Capitolo 11 DIRITTI UMANI, UNIVERSALISMO E COSMOPOLITISMO L'idea di diritti umani in senso universalistico appartiene alla tradizione filosofica occidentale, nella quale è possibile riscontrare due diverse prospettive di pensiero: quella della naturale diversità esistente tra gli uomini; quella della naturale uguaglianza. Sebbene entrambe partano dall'idea di un comune diritto di natura, le due posizioni arrivano a scontrarsi nel contesto dell'Europa moderna (XVIII sec.): da una parte la società è vista come storicamente prodotta dalle disuguaglianze tra gli uomini che vi appartengono; dall'altra vi è lo sforzo di superare tali disuguaglianze, al fine di costituire una società fondata, al contrario, sul principio dell'uguaglianza. È possibile osservare come nell'evoluzione storica dei diritti dell'uomo abbia prevalso la prospettiva basata sull'uguaglianza piuttosto che quella basata sulla diseguaglianza. Nella teoria dei diritti naturali vi è la consapevolezza che questa società (composta da diseguali e divisa in classi) sia l’unica esistente. Sono i principi di organizzazione della società ad essere considerati ingiusti. Le differenze tra esseri umani sono caratteristiche innaturali: bisogna considerare tutti gli uomini uguali per nascita, abolendo le differenze che accompagnano gli individui per tutto il corso della vita. La teoria dei diritti naturali oppone una società ideale alla società esistente. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (26 agosto 1789) e la precedente Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America (4 luglio 1776) pongono al centro del dibattito filosofico una nuova concezione di diritti umani: ►L’essere umano è tale soltanto nella condizione in cui venga a lui riconosciuta la libertà, l'eguaglianza, il diritto di proprietà e la possibilità di realizzare se stesso in un governo che non sia tirannico. Queste considerazioni verranno riprese dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Tra le critiche che sono state mosse all’impostazione della Dichiarazione dell’ONU vi è l’idea che essa sia esclusivamente lo specchio di valori occidentali (Woodwiss, 2005). La Dichiarazione del 1948, infatti, parte da premesse culturali tipiche della società occidentale e contiene diretti riferimenti alla dichiarazione francese (tutti gli uomini nascono liberi e uguali) e alle aspirazioni americane ed europee del secondo dopoguerra, come: Sicurezza sociale, art 22 Diritto al lavoro, art. 23 Queste aspirazioni possono quindi essere lontane dalle problematiche di molte società asiatiche e africane. Quel che conta di più è che il riconoscimento dei diritti umani in Occidente è totalmente sganciato da ogni derivazione o legittimazione religiosa. Una constatazione “ufficiale” di queste considerazioni è data dall’esistenza delle carte fondamentali approvate in diversi ambiti geopolitici: ♦ Dichiarazione universale dei diritti umani nell’islam (1981): Si afferma che i diritti dell’uomo sono eterni ed indicati da Allah. Questi diritti sono affermati “in nome di Dio, il Compassionevole, il Misericordioso” ♦Dichiarazione di Bangkok (1993): Si sottolinea l’<<opportunità di rivedere tutti gli aspetti dei diritti umani e di garantire un giusto e bilanciato approccio>> ad essi e il contributo che <<i paesi asiatici con le loro diverse e ricche culture e tradizioni>> possono fornire. ♦ Carta araba dei diritti dell’uomo (1994): Per quanto riguarda i soggetti titolari di diritti, la Carta si riferisce ai popoli e non direttamente agli individui Gli individui diventano i destinatari della garanzia degli Stati per ciò che attiene ai loro diritti <<tutti gli Stati parti della Presente Carta si impegnano a garantire a tutti gli individui [..] il godimento di tutti i diritti di libertà […]>> (art. 2). La nostra attenzione si concentra sul “fatto culturale” che queste dichiarazioni rappresentano: alla concezione euro-occidentale si contrappone o si affianca una concezione “islamica”, “asiatica”, “araba” dei diritti umani. La sfida più seria proviene dalla Dichiarazione dei diritti umani nell’islam, in cui ogni diritto discende da Dio (attore e garante dei diritti), mentre nella Dichiarazione dell’ONU si pone al centro del discorso la ragione umana: i titolari dei diritti inviolabili e imprescrittibili sono gli individui. La concezione dei diritti umani elaborata nella cultura grecoromana, europea e infine statunitense risente delle specificità dei contesti nei quali è stata creata. In questa cultura, il principio dell’autonomia individuale è divenuto un punto centrale. Il problema è dunque quello di coniugare i valori umani universali con altri contesti culturali. La stessa autonomia individuale è concepita in modo diverso a seconda dei contesti: si deve tentare di costruire una teoria dei diritti umani capace di includere tutte le culture del mondo e non imporre ad esse la cultura euro-occidentale. Come si può costruire una teoria dei diritti umani di questo tipo? In tutte le società umane sono stati creati degli universali culturali ai quali si fa ricorso nelle interazioni tra individui, tra istituzioni e stati. Nella Costituzione americana sono considerati come a priori la libertà di religione, di parola e di stampa, il diritto di riunione, la garanzia della propria persona e dei propri beni, ecc… MA questi principi considerati come a priori sono in realtà delle costruzioni storiche e rappresentano delle premesse cognitive e morali nelle quali parte dell’umanità si riconosce: sono il frutto di una costruzione storica e divengono col tempo “naturali”, scontate poiché sono penetrate nel modo di vivere degli individui. Non in tutte le società, infatti, vengono elaborate le stesse premesse cognitive e morali. Nel corso della storia sono stati elaborati alcuni valori comuni, mentre altri sono condivisi solo all’interno delle singole società o gruppi minori. La crescita della società globale mette oggi a confronto queste diverse concezioni e immagini del mondo. Ciò a volte aumenta la sensibilità dei rischi ai quali vanno incontro le identità particolari. La sensazione di pericolo può aumentare i conflitti tra civiltà. L’idea comune attorno cui ruota il dialogo, la critica o il conflitto tra le diverse interpretazioni è il concetto di dignità umana che si trova al centro delle carte dei diritti umani. Si potrebbe dire allora che la dignità dell’essere umano è il valore comune generale nel quale si riconosce tutta l’umanità. Essa è il punto di convergenza della varie e diverse visioni del mondo. Allo stesso tempo però le concezioni di cosa sia “degno dell’essere umano” sono diverse da civiltà a civiltà: una teoria dei diritti umani oggi deve essere capace di giustificare questa tensione tra valori comuni e valori particolari, tra unità e differenza. Per comprendere questo passaggio adoperiamo l’analogia del discorso (Cfr. Habermas): la dignità dell’uomo nel campo dei diritti è l’insieme delle regole alle quali si fa ricorso implicito così come nella comunicazione si fa riferimento alle norme grammaticali. Quando si parla si presuppone l’esistenza di regole note anche all’interlocutore. Dalla presupposizione comune ai parlanti dell’esistenza di tali norme discende la possibilità della comunicazione e della comprensione. In questo senso, la norma fondamentale del codice dei diritti umani è appunto l’inviolabilità della dignità umana. Tutti gli attori in dialogo o in conflitto si richiamano alla dignità dell’uomo per rivendicare la legittimità delle proprie forme di vita, delle istituzioni sociali e politiche. Più cresce la base comune condivisa (inviolabilità della dignità umana), più avanza l’unità del genere umano: questo fondo comune può rendere possibile l’universalità dei diritti umani.