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Gli scopi del Forum sono: suscitare un interesse culturale sui principi fondanti della bioetica e
aprire il dibattito sui dilemmi etici dell’epoca moderna
INDICE:
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L’Amore alla Vita fonda la Dignità del Morire, di Paolo Rossi
La dignità della persona; la dignità dell’uomo nasce proprio dal suo cuore. Ma, che cos’è è la
dignità?
Qual è il senso della morte? Che cosa succede con la morte?
Fondare la dignità del morire
Il suicidio assistito. La valutazione morale del suicidio
Un modo più dignitoso di morire
Eutanasia mascherata
Il tabù della morte
Disperazione e tentazione al suicidio
Come se dio non esistesse
L’eterno riposo per ogni anima
Comitato di redazione
Dott. Cleto Antonini, (C.A.), Aiuto anestesista del Dipartimento di
Rianimazione Ospedale Maggiore di Novara;
Don Pier Davide Guenzi, (P.D.G.), docente di teologia morale presso la
Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Sezione parallela di Torino; e
di Introduzione alla teologia presso l’Università Cattolica del S. Cuore di
Milano e vice-presidente del Comitato Etico dell’Azienda Ospedaliera
“Maggiore della Carità” di Novara.
Don Michele Valsesia, parroco dell'Ospedale di Novara, docente di Bioetica
alla Facoltà Teologica dell'Italia Sett. sez. di Torino
Prof. Paolo Rossi, (P.R.) Primario cardiologo di Novara
Master di Bioetica Università Cattolica di Roma
1
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Credo, sí io credo che un giorno,
il tuo giorno, o mio Dio,
avanzerò verso te coi miei passi titubanti,
con tutte le mie lacrime nel palmo della mano,
e questo cuore meraviglioso che tu ci hai donato,
questo cuore troppo grande per noi
perché è fatto per te...
JACQUES LECLERCQ
Collectif, Ecoute, Seigneur, ma prière,
Paris 1988, p. 490
A prima vista può apparire paradossale il legame che sottopone il morire con dignità
alla cultura della vita. La vita umana è un dono dell’Amore; perciò le responsabilità
della vita sono uguali a quelle dell’amore: “Per questo un amore che rifiuti questa
responsabilità è la negazione di se stesso, è sempre e inevitabilmente egoismo. Più il
soggetto si sente responsabile della persona, più è presente in lui il vero amore”
(Karol Wojtyla, Amore e responsabilità, II, n. 15). Vivere è sempre più coraggioso che
voler morire. Già il morire è qualcosa di diverso dalla morte, la precede, entro certi
limiti ci appartiene per cui possiamo interferire con il suo procedere più o meno
inesorabile.
La dignità della persona
Definire la persona umana non è facile. Ma, prima di farlo, è necessario tener presente
che esiste una differenza enorme fra il mondo, cosiddetto delle cose, ed il mondo degli
uomini. Questo grossa differenza è dovuta al fatto che l’uomo (quando parliamo di
“uomo” intendiamo sia il sesso maschile che quello femminile), considerato in modo
oggettivo, è e rimane sempre “qualcuno”, mentre tutto il resto delle cose create è un
insieme di “qualche cosa”. E la differenza non sta solo in questo. “Noi consideriamo
2
cosa un essere non soltanto privo di ragione ma anche di vita; una cosa è un oggetto
inanimato. Esiteremmo a chiamare cosa un animale o persino una pianta. Tuttavia
non si può parlare di persona animale. Si dice invece «individuo animale», intendendo
con ciò semplicemente «individuo di una specie animale»” Per poter dare una
definizione del termine “uomo” non è sufficiente il catalogarlo come individuo di una
specie, bensì per lui si usa il termine di “persona” in quanto “c’è in lui qualche cosa di
più, una pienezza e una perfezione d’essere particolari, che non si possono rendere
altro che con la parola «persona». (…) La persona, (…), è (…) un soggetto unico nel
suo genere, totalmente diverso da quel che sono, per esempio, gli animali” 1.
La persona umana ha una propria vita interiore che la differenzia notevolmente da
qualsiasi individuo animale. Parlare di persona umana, parlare dell’uomo, significa
parlare del suo essere unione di un corpo e di un’anima, di una corporeità e di una
spiritualità senza le quali l’uomo non potrebbe essere definito perché non sarebbe più
tale. Il Cristianesimo ha il merito di aver introdotto nella storia dell’umanità
Occidentale il concetto di “persona”. Come persona si intende un “essere sussistente,
cosciente, libero e responsabile” 2. Con tale termine si indica anche “il soggetto umano
in quanto portatore di diritti e di doveri. Persona è l’essere verso il quale riteniamo di
avere obblighi e diritti come verso noi stessi”
L’essere umano, da quando è stato creato, è un essere che non può vivere da solo ma
in relazione, e tale relazione va verso un essere in comunione. Leggendo Genesi, il
primo libro della Bibbia (Gen 1, 26-27) vediamo che l’uomo è stato creato ad
immagine del suo Creatore, dominatore su tutti gli altri esseri fino a quel momento
creati. Ed ancora, in Gen 1, 29-30 leggiamo la consegna, da parte di Dio all’uomo, di
tutto ciò che c’è sulla terra: c’è il pieno affidamento del mondo animale come di quello
vegetale. L’uomo quindi, come immagine di Dio, è “capace di conoscere e di amare il
suo Creatore” 3 [GS, 12]. Ma, come già detto, l’uomo (inteso qui come maschio) non
può vivere da solo, perciò accanto gli viene posta la donna da Dio stesso e l’unione tra
uomo e donna si può considerare come il primissimo “tipo” di comunione tra le
persone. La creatura umana non riuscirebbe a sopravvivere nell’isolamento, ha
sempre bisogno di avere rapporti con i suoi simili [cfr. GS, 12] in quanto “per sua
intima natura è un essere sociale” [GS, 12]. L’uomo, considerato come un’unione di
corpo e di anima, porta dentro di sé la sintesi delle cose che sono materiali, le quali,
arrivano a raggiungere i vertici più alti proprio attraverso la creatura umana. Quindi
egli è superiore a tutto ciò che è legato alla materia [Cfr. GS, 14], difatti “egli
trascende l’universo delle cose (…), ma va a toccare in profondo la verità stessa delle
cose” [GS, 14]. Abbiamo detto precedentemente che dalle prime pagine bibliche
emerge, come dato importante, che l’uomo è immagine del suo Creatore e che non
può vivere se non in comunione. 4
L a d i g n i t à d e l l ’ u o m o n a s c e p r o p r i o d a l s u o c u o r e , nel quale egli “trova” già una
legge che non si è dato da solo ma che proviene da Dio. L’essere coerenti a questa
legge è la dignità stessa della persona umana [cfr. GS, 16].
1
K. WOJTYLA, Amore e responsabilità, Casale Monferrato (AL) 19834, p. 15-16
E. SGRECCIA, Manuale di bioetica, vol. I, Milano 2003., p. 117
3
papa Paolo VI Concilio Vaticano II COSTITUZIONE PASTORALE SULLA CHIESA NEL MONDO
CONTEMPORANEO (1) GAUDIUM ET SPES l'8 dicembre 1965, n. 12-17.
4
R. FRATTALLONE, Persona e atto umano, Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Cinisello
Balsamo (MI) 1994 p. 939
2
3
L’uomo, però, è stato creato libero. Egli effettua le sue scelte di vita senza che
l’obbedienza a Dio gli venga imposta con la forza, ma deve essere una sua scelta
libera. L ’ u o m o p u ò s c e g l i e r e i l b e n e s o l o s e è l i b e r o , altrimenti la sua non
sarebbe più una scelta ed il bene non sarebbe più tale se fosse una costrizione. Il
Creatore, per questo, non ha imposto all’uomo di sceglierlo, ma lo ha lasciato libero di
cercarlo spontaneamente. L’uomo deve fare buon uso di questa libertà. Per “vera
libertà” non si deve intendere il poter fare qualsiasi cosa, ma il cercare
spontaneamente ciò che è bene [cfr. GS, 17]. L a d i g n i t à d e l l ’ u o m o s i m a n i f e s t a
nel suo essere capace di apertura e di accoglienza dell’altro. Essere aperti ed
accogliere l’altro significa dargli la possibilità di esprimersi come persona e, così
facendo, ne rispettiamo anche la sua stessa dignità. Quando non lasciamo che la
persona si esprima come tale, le neghiamo quella dignità che le è propria e che
vorremmo per noi stessi. In effetti, il non rispettare la dignità dell’altro diventa,
volendo adoperare una terminologia usata da Mounier, un “peccato contro la
persona”. Quando trattiamo la persona umana identificandola con una delle funzioni
che svolge, la escludiamo dalle sue reali capacità e la riduciamo ad una “cosa” oppure
ad uno “strumento”: in questo modo le neghiamo la dignità che spetta ad ogni uomo 5.
L’uomo, proprio perché è stato creato libero di accettare o di rifiutare il disegno del
Creatore, deve essere una creatura che agisce con responsabilità e consapevolezza.
Da ciò ne consegue che il suo comportamento rispecchia l’essere ad immagine del suo
Creatore e, quindi, il suo agire sia nel rispetto pieno dell’altro. La creatura umana è in
grado di riflettere sulla sua stessa umanità, perciò il suo modo di rapportarsi agli altri
non può, e non deve, essere istintivo, bensì deve rivelare la sua superiorità rispetto a
tutto il resto del creato. L’uomo può fare ciò in quanto possiede l’autocoscienza, la
quale gli permette di rendersi conto del proprio comportamento, sia rispetto a se
stesso che agli altri 6.
M a , c h e c o s ’ è è l a d i g n i t à ? Dicendo che non lo sappiamo, che tentiamo di saperlo,
che tentiamo di definirla, ma la dignità anzitutto è qualche cosa, come la bellezza, che
appare e noi, che pure non sappiamo dire che cosa sia, la riconosciamo. Sì, la
riconosciamo prima ancora di averla conosciuta. Proprio come dice Platone della
bellezza. Siamo per così dire costretti a riconoscerla, e non solo la riconosciamo, ma
riconosciamo in essa qualche cosa di essenziale che ci riguarda. Forse nessuna cosa
come la dignità ci definisce per quello che siamo, nella nostra umanità, nel nostro
essere uomini.
Ricordiamo, Aristotele: “L’uomo è un animale razionale”, e che cosa se non la
razionalità ci distingue dagli animali, ci distingue da tutte le altre creature, fa di noi un
unicum nel creato? Ma ricorderei anche e soprattutto Kant, per il quale il nostro tratto
essenziale è la moralità. Ebbene, la dignità è qualche cosa che ci definisce anche
meglio e più profondamente che la razionalità e la moralità. Nel momento in cui
all’uomo fosse tolta la razionalità, nel momento in cui gli fosse tolta anche la moralità,
che è qualcosa di persino più essenziale e fondamentale, resterebbe qualcos’altro e
questo qualcos’altro è appunto la dignità. Immaginiamo qualcuno che ha perso tutto,
e chi ha perso tutto se non colui che muore? All’uomo che muore non chiediamo di
essere razionale, non chiediamo di essere morale; ma quanta dignità in lui, e quanto
5
E. MOUNIER, Personalismo e Cristianesimo, (introduzione e traduzione a cura di A.
LAMACCHIA), Bari 1977, pp. 51-53
6
Dionigi Tettamanzi. Famiglia, morale, bioetica, Casale Monferrato 1998, pp . 130-131
4
misteriosa! Pensiamo all’uomo che è morto, al cadavere: ebbene è proprio il cadavere
che misteriosamente, stranamente, manifesta come un arcano la dignità; addirittura
(ed è esperienza che può capitare a tutti di fare) laddove l’uomo che è morto ha alle
sue spalle una vita indegna, è come se la morte gli restituisse ciò che per tutta la vita
non ha avuto: la dignità. La dignità, questo mistero, questo tratto estremo
dell’umano, che non sappiamo che cosa sia, ma che riconosciamo anche in colui che
non è più persona, non è una cosa, ma “è”.
Dicevano i Latini: sunt aliquid manes. Ciò che resta di noi non è nulla, è qualche cosa.
Ma perché è qualche cosa ciò che resta di noi? Ciò che resta di noi nel senso fisico, ma
anche e soprattutto nel senso spirituale, la memoria, la traccia, sia pure povera,
misera, infima, è qualche cosa, sunt aliquid manes, e questo qualche cosa è costituito
dalla dignità: dalla dignità della morte, dalla dignità del cadavere. Un arcano, un
mistero, il cadavere che vuole essere sepolto dignitosamente. Non c’è niente che ci fa
essere quello che siamo, ab origine, più di questo: la sepoltura. Infatti siamo diventati
uomini, e cioè abbiamo avuto accesso alla dimensione più propria della nostra
umanità nel momento in cui abbiamo incominciato a seppellire gli altri uomini, a
seppellire ciò che resta di loro.
La sepoltura di questo qualcosa è come la risposta ad un appello che questa “cosa-non
cosa” rivolge a noi, un appello, che ci viene da una profondità più radicale che non
quella della razionalità o quella della moralità, che viene dall’aldilà della vita a dirci:
“voglio essere dignitosamente sepolto!”. Non c’è prova maggiore del fatto che alla
radice del nostro essere quello che siamo non c’è la moralità, non c’è la razionalità,
che pure sono cose essenziali, importantissime, ma qualcos’altro: la dignità per
l’appunto.
I grandi romanzieri russi hanno evocato una bellissima figura: lo iurivodivo, il folle di
Dio, quel folle che misteriosamente è più vicino a Dio di tutti gli altri, di tutti quelli che
hanno una grande razionalità, una grande moralità, e magari anche una grande
santità. Il folle, l’idiota, è colui che non ha niente, colui che si è esposto fino a questo
limite estremo di disumanità, ritrova qualche cosa di essenzialmente umano.
Se dunque la dignità, prima ancora di esser definita, è qualcosa che si lascia
riconoscere, dove riconoscerla? Nel punto più alto e nel punto più basso che noi come
essere umani possiamo sperimentare. In alto: non c’è atto dignitoso, autenticamente
dignitoso, che non ci elevi, che non ci innalzi al di sopra di noi stessi, che non abbia un
carattere sublime, nel senso letterale del termine, sublime: cioè che porta oltre la
soglia.
All’estremo opposto ci sono coloro che stanno perdendo o hanno perduto tutto.
Pensiamo al prigioniero, al mendicante, al malato: tutti privi di quella elevatezza che
dovrebbe essere di ogni uomo e che è soprattutto di coloro che meglio lo
rappresentano. Tuttavia sono proprio loro ad avanzare la più radicale rivendicazione di
dignità. Una volta che all’uomo è tolto tutto: la libertà al prigioniero, la salute al
malato, e così via, resta la dignità. Ecco, la dignità è ciò che sta in alto, nel punto più
alto dell’esperienza umana, e ciò che sta in basso, nel punto più basso dell’esperienza
umana. Sta là dove l’uomo realizza, per così dire, in modo più compiuto e più
perfetto, la sua essenza, la sua umanità, e sta là dove questa essenza, questa
umanità è invece proprio al contrario minacciata se non addirittura negata. 7
7
SERGIO GIVONE La dignità della persona. Rinascita Cristiana. org
5
Qual è il senso della morte?
Oggi si tende a censurare e a rimuovere tale realtà della vita umana. Il solo pensiero
della morte procura angoscia. Non pensandoci, si ritiene di allontanarla o vincerla. In
realtà essa, inesorabile, viene, e può venire in ogni momento, a qualunque età della
persona, in qualunque condizione ci si trovi.
Per ogni essere umano, la morte è:
segno del nostro essere uomini; essa appartiene alla condizione umana;
il termine della vita terrena;
una porta che chiude un modo di vivere per aprirne un altro: “non è la fine di
tutto”;
un richiamo alla saggezza del vivere bene il tempo a nostra disposizione;
un modo di attuare una fondamentale uguaglianza fra tutti, al di là di
appartenenze sociali, condizioni economiche, capacità culturali.
Per il cristiano, la morte è illuminata dalla Parola di Dio che ci offre una luce che
rischiara e consola. La morte diventa così:
 un porre fine alla vita dell’uomo come tempo aperto per accogliere o rifiutare
l’amore di Dio in Cristo;
 un iniziare la vita eterna, e cioè quel vivere nuovo e per sempre che ha inizio
dopo questa vita terrena;
 un incontrare Dio, Padre Misericordioso e anche Giudice;
 un possibile modo per esprimere un atto di obbedienza e di amore verso il
Padre, sull’esempio di Cristo;
È proprio per questa visione cristiana della morte che San Francesco d’Assisi poteva
esclamare nel Cantico delle Creature: “Laudato sii, mi Signore, per sora nostra morte
corporale” (FONTI FRANCESCANe, 263).
Che cosa succede con la morte?
Con la morte, si verifica la separazione dell’anima e del corpo. Il corpo dell’uomo cade
nella corruzione, mentre la sua anima, che è immortale, va incontro a Dio per essere
giudicata. Essa sarà riunita al suo corpo alla fine dei tempi.
“Con la morte, la scelta di vita fatta dall'uomo diventa definitiva: questa sua vita sta
davanti al Giudice” (BENEDETTO XVI, Spe salvi, 45).
Fondare la dignità del morire
La scienza moderna, lo sviluppo tecnologico, le visioni filosofiche dell’uomo postmoderno hanno profondamente modificato il processo del morire. Possiamo meglio
delineare gli aspetti della dignità del morire ricordando alcuni principi.
Gandhi diceva: “L’uomo si distrugge con la scienza senza umanità”.
La riflessione etica sulle scoperte scientifiche e sulle relative applicazioni tecnologiche,
ci salva dall’autodistruzione. Ẻ lo studio sistematico della condotta umana nell’area
delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta viene esaminata
alla luce dei valori e dei principi morali. Già, ma quali principi?
Ad ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la
dignità di persona. Questo principio fondamentale, che esprime un grande « sì » alla
vita umana, deve essere posto al centro della nostra riflessione etica che le vicende
6
odierne orientano all’incontro con la morte. Il Magistero della Chiesa è già intervenuto
più volte, al fine di chiarire e risolvere i relativi problemi morali:
• La scienza è buona solo se difende, protegge, sviluppa, aiuta la vita umana, dal
concepimento alla morte naturale.
• L’uomo è persona dal concepimento alla morte naturale. La vita umana è un valore
assoluto. Non dipende da opinioni, non dipende dal fatto che sia stata voluta o no.
Qualsiasi vita umana vale sempre e comunque. Contro questo principio ci sono solo
ingiustizie e barbarie.
• L’uomo è sempre soggetto e mai oggetto. La vita umana non può mai essere usata.
Non esistono vite meno importanti di altre. Agisci sempre in modo da trattare
l’umanità sempre come fine e mai come mezzo (Kant). La persona umana è sempre
un fine e mai un mezzo. Ad esempio non è lecito usare e distruggere embrioni di
essere umano. Il desiderio di donare la vita deve essere sempre un dono e mai un
capriccio in cui il più debole – il bambino chiamato alla vita – paga le conseguenze più
alte.
• L’uomo deve sempre preservare la sua vita e quella degli altri.
• Il vero progresso scientifico deve difendere la vita e migliorarla. Non esiste vero
progresso contro la dignità della persona umana.
• L’uomo è persona anche quando non può comunicare o non può mostrare la sua
intelligenza (perché è in coma o è malato di mente o è ancora un embrione o perché è
semplicemente un deficiente). Va comunque sempre rispettato. L’intelligenza è una
condizione necessaria ma non sufficiente per essere persona (gli animali sono
intelligenti, ma non sono persone). La vita è un diritto. Allora esiste sempre il dovere
corrispondente di rispettarla e difenderla.
Quanti sanno che un cuore già batte a 18 giorni dal concepimento e che il bambino è
completo a 12 settimane (3 mesi) e impiega gli altri 6 mesi sol per ingrandirsi?
La Chiesa cattolica, nel proporre principi e valutazioni morali sulla vita umana, attinge
alla luce sia della ragione sia della fede, contribuendo ad elaborare una visione
integrale dell'uomo e della sua vocazione, capace di accogliere tutto ciò che di buono
emerge dalle opere degli uomini e dalle varie tradizioni culturali e religiose.
Il suicidio assistito
È di questi giorni la notizia della morte di Lucio Magri, 79 anni, fondatore del Manifesto
nel 1969, avvenuta in Svizzera dove si praticano legalmente i suicidi assistiti anche
per i non residenti. Nel Paese elvetico infatti, in cui la pratica dell’eutanasia era già
concessa dal 1941, è stata approvata recentemente la decisione di dare questo tipo di
“assistenza” anche ai non residenti. Un’associazione dal nome ambiguo di “Dignitas”
offre questo “servizio”, usufruito nel 2010 da ben 1400 persone, di cui 19 italiani,
saliti a 30 nel 2011.
Magri, che soffriva di una forte depressione dalla morte della moglie Mara, si era già
recato altre volte in Svizzera con l’intenzione di chiedere il suicidio assistito, ma era
sempre ritornato. Questa volta, invece, la sua decisione è stata irrevocabile: un’ultima
telefonata agli amici di sempre che attendevano a casa, e poi il silenzio. Così ha scelto
di andarsene, senza una conversione in punto di morte, con un gesto che è stato
definito dai suoi sostenitori “dissacrante e dirompente da grande laico”: solo, lontano
da casa, senza gli affetti più cari, rimasti a casa ad attendere la notizia.
7
Si è fatto sapere che ha deciso in piena lucidità, con consenso libero e informato,
quale è richiesto dalla procedura medica della clinica svizzera. È spontanea
l’obiezione: come può essere libera e consapevole la domanda del suicidio assistito
che viene da una persona in condizione di profonda depressione psicologica?
Il primo e doveroso sentimento è la pietà, la compassione (patire con) per Lucio Magri
e per gli amici e colleghi di lavoro che a lui erano profondamente legati. Hanno tentato
di dissuaderlo, ma questa volta senza successo. Nessuno può pretendere di giudicare
la persona, il grado di libertà-responsabilità di decisioni così estreme. Il giudizio ultimo
è affidato alla sua coscienza e, che sia credente o no, a Dio, giusto e misericordioso
giudice.
Magri è andato a morire in Svizzera, dove si può avere il suicidio assistito, dove cioè ci
sono persone fidate, stipendiate, che ti aiutano (non so e non voglio sapere come) a
concludere la tua vita. Non voglio nemmeno immaginare come sia la vita di questi
generosi cittadini, cosa chiederà la loro moglie, la sera, quando rientrano a casa dal
lavoro. Mi basta rilevare una differenza importante: per morire è sufficiente una
persona fidata, rassicurante; per vivere, invece, questo non basta, occorrono degli
amici, occorre una compagnia profonda. Si muore sempre per evitare qualcosa, mi
disse una mamma davanti al cadavere del proprio figlio di vent'anni, morto di cancro.
Il rispetto e la comprensione della persona, tuttavia, non conducono a condividere o
giustificare gesti così estremi. Nessuno ha un dominio incondizionato e assoluto sulla
vita, così che possa arbitrariamente decidere se, come e quando darsi la morte. Se il
non credente non arriva a comprendere che il padrone della vita è Dio, di certo può
comprendere che il padrone della vita non è lo Stato. Questo, di conseguenza, non
può concedere a nessuno, meno che meno al medico, la licenza di uccidere.
Peppino Englaro (che ha fatto uccidere la figlia Eluana in stato vegetativo con la
disidratazione in una clinica di Udine) ha commentato con queste parole: «Nessuno
può entrare nella coscienza di una qualsiasi persona. Questo signore evidentemente
ha esercitato il primato della sua coscienza. È tutto lì. E tutto si riassume in queste
parole, nel primato della coscienza personale, che non può essere messo in
discussione da nessuno sulla faccia della Terra.» È vero, nessuno si può permettere di
giudicare.
Quanto alla modalità scelta da Magri per morire, appare essere particolarmente triste.
In ogni suicidio c'è un messaggio, una lettera criptata. Impiccarsi non è come spararsi
un colpo, tagliarsi le vene non è come buttarsi dal decimo piano. Sono tutti messaggi,
lettere, biglietti: quelli veri (perché quelli lasciati scritti generalmente sono pieni di
bugie). Scegliere il suicidio assistito è, tra tutte le soluzioni, la più malinconica e per
certi aspetti la più proterva. Chi si uccide è come se dicesse: l'ultima parola su di me
voglio dirla io. Ma nessuno, per quanto ateo, può essere così certo di questo pensiero:
non possiamo escludere che la smentita dei nostri pensieri ci balzi davanti,
all'improvviso. Ce lo ha insegnato Shakespeare, nel suo Essere o non essere. Per
questo, e non solo per soffrire il meno possibile, di solito ci si ammazza in fretta.
Magri sapeva bene queste cose: la scelta di andare in Svizzera lo dimostra. Voleva
cautelarsi contro la possibilità stessa di cambiare idea, contro i fantasmi della vita, che
si possono incontrare anche nelle nebbie della morte.
Visto che la tragedia si è svolta in Svizzera. C'è da credere che il povero Magri abbia
pagato chi lo ha aiutato nel grande passo. Ma proprio qui sta il paradosso. Se la vita di
un uomo ha un valore economico, vuol dire che la vita non è solo un fatto privato, e
che togliersela dicendo «è roba mia» è insensato. Se un uomo bruciasse un miliardo di
8
dollari (meglio lasciar perdere l'euro, per adesso) dicendo sono miei, ci faccio quello
che mi pare, noi giustamente disapproveremmo: il suo gesto in qualche modo
danneggerebbe anche noi.
La realtà del suicidio
Sono molteplici le forme con le quali l’uomo può giungere a disporre della propria vita.
La «codarda noia del vivere» ha numerose versioni storiche: l’esaltazione esagerata di
un valore ( la patria, un’operazione bellica, ecc.), il desiderio di disporre liberamente
della propria vita (o di «scegliere liberamente la propria morte»), la ricerca più o
meno patologica della morte come soluzione alla depressione vitale, ecc.
In tutte queste situazioni si ha un disprezzo del vivere in quanto base della
realizzazione personale. Le cause sono sociologiche e psicologiche aiutano a capire la
realtà personale e sociale del suicidio, ma non sono in grado di dare un «senso» al
controsenso fondamentale che trascina il fatto che un essere umano toglie la vita a se
stesso.
Tanto il suicidio «disperazione» come il suicidio «contestazione» suppongono una
perdita di senso. La fede nel Dio vivo è quella che libererà l’uomo dalla tentazione del
suicidio. Come dice BonhÖffer, «il disperato non lo salva nessuna legge che faccia
appello alla propria forza; questa legge lo spinge piuttosto in modo disperato alla
disperazione; colui che dispera della vita può essere aiutato solamente dall’azione
salvifica di un altro, l’offerta di una nuova vita, che è vissuta non per propria virtù, ma
per grazia di Dio» (Etica, Barcelona 1968, 118).
La valutazione morale del suicidio
La responsabilità soggettiva del suicida nella maggior parte dei casi è molto limitata;
la sua libertà è condizionata dalla presenza di processi psicologici di carattere
soprattutto depressivo.
Collocandolo in un orizzonte di preferenze umane e umanizzatrici 8, il suicidio appare
come una scelta chiaramente negativa in riferimento a una dimensione morale
oggettiva:
 L’autorealizzazione è preferibile all’autodistruzione. Il suicidio è la negazione
esistenziale di questa preferenza primordiale.
 Le azioni modificabili hanno preferenza esistenziale su quelle irrevocabili. Il
suicidio blocca ogni possibilità di cambiamento, di creatività, di nuove decisioni.
8
Le spinte umanizzatrici Nella evoluzione storica della medicina è possibile individuare due
momenti fondamentali che hanno concentrato in sé il meglio delle tendenze “umanizzatrici”qua e là
presenti nel corso della storia. Tali tendenze sono frutto: da un lato, di una reazione a momenti storici di
particolare disumanizzazione, dall'altro di una filiazione di specifiche matrici culturali da cui sono scaturiti.
La prima di esse è germinata nell'area del cattolicesimo, la seconda ci è pressoché contemporanea
articolandosi in varie, attuali correnti ideologiche di matrice “laica”. Nei primi cinque secoli di
Cristianesimo l'assistenza ai malati riveste un ruolo particolare. Innanzitutto per il posto da essa occupato
nella vita di Cristo i cui miracoli di guarigione costituivano gran parte delle “opere” da lui manifestate, in
secondo luogo per lo specifico comando dato ai suoi discepoli: “Curate infirmos”. Proprio in virtù di tale
comando, la Chiesa nascente organizza le prime forme di assistenza agli infermi. La prima istituzione
assistenziale é probabilmente costituita dalle diaconie istituite a Roma dal papa S. Fabiano e annesse agli
uffici del Vescovo per assistere varie categorie di bisognosi. Al Concilio di Nicea (325) vengono resi
obbligatori per ogni città gli xenodochi, grandi "ospizi" per stranieri, pellegrini e malati. Nel 331 S. Basilio
fa costruire la celebre Basiliade, il primo "complesso ospedaliero" dell'antichità.
9
 La libertà vissuta più intensamente e con maggiore temporalità è preferibile alla
libertà recisa prematuramente. Il suicidio mette fine bruscamente alle
possibilità della libertà umana.
 L’umanità attuale ha bisogno di una evoluzione morale, visto che il problema
del suicidio assume maggiori proporzioni tragiche, constatabili non solo
dall’aumento statistico, ma anche nelle forme di compierlo.
Ẻ la società
contemporanea quella che si trova messa in causa, perché non sa umanizzare
l’uomo né sopprimere i motivi che portano a tale gesto fatale.
San Tommaso ha indicato i principi alla base della condanna morale del suicidio:
Ẻ «
assolutamente illecito suicidarsi per tre ragioni: primo, perché ogni essere umano ama
naturalmente se stesso. Perciò, il fatto che qualcuno si suicida è contrario
all’inclinazione naturale e alla carità secondo la quale ciascuno deve amare se stesso.
Secondo, perché ogni parte, in quanto tale, è qualcosa del tutto; e un uomo
qualunque sia è sempre parte della comunità e, quindi, tutto ciò che egli è appartiene
alla società; quindi colui che si suicida offende la comunità. Terzo, perché la vita è un
dono dato all’uomo da Dio e soggetto alla sua divina potestà, che fa morire e fa
vivere. E, quindi, colui che priva se stesso della vita pecca contro Dio» (2-2, q. 64, a.
5).
Un modo più dignitoso di morire
Personalmente senza giudicarlo, provo molta pena e molta tristezza per Magri.
Attenzione: pietà per un uomo che dice di non voler più vivere e che purtroppo trova
persone disposte ad aiutarlo nel suo proposito. Non certo pietà per la “categoria”, cioè
per quelli che si vogliono togliere la vita e ci riescono; perché, altrimenti,
bisognerebbe “per motivi pietosi” modificare tutti i protocolli di soccorso e di
emergenza pacificamente accettatati dalla nostra società. Bisognerebbe lasciare in
pace quelli che si vogliono gettare dal cornicione, bisognerebbe sostituire i teloni dei
vigili del fuoco con un letto di chiodi per fachiri, bisognerebbe non soccorrere e non
salvare quelli che hanno tentato di uccidersi e non sono ancora morti. Ciò che fa pena
è l’immagine di un uomo, intellettuale vivace, stanco di vivere, oppresso – dicono
alcuni – dall’insopportabile percezione del fallimento dell’ideologia marxista; o –
dicono altri - dal dolore per la morte della carissima moglie. Chi conosce la fragilità
dell’uomo sa che non c’è peccato di cui, potenzialmente, non saremmo capaci.
Compreso un delitto terribile contro la propria vita, come il suicidio, azione con la
quale, recita un paradosso di Chesterton, è come se l’uomo volesse uccidere tutti gli
uomini.
Me lo immagino in una stanzetta asettica di ospedale, spoglia, anonima, sdraiato su
un lettino bianco qualsiasi, e addormentarsi così, solo e lontano da tutti. È un cercare
la morte priva di umanità, senza un minimo di dignità propria dell’essere uomini. Se è
giusto provare pietà per le persone, non è affatto giusto provare pietà per le ideologie
false e bugiarde. Magri è stato uno dei fondatori del Manifesto, e un colto
rappresentante del pensiero marxista. E qui dobbiamo constatare che il comunismo,
insieme a tutte le altre letture ideologiche del reale, scava nell’uomo un vuoto che
diventa con il passare degli anni insopportabilmente pesante. Scenario viepiù
aggravato dalla sconfitta clamorosa che la storia ha decretato per il socialismo
realizzato. Si ha un bel dire, facendo gli spacconi, che Dio non serve. Può funzionare
finché la sorte ti sorride, ma arriva un giorno in cui le cose ti si rivoltano contro, e
allora le pagine di Marx, o di Gramsci, o di Sartre, non riescono a dare conforto. E
diventano, anzi, pistole armate nella tua mano. Dobbiamo dircelo e dobbiamo dirlo ai
10
giovani: ci sono cattivi maestri e cattive dottrine, mentre la vita pretende una verità
più grande, che la Chiesa insegna da duemila anni. Una verità che non rimuove le
tragedie dall’esistenza, ma che le riempie di un senso che conforta perfino le persone
disperate. In realtà, le cliniche della morte, dove ci sono, sono espressione di una
società incapace di rispondere con proposte di vita a chi chiede la morte; lanciano un
messaggio nefasto al mondo della sofferenza e della solitudine; fanno passare per
legittima e doverosamente da assecondare una domanda che non è altro che il grido
del disperato; falsificano e snaturano il ruolo del medico e le strutture ospedaliere. I
problemi della vita, l’infelicità, la solitudine, non si risolvono con il dare la morte.
Eutanasia mascherata
La vicenda del povero Magri è un perfetto caso di scuola, che spiega che cosa
intendiamo quando stiamo parlando di eutanasia. Il cosiddetto suicidio assistito,
infatti, ha molto più a che fare con la fattispecie dell’eutanasia che con quella del
suicidio: il suicida è uno che si ammazza con le sue mani; nel suicidio assistito ci sono
altri che mettono la vittima in condizione di morire, e che quindi cooperano in modo
decisivo a un atto che, forse, il poveretto non avrebbe la forza di compiere. Ma c’è
dell’altro: Lucio Magri non aveva, almeno secondo le notizie diffuse, una malattia
mortale, o una patologia degenerativa che ne divorasse il corpo. Accusava invece un
grave stato depressivo che lo ha spinto ad andare in Svizzera per ottenere la morte.
Ora, da anni vogliono farci credere che l’eutanasia è una faccenda che riguarda solo i
malati terminali oppure le persone con una sindrome progressiva inesorabile. Ma si
tratta di una truffa logica e concettuale: la vera posta in gioco è il potere di ciascuno
sulla propria vita. Le motivazioni che spingono una persona a dichiarare che vuole la
morte sono le più disparate: vanno dal dolore fisico assoluto al taedium vitae, cioè al
disgusto per la vita che pure è priva di malattie del corpo. Se lo stato definisce che in
alcuni casi si può ottenere la morte per mano di terzi, a quel punto stabilisce a quale
altezza si deve collocare l’assicella delle vite senza qualità. E anche se in prima istanza
respinge al mittente una richiesta come quella di Lucio Magri, con il tempo lo stato è
costretto a rivedere il criterio e ad ammettere che, in fondo, se uno non vuole vivere è
affar suo. Magri è purtroppo il simbolo di una tragedia più grande, che percorre la
nostra società, la quale assomiglia sempre di più a una vera e propria civiltà
dell’eutanasia. A un luogo, cioè, dove la vita è essenzialmente un non senso, e dove
quindi chiedere e ottenere la morte è la cosa più normale del mondo. Ovviamente,
questa “cultura” avrà un suo effetto di “trascinamento” lungo il pendio scivoloso, e
prima si legalizzerà la morte dei malati gravi con il loro consenso (reale o presunto);
poi arriverà la morte di quelli che non l’hanno chiesta, ma poveretti quanto soffrono; e
infine arriverà la morte di quelli che sono sani come un pesce, ma sono stufi di vivere.
Il marxismo è morto, il liberalismo anche, e l’umanità sazia e disperatissima non si
sente tanto bene. Solo Dio ci può salvare. 9
Il tabù della morte
Il pensiero di questo modello liberista, per cui è moralmente lecito tutto ciò che
l’uomo compie liberamente, è solo una grande illusione di libertà, e toglie all’uomo
quella vera, quella di vivere con dignità anche la morte. Fino ad alcuni decenni fa le
persone si spegnevano in casa, nel loro letto, attorniati dall’affetto dei propri cari. Era
9
Mario Palmaro. Magri, il vero volto della eutanasia. La Bussola quotidiana 30-11-2011
11
un modo più dignitoso di morire. Non è questo un giudizio moralista, è un fatto. E
allora la questione della fine della vita diventa non solo un tema, ma il tema
fondamentale della nostra esistenza, perché investe la radice del rapporto con noi
stessi e con il mondo esterno. Perché la morte non è un momento staccato, ma fa
parte della vita, e se la morte non è dignitosa, non lo è nemmeno la vita. Diceva
Heidegger che “la vita diventa autentica se ci si pone il problema della morte”, ed è
vero, non si può costruire una società pervasa dal tabù della sofferenza e della morte:
bisogna morire da soli, altrimenti gli altri soffrono; bisogna morire come si vuole, per
esercitare la propria libertà; bisogna morire lontano da casa perché la morte è una
cosa brutta da lasciare fuori. Questo non è un modo dignitoso di morire, chiediamoci
allora se non lo è altrettanto quello di vivere secondo una tale concezione.
A partire dal XX secolo nella nostra società la morte viene nascosta, diviene un tabù.
Non è accettata né inserita nella vita, e si cerca di ridurla al potere dell’uomo. La
modernità ha cercato di annientare la visione della morte del mondo antico
trasformandola da evento naturale ad evento programmabile, e configurando la morte
stessa come un assurdo, qualcosa da negare e da dominare. Così con la scusa della
pietà, e addirittura della dignità, il pensiero laico e la scientismo razionalista stanno
cercando di liberarsi di tutti i pesi della società: anziani, malati, disabili, persone la cui
vita non sarebbe dignitosa solo perché hanno capacità ridotte. E in tal modo non solo
questi liberi pensatori compiono crimini e li legalizzano, ma si assolvono
automaticamente perché sarebbero dettati da pietà, da amore per coloro che non
vivono una vita dignitosa. Bisogna dare un nuovo volto alla parola dignità. Essere
malati non significa non avere dignità, e non è amore uccidere la persona disabile per
non farla soffrire. Purtroppo questo è quello che vogliono farci credere, ma non è così.
La vita vale sempre la pena di essere vissuta, anche se si è ammalati, disabili, anziani.
E altrettanto la morte: vale la pena di accettarla quale è, un momento della vita da
affrontare con dignità e coraggio quando arriva. Per questo vita e morte superano i
confini della riflessione bioetica, che pure è così importante: essi sono inviolabili
perché l’uomo ha il diritto alla dignità, perché l’uomo è sempre il fine e mai il mezzo,
perché l’esistenza umana non è frutto del caso, perché vita e morte fanno parte
integrante della sostanza dell’uomo.
Disperazione e tentazione al suicidio
L’Innominato descritto da Alessandro Manzoni nei “Promessi sposi”, abitava “a
cavaliere a una valle angusta e uggiosa” e “dall’alto del castellaccio non vedeva mai
nessuno al di sopra di sé, né più in alto”. Questa breve descrizione dice già tutto
quello che Manzoni pensa di Dio e della morale: l’uomo che non vede nulla “al di sopra
di sé”, cioè l’uomo che si pone al di sopra del bene e del male, eliminando Dio dal suo
orizzonte, vive già tutti i presupposti per divenire una creatura senza scrupoli e piena
solo di se stessa. L’uomo che scarta Dio, in altre parole, siede al suo posto e rifiuta un
giudizio su di sé, in nome della sua completa auto-nomia. La libertà illimitata porta al
dispotismo assoluto.
Non vedendo mai alcuno “al di sopra di sé, né più in alto”, l’Innominato finisce
inevitabilmente per porre se stesso sopra i propri simili. La superbia, male per
eccellenza, è dunque sempre in agguato. Ma. All’epoca del rapimento di Lucia da lui
ordinato, l’Innominato è pervaso da una certa “paura”, “terrore”, “una non so qual
rabbia di pentimento”. Cosa è successo di nuovo? Manzoni lo fa capire bene: ci si può
credere Dio, sino a un certo punto; si può fare come se Dio non esistesse, finché si è
forti, finché si ha successo. Ma poi arriva la vecchiaia, si incomincia a intravedere la
12
morte, e sentirsi ancora Dio si fa difficile. L’Innominato vorrebbe scacciare i suoi
pensieri, vorrebbe rituffarsi nell’azione che tacita il rimorso e la paura, ma si trova
“ingolfato nell’esame di tutta la sua vita”. Finché è colto da una considerazione che ci
riporta all’inizio: ma se Dio esiste, quale sarà la mia sorte nell’eternità? Però, “se
quella vita (nell’aldilà) non c’è, se è una invenzione dei preti; che fo io? Cos’importa
quello che ho fatto? Cos’importa?”. Se Dio non c’è, infatti, esiste solo la giustizia
umana; ma sulla terra vince spesso la forza, l’ingiustizia. L’Innominato, che lo sa, se
lo chiede: “Io vinco, che importa dunque il pentimento, il rimorso? Nessuno potrà mai
chiedermi conto della mia vita. Neppure dopo la morte”. Il contagio della misericordia.
Ma il dubbio, la paura sono forti. E se invece Dio esiste? Manzoni sviluppa
sapientemente questi dilemmi, e poi descrive l’Innominato sul punto di suicidarsi, in
preda alla disperazione. La tentazione umana, come quella di Giuda, è la mancanza di
speranza; è la tentazione di fare ancora una volta come se Dio non esistesse,
ergendosi a padroni della propria vita sino all’ultimo. E’ stato il demonio a suggerirti il
suicidio, dirà infatti Federico Borromeo all’Innominato. Come avviene, allora la
conversione? In due fasi. Anzitutto la disperazione di chi si riconosce finalmente
malvagio, viene incrinata da una frase di Lucia: “Dio perdona tante cose per un’opera
di misericordia”. E’ una frase dolcissima, teneramente cristiana: perdono e
misericordia sono possibili al Dio che è giudice, quando non sembrano neppure più
possibili all’uomo che sta, per la prima volta, giudicando se stesso. La verità di Dio
giudice, non può però essere separata dalla verità di Dio misericordioso. Pronto a
perdonare chiunque, sempre, sino all’ultima ora. Se c’è pentimento. Poi, dopo le
parole di Lucia, che riaccendono la speranza, un incontro: con Federigo che lo
abbraccia e rende presente quel perdono. La fede si diffonde per contagio. 10
Etsi deus non daretur - Come se dio non esistesse – Parole fuori misura
Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov” ci presenta la teoria di Ivan Karamazov, il quale
afferma che “se Dio non esiste, tutto è permesso” e sottolinea lo stretto rapporto fra
la negazione di Dio e la divinizzazione dell’uomo. 11
A proposito di parole fuori misura, ecco uno stralcio tratto da un editoriale di Vittorio
Feltri: «In questo nostro strambo Paese, dove i libertari si sono convertiti al
bigottismo, i postcomunisti amano il puritanesimo, la destra ex fascista si apparenta
con la sinistra, e il conformismo è il denominatore comune di tutti quanti, non solo
non si può più andare a donne (perdonate l’espressione volgare e antiquata: serve per
capirsi al volo) ma nemmeno decidere come crepare. Vietato. Magri è stato
un’eccezione, un vero ribelle che non posso nascondere di apprezzare, ammirare. Si
ribellò al piattume democristiano quando la Dc era potente, si ribellò al Pci quando era
10
Francesco Agnoli. La libertà illimitata porta al dispotismo assoluto, insegna l’Innominato
manzoniano. Il Foglio, 1 dicembre 2011.
11
Karamazov:«Una volta che l’umanità intera abbia rinnegato Dio (e io credo che tale epoca, a
somiglianza delle epoche geologiche, verrà un giorno), tutta la vecchia concezione cadrà da sé,
senza bisogno di antropofagia, e soprattutto cadrà la vecchia morale, e tutto si rinnoverà. Gli
uomini si uniranno per prendere alla vita tutto ciò che essa può dare, ma unicamente per la
gioia e la felicità di questo mondo. L’uomo si esalterà in un orgoglio divino, titanico, e apparirà
l’uomo-dio. Trionfando senza posa e senza limiti della natura, mercé la sua volontà e la sua
scienza, l’uomo per ciò solo proverà ad ogni istante un godimento così alto da tenere per lui il
posto di tutte le vecchie speranze di gioie celesti. Ognuno saprà di essere per intero mortale,
senza resurrezione possibile, e accoglierà la morte con tranquilla fierezza, come un dio»
13
al massimo del fulgore (chiunque scommetteva sul trionfo del marxismo) e,
coerentemente con la sua sublime incoerenza, si è ribellato all’idea che togliersi la vita
sia un sacrilegio.
Ma quale sacrilegio? È una scelta. Deprecabile? Deprecate, deprecate, però non
negate a una persona responsabile, lucida e consapevole il diritto di porre fine alle
proprie sofferenze. Ciò che non ho ancora detto, ma mi affretto a farlo, è che Magri
era depresso. Forse lo era sempre stato (qualche sintomo del mal di vivere forse lo
avevo intuito in lui), di sicuro lo era di più dal giorno in cui la moglie, Mara, fu portata
via da un tumore. Come si fa a non comprendere lo stato d’animo di un uomo che in
79 anni di vita ha visto svanire ogni sogno? Il partito cattolico è scomparso, il
comunismo è fallito, il capitalismo fa schifo ma è ancora qui a far danni, la moglie non
c’è, la giovinezza è sfiorita da lustri, il desiderio di combattere è scemato, il futuro è
un vicolo cieco e angusto: ma per quale motivo Lucio, non potendo più appoggiare la
testa sul seno di Mara e sentirne il calore, avrebbe dovuto stare qui ancora, magari
fissando ore e ore il soffitto della stanza? Perché avrebbe dovuto seguitare a
trascorrere notti e notti insonni tentando di respingere i tetri pensieri che il cervello
mette in circolo, sempre gli stessi, sempre più cupi e ossessivi? In attesa di chi e di
che cosa? Del Natale? Della visita dei nipotini? Di un’altra malattia in aggiunta alla
depressione che, se ti piglia, t’ammazza dentro, dopo averti strappato anche il
desiderio di un caffè e di respirare l’aria fredda del mattino?» 12.
. L’eterno riposo per ogni anima
Forse Magri ha esercitato il primato della coscienza personale, ma questa morte è più
triste, più straziante di qualsiasi altro modo in cui la vita può terminare, nessuno
dovrebbe morire così.
Padre Piero Gheddo 13, scrittore, missionario del Pime, racconta: «Ho pregato per lui:
“L’eterno riposo dona a Lucio Magri, o Signore, splenda a lui la luce perpetua, riposi in
pace. Amen”. Ho brevemente conosciuto questo personaggio politico allora già famoso
nella prima metà degli anni Settanta, in un dibattito all’Università statale di Milano,
ricavandone un’impressione sostanzialmente positiva. Naturalmente non eravamo
d’accordo sui rimedi alla miseria e alla fame di miliardi di uomini, ma ho ammirato la
sua passione per la povera gente, la volontà espressa di dare tutta la sua vita per la
realizzazione dei grandi ideali di giustizia e di eguaglianza che Mao Tze Tung
esprimeva in quegli anni nella sua “Rivoluzione culturale” e nel suo “Libretto Rosso”,
che avevo da poco letto nel primo viaggio fatto in Cina (aprile-maggio 1973). Magri
aveva anche manifestato la sua ammirazione per i missionari e la loro opera di carità
e di vita con i poveri. Il che mi aveva confortato e incoraggiato, in quell’ambiente
sessantottino certo non ben disposto verso un prete che si presentava col suo colletto
bianco e parlava dell’opera della Chiesa nel “terzo mondo” per portare il Vangelo, la
vera soluzione alla miseria e alla fame nel mondo. Ma allora, povero e caro Lucio,
perché questo “scivolare nel buio” di una morte prematura, quando potevi ancora fare
tanto per i poveri di tutto il mondo? La Repubblica scrive: “Magri voleva volare alto,
ucciso da un’ambizione troppo grande, voleva cambiare il mondo e il mondo, negli
12
Vittorio Feltri: Suicidio assistito: è giusto? Conta il poter scegliere. – Il Giornale, 30
novembre 2011, 15:19.
13
Piero Ghetto dell’istituto missionario Pime di Milano (Pontificio istituto missioni estere)
direttore dell'Ufficio storico del PIME di Roma
14
ultimi anni gli appariva insopportabile smentita della sua utopia, il segno intollerabile
di un fallimento, la constatazione amarissima della separazione tra sé e la realtà. Così
le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma evitando agli amici lo spettacolo del sangue sul
selciato”.
Il fallimento di un’utopia è evidente. Ma perché il fallimento di una persona che
nutriva sinceramente grandi ideali di bene, di giustizia, di pace, e veniva dal mondo
democristiano bergamasco? La risposta l’ha data in quegli anni Paolo VI nel messaggio
del Natale 1969: “I più grandi valori umani disgiunti da Cristo diventano facilmente
disvalori”. Sentenza non facile da spiegare e da capire, ma la storia dell’uomo e dei
popoli ne dimostrano la verità ogni giorno.» (1 dicembre 2011 ZENIT.org). Perciò,
caro Magri, ora non sei più tra noi, ma siamo certi ci puoi vedere anche se tu non
credevi nell’aldilà, e così dal tuo luogo di riposo potrai renderti conto di tutto, della
verità della vita e della morte, e potrai forse affermare che la dignità non è poter
scegliere di morire, ma voler scegliere di vivere.
Prof. Paolo Rossi, [email protected]
primario cardiologo, Novara
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Dicembre 2011 - Nuova Informazione Cardiologica