fornitori ed acquirenti di beni industriali. In particolare, si tenta di verificare se i rapporti commerciali che si sviluppano in questo particolare settore presentino caratteristiche riconducibili a quelle dei beni di largo consumo, oppure proprie specificità. Le ricerche condotte dall’IMP portano alla nascita del cosiddetto interaction approach, il quale afferma che il rapporto diadico non si caratterizza per un insieme di azioni e reazioni, bensì per un sistema di interazioni, sia fra le singole organizzazioni, sia fra gli individui appartenenti alle stesse. In tale approccio la relazione diadica è definita come l’interazione socioeconomica tra due imprese, non finalizzata solo allo scambio di beni, servizi e denaro, ma anche alla nascita di relazioni sociali30. Ben presto, però, ci si accorge che l’approccio interattivo ha un limite principale: quello di isolare la relazione, trascurando gli effetti dell’ambiente sulla relazione stessa. Ci si rende conto che ogni impresa è inserita in un’insieme di relazioni, le quali, non solo si influenzano a vicenda, ma congiuntamente influenzano l’impresa. Si afferma un altro tipo di approccio: il network (Thorelli, 1986). L’approccio network rappresenta un ampliamento ed evoluzione dell’approccio interattivo; l’analisi si concentra, in questo caso, sulle relazioni multipolari che coinvolgono le imprese31. 30 Come sostiene Hakansson (1995), il mercato è sempre stato descritto come qualcosa di impersonale, un concetto esterno su cui poi calere tutte le relazioni; in realtà, il mercato è composto da venditori e acquirenti con la propria individualità e soprattutto con una specifica personalità. 45 L’ipotesi di fondo è che le relazioni che si possono sviluppare tra due soggetti siano condizionate da quelle che questi già intrattengono con terze parti. Per considerare quindi le possibilità di sviluppo e gestione delle relazioni, è necessario prendere in considerazione l’intero network in cui le imprese si trovano inserite. Proprio la posizione ed il ruolo che gli operatori detengono all’interno di queste strutture complesse ed organizzate determinano la qualità e quantità delle risorse e competenze che possono mobilitare (Hakansson, 1987). L’organizzazione ed il coordinamento necessari a consentire la sopravvivenza del network non vengono realizzati né per via gerarchica né mediante il meccanismo dei prezzi, ma attraverso le interazioni cooperative che si sviluppano tra gli operatori coinvolti, ciascuno dotato di una propria autonomia decisionale. In questo contesto l’impresa perde parte della sua connotazione di unità autosufficiente per divenire un’entità i cui confini sono destinati a modificarsi proprio in funzione delle relazioni poste in essere e le cui potenzialità di azione sono determinate dallo sviluppo del suo patrimonio relazionale. È in questo contesto che lo scambio viene considerato sotto un’altra luce, rivalutandone, in particolare, la sua componente psicologica e sociale, 31 Lo sviluppo dell’approccio è sostanzialmente il prodotto del lavoro congiunto di due gruppi di ricerca: il primo dell’Università di Uppsala in cui emerge il lavoro di Hakansson e Johansson che privilegia gli aspetti processuali che caratterizzano le relazioni all’interno dei network; il secondo della Stockholm School of Economics in cui emerge il lavoro di Mattsson che privilegia, invece, l’analisi degli aspetti strutturali dei network. 46 l’importanza degli attori in esso coinvolti e il sistema più ampio di relazioni complesse e durature nel tempo. La relazione sociale può essere definita operativamente come il fascio dei differenti legami che intercorrono tra coppie di soggetti i cui percorsi di azione sono reciprocamente orientati (Chiesi, 1999). Il passaggio dal concetto di legame a quello più complessivo di relazione appare in definitiva semplice: una relazione si compone di più legami. Inoltre una relazione può essere caratterizzata dalla prevalenza di un legame o dal compresenza di diversi tipi di legami tra loro congruenti, oppure comportare un certo grado di ambivalenza specie laddove i legami contraddittori coesistono internamente alla stessa relazione. Esistono principalmente due tipi di reti interpersonali: le relazioni sociali che si instaurano al di fuori del contesto aziendale e le relazioni puramente di business. Spesso molti rapporti di business prendono avvio da un precedente legame sociale; le reti sociali possono essere: - formali, come club o gruppi, a cui si può partecipare solo su invito; - informali, ad esempio la famiglia, gli amici, i vicini di casa, i colleghi; - culturali, di solito definiti nei confini del luogo di nascita o dalla religione. Il ruolo dei contatti interpersonali, ovvero del contatto face-to-face, si dimostra ancora più fondamentale nelle reti di business vere e proprie: la reti di relazioni tra imprese è di carattere estensivo e non riguarda semplicemente al relazione diadica buyer-sellers, ma un’ampia gamma di relazioni all’interno l’impresa e tra imprese. 47 Le reti interpersonali garantiscono un flusso più diffuso di informazioni, che spesso viene richiesto in modo attivo, senza aspettare di riceverle in modo passivo. Il ruolo dell’interazione personale è dunque essenziale per la creazione di relazioni durature; in letteratura, si possono individuare sei diversi ruoli dell’interazione (Turnbull, 1979; Turnbull, Ford, & Cunningham, 1996): a) the information exchange role: le informazioni soft si trasferiscono solo grazie al contatto e sono complementari alle informazioni “hard”, come ad esempio prezzi, specifiche tecniche, termini del contratto, etc; lo scambio di informazioni riduce il livello di rischio percepito tra le parti e aumenta la fiducia e il rispetto reciproco (Cunningham & Turnbull, 1982); b) the assessment role: se l’interazione tra potenziali clienti e fornitori avviene in maniera sia formale sia informale, questo può innescare una valutazione sia di tipo oggettivo basata sulle rispettive competenze sia di tipo soggettivo in base allo scambio di pareri e giudizi in ambito lavorativo; c) the negotiation and adaptation role: qualsiasi tipo di relazione comporta un processo di negoziazione e adattamento; il livello di negoziazione è solitamente limitata in riferimento a prodotti standardizzati e più complessa per prodotti complessi: può prendere in considerazione diversi 48 elementi tra cui il prezzo, i termini di pagamento, poste contrattuali che devono spesso essere discusse a più livelli organizzativi; d) the crisis insurance role: alcuni contatti interpersonali sembrano formarsi senza nessuna motivazione apparente; eppure, ad un analisi più approfondita, si evidenzia come molti legami siano invece creati sotto forma di “assicurazione sul rischio”: questi contatti sono utilizzati in caso di gravi problemi e spesso in sinergia con i canali di comunicazione tradizionali; e) the social role: la maggior parte dei contatti che si instaurano hanno un ruolo prettamente organizzativo, ma esistono anche dei legami interpersonali che nascono semplicemente per una affinità personale e quindi con l’unico scopo di creare un legame sociale; f) the ego-enhancement role: l’ego enhancement avviene quando un individuo instaura una relazione con un senior manager con l’idea che questa situazione possa migliorare la sua posizione all’interno dell’organizzazione. L’effetto congiunto di questi ruoli può portare considerevoli effetti positivi sia tangibili sia intangibili. Per quanto riguarda i benefici tangibili, le relazioni interpersonali si sono dimostrate essere un ottimo volano per aumentare le performance di vendita (Ahearne, Gruen, & Jarvis, 1999) e per innescare processi innovativi (Walter, 1999). In termini di effetti intangibili, invece, si riduce il 49 rischio percepito da parte del buyer e aumenta la credibilità del fornitore (Cunningham & Turnbull, 1982). Infine, il contatto face-to-face si è dimostrato cruciale nell’instaurare un legame fiduciario e di lungo periodo (Hakansson 1982). I.4.3. The human touch L’ultimo fattore determinante per la creazione di valore attraverso la relazione è strettamente collegato all’erogazione di servizi, siano esse aziende B2B o B2C. Il marketing relazionale ha sperimentato un importante sviluppo nell’ambito dei servizi. Questo è stato favorito dalla particolare dinamicità ed attenzione alle soluzioni più innovative del settore dei servizi, in quanto ambito di applicazione nuovo per il marketing. Inoltre, le caratteristiche strutturali32 di questo settore rendono maggiormente evidenti i vantaggi che questo approccio può portare. 32 Le cinque dimensioni fondamentali del servizio sono: - gli elementi tangibili: aspetto delle strutture fisiche, delle attrezzature e del personale; - l’affidabilità: capacità di erogare il servizio promesso in modo affidabile e preciso; - la capacità di risposta: volontà di aiutare i clienti e di fornire il servizio con prontezza; - la sicurezza: competenza e cortesia degli impiegati e loro capacità di ispirare fiducia e sicurezza; - l’empatia: assistenza premurosa e individualizzata che l’azienda riserva ai suoi clienti. 50 Le specificità del settore dei servizi si riferiscono particolarmente alle caratteristiche33 del processo di erogazione/acquisto del servizio, alla bidirezionalità dei flussi informativi ed all’interdipendenza dei comportamenti degli operatori. Nell’erogazione di un servizio si assiste spesso alla sovrapposizione delle fasi di produzione, distribuzione (fisica) e consumo; il grado di complessità cresce esponenzialmente quando il servizio è inglobato nel prodotto “fisico” acquistato. Il riconoscimento della centralità del processo di erogazione del servizio rende determinante l’efficace gestione della relazione con i clienti durante tutte le fasi che caratterizzano l’evolversi del ciclo di vita del rapporto, sancendo la criticità del marketing interattivo e la crucialità dei part time marketers (coinvolti nei momenti della verità) accanto ai full time marketers (esperti di marketing). Kotler e Armstrong (1991) propongono una schema di riferimento (Figura I.4.31), definito “services marketing triangle”, per illustrare le ripercussioni di una relazione tra l’azienda, i suoi dipendenti e i clienti. Lo schema propone l’analisi di tre diversi tipi di attività di marketing, ognuno delle quali è considerata essenziale per il successo nell’erogare un servizio. 33 Nella maggior parte dei casi il potenziale cliente non è in grado di definire con esattezza la prestazione che ha richiesto fino a quando non gli viene concretamente erogata. Questo aspetto pare meno evidente nel caso in cui tra cliente ed erogatore non sussista un sostanziale divario di potere contrattuale, ed il servizio sia percepito come particolarmente critico dall’utente. La capacità di un servizio di soddisfare le esigenze del consumatore può essere quindi valutata solamente a posteriori. 51 Figura I.4.3-1. The services marketing triangle Company Internal marketing Service delivery points External marketing Customers Interactive marketing Fonte: adattamento da Kotler e Armstrong (1991) Il primo tipo, l’external marketing, riguarda molte delle tradizionali attività di marketing che sono rivolte al cliente (per esempio: promozione, distribuzione, branding). Il secondo tipo, l’internal marketing34, riguarda invece la relazione tra l’impresa e i suoi dipendenti. Il marketing interno pone l’accento su come sviluppare nel personale dipendente e nella direzione l’attenzione al cliente. Il presupposto è che il primo mercato delle organizzazioni sia rappresentato dal personale e che il requisito critico per la soddisfazione della clientela esterna sia la soddisfazione dei 34 Berry (1984) definisce il concetto di internal marketing come: “Viewing employees as internal customers, viewing jobs as internal products, and then endeavouring to offer internal products that satisfy the needs and wants of these internal customers while addressing the objectives of the organization”. 52 dipendenti (clienti interni). Gli strumenti per raggiungere questo obiettivo possono essere molteplici: remunerazione, formazione, comunicazione interna, comunicazione esterna, ecc… Il personale deve essere preparato, informato e motivato35. Il terzo tipo, l’interactive marketing, è descritto da Grönroos (1985) come l’interazione tra gli impiegati dell’azienda stessa e i suoi clienti l’azienda stessa, descritto anche come “the moment of truth” da Calzon (1987), poiché influenza in modo critico la qualità percepita dal cliente. Il fattore critico ai fini della creazione del valore e della soddisfazione della clientela è dunque rappresentato dal personale36. Gli addetti al front line, in particolare, personificano l’impresa agli occhi del cliente, costituendo uno degli elementi di maggiore differenziazione del servizio. Dalla competenza, dalle capacità relazionali e dall’orientamento al cliente dei dipendenti dipende gran parte della qualità complessiva del servizio offerto (qualità tecnica e qualità funzionale37). 35 Calzon (1987) sostiene: “only committed ad informed people performed.” Grönroos ribadisce l’importanza dell’internal marketing scrivendo che “the internal marketthe internal market of employees is best motivated for service mindedness and customer oriented performance by an active, marketing-like approach, where a variety of activities are used internally in an active, marketinglike and coordinated way”. 36 Lewis e Entwistle (1990) scrivono: “if these internal encounters are unsatisfactory, then the (external) customer may end up dissatisfied, complain, and see the fault as lying with the customer-contact employee”. 37 La qualità di un servizio è ciò che il cliente percepisce in esso. La qualità percepita (e quindi sperimentata) si sviluppa lungo due dimensioni: la qualità tecnica, o del risultato; la qualità funzionale, o del processo. La qualità totale percepita non dipende solo da quella sperimentata, ma piuttosto dal divario tra la qualità attesa e quella sperimentata. 53 Solo attraverso l’utilizzo congiunto e integrato delle tre tipologie di marketing si può instaurare la migliore relazione con il cliente e garantire il più alto livello di qualità possibile: - il marketing esterno permette la creazione delle aspettative: in questo momento viene fatta una promessa ai clienti; - il marketing interno è fondamentale per la creazione e il mantenimento della cultura del servizio e dell’orientamento al cliente fra i membri dell’organizzazione: questo passaggio rappresenta il presupposto per mantenere le promesse; - il marketing relazionale garantisce la gestione delle interazioni fra personale di contatto e i clienti e lo sviluppo di una relazione durevole: le aspettative vengono colmate e le promesse esaudite. In quest’ottica diventa cruciale per l’erogatore riuscire ad ottenere la collaborazione del consumatore ed attivare con lui un vero e proprio scambio di informazioni in modo da garantirne la soddisfazione aumentando la qualità di servizio percepita. Per il consumatore, infatti, la valutazione del servizio può risultare particolarmente onerosa e richiedere competenze non in suo possesso. Spesso, 54 inoltre, il consumatore tende a contribuire spontaneamente alla realizzazione del prodotto fisico38. Per ovviare a questa situazione il cliente è portato a ricercare una relazione stabile con un unico erogatore, basata su un rapporto di fiducia, soprattutto per quei servizi che vengono percepiti come particolarmente critici, quali ad esempio quelli finanziari e sanitari. Il rapporto di lungo periodo riduce infatti, per il consumatore, il rischio di comportamenti opportunistici da parte dell’erogatore di servizi ed i costi di negoziazione (Morgan & Hunt, 1994). Si rende indispensabile una focalizzazione della funzione marketing sulle azioni volte a garantire la relativa stabilità della base di clientela. Una clientela fedele garantisce profitti più elevati e per un orizzonte temporale più lungo in quanto il costo dell’attivazione e del mantenimento di relazioni stabili con i propri clienti è minore di quello per acquisirne di nuovi39. Gummesson (2002) descrive quattro aree critiche in cui avviene l’interazione cliente e l’azienda che eroga il servizio, che il marketing dovrebbe supervisionare costantemente: 1. l’interazione cliente-personale; 38 Il grado di partecipazione fisica, emozionale ed intellettuale del cliente al servizio dipende dalle scelte manageriali delle organizzazioni a livello di informazione, formazione e coinvolgimento della clientela. 39 Un’analisi empirica condotta su un campione di cento imprese negli anni ottanta ha dimostrato come si possano incrementare i profitti del 25% a fronte di una riduzione del tasso di perdita dei clienti del solo 5% (Reicheld & Sasser, 1990). 55 2. l’interazione cliente-processo dell’aziende erogatrice del servizio (ad esempio: on line banking, help line telefonica, ecc…); 3. l’interazione tra il cliente e l’ambiente fisico dell’azienda40; 4. l’interazione tra diversi clienti. Accanto a questa interazione esiste una componente strettamente personale che Groonros (2000) definisce “non-billable services”, contrapposta alla componente “billable”. I billable services rappresentano gli elementi centrali nell’offerta di un servizio, come la consegna, l’installazione, l’assistenza post-vendita: questi elementi sono percepiti dal cliente come costo e rappresentano il profitto per l’azienda. I non-billable services includono invece tutte le modalità di gestione della relazione, come ad esempio la gentilezza del personale, la velocità di rispondere al telefono, la maniera con cui vengono gestite le lamentele, in altre parole il risvolto umano dell’organizzazione. Anche se l’organizzazione non percepisce la componente economica di questi servizi, questi sono fondamentali per aggiungere valore al servizio erogato e creare un vantaggio competitivo. Spesso l’azienda compie un grave errore strategico non riconoscendo il loro reale valore solo perché non vengono considerati dei core services. 40 Peter e Austin (1985) hanno coniato il termine “coffee stain management” per indicare quei momenti in cui un piccolo problema può generare una percezione fortemente negativa di tutta l’organizzazione nella mente del cliente. Questo concetto nasce dall’osservazione che molti passeggeri in viaggio su diverse compagnie aeree, i quali notando una macchia di caffè sul loro tavolinetto, si chiedano poi se la compagnia aerea usi la stessa cura nelle pulizie nella manutenzione dei motori. 56 Negli ultimi anni, il settore dei servizi sta sperimentando una forte dinamicità dovuta principalmente alla tendenza verso una sempre maggiore deregolamentazione. Lo sviluppo dell’approccio relazionale al settore dei servizi ha subito una forte accelerazione grazie allo sviluppo ed alla diffusione di nuovi strumenti informativi. I primi tentativi di applicazione del nuovo approccio relazionale avevano evidenziato gli elevati costi di raccolta ed elaborazione delle informazioni necessarie per l’analisi della clientela e per la gestione delle relazioni. L’evoluzione sperimentata dalle tecnologie informative ha consentito di ridurre in maniera significativa questi costi oltre a sviluppare nuove opportunità per una gestione ancora più personalizzata della clientela. Guardando al futuro, il concetto di servizio deve rappresentare una prospettiva in ottica di creazione del valore, non una semplice categoria di offerta del mercato (Edvardsson, Gustafsson, & Roos, 2005). Il servizio deve necessariamente diventare un modo di pensare, una logica. Un altro modo di vedere il servizio è considerare “what a service should do for the customer”, in altre parole il servizio come una logica di marketing (Grönroos, 2006). Tradizionalmente nella letteratura il valore è sempre stato visto come value-inexchange, ovvero il valore veniva visto come “embedded” nel prodotto che poi viene scambiato sul mercato. Secondo la letteratura più recente, invece, il valore 57 viene creato quando prodotti e servizi sono usati dal cliente. Questo concetto viene invece definito come “value-in-use”41 (Woodruff & Gardial, 1996). Secondo la value-in-use view, le aziende e i service providers non creano valore nel pianificare i loro processi di produzione. Sono i clienti a proporre il loro value-creating process e il valore è creato grazie alla relazione con il consumatore. Il focus non è sul prodotto, ma sul processo di creazione di valore per il consumatore e insieme al consumatore42 (Grönroos, 2000): tramite il processo di interazione suppliers e customers collaborano attivamente nel processo di co-creazione del valore (Prahalad & Ramaswamy, 2004; Wikström, 1996). I.5. Modelli e approcci al relationship marketing Una volta dimostrata l’importanza della relazione nei nuovi mercati competitivi, è opportuno comprendere a quali contesti applicare questo nuovo approccio gestionale e come i vari stakeholders entrino in relazione con l’azienda. 41 Anche se l’espressione value-in-use non è stata usata spesso nella letteratura di marketing, questa nozione di creazione del valore sembra diventare ora la versione dominante. Per approfondire il concetto, si possono leggere i contributi di: Grönroos, 2000; Gummesson, 2002; Jüttner e Wehrli, 1994; Normann, 2001; Normann e Ramirez, 1993; Ravald e Grönroos, 1996; Storbacka e Lehtinen, 2001; Vandermerwe, 1996; Wikström, 1996; Woodruff e Gardial, 1996. 42 Questa visione è supportata da Vargo e Lusch (2004): “A service-centered dominant logic implies that value is defined by and cocreated with the consumer rather than embedded in the product”. 58 Molti autori hanno cercato di analizzare le diverse relazioni all’interno di modelli teorici. Il punto di partenza è il “manifesto di sfida” di Gummesson al marketing tradizionale (Tabella I.5-1). Tabella I.5-1. Gummesson’s challenge to Traditional Marketing 1. ‘The many headed customer and the many headed seller’ acknowledged the complicated networks of relationships made up of individuals within both the selling organization and the buying organization interacting with one another. 2. ‘The real customer does not always appear in the market place’ recognized that sometimes the permission or approval of an external party is required before a sale can take place, e.g. governments or shareholders. 3. ‘The customer as co-producer ’ reinforces the concept of a two-way, interactive relationship between customer and supplier and the part that the customer must play in order to effect a successful transaction. 4. ‘Market mechanisms are controlled externally’ acknowledges that traditional marketing efforts can often be distorted or undone by existing webs of relationships such as friendships, nepotism, club memberships, etc. 5. ‘Market mechanisms are brought inside the company’ raises the issue of internal buyers and sellers within an organization, where one department buys from another. 6. ‘Interfunctional dependency and the part-time marketer’—the idea that everyone in the company, not just sales and marketing personnel, plays a part in ensuring overall customer satisfaction. 7. ‘Process management and the internal customer’ extends the idea of the customerfocused organization by suggesting that everyone inside the organization should treat each other as suppliers or customers within an overall process that leads to ultimate customer satisfaction. 8. ‘Internal marketing’ suggests that the organization’s marketing efforts should be directed not only to the external market, but internally to employees too. 9. ‘Relationship quality’ reflects how the skilled handling of relationships between the buyer and the seller enhances the customer’s perception of quality. Fonte: Gummesson (1986) 59 Nel 1987, l’Autore individua nove concetti chiave che dimostrano quanto la gestione dell’attuale contesto competitivo sia ormai difficile attraverso l’utilizzo degli strumenti del marketing tradizionale. Il manifesto di Gummesson non è un vero e proprio modello, ma rappresenta il primo tentativo di sintesi della varie critiche dirette al marketing tradizionale, nonché il punto di partenza per la teorizzazione dei successivi modelli. In sintesi, le osservazioni proposte dall’Autore implicano che: - il concetto di rete e le varie interazioni devono essere fortemente prese in considerazione nelle strategie di marketing; - la gestione delle relazioni interne ad un’azienda sono ugualmente importanti tanto quanto le relazioni con l’esterno; - l’intera organizzazione deve essere customer-oriented; - la natura e l’ampiezza delle relazioni con i clienti devono essere studiate e gestite con attenzione. Il pensiero di Gummesson venne sviluppato in seguito da Morgan & Hunt (1994) e Doyle (1995), i quali tentarono di schematizzare le quattro partnership principali all’interno di un unico modello. Il modello prende in considerazione le “costellazioni” di partnership presenti nel mercato, in particolare: la partnership con il consumatore, la partnership con il fornitore, le partnership interne e le partnership esterne. Ognuna di queste 60 relazioni incide sull’efficacia delle strategie di marketing e della gestione d’impresa in generale (Figura I.5-2). Figura I.5-2. Four partnerships approach to relationship marketing Supplier partnerships: Goods suppliers Service suppliers Internal partnerships: Employees Funcional deparments Internal Businsess units FIRM External partnerships: Competitors Alliances Governments Customer partnerships: Intermediate customers Final customers Fonte: adattamento da Morgan e Hunt (1994) e Doyle (1995). Il modello mette in evidenza come l’impresa non tenda a sviluppare unicamente una semplice relazione lineare, ma molteplici relazioni a seconda dei diversi stakeholders. Un orientamento simile viene proposto da Christopher et al. (1991): a differenza del Four Partnerships Approach, gli Autori non parlano di partnership, ma 61 utilizzano il termine “markets”, suggerendo che la visione di marketing dell’azienda deve necessariamente aprirsi a diversi mercati, su cui realizzare poi specifiche strategie (Figura I.5-3). Figura I.5-3. The six markets model Internal markets Supplier markets CUSTOMERS MARKETS Staff recruit markets Referral markets Influence markets Fonte: Christopher, Payne, & Ballantyne (1991) Il “customer market” è l’elemento centrale del modello: i consumatori devono rimanere il focus primario di tutte le attività di marketing e i referenti principali delle strategie di marketing relazionale. Un elemento di novità nel Six Market Framework è il “referral market”: questo mercato è formato da tutti quei soggetti (persone o organizzazioni) che danno un 62 parere positivo sull’operato dell’ente in questione. La presenza del referral market è volta a riconoscere l’importanza del ruolo che la customer satisfaction e il word of mouth possono svolgere a vantaggio dell’azienda; diverse tipologie di soggetti possono fornire “raccomandazioni”: clienti soddisfatti, amici, conoscenti, intermediari, partner commerciali, etc. Spesso queste tipologie di azioni vengono erroneamente sottovalutate dell’impresa, la quale non percepisce il possibile ritorno nell’investire in questo tipo di relazioni. Le relazioni con i “supplier markers” sono notevolmente cambiate negli ultimi anni. Il concetto di cliente-fornitore come due antagonisti, che agiscono in modo opportunistico per ottenere il proprio esclusivo vantaggio, ha ormai lasciato spazio ad un approccio molto più collaborativo43. Le basi della cooperazione vengono stabilite spesso fin dall’inizio della loro relazione commerciale, ad esempio, con dichiarazioni esplicite di determinati target di qualità e di servizio, di impegno ad una produzione flessibile, ecc… . I “recruitment markets” si riferiscono, invece, all’abilità dell’azienda di ricercare, attrarre e mantenere uno staff con le caratteristiche ricercate. Competenza e motivazione del personale sono due elementi essenziali per il vantaggio competitivo dell’azienda: avere personale qualificato e motivato è vitale, soprattutto nella prospettiva di marketing interno. 43 Questa nuova relazione collaborativa è stata descritta utilizzando diverse espressioni. In Usa viene spesso definita “reverse marketing”, in Philips Europe viene chiamata “co-marketing”, in AT&T viene descritta come “vendorship marketing”. 63 Gli “influence markets” sono molto simili alle external partnerships illustrate nel modello di Morgan&Hunt e Doyle. Questa tipologia di mercati possono includere soggetti come i media, i gruppi di consumatori, le istituzioni governative, gli enti finanziari; in questo caso, tutte le attività di pubbliche relazioni giocano un ruolo determinante. Le relazioni instaurate con gli “internal markets” sottolineano l’importanza di due aspetti fondamentali: il primo riguarda la gestione coordinata della catena del valore interna cliente-fornitore, in modo da assicurare che le operazioni interne siano svolte in modo ottimale grazie ad un eccellente livello di servizio e rapidità dei flussi di comunicazione tra clienti-fornitori interni dell’organizzazione. Per quanto riguarda il secondo aspetto, occorre controllare costantemente che l’intero staff stia lavorando insieme rispettando gli indirizzi stabiliti nella mission, nella strategia e negli obiettivi aziendali (Payne, 1993). Infine, in una teorizzazione più recente, Gummesson (2002) riprende la sua teoria iniziale e la trasforma in una lista di 30 relazioni identificabili nel mercato, che l’Autore definisce “the 30 Rs” (Tabella I.5-4). Gummesson divide le 30 relazioni in quattro categorie di base: 1. le relazioni classiche di mercato; 2. le relazioni speciali di mercato; 3. le mega relazioni; 4. le nano relazioni. 64 Tabella I.5-4. Gummesson’s 30 Rs Relazioni classiche di mercato 1. La diade classica: relazione cliente – fornitore 2. La triade classica: il triangolo cliente – fornitore – concorrente 3. Il network classico: relazioni lungo i canali di distribuzione Relazioni speciali di mercato 4. Relazioni tramite full time marketers and part time marketers 5. La relazione interattiva tra clienti e fornitori di servizi nei momenti della verità 6. La relazione tra responsabili dell’impresa fornitrice e dell’impresa cliente (marketing industriale) 7. La relazione con il cliente del cliente 8. La relazione vicina vs la relazione lontana 9. La relazione con il cliente insoddisfatto 10. La relazione monopolistica: il cliente o il fornitore come prigionieri 11. Il cliente come membro 12. La e-relationship 13. Le relazioni simboliche 14. La relazione non commerciale (settore pubblico, volontariato, famiglia) 15. La relazione verde (o ambientale) 16. La relazione basata sulla legge 17. La rete criminale Mega relazioni 18. Network personali e sociali 19. Mega marketing (governi, legislatori, influenzatori, opinione pubblica) 20. La relazione cooperativa (alleanze tra imprese, franchising, JV, co-marketing) 21. La relazione di conoscenza (impresa come sistema cognitivo) 22. Le mega alleanze (UE libera mobilità per professionisti, Nafta) 23. La relazione con i mass media (RP) Nano Relazioni 24. Meccanismi di mercato dentro l’organizzazione 25. La relazione con il cliente interno (programmi TQM) 26. La relazione tra gestione operativa e marketing 27. Le relazioni con il mercato dei dipendenti: il marketing interno 28. La relazione bidimensionale nell’organizzazione a matrice 29. La relazione con i fornitori esterni dei servizi di marketing 30. La relazione con proprietari e finanziatori Fonte: Gummesson (2002) 65 I.6. Un vero salto paradigmatico? Con il crescere della letteratura in tema di relationship marketing, tale approccio si sta affermando come nuovo paradigma di riferimento del marketing. Si ritiene infatti che il nuovo approccio permetta, meglio di quello tradizionale, di gestire i processi di scambio tipici dei mercati industriali e dei servizi, ponendosi come obiettivo quello di iniziare, negoziare e gestire le relazioni di scambio con gruppi chiave di interesse al fine di perseguire vantaggi competitivi sostenibili, sulla base di accordi di lungo termine con clienti e fornitori. Secondo questa impostazione il marketing andrebbe inteso come management delle relazioni e dovrebbe essere rivolto a creare, mantenere e gestire un network di rapporti di lungo periodo. Il marketing relazionale deve ancora trovare una precisa collocazione epistemologica e un chiaro status all’interno della ricerca. Iacobucci (1994) sostiene che il marketing relazionale rappresenta più che altro il marketing tradizionale con “nuovi vestiti”, un enfatizzare idee e concetti già presenti nel pensiero e nella pratica del marketing; in effetti il concetto di interazione, di interscambio, di doppio legame sono già presenti nella teoria classica del marketing (Bagozzi, 1995). Mattsson (1997) suggerisce che in ultima istanza serviva una teoria che fornisse il contesto di base in cui calare le varie tipologie di transazioni di marketing, tra cui quelle inerenti a prodotti, servizi, persone. Questo punto di vista é supportato da 66 Sheth e Parvatiyar (2000), i quali sostengono che il filone del relationship marketing potrebbe comprendere tutte le sub-discipline del marketing, tra le quali il business-to-business marketing, channels marketing, services marketing, marketing research, customer behaviour, marketing communications, marketing strategy e international marketing. Figura I.6-1. L’evoluzione del marketing 1950 1960 1970 1980 1990 2000 The future of marketing? Relationship marketing Services marketing Non profit marketing Industrial marketing Consumer marketing Fonte: Christopher, Payne e Ballantyne (1991) Spesso si sostiene che il relationship marketing sia il primo grande cambiamento nel marketing per molti anni. In realtà, a partire dalla nascita del marketing fino ad 67 oggi, ci sono stati diverse fasi del marketing, ognuna delle quali associata a una corrente di pensiero prevalente (Figura I.6-1). Secondo Christopher et al., (1991) questa evoluzione ha inizio negli anni ’50 con la nascita del consumer marketing fino ad arrivare agli anni ’90 con il progressivo diffondersi del relationalship marketing. Ognuno di questi step ha comportato un’evoluzione all’interno del marketing in termini sia di nascita e sviluppo di nuove aree di ricerca sia di diffusione della disciplina nel mondo manageriale. Occorre sottolineare che ognuno di questi passaggi non rimane a sé stante ma rappresenta l’evoluzione della teoria precedente e la base per le teorie future. E’ per questo motivo che il relationship marketing subisce le influenze di tutte le correnti di pensiero che l’hanno preceduto44, includendo anche concetti inerenti alle teorie del distribution management, total quality management e knowledge management (Gummesson, 1999). Tale interpretazione testimonia il carattere articolato e multi-disciplinare della prospettica relazionale, ma introduce anche elementi di difficoltà di sistematizzazione della teoria. Secondo Palmer (1996), il relationship marketing può essere analizzato secondo tre diverse prospettive: 44 E’ per questo motivo che il relationship management é stato analizzato e approfondito da diversi punti di vista. Grönroos e Strandvik (1997) individuano molteplici prospettive tra cui: “the Nordic School of service management, the network approach to industrial (or business-to-business) marketing, the Anglo-Australian approach to integrating quality, customer service and marketing, strategic alliances and partnerships research and, more generally, investigation into the nature of relationships in marketing”. 68 - come tattica, dove il concetto di relazione rappresenta solo uno strumento promozionale (come, ad esempio, i programmi fedeltá); - come strategia, in cui vengono instaurate con il cliente relazioni di lungo termine: “detention rather than retention” in cui vengono create delle vere e proprie “barriers to exit”; - come filosofia, in cui il relationship marketing viene visto come cuore pulsante del marketing, rifocalizzando le azioni di marketing verso una prospettiva non più orientata al prodotto e al suo ciclo di vita, ma al cliente e al suo ciclo di vita della relazione. L’osservazione di Palmer mira a sottolineare quanto spesso il relationship marketing sia solo apparentemente sposato come filosofia, quando in realtà ne vengono applicati solo gli aspetti più tattici, ricadendo ancora una volta nei tradizionali schemi della logica transazionale. Grönroos (1996), invece, afferma che il relationship marketing rappresenta il più grande cambiamento in 50 anni di marketing, ma che alla fine quello che é avvenuto é stato semplicemente un ritorno del marketing alle sue origini. In sintesi, Pels (1999) individua tre principali posizioni all’interno del dibattito epistemologico riguardo il marketing relazionale: 1. chi ritiene che l’approccio relazionale debba essere considerato parte integrante del paradigma tradizionale del marketing, in grado di tenere conto e risolvere alcune delle anomalie che negli anni recenti erano state 69 evidenziate dalla letteratura. Tali studiosi si concentrano sulla customer satisfaction e sulla customer retention, ritenuti i principali obiettivi del marketing (Palmer, 1996; Mattsson, 1997; Costabile, 2000); 2. chi ritiene che l’approccio relazionale debba essere considerato un paradigma alternativo a quello tradizionale, poiché offre una spiegazione più completa di alcuni fenomeni tipici dei mercati moderni. Secondo questa visione, lo scambio non è altro che un caso particolare di una categoria più ampia e articolata che è la relazione di mercato (Hakansson, 1982; Turnbull, 1979; Grönroos, 1991, 1996; Hakansson & Snehota, 1995; Brodie, Coviello, Brookes, & Little, 1997); 3. un terzo gruppo, pur riconoscendo la diversità dei due paradigmi, ritiene che essi possano coesistere lungo un continuum che va dal semplice scambio (istantaneo) alla relazione (di lungo periodo), a seconda del tipo di prodotto/servizio o di mercato preso in considerazione (Dwyer, Schurr & Oh 1987; Webster, 1992; Evans & Laskin, 1994; Grönroos, 1994; Wilson 1995; Lindgreen & Pels, 2002); il continuum relazionale è stato analizzato in dettaglio nella Figura I.6-2. Sicuramente, l’approccio relazionale sembra offrire una visione più ampia e realistica dell’organizzazione di imprese e mercati negli attuali contesti competitivi, anche se, di fatto, le imprese si trovano a gestire una molteplicità di relazioni diverse in riferimento sia all’eterogeneità dei soggetti sia alla loro 70 numerosità sia infine alla forza e stabilità della relazione. Queste considerazioni danno forza ai sostenitori del continuum di relazioni di mercato. I.6-2. The marketing continuum: some implications The strategy continuum Transaction marketing Relationship marketing Time perspective Short-term focus Long-term focus Dominating marketing function Marketing mix Interactive marketing (supported by marketing mix activities) Price elasticity Customers tend to be more sensitive to price Customers tend to be less sensitive to price Dominating quality dimension Quality of output (technical quality dimension) is dominating Quality of interactions (functional quality dimension) grows in importance and may become dominating Measurement of customer satisfaction Monitoring market share (indirect approach) Managing the customer base (direct approach) Customer information system Ad hoc customer satisfaction surveys Real-time customer feedback system Interdependency between marketing, operations and personnel Interface of no or limited strategic importance Interface of substantial strategic importance The role of internal marketing The product continuum Internal marketing of no or limited importance to success Internal marketing of substantial strategic important to success Consumer →← Consumers →← Industrial →← Services pack.goods durables goods Fonte: Grönroos (1994) 71 E’ fuori dubbio, però, che il paradigma relazionale rappresenti un modello più completo e realistico delle modalità e delle forme di interazione delle imprese in mercato sempre più complessi e turbolenti. Emerge con chiarezza la pervasività del paradigma e la sua estrema duttilità concettuale ed applicativa, dimostrata anche dal fatto che discipline che si occupano di settori differenti della gestione d’impresa ne abbiano accettato la modalità di lettura dei comportamenti d’impresa, adattando la sua applicazione agli specifici contesti organizzativi. 72 CAPITOLO II L’EVOLUZIONE RELAZIONALE NELLA SUPPLY CHAIN II.1. Il contesto di applicazione del marketing relazionale Sancita l’importanza dell’approccio relazionale al marketing, la fase attuale, quella di sviluppo, si caratterizza per il dibattito riguardante i differenti contesti di applicazione e cioè, da un lato, la possibilità di applicare tale approccio soprattutto nella gestione dei rapporti tra l’impresa e i consumatori finali, dall’altro, di considerare l’importanza, in ottica di marketing, delle relazioni con tutti gli stakeholder. Nella pratica manageriale, risulta evidente come l’approccio relazionale sia destinato a crescere e a svilupparsi come approccio gestionale ad ogni livello della catena del valore, grazie soprattutto all’aumentata capacità dei produttori e dei distributori di entrare in relazione direttamente con il consumatore, individuandone i bisogni specifici e di offrire prodotti e servizi altamente personalizzati. Anche nella ricerca scientifica, i contributi di tipo sia teorico sia empirico sono numerosi. A tal proposito si segnalano due visioni opposte: chi sostiene che sia impossibile applicare l’approccio relazionale ai rapporti B2C (Moller e Halinen, 73 1998; O’Malley e Tynan, 1998; Hibbard e Iacobucci, 1998), chi, al contrario, conclude che le relazioni di lungo periodo tra cliente e fornitore nel mercato dei beni di consumo esistono, ma dipenderebbero dalla tipologia di prodotto: Palmer (1995), ad esempio, sostiene che il paradigma relazionale mal si applica a prodotti generici o fortemente correlati a valutazioni di prezzo; Christy et al. (1996) ritengono che esistano una serie di prodotti relationship-friendly per cui sia più alta la propensione ad attivare un legame fiduciario. Quest’ultimo punto sembra essere la questione principale attorno alla quale si colloca i dubbi di applicabilità dell’approccio relazionale alla domanda finale. Sebbene l’instaurarsi di una qualsiasi relazione richieda la volontà di entrambi i partner, nel mercato dei beni di consumo, più frequentemente che in quello dei beni industriali o dei servizi, si prospetta la situazione in cui il cliente non condivide l’idea del fornitore di mantenere una relazione stabile. Esistono casi, cioè, in cui il cliente ha un orientamento alla singola transazione e cerca in qualsiasi modo di non fidelizzarsi ad un unico fornitore1. 1 Le motivazioni di tale atteggiamento di resistenza alla relazione da parte del cliente possono essere varie, ma si ritiene che la più rilevante sia connessa con la mancanza di benefici ottenibili dalla relazione da parte del cliente. Una nota classificazione delle motivazioni che spingono ad intrattenere una relazione con il fornitore è quella che distingue tra i vantaggi legati alla transazione riferita al singolo prodotto/servizio acquistato e i vantaggi legati ad una relazione di lungo periodo. Due dei più completi studi su tale argomento sono quelli di Gwinner et al. (1998) e di Hennig-Thurau et al. (2002). I primi propongono alcune categorie di benefici ricavabili da una transazione: benefici di tipo sociale, soprattutto tra il cliente ed un impiegato dell’impresa fornitrice; benefici di tipo psicologico, determinati dalla necessità di ridurre l’incertezza; benefici di tipo economico, con riferimento a minori costi in termini di denaro o tempo; benefici legati alla personalizzazione dell’offerta, derivanti dalla predisposizione di prodotti su misura o di trattamenti 74 In letteratura, questo concetto è stata definito come propensione del cliente alla relazione (Christy et al., 1996). Il successo di una relazione, soprattutto nel mercato dei beni di consumo, non dipenderebbe soltanto dalle strategie e dalle politiche messe in atto dal venditore, o da convenienze di tipo economico, ma anche dalla presenza di un cliente psicologicamente disponibile ad attivare una relazione2. Dunque, le imprese che volessero efficacemente porre in essere politiche volte a creare e mantenere relazioni di lungo periodo, dovrebbero cercare quei clienti che siano sensibili nei confronti delle stesse3. Con riferimento ai rapporti con gli stakeholder, studi recenti hanno iniziato ad analizzare la possibilità di applicare l’approccio relazionale a qualunque tipologia di cliente (Sheth & Parvatiyar, 1995; Palmer, 1995; Buttle, 1997; Christy et al., 1996; Rowe & Barnes, 1998; Gwinner et al. 1998). Nasce la consapevolezza che una conoscenza più approfondita di tutti i portatori di interessi e l’applicazione, anche nei loro confronti, di un approccio relazionale potrebbe garantire all’impresa performance migliori (Gummesson, 2006). individuali da parte del fornitore. I secondi misurano empiricamente l’effettivo ruolo ricoperto da tali benefici nello sviluppo di una relazione tra cliente e fornitore. 2 De Wulf et al. (2003), in particolare, hanno studiato empiricamente tale concetto, concludendo che gli sforzi del fornitore nell’instaurare una relazione, in assenza di una propensione del cliente, sarebbero del tutto inutili. Più precisamente, la propensione alla relazione del cliente influenzerebbe la percezione che lo stesso ha delle politiche di fidelizzazione messe a punto dal fornitore. 3 A ben vedere, potrebbe essere un’ulteriore variabile di segmentazione della domanda. 75 A tal proposito, prendendo come punto di riferimento il four partnerships approach al relationship marketing di Morgan & Hunt (1994) e Doyle (1995), nel corso di questo capitolo verranno approfondite le relazioni che si instaurano all’interno delle “customer partnerships”. Impresa industriale Figura II.1-1. L’orientamento alla domanda Orientamento al cliente finale Orientamento al cliente intermedio Fonte: elaborazione propria L’analisi verrà condotta utilizzando l’ottica dell’industria, ovvero considerando l’impresa industriale come focal firm, adottando allo stesso tempo un ottica essenzialmente market-driven. A tal fine verranno prese in considerazione i rapporti che l’impresa istituisce con la domanda sia finale (consumatori) sia intermedia (distribuzione), con l’intenzione di dimostrare che tutte le relazioni siano funzionali allo sviluppo e al consolidamento con la domanda finale. E’ il 76 consumatore che determina il valore dell’impresa, sia industriale sia commerciale, e per questa ragione entrambe devono fondare la propria relazione su un forte e reale orientamento alla domanda. Il consumatore può diventare, cioè, la base su cui costruire una relazione stabile e duratura tra le imprese all’interno della filiera e, in ultima istanza, la vera fonte di vantaggio competitivo. All’interno del capitolo, inoltre, molta attenzione è stata posta sull’evoluzione delle relazioni tra impresa e domanda (intermedia e finale) e sul processo sottostante la loro creazione e il mantenimento di quelle più proficue. II.2. L’importanza della relazione nell’economia dell’ipercompetizione L’importanza degli investimenti in capitale relazione presenta caratteri sempre più accentuati in contesti di mercato che si contraddistinguono per una competizione serrata, rapida obsolescenza tecnologica e forti politiche di differenziazione dell’offerta. Questi cambiamenti stanno influenzando l’evoluzione di molti stati concorrenziali in un numero sempre maggiore di mercati (D’Aveni, 1994; Valdani, 1997), determinando la necessità per le imprese di accrescere le proprio risorse 77 relazionali con consumatori, fornitori, intermediari e persino concorrenti (Lanza, 2000). L’accresciuto interesse verso la prospettiva relazionale deriva dall’evidenza che la complessità concorrenziale e tecnologica è ormai un fenomeno diffuso, che rende più difficile la gestione delle strategie di mercato. Il valore del capitale relazionale cresce quindi all’aumentare della complessità della domanda e della concorrenza, sintetizzabile con il termine di ipercompetizione (D’Aveni, 1994; Valdani, 1995). Figura II.2-1. Dinamica dell’ipercompetizione e valore delle relazioni Complessità della tecnologia Gestione strategica delle relazioni Complessità della concorrenza Complessità della domanda Fonte: elaborazione propria Il concetto di ipercompetizione presenta manifestazioni e cause molteplici. Nello specifico, estendendo il concetto nella sua accezione originale, è possibile 78 ricomprendere nel suo dominio una varietà e variabilità4 diverse forme di (Figura II.2-1): 1. concorrenza; 2. evoluzioni tecnologiche; 3. cambiamenti della domanda. Analizzando l’evoluzione della domanda, Busacca et al. (1999) sostengono che gran parte dei fenomeni riscontrati nelle economie più avanzate erano già evidenti da diversi decenni e solo negli ultimi anni hanno raggiunto il loro apice estremo. Tra i più grandi cambiamenti gli Autori evidenziano: - la frammentazione sociale e l’individualismo, negli stili di vita e quindi anche nei gusti, ormai anche nei bambini (Mauri, 1996); - l’aumento del reddito discrezionale per un numero sempre più ampio di categorie di prodotti e la crescente attenzione verso il contenuto simbolico dei prodotti e verso il ruolo di emozioni ed esperienze nei processi di consumo5; 4 Peraltro, l’evoluzione della domanda e della concorrenza sono strettamente correlate a fenomeni di innovazione tecnologica. La tecnologia modifica la flessibilità e rapidità delle piattaforme e dei processi produttivi, distributivi e di consumo, provocando di contro un’eccessiva incertezza sulle opzioni di sviluppo più efficaci sotto il profilo tecnico, operativo e commerciale. 5 La maggiore sensibilità verso il contenuto simbolico ed esperienziale del valore ha un significa sia contestuale sia epistemologico. Sotto il primo profilo, è possibile rilevare come il benessere diffuso, il crescente flusso di informazioni e la maggiore frammentazione sociale, determinano fabbisogni di posizionamento sociale multidimensionale dovuti dalla tendenza sempre più marcata all’individualismo e alla customizzazione. Tutti elementi che hanno inciso sulla percezione del valore del consumatore e sul suo comportamento di consumo. Il profilo prevalente (almeno nei mercati più sviluppati) è quello di un consumatore completamente “appagato” (Galbraith, 1992) dalle funzionalità tecniche dei prodotti e “disincantato” (Ritzer, 1999) anche grazie alla continua sperimentazione di innovazioni. 79 - le aspettative di benessere crescenti, giustificate da oltre mezzo secolo di sviluppo economico (Kanhneman & Tversky, 1979) e al maggior livello di istruzione e di cultura che rendi i consumatori più consapevoli e informati. - i comportamenti di consumo sempre più spesso caratterizzati da obiettivi connessi all’accrescimento delle propria gratificazione psicologica e del patrimonio delle relazioni sociali, all’interno delle quali i prodotti trovano senso e significato (Busacca, Grandinetti, & Troilo, 1999); - la crescente variabilità dei gusti e delle preferenze che si dimostra in termini sia diacronici sia sincronici dando luogo a fenomeni di camaleontismo6 nei comportamenti di consumo e quindi alla difficoltà di definire segmenti di domanda rappresentativi realmente di profili omogenei di consumatori (Varaldo & Legrenzi, 1992); - al crescente sovraccarico di informazioni su prodotti e alternative di acquisto che porta il consumatore a ricercare forme di integrazione di offerta, in modo da esercitare estensioni della fiducia e realizzare economie di relazione7 6 Alcuni studiosi hanno utilizzato il termine “camaleontismo” (Dubois, 1991; Cova, 1997). Il comportamento d’acquisto e di consumo camaleontico è per certi versi “schizofrenico”, nella misura in cui si dimostra privo di coerenza interna. Di conseguenza, in presenza di soggettività così mutevoli risulta assai difficoltosa, se non impossibile, l’individuazione di validi elementi di omogeneità, ad esempio, sotto il profilo socio-demografico, comportamentale e degli stili di vita (Holt, 1997). 7 Tale fenomeno caratterizzante il rapporto domanda-offerta si manifesta nella formazione di grappoli di bisogni interconnessi, ossia nella tendenza della clientela a rivolgersi ad un unico fornitore per la soddisfazione di un insieme integrato di esigenze (Vicari, 1989). Tendenza ricollegabile, oltre che alla crescente complessità dei prodotti/servizi, alla sempre maggiore rilevanza assunta dalle componenti immateriali dell’offerta e dagli aspetti relazionali e fiduciari nei rapporti di scambio. 80 (Busacca, 1994); è facilmente intuibile come questi fenomeni di integrazione di offerta enfatizzino la criticità della customer satisfaction sul piano analitico e strategico: infatti, se da un lato questa tendenza si traduce in consistenti opportunità di estensione del territorio competitivo verso campi di attività complementari a quelli tradizionali, dall’altro lato è necessario sottolineare come tali opportunità siano strettamente legate ad un notevole incremento dei rischi connessi alla disattesa delle aspettative palesate dalla domanda; - l’elevata penetrazione che molti prodotti raggiungono in tempi molto più brevi rispetto al passato8. In secondo luogo, la complessità del contesto è acuita ancora di più dal susseguirsi delle innovazioni tecnologiche. La tecnologia informatica ed elettronica ha consentito alle aziende di ampliare notevolmente la propria gamma di offerta superando il trade-off costodifferenziazione. I vantaggi sulla gestione sono diversi: innanzitutto, ha permesso alle imprese più innovative di abbattere i costi di produzione; ha praticamente eliminato i problemi di comunicazione attraverso lo sviluppo di Internet e delle reti interne; ha ridotti i tempi di quasi tutti i processi aziendali; ha favorito 8 Secondo Bona e Costabile (2000), la telefonia cellulare ha raggiunto in Italia una penetrazione maggiore del 60% della popolazione in meno di un decennio. Inoltre, secondo una ricerca della Morgan Stanley Dean Witter, comparando gli intervalli di tempo che si sono resi necessari affinché un prodotto elettronico raggiungesse i 50 milioni di utilizzatori negli Stati Uniti, emerge che: la radio ha impiegato 38 anni, la televisione 13, Internet 5. 81 incrementi notevoli nella produttività delle risorse umane; ha consentito la creazione dell’azienda flessibile (Cuneo, 1993). Le innovazioni tecnologhe coinvolgono tutte le aree aziendali in uno sforzo migliorativo congiunto, nella consapevolezza che tale impegno dovrà essere continuo, per quanto incrementale: può implicare investimenti in potenziamento e riprogettazione della struttura, adeguamento dei processi aziendali e attività di riqualificazione delle risorse umane. La tecnologia è la variabile che ha influenzato in modo più decisivo la realtà dei mercati e che oggi, con lo sviluppo di Internet e il commercio elettronico, si ripropone come veicolo primario di cambiamento. Nuovi intermediari virtuali sono fonte di informazione per domanda e offerta, cadono molte delle barriere d’entrata, si riducono le asimmetrie informative, cambiano i modelli organizzativi e le skills delle risorse umane: non a caso di parla di vera e propria rivoluzione digitale9, in quanto vengono a crearsi nuovi 9 Già nel 1999 Philip Kotler illustrava ne “Il Marketing secondo Kotler”, l’evoluzione del marketing e i cambiamenti che la rivoluzione digitale avrebbe apportato nel decennio a venire. Internet e la rivoluzione digitale hanno modificato radicalmente i nostri concetti di spazio e di tempo e hanno modificato di conseguenza l’approccio marketing alla nuova era digitale. La nascita del cyberspazio ha consentito lo sviluppo di operazioni d’acquisto e di vendita sempre più automatizzate e convenienti. Internet consente il fluire delle informazioni in modo immediato e praticamente senza costi, consentendo alle imprese di essere collegate tra loro tramite una rete virtuale. La rivoluzione digitale ha dischiuso la porta d’accesso al mercato globale alle imprese, anche a quelle di media e piccola dimensione e di nicchia. Ma una rivoluzione è avvenuta anche nei processi interni alle aziende, in particolar modo nei processi decisionali ed interpretativi dell’attività aziendale, coinvolgendo tutto il ciclo aziendale: dall’acquisto dei prodotti, fino alla commercializzazione e alla consegna. 82 linguaggi, nuovi codici interpretativi, nuovi strumenti di interazione continua con il mondo esterno e con i clienti. Per quanto riguarda il valore delle relazioni con i clienti, il cambiamento appare più evoluzionario che rivoluzionario. I caratteri distintivi della conoscenza e dell’interazione in ambienti digitali sembrano creare condizioni di ulteriore rafforzamento della centralità delle relazioni con i clienti, piuttosto che cambiamenti radicali nelle logiche che governano lo scambio economico (Costabile, 1999; Verona & Sabbaghian, 2000; Busacca & Costabile, 2000; Reichheld & Schefter, 2000). Le caratteristiche di funzionamento dei mercati virtuali impongono, quindi, un ripensamento evolutivo delle logiche di gestione del rapporto impresa-domanda, ad esempio attraverso lo sviluppo di strategie di marketing one-to-one, di personalizzazione dell’offerta, di nuove logiche di analisi e monitoraggio del cliente, che recupera in questo modo potere nei confronti del seller. Infine, esaminando l’ipercompetizione nella prospettiva dell’analisi concorrenziale, le criticità e le potenzialità insite nel concetto di complessità possono essere esplicitate attraverso i tre elementi che la costituiscono (Di Bernardo & Rullani, 1990; Rullani, 2004): varietà, variabilità e indeterminazione. La complessità di un fenomeno è infatti determinata dalla quantità e diversità di possibili varianti del problema e dei suoi attributi; questa varietà tende inoltre ad incrementare nel tempo, a seguito dell’emersione e comprensione di nuovi 83 elementi, fenomeni, informazioni e relazioni che riducono, e spesso annullano, gli sforzi di comprensione e specificazione del fenomeno osservato. Infine l’indeterminazione identifica non solo l’impatto che l’incertezza dello scenario e delle dinamiche evolutive hanno sulla complessità, ma anche le variabili di amplificazione connesse alla non linearità di manifestazione dei fenomeni di contorno. Questa dinamicità accentua l’importanza relativa assunta dalle discontinuità, dalle forze latenti e dai fenomeni emergenti che ridefiniscono il panorama competitivo, spesso annullando i tentativi di applicazione del tradizionale rapporto causaeffetto: l’impresa è dunque chiamata a confrontarsi con un ambiente turbolento, quasi imprevedibile, nel quale il successo pare proprio essere assicurato dallo sfruttamento del non-equilibrio e dell’innovazione, generato da questi segnali deboli. Inoltre, un ulteriore elemento di criticità relativo alla complessità riguarda la sua capacità di autopoiesi (Vicari, 1998). La complessità non dipende infatti solo da fattori esogeni, ma è essa stessa in gran parte derivata da fenomeni evolutivi dell’impresa e delle sue caratteristiche: la reazione ad un problema, ad uno stimolo esterno, la generazione di nuova conoscenza genera infatti una risposta articolata che, in un ciclo di autogenerazione, incrementa a sua volta i livelli di complessità indotti sul contesto operativo d’impresa. 84 Tale complessità diventa, quindi, sempre più difficile da prevedere e gestire, quantomeno a livello di una singola impresa (Valdani, 1997; Dyer & Singh, 1998; Lanza, 2000). La fungibilità di tecnologie e prodotti nella prospettiva della domanda e la convergenza di settori e imprese (Ancarani, 1999; Valdani, 2000) rendono ormai normali le forme di concorrenza intersettoriale e trasversale (Vicari, 1989; Hamel & Prahalad, 1994; Yoffie, 1997; Wind & Mahajan, 2002), ponendo in evidenza come i tradizionali confini tra industrie e tra imprese stiano rapidamente dissolvendosi. Dopo una prima fase nella quale l’attenzione degli studiosi si è incentrata principalmente sulle cause di natura tecnologica (Yoffie, 1997) e di natura competitiva (Hamel & Prahalad, 1996; Hamel, 1996) che generano convergenza, alcuni contributi più recenti hanno invece sottolineato il ruolo giocato dalla domanda nella creazione di fenomeni di questo tipo (Wind & Mahajan, 2002): per rispondere a questa incalzante richiesta di value proposition complesse che travalicano i confini tradizionali tra comparti distinti, le imprese sono chiamate ad offrire bundle of benefits, combinando risorse tangibili e intangibili e dando vita a nuovi aggregati transettoriali, come l’edutainment o la nutriceutica10 (Ancarani & Costabile, 2005). 10 Oltre alla classica convergenza tra telecomunicazioni, informatica e entertainment, Valdani (2000) descrive il caso dell’edutainment su cui convergono elettronica di consumo, 85 La convergenza infatti può essere guidata da contenuti simbolici o esperenziali di consumi, oppure dalla prossimità e dalla complementarietà nell’uso o nell’acquisto da parte dei clienti che integrando “grappoli di bisogni” (Busacca, 1994) realizzano economie di scopo, sui costi di transazione e di relazione. Alcuni Autori (Valdani, 2000; Ancarani, 1999) hanno definito “metamercati” le nuove arene competitive che nascono dall’intersezione di più settori. La complessità competitiva, interagendo con quella generata dal lato della domanda e della tecnologia, determina un tale grado di incertezza da rendere sempre più difficile concentrarsi su singole unità del sistema. E’ invece molto più efficace investire nell’analisi e gestione delle relazioni (Rullani & Vicari, 1999), concentrandosi su quelle più rilevanti per la realizzazione del vantaggio competitivo e la creazione di valore. II.3. L’analisi relazionale della domanda finale La complessità, con le implicazioni analizzate nel paragrafo precedente, nel sistema tradizionale era però vista come una grave minaccia alla stabilità del sistema, un’area di vulnerabilità per l’impresa. telecomunicazioni, informatica, formazione e altri settori ancora. L’Autore individua inoltre il metamercato del life extention, su cui convergono il settore farmaceutico, sanitario, cosmetico, termale, alimentare e così via. 86 Nella nuova società postmoderna11, complessità e turbolenza rappresentano le due dimensioni di fondo (Fabris, 1995). La sfida è accettarle, convivere con questi fattori costitutivi, superare l’intrinseca intelligibilità e l’imprevedibilità di queste dimensioni. Il rischio è di lasciarle fuori allo spettro della conoscenza, quali fattori di disturbo, non parte della realtà; non occorre risolvere la complessità né tantomeno ridurla: al contrario, è necessario imparare a conviverci e a gestirla a proprio favore. Nel nuovo contesto, l’incertezza legata alla comprensione e gestione dei fenomeni emergenti diventa un elemento di stimolo, una risorsa capace di esplorare il nuovo spazio, le nuove possibilità di interpretare le dinamiche evolutive che si aprono di fronte alle imprese. L’atteggiamento esplorativo nei confronti della complessità è in grado di trasformare il pericolo di indeterminazione in risorse potenziali, in grado di determinare effetti moltiplicativi sul business aziendale. Questo atteggiamento esplorativo deve ovviamente avere come riferimento principale il consumatore e il ruolo giocato da quest’ultimo nella definizione di nuovi modelli di business. 11 La scienza postmoderna osserva Brown (1995) “si fonda sul rifiuto della visione del mondo meccanicistica, deterministica, statica e particolaristica della scienza moderna a favore di un nuovo paradigma basato sui principi dell’incertezza, del caos, dell’evoluzione e dell’olismo. Oltre alla enfasi sulla complessità anziché sulla semplicità, sul cambiamento anziché della stasi e su una prospettiva epistemologica di tipo partecipativo anziché spettatoriale”. 87 II.3.1. Il profilo del nuovo consumatore La società di massa relativamente semplice da decifrare si è trasformata oggi in un mosaico di tessere sociali e segmenti/nicchie di consumatori diversissime tra loro, differenze che invece di attenuarsi si moltiplicano nel tempo. Al valore della razionalità di matrice positivista, la cultura post-moderna sostituisce il valore della diversità, dell’unicità dei contesti e dell’irripetibilità delle contingenze (Rullani, 2004). Ciascuno ha un’identità diversa dalle altre, è una persona che vuole essere riconosciuta e intrattenere con l’azienda un rapporto umanizzato e dignitoso. Come sostiene Katona (1964) occorre riferirsi all’uomoconsumatore e guardare ai procedimenti economici come manifestazioni del comportamento umano. La riscoperta della centralità della persona, non solo come individualità ma anche come soggetto immerso in un contesto di consumo e in luoghi dove si formano comunità e identità collettive, diventa l’elemento caratterizzante nei modelli di acquisto e di consumo (Maffesoli, 1993; Cova, 2002; Raimondi, 2005). Quello che opera nella società attuale è un nuovo consumatore, esigente, scaltro, selettivo, che sta radicalmente riscrivendo il nostro sapere sul consumo; un consumatore in cerca di esperienze più che di prodotti, di emozioni e sensazioni più che valori d’uso, che genera modelli di consumo inediti, eclettici, complessi. 88 Fabris (2003) individua una serie di importanti cambiamenti che hanno influenzato il consumatore negli ultimi anni, diventando sempre più: - autonomo: è divenuto più critico, rivendicando maggiore discrezionalità di scelta; autonomo non significa antagonista, bensì dialettico, chiedendo all’azienda l’instaurarsi di una effettiva relazione, un dialogo e non un monologo; - competente: ha acquisito molte più informazioni sulle sue scelte di consumo e ormai ha sviluppato un bagaglio di conoscenze e di sensibilità merceologiche: sulla provenienza dei prodotti, l’ingredientistica, il rapporto qualità/prezzo, le varie componenti della qualità; - esigente: richiede sempre di più ad entrambe le imprese di produzione e di distribuzione, non in termini di quantità, ma di qualità, di servizio, di attenzione delle proprie esigenze; - selettivo: si muove con sicurezza nei confronti dell’iper-offerta del mercato; non è più fedele alla marca a priori, ma seleziona e sperimenta diverse marche tra cui poi scegliere in base a ciò che l’alternativa prescelta ha più da offrire in un determinato momento; - orientato in senso olistico: la scelta coinvolge tutte le dimensioni in gioco, tangibili e intangibili, vale a dire prendendo in considerazione sia determinanti strutturali sia valori simbolici e significati sociali; 89 - disincantato: cresce il pragmatismo12 e il realismo con cui il consumatore effettua le sue scelte, manifestando spesso un certo distacco. L’individuo-consumatore è, quindi, un’unità complessa, dinamica e poliedrica, che pone in essere attività di consumo volte alla produzione di valori idiosincratici e compositi (fisici, economici, sociali, psicologici) contestualizzati alle diverse dimensioni situazionali ed esistenziali, alle quali di volta in volta egli partecipa. L’elemento centrale nella descrizione del nuovo consumatore è l’idea della “vita come gioco” (Bauman, 1999), perché il timore predominante per l’individuo postmoderno è quello dell’indissolubilità. Se nell’epoca moderna si trattava di costruire un’identità e mantenerla stabile nel tempo, nel postmoderno il problema dell’identità consiste nell’evitare ogni tipo di fissazione e nel lasciare aperte tutte le possibilità. Indicazioni significative a questo proposito provengono anche da Qualizza (2006), secondo cui i nuovi consumatori si caratterizzano soprattutto per l’attitudine all’erranza, al nomadismo e allo spostamento. Nell’era postmoderna, l’importante è attraversare mondi problematici e universi di senso, essere dentro il flusso continuo delle informazioni, sentirsi qui e altrove in ogni istante, essere sempre pronti a partire e a cambiare: una condizione di permanente mobilità che si 12 Queste caratteristiche sono particolarmente evidenti nell’e-consumer che, secondo Fabris (2003) può essere considerato a tutti gli effetti “il ritratto parlante dell’idealtipo di consumatore che diverrà egemone a scadenze ormai ravvicinate”. 90 trasferisce anche alla vita di ogni giorno e che si esprime nella nascita di nuovi scenari di consumo. II.3.2. Nuovi scenari di consumo Nello sforzo, operato dagli studiosi di marketing, di ampliare il campo della propria ricerca, centrale è stata la ridefinizione del ruolo ricoperto dal consumo, sempre più raramente considerato come variabile trascurabile della realtà del singolo individuo e sempre più spesso considerato come insieme di fenomeni diversi, complessi e culturalmente significativi. Vale la pena richiamare brevemente le principali caratteristiche del nuovo scenario perché è a partire dalla loro conoscenza che nascono le più attuali tattiche di marketing relazionale. Le principali tendenze in atto nei valori sociali, negli stili di vita e nei modelli di consumo emergenti possono essere così schematizzate: 1. la de-materializzazione del consumo; 2. l’infedeltà alla marca e “sindrome di Stendhal”; 3. l’individualismo, l’edonismo e il narcisismo; 4. il polisensualismo. 91 II.3.2.1. La de-materializzazione del consumo Quando si parla di società postmoderna, secondo Fabris (2003), bisogna innanzitutto considerare un importante spostamento di prospettiva: il valore di scambio (scambio economico derivante da transazione economica) tende ad essere progressivamente oscurato dal valore simbolico del bene, una nuova struttura concettuale che è costituito dall’intrinseca capacità del bene di informare e comunicare. In altre parole, il valore di scambio si trasforma in scambio sociale, inteso come scambio di significato in cui il valore del bene è essenzialmente valore semantico e valoriale con cui ci esprimiamo e comunichiamo con gli altri13. Nelle società moderne, i beni si vanno dematerializzando: in primo luogo, è in atto un processo di miniaturizzazione dei prodotti, sempre più leggeri e ridotti come dimensioni (si pensi, ad esempio, ai traguardi della microelettronica); in secondo luogo, si sta assistendo ad una transizione verso un’economia dei servizi14, in cui quello che si scambia nel mercato sono solo apparentemente prodotti materiali. In realtà, sono segni15, immagini, messaggi (Codeluppi, 1989). 13 Come scrive Maffesoli (1996), gli oggetti postmoderni sono “vettori di comunicazione” che attingono ad un comune idem sentire, ad un sistema di codici condiviso. 14 Nella nuova prospettiva, non è più possibile distinguere nettamente tra beni e servizi: in questo contesto nuovi modelli di business ibridi sono quelli che meglio riescono a mettere a frutto gli elementi vincenti derivanti sia dall’industria che dai servizi. Il contesto competitivo ed il mercato sono dunque ricostruiti intorno a nuove soluzioni e value proposition che producono convergenza ed ibridizzazione tra materiale ed immateriale, tra le logiche tipiche industriali e terziarie. 15 Trasformando i beni allo stato di segni e di simboli, secondo il processo di riduzione segnica di cui parla Secondulfo (1994): “gli oggetti divengono socialmente importanti, assurgono a vita sociale, sempre meno per le loro caratteristiche materiali o funzionali e sempre più per le loro caratteristiche segniche o simboliche che ad essi vengono attribuite man mano che all’interno del 92 Mercato diventa, così, il sociale che tra le tante manifestazioni ed i suoi sottoinsiemi, include anche quello del consumo. Mercato è l’universo semiotico16; non un locus dove si scambiano merci, ma un’area dove avvengono scambi sociali. Figura II.3.2.1-1. I prodotti diventano segni e linguaggio Prodotto Segno Significato Linguaggio Comunicazione Fonte: elaborazione propria Il linguaggio delle merci e i significati che queste sottendono costituiscono un universo semiotico costantemente mutevole e di grande spessore. Il consumatore è sedotto da questi significati, li fa propri adottandoli, li elabora con il passare del tempo e li riflette più o meno consapevolmente (Figura II.3.2.1-1). Il comportamento di ciascun individuo che si estrinseca nell’esperienza di acquisto e, soprattutto, di utilizzo è ravvisabile come un’attività di consumo di segni e simboli (Baudrillard, 1972) per la produzione di nuovi significati sistema sociale si sviluppano codici e linguaggi atti a utilizzarne il supporto materiale per i propri processi di significazione e di circolazione”. 16 Non è un caso che i maggiori contributi nello studio del consumo siano proprio venuti recentemente dalla semiotica. 93 individuali e sociali, attraverso processi “autotelici” e “strumentali”17 (Holt, 1995). Quindi, si evidenzia una capacità di generazione di senso attraverso il consumo che assume rilevanza sia nella costruzione ed estensione del sé in un dato contesto (Belk, 1988), sia nella costruzione e conservazione di rapporti sociali18. Questa concezione del consumo ha consentito il superamento dell’idea tradizionale per cui ogni bene è qualcosa a sé stante. Il consumo si allarga, diviene poliformico, capace di riscoprire tutte le valenze simboliche del bene, la fruizione delle cose diviene strumentale alla formazione dell’identità del consumatore, una categoria fondante dell’io. Il rapporto con l’oggetto permette la costituzione di un insieme di significati, di un linguaggio sociale19, che consente di scambiare informazioni e di dare ordine e senso all’ambiente socio-culturale (Paltrinieri, 1997). 17 I processi di consumo autotelici e strumentali rappresentano due differenti modalità di creazione di valore mediante l’attività di utilizzo di un bene/servizio. I primi producono valore in sé (ad esempio, l’ascolto di un programma radiofonico, l’impiego di un condizionatore, ecc.), i secondi producono valore funzionalmente al raggiungimento di obiettivi sociali (come la partecipazione all’inaugurazione di un locale alla moda, l’utilizzo di prodotti cosmetici, ecc.). 18 Douglas e Isherwood (1979) giungono ad affermare: “il consumo è un processo rituale la cui funzione primaria è di dare un senso al flusso indistinto degli eventi […] l’obiettivo più generale del consumatore può consistere unicamente nel costruire un universo intelligibile con i beni che si sceglie”. 19 Nella società attuale, non è più possibile considerare l’agire di consumo né un semplice agire razionale del consumatore volto alla soddisfazione dei propri bisogni, né un agire simbolico volto esclusivamente alla definizione della propria appartenenza ad un certo strato della società. Per questo motivo, la metafora del linguaggio sembra essere la chiave del percorso interpretativo del consumo: una volta liberatosi dalla sovra determinazione della produzione e dall’unidirezionalità della riproduzione di status, si può finalmente cogliere la sua multidimensionalità (Paltrinieri, 1998). 94 Al consumo va infatti attribuita una funzione comunicativa, intesa come modo in cui gli individui dichiarano, caratterizzano, confermano la loro presenza nel mondo e la loro appartenenza sociale. Il consumo diventa quindi un linguaggio, i cui parlanti saranno i consumatori. I diversi significati del consumo non possono essere compresi se non tenendo conto della natura esplicitamente sociale del processo dal quale si originano. Questo significa che ciascun prodotto porta inscritta al suo interno la sua storia, la quale viene messa costantemente in gioco in tutte le possibili relazioni. Nell’atto di comunicare, i prodotti, compiono azioni che interagiscono con le pratiche interindividuali e contribuiscono alla costituzione e alla trasformazione dei significati socialmente condivisi. La merce si fa veicolo di una molteplicità di messaggi, ma ognuno di questi messaggi deve entrare in relazione con gli altri messaggi del sistema di consumo per poter comunicare20. II.3.2.2. L’infedeltà alla marca e “sindrome di Stendhal” Il comportamento del consumatore postmoderno appare sempre più imprevedibile. La proliferazione dei prodotti da un lato, quella dei format e 20 Così, come nel linguaggio parlato le parole si strutturano in frasi e le frasi in discorsi, nello stesso modo i beni si strutturano in sistemi composti a loro volta da sub sistemi (Di Nallo, 1994). 95 concepts distributivi dall’altro, si sono incontrate a formare innumerevoli combinazioni che si offrono a consumatori in un circolo di causa-effetto che si rinforza vicendevolmente: l’iper-offerta con cui si devono costantemente confrontare nei mercati “allena” il consumatore, che diviene sempre più smaliziato e volubile. Come è stato analizzato nel precedente paragrafo, il consumo è ormai diventato un veicolo importantissimo di comunicazione e una forma di linguaggio, trasformandosi in vettore di significato. I beni che si possiedono diventano il più duttile strumento per comunicare la molteplicità delle identità21: identità aperte e diverse che generano, a seconda del tipo di ruolo prevalente al momento, diverse scelte e modalità d consumo (Parmigiani, 1997). L’identità personale non è più fedeltà definitiva a se stessi, ma qualcosa da rimodellare costantemente in un processo quotidiano di ricerca e sperimentazione. Tutto ciò, però, non rappresenta il trionfo dell’infedeltà e dello spirito di avventura in senso assoluto, ma piuttosto il passaggio a un atteggiamento che si può definire “poligamo” (Fabris, 2001): il consumatore identifica quattro o cinque marche che diventano presenze stabili, una costellazione ristretta di alternative tra le quali fare la scelta d’acquisto. 21 Scrive Venturi (1985): “preferisco il sia…sia al o…o, il bianco e nero, e talvolta il grigio al bianco o nero. Sono a favore della ricchezza di significati piuttosto che alla limpidezza degli stessi; della funzione implicita così come quella esplicita. Preferisco una vitalità disordinata. Ammetto l’inconsistenza logica e esalto la dualità.”. 96 La crescente infedeltà alla marca riflette un atteggiamento di maggiore criticità e distacco nei confronti delle marche, conseguenza di un comportamento più selettivo, più competente, più autonomo. In questo nuovo contesto, la fedeltà storica alla marca lascia spazio ad una fedeltà multi-brand, considerate sostituibili nella soddisfazione di un determinato bisogno (Vicari, 1995). A dispetto di questa complessità, il comportamento di consumo, tuttavia, mantiene una logica interna che è possibile individuare e analizzare con specifici strumenti di indagine: il consumatore infatti non fa delle scelte casuali, ma acquista un “cluster di prodotti fortemente interconnessi l’uno all’altro” (Fabris 2003), per cui il singolo atto di acquisto si innesta quasi sempre in un quadro di rimandi. Attraverso il singolo prodotto, in altre parole, il consumatore guadagna l’accesso a una costellazione di oggetti e significati strettamente collegati tra di loro: da un lato, si stabiliscono relazioni all’interno di un sistema di oggetti (prendendo ad esempio come punto di partenza un papillon, i consumatori costruiscono un sistema funzionale che comprende giacche eleganti, camicie di taglio classico, scarpe scure, mentre esclude altri prodotti); dall’altro si stabiliscono rapporti tra più sistemi di oggetti, regolati da somiglianze e opposizioni (ad esempio lo 97 smoking richiama la cena a lume di candela ed esclude la bicicletta, mentre la palestra richiama una tuta, la bicicletta, un’alimentazione salutista)22. Occorre anche sottolineare che l’ampiezza della gamma dei beni con cui potersi esprimere può anche generare un improvviso disorientamento: il “dizionario di merci” e il corrispettivo “catalogo di identità” possono diventare così voluminosi da risultare inconsultabili. L’iperscelta a disposizione del consumatore da elemento che valorizza il suo ruolo ed accresce la sua autostima si trasforma in disinformazione. Nasce un paradosso in cui la ricchezza dell’offerta degrada invece in entropia: Fabris (1995) la definisce “sindrome di Stendhal”23. 22 Secondo Qualizza (2006) le relazioni di complementarietà e di sostituibilità tra beni e servizi diversi andrebbero valorizzate all’interno del punto vendita privilegiando una logica di tipo crossselling, ossia proponendo pacchetti di valore capaci di soddisfare “grappoli di bisogni” complementari, connessi a situazioni di consumo complesse. Un esempio è dato da Blockbuster, catena che ha compreso la possibilità di soddisfare un grappolo di bisogni riferiti a una particolare occasione di consumo (trascorrere una serata piacevole in casa). Meglio dunque suggerire ambientazioni, proporre costellazioni di segni organizzati in modo coerente piuttosto che offrire un assortimento di tipo “enciclopedico”. Dal punto di vista organizzativo si parla a questo proposito di “category management”, un approccio costumer based che ha l’obiettivo di coordinare obiettivi, decisioni e impegni relativamente non più a una singola marca o a una singola linea di prodotti ma a un’intera “coalizione” di beni interdipendenti. Ulteriori indicazioni si possono trovare in Di Nallo (1994) e Codeluppi (2002). Il tema verrà approfondito nel capitolo 3. 23 La “sindrome di Stendhal” è un fenomeno che colpisce alcuni spettatori quando si trovano di fronte ad opere d’arte o d’ingegno particolarmente affascinanti; l’intensità della visione è talmente forte che la derivante ebbrezza produce un senso di malore o dei mancamenti. Le cronache raccontano che Stendhal in visita a Firenze fosse colto, in Santa Croce, da una sorta di mancamento da eccesso di bellezze artistiche: la quantità di opere d’arte da cui si sentiva attorniato aveva provocato un effetto di stordimento destinato a durare per più giorni. Una versione postmoderna della sindrome di Stendhal può essere indicata nel disorientamento che provano alcuni consumatori all’interno dei centri commerciali. Attratti dai colori e dalle offerte scintillanti vagano tra i banchi dell’esercizio commerciale senza domare la loro indecisione, con il frustrante risultato di non riuscire a conquistare l’ambito premio della giornata di shopping: l’acquisto. 98 Si moltiplicano le marche, aumentano le alternative di prodotto spesso con impercettibili cambiamenti rispetto all’originale, la segmentazione d’offerta eccede spesso le richieste di mercato; gli stessi tratti distintivi di un prodotto innovativo finiscono per passare inosservati a causa dell’affollamento del mercato. Recentemente, l’istanza di maggiore autonomia ha indotto il consumatore ad aggirarsi anche al di fuori del paniere delle grandi marche. La gamma delle alternative si amplia a dismisura ed entrano a farne parte private labels, generics, primi prezzi, marchi di fantasia. La missione d’acquisto diventa quindi più complessa e time consuming. Nasce l’impressione che l’universo delle merci sia sempre più difficile da padroneggiare. Le indagini segnalano infatti, in molti mercati, una crescente dissonanza cognitiva post acquisto24 (Fabris, 1995). 24 Secondo la “teoria della dissonanza cognitiva” di Festinger (1973), le persone sono motivate al mantenimento e alla ricerca della coerenza fra le proprie conoscenze, opinioni, credenze e i propri comportamenti. L’eventuale dissonanza (o incoerenza) fra ciò che si pensa e ciò che si fa crea uno stato di disagio che deve essere in qualche modo eliminato: per farlo occorre modificare o il proprio comportamento o l’opinione dissonante. 99 II.3.2.3. L’individualismo, l’edonismo e il narcisismo Il fenomeno del consumo sembra essere dominato da locuzioni come consumo di massa, mercati globali, consumatore di massa, modelli di consumo omologati, primato delle mode e dell’eterodirezione. In realtà, il mainstream dell’ultimo decennio è da individuarsi nella crescente presa di distanza dall’area del sociale per approdare nell’area presidiata dal massimo interesse per le dimensione del privato, ovvero dell’individualismo25. L’autonomia dell’individuo si manifesta prevalentemente attraverso il processo di secolarizzazione e destituzione di valore in riferimento ad aspetti rituali e comunitari, imponendo al contrario una forte enfasi sull’emancipazione e affermazione della propria forza individuale. L’istanza di libertà è espressa nel consumo come istanza di scelta in autonomia, prendendo le distanze da soggezioni e condizionamenti, soprattutto manifestando la richiesta di prodotti personalizzati, di maggiore servizio, di una crescente infedeltà alla marca. La tendenza all’individualismo si esprime soprattutto in alcune aree di consumo, come quella dei beni di lusso (in tutti settori merceologici, dall’automobilistico a quello alimentare, dall’abbigliamento alla gioielleria) o quella di tutti quei 25 L’individualismo, come nota Riesman (1959), è sostanzialmente “other directed”. Centrato egoisticamente sul proprio interesse e benessere personale, sul culto ipertrofico della personalità, dove la massimizzazione del proprio vantaggio è spesso contrapposta all’interesse collettivo e che trova nei consumi e nella centralità del corpo il più significativo ubi consistam. 100 prodotti/servizi miranti al benessere fisico e alla valorizzazione della corporeità (dall’abbigliamento ai cosmetici, dalla chirurgia estetica ai beauty center, dai farmaci al cibo). La tendenza all’individualismo trova la sua più fedele espressione nella ricerca del piacere, nell’orientamento al carpe diem, nella forte propensione all’edonismo e al narcisismo. Fino ad alcuni anni fa, l’edonismo era caratterizzato da una connotazione negativa e da un senso di condanna26: i valori eticamente predominanti erano quelli del sacrificio, del dovere, della sopportazione, della rinuncia, mentre tutto ciò che procurava piacere era colpito da “interdizione morale” (Fabris, 2003). Oggi, invece, si è arrivati a una legittimazione sociale del piacere e del consumismo: segmenti sempre più ampi della popolazione aspirano a soddisfare pienamente i propri bisogni e desideri, inseguendo una felicità secolarizzata e laica, fatta di piccoli piaceri quotidiani. L’edonismo, ricorda Fabris, non è un prodotto dell’età moderna, perché già nel passato è stato al centro delle riflessioni di importanti scuole filosofiche; la differenza è che ora è una “pratica”, un obiettivo di massa, non più una suggestione filosofica di carattere selettivo o elitario. Prende corpo, quindi, una 26 Secondo Weber (1965), La censura del piacere è stata funzionale ai fenomeni di morigeratezza e di risparmio che consentono quei processi di accumulazione primitiva che daranno vita al capitalismo moderno. E’ la società del duro lavoro, del per aspera ad astra, del considerare il piacere e il consumo come peccato qualora ecceda le necessità più elementari. 101 sorta di “epicureismo di massa”, in cui l’individuo si pone obiettivi di interesse personale, di benessere e di soddisfacimento immediato dei propri desideri. Inoltre, mentre l’edonismo tradizionale era legato alla soddisfazione di bisogni specifici come il mangiare o il dormire, il nuovo edonismo è rivolto alla ricerca del piacere in tutte le circostanze della vita e riserva un ruolo di primo piano all’immaginazione, invece che alla fisicità del piacere: la capacità dei prodotti di far sognare diventa così una componente fondamentale nelle scelte di consumo e il conseguimento del piacere una delle motivazioni più addotte per giustificare gli acquisti. Il nuovo edonismo è quindi multidimensionale27 e spesso i desideri a sfondo emotivo prevalgono su quelli utilitaristici della scelta dei prodotti. L’esperienza di consumo è così considerata come il locus privilegiato in cui si esplica, si focalizza e si soddisfa l’edonismo del consumo, in quanto include le esperienze psicologiche che fanno seguito all’acquisto e uso di un prodotto. E’ nel sensation seeking (Zuckerman, 1979) che deve ravvisarsi una delle modalità di espressione dell’edonismo, anche se subordinata al piacere emotion seeking del postmoderno. 27 In quest’ottica, il consumo edonista designa quelle sfaccettature del comportamento di consumo che riguardano gli aspetti polisensoriali, immaginavi ed emotivi dell’esperienza di consumo di ciascuno di noi con i prodotti (Hirschmam & Holbrrook, 1982). 102 Oltre all’edonismo, l’altro grande trend che qualifica l’attuale filone dell’individualismo è il narcisismo28, inteso come rivendicazione del corpo e delle connessioni estetiche legate alla riscoperta della corporeità. Il narcisismo va interpretato come riappropriazione di una parte importante della condizione umana: l’amore e il rispetto per se stessi. Per il consumatore narcisista, il mondo degli oggetti costituisce un potente ed efficace sistema di comunicazione: gli oggetti funzionano da amplificatori della personalità individuale, sottolineandone gli aspetti privati, decifrabili unicamente dalla persona che in essa si rispecchia o da una ristrettissima cerchia di partner (Secondulfo, 1990). Nel campo dei consumi, il narcisismo si esprime con un’attenzione inedita alla cura del corpo, all’estetica, al sé; si tratta di un trend, dunque, che va ad alimentare la domanda di tutti quei prodotti legati all’esaltazione del fisico, della bellezza, ma anche del benessere interiore. È il caso, ad esempio, dell’abbigliamento, dei centri benessere, della cosmesi29. La pubblicità, soprattutto nella versione stampa, riflette molto l’orientamento al narcisismo, mostrando protagonisti attenti a proteggere la propria bellezza, a mantenere 28 Weil (1990) scrive: “l’oggetto privilegiato di cui Narciso prende cura è se stesso. L’oggetto ultimo da gestire, modellare, trasformare, produrre, consumare è lui stesso, il suo corpo, il suo spirito”. 29 Un aspetto significativo è l’attenzione, del tutto nuova, da parte dell’uomo verso l’aspetto estetico e il benessere psicofisico, verso l’uso di prodotti cosmetici, di gioielli e prodotti precedentemente riservati a un target femminile. Fabris (2003) parla in proposito di “femminilizzazione della società”. 103 inalterate nel tempo alcune caratteristiche fisiche, a mettere al primo posto la propria persona in varie circostanze della vita quotidiana. In ogni modo, diventano centrali l’attenzione, la deferenza, il rispetto da provare per il nuovo consumatore narcisista, che pretende di venire viziato, valorizzato e valutato per ciò che è. La rilevanza assunta dall’individualismo non implica però la rarefazione dei legami con il sociale. La società postmoderna, infatti, vede coesistere manifestazioni individualistiche e nuove forme di socialità, che spesso assumono la forma della tribù30 (Maffesoli, 1988). In questo modo, proprio mentre l’individualismo acquista una nuova legittimità sociale, si diffonde il desiderio di stare insieme per condividere atmosfere, scambiare emozioni: nascono, dunque, forme di socialità inedite, diverse da quelle più tradizionali basate sulle appartenenze di ceto e di classe, perché il tribalismo, prima di essere politico, economico o sociale, è un fenomeno culturale. Partendo da quanto scritto da Maffesoli, Fabris (2003) evidenzia come le tribù riguardino anche il mondo del consumo: qui il desiderio di appartenenza e di interazione riesce a creare un legame che diventa persino più importante di quello 30 Maffesoli definisce queste forme di socialità comunità emozionali, basate su un provare e un sentire in comune; secondo l’autore, infatti, “si può dire che assistiamo alla tendenziale sostituzione di un sociale razionalizzato con una socialità a dominanza empatica” in cui “la socialità si esprime in una successione di ambiances, di atmosfere, di sentimenti, d’emozioni”. 104 con il bene che ha in origine generato l’incontro; il consumo in questo senso diventa il collante delle nuove forme di socialità31. II.3.2.4. Il polisensualismo Il nuovo vissuto del corpo, la centralità dell’io, il nuovo modo di esprimersi attraverso l’edonismo e il narcisismo, ha generato anche il recupero di aspetti della fisicità32 che si erano persi nel tempo e che invece ora vanno configurandosi come nuovi referenti per il consumo. Sta cambiando infatti il modo di rapportarsi fisicamente ai prodotti, di percepirne le caratteristiche oggettive, strutturali, di valutarne la qualità. Un tempo le percezioni si basavano essenzialmente sull’uso di un solo senso: il cibo era valutato con il gusto, l’abito dalla vista, il tessuto dal tatto, una canzone 31 La tribù può nascere intorno a una marca, a un prodotto, a un punto vendita o a un personaggio ed è costituita, ad esempio, dai possessori di una Harley-Davidson o di un’auto d’epoca, ma anche dal cosiddetto mondo gay, dagli skateboarders, dai fan club di un divo e dagli utenti Internet (che danno luogo alle comunità virtuali): in ognuno di questi casi il senso di appartenenza ha una coloritura emotiva che influenza profondamente il modo di vivere e di consumare dei membri. 32 Sempre con riferimento al fenomeno del consumo, più recentemente Codeluppi (2007) ha parlato di progressiva “vetrinizzazione” della vita quotidiana: a partire dal Settecento la vetrinizzazione ha riguardato ogni aspetto della vita sociale, dalla percezione del sé nel rapporto con il proprio corpo (ad esempio nell’attenzione, a volte ossessiva, per la forma fisica e la cura estetica), all’ostentazione della vita privata (pensiamo ai reality show), fino alla costruzione di città vetrina come (ad esempio, Celebration di Disney in California), per arrivare al modo di relazionarsi con la morte (vissuta come “ultima vetrina” e in quanto tale spettacolo da consumare o evento da costruire e pianificare nei dettagli). La vetrinizzazione può essere collegata quindi al progressivo spettacolarizzarsi della vita quotidiana, che prende avvio a partire dalle tecniche di promozione e messa in vendita delle merci. 105 dall’udito, un profumo dall’olfatto La valutazione sensoriale era comunque sempre subordinata al giudizio razionale. Ora, invece, sembra prendere il sopravvento una cultura che mobilita il ricorso ai sensi nella loro totalità33 ai fini di comprendere in modo completo e autentico il mondo che ci circonda. Sono i recettori sensoriali che ci consentono di rapportarci con l’esterno, di trasformare le qualità sensibili di un oggetto trasmesso al cervello in informazioni e emozioni: ogni senso interroga il mondo con cui viene a contatto, ricavandone le informazioni e poi mediandole con quelle percepite dagli altri sensi. Fabris (2003) definisce questa nuova importanza dedicata ai sensi come “polisensualismo”: esso si esplicita con un’acuita attenzione ai proprio sensi34 e con una fruizione delle merci diversa dalla mera valenza funzionale. Il polisensualismo diviene una modalità di approccio sensitivo alla realtà, complementare all’approccio razionale. La mobilitazione dei sensi si sviluppa contestualmente alla valorizzazione dei sentimenti, all’irrompere del ruolo delle emozioni nella cultura e nei mercati. La prevalenza della dimensione intangibile, valoriale e simbolica dei prodotti è legata al fatto che sono soprattutto i desideri a guidare gli individui nelle loro 33 Occorre enfatizzare il rilievo dei sensi nella loro globalità, non solo della vista, che è stata da sempre l’organo privilegiato su tutti, la dimensione della sensorialità sin quasi a detenerne un monopolio. 34 Il ricorso ai sensi contente una sorta di penetrazione di congiunzione a distanza con l’oggetto annullandone i confini. Greimas (1998) sostiene che “il tatto è qualcosa in più di ciò che l’estetica classica gli riconosce (capacità di esplorazione dello spazio e apprensione dei volumi): esso di situa tra gli ordini sensoriali più profondi, esprime prossemicamente l’intimità ottimale e manifesta, sul piano cognitivo, la volontà di una congiunzione totale.”. 106 scelte di consumo: nella società contemporanea i bisogni sono già stati in larga misura soddisfatti, mentre lo stesso desiderio, svincolato da un bisogno specifico, può essere soddisfatto in molti modi diversi35 (Fabris 2003). I desideri sono strettamente collegati alle emozioni, che assumono una rilevanza crescente nelle scelte d’acquisto. La ricerca di emozioni da parte del consumatore ha portato numerose marche a valorizzare la componente “soft” nel loro mix di comunicazione, ora proponendo spot pubblicitari dove sono i sentimenti e le sensazioni a orientare la narrazione e gli effetti comunicativi, ora creando atmosfere sul punto vendita o sul sito web, ora puntando sull’emotional design. Si tenta di dialogare con il lato meno razionale del consumatore perché si riscontra nel vivere sociale un inedito protagonismo delle emozioni (Fabris 2003), nel senso che “sempre più ci affidiamo alle emozioni nelle relazioni con gli altri, per valutare quello che abbiamo intorno, per indirizzare i nostri comportamenti” (Fabris & Minestroni 2004); per questo nelle strategie di branding si mira a coinvolgere il target puntando sull’immaginazione, sulle esperienze, sulle passioni e sulla sensorialità. 35 Può capitare così che la competizione tra prodotti esuli dallo specifico ambito merceologico in cui era inizialmente confinata: una scatola di cioccolatini, se il desiderio è quello di concedersi un piccolo premio, può competere non solo con le altre marche di cioccolatini in commercio, ma anche con una cravatta, con un CD, con un massaggio o con una vacanza. Alla necessità di soddisfare il prima possibile un bisogno subentra così la differibilità dei desideri: il bisogno, in genere legato alla materialità, deve essere soddisfatto, mentre il desiderio, legato all’immaterialità, al sogno, può anche non esserlo, ma è fondamentale nel determinare la scelta. 107 Si afferma quindi una nuova concezione di marketing, definito come marketing aesthetics36, con la quale si intende una nuova concezione che sottende una costante interazione di fantasie, emozioni, sensorialità, racchiusi in un’unica visione esperienziale. Schmitt e Simonson (1997) intendono per marketing estetico “il marketing delle esperienze sensoriali nella attività di corporate o brand che contribuiscano a formare l’identità di una organizzazione o di una marca”. Centrale nel marketing estetico è il riferimento alla globalità dell’esperienza sensoriale ed emozionale. Il richiamo al mondo delle sensazioni tattili, del suono, dell’odore e della globalità delle percezioni sensoriali è evidente anche nella comunicazione pubblicitaria, dove spesso si cerca di stimolare i sensi nella loro totalità: basti pensare al settore dei profumi dove l’odorato, senso principalmente coinvolto nella fruizione di questo tipo di prodotto, si accompagna alla vista, alla tattilità; ma anche ad alcuni prodotti alimentari, dove il gusto, l’olfatto, la vista entrano in gioco in maniera paritaria per dialogare con il consumatore. 36 Nel dispiegarsi della storia, Morra (1992) individua il susseguirsi di quattro tipi antropologici. Tutto è iniziato dall’homo sapiens, seguito poi all’homo religious, che coniuga la vita terrena con quella trascendente, e dall’homo faber, improntato ad una razionalità strumentale e alla rivendicazione dell’autonomia dell’agire. Si giunti infine all’ultimo stadio dell’evoluzione antropologica con l’emergere dell’homo ludens (Huinzinga, 1946) che caratterizza la postmodernità. Secondo Maffesoli (1985) invece dopo l’homo politicus e l’homo oeconomicus, ora sarebbe l’era dell’homo aestheticus. 108 II.3.3. L’evoluzione della relazione con il consumatore Come è stato ampiamente analizzato nel paragrafo precedente, quella descritta da Fabris (2003), è una realtà fluida, nella quale i prodotti si dematerializzano, i desideri prendono il sopravvento sui bisogni, la sfera emotiva e il polisensoriale diventano le modalità più significative di approccio con il mondo esterno. Una realtà totalmente dematerializzata e mediatizzata con il conseguente primato dello stile da parte di un soggetto debole e narcisistico, che si serve del consumo come mezzo estetizzante per esprimere il proprio io. Nella complessa società postmoderna, le sfide tra i prodotti lasciano il posto alle sfide tra i significati, i messaggi, le percezioni intorno ai prodotti (Semprini, 2003) ed entra in gioco il concetto di “esperienza”, che assume una rilevanza particolare sia dal punto di vista dell’impresa, soprattutto dell’uomo di marketing che pensa a delle strategie per ottenere consensi in ambito economico commerciale, sia da quello dell’analista che cerca strumenti efficaci per comprendere i comportamenti di consumo. Il passaggio che sposta l’attenzione dal prodotto materiale e funzionale alla condivisione di conoscenza, trasforma il consumo in un processo anch’esso immateriale, dove la trasmissione di significati simbolici esercita un ruolo determinante rispetto al bene o servizio in sé (Holbrook, 1999; Pine & Gilmore, 1999; Schmitt, 1999): il valore dello scambio all’interno della filiera viene a 109 dipendere dall’esperienza che il processo di acquisto e di consumo aiuta a realizzare (Addis & Hoolbrook, 2001; Addis, 2005). La gestione della complessità che ne discende al fine di elaborare nuove proposizioni di valore per l’impresa deve quindi consentire di valorizzare l’esperienza individuale e immergere ciascuno in un circuito di nuovi significati, idee, emozioni e valenze immateriali (Barile, Busacca, & Costabile, 2001; Addis, 2005): è quindi sul terreno della differenziazione simbolica del sistema di offerta dei prodotti e servizi che si gioca oggi, in molti casi, la sostenibilità del vantaggio competitivo d’impresa (Prahalad & Ramaswamy, 2003). Il nodo teorico alla base di tale possibile ampliamento delle prospettive del marketing è il riconoscimento della natura semiotica37 della “merce”. Alla luce di tale prospettiva, il marketing non può concepire correttamente consumatore come mero destinatario e punto d’arrivo (the end user); al contrario, compito del marketing è instaurare relazioni stabili e collaborative, attivando un ciclo continuo e interattivo, che coinvolge domanda e offerta, di produzione e riproduzione di significati e valori. E anziché la comprensione a priori del consumatore, sembra cruciale la costruzione congiunta di significati di modo che il marketing deve riorganizzarsi all’interno delle aziende così da divenire “un co- 37 Nell’analogia evidenziata consumo/sistema complesso di significazione emerge la pertinenza della semiotica per il marketing e per la comprensione dei significati simbolici del consumo e delle connesse dinamiche comportamentali. 110 gestore dei processi evolutivi, liberi e dotati di una propria dinamica, dei consumatori” (Gerken, 1990). Il consumatore diventa co-creatore, co-produttore del sistema d’offerta di cui è egli stesso fruitore (Prahalad & Ramanswamy, 2000; Bendapudi & Leone, 2003; Vargo & Lush, 2004): la ricerca di benefici di tipo emotivo, simbolico ed esperenziale, infatti, configura nuove modalità di fruizione dell’offerta che non riguardano più prodotti e/o servizi, ma la costruzione di esperienze contestuali che definiscono il valore creato per il cliente (Pine & Gilmore, 1999; Day, 2003). Tale dimensione del valore si realizza con la personalizzazione dell’esperienza di cocreazione del valore da parte delle imprese (Prahalad & Ramanswamy, 2004) in tutte le occasioni di interazione (touch point) tra le parti. La passività e la subordinazione al mondo della produzione viene sostituita, infatti, dalla richiesta di un ruolo più dialettico, di maggiore autonomia, di dialogo. Di un’interattività reale di un rapporto che accanto al tradizionale topdown preveda anche flussi bottom-up e continui feedback ed una circolarità del rapporto. Infatti, ciò che il consumatore rifiuta oggi è il ruolo di passività nel flusso comunicativo con l’impresa: tradizionalmente, il cliente era mero destinatario di una vasta attività di marketing da parte delle aziende e costantemente impossibilitato ad intavolare qualsiasi forma di dialogo. Sempre comunque oggetto della comunicazione, mai soggetto. Impotente nei confronti di una 111 produzione che fabbrica i suoi prodotti cercando di interpretare le sue esigenze, ma in realtà imponendo la propria interpretazione dei suoi bisogni e desideri. Di fatto, quindi, il rapporto tra azienda e consumatore è sempre stato sostanzialmente autoritario, di certo non simmetrico o dialettico. Le ragioni di questo approccio si possono semplicemente trovare nell’inefficacia e inefficienza dei canali del feedback, spesso lenti, costosi e non diffusi su larga scala. In questo contesto, le nuove tecnologie hanno svolto un ruolo cruciale: in termini potenziali, hanno ribaltato il rapporto impersonale tra azienda e cliente trasformandolo in una vera e propria relazione biunivoca. La comunicazione con il consumatore fa ora riferimento alla sua vera definizione, ovvero ad un processo di circolarità che prevede feedback continui e la possibilità di una risposta reale. In questo senso, il rapporto tra consumatore e azienda tende ad assomigliare a quello che si registra nel settore business-to-business, dove la relazione è tendenzialmente simmetrica, gli attori si conoscono e impostano la relazione sulla fiducia reciproca. Il consumatore diviene dunque soggetto di una relazione da instaurare e coltivare: è possibile conoscere i suoi bisogni, preferenze, interessi, stili di vita ed adattare a questi un flusso di informazioni e di servizio, così da instaurare una relazione personalizzata orientata a trasformare una transazione occasionale in una relazione di lunga durata. In altre parole, si vengono a creare i presupposti per 112 un’intelligente operazione di fidelizzazione, che in mercati tendenzialmente saturi rappresenta il più importante fattore di successo. L’obiettivo dell’impresa diventa quello di massimizzare l’attenzione al cliente, confezionando un servizio globale, un bundle of benefits che esalta la personalizzazione, struttura offerte ampie e flessibili, privilegia il rapporto diretto tra azienda e cliente secondo una logica di partnership e consulenza costante (Rullani, 2006). In conclusione, il passaggio logico descritto da una prospettiva relazionale domanda/offerta incentrata sull’impresa alla prospettiva esperenziale basata sul cliente si basa su alcuni importanti assunti di fondo (Prahalad & Ramanswamy, 2004): 1. l’interazione consumatore-impresa è l’ambiente specifico in cui si crea il valore; 2. l’esperienza di co-creazione individuale è la principale base del valore presente in impresa; 3. i canali multipli o punti di interazione impresa-cliente sono le vie d’accesso all’esperienza; 4. l’infrastruttura dell’impresa deve saper sostenere la co-creazione di esperienze eterogenee; 113 5. la rete estesa, che comprende l’intera comunità di consumatori con cui interagisce l’impresa, è la sede dove si formano le competenze distintive correlate alla gestione delle relazioni con i clienti (Day, 2003). La tabella sottostante (Tabella II.3.3-1) riassume i cambiamenti avvenuti a livello di consumatore e le ripercussioni a livello manageriale. 114 115 Fonte: Prahalad & Ramaswamy, 2000. Database marketing; two-way connection. Relationship marketing; two-way communication and access. Active dialogue with customers to shape expectations and create buzz. Multilevel access and communication. Customers are codevelopers of personalized experiences. Companies and lead customers have joint roles in education, shaping expectations and cocreating market acceptance for products and services. Gain access to and target predetermined groups of buyers. One-way communication. Providing for customers trough observation of users; identify solutions from lead users and reconfigure products and services based on deep understanding of customers. Shift from a selling to helping customers via help desks, call centers and customer service programs; identify problems from customers, then redesign products and services based on the feedback. Purpose and flow of communication Company’s interaction with customers, and development of products and services The customer is not only an individual but also part of an emergent social and cultural fabric. The customer is a person; cultivate trust and relationships. The costumer is an average statistic; groups of buyers are predetermined by the company. Traditional market research and inquiries; products and services are created without much feedback. Managerial mindset The customer is an individual statistic in a transaction. Customers are part of the enhanced network; they cocreate and extract business value. They are collaborators, codevelopers and competitors. Customers are seen as passive with a predetermined role of consumption. Beyond 2000 Nature of business exchange and role of customer 1990s Late 1980s and early 1990s Customers as cocreators of value 1970s, early 1980s Lifetime bonds with individual customers Transacting with individual buyers CUSTOMER AS A ACTIVE PALYERS Time frame Persuading predetermined group of buyer CUSTOMER AS A PASSIVE AUDIENCE Tabella II.3.3-1. The evolution and transformation of customers II.3.4. Rifondare la relazione con il consumatore: la gestione delle relazioni La crescente complessità emergente dal lato della domanda e la conseguente evoluzione dei rapporti con il consumatore in ottica relazionale mettono sempre più spesso in evidenza l’inadeguatezza dei consueti modelli di impostazione positivista di cui è espressione il tradizionale processo di marketing management, che vede il consumatore, da una parte “sovrano”38, ma dall’altra, “oggetto” dell’azione di mercato dell’impresa pressoché passivo, sostanzialmente stabile poiché dotato di una forte coerenza interna, quindi conoscibile a priori. Le tendenze contestuali descritte in precedenza, e dunque la ricerca estremizzata di simboli, identità, emozioni ed esperienze da parte del consumatore, sta determinando la transizione da una definizione paradigmatica delle categorie di prodotto a una di tipo sintagmatico, propedeutica alla definizione di una differenziazione che consideri i rituali e le stringhe di consumo, quali elementi cardine nella generazione dell’offerta (Castaldo & Bertozzi, 2000). Tale trasversalità dei contenuti simbolici associati ai prodotti sfocia nel tentativo di proporre veri e propri “sistemi di consumo”, connotati da forti valenze emozionali ed esperienziali, individuali e sociali (Cova, 2002; Golinelli, 2002); le imprese, in tal modo, possono generare un’offerta unica oltre che personalizzata, il cui valore 38 “There is one valid definition of business purpose: to create a satisfied customer” (Drucker, 1954). 116 totale è superiore alla somma dei singoli componenti, proprio in virtù delle valenze contestuali ed emotive. A fronte di tale tendenza, le imprese hanno colto le potenzialità delle Information & Communication Technology prima, e degli ambienti digitali poi, per rendere progressivamente più flessibili sia i processi produttivi (Valdani & Dosi, 1995; Pine, 1993; Womack, Jones & Ross, 1990) sia quelli comunicativi (Wind & Rangaswamy, 2000), ponendo le basi per la personalizzazione dinamica dell’offerta. L’estrema soggettività che caratterizza i comportamenti di consumo rende non più conveniente procedere seguendo percorsi convenzionali di analisi della domanda, e, di conseguenza, progettazione dell’offerta. E’ più efficace interagire con i clienti mediante sperimentazioni e sistematiche inversioni nel processo di produzione del valore d’uso, limitandosi a governare al meglio la relazione e percezione del valore di scambio. In questi mercati, risulta fondamentale riuscire a mettere in atto le cosiddette “strategie duali”, ovvia la contemporanea attenzione alla gestione del presente e della predisposizione allo sviluppo futuro. L’impresa dovrebbe infatti concentrare i propri sforzi di marketing sui clienti attuali e fedeli per catturare il maggior potenziale generativo di conoscenze e innovazioni39, così da costruire una fonte di 39 A tal proposito risultano particolarmente utili gli studi che si sono focalizzati sul ruolo e le caratteristiche degli utenti innovatori, nonché sui modelli utilizzabili per la loro identificazione e 117 conoscenza specialistica da integrare nel processo di sviluppo dei nuovi prodotti, in grado di contribuire a generare nuove idee circa gli attributi di prodotto o il suo design. Mediante la collaborazioni con i propri consumatori è possibile cogliere il nascere di desideri ancora latenti sia nei segmenti di mercati più ampi, sia nei segmenti ritardatari nel processo di adozione delle innovazioni. Grazie alle conoscenze così generate, l’impresa può affrontare la competizione nei mercati futuri, anticipandone e guidandone l’evoluzione in una logica market driven (Valdani, 1995). Lo sviluppo di relazione solide e leali con i clienti e il potenziamento delle capacità di gestione del portafoglio relazioni si impongono come le uniche scelte in grado di attivare processi di apprendimento esplicito e implicito, percorsi di crescita della competitività e del valore delle opzioni di sviluppo di impresa. Il potenziale di apprendimento, in particolare, deriva dalle relazioni che mediante condivisione di conoscenze consentono di attivare flussi informativi sulle preferenze dei clienti e di incidere sulle competenze organizzative (Selnes & Sallis, 1999; Ostillio & Troilo, 2000). selezione. In particolare, Von Hippel (1986) ha portato all’introduzione e al successivo affinamento del costrutto di lead user. Il lead user è quel cliente (utilizzatore industriale, utente o consumatore) che, in ragione dell’esperienza pratica nell’uso del prodotto e della capacità di analisi prospettica, riesce a dare rappresentazione al bisogno esplicito di un prodotto innovativo in anticipo rispetto al resto del mercato. L’Autore sostiene: “I define lead users of a novel or enhanced product, process or service as those who display two characteristics with respect to it: - lead users face needs that will be general in a market place - but face them months or years before the bulk of that marketplace encounters them; - lead users are positioned to benefit significantly by obtaining a solution to those needs”. 118 L’apprendimento relazionale è guidato dalla volontà combinata, sia del cliente sia dell’impresa, di condividere informazioni e darne loro un senso (Troilo, 2000). Anderson e Narus (1990) hanno individuato un ciclo di apprendimento nella relazione; il modello prevede diverse fasi: dall’acquisizione all’interpretazione, all’integrazione di linguaggi e significati, al conseguente cambiamento di atteggiamenti e comportamenti quale output ed evidenza dell’avvenuto apprendimento. Già in precedenza, Levitt e March (1988) avevano evidenziato che più lunga è la relazione, più è elevata la probabilità che catene cognitive e processi di categorizzazione siano simili compatibili, rendendo più efficace e più efficiente l’apprendimento relazionale. Gli stessi autori hanno sostenuto che fiducia e mutualità, di comportamenti e obiettivi, costituiscono variabili di influenza dei processi di apprendimento40. In particolare, Prandelli e von Krogh (1999) hanno sottolineato il valore fondamentale della conoscenza tacita dei clienti. Basandosi sulla nota classificazione della conoscenza di Polanyi (1968) e Nonaka (1991), i due Autori sostengono che il vantaggio competitivo si fonderà sempre più sulla capacità di convertire la conoscenza tacita in esplicita e sulle opportunità di socializzazione della conoscenza tra cliente-cliente e tra cliente-impresa: sia la conversione sia la 40 Nuova enfasi sul ruolo dell’apprendimento dai clienti, come fonte di vantaggio competitivo, è stata di recente posta dalla letteratura sulle comunità virtuali di consumo (Micelli, 1997; Sawhney & Prandelli, 2000). 119 socializzazione richiedono la presenza di relazione collaborative e di lungo periodo. Al fine di accumulare tali conoscenze, diviene fondamentale lo studio della domanda e in particolare di modelli che consentano di descrivere, interpretare e gestire la relazione con i clienti nelle sue dimensioni cognitive e comportamentali. L’importanza attribuita ai processi di gestione delle relazioni è testimoniata dai crescenti investimenti in ricerche a sostegno del customer relationship management41. Nel corso degli anni, il budget dedicato a ricerche sui clienti (customer satisfaction survey, analisi pre-lancio del prodotto, post-consumption research e così via) ha superato ampiamente il 30% del totale degli investimenti delle imprese in ricerche di mercato (Oliver, 1999). Allo stesso tempo, sono sempre di più le imprese che stanno aumentando i loro investimenti di marketing su obiettivi di consolidamento e di sviluppo della relazione con la customer base, invece che sui convenzionali target di aumento del portafoglio clienti42. 41 Kumar and Reinartz (2006) definiscono il CRM (customer relationship management) come segue: “CRM is the strategic process of selecting the customers a firm can most profitably serve and of shaping the interactions between a company and these customers. The goal is to optimize the current and future value of the customers for the company.”. E’ importante sottolineare che il CRM non indica solo le soluzioni informatiche a supporto delle politiche di customer care, ma al contrario individuano un complesso sistema di competenze, specialiste e architetturali, che consentono di dispiegare le capacità relazionali dell’impresa. 42 Già da tempo, le imprese si sono poste il problema di valutare separatamente gli investimenti per l’acquisizione e quelli per il consolidamento della base clienti. In particolare emerge con forza il concetto di valore del cliente, presente in letteratura nelle sue varie forme e declinazioni (value of the customer, Lifetime value-LTV, customer value o customer equity). Si fa riferimento alla capacità dell’impresa di definire e monitorare il valore economico della base dei propri clienti nel 120 Con il passaggio dall’orientamento transazionale alla strategia relazionale, le finalità del marketing e i modelli di analisi della domanda devono anch’essi adottare una prospettiva relazionale, spostando la focalizzazione dal consumatore al cliente. Nonostante i segnali forti verso una svolta relazionale, nella letteratura in tema di analisi della domanda manca una chiara sistematizzazione che consenta di guidare e sostenere le scelte relazionali delle imprese43. Molti modelli di customer behaviour, ad esempio, non approfondiscono le complesse dinamiche del comportamento del cliente nel corso del ciclo di vita della sua relazione con l’impresa, ma si limita a descrivere il sistema valutativo post-acquisto come l’insieme delle percezioni da cui ha origine il flusso di retroazione sul sistema motivante e su quello percettivo, interpretando il processo di feedback esclusivamente sulla base del costrutto “soddisfazione/insoddisfazione” per l’esperienza d’uso del prodotto (Costabile, 1996). ciclo di vita della relazione, attraverso la configurazione di specifici indici di misurazione. Per Rust, Zeithaml e Lemon (2004), ad esempio, la definizione e il monitoraggio del valore della vita utile dei propri clienti (Lifetime value of the customer) deriva dall’analisi sistemica dei seguenti fattori: 1. il periodo temporale di riferimento dell’analisi; 2. il tasso di attualizzazione (o costo del capitale) applicato agli investimenti dell’impresa; 3. la frequenza d’acquisto dei consumatori in ogni periodo considerato, con riferimento alla/e categoria/e di prodotto/i analizzata/e; 4. il tasso di contribuzione medio legato agli acquisti di ogni categoria di prodotto; 5. le preferenze di marca più recenti espresse dai consumatori clienti dell’impresa; 6. la stima della probabilità di scelta di ciascun brand in caso di riacquisto effettuato da parte dei clienti dell’impresa. 43 La carenza di modelli teorici condivisi sul comportamento del cliente viene evidenziata da Iacobucci et al. (1992); questa carenza permane nonostante i consistenti sviluppi d’indagine sulle determinanti della customer satisfaction e del comportamento post acquisto a partire dalla seconda metà degli anni settanta e nonostante le numerose ricerche registrate a partire dai primi anni ottanta e proseguite poi per tutto il decennio successivo. 121 Nel filone di studio sul customer behaviour sono presenti numerosi costrutti e relazioni tra i diversi costrutti. I principali riferimenti teorici e empirici possono essere classificati nel seguente modo (Costabile, 2001): - i risultati degli studi sulla customer satisfaction, sulle sue determintnati e sulle sue conseguenze (Iacobucci, Grayson, & Omstrom, 1992; Oliver, 1999); - i modelli sulla fiducia e le verifiche che ne hanno accertato la dimensione cognitiva definita dall’affidabilità percepita, nonché dagli studi che hanno determinato il suo legame con la propensione al riacquisto e al consolidamento della relazione (Bitner, 1995); - gli studi del ciclo di vita della relazione e delle sue diverse forme di fedeltà, che nella sua configurazione di base si presenta come semplice ripetizione d’acquisto, ma che qualora sia basata su atteggiamenti favorevoli all’impresa diviene vera fedeltà, ovvero fedeltà sia mentale sia comportamentale (Busacca & Castaldo, 1996); - gli studi sull’equità, soprattutto quelli che hanno collegato l’equità percepita e la reciprocità con la disponibilità a collaborare (Ganesan, 1994); - le sperimentazioni sulla sensibilità verso la maggiore o minore correttezza delle ragioni di scambio e quindi sulla percezione di equità che determina la soddisfazione, in funzione della maggiore o minor frequenza di rapporti del cliente con l’impresa (Huppertz, Arenson, & Evans, 1978). 122 In una prospettiva dinamica, un possibile modello concettuale dei processi di gestione delle relazioni con i clienti e finalizzati alla massimizzazione del valore delle stesse è descritto nella figura II.3.4-1 (Cantone, 1996). Nel modello si sviluppa lungo due dimensioni: 1. le fasi evolutive delle relazioni con i clienti: identification, acquisition, retention, development; 2. le determinanti del valore della relazioni con i clienti: knowledge, experience, satisfaction, loyalty. Figura II.3.4-1. Un modello di analisi del valore delle relazioni con i clienti Fonte: Catone (1996) 123 La prima fase evolutiva considerata nel modello è quella dell’identificazione del cliente. In questo stadio della relazione, l’obiettivo primario dell’impresa è la conoscenza profonda dell’identità del singolo consumatore, accumulando, integrando ed analizzando tutte le informazioni raccolte nelle varie occasioni di contatto che egli ha con l’impresa44. La seconda fase evolutiva delle relazioni impresa-cliente è quella dell’acquisizione del cliente. L’obiettivo dell’impresa in tale fase dovrà essere da un lato la realizzazione di proposte di valore differenziate, in base alle differenti caratteristiche di diversi consumatori, dall’altro la minimizzazione dei costi di acquisizione di ogni cliente (Wayland & Cole, 1997). Il fine di tale processo, naturalmente, è la massimizzazione del ritorno sugli investimenti effettuati nella costruzione delle relazioni con i clienti. È questo il primo stadio in cui si presenta uno scambio di valore tra i due soggetti, misurato in base al vissuto esperienziale, ovvero dalla complessiva customer experience lungo l’intero processo di acquisto e consumo. La terza fase evolutiva delle relazioni è quella del mantenimento del cliente. Le strategie di mantenimento del cliente fanno riferimento alla capacità dell’impresa 44 Tale processo di customer knowledge management permette l’innescarsi del processo di apprendimento e di adattamento reciproco esistente nell’ambito di una relazione impresa-cliente. L’apprendimento non è tanto costituito dalla memorizzazione ma dalla costruzione e dall’utilizzo di conoscenza su di esso da parte dell’organizzazione: un’organizzazione tesa a generare valore (Valdani & Busacca, 1999). 124 di sviluppare e guidare i comportamenti di riacquisto dell’offerta, attraverso lo sviluppo della soddisfazione del cliente. Infine, la quarta fase evolutiva delle relazioni impresa-cliente è quella dello sviluppo: in questo stadio il cliente assume una connotazione di enorme importanza strategica per l’impresa. L’accumulazione di fiducia del cliente nei confronti dell’impresa ha manifestato il suo valore mediante: la partecipazione del cliente all’esperienza di scelta, di acquisto e consumo dell’offerta; un livello di soddisfazione percepita tale da guidare lo stesso cliente al riacquisto consapevole dell’offerta, tipico di comportamenti fedeli e leali (Costabile, 2001). La sviluppo temporale delle relazioni con i clienti non deve essere considerata nella sua specifica sequenzialità: naturalmente è possibile che alcune relazioni seguano percorsi diversi o che alcune fasi possono ripetersi anche in momenti successive e/o precedenti. La potenzialità del modello è invece nell’analisi sistemica delle relazioni con i clienti che consente di definire il concetto di valore delle relazioni nella sua dimensione longitudinale e, ancor più importante, di utilizzare approcci manageriali differenti in ogni fase della relazione. 125 II.4. L’analisi relazionale della domanda intermedia: i canali distributivi L’impresa industriale, per collocare sul mercato i propri prodotti ed assicurarsi così un adeguato livello di redditività, deve ottenere il favore dei consumatori, orientando le scelte degli users attuali e potenziali del prodotto e cercando di mantenere alti livelli di customer satisfaction. Nel far questo, però, oltre a competere con i propri concorrenti, l’impresa industriale deve misurarsi con alcuni caratteri strutturali dei mercati di sbocco. Nella maggior parte dei mercati, la lontananza fisica e/o psicologica tra produttori e consumatori rende necessario il ricorso ad intermediari per permettere un incontro efficiente tra domanda e offerta e colmare questa distanza45 spaziale e temporale. Ciò provoca, in definitiva, il sorgere nell’ambito dei mercati di sbocco di una seconda categoria di relazioni, accanto a quelle con i consumatori finali: si tratta delle relazioni con i distributori, i quali nella maggior parte dei casi si pongono come interlocutori diretti del produttore nella realizzazione di transazioni 45 “Questa distanza si è ampliata nel tempo, in relazione al divenire delle scelte organizzative delle imprese industriali e delle esigenze avvertite dai clienti finali. Da una parte, infatti, l’impresa industriale ha percorso le vie della specializzazione produttiva e della riduzione della varietà dei prodotti, dall’altra, il consumatore ha allargato il proprio ventaglio di richieste in relazione al progredire dei processi di crescita economica”. (Baccarini, 1997) 126 commerciali46. Infatti, un canale di distribuzione può essere individuato come un’insieme di imprese che svolgono il complesso di attività necessarie per trasferire il prodotto (bene fisico o servizio) e il relativo titolo di proprietà dal produttore al consumatore, generando un flusso fisico, di titolo, di pagamento, di informazioni e promozionale. In un questo quadro, il rapporto dell’impresa industriale con il consumatore è tutt’altro che diretto, richiedendo anzi consistenti sforzi per essere prima creato e poi mantenuto. Dunque, la capacità dell’impresa industriale di influenzare la domanda viene sempre, in qualche misura, influenzata dalle scelte e dall’agire delle imprese della distribuzione, che ormai da tempo anche in Italia non sono più un fattore neutrale rispetto alle politiche dell’industria. Anzi, Il distribuzione si trasforma in intermediario attivo in grado di perseguire sviluppare strategie autonome per acquisire e conservare la propria clientela anche tramite strumenti, come la marca, di tradizionale appannaggio delle imprese industriali. La quasi totalità delle imprese della grande distribuzione, infatti, hanno sviluppato sofisticate politiche di marca e gestiscono portafogli di private label che 46 In diversi casi la situazione è ancora più complessa: spesso il consumatore non è nemmeno l’interlocutore commerciale diretto del distributore, perché la divisione dei ruoli all’interno della famiglia individua uno o più responsabili d’acquisto, che sono coloro che effettuano la scelta di punto vendita (dove acquistare) e in alcuni casi anche di prodotto (cosa acquistare). Un ulteriore fattore di complessità che riguarda il processo di acquisto del consumatore è il concetto di influenzatore, intendendo con ciò riferirsi a soggetti che possono in qualche modo intervenire nella fase di raccolta delle informazioni o di valutazione delle alternative. 127 continuano ad acquisire spazio sugli scaffali e quote di mercato, anche a discapito delle marche industriali leader. Inoltre, non sono da sottovalutare i tentativi compiuti dalle più dinamiche imprese commerciali per valorizzare appieno la loro vicinanza con l’acquirenteconsumatore, facendosi carico dell’interpretazione dei bisogni del mercato e riservando all’industria un ruolo di mero produttore (Pellegrini, 1998). In sintesi, la complessità delle relazioni con i mercati di sbocco deriva sia dall’agire di numerosi soggetti, portatori di logiche e priorità diverse sia dal loro essere in continua evoluzione, il che continuamente modifica le posizioni di forza (Rullani, 1989). Al fine di valutare tali prospettive evolutive, può diventare utile approfondire anche le determinanti del cambiamento ambientale che hanno reso obsoleto l’approccio transazionale utilizzato per descrivere i rapporti industriadistribuzione. II.4.1. I cambiamenti interni ed esterni al settore distributivo Il rinnovamento del settore distributivo deriva anche da cambiamenti avvenuti nell’ambiente interno ed esterno che portano all’evoluzione delle relazioni nel settore distributivo. Le relazioni tra produttori e distributori non sono statiche nel 128 tempo, ma estremamente dinamiche: in particolare, si assiste alla modifica dei rapporti di forza tra industria-distribuzione, sempre più a favore della distribuzione. Nelle economie più avanzate, il ruolo dei distributori è evoluto profondamente passando da una mera intermediazione passiva ad una posizione imprenditoriale attiva, che hanno determinato radicali innovazioni nelle politiche di impresa. L’evoluzione del ruolo del distributore è essenzialmente funzione delle condizioni competitive preesistenti nel mercato (Carlisle & Parker, 1989): nelle situazioni di mercato in cui la domanda è quantitativamente superiore all’offerta (economie di scarsità) il ruolo dei distributori è passivo, in quanto la capacità produttiva è mantenuta al di sotto della domanda totale; al contrario, in situazioni competitive contraddistinte da un sostanziale equilibrio tra la domanda e l’offerta, la distribuzione mostra una certa apertura verso il cliente, assumendo un ruolo attivo; in condizioni competitive di domanda quantitativamente inferiore all’offerta (economia di eccesso), si determina un ruolo competitivo dei distributori nei confronti dei produttori e dei distributori (Gnecchi, 2002). In questa ultima fase, nelle relazioni tra industria e distribuzione vengono integrate alcune attività dei produttori con quelle dei distributori e viceversa. Il distributore aumenta il proprio potere a scapito del produttore, esercitando talvolta funzioni di produzione. Il rapporto industria-distribuzione diventa così concorrenziale. 129 Sheth (1983) individua in alcuni cambiamenti dell’ambiente esterno, come i fattori scatenanti per il rinnovamento del settore distributivo: queste cause, seppur identificate nel 1983, possono essere riadattate alla situazione attuale, ma soprattutto possono essere ricondotti ai cambiamenti generali avvenuti nel sistema economico generale e calati nelle specificità del sistema distributivo. I cambiamenti ambientali si riferiscono principalmente a tre ordini di fattori: - le caratteristiche dei consumatori: in particolare si fa riferimento alla volatilità dei consumi e all’instabilità della domanda; i gusti cambiano ad un ritmo molto elevato, i consumatori sono sempre più poliedrici, cercano benefici più elevati, esigono prodotti che soddisfano un gruppo di bisogni, si orientano verso nuove funzioni d’uso, sono soggetti attivi ed informati e seguono schemi di non-fedeltà47; il richiesta fondamentale è, infine, la ricerca di una risposta da parte dei distributori ai nuovi stili di vita48; 47 “Il concetto di non-fedeltà evidenzia lo stato di acquirenti che di fatto non ripetono i propri acquisti senza peraltro una specifica avversione alla ripetizione stessa ed è tipico dei mercati in eccesso d’offerta. Il cliente non fedele è chi si trova ad effettuare acquisti non ripetuti soltanto perché condizioni contingenti lo inducono a modificare il comportamento di acquisto. L’acquirente non fedele non ha necessariamente l’esigenza di provare nuove proposte o scoprire nuovi punti di vendita, quanto piuttosto di soddisfare un bisogno, magari con vincoli di tempo e di risorse economiche: tende allora ad acquistare un prodotto in promozione, a limitare la scelta presso il punto vendita più comodo sul suo percorso quando ha tempo, e così via.” (Corniani, 2004). 48 Gli stili di vita vengono declinati in una miriade di variazioni personali in continua evoluzione: persino all’interno dello stesso individuo si riscontrano tante diverse identità che danno luogo a scelte e tipologie di consumo diverse. Purtroppo, in Italia la complessità del consumare non sembra ancora essere stata valorizzata come risorsa. La prassi attuale è quella di ricorrere alla leva del prezzo nella speranza di incoraggiare una domanda sempre più debole. Si tratta di una reazione del tutto comprensibile nel breve periodo, ma sicuramente difficile da sostenere nel lungo periodo: la facilità e la rapidità con cui queste manovre possono essere imitate vanificano la loro efficacia 130 - la tecnologia: l’avvento di internet ha imposto ai distributori necessarie modifiche al loro sistema informatico: innanzitutto, si sono introdotte nuove tecnologie per permettere ai consumatori, ad esempio, di effettuare gli acquisti online direttamente da casa o di controllare il loro status di cliente (punti collezionati, sconti accumulati e così via); inoltre si sono apportati notevoli cambiamenti in alcuni sistemi logistici che hanno portato ad una maggior efficacia della distribuzione (OSA - Optimal Shelf Availability, Fast Perfect Order, ecc.); infine, si sono creati nuove procedure informatiche in grado di raccogliere ed analizzare tutte le informazioni sui propri clienti; - la concorrenza: nei mercati globali si configura uno spazio multidimensionale, per cui un determinato ambito geografico può comportare la concomitante presenza di diversi competitor; inoltre, le condotte di concorrenza si sono ulteriormente inasprite a causa della saturazione dei mercati e in condizioni di competizione basata sul tempo, in cui l’obiettivo della customer satisfaction si tramuta in una ricerca ossessiva di incroci innovativi tra vuoti d’offerta e bisogni non soddisfatti della clientela. Porter (1976), invece, si focalizza prevalentemente sulla struttura e la performance del settore manifatturiero e sull’influenza del settore distributivo sulle nel lungo termine e, in ogni modo, in periodi di congiuntura economica negativa non è pensabile sostenere i consumi solo attraverso una riduzione del prezzo (Lugli, 2005). 131 performance delle imprese industriali. L’analisi di Porter evidenzia che la concentrazione relativa49 del settore distributivo e, soprattutto, la capacità della distribuzione di influenzare la differenziazione del prodotto sono le principali variabili esogene che influenzano le performance dell’industria. Per quanto riguarda la concentrazione della distribuzione, maggiore è la concentrazione relativa di un settore, maggiore diventa il suo potere contrattuale. Secondo Adelman (1959), l’abilità delle imprese distributive di ottenere concessioni di prezzo dalle imprese manifatturiere dipende dalla struttura del settore manifatturiero: se il prezzo è superiore al costo marginale allora c’è spazio per ottenere sconti. Il potere contrattuale del distributore diventa reale quando si è in presenza di uno spazio di esposizione limitato negli scaffali. Questa minaccia è asimmetrica: è molto più potente della corrispondente minaccia dell’impresa manifatturiera di non fornire il prodotto in quanto il distributore ha a disposizione molte varianti di prodotto e molte marche per ognuna, il che vuol dire diversi fornitori. Ovviamente questo rischio diminuisce se l’impresa manifatturiera attua una strategia multicanale, ma questa eventualità sembra perdere peso con l’aumentare del grado di concentrazione del sistema distributivo (Lago, 2002). 49 Porter (1976) scrive: “per un dato settore manifatturiero, il modello della concentrazione degli acquirenti suggerisce che quanto più sono grandi e quanto più sono pochi gli acquirenti commerciali del settore manifatturiero, tanto più grande è il loro potere contrattuale nei confronti delle imprese manifatturiere”. 132 Per quanto importante, la concentrazione relativa non è l’elemento più importante dello studio sulla relazione industria-distribuzione. Una fonte di cambiamento più significativa deriva dalla modernizzazione della distribuzione, ovvero nella capacità dell’impresa di porre in atto strategie di differenziazione dell’assortimento al fine di mantenere margini più elevati. La modernizzazione della distribuzione è il processo che muove dallo stadio di pura distribuzione fisica e controllo dello spazio di vendita allo stadio in cui le imprese distributive decidono le loro strategie e promuovono la propria marca (Pellegrini, 1990). La possibilità del distributore di influenzare la differenziazione del prodotto è una conseguenza della capacità di raccogliere informazioni riguardanti le preferenze assortimentali del consumatore finale all’interno del punto vendita. Inoltre, il distributore può anche esercitare una considerevole influenza nella scelta della marca da acquistare utilizzando la leva del display e del merchandising. Un ulteriore elemento di problematicità per l’industria nasce quando le strategie di marketing della distribuzione non sono in linea con quelle dell’industria, soprattutto nell’attuale scenario competitivo dove si assiste all’adozione da parte della grande distribuzione di strategie di segmentazione sempre più raffinate (consumatore verde, consumatore sensibile ad istanze sociali, ecc…). Infine, secondo Porter (1976), la struttura del settore distributivo (concentrazione) e l’abilità di influenzare la differenziazione del prodotto (modernizzazione) hanno 133 un impatto diverso sulle imprese manifatturiere a seconda del tipo di beni che esse producono. Il distributore gioca un ruolo più importante nella vendita di prodotti non convenience50: il suo contributo nella differenziazione di questa categoria di prodotti è fondamentale, in quanto il consumatore prima di comprare confronta prezzi, qualità e stile in diversi negozi. Per i prodotti convenience, invece, la pubblicità è lo strumento principale per affermare il brand: il distributore ha un ruolo limitato e vi è un’assistenza minima o nulla da parte del personale di vendita. In conclusione, l’evoluzione che ha segnato i rapporti industria-distribuzione ha ridotto drasticamente la distanza che separa le organizzazioni, rendendo più difficile la possibilità di tracciare confini tra i due sistemi aziendali. Iniziano a insorgere interdipendenze sempre più forti tra partner commerciali, dove la dimensione concorrenziale e quella collaborativa tendono a coesistere, alimentandosi a vicenda e rendendo sempre più complessa l’analisi dei rapporti all’interno della supply chain. 50 Kotler (1972) definisce i convenience goods come: “those consumers´goods which the customer usually purchases frequently, immediately and with a minimum of effort in comparison and buying (examples. Tobacco products, soap, newspapers)”. I non convenience (shopping) goods sono descritti invece come: “those consumers´goods which the customer, in the process of selection and purchase, characteristically compares on such bases as suitability, quality, price and style (examples: furniture, dress goods, used automobiles and major appliances)”. 134 II.4.2. Relazioni di collaborazione nei rapporti distribuzioneindustria Anche per interpretare le relazioni tra imprese industriali e commerciali la logica puramente transazionale si manifesta alquanto riduzionista. I modelli tradizionali del channel marketing, di matrice economica e comportamentistica, non permettono di cogliere compiutamente la dimensione collaborativa delle relazione distributive. Il mercato è costituito in realtà da una fitta rete di relazioni interaziendali, che non possono essere ricondotte semplicemente a scambi tra flussi di merci e rispettivi mezzi monetari. Diventa quindi necessario non limitare il campo di analisi al concetto di scambio, seppure riconoscendo la centralità analitica proposta nell’ambito delle costruzioni teoriche in campo economico-aziendale, ma di ampliare i confini dell’analisi, facendo emergere la centralità delle relazioni interaziendali e le connessioni che si manifestano tra diadi di soggetti economici51. Tra industria e distribuzione si determinano, infatti, delle relazioni di lungo periodo che si caratterizzano per alti livelli di fiducia e di stabilità nel tempo. 51 Airoldi, Brunetti e Coda (1989) sottolineano come lo scambio sia solo una parte elementare del sistema più articolato di relazioni, che ne determinano l’unitarietà; gli Autori scrivono:”l’assimilazione, più o meno cosciente, di tutte le relazioni economiche interaziendali a forme di scambio e l’assunzione dello scambio come indicatore unico dello svolgimento dell’attività economica portano a nascondere o ad interpretare scorrettamente fenomeni di grandissima rilevanza. […] Le singole operazioni di scambio sono di regola parte di una relazione aziendale che le condiziona (le suscita, le vincola) e le compone ad unità relativa.”. 135 La relazione di canale, infatti, si connota in primis come individuale, ovvero tra distributore e fornitore. I fattori che determinano questa tipologia di relazione sono molteplici: la dimensione dei clienti, la loro ridotta numerosità (accresciuta in seguita all’intensificarsi del processo di concentrazione del settore commerciale), la necessità di fornire supporti di marketing su misura, l’esigenza sempre più frequente di offrire prodotti personalizzati in base alle esigenze del singolo intermediario fino alla creazione della propria marca commerciale. La relazione diventa poi sempre più interattiva (Tabella II.4.2-1): la distribuzione infatti non solo riceve prodotti, servizi e informazioni dalle imprese a monte, ma per via della prossimità con i mercati finali è in grado di sviluppare una propria customer knowledge che una volta a disposizione dei fornitori industriali consente di migliorare l’offerta e di accrescere il valore per la domanda (Pilotti, Rosolin, & Rullani, 1986; Pilotti, 1991; Lugli, 1996, 1999; Zanimotto, 1998). L’intermediario si propone così non solo come canale per veicolare a valle i contenuti innovativi sviluppati a monte, ma anche quale co-ideatore dell’offerta industriale, facendo leva proprio sulla sua specifica customer knowledge (Pellegrini & Zanderighi, 1990). 136 137 Collaborate with partner companies and with active customers. Collaborate with partner companies. Autonomous Business-unit autonomy versus leveraging core competencies. Value creation Sources of managerial tension Fonte: Prahalad & Ramaswamy, 2000. Harness customer competence, manage personalized experiences and shape customer expectations. Manage collaborative partnership. Nurture and build competencies Value added of managers Customer is both collaborator and competitor for value. Infrastructure for active ongoing dialogue with diverse customers. Privileged access to companies within the network. Internal company-specific process Basis of access to competence Partner is both collaborator and competitor for value. Access to other companies’ competencies and investments, as well as customers’ competencies and investments of time and effort. Access to other companies’ competencies and investments. What is available within the company Resources The whole system – the company, its suppliers, its partners and its customers. The extended enterprise – the company, its suppliers and its partners. The company Enhanced network Family/network of companies Unit of analysis The company Tabella II.4.2-1. The shifting locus of core competencies L’interattività si gioca quindi anche su un altro piano, ovvero quello delle relazioni con i mercati finali. L’intermediario, mediante il proprio potere di condizionamento della domanda, è in grado di decidere sul sistema delle preferenze espresso dalla clientela e i suoi comportamenti di acquisto. A fronte di tale evoluzione l’impresa industriale si trova a dipendere dalla collaborazione del distributore e dalla fiducia che questo ha sviluppato sui mercati a valle. L’analisi delle relazioni è senza dubbio complessa in quanto sempre più frequentemente iniziano a manifestarsi interdipendenze in cui la dimensione competitiva e cooperativo coesistono. Il fenomeno della co-opetition evidenzia come sia possibile gestire dinamiche cooperative, nonostante di base la relazione si basi su interdipendenze concorrenziali (Hamel, Doz, & Prahalad, 1989). Nelle relazioni distributive, tipicamente caratterizzate da aspetti sia competitivi sia collaborativi, risulta praticamente impossibile prevedere tutti i possibili comportamenti ed eventi all’interno del contratto formale: è per questo motivo che la fiducia assume un ruolo centrale quale meccanismo di integrazione di tipo informale e self-enforcing52. In particolare si è dimostrato come l’antecedente e la precondizione essenziale per attivare una working partnership di canale sia proprio costituita dalla fiducia esistente tra i soggetti coinvolti nella relazione. 52 Dwyer & Oh (1987) pongono in evidenza il ruolo svolto dalla fiducia ai fini del coordinamento tra le parti sostenendo che essa si riferisce alle attese che la controparte, cui si desidera conseguire un coordinamento di comportamento, manterrà fede e fornirà il proprio contributo alla relazione. 138 Il ricorso alla fiducia assume ancora più rilevanza a causa del crescente grado di incertezza53 che permea le relazione tra industria e distribuzione. Tale incertezza richiede un bilanciamento tramite la costruzione di strutture relazioni più certe, che si realizzano attraverso una più elevata fiducia reciproca tra i soggetti in relazione. Morgan e Hunt (1994) sono stati tra i primi verificare empiricamente la centralità della fiducia e della collaborazione tra le imprese nella supply chain (Figura II.4.2-2). Gli Autori approfondiscono le caratteristiche del costrutto calandolo nell’ambito del relationship marketing , cercando di comprendere la relazione tra variabili chiave come la fiducia e il commitment. Nel modello teorizzato, the key mediating variable model of relationship marketing, viene verificata la rilevanza delle due variabili all’interno del modello delle relazioni di mercato; allo stesso tempo, vengono definite anche le principali determinanti (valori condivisi, comunicazione, assenza di opportunismo) e conseguenze (collaborazione, conflitto funzionale, riduzione di incertezza). La ricerca ha dimostrato la correlazione positiva tra molte delle variabili ipotizzate e ha visto inoltre l’emergere di due variabili non inizialmente presenti nel progetto di indagine: la dimensione coercitiva del potere e il conflitto, concetti 53 L’elevato grado di incertezza è riconducibile principalmente al livello di eterogeneità e di variabilità dell’ambiente. Tale incertezza è esterna alla relazione e dipende dalla complessità e dalla velocità dei mutamenti dell’ambiente (Dwyer & Welsh, 1985; Achrol & Stern, 1988). 139 fondamentali nell’ambito del tradizionale modello comportamentistico dei canali (El-Ansary & Stern, 1972). Figura II.4.2-2. The KMV model of relationship marketing Fonte: Morgan e Hunt (1994) Anche Vicari (1995) approfondisce il tema della fiducia: secondo l’Autore, l’accrescimento delle risorse di fiducia determina un accumulo di risorse immateriali attraverso una duplice modalità: in primo luogo, aumentando il patrimonio di risorse fiduciarie; in secondo luogo, creando le condizione necessarie per un miglioramento delle risorse di competenza. 140 Attraverso l’accumulo delle risorse fiduciarie, l’impresa riesce ad attivare relazioni esclusive con il mercato: in questo modo, i clienti sono indotti a perpetuare la propria scelta avendo a garanzia la fiducia riposta nell’impresa, rinforzando a sua volta le proprie convinzioni sull’affidabilità dell’impresa e rendendo sempre meno probabile la sostituzione del partner. In altre parole, la fiducia nei rapporti acquirente-venditore rappresenta un’efficace barriera d’entrata di tipo cognitivo di nuovi concorrenti nella relazione: in questo modo, l’impresa riesce a stabilizzare le relazioni con i soggetti inclusi del network e a far cadere possibili attacchi da parte dei concorrenti. Attraverso l’accumulo di risorse di competenza, invece, diventa più facile e meno incerto il trasferimento di conoscenza da parte dei propri partner commerciali medianti meccanismi di apprendimento relazionale e apprendimento da cooperazione fondato anche sull’avvio di sperimentazioni congiunte (Troilo, 2001). La fiducia diventa quindi un facilitatore in grado di facilitare il livello qualitativo e la frequenza delle connessioni che rendono possibili il trasferimento di know-how, incidendo così indirettamente sul patrimonio di risorse di competenza dell’impresa. Tra le risorse le risorse di competenza e quelle di fiducia si instaurano quindi strette correlazioni reciproche: alla crescita di conoscenza è necessaria l’esistenza della fiducia e la conoscenza a sua volta alimenta la fiducia (Vicari, 1992). 141 II.4.3. L’analisi dinamica delle relazioni distributive Le relazioni interorganizzative sono fenomeni estremamente complessi, condizionate da un numero elevato di fattori stesso interrelati e suscettibili di cambiamenti nel tempo. La ragione principale che spingono le imprese ad innescare processi relazionali sono sintetizzabili nel concetto di “gap di risorse”: nasce, quindi, dal riconoscimento della necessità di dotarsi e di disporre nel tempo di una quantità varia e articolata di risorse, al fine di colmare il gap iniziale. Il processo di creazione della relazione può essere dunque letto, come anticipato nel paragrafo precedente, come processo di riduzione del rischio e dell’incertezza (Ford, 1982), attraverso la condivisione di risorse con il partner, processo che rende fruibile nuove risorse funzionali al sostegno del processo competitivo. La variabile che regola i processi di ricerca del partner viene individuata principalmente nel concetto di “compatibilità” (Ford, 1984): maggiore è il livello di compatibilità, maggiore la possibilità che prenda avvio una relazione e che poi segua il suo percorso evolutivo. Esistono tre tipologie basilari di compatibilità: la compatibilità delle risorse54 possedute da ciascun parte; la compatibilità negli 54 La compatibilità delle risorse rappresenta una condizione imprescindibile di avvio della relazione e assume una connotazione di massima rilevanza strategica. Le parti possono consolidare nel tempo le attività di verifica delle risorse, come effetto di una progressiva integrazione e, in ultima istanza, come risultato della modifica della natura della relazione da transazionale a relazionale (Wilson, 1990). 142 obiettivi che le parti intendono perseguire attraverso il rapporto; la compatibilità culturale55. Inoltre, l’avvio della relazione richiede una reciproca disponibilità e capacità a collaborare (mutual orientation) da parte dei partner (Johanson & Mattsson, 1987). La disponibilità a collaborare può derivare (Easton, 1992): - dai vantaggi che possono conseguire per l’acquisizione delle risorse e per l’incremento delle vendite; - dalla possibilità che essa può offrire, mediante processi di adattamento e scambio di informazioni, accresce l’efficienza dei processi produttivi, ridurre i costi dei materiali, migliorare le caratteristiche dei prodotti offerti; - dal maggior gradi di controllo che consente nei confronti del partner, con una conseguente riduzione dell’incertezza da fronteggiare; - dalle possibilità che può offrire di entrare in rapporto con terze parti nell’ambito di un network. La disponibilità a creare le condizioni per una efficace collaborazione può, quindi, derivare sia dalla valutazione dei vantaggi acquisibili in funzione dello scambio di beni ed informazioni, sia dalla riduzione dei costi di transazione, determinata dalla continuità dei rapporti e dai legami che si instaurano con al controparte, sia, 55 La compatibilità culturale identifica una consonanza in termini di modalità di conduzione della relazione e si esplicita nella condivisione di determinati valori (Ford, 1984). 143 infine, dall’influenza che ogni rapporto può avere sulla posizione dell’impresa nel network. Il passaggio dalle tradizionali forme di scambio conflittuali56 ad aspetti volti all’integrazione determina la necessità di sviluppare nuove forme di coordinamento dell’attività, difficilmente conseguibili medianti soluzioni gerarchiche o di libero mercato. Nasce, quindi, l’esigenza di considerare i rapporti di canale in una prospettiva relazionale, sollecitando la formazione di meccanismi di coordinamento non formali, basati sulla fiducia e sulla cooperazione. Il risultato finale del processo di creazione della rete come sistema di relazioni è assimilabile ad una sorta di nuovo modello di impresa, un sistema ibrido nella definizione di Boris e Jemison (1989), che di fatto può beneficiare sia dei vantaggi della specializzazione attraverso la focalizzazione su date competenze distintive o di specifiche fasi, sia di quelli dell’integrazione attraverso una sorta di organizzazione integrata verticalmente e orizzontalmente, ma altamente flessibile e modificabile. 56 Il conflitto è riconducibile prevalentemente agli elementi di sharing del margine e delle funzioni. Secondo Varaldo (1971), questa tipologia di conflitto fa riferimento al fenomeno invasivo della integrazione verticale. Infatti, il conflitto è causato principalmente dall’assunzione di nuove attività da parte dell’industria e questo viene recepito come una sorta di espansione dell’azienda produttrice oltre le sue tipiche funzioni (invasione nell’area di specifica competenza delle aziende commerciali). Tale fenomeno ha caratterizzato anche le imprese al dettaglio che tendono ad assumere funzioni nel campo produttivo. 144 Il network si fonda su forme di potere non coercitive che si basano su vere e proprie relazione cooperative: il mercato, coordinato dal prezzo e dall’autorità57, non funziona più come forma di governo per transazioni che appaiono sempre più assistite dalla fiducia. La forma ibrida58 del network è la struttura di governo che supporta le relazioni collaborative e permette di mantenere le transazioni sul mercato assistendole con relazioni sociali che trascendono dal mero rapporto di business. In questo caso, la differenza rispetto al coordinamento ottenuto con l’esercizio del potere (struttura gerarchica) è che nella forma ibrida le parti decidono consensualmente di cercare un maggior coordinamento e si impegnano attivamente per conseguirlo: il coordinamento non è imposto da una delle due parti e subito passivamente dall’altra, ma è proposto in modo congiunto da entrambe le parti. 57 La gerarchia in questo caso è una forma di governo subottimale, che Williamson (1994) descrive come “the organizational form of the last resort”: questa tipologia di governo, infatti, non permette di sfruttare economie di scala e di specializzazione, richiede rilevanti investimenti in capitale fisso, riduce la flessibilità operativa dell’impresa. Le imprese che vi fanno ricorso sono appesantite da costi che le pongono in situazioni di svantaggio competitivo rispetto ai concorrenti. 58 Jarillo (1988) classifica le forme ibride (reti di impresa) come una struttura mista tra mercato e gerarchia. Le reti di impresa hanno la maggior parte delle caratteristiche di una relazione gerarchica e tuttavia le parti rimangono organizzazioni indipendenti con pochi o addirittura nessun punto di contatto lungo diverse dimensioni. Le strategie di rete sono assai più "leggere" e selettive, di specializzazione sul core business, che mobilitano le energie di una rete di alleanze con imprese complementari o anche concorrenti, nella ricerca, nell'uso delle conoscenze, nella fornitura dei componenti e nelle lavorazioni, nella scoperta di nuovi usi e nella penetrazione commerciale sui mercati. Le imprese cercano, attraverso le reti, di economizzare le proprie risorse presidiando solo alcune funzioni specifiche della filiera, in raggiungere livelli di eccellenza a scala mondiale, e ricorrendo a forme di outsourcing organizzato per tutto il resto (Rullani, 2004). 145 Figura II.4.3-1. Modalità di relazione di canale Base della relazione Forme di governo e meccanismi di coordinamento Potere Mercato (prezzo e autorità) Relazione conflittuale/cooperativa Mutuo vantaggio Relazioni sociali Network (fiducia) Partnership Forma di relazione Fonte :Lago (2002) La selezione del partner diventa quindi un processo critico, al quale sia l’impresa della distribuzione sia quella dell’industria devono prestare grande attenzione e cura. Le relazioni con i partner richiedono coordinamento, una prospettiva comune orientata al lungo periodo e predisposizione al lungo periodo (Lorenzoni & Baden-Fuller, 1995). Come nell’analisi rivolta al consumatore nel paragrafo precedente, assume una notevole importanza non solo la fase di scelta del partner, ma il suo ciclo evolutivo nel tempo, soprattutto in relazione alle implicazioni manageriali che esso suscita in ogni stadio. 146 Ford (1980), studioso appartenente all’IMP Group, è tra i primi a proporre un modello di analisi dell’evoluzione della relazione. Il modello si articola fondamentalmente su cinque fasi: 1. pre-relationship stage: include tutte le considerazioni iniziali che posso indurre il fornitore o l’acquirente a cambiare le modalità di relazioni attuali; 2. early stage: considera i primi contatti e le prime sperimentazioni relazionali, ma è ancora significativa la distanza tra i due possibili partner; 3. developing stage: la relazione si sviluppa, si accresce il livello di interdipendenza tra le parti e il fabbisogno di fiducia reciproca; 4. stable stage: cresce la reciproca consapevolezza della rilevanza del rapporto, caratterizzata da un’elevata soddisfazione reciproca e si riduce significativamente l’incertezza percepita; 5. final stage: conduce alla fase di istituzionalizzazione della partnership. Dwyer, Schurr e Oh (1987), alla stregua di Ford (1980), propongono un modello evolutivo molto simile, ma a differenza del modello appena analizzato, considera anche una fase finale di dissoluzione della relazione, spesso determinata da comportamenti unilaterali, che determinano la conclusione dell’esperienza relazionale. I modelli evolutivi della relazione hanno messo in evidenza l’esigenza di analizzare ogni tipologia di relazione in base alla sua fase temporale. A tal 147 riguardo, Blatterberge, Gezt e Thomas (2001) individuano cinque stadi della dinamica relazionale, a cui corrispondono altrettanti cluster di clienti: 1. prospects: i clienti potenziali da attivare per la prima volta; 2. first-time buyers: potenziali futuri clienti; 3. early repeat buyers: acquirenti ancora alla ricerca di conferme; 4. core customers: clienti ormai convinti della validità dell’offerta e della fiducia e meno sensibili alle offerte della concorrenza; 5. core defectors: coloro che hanno deciso di valutare altre opportunità di offerta. Tali segmenti richiedono naturalmente approcci relazionali specifici, manifestando un diverso livello nei costrutti relazionali che li caratterizzano. II.5. Il nuovo ruolo della funzione marketing Il mutato contesto competitivo ha reso necessari cambiamenti negli orientamenti strategici degli operatori e negli strumenti operativi a disposizione. Il fattore tempo è diventato un elemento cruciale per il successo delle imprese; il ciclo di vita dei prodotti è sempre più schiacciato e la capacità innovativa deve far riferimento ad orizzonti sempre più brevi. 148 Diventa essenziale percepire tempestivamente i segnali di cambiamento in atto e riuscire a sfruttare sinergicamente tutte le risorse e competenze cui l’impresa può accedere, sia mediante il controllo diretto che tramite le relazioni poste in essere. La flessibilità necessaria ad operare nel mutato contesto globale richiede una capacità di adattamento che può essere realizzata tramite l’interazione e la cooperazione con i membri del network di riferimento. I limiti evidenziati dell’eccessiva focalizzazione sugli aspetti operativi caratteristici del marketing management hanno determinato un superamento della rigida divisione funzionale del marketing che caratterizzava le imprese fino a tutti gli anni ottanta. Gli sviluppi più recenti testimoniano, infatti, come il marketing venga oggi inteso come parte integrante della strategia aziendale e non solamente come leva operativa. In questo senso, il marketing relazionale non si pone come portatore di nuovi modelli normativi, adattati al mutato contesto competitivo in cui le imprese sono chiamate ad operare, quanto piuttosto come una nuova filosofia di gestione del rapporto all’interno dell’intera supply chain. Riprendendo lo schema di analisi proposto nel paragrafo 1 del presente capitolo, l’impresa industriale si trova a dover affrontare un duplice orientamento al cliente: il cliente finale e il cliente intermedio. Per ogni tipologia di cliente, è necessario implementare le più efficaci strategie di marketing: politiche di consumer 149 marketing rivolte al consumatore finale e di trade marketing indirizzate al distributore. Impresa industriale Figura II.5-1. Modalità di relazione di canale Consumer marketing Trade marketing Orientamento al cliente finale Orientamento al cliente intermedio Fonte: elaborazione propria A livello di cliente finale, è stato approfondito come il consumatore stia cambiando profondamente le dinamiche della competizione. Il mercato ora sta diventando come un “forum” nella quale il consumatore recita un ruolo da protagnista nella creazione del valore. Il tratto fondamentale di questo cambiamento é che il consumatore sia diventato un soggetto attivo e nuova fonte di competenze59 (Hamel & Prahalad, 1990) per 59 Il modello core competencies descritto da Prahalad e Hamel (1990) si basa su un approccio dall’interno verso l’esterno con un processo strategico che inizia con la definizione dei punti di forza chiave dell’azienda. Al contrario, un esempio di approccio dall’esterno verso l’interno é il modello di Porter sulle 5 forze, il quale vede il mercato, la concorrenza e il consumatore come 150 l’azienda. Le competenze apportate dal consumatore sono in funzione della conoscenza che egli possiede, dalla sua capacitá di imparare e sperimentare nuovi orizzonti, dalla disponibilitá ad attivare un dialogo attivo e continuo. L’azienda viene quindi concepita come un insieme di competenze non piú come un portafoglio di business units. In questo modo, manager and imprenditori possono trovare nuovi modi per ampliare il capitale intellettuale dell’azienda e grazie a queste nuove fonti di conoscenza, individuare nuove e inesplorate opportunitá di business. A fronte di questo scenario, è fuori dubbio che un uso intelligente e strategico delle ricerche di mercato e delle indagini di customer satisfaction debbano entrare a far parte delle prassi consolidate con cui l’impresa si rapporta al mercato. Questo aspetto assume maggiore importanza in relazione alla rapida evoluzione dei comportamenti del consumatore che si sono riflessi nella sperimentazione di evoluti e multi-variabili criteri di segmentazione (Lambin, 2004). Col passare del tempo, i criteri socio-demografici sono andati perdendo capacità previsionale, ovvero capacità di prevedere diversità di comportamenti/preferenze, e sono input del processo strategico. Secondo gli autori, le principali fonti di vantaggio competitivo sono il risultato della capacità del management di consolidare tecnologie a livello aziendale e know how produttivo in competenze che consentono all’impresa di adattarsi velocemente ai cambiamenti del contesto macro ambientale. Prahalad e Hamel ritengono che la prospettiva del portafoglio sia un approccio strategico anacronistico e non sostenibile. Gli studiosi infatti ritengono che l’azienda debba svilupparsi intorno ad un nucleo di competenze condivise. Una core competence può essere definita tale se risponde a ai seguenti tre requisiti: attraverso essa si accede ad un’ampia varietà di mercati; contribuisce sostanzialmente al valore del prodotto/servizio percepito dal consumatore/utente finale; é difficilmente imitabile dalla concorrenza. 151 apparsi altri approcci come la segmentazione in base ai vantaggi ricercati o quella per stili di vita, nonostante presentino note difficoltà e costi di misurazione. La conoscenza che l’impresa acquisisce dal mercato, infatti, ha alcune caratteristiche che ne rendono particolarmente complessa e difficile la gestione (Troilo, 2001). É spesso equivoca nei significati, poichè incompleta, erratica, ambigua60 (Simonin, 1999). In tal senso, è possibile affermare che sotto il profilo epistemologico gli studi e le ricerche hanno reso progressivamente più efficaci tanto i modelli interpretativi sottostanti alla segmentazione (ad esempio, la teoria della catena mezzi-fini di Reynolds e Gutman61) quanto quelli normativi o comunque di più immediato 60 L’ambiguità si genera in quanto la conoscenza di mercato è sovente scambiata tra soggetti tra loro dissimili, che portano a difficoltà interpretative (Sinkula, 1994) tanto maggiori quanto più la conoscenza è tacita e radicata nel contesto in cui si è originata (Zollo & Winter, 2002). La conoscenza di mercato è poi conoscenza dispersa tra una pluralità di consumatori, immersi in reti vaste, sia sul piano della numerosità dei nodi che della distanza geografica che li separa tra loro e dall’impresa (Nardin, Marchi, & Martinelli, 2007). Inoltre, è conoscenza il cui valore varia al variare del tempo e delle caratteristiche temporali dei processi di gestione, specialmente nei contesti competitivi caratterizzati da incessanti cambiamenti tecnologici e della domanda (Sampler, 1998). 61 Nella maggior parte dei casi, i consumatori non sono consapevoli del proprio processo decisionale, né sono capaci di rendere esplicito il legame tra prodotto e convinzioni personali. Per questo è necessario utilizzare una tecnica d’intervista in profondità, denominata laddering, capace di indurre il rispondente a ragionare sulle relazioni attributi/conseguenze/valori (Reynolds & Gutman, 1988). Questo metodo prevede che all’intervistato vengano poste, in sequenza, domande del tipo: “perché questo, attributo/conseguenza/valore, è importante, per te/secondo lei?” (le cosiddette “why questions”). Le risposte date dagli intervistati vengono registrate e successivamente codificate. Questo metodo consente di ripercorrere a ritroso il percorso delle ladder combinando gli elementi tra loro collegati tesi a generare la catena mezzi-fini. In altre parole, l’intervista laddering consente di costruire quella rete di collegamenti che spiega il comportamento e la percezione dei consumatori nei confronti del tema in esame. 152 utilizzo manageriale (si pensi al modello di Levitt62 sui livelli del prodotto, o a quello sulla gestione delle relazioni one-to-one di Peppers e Rogers63). In realtá, si inizia a prendere coscienza che l’azienda puó attrarre competenze non solo dal consumatore, ma dall’intera supply chain: fornitori, distributori, partners, investitori, ecc… L’unitá di analisi si é quindi evoluta passando dalla singola impresa, al network di imprese e fino ad arrivare al concetto di “impresa estesa”, ovvero ad una costellazione di imprese. In questa ultima fase, le competenze non sono altro che una funzione della conoscenza presente nell’intero sistema64. Come affermano Prahalad & Ramaswamy (2000): “now the scene has changed, and business competition seems more like the experimental theater of the 1960s and 1970s; everyone and anyone can be a part of the action”. 62 Il concetto di product augmentation, proposto da Theodore Levitt (1980), propone di scomporre il prodotto in quattro dimensioni: prodotto generico, prodotto atteso, prodotto aumentato, prodotto potenziale. Con l’espressione prodotto generico si intende l’insieme delle caratteristiche minimali necessarie per definire un prodotto. Se a tale configurazione si aggiunge quell’insieme di condizioni che gli acquirenti si aspettano si ottiene il prodotto atteso. Spesso, però, l’impresa non limita la propria offerta a tali condizioni ma aggiunge ulteriori attributi (tangibili o intangibili) rispetto a quelli attesi dando vita alla configurazione denominata prodotto aumentato. Infine, se si considera altresì tutto ciò che può incrementare l’attrattività del prodotto per il cliente, si giunge alla configurazione massima di prodotto potenziale. 63 Secondo Pepper e Rogers (2001), il marketing one-to-one o marketing 1:1 rappresenta il necessario completamento della mass customization e può essere definito come: “in luogo di vendere un solo prodotto alla volta, al maggior numero possibile di clienti in una particolare stagione di vendita, chi applica il marketing one to one sfrutta il potenziale del database clienti e della comunicazione interattiva per vendere a un solo cliente alla volta il maggior numero possibile di beni e servizi per l’intera durata della relazione di clintela. Per attuare questo tipo do strategia è necessario che l’azienda non si limiti a gestire i prodotti, i canali di vendita e i programmi, ma che adotti una visione personalizzata del rapporto con i singoli clienti”. 64 Se con-petere vuol dire “fare insieme”, allora in questa situazione è valida l’affermazione di Johannson (2009) “The retailers need the manufactures as much as they need the retailers”. 153 Il ruolo del marketing tende ad essere quindi diffuso all’interno dell’organizzazione ed a fungere da collante tra diverse organizzazioni. Anche le abilità relazionali diventano importanti ad ogni livello organizzativo e interorganizzativo: la prossimità al mercato si sostanzia in entrambi i mercati, intermedio e finale, attraverso un dato sistema di relazioni che può funzionare come strumento di intelligence. La gestione della dimensione relazionale si sostanzia in processi dinamici di selezioni di partner con cui sviluppare relazioni caratterizzate da intensità e durata progressivamente più elevate tanto più le risorse oggetto di interscambio diventano critiche per le parti, mentre l’impresa è interamente impegnata nello sviluppo delle proprie core-competencies. La ricerca della qualità, dell’efficienza e della flessibilità guidano i processi di ricerca di interlocutori validi non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista fiduciario, in grado di garantire la reciprocità del rapporto e un mutuo vantaggio. La fiducia che caratterizza poi lo sviluppo della relazione tra produttore e distributore e che induce, ad esempio, le parti ad attivare progetti condivisi di category management, è il frutto di esperienze passate soddisfacenti, dove le parti hanno posto in essere iniziative comuni, fondate su intestimenti relation-specific. Il maggiore investimento relazionale comportano forti implicazioni manageriali sia nell’impresa industriale sia in quella commerciale. Il venditore vede evolvere il suo approccio alla vendita, passando da una semplice transazione economica 154 alla gestione relazionale del cliente; il buyer, d’altra parte, vede ampliare le sue funzioni in ottica di categoria piuttosto che di singolo prodotto, evolvendo da semplice buyer a category manager65. Figura II.5-2. Implicazioni manageriali Alto Approccio problema: Investimento relazionale del fornitore Trade marketing Category manager soluzione al Piani di marketing specifici. Relazioni di lungo periodo. Conoscenza del mercato. Approccio soddisfazione dei bisogni: Key account Buyer evoluto Capacità di ascolto. Raccolta di informazioni. Approccio problema: Venditore Buyer soluzione al Rapporto commerciale. Vendere nel breve periodo. Persuasione. Basso Basso Investimento relazionale del distributore Alto Fonte: elaborazione propria 65 Questa tematica verrà approfondita nel capitolo successivo. 155 Il momento dell'interazione fra impresa produttrice e impresa commerciale è stato prevalentemente indagato negli studi riconducibili al filone del trade marketing, che inizialmente hanno puntato a individuare gli strumenti utili al miglioramento del processo di distribuzione dei beni; in seguito, il trade marketing si è dimostrato lo strumento di marketing principale nel sistema relazionale industriadistribuzione e in grado di fornire vantaggi competitivi per entrambi i partner commerciali. In particolare, per trade marketing si intendono specifiche attività di marketing rivolta dalle imprese verso gli intermediari volte a sviluppare relazioni solide e durature. L’incremento della pressione competitiva ha sancito l’elevazione del trade marketing alla stregua del consumer marketing, tanto da assumere una posizione importante anche nell’organigramma delle imprese produttrici. E’ anche vero che consumer marketing e trade marketing non possono essere viste come strategie separate. Infatti, se è vero che gli approvvigionamenti dipendono dalla domanda dei consumatori è anche vero il contrario, e cioè che la domanda risulta influenzata dall'offerta di prodotti che sono proposti nelle strutture di vendita. Il condizionamento è quindi reciproco, con la conseguente necessità di considerare l’attività di vendita strettamente legata a quella di acquisto e infine di pianificazione della domanda. L'interazione fra acquisto e vendita si sviluppa in modo continuo, con una ciclicità articolata in diverse fasi, mirate alla soddisfazione della clientela: analisi e 156 valutazione della domanda; ricerca dei prodotti secondo le esigenze individuate della domanda; attivazione delle campagne di vendita nei canali distributivi; sviluppo di iniziative risolve alla distribuzione per far inserire il prodotto in assortimento; attivazione di iniziative rivolte ai consumatori per motivarli all’acquisto dei prodotti in assortimento. “Market orientation is an important, influential force on channel relationships”, questo significa che nello studio delle relazioni distributore-produttore l’orientamento al mercato non può essere tralasciato (Siguaw, Simpson, & Baker, 1998). Nell’orientamento al mercato, distributori e produttori sono coinvolti congiuntamente alla creazione di un valore superiore per il consumatore finale. La vicinanza del distributore al mercato è il punto di forza su cui distributori e produttori collaborano per garantire ai consumatori finali un maggior valore rispetto ai concorrenti. Se un produttore è market oriented e lavora con l’obiettivo di soddisfare, oltre alle esigenze dei consumatori finali, anche le richieste del distributore, allora il distributore aumenterà il suo livello di fiducia nelle relazioni di collaborazione ed inoltre riconoscerà che il produttore coinvolto nella partnership sta operando per raggiungere gli stessi outcomes competitivi. Se il distributore è anch’esso market oriented e ha attivato una relazione di collaborazione con il produttore, è consapevole che la raccolta e la condivisione 157 delle informazioni sui consumatori deve avvenir nel minor tempo possibile, così da creare e lanciare sul mercato un’offerta più vicina alla clientela, prima e meglio dei concorrenti. In conclusione, l’orientamento al mercato può essere considerato il nodo cruciale per la costruzione di un rapporto collaborativo tra distributori e produttori, fondato sulla creazione di valore per il cliente all’interno dell’intera supply chain. 158 CAPITOLO III IL CATEGORY MANAGEMENT: FORME INNOVATIVE DI PARTNERSHIP NELLA SUPPLY CHAIN III.1. Il category management Le imprese industriali e quelle commerciali si trovano attualmente a fronteggiare un livello di pressione competitiva sempre crescente, che le spinge a una inevitabile riprogettazione dei processi aziendali e a una ridefinizione degli assetti relazionali, in modo da conseguire una maggiore efficienza nelle attività della supply chain e da rinvenire nuove fonti “congiunte” di creazione di valore. I motivi a cui è possibile ricondurre tale esigenza sono molteplici, ma riconducibili essenzialmente ad un triplice ordine di fattori: - la tendenza generalizzata alla deregulation dei mercati e all’eliminazione dei monopoli spaziali (Bertozzi, 1996); - la crescente complessità e l’evoluzione dei processi valutativi che sono verificati sul fronte della domanda finale (Fornari, 1995), costituita da consumatori sempre più value sensitive (Fabris, 1995); 159 - l’ampliamento degli ambiti competitivi che interessa tutti gli stadi dei canali distributivi e che si manifesta seguendo due traiettorie fondamentali: il vettore geografico, che determina una concorrenza su scala sempre più globale (Pellegrini, 1991; Dawson, 2001), e il vettore intersettoriale, che sancisce il definitivo emergere di meccanismi competitivi trasversali (Vicari, 1989), che travalicano i tradizionali confini dei mercati e che portano spesso a convergere verso la realizzazione di “metamercati” (Valdani, 1997). Per quanto riguarda le imprese industriali, la necessità di sviluppare in continuazione really new product ha generato una proliferazione delle varianti di prodotti che spesso, per la difficoltà di creare prodotti a reale contenuto innovativo, si qualificano solo come innovazioni marginali, versioni migliorative di prodotti già esistenti (second but better) o prodotti meramente imitativi (me too) per cui l’unico elemento di novità è la marca (Pellegrini, 1995). Tutto ciò non solo non riesce a conseguire un accrescimento della soddisfazione del cliente tale da modificare il suo sistema di preferenze, ma genera inoltre un affollamento all’interno dei canali e un’azione di preselezione sempre più severa da parte della distribuzione. Per quanto riguarda le imprese della distribuzione, emerge ormai con evidenza come il livello di sviluppo delle reti abbia condotto le imprese a confrontarsi non solo con altre formule caratterizzate da diversi livelli di servizio, ma soprattutto 160 con concorrenti all’interno della stessa formula (intratype competition), determinando un’esigenza non più rinviabile di differenziazione sul piano competitivo rispetto alle imprese concorrenti. Per governare questi contesti di mercato ipercompetitivi1 (Valdani, 1997; D'Aveni, 1994), le imprese industriali e commerciali non possono più prescindere dallo sviluppo e dal consolidamento di reali determinanti del vantaggio competitivo, fondate sulla capacità dell’impresa di sviluppare il proprio patrimonio di risorse immateriali (Rullani, 1994; Rullani & Romano, 1998) e, in particolare, quelle risorse customer based fondate sulla soddisfazione del cliente (Valdani & Busacca, 1992) e sulla fiducia riposta nell’impresa (Vicari, 1995). Per questo motivo, diventa necessario, da un lato, migliorare l’efficienza della gestione e, dall’altro, accrescere l’orientamento al cliente e il potenziale di differenziazione della propria offerta. Il category management rappresenta la risposta a tali esigenze poiché la congiunta considerazione delle preferenze del consumatore e dell’attrattività della categoria merceologica amplia i rapporti fra industria e distribuzione, traslando verso livelli 1 L’ampliamento degli ambiti competitivi non si limita ai confini del canale distributivo inteso nel senso tradizionale, ma coinvolge anche nuovi attori esterni al canale. Per esempio, l’introduzione di nuove forme di pagamento (rese possibili dalla diffusione dei sistemi di trasferimento elettronico di fondi e della moneta elettronica) determina un’evoluzione nei rapporti tra istituti di credito e intermediari commerciali. Questo riguarda soprattutto quelle imprese di distribuzione che, avendo lanciato la fidelity card anche come mezzo di pagamento, si trovano a dover competere con le istituzioni finanziarie per la gestione dei mezzi di pagamento. Per approfondimenti sul tema si rinvia, tra gli altri, a Lugli e Invernizzi (1987) e Castaldo, Fallarino e Zanasi (1997). 161 superiori di sinergia le preesistenti modalità di partnership di canale. In questo modo tende a delinearsi una concetto di value chain allargata, assimilabile ad un complesso sistema-azienda (Brondoni, 2004). III.1.1. Verso un “customer-based” category management Il category management rappresenta certamente una nuova frontiera del marketing di canale (Lugli, 1997; Pellegrini, 1997). Le definizioni di category management presenti in letteratura sono numerose; tra le definizioni più significative possono essere riportate: “Category management is a process that involves managing product categories as business units and customizing them on a store-by-store basis to satisfy customer needs.” (Nielsen, 1992). “A flexible, organizational approach that focuses supplier/distributor and wholesaler/retailer attention on the impact every product has on a category’s overall profit picture. All functions that affect the category’s profit and loss (i.e. space, price, promotion, cost, etc.) are placed under the control of a single manager.” (IDDA, 1993). 162 “More specifically for a retailer, category management means determining pricing, merchandising, promotions and product mix based on category goals, the competitive environment and consumer behavior.” (FMI, 1995). “Category management is a distributor/supplier process of managing categories as strategic business units, producing enhanced business results by focusing on delivering consumer value.” (Joint Industry Report on Efficient Consumer Response, 1995). “Category management is a method whereby vendor and retailer team up to manage their mutual product categories on a store by store basis.” (Joseph, 1996). Harris (1993) propone forse la definizione più completa ed esaustiva: il category management viene, infatti, definito come una nuova filosofia gestionale che riconosce le categorie di prodotti come strategic business units con l’obiettivo fondamentale di soddisfare i bisogni del cliente e conseguire adeguati obiettivi economici a livello di impresa. La considerazione della categoria come Area Strategica d’Affari (Abell & Hammond, 1979) implica la formulazione di specifici piani strategici di categoria, volti ad accrescere le performance delle categorie di prodotto in una prospettiva di beneficio comune tra le parti. Cresce la consapevolezza che ad ogni categoria corrisponda un ambito competitivo differente, con differenti minacce/opportunità, differenti opzioni di sviluppo e differenti relazioni inter-categoria. 163 La necessità di strategie concertate e mirate induce, quindi, gli operatori aziendali ad abbandonare la tradizionale concezione atomistica e frammentaria delle relazioni verticali in favore di iniziative di convergenza per razionalizzare l’offerta e per cogliere nuove opportunità di mercato creando, al contempo, valore per il consumatore. La revisione dei processi di gestione comporta una naturale evoluzione delle attività di interfaccia tra le imprese a monte e a valle del canale e la definizione di un nuovo linguaggio inter-organizzativo, che trova proprio nella categoria un codice comune (Lugli, 1997). A tal fine, si impone il passaggio da una razionalità fondata sulla relazione unilaterale ad una logica basata sull’interattività e l’interdipendenza dei soggetti in relazione, che dia luogo ad una codeterminazione dell’offerta (Di Bernardo & Rullani, 1990). Il coordinamento delle attività svolte nei diversi stadi del canale e la reingegnerizzazione delle relazioni distributive permettono, infatti, di ottimizzare i processi di creazione del valore e di conseguire così nuove sinergie e un significativo surplus di efficienza2 (Zaninotto, 1990). 2 Secondo Zaninotto (1990) mediante lo sviluppo di forme di coordinamento delle attività tra industria e distribuzione si ha la possibilità di produrre una serie di vantaggi che contribuiscono alla creazione di valore, che l’autore definisce come surplus organizzativo, che può derivare da: - un surplus di efficienza, ovvero una gestione efficiente e coordinata delle funzioni di commercializzazione (logistiche e informative) svolte all’interno del canale; - un surplus di monopolio: un coordinamento verticale delle posizioni monopolistiche; - un surplus progettuale: una costante ricerca di soluzione innovative svolte a riorganizzare le funzioni commerciali e i processi di scambio all’interno del canale. 164 L’adozione di questo nuovo approccio manageriale richiede che la riprogettazione dei processi aziendali ed inter-organizzativi avvenga in una logica customerbased, in quanto l’obiettivo finale è proprio il miglioramento della soddisfazione del cliente che a sua volta rappresenta il presupposto per conseguire migliori performance aziendali. Si impone così l’esigenza di costruire un network, fondato sulla collaborazione reciproca, in grado di produrre un potenziale di risorse adeguato per la valorizzazione della risorsa “cliente”; infatti, sia il supplier sia il retailer detengono una base di risorse di fiducia e di conoscenza che, interagendo, permettono di creare un surplus di valore. Costruire una relazione di partnership tra distributore e produttore non è semplice. Volendo rappresentare la forza e la tipologia di una relazione lungo un continuum (Grönroos, 1994; Webster, 1992), questa può variare tra due estremi opposti: da un lato, una relazione di tipo meramente transazionale e, dall’altro, una relazione di collaborazione di lungo termine. Solo se entrambi i partner decidono di adottare un approccio di tipo collaborativo possono portare a termine con successo progetti di category management (Campbell, 1985). Fino a quando il focus strategico riguarda, rispettivamente, il prodotto per l’industria e l’insegna per la distribuzione, si possono determinare solo comportamenti conflittuali in quanto orientati alla massimizzazione del vantaggio economico di negoziazione delle condizioni di scambio. Lo sviluppo di una 165 cultura di cooperazione, invece, tende a ridurre i costi della conflittualità con l’obiettivo primario di creare valore riconosciuto dal mercato. Nel valore creato è intrinseca una valenza strategica, mentre la ripartizione della rendita di canale ha una solo una valenza tattica e di breve periodo. La gestione di una politica gestionale orientata a rapporti di canale improntati alla collaborazione ed all’instaurarsi di relazione durature nel tempo impone un’attenta considerazione della catena del valore aziendale interna ed esterna. La revisione dei processi aziendali è possibile solo attraverso la raccolta e l’elaborazione delle informazioni. La presenza di un costante flusso di informazioni permette, infatti, migliori condizioni di efficienza, riduzione dei tempi di azione, incremento dell’efficacia per il consumatore (Bessen, 1993). Ciò garantisce all’impresa, sia industriale sia commerciale, le risorse necessarie per l’adeguamento della struttura organizzativa e del sistema informatico necessario per l’individuazione di obiettivi atti a guidare il comportamento degli operatori aziendali, per la verifica del grado di raggiungimento degli stessi e per l’adozione di eventuali manovre correttive. I flussi informativi, se opportunamente gestiti, diventano una risorsa intangibile primaria della cultura aziendale e sono alla base di quell’orientamento al mercato necessario per l’implementazione del category management. 166 III.1.2. Il consumatore come fattore aggregante Uno dei limiti che si riscontrano più frequentemente a livello manageriale è riconducibile alla carenza sul piano dell’analisi del consumatore a supporto delle diverse fasi e in particolare di quelle che contribuiscono alle scelte strategiche (Cristini, 1996). Per questa ragione, il modello proposto sarà proprio customer based, ovvero un modello di partnership allargata a livello di canale, inteso in senso ampio, comprendendo il cliente quale soggetto attivo, insieme alle imprese commerciali e a quelle industriali. Nel modello di category management customer based, il consumatore non viene considerato unicamente come destinatario di modelli di offerta precostituiti, bensì come coautore dei modelli stessi: infatti, alla base vi è proprio lo studio della domanda, le sue preferenze e dei suoi processi decisionali, che vengono interiorizzati dalle imprese di produzione e di distribuzione nel progetto di offerta che intendono realizzare in termini di beni, assortimenti e formule distributive (Bertozzi & Castaldo, 2000). Il passaggio chiave che contraddistingue questo approccio deve essere individuato proprio nell’interpretazione dello stesso concetto di category management e nella conseguente definizione di categoria. Per quanto riguarda il primo aspetto, ovvero la definizione di category management, non si tratta solo di una questione terminologica. Inserire il 167 consumatore come fattore aggregante della partnership tra industria e distribuzione significa determinare il grado e l’intensità di ristrutturazione dei processi di business e della revisione delle relazioni inter e intra-organizzative. Una visione più ristretta di category management si traduce in interventi limitati alla sola fase operativa dell’intero processo, puntando solo allo sviluppo di mirate politiche commerciali su determinate categorie obiettivo. Inserire un orientamento al consumatore porta invece le imprese ad ampliare la loro visione, di solito ristretta al livello operativo, arrivando a mettere in discussione le scelte strategiche e le politiche commerciali in funzione del comportamento dell’acquirente. Nella tabella III.1.2-1 sono rappresentate le connessioni tra il classico processo di category management (Harris, 1995) e lo studio del comportamento del consumatore e in che modo questi due filoni teorici (category management e consumer behaviour) possono dialogare e apportare nuove spunti alla ricerca. In particolare, la seconda colonna rivela idealmente i fattori che influenzano l’intero percorso che porta il consumatore all’acquisto di un prodotto, analizzando sia il processo di consumo sia processo di acquisto del consumatore (prima, durante e dopo l’ingresso in punto vendita). 168 Figura III.1.2-1. Il processo di category management: quali opportunità da un orientamento al consumatore Il processo di category management Approccio al consumatore 1. Studio del quadro competitivo: analizzare il mercato di riferimento della categoria. Individuare i maggiori trend di mercato in relazione alle categorie prese in esame e la coerenza del posizionamento del produttore e del distributore rispetto a questi macro-trend. Identificare gli attuali/potenziali fattori critici di successo appartenenti nelle due aziende partner. 2. Definizione della categoria: determinare le tipologie di prodotti che appartengono alla categoria. Individuare le abitudini del consumatore, dei suoi bisogni, dei suoi desideri e applicarle alla visione delle categorie e delle sue componenti: formato, gusto, prezzo, ecc... 3. Ruolo delle categorie: assegnare alle categorie un ruolo in base all’analisi congiunta del consumatore, dei produttore, del distributore e del mercato. Comprendere le occasioni e i momenti di consumo dei consumatori, comprese le relazioni intra e inter-categorie, frequenza d’acquisto, scontrino medio, ecc… 4. Analisi della domanda: studiare il comportamento e le motivazioni d’acquisto della domanda. Analizzare il comportamento del consumatore in tutti i suoi aspetti: fattori di scelta del punto vendita, modello di acquisto, processo di consumo, fattori di scelta del punto vendita, posizionamento dell’insegna, posizionamento della marca, ecc… 5. Individuazione degli obiettivi: stabilire gli obiettivi quantitativi e qualitativi delle singole categorie Indicatori rilevanti in riferimento al consumatore: satisfaction, % consumer target/totale consumatori, market share, transazioni medie, % margine per transazione, traffico, ecc… 6. Definizione della strategia di categoria: sviluppare le strategie di marketing, commerciali e logistiche necessarie Trovare un punto di incontro tra prospettive aziendali e la prospettiva del consumatore. 7. Definizione delle tattiche di categoria: implementare di un piano di categoria Definire in che modo influenzare la percezione e le reazioni del consumatore attraverso: 169 l’ampiezza e la profondità dell’assortimento, il prezzo e la relazione con l’immagine di convenienza dell’insegna, le promozioni e in che modo possono impattare sui volumi, il display e la sua estetizzazione. 8. Implementazione e revisione: mettere in pratica le azioni previste e controllo costante delle performance Verificare costantemente che il consumatore sia soddisfatto dei cambiamenti messi in atto e che essi facilitino il processo di acquisto in punto vendita. Fonte: elaborazione da “The category management report”, (CMR, 1995) Strettamente connessa con la definizione di category management è la modalità di definizione della categoria. La clusterizzazione dell’assortimento ha importanti valenze strategiche sia per il distributore sia per il produttore. Per il primo, la definizione dei confini tra le categorie è fondamentale per la differenziazione dell’offerta e soprattutto dell’innovazione commerciale. Per il secondo, la definizione della categoria equivale ad individuare l’ambito competitivo, ovvero i competitor più vicini che si contendono la domanda di un determinato segmento. La tradizionale definizione di categoria segue generalmente una logica product based, ovvero legata ai confini della famiglia merceologica3. La conseguenza 3 Lugli (1997) sottolinea infatti che la definizione dei confini delle categorie tende a seguire percorsi differenti con riguardo all’industria e alla distribuzione. Per la produzione, infatti, la definizione della categoria equivale all’individuazione dell’ambito competitivo, vale a dire dei rivali più vicini che si contendono la domanda di uno stesso segmento di consumatori coincidendo con il binomio prodotto mercato. Per la distribuzione, invece i confini della categoria sono molto 170 naturale di tale atteggiamento risulta essere la sostanziale uniformità dell’offerta in termini di beni e soprattutto di formule distributive. Un’altra definizione delle categorie basata sulle logiche dell’offerta è quella di tipo supply based, vale a dire basata sulle uniformità di trattamento logistico delle merci (Zenor, 1994; Harris 1993). In tutti i casi, si tratta di criteri definiti in funzione delle logiche di efficienza dell’offerta industriale e distributiva. Tutto ciò ovviamente non permette di conseguire quei vantaggi competitivi che una revisione delle categorie in chiave customer based consente. Secondo il FMI (1995), approfondendo una precedente definizione di Belk (1975), adottando la prospettiva del consumatore una categoria potrebbe essere definita come “a distinct, manageable group of products/services that consumers perceive to be interrelated and/or substitutable in meeting a consumer need”. In realtà, questa definizione da sola non conduce a un vero approccio custumerbased in quanto i processi di categorizzazione potrebbero essere indotti dall’offerta perché vengono accumunati all’interno della stessa categoria prodotti che i consumatori sono “abituati” a vedere insieme. Questo limite può essere superato attraverso la reale comprensione delle esigenze del consumatore a diversi livelli di astrazione e dei suoi processi di acquisto e di consumo. più ampi in quanto si tiene conto sia della sostituibilità che della complementarietà della funzione d’uso dal momento che per l’azienda commerciale la categoria ha sempre una valenza espositiva. 171 Approfondire le conoscenze sulla domanda e sulle sue esigenze significa infatti analizzare i comportamenti del consumatore e i processi cognitivi ad essi sottostanti. Tale analisi permette di individuare modalità innovative di aggregazioni dei beni, basate di una rappresentazione mentale dei gruppi di beni e servizi percepiti in modo omogeneo. In questo modo, si possono generare criteri di definizione delle categorie realmente basati sulla domanda e non più sulle logiche dell’offerta. III.1.3. Gli effetti del category management Indagini recenti effettuate a livello manageriale dimostrano che la maggior parte dei manager che hanno implementato progetti di category management hanno ottenuti notevoli benefici a livello di rotazioni, profitti, market share, differenze inventariali, relazioni con i partner di canale e conoscenza del consumatore. Anche le ricerche empiriche intraprese dal mondo accademico hanno confermato che l’adozione di un approccio orientato al category management comporta notevoli effetti positivi sia per i distributori (in termini di redditività) sia per i produttori (considerando le perfomance del proprio brand all’interno della categoria) (Dewsnap & Hart, 2004). 172 Secondo altre ricerche, il category management assicura rilevanti benefici per tutti i partner della supply chain, diminuendo i costi logistici, aumentando l’efficacia degli investimenti di marketing e migliorando la customer satisfaction (Brockman & Morgan, 1999; Dupre & Gruen, 2004; Svensson, 2002). Nonostante questi riscontri estremamente positivi, alcuni autori hanno osservato che la realizzazione di progetti di category management non necessariamente induce reali benefici nel lungo periodo e solo in alcuni casi il category management si è dimostrato un effettivo fattore di successo (Varley, 2001). A tal proposito, Dussart (1998) afferma che molte politiche assortimentali all’interno del retailing mix di categoria possono anche essere negative per il consumatore, in quanto possono limitare la sua scelta verso prodotti a più alto margine, spesso non avendo la possibilità di effettuare un confronto di prezzo con referenze simili. Dupre e Gruen (2004) danno una visione ancora più pessimistica dei risultati del category management, sostenendo che tale processo non riesce effettivamente a mantenere tutte le promesse iniziali, in quanto a: l’incremento dei margini, l’aumento della customer satisfaction, l’instaurarsi di una relazione di partnership win-win, lo scambio di flussi informativi dettagliati e tempestivi. In effetti, un’area ancora troppo sottovalutata nella prassi aziendale è la struttura della relazione tra distribuzione e industria (Gruen & Shah, 2000) e su quali basi poter costruire una relazione fiduciaria duratura nel tempo. 173 Occorre sottolineare, inoltre, che non tutti i progetti di category sono completi e forniscono riscontri sull’intero processo gestionale di categoria. Alcuni progetti di category non sono stati del tutto esaustivi, in quanto promossi senza un preciso modello concettuale di riferimento. Solo un modesto numero di imprese ha deciso di approcciare il category management secondo le logiche descritte in precedenza, ovvero decidendo di considerare la categoria come unità strategica di business e orientando l’intero processo al soddisfacimento della domanda. Dall’osservazione dell’esperienza italiana in ambito category management, emerge una maggiore attenzione verso il livello più pragmatico della sperimentazione (Cristini, 1996), più affine alle consuete modalità d’azione della pratica commerciale, che certamente porta buoni risultati a livello di razionalizzazione dell’offerta e dell’utilizzo efficiente delle risorse (soprattutto a livello espositivo), ma che in realtà non rivelano ampiamente le potenzialità che il category management mette a disposizione (Gregory, 2001). A tal proposito, Dawson (2000) sottolinea che nell’attuale contesto competitivo la sfida fondamentale che il retail management deve superare è proprio quella di non perdere mai il contatto con il consumatore, continuando a dare risposte immediate 174 ai suoi bisogni e ai suoi desideri4. Questo è ancora più vero nello sviluppo di progetti di category management. III.2. Metodologia Al fine di comprendere in modo compiuto un fenomeno innovativo come il category management, non si può prescindere dall’analisi di un caso di studio (Yin, 1989) che sia in grado di cogliere l’impatto concreto che la nuova filosofia di gestione produce nel sistema di relazioni di canale e approfondire i cambiamenti a livello intra e inter-organizzativo emergenti in seguito all’introduzione del category management nelle imprese commerciali e industriali. Come afferma Metsämuuronen (2008), il caso di studio offre la possibilità di descrivere la complessità e le interrelazioni proprie delle strutture sociali. E’ uno strumento molto utile soprattutto nell’analisi di processi in atto o applicazioni pratiche. Inoltre, essendo una descrizione della realtà, può permettere al lettore di riflettere e individuare le proprie conclusioni sul caso. 4 Nel 1998, Marks & Spencer ha visto diminuire i suoi profitti di circa 300 milioni in 4 mesi a causa della mancata offerta del corretto assortimento di prodotti ad un giusto livello di prezzo, allontanandosi totalmente dalla prospettiva del consumatore. 175 Il metodo dei casi si basa, infatti, sull’uso e la triangolazione di molteplici fonti informative (Bonoma, 1985), favorendo lo sviluppo di analisi di tipo descrittivo ed induttivo che riguardano fenomeni spiegabili attraverso il ricorso a numerosi fattori interagenti tra loro (Yin, 1981). Secondo Eisanhardt (1989), i tentativi di riconciliare le prove che emergono tra i vari casi di studio e tra i casi e la letteratura favoriscono quelle riflessioni utili per creare una nuova visione teorica. Questo metodo, infatti “tende a liberare il pensiero, così il processo ha il potenziale di generare teoria con una minore influeza del ricercatore rispetto alla teoria costruita da studi incrementali o della deduzione assiomatica da divano” (Eisanhardt, 1989). Coniugando un approccio di tipo deduttivo con i risultati emersi dalla ricerca sul campo5, è possibile così comprendere, da un lato, con che modalità e risultati le imprese industriale e commerciali possono realizzare un progetto di category management nel mercato italiano, dall’altro, le molteplici opportunità che un’applicazione del customer based category management è in grado di dischiudere per tutte le imprese che ne avviano il processo di implementazione. La ricerca intende dimostrare che la massima valorizzazione di un qualsiasi progetto di category management si ha solo attraverso una profonda comprensione dell’analisi della domanda, che prende avvio dall’interiorizzazione delle esigenze 5 Va osservato che lo studio è stato realizzato adottando un approccio positivo/interpretativo, ricorrendo anche al metodo induttivo (Silvestrelli, 1994). 176 della clientela e del suo processo di acquisto e di consumo. Inoltre, si vuole anche analizzare come un approccio collaborativo sia il fattore chiave per il successo di qualsiasi progetto di category management e, in ultima istanza, la base per creare una relazione di lungo periodo. In alcuni casi, infatti, l’attivazione di progetti di category management può essere considerato come uno strumento sia per instaurare nuove di relazioni collaborative tra industria e distribuzione sia per rinforzare legami preesistenti. Infine, dalla lettura dei risultati ottenuti e della metodologia adottata dei progetti si possano individuare in concreto alcuni applicazioni di natura strategica ed organizzativa per l’industria e per la distribuzione. III.3. I risultati della ricerca empirica I primi progetti di category management sono stati avviati essenzialmente nel settore food, il quale ancora oggi rimane il principale ambito di applicazione della nuova filosofia di gestione6. 6 Nel mercato attuale, accanto al tradizionale ambito di applicazione, si stanno sviluppando diversi progetti di category management anche in altri settori, tra cui il mercato del lusso, il settore farmaceutico, l’high-tech e persino nei servizi (alcuni esempi si possono trovare nel mercato turistico e nella scelta di prodotti finanziari). 177 I casi di studio analizzati nel seguente progetto di ricerca riguardano proprio due best practices di category management realizzate nel settore alimentare, in particolare nel settore delle carni bianche. I due casi di studio descritti sono stati promossi dal Gruppo Fileni, terza azienda nel mercato italiano delle carni bianche, in partnership con due gruppi della distribuzione: Magazzini Gabrielli7 e Unicomm8. Un progetto di category nel settore carni bianche assume ancora più importanza considerando che: - nel caso del supermercato, le categorie dei prodotti “freschi” sono determinanti per l’immagine e la fedeltà al pdv; - per oltre il 50% dei consumatori, la categoria “carni” risulta determinante per la scelta del pdv (Castaldo & Costabile, 1996). Proprio in relazione all’approccio customer-based del progetto, fondamentale è stato lo studio della domanda, analizzata sia nel suoi aspetti qualitativi sia quantitativi. Si è ritenuto, infatti, che solo la compresenza dei due metodi avrebbero arricchito la conoscenza e la comprensione del problema di ricerca, coniugando tendenze numeriche prese dai dati quantitativi e dettagli specifici presi dai dati qualitativi. 7 Il primo progetto category è stato sviluppato in collaborazione con il Gruppo Gabrielli, gruppo distributivo presente nelle regioni del centro Italia (Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Lazio) con le insegne Oasi, Tigre e MaxiTigre. 8 Il secondo progetto category è stato svolto in partnership con il Gruppo Unicomm, presente soprattutto nelle aree del nord-est con le seguenti insegne: Emisfero, Famila e A&O. 178 Nell’ambito dell’indagine qualitativa, sono stati effettuati 8 focus group volti ad indagare la diversa articolazione del processo decisionale in riferimento alle specifiche categorie di prodotti. In particolare, si è evidenziata l’esistenza di una correlazione positiva tra il livello di coinvolgimento nella categoria e il grado di approfondimento dei processi informativi e valutativi. Inoltre, i focus hanno creato anche quella base di conoscenze sul consumatore necessaria per costruire poi un modello di questionario da somministrare ai clienti e passare quindi alla quantificazione delle preferenze di acquisto dei consumatori. Il questionario ha preso in considerazione le seguenti aree tematiche: gli aspetti socio-demografici del consumatore, il modello d’acquisto, la valutazione della marca, l’atteggiamento del consumatore verso le principali leve di marketing all’interno del pdv (promozione, esposizione, assortimento), il posizionamento dell’insegna e principali competitor dell’insegna, in riferimento esclusivamente al reparto carni bianche. Il campione è stato individuato attraverso il metodo di campionamento casuale semplice. Attraverso l’analisi sistemica dei risultati, incrociando le variabili conoscitive della domanda con i dati storici, si è proceduto alla segmentazione del mercato, così da pianificare specifiche tattiche di marketing mirate ai singoli target. 179 III.3.1. La centralità del consumatore nel processo di category management Come descritto in precedenza nell’approfondimento del framework teorico, il processo di implementazione del category management è strutturato in diverse fasi, in continua interazione tra di loro. Nei casi di studio analizzati, l’obiettivo primario era quello di fornire realmente una lettura delle categorie nell’ottica del consumatore, come base per creare un sistema di offerta vicino alla domanda e anche per evitare il sorgere di atteggiamenti opportunistici da parte dei due partner. La mancanza di questo fondamentale presupposto è spesso la causa principale del fallimento di numerosi progetti di category management, in quanto ad una logica collaborativa prevale la volontà di migliorare le proprie specifiche posizioni. La fonte del vantaggio competitivo va invece individuata nella costruzione di una partnership fondata sulla fiducia reciproca e nel rapporto continuativo con la domanda finale. Per questo motivo, l’analisi del consumatore è stata posta come la base di tutte le diverse fasi del processo di category e in modo particolare di quelle che hanno contribuito alla definizione delle strategie, ridefinendo in un certo senso il tradizionale processo di category management. 180 Nello schema tradizionale, infatti, la prima fase che caratterizza l’intero processo di category management è la definizione di categoria (Figura III.3.1-1); tale momento ricopre valenze strategiche in quanto tende a delineare i confini competitivi per l’azienda di produzione e la peculiarità dell’assortimento offerto dall’impresa di distribuzione. Figura III.3.1-1. Il processo di category management customer based Processo tradizionale Processo customer based Fonte: elaborazione propria da Ecr (1995) Un percorso definitorio corretto, però, non può svilupparsi da una posizione unilaterale di una delle due aziende bensì richiede l’approfondimento del mercato e della domanda, per poi individuare gli elementi comuni che permettano di 181 definire una categoria in cui le parti si riconoscano e che rappresenti una forma di linguaggio condiviso. Questa visione comune è proprio la visione del consumatore. Di conseguenza, l’analisi del consumatore diventa la fonte di conoscenza su cui costruire l’intero processo di category management: infatti, è solo da una profonda comprensione della domanda che è possibile dare una definizione delle categorie9 realmente customer based. III.3.2. La definizione della categoria in ottica customer based Seguendo il nuovo processo di category management, si è quindi proceduto ad individuare la macro-categoria di riferimento, intesa solo come mercato obiettivo su cui poi articolare la clusterizzazione dei consumatori. Dopo aver definito analizzato l’intero scenario di mercato individuando i macro trend del mercato, l’analisi si è quindi concentrata a livello micro, ovvero sull’indagine sul consumatore. 9 La categoria così definita diventa quindi un terreno comune di confronto, che va oltre il classico riferimento al “portafoglio prodotti” del produttore e l’ “assortimento complessivo” che invece costituisce l’elemento chiave per il distributore. 182 La domanda è stata analizzata sia nei suoi aspetti qualitativi sia quantitativi, ritenendo che solo la compresenza dei due metodi avrebbe potuto offrire un quadro completo e sufficientemente esaustivo del fenomeno. In particolare, sono stati studiati: - il livello di coinvolgimento del consumatore nella categoria; - i criteri di categorizzazione dei consumatori attraverso l’analisi dei benefici ricercati nella categoria; - le relazioni di complementarietà e sostituibilità tra le categorie. Le indagini effettuate sul consumatore hanno dimostrato l’esistenza di una correlazione positiva tra livello di coinvolgimento e il grado di approfondimento dei processi informativi (Bertozzi & Castaldo, 2000). La figura III.3.2-1 mostra la diversa articolazione del processo decisionale nelle situazioni caratterizzate da un diverso livello di coinvolgimento e il grado di approfondimento dei processi valutativi e informativi. L’acquisto di categorie ad elevato coinvolgimento psicologico portano spesso ad una maggiore raccolta di informazioni finalizzate alla valutazione del prodotto. In questo contesto, il consumatore tende a fondare le proprie valutazioni su un processo di apprendimento intenzionale, che può basarsi sul dialogo con il personale del punto di vendita, nel caso della vendita assistita, oppure nella lettura dell’etichetta, nel caso della vendita a scaffale. 183 Figura III.3.2-1. Gli stadi del processo di acquisto Elevato coinvolgimento psicologico Percezione del bisogno Modesto coinvolgimento psicologico Percezione del bisogno Ricerca di informazioni Valutazione delle alternative Decisione d’acquisto Decisione d’acquisto Valutazione postacquisto Valutazione postacquisto Fonte: adattamento da Castaldo (2009) Entrando più nel dettaglio, innanzitutto, c’è una forte attenzione verso la selezione del prodotto, tale da evitare la nascita di dissonanze tra flusso informativi e qualità percepita. Inoltre, cresce l’attenzione prestata alle caratteristiche differenziali delle varie alternative di offerta: infatti, spesso si scelgono forme distributive 184 specializzate per l’acquisto di pezzi più particolari o più pregiati, mentre la grande distribuzione viene invece preferita se si cercano maggiori livello di servizio. Invece, per quanto riguarda i prodotti con bassi livelli di coinvolgimento, il processo d’acquisto diventa più semplificato, quasi distratto; la principale fonte informativa diventa la sperimentazione diretta o l’attività di comunicazione della marca. In ottica category, ciò enfatizza la criticità del contenuto informativo del display, soprattutto con l’obiettivo di differenziazione rispetto alla concorrenza (Figura III.3.2-2). Le implicazioni manageriali connesse all’analisi del livello di coinvolgimento della domanda nell’acquisto di un prodotto sono molto diverse. Per i prodotti ad alto coinvolgimento, il cliente è particolarmente attento a servizi di tipo informativo: qualità della preselezione, assistenza personale nelle fasi di scelta e display articolato in modo coerente con i criteri valutativi della domanda. Questo tipo di offerta corrisponde in genere al livello di servizio tipico delle forme distributive specializzate. I prodotti a basso coinvolgimento psicologico si prestano, invece, a modalità di vendita più tipiche dei punti vendita de-specializzati. In questi casi, il cliente è più attento al contenuto logistico dell’offerta commerciale: la velocità e la comodità dell’acquisto, la facilità nell’individuazione della categoria all’interno del punto 185 vendita, prossimità del punto vendita, velocità del servizio (Busacca & Castaldo, 2000). Tabella III.3.2-2. Le principali implicazioni manageriali per il category management Livello di coinvolgimento psicologico nella categoria Principali implicazioni manageriali per il category management Elevato Elevato servizio di preselezione dell’assortimento. Informazione diretta del personale di vendita. Display informativo. Prodotti garantiti Ridotto Facilità di reperimento del prodotto. Display immediatamente leggibile. Varietà gestita. Fonte : elaborazione da Bertozzi e Castaldo (2000) Per quanto riguarda invece il secondo punto, ovvero il processo di categorizzazione, l’obiettivo è stato quello di ricercare i benefici e i valori correlate alle attività di consumo. Le sequenze cognitive sono state individuate attraverso la ricostruzione della “catena mezzi-fini” (Gutman, 1982). Queste associazioni cognitive possono essere classificate sulla base del loro livello di astrazione: ai livelli più bassi della catena ci sono gli attributi tangibili e 186 intangibili dell’offerta, a livello intermedio quelle con i benefici (funzionali, esperienziali e simbolici), a un livello più alto di astrazione l’area dei valori (strumentali e terminali). I clienti attraverso la loro attività di shopping ricercano prodotti con certi attributi, i quali sono legati da rapporti causali verso l’ottenimento di certi benefici, che a loro volta sono strumentali all’attestazione di certi valori terminali. Attraverso la comprensione di questi nessi causali, è stato possibile segmentare l’offerta in base ai benefici ricercati e definire i diversi livelli di articolazione dell’offerta. Costruire un albero delle categorie sulle esigenze del consumatore può facilitare l’apprendimento e la scelta del cliente, accrescere la sua soddisfazione in relazione al processo di acquisto e aumentare la sua fedeltà al punto vendita. Per quanto riguarda invece il nesso di complementarietà e sostituibilità tra le categorie, questa relazione è stata indagata nell’ambito dei momenti di consumo, riconoscendo che la scelta di determinate categorie di prodotti è strettamente in relazione con l’occasione di utilizzo e quindi con tutte le componenti di contesto che la compongono. 187 III.3.3. I ruoli strategici di categoria Lo step successivo riguarda la definizione dei ruoli di categoria. Anche in questa fase, è il consumatore che deve indirizzare gli investimenti e gli impieghi di risorse nelle diverse categorie. Il ruolo da assegnare alle categorie non deve essere frutto di una scelta autoritaria del distributore, ma deve essere il risultato di un’analisi congiunta della domanda e dei parametri di performance del distributore. A tal fine è necessario che si inneschi un circolo virtuoso tra la prospettiva del distributore e la prospettiva del consumatore. Secondo questo approccio, i ruoli strategici che possono essere assegnati alla categoria sono i seguenti10 (Bertozzi, 2000): - destination (destinazione): il distributore vuole essere riconosciuto come il fornitore più qualificato in assoluto a soddisfarne le esigenze; allocazione privilegiata e di risorse al fine di poter trasferire al consumatore un valore di eccellenza,superiore rispetto alla concorrenza (varietà e qualità degli assortimenti e dei servizi di vendita); 10 A tal fine possono essere individuate altre variabili di posizionamento. Ad esempio, facendo riferimento alla reach-frequency roles matrix (FMI, 1995), le categorie possono essere classificate in base al livello di penetrazione (definita come la percentuale delle famiglie che acquista un prodotto della categoria in un anno) e di frequenza (definita come il numero medio di volte all’anno in cui la categoria acquisita è acquistata). La classificazione si declina quindi in: staples, niches, necessities, fill-ins. In alternativa, utilizzando un approccio retailer-based, i ruoli delle categorie si possono classificare in base al volume di vendita e del livello dei margini, individuando così sei tipologie di categorie: flagship, core traffic, cash machine, under fire, maintain/grow, rehab. 188 - routine o preferred (rilevante): le categorie di routine sono quelle sulle quali l’impresa intende mantenersi altamente competitiva, ma dove non c’è spazio per significative politiche di differenziazione; sono categorie ad alti volumi, dalla frequenza di acquisto elevata e di una certa visibilità per il consumatore; la logica di approvvigionamento prevale sulla logica shopping: eccellenza sul piano logistico, ovvero riducendo al minimo il rischio di rottura di stock; - seasonal o emotional (stagionale): categorie ad elevata stagionalità, a cui viene attribuito un’importanza significativa solo in alcuni momenti dell’anno; categorie coerenti con bisogni articolati dei consumatori (ad esempio: pic-nic) e capaci di stimolare acquisti aggiuntivi (ad esempio: estate); - convenience (comodità/servizio): categorie di “complemento”, legate alla possibilità per il consumatore di concentrare gli acquisti in un’unica spedizione o di usufruire di servizi a valore aggiunto. Dalle considerazioni fatte in precedenza, è possibile posizionare idealmente i quattro ruoli strategici all’interno di una matrice, dove le componenti principali sono (vedi Figura III.3.3-1): l’importanza per il trade, ( in riferimento all’incidenza sul fatturato e sui volumi, composizione del margine, crescita nel tempo); l’importanza per il consumatore (analisi del comportamento d’acquisto, 189 livello di programmazione all’acquisto, scontrino medio, frequenza d’acquisto, ecc..). Figura III.3.3-1. I ruoli strategici della categoria Fonte: elaborazione propria Dalla lettura congiunta di queste due prospettive è possibile assegnare dei ruoli non solo in base alla loro redditività per la distribuzione, ma anche e soprattutto in base all’importanza riconosciuta dal consumatore. 190 III.3.4. L’assegnazione degli obiettivi di marketing di categoria A fronte di un diverso ruolo strategico delle categorie, è emersa anche la necessità di individuare quale possibile contributo può fornire ogni singola categoria alla realizzazione delle strategie di marketing dell’insegna e al raggiungimento di determinati obiettivi economici. L’assegnazione degli obiettivi di performance di categoria è servita quindi a guidare la ripartizione delle risorse di marketing tre le varie categorie, permettendo un’allocazione più efficace ed efficiente diffondendo l’imprenditorialità anche a livello di categoria. Gli obiettivi di marketing individuati nei casi di studio sono coerenti con quelli individuati nella letteratura (Mauri, 1995) e possono essere classificati in: - traffic building: attirare il maggior numero possibile di consumatori; - transaction building: aumentare il valore della spesa dei consumatori, attraverso l’acquisto di prodotti non programmati (acquisti ad impulso) o di prodotti a maggior valore unitario; - margin contributing: aumentare il margine complessivo del distributore; - cash generating: aumentare il fatturato generato dalla categoria; - excitement creating: rendere piacevole e stimolante il processo di acquisto; - price image: comunicare al consumatore la convenienza di prezzo attraverso politiche di price leadership; 191 - variety image: comunicare al consumatore la qualità dell’assortimento in termini di ampiezza e/o profondità; - turf protecting: difendere la base dei consumatori. III.3.5. Il piano strategico di categoria e il retailing mix Il tratto rilevante che emerge dai casi di studio si identifica proprio nella costruzione del piano strategico di categoria, ovvero nel fatto che si possono individuare specifiche strategie di marketing in riferimento alle singole categorie. Infatti, il piano strategico di categoria prende avvio proprio dalla definizione dei confini delle categorie, per poi individuare i ruoli che queste rivestono e gli obiettivi e le strategie necessari per perseguirli. In questo modo, le linee guida strategiche si ritrovano proprio nei risultati dell’indagine sul consumatore: è da questa conoscenza che è alla base della progettazione delle politiche di marketing di categoria e le rispettive leve di retailing mix. 192 Figura III.3.5-1. Uno schema di riferimento per l’individuazione delle strategie di marketing di categoria Ruolo Destinazione Routine Servizio Emozionale Categorie Strategia Retailing mix: Politica assortimentale Pricing Attività promozionali Merchandising e visual merchandising Fonte: elaborazione propria In particolare, una delle principali leve del retailing mix è l’assortimento. L’assortimento è una componente essenziale dell’immagine del punto di vendita e ha una componente dinamica, ovvero si evolve nel corse del tempo. Il cambiamento devo essere guidato dalla costante ricerca sul mercato obiettivo. A tal fine, la proposta commerciale ha cercato di riflettere l’evoluzione dei bisogni e delle esigenze del cliente, sempre facendo riferimento alle indicazioni emerse dall’analisi. 193 Nei casi di studio emerge che sia il produttore sia il distributore guardano all’orientamento al mercato come una fonte di innovazione determinante per la loro differenziazione: per il distributore, rappresenta un’opportunità per differenziare la propria proposta commerciale, soprattutto a livello intra-formula, facendo leva su modalità innovative di interpretazione dei bisogni e sull’eterogeneità dei benefici ricercati dalla domanda; per il produttore, l’ascolto della clientela può fornire cruciali informazioni in termini di innovazione di prodotto. In questo senso, si è proceduto sia a razionalizzare l’offerta assortimentale, riducendo le inefficienze (prodotti basso rotanti o sovraesposti), sia a sviluppare i segmenti più innovativi e dinamici alla luce delle indicazioni provenienti dall’analisi del consumatore e dei trend di mercato. Nella pratica, nelle categorie merceologiche dominate dalle marche industriali, la differenziazione dell’assortimento è stata perseguita con lo sviluppo di linee di prodotto minori, che inseriscono la non sovrapposizione tra i criteri di referenziamento dei prodotti. Invece, nelle categorie dove la marca è poco presente, il distributore ha deciso di aggiungere valore attraverso la lavorazione della materia prima direttamente in punto vendita, in modo da comunicare il carattere di artigianalità dei prodotti. L’obiettivo della differenziazione d’offerta rispetto ai competitor è di sviluppare la fedeltà della clientela attraverso la specificità dell’assortimento. 194 Le innovazioni nella politica di assortimento si traducono direttamente in nuove soluzione di merchandising e visual merchandising. Il visual merchandising svolge un ruolo fondamentale nel comunicare la dimensione emozionale dell’assortimento, richiamando nel sistema cognitivo individuale emozioni ed esperienze collegate al consumo passato e futuro del prodotto, valorizzando così il contenuto semantico dell’offerta commerciale (Soscia, 2001). Il display è cruciale per le performance del retail principalmente perché: nella maggior parte dei casi il consumatore sceglie la marca da acquistare in punto vendita; il tempo che i consumatori utilizzando per effettuale le loro scelte è estremamente limitato (Dickson & Sawyer, 1990). Per questo motivo, i progetti di category management analizzati hanno avuto quale manifestazione ultima “visibile” alla clientela proprio la riorganizzazione della superficie espositiva tenendo conto di una nuova forma di aggregazione delle categorie basata sul processo di consumo del consumatore e non più sulla omogeneità merceologica. Superato l’inevitabile disorientamento iniziale del pubblico, ormai abituato da anni a punti di vendita organizzati secondo una logica omogenea di tipo merceologico, il nuovo layout si è rivelato più funzionale al processo di ricerca dei prodotti, minimizzando il tempo dedicato agli spostamenti nel punto vendita senza però rinunciare bensì, al contrario, stimolando acquisti non programmati. 195 La nuova disposizione dell’assortimento è stata anche accompagnata dalla creazione di una grafica espositiva che potesse comunicare visivamente i momenti di consumo e far “pregustare” all’acquirente l’esperienza di consumo. Il punto vendita si trasforma così in un efficace experience provider11 (Castaldo & Mauri, 2008), in cui lo shopper è attratto dagli aspetti del punto vendita che possono rendere l’attività di acquisto piacevole e divertente, apprezzando la creatività e l’originalità dell’ambiente e dello store design, come hanno dimostrato le analisi di customer satisfaction realizzate nella fase test dei due progetti di category. Infatti, nell’ottica delle imprese partner analizzate, è il punto vendita il luogo in cui avviene il contatto decisivo con il cliente: facendo vivere al cliente un’esperienza di shopping emozionante e coinvolgente, è possibile potenziare la relazione con il cliente, determinando così un’ulteriore fonte di generazione di valore per la domanda. 11 Dalle ricerche svolte con riferimento alla shopping orientation degli acquirenti emerge l’esistenza di differenti motivazioni alla base dei processi di shopping, evidenziando il riduzionismo dell’ipotesi che considera l’individuo, durante l’attività di shopping, teso solo ed esclusivamente a minimizzare i costi di approvvigionamento. A tale riguardo è stata riscontrata l’esistenza di due tipologie di atteggiamento rispetto all’attività di acquisto: un atteggiamento funzionale e uno ricreativo. Nel primo caso lo shopping viene considerato un’attività meramente strumentale all’approvvigionamento di veni; nel secondo, l’individuo assegna a tale attività una valenza autonoma rispetto all’acquisto, interpretandola come uno strumento di svago e di intrattenimento. Per ulteriori approfondimenti sulla creazione di esperienze emozionali nel punto vendita si fa riferimento a Forseter (2000), Mahler (2000), Shaw and Ivens (2002), Smith and Wheeler (2002). Altre ricerche fanno riferimento al concetto di “experiential retailing’’ (Kim, 2001), o ‘‘entertaining experiences’’ (Jones, 1999; Ibrahim & Ng, 2002) o infine ‘‘entertailing and shoppertainment’’ (Buzz, 1997). 196 III.3.6. Risultati e prime considerazioni conclusive Nell’attuale mercato competitivo, le imprese mirano a soddisfare in modo più compiuto le esigenze della domanda, proponendosi come soggetti attivi in grado di rispondere repentinamente ai bisogni specifici della domanda. L’evoluzione dell’acquirente-consumatore sul piano comportamentale e dei bisogni e la ricerca della sua fedeltà sollecitano l’avvio, da parte sia del distributore sia del produttore, di un processo innovativo di marketing distributivo, che esalti la componente immateriale della creazione del valore. Questa esigenza trova espressione nell’adozione di una nuova modalità gestionale all’interno del marketing distributivo: il category management. Dall’analisi dei casi di studio, si evidenzia che in virtù della focalizzazione dell’indirizzo comune sulla categoria merceologica, emergono aspetti e profili nuovi di analisi delle aree di partnership emergenti tra industria e retailer. La stessa realizzazione operativa del category dispiega la sua efficacia solo attraverso un processo di gestione integrata delle risorse di marketing, condividendo le risorse informative e conoscitive rispettivamente detenute e, se necessario, investigando ancora più in profondità i processi di consumo e di acquisto, coerenti con i segmenti di mercato a cui esse si rivolgono. Uno degli aspetti più innovativi emersi dai casi di studio riguarda il processo di costruzione dell’assortimento: infatti, l’albero delle categorie si è articolato 197 assolutamente in ottica customer base, segmentando l’offerta sulla base dell’occasione d’uso e dei benefici ricercati della clientela, superando la tradizionale suddivisione secondo le affinità merceologiche dei prodotti. La segmentazione ha trovato poi riscontro nell’intera gestione del piano strategico di categoria, a partire dall’assegnazione dei ruoli fino alla definizione del retailing mix. I vantaggi riscontrati dallo studio dei due casi sono molteplici. Innanzitutto, emerge un miglioramento delle relazioni fiduciarie lungo tutta la supply chain: produttore e distributore hanno collaborato attraverso l’interazione continua tra le parti, instaurando un rapporto di cooperazione e fiducia reciproca, riducendo l’incertezza della relazione e favorendone la continuità. Il miglioramento della relazione ha riguardato anche i processi organizzativi interni: si è riscontrato un maggior livello di integrazione organizzativa tra tutte le funzioni aziendali, in particolare del marketing e delle vendite. Anche i risultati economici dei progetti sono molto positivi: nei punti vendita test, i parametri relativi al fatturato e volumi di vendita sono aumentati e in particolare è cambiata la composizione del margine, a favore di prodotti più innovativi e in crescita nel mercato. Eccellenti risultati sono emersi anche dalle analisi di customer satisfaction effettuate nella fase post test dei progetti: i consumatori sembrano approvare la 198 nuova modalità di lettura dell’assortimento, in quanto espressione dei loro processi di consumo. I clienti intervistati dichiarano di aver migliorato la fase di scelta dei prodotti in punto vendita: la vicinanza dei prodotti in relazione ai benefici ricercati dal consumatore evita la possibilità di disorientamento davanti allo scaffale. In questo senso, il display diventa quasi un “consulente” nel processo di acquisto nel consumatore. Data la positività dei risultati emersi dai due casi di studio, è possibile affermare che l’attivazione di working partnership tra industria e distribuzione in ambito category management facilita la creazione di nuove fonti di valore per il cliente finale e nuovi elementi di differenziazione rispetto alla concorrenza. III.4. Il panorama internazionale: intervista al category manager di Unilever Uk Per completare la ricerca relativa al tema del category management, viene proposta anche un’analisi comparativa tra la realtà italiana e le best practices nel Regno Unito. A tal fine è stata svolta un’intervista face-to-face con Joe 199 Chomiskey, category manger di Unilever UK, responsabile della categoria degli “spread”, comprendente le sub-categorie del burro e della margarina. L’intervista è volta ad approfondire nella pratica aziendale le diverse aree teoriche del category management, tra le quali: 1. il ruolo del category management in Unilever UK; 2. l’importanza della relazione; 3. il cliente come terzo partner nella relazione industria-distribuzione; 4. la definizione della categoria; 5. le politiche assortimentali; 6. la leva promozionale; 7. la relazione tra category e sales. III.4.1. Il ruolo del category management in Unilever UK Nella parte iniziale dell’intervista, si è voluto indagare quale sia l’importanza e il ruolo del category management in una azienda multinazionale come Unilever e quale siano le differenze interpretative rispetto al contesto italiano. Category management is a very strange job for any business to have because ultimately my job isn’t about growing our products but it is about 200 growing all the category. We are not the only people in this category: for Unilever it is us and Arla, who has two brands called Lupark and Anchor, and we are about 30% of the market share so we called joint leaders, then there is a company called Dairy Crest and it has the 18% and a lot of small suppliers. Nel mercato inglese, Unilever e la controllata Arla hanno una quota di mercato del 30%. Il category manager pone immediatamente in evidenza il ruolo chiave di un approccio gestionale orientato al category management: l’obiettivo, infatti, non è di aumentare solo ed esclusivamente il proprio brand, ma di far crescere l’intera categoria. So first of all in Unilever category managers sit within our marketing teams. So in some companies it sits in the sales team and you are a very much part of the customer and you are an expert of the customer and you help to grow a number of categories. The way Unilever works is I works only on chilled across all of the customers. In term of the marketing side, I sit with the marketing function and my job is to make sure that I influenced the marketing team so that every activity or plan that we are doing help growing the category. 201 In alcune aziende il category manager è parte della funzione commerciale ed è essenzialmente responsabile di un piccolo gruppo di clienti della distribuzione e di diverse categorie di prodotti. In Unilever, invece, il category manager è parte della funzione marketing e si occupa specificamente della propria categoria in riferimento a tutti i retailers: questo orientamento, sicuramente più market driven, permette di essere più vicino alle strategie di marketing globali dell’azienda e di avere sotto controllo l’intero panorama della distribuzione. Il processo di marketing, nella sua dimensione oramai riconosciuta di filosofia pervasiva, si ritiene essere il driver più idoneo a promuovere l’integrazione tra le diverse attività aziendali, in quanto è in grado di orientare non più esclusivamente all’efficienza e al prodotto, ma soprattutto al mercato, individuando il principale asset nella creazione di valore per il cliente. I think I could not work on a project basis because I need to build the relationship and to work with them daily and focus on the retailer: I see them, I give them advice and so on. Of course, then, it depends on the size of the company because small size companies cannot afford a category manager. It also varies by country because I think UK has a very good category management approach. 202 In questa parte dell’intervista emerge un punto molto importante: l’approccio al category management deve essere una filosofia di gestione per l’azienda e non solo un “progetto” con orizzonti temporali di breve periodo. Ovviamente l’ottica di progetto può essere determinante nel momento in cui si vogliano attivare delle sperimentazioni o quando si voglia instaurare un primo rapporto con il cliente della distribuzione. In seguito, però, il rapporto deve necessariamente cambiare prospettiva temporale e la relazione deve diventare continua: il category management deve essere una filosofia gestionale che permea tutti i processi aziendali e non può basarsi su logiche transazionali. In the UK, the marketing department in retailers tends to be quite big, but unpowerful because they only work across the total store, so you don’t tend to get people that do a lot of marketing just on my category. For example, Tesco or Asda, they always do advertising but always saying “we are the cheapest”, “now we are the cheapest”, “we have a club card, do you have a club card?”. They are not category experts; they don’t do advertising just on spreads. And maybe let’s happen to be they have the best offer in store is made by spreads and then maybe we can talk about, but otherwise not. They ask for promotion, what promotion should I do, what is going to work, what is the objective...do they want to bring shoppers in or they’re just 203 trying to get people they already have to buy more, so if you want to do that, this is how you should promote. Le imprese commerciali hanno acquisito una crescente autonomia in termini di marketing. In passato, le ridotte dimensioni e le scarse conoscenze di marketing rendevano le aziende della distribuzione passive rispetto alle imprese dell’industria. Ora, invece, hanno potenziato le loro politiche di marketing al fine di riprogettare e valorizzare la loro proposta di offerta, addirittura sviluppando linee di prodotti proprie: le marche commerciali. La capacità di marketing della distribuzione si estende poi anche alla possibilità di gestire in modo personalizzato la relazione con il cliente, soprattutto grazie allo sviluppo di carte fedeltà che, insieme allo sviluppo e alla diffusione di tecnologie informatiche sempre più innovative, permettono alla distribuzione di ottenere informazioni sulle abitudini d’acquisto della clientela. Questa massa di dati, se adeguatamente sfruttata, permette di realizzare strategie attive da parte del distributore, che in questo modo più sviluppare una relazione autonoma con i clienti. Come sostiene il category manager, il marketing della distribuzione tende a supportare l’intera politica commerciale al fine di valorizzare l’immagine dell’insegna e attirare più clienti nei loro punti vendita. Per questo motivo, l’attenzione del marketing distributivo non può concentrarsi sulle singole 204 categorie, ma deve necessariamente avere una visione più olistica al fine di migliorare le performance dell’intera azienda e non solo dei singoli comparti. Lo strumento principalmente utilizzato sembra essere la leva promozionale: con la promozione di prezzo l’azienda commerciale si propone di attirare nuovi consumatori al punto vendita, di aumentare il traffico e di fidelizzare i consumatori abituali, stimolando le vendite dei prodotti in offerta normale. Per effetto della diffusione tra le insegne, inoltre, le politiche promozionali si stanno integrando sempre di più con i programmi di fidelizzazione e di micromarketing. L’attenzione alla fedeltà della clientela sposta le promozioni dall’esterno all’interno del punto vendita, dai media di massa ai mezzi diretti, da “una iniziativa per tutti” al cluster marketing, dal mero traffico alla share of wallet dei clienti abituali (Ziliani & Belllini, 2004). Also I have to work with the category managers from competitors, so the other category managers, for examples if we go to a merchandising centre, normally more than one of us will be present. Now there are a lot of legal implications around having two competitors in the same room so all of the conversations go through the buyer, not to each other, so it is a strange kind of setter, but for legal reasons for competition reasons we have to make sure that all the hypotheses that we made are objective, I have to make a lot of notes in any meeting to make sure that everything is covered 205 and we all have a legal statement that said that not comfortable we would leave, we could reject the meeting, but...You know, the customers want to get an holistic view, so, generally no, they don’t just pick one supplier and say “we work with you on category management”, they pick more than one because they want to make sure, actually they want to see your view and your view, which is strange but from that point of view quite clever because obviously I always go there and say “these are the things that work for Unilever and for you”, and Arla goes there and says “these are the things that work for Arla and for you”, so at the end they can picking on them for the whole strategy and cannot stop pulling them and working on. Un altro soggetto con cui il category manager tende ad interfacciarsi è la concorrenza. Anche nei confronti dei competitors sembra esserci un rapporto di massima trasparenza, stabilita anche da rigide regole in termini di incontri collettivi tra il retailer e i suoi fornitori. Il cliente della distribuzione vuole avere un ampio e completo panorama del mercato e gli orientamenti strategici di ciascun fornitore, in modo da poter prendere le proprie decisioni dopo valutazioni comparate. Emerge con evidenza quanto il ruolo del category manger sia trasversale sia all’interno della sua azienda sia nei rapporti con altri stakeholders dell’azienda stessa. 206 III.4.2. L’importanza della relazione As well as that, I also work with the ongoing in terms of valuable contact means, how say “Joe we have got this idea or we have got this problem, what do you think about it, what do you think is the solution?” and the all purpose of my job is that customer see me as completely impartial, they don’t see me as Unilever. Haven’t said that, I work for Unilever and it is obviously important to make it sure that we are doing things, I grow the all category, but I try to do that in a way that also grows our brands as well. You know ultimately Unilever invest in me, it is a help to grow their business as well for the retailers. That is the challenge that sometimes can be, finding what are the things that work, for the customer it is to grow the category and also to grow our brands. For Unilever there is a huge focus now and we talk about growing the all pie, so the pie is worth 100 million pounds, let’s say, how can we make that pie worth 120 million pounds and in doing that how can we get a bigger piece of it, so the customers are happy and we are happy as well, and when I say customer I mean kind of Tesco, Asda, etc… Durante l’intervista, emerge con chiara evidenza importanza dell’atteggiamento imparziale del category manager: l’equità rappresenta una delle basi per creare un 207 legame fiduciario tra le parti. E’ importante, dunque, instaurare legami chiari in cui gli attori coinvolti credano fermamente nella capacità del partner di mantener fede agli impegni presi e di non intraprendere azioni negative inaspettate nei propri confronti. Il rapporto distribuzione-industria è estremamente complesso in quanto è formato da attività spesso complementari tra loro: la ripartizione della logistica, la negoziazione sui costi per uscire ad un prezzo più basso e incidere in modo positivo sul margine, la collaborazione tra il marketing per comunicare in modo efficace con il cliente. Oltre a questa complessità si aggiunge la competizione sul mercato del consumo, l’industria con i suoi prodotti di marca, mentre la distribuzione con i prodotti a marca commerciale, di norma con un prezzo inferiore del 10-20% rispetto alla marca industriale. Quindi, l’adozione di una logica collaborativa, abbandonando la tipica prospettiva antagonistica che permea molte rapporti di fornitura, non sembra essere uno switch semplice e automatico: al contrario, necessita la presenza di un legame fiduciario che si basa su una serie di precondizioni fondamentali, come la correttezza reciproca, la correttezza, la trasparenza comunicativa, la condivisione dei valori. In sintesi, per superare le criticità della relazione industria-distribuzione è necessario creare un rapporto di vera partnership che passi da una logica di convenienza ad una prospettiva win-win di collaborazione basata sulla fiducia reciproca. 208 In term of relationship, I have a very good relationship with the buyers because I’m not discussing prices with them or anything like this, they will never have any questions to me about I don’t make enough cash on this; if it is not my field, we don’t talk about it. And then we have commercial situations, like if we have a price increase through or there are some promotions they are not happy with, the buyers will often stop speaking to the account managers or the sales team, they just stop answering the phone, stop speaking, but because we have got this category relationship in place, they still speak to me, we still keep that dialogue and that really helps because in the way the retailers still need our advice. Then you know, the thing I enjoy about sales was building that relationship, but in sales often, no matter how you try, there might be commercial things that stop that from being a good relationship. Nei canali distributivi, spesso il conflitto nasce per il fatto che un membro del canale si comporta in modo opportunistico sfruttando una situazione di dipendenza e quindi utilizzando l’autorità come meccanismo di coordinamento. In letteratura, il conflitto è stato definito come comportamento esplicito che deriva da un processo nel quale un soggetto ricerca di portare avanti il proprio interesse nella relazione con altri soggetti (Schmidt & Kochan, 1972). Nei rapporti industria-distribuzione, la negoziazione è solitamente guidata 209 dall’obiettivo delle parti di ottenere il maggior vantaggi economico aziendale, basandosi sul concetto di convenienza dell’acquisto. Il prezzo e lo sconto sono tuttavia strumenti di breve periodo, che non consentono la costruzione di relazioni, ma solo di rapporti transazionali che spesso sfociano in strategie di influenza coercitive. Con l’instaurarsi di un rapporto collaborativo, si superano queste logiche opportunistiche per adottare invece un nuovo approccio basato sulla fiducia reciproca, che va oltre le singole transazioni e i piccoli conflitti. Ring e Van de Ven (1992) sostengono che fare affidamento sulla fiducia è possibile solo come conseguenza di ripetute transazioni di mercato tra le parti, in cui entrambe hanno osservato le norme di equità. La fiducia è rafforzata da un lungo periodo di transazioni, che contribuiscono a sedimentare la relazione e ridurre l’incertezza comportamentale, riducendo così il rischio di opportunismo. They need to choose between me and Arla, because we are the biggest, but ultimately also in term of people who are inside there. When I joint category management two years ago and move towards a much strategic role a year ago, the relationship was much better with Arla. So although they spoke to both of us, Arla tended to be the one who they listened to, but now there is more balance. I think that this was built through me over a period of time, just in term of getting their trust. And kind of small things 210 like also being proactive rather than waiting for them contacting ma and say “Joe what’s happen with this, why it is not doing this” This means to be on top of what’s happening, look at what is happening in the market, and be able to notice this is happening and this is why, so it is about to be really forward-thinking. La figura del category manager si evolve decisamente verso un profilo di “relationship manager”. In un contesto sempre più volto alla collaborazione, le imprese hanno compreso l’importanza della fiducia: è fondamentale che il category manager sia in grado di conquistare e poi accrescere la fiducia del buyer e, più in generale, dei soggetti che fungono da interfaccia presso l’impresa cliente. Nel presente lavoro, infatti, è stato ampiamente dimostrato come il livello di fiducia sia tra le variabili che più condizionano le decisioni dei responsabili d’acquisto, la loro propensione alla collaborazione e l’orizzonte temporale della relazione, manifestando un impatto economico non secondario sui risultati economici dell’impresa. In questo contesto, la componente interpersonale gioca un ruolo rilevante nella costruzione della relazione, ovviamente insieme alla percezione della competenza dei soggetti in relazione. La fiducia è un costrutto sociale; tuttavia, quando ci sono in gioco interessi economici, essa è anche strettamente interrelata con la performance economica. Per questo motivo, le basi per generare fiducia sembrano 211 essere essenzialmente due: in primo luogo, l’imparzialità e l’equità del category manager; in secondo luogo, la condivisione e la corretta interpretazione delle informazioni di mercato, al fine di fornire il giusto insight per il miglioramento delle performance aziendali future. So I think it comes down to the strength of the reasoning you put behind it, so, you know, there are facts behind all this: these are the number, this is the reason, this is the evidence, so you need just to come down to what the buyers believe, which one has the strongest evidence. Category has to be a rational choice. Occasionally I’d say “Look, we haven’t got any data on this, but it feels like the right thing to do, shall we try it?”. So let’s do it in a few stores, if it work brilliant, if not fine, we can work on that. But if you want to do a big change you have to back them up. Because the retails don’t want to do something unless they think I’m not going to win from it. It is too competitive in the environment in the Uk for them to make mistakes. So they won’t risk anything if they think it gonna be kind of wrong. La fiducia si basa quindi anche sulla forza e rilevanza delle valutazioni che il category manager presenta al buyer, diventando quindi una delle principali fonti informative dell’azienda. Più in generale, il ruolo di interfaccia è tanto più 212 importante quanto maggiore è la distanza cognitiva (gap cognitivo) tra fonte e ricevente (Scarso, Bolisani, & Friso, 2004). La diversità dei dominii cognitivi non riflette solo le distanze sociali, culturali e nei linguaggi tra i soggetti implicati nel processo di trasferimento della conoscenza; riflette soprattutto le divergenze nei frame cognitivi ed interpretativi degli attori. L’interfaccia opera, quindi, come un intermediario e un traduttore di conoscenza: per potere svolgere il suo ruolo, deve sviluppare un processo di socializzazione delle conoscenze tacite tanto verso la fonte quanto verso il destinatario. In questo caso, il category management facilita il fluire della conoscenza all’interno dell’impresa creando linguaggi condivisi e spazi cognitivi comuni, promuovendo comportamenti collaborativi nel network inter-organizzativo: motivazione a condividere conoscenza di valore con gli altri membri, superamento dell’opportunismo, massimizzazione dell’efficienza del trasferimento della conoscenza tra i membri. In tali contesti, il ruolo della fiducia come meccanismo facilitatore dell’apprendimento diventa centrale (Moorman, 1995). It took a lot to built, there is a lot of trust there. They send me their promotional plan, their planograms, they are very commercially sensitive by telling me all the competitor promotions in there. I am not allowed to share with anyone else Unilever or I have got to keep an advice based on 213 what I can say. But I can’t share the information anywhere. Lo scambio di informazioni è fondamentale per la costruzione di partnership: le informazioni riguardano diversi aspetti della relazione fornitore-distributore, dai livelli qualitativi, alle politiche assortimentali. Il flusso informativo deve provenire da entrambi le parti, al fine di creare fiducia reciproca. Il distributori mettono i comune con i produttori informazioni che riguardano le vendite e i gusti dei consumatori, dati che possono provenire dalla lettura dei codici a barre alla cassa o dall’analisi delle tessere fedeltà. Inoltre, i distributori possono condividere dati sulle previsioni di vendita e sulle rimanenze in stock, in modo da poter pianificare la produzione e evitare eventuali rotture di stock o eccedenze di magazzino. Dall’altra parte, i produttori possono fornire informazioni sui trend di mercato e sui principali filoni dell’innovazione di prodotto: lo scambio di questa conoscenza è molto importante perché può portare alla ideazione congiunta di nuovi prodotti, che poi possono essere commercializzati attraverso la marca industriale o privata. Queste tipologie di collaborazioni hanno l’effetto di avvicinare le due parti nella ricerca di un risultato comune; in aggiunta, fornisce ogni volta nuova motivazione che porta al miglioramento continuo e all’evoluzione delle soluzioni proposte in precedenza, attivando un processo di cooperazione di lungo periodo. 214 The one thing that buyer don’t have is time, so Unilever has a lot of resources but think about everyone that work on spreads: we have got someone who works in the customer marketing team, then we have got someone in specific marketing within a customer on spreads, we have got an account manager who does all the sales things, then we have got me who deal with the category and we have got the supply chain and etc... From the buyer side, it is not pretty much like this, they has the money for the all process, they have no time, they need to come across a big number of supplier, they rely on us to keep a lot of information, which is good because there is a good relationship. Il buyer spesso non ha a disposizione due risorse molto importanti: il tempo e un budget adeguato alle sue aspettative. E’ per questo che adottare la filosofia gestionale del category management diventa fondamentale: il category manager diventa consulente del buyer e lo supporta offrendo non solo prodotti, ma soluzioni. Soluzione è un concetto che si afferma come risultato di un processo di progressiva trasformazione dell’offerta delle imprese, nella ricerca di una sempre più spinta capacità di generare valore per i clienti. Negli studi dedicati al B2B, si trovano spesso riferimenti alle selling solutions o alle marketing solutions per indicare offerte complesse, fatte di beni e servizi, destinate a rispondere a 215 complessi sistemi ricercati dalle organizzazioni. Il riferimento alle soluzioni sta ad indicare il superamento di un ottica incentrata sui singoli prodotti a favore di un offerta complementare di beni e servizi, finalizzati ad offrire una risposta ad un problema del cliente della distribuzione. III.4.3. Il cliente come terzo partner nella relazione industriadistribuzione The main part of my role is fighting for the shopper, so all of my decisions should be shopper driven, so what the shoppers want and what they are looking for, if we get that right that should help everybody, if it works for the shopper, then it is going to work for the customer and, hopefully, the way I’ve done will work for us as well. So I kind of manage all, the thing I always look for is a triple win so it has to be a win for me, it has to be a win for me and Unilever, it has to be a win for our customer and it has to be a win for the shopper. If there are not these three beets in there, it is not going to work as a strategy, I’ve already been doing the strategy and I’ve been currently working through, what is our strategy going to be for the 216 next three years. Come sostiene il category manager di Unilever UK, il realtà la collaborazione non si limita alla relazione industria-distribuzione, ma deve essere inevitabilmente allargata ad un terzo partner: il consumatore. La maggiore pressione competitiva accresce la necessità di presidiare il contatto con i cliente finale e di creare una relazione il più possibile circolare. La relazione di fiducia con i clienti costituisce il fondamento per sviluppare progetti di partnership verticali tra produttori e distributori. La pianificazione congiunta degli obiettivi a livello di consumatore rappresenta il momento cruciale della relazione tra azienda di produzione e sistema distributivo: in questa fase vengono individuati e segmentati i clienti al fine di definire per ciascuno l’investimento commerciale adeguato in termini quantitativi e di mix (ad esempio: promozioni, sconti, assistenza clienti, formazione, …). Il piano si sviluppa su due livelli distinti, in modo da avere una visione trasversale del consumatore: in primo luogo, analizzando le preferenze del consumatore nel processo di scelta del prodotto e le modalità di consumo che seguono l’acquisto; in secondo luogo, raggiungendo il consumatore all’interno dei punti di vendita attraverso gli strumenti del retailing mix, con l’obiettivo di migliorare la customer satisfaction e la fedeltà dello shopper. 217 And then I’m doing a lot of data analysis, the other part is looking through what trend are happening, what’s happening in spreads, what’s happening in food, what’s happening in total kind of consumer goods and try to work out what are the area we can go after, where can we start to look for some growth. And then what we need to do to get that. Unilever has a define process in term of getting done, what we call a job to be done: who is your target, very specifically who is it, what they are doing at the moment, what do you want them to be doing, and what you need to do to get them into change, so it is about how do you drive that consumer change, the behavioural choice, that is the toughest part what can you really do to start driving that behaviour change. Uno dei compiti principali del category manager è quello di acquisire, stoccare ed elaborare le informazioni di mercato: a conferma della forte market orientation, anche a livello organizzativo, il category manager è parte della funzione marketing, proprio a sottolineare la stretta connessione che esiste tra strategie di category management e conoscenza del cliente. Il marketing viene, quindi, individuato quale intermediario e traduttore cognitivo della conoscenza di mercato, sia all’interno dell’organizzazione sia nella gestione di relazioni con altre organizzazioni: quando il concetto di partnership si sostituisce a quello della negoziazione, si affievoliscono i confini organizzativi 218 tradizionalmente assegnati alle attività di marketing a favore di una loro dispersione inter-funzionale e interorganizzativa. Le informazioni, infatti, devono essere condivise a tutti i livelli organizzativi, soprattutto tra i principali attori nel processo di category management: la funzione marketing e vendite. E non solo: devono circolare tra tutte le funzioni delle due aziende partner. Se la conoscenza è distribuita in una rete interorganizzativa e se fonti e riceventi sono soggetti che presentano tra loro una significativa distanza cognitiva, come generalmente accade tra due imprese differenti o tra due funzioni all’interno della stessa impresa, la necessità di individuare operatori che si pongano quale interfaccia nei processi di trasferimento della conoscenza appare in tutta la sua rilevanza (Scarso, Bolisani, & Friso, 2004). In questo caso, il category manager tende ad operare anche come interfaccia cognitiva a livello intra- ed interorganizzativo, assumendo il ruolo di gatekeeper (Allen, 1971) e “traduttore” della conoscenza. L’attivazione di relazioni con il cliente finale è solamente il primo step verso la creazione di valore, in quanto le stesse per consolidarsi e svilupparsi nel tempo hanno necessità di essere supportate da una reale integrazione tra il processo di marketing intelligence con quello del category management, avendo come obiettivo la condivisione e il coordinamento delle attività svolte nella supply chain. Da una rilettura in chiave sistemica emerge che la costruzione di una efficace e 219 consolidata interazione tra gli operatori della catena di fornitura dipende soprattutto dalla capacità del marketing department delle imprese di acquisire ed elaborare le informazioni relative alla dinamica del mercato di riferimento. Il passaggio conclusivo, che è anche quello maggiormente in grado di creare valore aggiunto, è riconducibile oltre che all’integrazione dei due processi, anche alla capacità di rendere omogenee e condivisibili le informazioni tra i vari livelli interorganizzativi ed intersistemici della supply chain integrata. If I have a new idea and few data, I can convinced them to go through it. First of all Unilever is global, so chances are that this is happening somewhere, so I can look at other countries as a start, but this is not always going to work because, you know, countries are very different, what is happening in Italy is very different from the Uk. But you can start like that. Then if I haven’t got any data, I work with the smaller retailer and say “we will pay you money to do this, we will pay to get it happen. Can we try to see if it works? And if it works we got a case study or evidence and we can use it to say this is our suggestion. We create our own data, our case studies. Obviously, we don’t share data, we do it anonymously and you just say, we did that and we saw that growth. 220 Per raccogliere dati di mercato, Unilever UK utilizza sia dati primari che secondari. Per quanto riguarda i dati secondari, oltre ai classici dati di mercato forniti da agenzie di marketing come IRI e ACNielsen, vengono anche effettuate ricerche ad hoc per analizzare determinati trend del mercato. Inoltre è presente anche un’altra tecnica di raccolta dati, molto interessante soprattutto in ottica category management: quando non esistono dati interni a supporto di determinate idee, viene pianificata l’attuazione di casi di studio con piccoli partner della distribuzione, in modo da testare l’idea prima che abbia un impatto maggiore su grandi retailer. In questo modo, si viene a creare un insieme di best practices che possono essere replicate su diversi clienti. We collect also our own data, we have got a team called the CSI, consumer marketing insights, so they do a lot of research, then we use IRI data agency, so we use a lot of consumer behaviour data, we get sales data trough IRI. So there is a lot of research in, that is the team that goes also in bespoken research, to find shopper connections. So someone is going to a store and following in, finding what is shopping, then ask some questions, why are you doing that, why are you doing this. Then we do focus group, so we do a lot of research and pay for a lot for studies as well. I don’t have enough time to look all the data, but if I’m looking into something, I can normally find it. 221 III.4.4. La definizione della categoria Uno dei temi affrontati durante l’intervista riguarda la definizione della categoria. Il category manager definisce la sua categoria come un insieme di “chilled, fatbased products that add taste to the meal”. Questa prima definizione riguarda la descrizione della macro-struttura dell’assortimento, ovvero le coordinate entro le quali muoversi per procedere alla sua costruzione. Our definition of category is based on the shopper, in particular on the substitution concept. There is also a practical element: everything must be chilled. In Europe butter and margarine are two separate things. In the UK, they are almost the same and, for example, you can grow the margarine category by switching from the butter category. The retailer will never approve it. Our category definition is a chilled, fat-based product that add taste to the meal. That is not very customer focus, if you asked the category definition in a shop, they would ever say this. It is a kind of technical definition. Then we have other kind of segmentation. We do a lot of research about it. Is it a taste decision? Is it a healthy decision? So the category spits in two sub-categories. And it tends to be: taste driven decision=butter, health driven decision=margarine. And then, within health, maybe some people 222 like sunflower spread, like Flora, others like olive oil spread like Bertolli. In butter it might be spreadable butter or block butter. Vengono poi effettuate altre tipologie di segmentazioni, che possono essere ricondotte essenzialmente al binomio salute-gusto. E’ fondamentale che si realizzi un match cognitivo tra le macro-categorie e la rappresentazione mentale dell’assortimento sviluppato dal cliente, al fine di evitare che l’offerta venga percepita come poco chiara e confusionaria. La segmentazione delle macro-categorie implica la necessità di identificare le possibili situazioni d’uso e i benefici ricercati dal consumatore in ciascuna situazione, per poi ricostruire le stringhe di consumo, ovvero l’insieme di prodotti che il cliente utilizza per soddisfare un determinato bisogno (Busacca & Castaldo, 2000). III.4.5. Le politiche assorti mentali In term of the category management part with the customer, the biggest thing I do there is a work on range reviews with them; maybe once a year or maybe once every 2 years, let’s take everything off the shelf and decide 223 what to puts on and where to puts it, so I do a lot of analyses then for the retailer to say these lines are selling well, these lines aren’t. This is not these about what selling well also people going to the shelf there a lot of decision they made. I came into butter and spreads and thought “people just go and pick up one, doesn’t really matter what it is, there are all the same”, but actually when you stop thinking about people decision…some people and buy some olive spreads like Bertolli, some people come and buy butter, so it is making sure not only you’ve got things that sell well but also you’ve got enough product to fulfill what a shopper mission is. La gestione dell’assortimento è un elemento cruciale per la distribuzione, in quanto influenza il posizionamento della formula distributiva e l’immagine percepita dalla clientela, oltre ad avere significative ripercussioni su tutte le altre leve del retailing mix (Baccarini, 1997). La centralità dell’assortimento nell’offerta dell’impresa commerciale è strettamente connessa al fatto che esso rappresenta l’immagine visibile e tangibile della strategia di mercato del distributore (Pellegrini & Zanderighi, 1990). La soddisfazione che la clientela esprime relativamente all’assortimento proposto costituisce un indicatore della capacità dell’impresa di agire come filtro dell’offerta industriale, fungendo da agente di acquisto per la domanda finale (Castaldo, 2001). La soddisfazione della clientela è funzione anche della modalità di svolgimento della funzione 224 informativa, che agevola la selezione delle singole varianti che compongono il paniere di acquisto di ciascun cliente, e della funzione logistica che facilita il reperimento dei prodotti sullo scaffale. In questo scenario, l’attenzione nei confronti della domanda nella pianificazione dell’assortimento diventa fondamentale: occorre analizzare il cliente in tutte le sue componenti, nei processi di acquisto e in quelli di consumo. L’obiettivo è quello di soddisfare i bisogni generici e specifici del consumatore, analizzando l’eterogeneità e variabilità delle esigenze, per compiere precise scelte di segmentazione della propria clientela. Una volta selezionato il sistema di offerta, il distributore deve poi decidere con quale modalità presentarlo alla clientela, in primo luogo, organizzando lo spazio espositivo e, in seguito, individuare le scelte di merchandising (layout e display). Le modalità di presentazione dell’assortimento sono estremamente critiche perché il posizionamento perseguito venga percepito come coerente rispetto alle esigenze specifiche dei diversi segmenti della clientela target. In particolare, nel mercato inglese, emerge una forte attenzione all’aggiornamento della composizione dell’assortimento e alle sue modalità espositive, tanto che questa attività viene ripetuta ogni 1-2 anni, in modo da essere più che coerente con il cambiamento delle preferenze del consumatore. Le scelte assortimentali rappresentano quindi un’importante leva su cui agire per perseguire una differenziazione dell’offerta complessiva del punto di vendita, in 225 modo da conquistare stabilmente le preferenze della domanda. La varietà dell’offerta deve essere percepita e risultare facilmente gestibile dalla domanda: il cliente deve essere in grado di leggere la varietà ed interpretarla, per individuare rapidamente cosa sta cercando o cosa lo potrebbe interessare. La modalità di presentazione dell’assortimento diventa cruciale soprattutto nelle formule distributive caratterizzate dalla tecnica di vendita del libero servizio, dal momento che il prodotto “si vende da sé” (Sabbatin, 1992), ma stanno diventando sempre più importanti anche nel caso della vendita assistita, grazie alla rilevanza assunta dall’interazione fisica cliente-prodotto nel determinare la sua soddisfazione post acquisto (Castaldo & Botti, 1999) Then I work through planogram with them, so I said I don’t think this is not a good decision, let’s try this and then I kind of build my reasoning on the whys. Then I give them my planogram, this is what I do, this is my reasoning behind it and Arla will do the same. And the buyer job is ultimately to choose between them. L’ultima scelta concerne l’allocazione dello spazio espositivo per ciascuna referenza. Questo tipo di decisione è assunta generalmente in base alla valutazione di alcuni elementi, tra cui i principali sono (Castaldo, 1995): la quantità di spazio disponibile, 226 la redditività lorda (margine lordo/vendite), la rotazione (vendite/scorte medie) dei singoli prodotti per unità di spazio occupata, la frequenza con cui si rifornisce la struttura espositiva. Data l’elevata complessità di queste valutazioni sono utilizzati appositi software che, in base ai dati dei singoli prodotti, permettono di ottimizzare la space allocation, generando specifici planogrammi, ovvero schemi dettagliati dello scaffale, che vengono poi riprodotti nel punto vendita. III.4.6. La leva promozionale Le condizioni economiche difficoltose hanno costretto molte aziende a trascurare strategie di crescita di lungo periodo per focalizzarsi su strategie di prezzo che avessero un immediato effetto sulle vendite. La leva principalmente utilizzata è stata quella delle promozioni di prezzo con la conseguente perdita di efficacia delle stesse. Sebbene nell’emergenza della crisi globale le promozioni siano servite a mantenere gli obiettivi nell’immediato, oggi bisogna rivedere le strategie aziendali. Le imprese sia della distribuzione sia dell’industria necessitano di un supporto molto più completo di soluzioni analytics e di modelli previsionali per bilanciare in modo profittevole le diverse leve del marketing mix. 227 Il category manager sembra essere un consulente anche sotto questo aspetto: determina con quale mix promozionale è possibile raggiungere il giusto equilibrio e massimizzare il ROI; propone diverse attività di marketing che non necessariamente fanno leva solo sul prezzo, focalizzando l’attenzione del cliente su altri parametri. Ovviamente si tratta di un’attività molto complessa: misurare l’efficacia di una promozione, infatti, è tutt’altro che scontato, se si vuole andare oltre al banale conteggio delle unità vendute. I am responsible for promotion effectiveness analysis. The problem is that buyers have some target to achieve and if they need to do 10 promotions they do it without thinking about long term effects. Everybody agrees that there are too many promotions, it costs everybody a lot of money, but nobody will stop doing it also because of the recession. This is also how the retailers get people in the store. So the real problem now could be to optimize what is happening now and to evaluate and compare different promotions. Con l’introduzione pressoché generalizzata dei programmi fedeltà si sono sviluppate anche attività collaterali nel piano promozionale retail. Le imprese che hanno intrapreso la via del micromarketing stanno inserendo nel calendario un 228 numero crescente di iniziative mirate, differenziate per segmento di clientela e integrate alla promozione di continuità. Molte di queste attività avvengono in punto vendita, ma recentemente sono state facilitate dall’utilizzo dello shopping online. Il category manager parla infatti di numerose attività di vendita cross-category avvenute online: questo fatto è dovuto anche dalla particolarità di prodotti come il burro o la margarina, che essendo refrigerati non possono essere venduti insieme ad altri prodotti non refrigerati all’interno dello stesso scaffale. Internet ha semplificato molto le cose su questo aspetto: ad esempio, con un semplice click si può abbinare l’acquisto di burro e pane, inserendoli nell’esperienza di consumo della “prima colazione”. We are looking at doing cross category promotion, but because we are a chilled area it is very difficult to get it in the same place. The problem is: how can we do it? Online is much easier because when you click butter and at the same we can ask you “do you want bread as well? The best breakfast you can have is with...this and that”. III.4.7. La relazione tra category e sales Dall’intervista risulta chiaro che uno dei fattori critici per una strategia di vendita di successo è la stretta collaborazione tra funzione marketing e funzione vendite, 229 soprattutto in un clima di crescente competizione come quello attuale (Pierce, 2006). Kotler, Rackham e Krishnaswamy (2006) individuano i prerequisiti necessari a garantire un efficiente allineamento tra marketing e vendite, ovvero: - un’adeguata comunicazione tra i team realizzabile attraverso incontri frequenti tra marketing e vendite; - lo sviluppo di processi precisi, in modo da definire ruoli e responsabilità delle diverse aree e le attività che richiedono la verifica o il coinvolgimento dell’altro gruppo; - la creazione di opportunità di collaborazione tra i due team, in modo da incrementare la loro capacità di convivenza ed interazione; - un buon feedback dei venditori con gli addetti al marketing. Fino a poco tempo fa, la prospettiva relazionale era vissuta dai sales managers delle imprese in chiave difensiva, quasi come frutto di una scelta obbligata, piuttosto che come un’opportunità di crescita fondata su una strategia intenzionalmente perseguita. Questa interpretazione denotava una sorta di miopia strategica da parte dei responsabili commerciali, i quali evidentemente sottostimavano i vantaggi potenzialmente conseguibili mediante l’instaurazione di una solida relazione con la clientela: fra questi, pare opportuno sottolineare l’incremento della penetrazione sul cliente, le opportunità di cross selling, la costruzione di meccanismi di 230 isolamento nei confronti di iniziative della concorrenza, lo sviluppo della conoscenza del mercato mediante l’acquisizione di informazioni puntuali e dettagliate sulla clientela, utili soprattutto per alimentare i processi innovativi. Ora la situazione è molto cambiata: le vendite hanno compreso l’importanza dell’approccio relazionale da applicare sia internamente, con la funzione marketing, sia esternamente, con i clienti della distribuzione. My relationship with the sales team is actually good. It is interesting because I don’t think that all the sales understand deeply why the category manager is so separate. So you need to build the trust with them as well because they see me going to the retailer and talk with them and they don’t know the details of our conversation. I cannot share a lot of information with the sales team, but I can say I am going because there is this opportunity and explain what it is. In the end, category management can save them also a lot of money: if they need to launch a new product and get it listed, if I can demonstrated that they need that product in the category, the buyer is more willing to accept it without paying extra fee. 231 III.5. Considerazioni conclusive Dall’analisi della letteratura emerge sempre con più forza il concetto di approccio relazionale, che ridefinisce il concetto di marketing come un’attività volta a stabilire, mantenere e potenziare le relazioni con i clienti e gli altri partner dell’impresa, in modo che le parti coinvolte nella relazione riescano a conseguire i propri obiettivi (Grönroos, 1994). La prospettiva relazionale si configura come un approccio applicabile a qualsiasi tipologia di cliente; l’intensità e le modalità di relazione, però, tendono a variare nel corso tempo e pertanto richiedono diversi criteri di gestione e specifici investimenti relazionali e personali in funzione del loro stato evolutivo. L’ambito di studio si è poi concentrato nella diade impresa industriale - domanda finale, per poi ampliarlo ad un set di relazioni più articolate, comprendendo anche i canali distributivi e in particolare la grande distribuzione. Lo scopo di ampliare la prospettiva di analisi alla triade, o più in generale ad una rete di soggetti tra loro interconnessi, deriva dal fatto di voler analizzare come la relazione possa facilitare la creazione di valore lungo l’intera supply chain. Per comprendere coma la relazione si traduca effettivamente in valore economico per l’impresa, sono stati analizzati due casi di studio riguardanti due progetti di category management. Inoltre, per inquadrare concettualmente il nuovo approccio 232 gestionale anche in un panorama internazionale, è stata presentata l’analisi di un intervista face-to-face, svoltasi con un category manager di Unilever UK. Dall’analisi congiunta di questi studi empirici, i principali vantaggi relationshipbased derivabili dall’adozione del category management si evidenziano su diversi livelli, che sono rappresentati: 1. dalle relazioni interne all’organizzazione; 2. dalle relazioni interorganizzative; 3. dalle relazioni con la domanda. Relativamente alle relazioni interorganizzative, l’instaurarsi di una relazione collaborativa tra l’impresa industriale e l’impresa commerciale ha determinato in entrambi i contesti aziendali: - il miglioramento del coordinamento manageriale tra le diverse funzioni aziendali, soprattutto tra marketing e commerciale, entrambi uniti al fine di soddisfare le esigenze del cliente finale; - la creazione di un miglior clima aziendale, riducendo il livello di conflittualità interfunzionale; - la pianificazione e l’implementazione efficace delle strategie aziendali e dei piani di marketing a livello di singolo cliente o di target di clienti; - l’affievolirsi del comportamento difensivo e il monitoraggio control-based (Das & Teng, 2001). 233 Con riferimento alle relazioni interorganizzative, lo sviluppo di un adeguato set di risorse relazionali permette di: - contenere i costi di transazione soprattutto nelle situazioni organizzative in cui si manifesta un elevato grado di incertezza; - facilitare la creazione di rapporti commerciali di lunga durata, riducendo le situazioni di conflitto non funzionali rispetto agli obiettivi della partnership; - stimolare la collaborazione con altre imprese, costituendo un importante elemento per il successo delle alleanze strategiche (Gulati, 1995); - facilitare la creazione e il trasferimento di conoscenze e l’apprendimento congiunto (Troilo, 2001); - in sintesi, permette alle due imprese di ottenere un vantaggio competitivo di lungo periodo (Morgan & Hunt, 1999). Tutto questo rende più efficace e meno costosa la collaborazione tra buyersupplier, sviluppando implicazioni positive sia sul fronte delle opportunità di generazione di valore economico, sia sul versante del contenimento dei costi annessi alle iniziative di tipo intraziendale e interaziendale. Con riferimento, infine alle relazioni con la domanda, la costruzione di un legame fiduciario con il cliente finale genera una serie rilevante di vantaggi tra cui: 234 - un accrescimento del potenziale di differenziazione, di estensione, di apprendimento annesso alla relazione, che permette di ricavarne un premium price; - una maggiore propensione al consumo; - l’attivazione di un passaparola positivo che permette la diffusione di opinioni favorevoli sull’impresa, riducendo gli investimenti di marketing; - la disponibilità al trading-up, ovvero all’acquisto di beni di maggiore qualità nell’ambito della medesima linea di prodotti; - la disponibilità al cross-buying, ovvero all’acquisto di altri beni e/o servizi offerti dall’impresa; - la disponibilità al knowledge-sharing, cioè all’attivazione di processi coevolutivi tra domanda e offerta, fondati sullo scambio e sull’integrazione di conoscenze. Questo ultimo punto sta diventando fondamentale, soprattutto in relazione alle rapida evoluzione della domanda. Il bisogno di informazione delle aziende non aumenta solo in termini quantitativi, ma anche in termini di frequenza: l’informazione, infatti, diviene rapidamente obsoleta in condizioni di forte dinamicità del mercato. Il management deve comprendere le esigenze, esplicite e implicite, dei singoli soggetti o di specifici segmenti, mirare a soddisfarle nel 235 modo più compiuto possibile così da creare fiducia e stabilizzare nel tempo la relazione tra l’impresa e i suoi clienti12. La working partnership tra industria e distribuzione ha permesso, inoltre, di introdurre forti elementi di innovazione, che si manifestano soprattutto a livello di punto vendita, ma che cambiano anche la concezione di segmentazione dell’offerta; l’innovazione si traduce essenzialmente in: - cambiamento dell’albero delle categorie, mediante la proposta di nuove modalità di classificazione dell’assortimento complessivo; - ridefinizione delle modalità di organizzazione delle singole categorie tramite nuove chiavi di lettura della varietà offerta all’interno della singola category, basate su una approfondita analisi del consumatore; - utilizzo del visual merchandising quale strumento in grado di anticipare l’esperienza di consumo all’interno del punto vendita, esaltando la dimensione feeling dell’assortimento. Quello che emerge, inoltre, dall’analisi dell’esperienza inglese in tema category management è il chiaro e forte orientamento al lungo periodo: l’utilizzo di una prospettiva temporale più limitata non permetterebbe infatti la creazione di una relazione fiduciaria tra le parti. 12 La crescita continua di tale fabbisogno informativo è dovuta anche allo sviluppo delle reti di consumatori, che si aggregano nei processi di produzione e diffusione di nuovi significati e valori. Il consumo è sempre meno il frutto di scelte di individui isolati, ma espressioni di una struttura reticolare di relazioni capaci di produrre nuovi significati. 236 I due casi di studio analizzati nel contesto italiano hanno messo in evidenza come la sperimentazione e l’orientamento di breve periodo siano dominanti solo in una fase preliminare. Parlare di “progetti” può essere utile in una prima fase, quando è fondamentale instaurare una nuova relazione o modificare il rapporto preesistente; diventa, però, controproducente nelle fasi successive, quando la relazione deve necessariamente concretizzarsi e stabilizzarsi nel tempo. Affinché la relazione produca veramente valore occorre necessariamente la volontà e la consapevolezza di passare da un logica progettuale ad un “approccio gestionale al category management”. Solo su tale ipotesi si possono sviluppare relazioni intense con tutti i soggetti che operano all’interno di una specifica catena del valore e creare efficaci sinergie. 237 Bibliografia Abell, D. F., & Hammond, J. S. (1979). Strategic market planning. Englewood Cliffs, N.J: Prentice-Hall. Achrol, R., & Stern, L. (1988). Envirnomental determinants of decision-making uncertainty in marketing channels. Journal of Marketing Research , 25 (February), 36-50. Addis, M. (2005). L'esperienza di consumo. 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