FFO A CA ETTIIC OE BIIO M ddii B UM RU OR N R nn.. 8888 ER ETTTTE SLLE WS EW NE -- d i c e m b r e – 2 0 1 1 -- Gli scopi del Forum sono: suscitare un interesse culturale sui principi fondanti della bioetica e aprire il dibattito sui dilemmi etici dell’epoca moderna INDICE: PPrriinncciippii ee D Biiooeettiiccaa mii ddii B mm Diilleem L’Amore alla Vita fonda la Dignità del Morire, di Paolo Rossi La dignità della persona; la dignità dell’uomo nasce proprio dal suo cuore. Ma, che cos’è è la dignità? Qual è il senso della morte? Che cosa succede con la morte? Fondare la dignità del morire Il suicidio assistito. La valutazione morale del suicidio Un modo più dignitoso di morire Eutanasia mascherata Il tabù della morte Disperazione e tentazione al suicidio Come se dio non esistesse L’eterno riposo per ogni anima Comitato di redazione Dott. Cleto Antonini, (C.A.), Aiuto anestesista del Dipartimento di Rianimazione Ospedale Maggiore di Novara; Don Pier Davide Guenzi, (P.D.G.), docente di teologia morale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Sezione parallela di Torino; e di Introduzione alla teologia presso l’Università Cattolica del S. Cuore di Milano e vice-presidente del Comitato Etico dell’Azienda Ospedaliera “Maggiore della Carità” di Novara. Don Michele Valsesia, parroco dell'Ospedale di Novara, docente di Bioetica alla Facoltà Teologica dell'Italia Sett. sez. di Torino Prof. Paolo Rossi, (P.R.) Primario cardiologo di Novara Master di Bioetica Università Cattolica di Roma 1 LL’’A Moorriirree Diiggnniittàà ddeell M Viittaa ffoonnddaa llaa D moorree aallllaa V Am Credo, sí io credo che un giorno, il tuo giorno, o mio Dio, avanzerò verso te coi miei passi titubanti, con tutte le mie lacrime nel palmo della mano, e questo cuore meraviglioso che tu ci hai donato, questo cuore troppo grande per noi perché è fatto per te... JACQUES LECLERCQ Collectif, Ecoute, Seigneur, ma prière, Paris 1988, p. 490 A prima vista può apparire paradossale il legame che sottopone il morire con dignità alla cultura della vita. La vita umana è un dono dell’Amore; perciò le responsabilità della vita sono uguali a quelle dell’amore: “Per questo un amore che rifiuti questa responsabilità è la negazione di se stesso, è sempre e inevitabilmente egoismo. Più il soggetto si sente responsabile della persona, più è presente in lui il vero amore” (Karol Wojtyla, Amore e responsabilità, II, n. 15). Vivere è sempre più coraggioso che voler morire. Già il morire è qualcosa di diverso dalla morte, la precede, entro certi limiti ci appartiene per cui possiamo interferire con il suo procedere più o meno inesorabile. La dignità della persona Definire la persona umana non è facile. Ma, prima di farlo, è necessario tener presente che esiste una differenza enorme fra il mondo, cosiddetto delle cose, ed il mondo degli uomini. Questo grossa differenza è dovuta al fatto che l’uomo (quando parliamo di “uomo” intendiamo sia il sesso maschile che quello femminile), considerato in modo oggettivo, è e rimane sempre “qualcuno”, mentre tutto il resto delle cose create è un insieme di “qualche cosa”. E la differenza non sta solo in questo. “Noi consideriamo 2 cosa un essere non soltanto privo di ragione ma anche di vita; una cosa è un oggetto inanimato. Esiteremmo a chiamare cosa un animale o persino una pianta. Tuttavia non si può parlare di persona animale. Si dice invece «individuo animale», intendendo con ciò semplicemente «individuo di una specie animale»” Per poter dare una definizione del termine “uomo” non è sufficiente il catalogarlo come individuo di una specie, bensì per lui si usa il termine di “persona” in quanto “c’è in lui qualche cosa di più, una pienezza e una perfezione d’essere particolari, che non si possono rendere altro che con la parola «persona». (…) La persona, (…), è (…) un soggetto unico nel suo genere, totalmente diverso da quel che sono, per esempio, gli animali” 1. La persona umana ha una propria vita interiore che la differenzia notevolmente da qualsiasi individuo animale. Parlare di persona umana, parlare dell’uomo, significa parlare del suo essere unione di un corpo e di un’anima, di una corporeità e di una spiritualità senza le quali l’uomo non potrebbe essere definito perché non sarebbe più tale. Il Cristianesimo ha il merito di aver introdotto nella storia dell’umanità Occidentale il concetto di “persona”. Come persona si intende un “essere sussistente, cosciente, libero e responsabile” 2. Con tale termine si indica anche “il soggetto umano in quanto portatore di diritti e di doveri. Persona è l’essere verso il quale riteniamo di avere obblighi e diritti come verso noi stessi” L’essere umano, da quando è stato creato, è un essere che non può vivere da solo ma in relazione, e tale relazione va verso un essere in comunione. Leggendo Genesi, il primo libro della Bibbia (Gen 1, 26-27) vediamo che l’uomo è stato creato ad immagine del suo Creatore, dominatore su tutti gli altri esseri fino a quel momento creati. Ed ancora, in Gen 1, 29-30 leggiamo la consegna, da parte di Dio all’uomo, di tutto ciò che c’è sulla terra: c’è il pieno affidamento del mondo animale come di quello vegetale. L’uomo quindi, come immagine di Dio, è “capace di conoscere e di amare il suo Creatore” 3 [GS, 12]. Ma, come già detto, l’uomo (inteso qui come maschio) non può vivere da solo, perciò accanto gli viene posta la donna da Dio stesso e l’unione tra uomo e donna si può considerare come il primissimo “tipo” di comunione tra le persone. La creatura umana non riuscirebbe a sopravvivere nell’isolamento, ha sempre bisogno di avere rapporti con i suoi simili [cfr. GS, 12] in quanto “per sua intima natura è un essere sociale” [GS, 12]. L’uomo, considerato come un’unione di corpo e di anima, porta dentro di sé la sintesi delle cose che sono materiali, le quali, arrivano a raggiungere i vertici più alti proprio attraverso la creatura umana. Quindi egli è superiore a tutto ciò che è legato alla materia [Cfr. GS, 14], difatti “egli trascende l’universo delle cose (…), ma va a toccare in profondo la verità stessa delle cose” [GS, 14]. Abbiamo detto precedentemente che dalle prime pagine bibliche emerge, come dato importante, che l’uomo è immagine del suo Creatore e che non può vivere se non in comunione. 4 L a d i g n i t à d e l l ’ u o m o n a s c e p r o p r i o d a l s u o c u o r e , nel quale egli “trova” già una legge che non si è dato da solo ma che proviene da Dio. L’essere coerenti a questa legge è la dignità stessa della persona umana [cfr. GS, 16]. 1 K. WOJTYLA, Amore e responsabilità, Casale Monferrato (AL) 19834, p. 15-16 E. SGRECCIA, Manuale di bioetica, vol. I, Milano 2003., p. 117 3 papa Paolo VI Concilio Vaticano II COSTITUZIONE PASTORALE SULLA CHIESA NEL MONDO CONTEMPORANEO (1) GAUDIUM ET SPES l'8 dicembre 1965, n. 12-17. 4 R. FRATTALLONE, Persona e atto umano, Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Cinisello Balsamo (MI) 1994 p. 939 2 3 L’uomo, però, è stato creato libero. Egli effettua le sue scelte di vita senza che l’obbedienza a Dio gli venga imposta con la forza, ma deve essere una sua scelta libera. L ’ u o m o p u ò s c e g l i e r e i l b e n e s o l o s e è l i b e r o , altrimenti la sua non sarebbe più una scelta ed il bene non sarebbe più tale se fosse una costrizione. Il Creatore, per questo, non ha imposto all’uomo di sceglierlo, ma lo ha lasciato libero di cercarlo spontaneamente. L’uomo deve fare buon uso di questa libertà. Per “vera libertà” non si deve intendere il poter fare qualsiasi cosa, ma il cercare spontaneamente ciò che è bene [cfr. GS, 17]. L a d i g n i t à d e l l ’ u o m o s i m a n i f e s t a nel suo essere capace di apertura e di accoglienza dell’altro. Essere aperti ed accogliere l’altro significa dargli la possibilità di esprimersi come persona e, così facendo, ne rispettiamo anche la sua stessa dignità. Quando non lasciamo che la persona si esprima come tale, le neghiamo quella dignità che le è propria e che vorremmo per noi stessi. In effetti, il non rispettare la dignità dell’altro diventa, volendo adoperare una terminologia usata da Mounier, un “peccato contro la persona”. Quando trattiamo la persona umana identificandola con una delle funzioni che svolge, la escludiamo dalle sue reali capacità e la riduciamo ad una “cosa” oppure ad uno “strumento”: in questo modo le neghiamo la dignità che spetta ad ogni uomo 5. L’uomo, proprio perché è stato creato libero di accettare o di rifiutare il disegno del Creatore, deve essere una creatura che agisce con responsabilità e consapevolezza. Da ciò ne consegue che il suo comportamento rispecchia l’essere ad immagine del suo Creatore e, quindi, il suo agire sia nel rispetto pieno dell’altro. La creatura umana è in grado di riflettere sulla sua stessa umanità, perciò il suo modo di rapportarsi agli altri non può, e non deve, essere istintivo, bensì deve rivelare la sua superiorità rispetto a tutto il resto del creato. L’uomo può fare ciò in quanto possiede l’autocoscienza, la quale gli permette di rendersi conto del proprio comportamento, sia rispetto a se stesso che agli altri 6. M a , c h e c o s ’ è è l a d i g n i t à ? Dicendo che non lo sappiamo, che tentiamo di saperlo, che tentiamo di definirla, ma la dignità anzitutto è qualche cosa, come la bellezza, che appare e noi, che pure non sappiamo dire che cosa sia, la riconosciamo. Sì, la riconosciamo prima ancora di averla conosciuta. Proprio come dice Platone della bellezza. Siamo per così dire costretti a riconoscerla, e non solo la riconosciamo, ma riconosciamo in essa qualche cosa di essenziale che ci riguarda. Forse nessuna cosa come la dignità ci definisce per quello che siamo, nella nostra umanità, nel nostro essere uomini. Ricordiamo, Aristotele: “L’uomo è un animale razionale”, e che cosa se non la razionalità ci distingue dagli animali, ci distingue da tutte le altre creature, fa di noi un unicum nel creato? Ma ricorderei anche e soprattutto Kant, per il quale il nostro tratto essenziale è la moralità. Ebbene, la dignità è qualche cosa che ci definisce anche meglio e più profondamente che la razionalità e la moralità. Nel momento in cui all’uomo fosse tolta la razionalità, nel momento in cui gli fosse tolta anche la moralità, che è qualcosa di persino più essenziale e fondamentale, resterebbe qualcos’altro e questo qualcos’altro è appunto la dignità. Immaginiamo qualcuno che ha perso tutto, e chi ha perso tutto se non colui che muore? All’uomo che muore non chiediamo di essere razionale, non chiediamo di essere morale; ma quanta dignità in lui, e quanto 5 E. MOUNIER, Personalismo e Cristianesimo, (introduzione e traduzione a cura di A. LAMACCHIA), Bari 1977, pp. 51-53 6 Dionigi Tettamanzi. Famiglia, morale, bioetica, Casale Monferrato 1998, pp . 130-131 4 misteriosa! Pensiamo all’uomo che è morto, al cadavere: ebbene è proprio il cadavere che misteriosamente, stranamente, manifesta come un arcano la dignità; addirittura (ed è esperienza che può capitare a tutti di fare) laddove l’uomo che è morto ha alle sue spalle una vita indegna, è come se la morte gli restituisse ciò che per tutta la vita non ha avuto: la dignità. La dignità, questo mistero, questo tratto estremo dell’umano, che non sappiamo che cosa sia, ma che riconosciamo anche in colui che non è più persona, non è una cosa, ma “è”. Dicevano i Latini: sunt aliquid manes. Ciò che resta di noi non è nulla, è qualche cosa. Ma perché è qualche cosa ciò che resta di noi? Ciò che resta di noi nel senso fisico, ma anche e soprattutto nel senso spirituale, la memoria, la traccia, sia pure povera, misera, infima, è qualche cosa, sunt aliquid manes, e questo qualche cosa è costituito dalla dignità: dalla dignità della morte, dalla dignità del cadavere. Un arcano, un mistero, il cadavere che vuole essere sepolto dignitosamente. Non c’è niente che ci fa essere quello che siamo, ab origine, più di questo: la sepoltura. Infatti siamo diventati uomini, e cioè abbiamo avuto accesso alla dimensione più propria della nostra umanità nel momento in cui abbiamo incominciato a seppellire gli altri uomini, a seppellire ciò che resta di loro. La sepoltura di questo qualcosa è come la risposta ad un appello che questa “cosa-non cosa” rivolge a noi, un appello, che ci viene da una profondità più radicale che non quella della razionalità o quella della moralità, che viene dall’aldilà della vita a dirci: “voglio essere dignitosamente sepolto!”. Non c’è prova maggiore del fatto che alla radice del nostro essere quello che siamo non c’è la moralità, non c’è la razionalità, che pure sono cose essenziali, importantissime, ma qualcos’altro: la dignità per l’appunto. I grandi romanzieri russi hanno evocato una bellissima figura: lo iurivodivo, il folle di Dio, quel folle che misteriosamente è più vicino a Dio di tutti gli altri, di tutti quelli che hanno una grande razionalità, una grande moralità, e magari anche una grande santità. Il folle, l’idiota, è colui che non ha niente, colui che si è esposto fino a questo limite estremo di disumanità, ritrova qualche cosa di essenzialmente umano. Se dunque la dignità, prima ancora di esser definita, è qualcosa che si lascia riconoscere, dove riconoscerla? Nel punto più alto e nel punto più basso che noi come essere umani possiamo sperimentare. In alto: non c’è atto dignitoso, autenticamente dignitoso, che non ci elevi, che non ci innalzi al di sopra di noi stessi, che non abbia un carattere sublime, nel senso letterale del termine, sublime: cioè che porta oltre la soglia. All’estremo opposto ci sono coloro che stanno perdendo o hanno perduto tutto. Pensiamo al prigioniero, al mendicante, al malato: tutti privi di quella elevatezza che dovrebbe essere di ogni uomo e che è soprattutto di coloro che meglio lo rappresentano. Tuttavia sono proprio loro ad avanzare la più radicale rivendicazione di dignità. Una volta che all’uomo è tolto tutto: la libertà al prigioniero, la salute al malato, e così via, resta la dignità. Ecco, la dignità è ciò che sta in alto, nel punto più alto dell’esperienza umana, e ciò che sta in basso, nel punto più basso dell’esperienza umana. Sta là dove l’uomo realizza, per così dire, in modo più compiuto e più perfetto, la sua essenza, la sua umanità, e sta là dove questa essenza, questa umanità è invece proprio al contrario minacciata se non addirittura negata. 7 7 SERGIO GIVONE La dignità della persona. Rinascita Cristiana. org 5 Qual è il senso della morte? Oggi si tende a censurare e a rimuovere tale realtà della vita umana. Il solo pensiero della morte procura angoscia. Non pensandoci, si ritiene di allontanarla o vincerla. In realtà essa, inesorabile, viene, e può venire in ogni momento, a qualunque età della persona, in qualunque condizione ci si trovi. Per ogni essere umano, la morte è: segno del nostro essere uomini; essa appartiene alla condizione umana; il termine della vita terrena; una porta che chiude un modo di vivere per aprirne un altro: “non è la fine di tutto”; un richiamo alla saggezza del vivere bene il tempo a nostra disposizione; un modo di attuare una fondamentale uguaglianza fra tutti, al di là di appartenenze sociali, condizioni economiche, capacità culturali. Per il cristiano, la morte è illuminata dalla Parola di Dio che ci offre una luce che rischiara e consola. La morte diventa così: un porre fine alla vita dell’uomo come tempo aperto per accogliere o rifiutare l’amore di Dio in Cristo; un iniziare la vita eterna, e cioè quel vivere nuovo e per sempre che ha inizio dopo questa vita terrena; un incontrare Dio, Padre Misericordioso e anche Giudice; un possibile modo per esprimere un atto di obbedienza e di amore verso il Padre, sull’esempio di Cristo; È proprio per questa visione cristiana della morte che San Francesco d’Assisi poteva esclamare nel Cantico delle Creature: “Laudato sii, mi Signore, per sora nostra morte corporale” (FONTI FRANCESCANe, 263). Che cosa succede con la morte? Con la morte, si verifica la separazione dell’anima e del corpo. Il corpo dell’uomo cade nella corruzione, mentre la sua anima, che è immortale, va incontro a Dio per essere giudicata. Essa sarà riunita al suo corpo alla fine dei tempi. “Con la morte, la scelta di vita fatta dall'uomo diventa definitiva: questa sua vita sta davanti al Giudice” (BENEDETTO XVI, Spe salvi, 45). Fondare la dignità del morire La scienza moderna, lo sviluppo tecnologico, le visioni filosofiche dell’uomo postmoderno hanno profondamente modificato il processo del morire. Possiamo meglio delineare gli aspetti della dignità del morire ricordando alcuni principi. Gandhi diceva: “L’uomo si distrugge con la scienza senza umanità”. La riflessione etica sulle scoperte scientifiche e sulle relative applicazioni tecnologiche, ci salva dall’autodistruzione. Ẻ lo studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta viene esaminata alla luce dei valori e dei principi morali. Già, ma quali principi? Ad ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la dignità di persona. Questo principio fondamentale, che esprime un grande « sì » alla vita umana, deve essere posto al centro della nostra riflessione etica che le vicende 6 odierne orientano all’incontro con la morte. Il Magistero della Chiesa è già intervenuto più volte, al fine di chiarire e risolvere i relativi problemi morali: • La scienza è buona solo se difende, protegge, sviluppa, aiuta la vita umana, dal concepimento alla morte naturale. • L’uomo è persona dal concepimento alla morte naturale. La vita umana è un valore assoluto. Non dipende da opinioni, non dipende dal fatto che sia stata voluta o no. Qualsiasi vita umana vale sempre e comunque. Contro questo principio ci sono solo ingiustizie e barbarie. • L’uomo è sempre soggetto e mai oggetto. La vita umana non può mai essere usata. Non esistono vite meno importanti di altre. Agisci sempre in modo da trattare l’umanità sempre come fine e mai come mezzo (Kant). La persona umana è sempre un fine e mai un mezzo. Ad esempio non è lecito usare e distruggere embrioni di essere umano. Il desiderio di donare la vita deve essere sempre un dono e mai un capriccio in cui il più debole – il bambino chiamato alla vita – paga le conseguenze più alte. • L’uomo deve sempre preservare la sua vita e quella degli altri. • Il vero progresso scientifico deve difendere la vita e migliorarla. Non esiste vero progresso contro la dignità della persona umana. • L’uomo è persona anche quando non può comunicare o non può mostrare la sua intelligenza (perché è in coma o è malato di mente o è ancora un embrione o perché è semplicemente un deficiente). Va comunque sempre rispettato. L’intelligenza è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere persona (gli animali sono intelligenti, ma non sono persone). La vita è un diritto. Allora esiste sempre il dovere corrispondente di rispettarla e difenderla. Quanti sanno che un cuore già batte a 18 giorni dal concepimento e che il bambino è completo a 12 settimane (3 mesi) e impiega gli altri 6 mesi sol per ingrandirsi? La Chiesa cattolica, nel proporre principi e valutazioni morali sulla vita umana, attinge alla luce sia della ragione sia della fede, contribuendo ad elaborare una visione integrale dell'uomo e della sua vocazione, capace di accogliere tutto ciò che di buono emerge dalle opere degli uomini e dalle varie tradizioni culturali e religiose. Il suicidio assistito È di questi giorni la notizia della morte di Lucio Magri, 79 anni, fondatore del Manifesto nel 1969, avvenuta in Svizzera dove si praticano legalmente i suicidi assistiti anche per i non residenti. Nel Paese elvetico infatti, in cui la pratica dell’eutanasia era già concessa dal 1941, è stata approvata recentemente la decisione di dare questo tipo di “assistenza” anche ai non residenti. Un’associazione dal nome ambiguo di “Dignitas” offre questo “servizio”, usufruito nel 2010 da ben 1400 persone, di cui 19 italiani, saliti a 30 nel 2011. Magri, che soffriva di una forte depressione dalla morte della moglie Mara, si era già recato altre volte in Svizzera con l’intenzione di chiedere il suicidio assistito, ma era sempre ritornato. Questa volta, invece, la sua decisione è stata irrevocabile: un’ultima telefonata agli amici di sempre che attendevano a casa, e poi il silenzio. Così ha scelto di andarsene, senza una conversione in punto di morte, con un gesto che è stato definito dai suoi sostenitori “dissacrante e dirompente da grande laico”: solo, lontano da casa, senza gli affetti più cari, rimasti a casa ad attendere la notizia. 7 Si è fatto sapere che ha deciso in piena lucidità, con consenso libero e informato, quale è richiesto dalla procedura medica della clinica svizzera. È spontanea l’obiezione: come può essere libera e consapevole la domanda del suicidio assistito che viene da una persona in condizione di profonda depressione psicologica? Il primo e doveroso sentimento è la pietà, la compassione (patire con) per Lucio Magri e per gli amici e colleghi di lavoro che a lui erano profondamente legati. Hanno tentato di dissuaderlo, ma questa volta senza successo. Nessuno può pretendere di giudicare la persona, il grado di libertà-responsabilità di decisioni così estreme. Il giudizio ultimo è affidato alla sua coscienza e, che sia credente o no, a Dio, giusto e misericordioso giudice. Magri è andato a morire in Svizzera, dove si può avere il suicidio assistito, dove cioè ci sono persone fidate, stipendiate, che ti aiutano (non so e non voglio sapere come) a concludere la tua vita. Non voglio nemmeno immaginare come sia la vita di questi generosi cittadini, cosa chiederà la loro moglie, la sera, quando rientrano a casa dal lavoro. Mi basta rilevare una differenza importante: per morire è sufficiente una persona fidata, rassicurante; per vivere, invece, questo non basta, occorrono degli amici, occorre una compagnia profonda. Si muore sempre per evitare qualcosa, mi disse una mamma davanti al cadavere del proprio figlio di vent'anni, morto di cancro. Il rispetto e la comprensione della persona, tuttavia, non conducono a condividere o giustificare gesti così estremi. Nessuno ha un dominio incondizionato e assoluto sulla vita, così che possa arbitrariamente decidere se, come e quando darsi la morte. Se il non credente non arriva a comprendere che il padrone della vita è Dio, di certo può comprendere che il padrone della vita non è lo Stato. Questo, di conseguenza, non può concedere a nessuno, meno che meno al medico, la licenza di uccidere. Peppino Englaro (che ha fatto uccidere la figlia Eluana in stato vegetativo con la disidratazione in una clinica di Udine) ha commentato con queste parole: «Nessuno può entrare nella coscienza di una qualsiasi persona. Questo signore evidentemente ha esercitato il primato della sua coscienza. È tutto lì. E tutto si riassume in queste parole, nel primato della coscienza personale, che non può essere messo in discussione da nessuno sulla faccia della Terra.» È vero, nessuno si può permettere di giudicare. Quanto alla modalità scelta da Magri per morire, appare essere particolarmente triste. In ogni suicidio c'è un messaggio, una lettera criptata. Impiccarsi non è come spararsi un colpo, tagliarsi le vene non è come buttarsi dal decimo piano. Sono tutti messaggi, lettere, biglietti: quelli veri (perché quelli lasciati scritti generalmente sono pieni di bugie). Scegliere il suicidio assistito è, tra tutte le soluzioni, la più malinconica e per certi aspetti la più proterva. Chi si uccide è come se dicesse: l'ultima parola su di me voglio dirla io. Ma nessuno, per quanto ateo, può essere così certo di questo pensiero: non possiamo escludere che la smentita dei nostri pensieri ci balzi davanti, all'improvviso. Ce lo ha insegnato Shakespeare, nel suo Essere o non essere. Per questo, e non solo per soffrire il meno possibile, di solito ci si ammazza in fretta. Magri sapeva bene queste cose: la scelta di andare in Svizzera lo dimostra. Voleva cautelarsi contro la possibilità stessa di cambiare idea, contro i fantasmi della vita, che si possono incontrare anche nelle nebbie della morte. Visto che la tragedia si è svolta in Svizzera. C'è da credere che il povero Magri abbia pagato chi lo ha aiutato nel grande passo. Ma proprio qui sta il paradosso. Se la vita di un uomo ha un valore economico, vuol dire che la vita non è solo un fatto privato, e che togliersela dicendo «è roba mia» è insensato. Se un uomo bruciasse un miliardo di 8 dollari (meglio lasciar perdere l'euro, per adesso) dicendo sono miei, ci faccio quello che mi pare, noi giustamente disapproveremmo: il suo gesto in qualche modo danneggerebbe anche noi. La realtà del suicidio Sono molteplici le forme con le quali l’uomo può giungere a disporre della propria vita. La «codarda noia del vivere» ha numerose versioni storiche: l’esaltazione esagerata di un valore ( la patria, un’operazione bellica, ecc.), il desiderio di disporre liberamente della propria vita (o di «scegliere liberamente la propria morte»), la ricerca più o meno patologica della morte come soluzione alla depressione vitale, ecc. In tutte queste situazioni si ha un disprezzo del vivere in quanto base della realizzazione personale. Le cause sono sociologiche e psicologiche aiutano a capire la realtà personale e sociale del suicidio, ma non sono in grado di dare un «senso» al controsenso fondamentale che trascina il fatto che un essere umano toglie la vita a se stesso. Tanto il suicidio «disperazione» come il suicidio «contestazione» suppongono una perdita di senso. La fede nel Dio vivo è quella che libererà l’uomo dalla tentazione del suicidio. Come dice BonhÖffer, «il disperato non lo salva nessuna legge che faccia appello alla propria forza; questa legge lo spinge piuttosto in modo disperato alla disperazione; colui che dispera della vita può essere aiutato solamente dall’azione salvifica di un altro, l’offerta di una nuova vita, che è vissuta non per propria virtù, ma per grazia di Dio» (Etica, Barcelona 1968, 118). La valutazione morale del suicidio La responsabilità soggettiva del suicida nella maggior parte dei casi è molto limitata; la sua libertà è condizionata dalla presenza di processi psicologici di carattere soprattutto depressivo. Collocandolo in un orizzonte di preferenze umane e umanizzatrici 8, il suicidio appare come una scelta chiaramente negativa in riferimento a una dimensione morale oggettiva: L’autorealizzazione è preferibile all’autodistruzione. Il suicidio è la negazione esistenziale di questa preferenza primordiale. Le azioni modificabili hanno preferenza esistenziale su quelle irrevocabili. Il suicidio blocca ogni possibilità di cambiamento, di creatività, di nuove decisioni. 8 Le spinte umanizzatrici Nella evoluzione storica della medicina è possibile individuare due momenti fondamentali che hanno concentrato in sé il meglio delle tendenze “umanizzatrici”qua e là presenti nel corso della storia. Tali tendenze sono frutto: da un lato, di una reazione a momenti storici di particolare disumanizzazione, dall'altro di una filiazione di specifiche matrici culturali da cui sono scaturiti. La prima di esse è germinata nell'area del cattolicesimo, la seconda ci è pressoché contemporanea articolandosi in varie, attuali correnti ideologiche di matrice “laica”. Nei primi cinque secoli di Cristianesimo l'assistenza ai malati riveste un ruolo particolare. Innanzitutto per il posto da essa occupato nella vita di Cristo i cui miracoli di guarigione costituivano gran parte delle “opere” da lui manifestate, in secondo luogo per lo specifico comando dato ai suoi discepoli: “Curate infirmos”. Proprio in virtù di tale comando, la Chiesa nascente organizza le prime forme di assistenza agli infermi. La prima istituzione assistenziale é probabilmente costituita dalle diaconie istituite a Roma dal papa S. Fabiano e annesse agli uffici del Vescovo per assistere varie categorie di bisognosi. Al Concilio di Nicea (325) vengono resi obbligatori per ogni città gli xenodochi, grandi "ospizi" per stranieri, pellegrini e malati. Nel 331 S. Basilio fa costruire la celebre Basiliade, il primo "complesso ospedaliero" dell'antichità. 9 La libertà vissuta più intensamente e con maggiore temporalità è preferibile alla libertà recisa prematuramente. Il suicidio mette fine bruscamente alle possibilità della libertà umana. L’umanità attuale ha bisogno di una evoluzione morale, visto che il problema del suicidio assume maggiori proporzioni tragiche, constatabili non solo dall’aumento statistico, ma anche nelle forme di compierlo. Ẻ la società contemporanea quella che si trova messa in causa, perché non sa umanizzare l’uomo né sopprimere i motivi che portano a tale gesto fatale. San Tommaso ha indicato i principi alla base della condanna morale del suicidio: Ẻ « assolutamente illecito suicidarsi per tre ragioni: primo, perché ogni essere umano ama naturalmente se stesso. Perciò, il fatto che qualcuno si suicida è contrario all’inclinazione naturale e alla carità secondo la quale ciascuno deve amare se stesso. Secondo, perché ogni parte, in quanto tale, è qualcosa del tutto; e un uomo qualunque sia è sempre parte della comunità e, quindi, tutto ciò che egli è appartiene alla società; quindi colui che si suicida offende la comunità. Terzo, perché la vita è un dono dato all’uomo da Dio e soggetto alla sua divina potestà, che fa morire e fa vivere. E, quindi, colui che priva se stesso della vita pecca contro Dio» (2-2, q. 64, a. 5). Un modo più dignitoso di morire Personalmente senza giudicarlo, provo molta pena e molta tristezza per Magri. Attenzione: pietà per un uomo che dice di non voler più vivere e che purtroppo trova persone disposte ad aiutarlo nel suo proposito. Non certo pietà per la “categoria”, cioè per quelli che si vogliono togliere la vita e ci riescono; perché, altrimenti, bisognerebbe “per motivi pietosi” modificare tutti i protocolli di soccorso e di emergenza pacificamente accettatati dalla nostra società. Bisognerebbe lasciare in pace quelli che si vogliono gettare dal cornicione, bisognerebbe sostituire i teloni dei vigili del fuoco con un letto di chiodi per fachiri, bisognerebbe non soccorrere e non salvare quelli che hanno tentato di uccidersi e non sono ancora morti. Ciò che fa pena è l’immagine di un uomo, intellettuale vivace, stanco di vivere, oppresso – dicono alcuni – dall’insopportabile percezione del fallimento dell’ideologia marxista; o – dicono altri - dal dolore per la morte della carissima moglie. Chi conosce la fragilità dell’uomo sa che non c’è peccato di cui, potenzialmente, non saremmo capaci. Compreso un delitto terribile contro la propria vita, come il suicidio, azione con la quale, recita un paradosso di Chesterton, è come se l’uomo volesse uccidere tutti gli uomini. Me lo immagino in una stanzetta asettica di ospedale, spoglia, anonima, sdraiato su un lettino bianco qualsiasi, e addormentarsi così, solo e lontano da tutti. È un cercare la morte priva di umanità, senza un minimo di dignità propria dell’essere uomini. Se è giusto provare pietà per le persone, non è affatto giusto provare pietà per le ideologie false e bugiarde. Magri è stato uno dei fondatori del Manifesto, e un colto rappresentante del pensiero marxista. E qui dobbiamo constatare che il comunismo, insieme a tutte le altre letture ideologiche del reale, scava nell’uomo un vuoto che diventa con il passare degli anni insopportabilmente pesante. Scenario viepiù aggravato dalla sconfitta clamorosa che la storia ha decretato per il socialismo realizzato. Si ha un bel dire, facendo gli spacconi, che Dio non serve. Può funzionare finché la sorte ti sorride, ma arriva un giorno in cui le cose ti si rivoltano contro, e allora le pagine di Marx, o di Gramsci, o di Sartre, non riescono a dare conforto. E diventano, anzi, pistole armate nella tua mano. Dobbiamo dircelo e dobbiamo dirlo ai 10 giovani: ci sono cattivi maestri e cattive dottrine, mentre la vita pretende una verità più grande, che la Chiesa insegna da duemila anni. Una verità che non rimuove le tragedie dall’esistenza, ma che le riempie di un senso che conforta perfino le persone disperate. In realtà, le cliniche della morte, dove ci sono, sono espressione di una società incapace di rispondere con proposte di vita a chi chiede la morte; lanciano un messaggio nefasto al mondo della sofferenza e della solitudine; fanno passare per legittima e doverosamente da assecondare una domanda che non è altro che il grido del disperato; falsificano e snaturano il ruolo del medico e le strutture ospedaliere. I problemi della vita, l’infelicità, la solitudine, non si risolvono con il dare la morte. Eutanasia mascherata La vicenda del povero Magri è un perfetto caso di scuola, che spiega che cosa intendiamo quando stiamo parlando di eutanasia. Il cosiddetto suicidio assistito, infatti, ha molto più a che fare con la fattispecie dell’eutanasia che con quella del suicidio: il suicida è uno che si ammazza con le sue mani; nel suicidio assistito ci sono altri che mettono la vittima in condizione di morire, e che quindi cooperano in modo decisivo a un atto che, forse, il poveretto non avrebbe la forza di compiere. Ma c’è dell’altro: Lucio Magri non aveva, almeno secondo le notizie diffuse, una malattia mortale, o una patologia degenerativa che ne divorasse il corpo. Accusava invece un grave stato depressivo che lo ha spinto ad andare in Svizzera per ottenere la morte. Ora, da anni vogliono farci credere che l’eutanasia è una faccenda che riguarda solo i malati terminali oppure le persone con una sindrome progressiva inesorabile. Ma si tratta di una truffa logica e concettuale: la vera posta in gioco è il potere di ciascuno sulla propria vita. Le motivazioni che spingono una persona a dichiarare che vuole la morte sono le più disparate: vanno dal dolore fisico assoluto al taedium vitae, cioè al disgusto per la vita che pure è priva di malattie del corpo. Se lo stato definisce che in alcuni casi si può ottenere la morte per mano di terzi, a quel punto stabilisce a quale altezza si deve collocare l’assicella delle vite senza qualità. E anche se in prima istanza respinge al mittente una richiesta come quella di Lucio Magri, con il tempo lo stato è costretto a rivedere il criterio e ad ammettere che, in fondo, se uno non vuole vivere è affar suo. Magri è purtroppo il simbolo di una tragedia più grande, che percorre la nostra società, la quale assomiglia sempre di più a una vera e propria civiltà dell’eutanasia. A un luogo, cioè, dove la vita è essenzialmente un non senso, e dove quindi chiedere e ottenere la morte è la cosa più normale del mondo. Ovviamente, questa “cultura” avrà un suo effetto di “trascinamento” lungo il pendio scivoloso, e prima si legalizzerà la morte dei malati gravi con il loro consenso (reale o presunto); poi arriverà la morte di quelli che non l’hanno chiesta, ma poveretti quanto soffrono; e infine arriverà la morte di quelli che sono sani come un pesce, ma sono stufi di vivere. Il marxismo è morto, il liberalismo anche, e l’umanità sazia e disperatissima non si sente tanto bene. Solo Dio ci può salvare. 9 Il tabù della morte Il pensiero di questo modello liberista, per cui è moralmente lecito tutto ciò che l’uomo compie liberamente, è solo una grande illusione di libertà, e toglie all’uomo quella vera, quella di vivere con dignità anche la morte. Fino ad alcuni decenni fa le persone si spegnevano in casa, nel loro letto, attorniati dall’affetto dei propri cari. Era 9 Mario Palmaro. Magri, il vero volto della eutanasia. La Bussola quotidiana 30-11-2011 11 un modo più dignitoso di morire. Non è questo un giudizio moralista, è un fatto. E allora la questione della fine della vita diventa non solo un tema, ma il tema fondamentale della nostra esistenza, perché investe la radice del rapporto con noi stessi e con il mondo esterno. Perché la morte non è un momento staccato, ma fa parte della vita, e se la morte non è dignitosa, non lo è nemmeno la vita. Diceva Heidegger che “la vita diventa autentica se ci si pone il problema della morte”, ed è vero, non si può costruire una società pervasa dal tabù della sofferenza e della morte: bisogna morire da soli, altrimenti gli altri soffrono; bisogna morire come si vuole, per esercitare la propria libertà; bisogna morire lontano da casa perché la morte è una cosa brutta da lasciare fuori. Questo non è un modo dignitoso di morire, chiediamoci allora se non lo è altrettanto quello di vivere secondo una tale concezione. A partire dal XX secolo nella nostra società la morte viene nascosta, diviene un tabù. Non è accettata né inserita nella vita, e si cerca di ridurla al potere dell’uomo. La modernità ha cercato di annientare la visione della morte del mondo antico trasformandola da evento naturale ad evento programmabile, e configurando la morte stessa come un assurdo, qualcosa da negare e da dominare. Così con la scusa della pietà, e addirittura della dignità, il pensiero laico e la scientismo razionalista stanno cercando di liberarsi di tutti i pesi della società: anziani, malati, disabili, persone la cui vita non sarebbe dignitosa solo perché hanno capacità ridotte. E in tal modo non solo questi liberi pensatori compiono crimini e li legalizzano, ma si assolvono automaticamente perché sarebbero dettati da pietà, da amore per coloro che non vivono una vita dignitosa. Bisogna dare un nuovo volto alla parola dignità. Essere malati non significa non avere dignità, e non è amore uccidere la persona disabile per non farla soffrire. Purtroppo questo è quello che vogliono farci credere, ma non è così. La vita vale sempre la pena di essere vissuta, anche se si è ammalati, disabili, anziani. E altrettanto la morte: vale la pena di accettarla quale è, un momento della vita da affrontare con dignità e coraggio quando arriva. Per questo vita e morte superano i confini della riflessione bioetica, che pure è così importante: essi sono inviolabili perché l’uomo ha il diritto alla dignità, perché l’uomo è sempre il fine e mai il mezzo, perché l’esistenza umana non è frutto del caso, perché vita e morte fanno parte integrante della sostanza dell’uomo. Disperazione e tentazione al suicidio L’Innominato descritto da Alessandro Manzoni nei “Promessi sposi”, abitava “a cavaliere a una valle angusta e uggiosa” e “dall’alto del castellaccio non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto”. Questa breve descrizione dice già tutto quello che Manzoni pensa di Dio e della morale: l’uomo che non vede nulla “al di sopra di sé”, cioè l’uomo che si pone al di sopra del bene e del male, eliminando Dio dal suo orizzonte, vive già tutti i presupposti per divenire una creatura senza scrupoli e piena solo di se stessa. L’uomo che scarta Dio, in altre parole, siede al suo posto e rifiuta un giudizio su di sé, in nome della sua completa auto-nomia. La libertà illimitata porta al dispotismo assoluto. Non vedendo mai alcuno “al di sopra di sé, né più in alto”, l’Innominato finisce inevitabilmente per porre se stesso sopra i propri simili. La superbia, male per eccellenza, è dunque sempre in agguato. Ma. All’epoca del rapimento di Lucia da lui ordinato, l’Innominato è pervaso da una certa “paura”, “terrore”, “una non so qual rabbia di pentimento”. Cosa è successo di nuovo? Manzoni lo fa capire bene: ci si può credere Dio, sino a un certo punto; si può fare come se Dio non esistesse, finché si è forti, finché si ha successo. Ma poi arriva la vecchiaia, si incomincia a intravedere la 12 morte, e sentirsi ancora Dio si fa difficile. L’Innominato vorrebbe scacciare i suoi pensieri, vorrebbe rituffarsi nell’azione che tacita il rimorso e la paura, ma si trova “ingolfato nell’esame di tutta la sua vita”. Finché è colto da una considerazione che ci riporta all’inizio: ma se Dio esiste, quale sarà la mia sorte nell’eternità? Però, “se quella vita (nell’aldilà) non c’è, se è una invenzione dei preti; che fo io? Cos’importa quello che ho fatto? Cos’importa?”. Se Dio non c’è, infatti, esiste solo la giustizia umana; ma sulla terra vince spesso la forza, l’ingiustizia. L’Innominato, che lo sa, se lo chiede: “Io vinco, che importa dunque il pentimento, il rimorso? Nessuno potrà mai chiedermi conto della mia vita. Neppure dopo la morte”. Il contagio della misericordia. Ma il dubbio, la paura sono forti. E se invece Dio esiste? Manzoni sviluppa sapientemente questi dilemmi, e poi descrive l’Innominato sul punto di suicidarsi, in preda alla disperazione. La tentazione umana, come quella di Giuda, è la mancanza di speranza; è la tentazione di fare ancora una volta come se Dio non esistesse, ergendosi a padroni della propria vita sino all’ultimo. E’ stato il demonio a suggerirti il suicidio, dirà infatti Federico Borromeo all’Innominato. Come avviene, allora la conversione? In due fasi. Anzitutto la disperazione di chi si riconosce finalmente malvagio, viene incrinata da una frase di Lucia: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”. E’ una frase dolcissima, teneramente cristiana: perdono e misericordia sono possibili al Dio che è giudice, quando non sembrano neppure più possibili all’uomo che sta, per la prima volta, giudicando se stesso. La verità di Dio giudice, non può però essere separata dalla verità di Dio misericordioso. Pronto a perdonare chiunque, sempre, sino all’ultima ora. Se c’è pentimento. Poi, dopo le parole di Lucia, che riaccendono la speranza, un incontro: con Federigo che lo abbraccia e rende presente quel perdono. La fede si diffonde per contagio. 10 Etsi deus non daretur - Come se dio non esistesse – Parole fuori misura Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov” ci presenta la teoria di Ivan Karamazov, il quale afferma che “se Dio non esiste, tutto è permesso” e sottolinea lo stretto rapporto fra la negazione di Dio e la divinizzazione dell’uomo. 11 A proposito di parole fuori misura, ecco uno stralcio tratto da un editoriale di Vittorio Feltri: «In questo nostro strambo Paese, dove i libertari si sono convertiti al bigottismo, i postcomunisti amano il puritanesimo, la destra ex fascista si apparenta con la sinistra, e il conformismo è il denominatore comune di tutti quanti, non solo non si può più andare a donne (perdonate l’espressione volgare e antiquata: serve per capirsi al volo) ma nemmeno decidere come crepare. Vietato. Magri è stato un’eccezione, un vero ribelle che non posso nascondere di apprezzare, ammirare. Si ribellò al piattume democristiano quando la Dc era potente, si ribellò al Pci quando era 10 Francesco Agnoli. La libertà illimitata porta al dispotismo assoluto, insegna l’Innominato manzoniano. Il Foglio, 1 dicembre 2011. 11 Karamazov:«Una volta che l’umanità intera abbia rinnegato Dio (e io credo che tale epoca, a somiglianza delle epoche geologiche, verrà un giorno), tutta la vecchia concezione cadrà da sé, senza bisogno di antropofagia, e soprattutto cadrà la vecchia morale, e tutto si rinnoverà. Gli uomini si uniranno per prendere alla vita tutto ciò che essa può dare, ma unicamente per la gioia e la felicità di questo mondo. L’uomo si esalterà in un orgoglio divino, titanico, e apparirà l’uomo-dio. Trionfando senza posa e senza limiti della natura, mercé la sua volontà e la sua scienza, l’uomo per ciò solo proverà ad ogni istante un godimento così alto da tenere per lui il posto di tutte le vecchie speranze di gioie celesti. Ognuno saprà di essere per intero mortale, senza resurrezione possibile, e accoglierà la morte con tranquilla fierezza, come un dio» 13 al massimo del fulgore (chiunque scommetteva sul trionfo del marxismo) e, coerentemente con la sua sublime incoerenza, si è ribellato all’idea che togliersi la vita sia un sacrilegio. Ma quale sacrilegio? È una scelta. Deprecabile? Deprecate, deprecate, però non negate a una persona responsabile, lucida e consapevole il diritto di porre fine alle proprie sofferenze. Ciò che non ho ancora detto, ma mi affretto a farlo, è che Magri era depresso. Forse lo era sempre stato (qualche sintomo del mal di vivere forse lo avevo intuito in lui), di sicuro lo era di più dal giorno in cui la moglie, Mara, fu portata via da un tumore. Come si fa a non comprendere lo stato d’animo di un uomo che in 79 anni di vita ha visto svanire ogni sogno? Il partito cattolico è scomparso, il comunismo è fallito, il capitalismo fa schifo ma è ancora qui a far danni, la moglie non c’è, la giovinezza è sfiorita da lustri, il desiderio di combattere è scemato, il futuro è un vicolo cieco e angusto: ma per quale motivo Lucio, non potendo più appoggiare la testa sul seno di Mara e sentirne il calore, avrebbe dovuto stare qui ancora, magari fissando ore e ore il soffitto della stanza? Perché avrebbe dovuto seguitare a trascorrere notti e notti insonni tentando di respingere i tetri pensieri che il cervello mette in circolo, sempre gli stessi, sempre più cupi e ossessivi? In attesa di chi e di che cosa? Del Natale? Della visita dei nipotini? Di un’altra malattia in aggiunta alla depressione che, se ti piglia, t’ammazza dentro, dopo averti strappato anche il desiderio di un caffè e di respirare l’aria fredda del mattino?» 12. . L’eterno riposo per ogni anima Forse Magri ha esercitato il primato della coscienza personale, ma questa morte è più triste, più straziante di qualsiasi altro modo in cui la vita può terminare, nessuno dovrebbe morire così. Padre Piero Gheddo 13, scrittore, missionario del Pime, racconta: «Ho pregato per lui: “L’eterno riposo dona a Lucio Magri, o Signore, splenda a lui la luce perpetua, riposi in pace. Amen”. Ho brevemente conosciuto questo personaggio politico allora già famoso nella prima metà degli anni Settanta, in un dibattito all’Università statale di Milano, ricavandone un’impressione sostanzialmente positiva. Naturalmente non eravamo d’accordo sui rimedi alla miseria e alla fame di miliardi di uomini, ma ho ammirato la sua passione per la povera gente, la volontà espressa di dare tutta la sua vita per la realizzazione dei grandi ideali di giustizia e di eguaglianza che Mao Tze Tung esprimeva in quegli anni nella sua “Rivoluzione culturale” e nel suo “Libretto Rosso”, che avevo da poco letto nel primo viaggio fatto in Cina (aprile-maggio 1973). Magri aveva anche manifestato la sua ammirazione per i missionari e la loro opera di carità e di vita con i poveri. Il che mi aveva confortato e incoraggiato, in quell’ambiente sessantottino certo non ben disposto verso un prete che si presentava col suo colletto bianco e parlava dell’opera della Chiesa nel “terzo mondo” per portare il Vangelo, la vera soluzione alla miseria e alla fame nel mondo. Ma allora, povero e caro Lucio, perché questo “scivolare nel buio” di una morte prematura, quando potevi ancora fare tanto per i poveri di tutto il mondo? La Repubblica scrive: “Magri voleva volare alto, ucciso da un’ambizione troppo grande, voleva cambiare il mondo e il mondo, negli 12 Vittorio Feltri: Suicidio assistito: è giusto? Conta il poter scegliere. – Il Giornale, 30 novembre 2011, 15:19. 13 Piero Ghetto dell’istituto missionario Pime di Milano (Pontificio istituto missioni estere) direttore dell'Ufficio storico del PIME di Roma 14 ultimi anni gli appariva insopportabile smentita della sua utopia, il segno intollerabile di un fallimento, la constatazione amarissima della separazione tra sé e la realtà. Così le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma evitando agli amici lo spettacolo del sangue sul selciato”. Il fallimento di un’utopia è evidente. Ma perché il fallimento di una persona che nutriva sinceramente grandi ideali di bene, di giustizia, di pace, e veniva dal mondo democristiano bergamasco? La risposta l’ha data in quegli anni Paolo VI nel messaggio del Natale 1969: “I più grandi valori umani disgiunti da Cristo diventano facilmente disvalori”. Sentenza non facile da spiegare e da capire, ma la storia dell’uomo e dei popoli ne dimostrano la verità ogni giorno.» (1 dicembre 2011 ZENIT.org). Perciò, caro Magri, ora non sei più tra noi, ma siamo certi ci puoi vedere anche se tu non credevi nell’aldilà, e così dal tuo luogo di riposo potrai renderti conto di tutto, della verità della vita e della morte, e potrai forse affermare che la dignità non è poter scegliere di morire, ma voler scegliere di vivere. Prof. Paolo Rossi, [email protected] primario cardiologo, Novara L orrii etttto aii lle aa olla arro pa ap La Tutti coloro che ricevono questa newsletter sono invitati ad utilizzare la opportunità offerta dal forum per far conoscere il proprio pensiero su quanto letto o sollecitare ulteriori riflessioni ed ampliare la riflessione. 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