Teoria e tecnica
Ferenczi e Winnicott: “a partially missing link”*
FRANCO BORGOGNO
“A partially missing link”
L’obiettivo di questo lavoro è mettere in luce la particolare “vicinanza d’anima” che percorre il pensiero di Ferenczi e quello di Winnicott, una vicinanza d’anima che per lungo tempo è andata perduta o che per lo meno non è stata
colta in tutta la sua pienezza (o forse non si è voluto coglierla) da parte della
comunità psicoanalitica. Le ragioni di questo “missing link”1 sono numerose
ma qui mi limiterò a nominarne tre che appaiono peraltro interconnesse fra
loro a causa di un non riconoscimento dell’alterità che caratterizzerebbe un’evidente posizione narcisistica negli stessi psicoanalisti e nella psicoanalisi.
La prima ha a che fare con la censura a cui è stato sottoposto il pensiero
di Ferenczi, una censura che è durata per più di 50 anni e che è stata sciolta
progressivamente solo negli anni Ottanta inoltrati, e precisamente nel 1988,
grazie soprattutto alla pubblicazione (curata da Judith Dupont) del Diario
clinico di Ferenczi (Ferenczi, 1932b) e quindi delle Lettere (Freud, Ferenczi,
1908-14, 1914-19, 1919-33) da lui scambiate con Freud, che – come ormai è
noto – ha generato un vero e proprio “rinascimento” dell’opera di Ferenczi.2
*
Questo lavoro, presentato su invito all’International Conference in Miskolc “Sándor
Ferenczi Returns Home” il 28 novembre 2008, è stato pubblicato in una versione differente nell’American Journal of Psychoanalysis, 2007, 67, 221-234.
1
Il concetto di missing link è stato coniato dai New Kleinians per indicare l’impossibilità
di molti pazienti di accettare l’alterità e, conseguentemente, il padre e l’elemento terzo nella
costellazione edipica (vedi per esempio Britton, 1989).
2
Una censura che è stata preceduta e accompagnata da vari tipi di calunnia e di denigrazione: denigrazioni e calunnie che sono state recentemente definitivamente smentite. Vedi
al riguardo: Dupont, 1998; Bonomi, 1999; Berman, 2002.
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La seconda ragione è dovuta alla specifica personalità di Winnicott, il
quale non amava citare altri autori in quanto molto orgoglioso e geloso di
avere una propria mente e una propria originalità. Orgoglio e gelosia che lo
hanno portato a mettere in atto una sorta di “criptoamnesia inconscia” (per
usare un’espressione di Ferenczi) che lui medesimo ha ammesso parlando
di sé (Winnicott, 1967b; 1984). Va comunque osservato che lo stesso
Winnicott non vedrà riconosciuto il suo pensiero per molti decenni avendo
voluto – anche lui come Ferenczi – “essere se stesso” ed esprimere un pensiero “fuori dal coro” all’interno della nostra comunità.
La terza ragione ha invece a che fare, a mio avviso, con il fatto che l’interesse al bambino piccolo e alla madre è un interesse piuttosto tardivo sia
nella cultura occidentale sia nell’evoluzione teorica e tecnica della psicoanalisi, e che altrettanto tardiva è la nostra acquisizione di un’autentica
disponibilità a identificarci nel bambino piccolo e nel suo dolore.
Un’autentica disponibilità – intendo – che si astenga sia dal prendere le
distanze dai bambini e dal loro mondo sia dall’omologarli tout court agli
adulti e al mondo adulto. Come vado ultimamente mettendo in luce
(Borgogno, 1999ab; 2007ab; Borgogno, Vigna-Taglianti, 2008), noi psicoanalisti, se abbiamo di buon grado imparato a impersonificare nell’analisi il
“buon genitore” (il “buon seno” e il “buon pene”) e – un po’ meno volentieri
– il “cattivo genitore”,3 abbiamo solo di recente appreso ad accogliere e a
gestire il “rovesciamento dei ruoli” che si attua del tutto comunemente nelle
analisi dei pazienti molto disturbati. Pazienti – quelli da noi definiti molto
disturbati – che sono solitamente identificati a loro insaputa con il “genitore improprio” avendo infatti spesso questi pazienti quasi totalmente dissociato la loro anima infantile e con essa la sofferenza catastrofica che hanno
subito da bambini.4 Dissociazione dell’anima infantile e della sofferenza
catastrofica di cui – perché il paziente, successivamente, se ne possa appropriare integrandola – si deve fare a lungo portatore l’analista trovando per
3
“Cattivo” – intendo dire – perché così trasformato dalla fantasia inconscia e dalle proiezioni del paziente, o semplicemente perché per alcuni versi il nostro atteggiamento analitico
non era sufficientemente attrezzato a svolgere solide funzioni materne e paterne.
4
Lo studio di Ferenczi dell’“identificazione con l’aggressore” e della sua fenomenologia sia
all’interno del processo di crescita sia all’interno del processo analitico docet a questo riguardo
(Ferenczi, 1929b, 1931, 1932ab, 1920-32). È pertanto Ferenczi ad avere per primo dissodato il
campo inter- e intra-psichico del “rovesciamento dei ruoli” e ad averne osservato le complesse
e complicate manifestazioni nelle relazioni di transfert-controtransfert emergenti nell’onda
lunga dell’analisi, mostrando il loro risvolto difensivo ma anche evolutivo in termini di comprensione e riconoscimento del paziente, qualora l’analista le individui e proceda con lena a una
loro solida elaborazione capace di connettere la storia dell’analisi al mondo interno e alla storia infantile del paziente.
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essa soluzioni alternative rispetto a quelle che il paziente ha trovato sino a
quel momento della sua vita.
Emittenti e destinatari di un discorso teorico comune:
“chi parla a chi?”
Passo adesso direttamente al tema delle “simiglianze di discorso teorico e tecnico fra Ferenczi e Winnicott” concentrandomi in questa prima
parte del mio lavoro su “chi parla a chi”: sul fatto cioè che sia Ferenczi che
Winnicott indirizzano le loro riflessioni a un medesimo destinatario, alla
madre o, per essere più precisi, a “una madre parzialmente assente pur
nella sua presenza”. Una madre depressa e in più frangenti psichicamente
ritirata, quella di Winnicott; una madre narcisistica e anche lei tutta ripiegata su di sé e sui “business di famiglia”, quella di Ferenczi. Madri entrambe che non hanno potuto, in sostanza, prestare loro tutto l’ascolto ai bisogni
e alle vulnerabilità di cui sia Ferenczi che Winnicott necessitavano. Si
vedano al riguardo, per quanto concerne Ferenczi, le rampogne che nel
transfert lui fa a Freud a causa della presenza in quest’ultimo di aree di
ascolto e di partecipazione analitica sorde e non pervie (Freud, Ferenczi,
1908-14; 1914-19; 1919-33; Ferenczi, 1920-1932; 1932b; e soprattutto:
Ferenczi, 1915; Ferenczi, Groddeck, 1921-1933) e parallelamente, per
quanto concerne Winnicott, il suo avere confessato che il “senso della propria vocazione” professionale è nato “dalla necessità di trovare e riconoscere una buona madre” e che è “alle madri” che egli ha sempre avuto “il
profondo bisogno di parlare” (Winnicott, 1957, 1986). Una madre che, anche
nel suo caso, non è stata soddisfacentemente incontrata né nella sua infanzia, né nelle sue analisi con Strachey e Riviere (Winnicott, 1987; Phillips,
1988; Rodman, 2003).
Da questo punto di vista non stupisce, perciò, minimamente che
Ferenczi e Winnicott siano stati nella nostra disciplina ambedue degli
enfants terribles che per più versi, in particolar modo il primo, hanno precorso i tempi. Esclusivamente da due “wise baby” – come sostiene Ferenczi
(Ferenczi, 31-IX-1932 in 1920-32) – poteva del resto farsi strada la formulazione di una teoria evolutiva che pone al suo centro, in un posto apicale,
un concetto come quello di “wise baby”5 o di “falso sé”6 nel prospettare la non
inconsueta eventualità di una “progressione traumatica nella crescita”7 fondata sulla dissociazione tra mente e corpo, tra pensiero ed emozione, di
fronte a un qualcosa – essenzialmente sul “versante del materno” – che è
venuto a mancare da parte del mondo esterno.8 Questa tipica organizzazione difensiva che ognuno di essi coglie con proprie parole ugualmente incisive (il “wise baby” e il “falso sé”) non descrive che il “precoce adattamento
e conformismo agli adulti” a cui sono talora chiamati molti bambini se, per
inaccessibilità e inattendibilità dei loro caregivers, in specie la madre, si
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trovano – “invertiti i ruoli” – a dover sacrificare l’infanzia e l’autoctono sé
per soccorrere e alleviare le pene e gli stati d’umore grevi e dolorosi che tormentano e assillano senza una relativa consapevolezza chi li ha messi al
mondo. Genitori, magari, in apparenza anche abbastanza buoni, ma di
fondo distratti, noncuranti e, in breve, incapaci di quella “mutualità” relazionale che dovrebbe, almeno nei primi periodi di vita, saper far atto di
rinuncia di mete e progetti personali in favore del tenere in mente e impegnarsi a sviluppare il potenziale dei figli con sguardo decentrato non pregno della propria mentalità e della propria sofferenza.9
Ferenczi e Winnicott sarebbero così, in altri termini, “spoilt children”
(Borgogno, 1999a; Borgogno, Vallino, 2006), ed è giustappunto quest’intimo
aspetto del loro universo interiore che si incarna nel singolare stile analitico che li caratterizza e che brilla nelle copiose deduzioni che ci mettono a
disposizione sulle radici e sulla fenomenologia del dolore psichico, e su quali
siano le vie più adeguate per proficuamente sceverarlo e raggiungerlo. Tra
i due vi è nondimeno una qualche differenza di tono nell’evidenziare le
varie forme di carenza subite: il primo è in talune circostanze pressoché
senza pudore nel farlo in pubblico e in privato, mentre il secondo – più
5
Il concetto di “wise baby” compare per la prima volta in Ferenczi nel 1923, nel breve
scritto Il sogno del «poppante saggio», ma è esplorato nei suoi vari aspetti soprattutto nei lavori
dell’ultima parte della sua vita (vedi in particolare Ferenczi, 1928b, 1929ab, 1931, 1932a), oltreché nei Frammenti e annotazioni (1920-1932) e nel Diario clinico (1932b). La versione moderna
di tale concetto potrebbe essere il “bambino resiliente” ma i cultori di questo nuovo concetto non
devono dimenticare che la “resilienza” è pur sempre un “salto mortale di adattamento” e non
solo l’“indice di risorse importanti” del soggetto.
6
Anche il concetto di “falso sé” di Winnicott, come quello di “wise baby” di Ferenczi, percorre tutti gli scritti della sua opera. Si vedano in particolare i seguenti lavori: 1949, 1952, 1960,
1964b, 1967e, 1968, 1986.
7
Il concetto di “progressione traumatica” (Ferenczi, 1929a), che è straordinariamente
simile a quanto osserva in tutti i suoi lavori Winnicott circa la dissociazione psiche-soma, è
anch’esso presente nell’opera di Ferenczi fin dai suoi primi scritti, anche se è messo a fuoco sotto
questa specifica dizione unicamente negli ultimi scritti e nel Diario clinico.
8
Ferenczi – adombrando il divario presente in questo tipo di pazienti fra “sentire inconscio” e “conoscere non sentito” (22-III-1931 in 1920-32) – sottolineava già nel 1919 che sono
pazienti «che sentono e non pensano, che pensano e non sentono, che vedono ogni piccolo cambiamento di umore dell’altro ma non si vedono, che si vedono ma non vedono gli altri…»
(Ferenczi, 1919), cercando di conseguenza di apprestare una cura analitica volta a predisporre
le condizioni affettive per poter risvegliare e integrare gli “stati psichici congelati, dissociati e
agonici” (Ferenczi, 1920-32, 1932b; Borgogno, 1999b).
9
L’intera opera di Ferenczi e Winnicott – sia quella teorica sia quella focalizzata sulla
pratica – trasuda di considerazioni relative al narcisismo dei caregivers e degli analisti, esplorando la ricaduta – nello sviluppo dell’individuo e nell’evoluzione di un’analisi – di una tale propensione che genera conformismo, imitazione e identificazione nell’altro piuttosto che riconoscimento di sé e integrazione del proprio mondo interno e dei vari aspetti idiosincratici del
proprio carattere.
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opportunisticamente e forse più opportunamente – di solito lo cela10 esaltando una natura serena e giocosa che, a dire il vero, occhieggia qua e là
nello stesso Ferenczi allorché – pioniere sconosciuto dello studio dell’area
transizionale (Ferenczi, 1931) – tratta il gioco come dimensione dialogica
“tra-due” menti.
Winnicott in ogni caso, benché gli debba “essere piaciuto” travestire la
ferita con un “piglio da folletto”, non lesina di certo lo spazio nel mostrare
il danno che può provenire da un ambiente affettivo-cognitivo improprio.
Con non minore forza e determinazione rispetto a Ferenczi egli dà infatti
ripetuta prova di conoscere ciò di cui ha bisogno un bambino per un sano
sviluppo rivelando un’esercitata sintonia nel mettersi nei suoi panni, privo
di quelle riserve e di quel sospetto che hanno permeato un gran numero di
psicoanalisti a contatto con l’“infantile” e con il “primitivo”, a cominciare da
Freud e da non pochi colleghi e colleghe fra cui Melanie Klein (Winnicott,
1958, 1963bcd, 1963-74, 1965, 1971ab).
Individuati a grandi tratti i personaggi principali del loro discorso –
il “chi parla a chi” – pongo a conclusione di questa mia prima tranche di
considerazioni una rapida comparazione con Melanie Klein, a costo di
sembrare irriverente e superficiale. In un’ottica moderna e post-moderna
la sua prioritaria concezione dei lattanti e dei bambini piccoli, come
“crazy” e non “baby” (ricordo che anche Vincenzo Bonaminio in un nostro
dialogo si è espresso in passato in questi termini), appare non corredata
da sufficiente identificazione nei loro riguardi fino a generare, saltuariamente, l’impressione dolorosa che essa ignori, per misteriose ragioni probabilmente collegate alla sua storia di vita,11 “il forte potenziale di coerenza” delle correnti affettive precoci della “relazione primaria” (“the
working of children’s feelings”). Malgrado ciò, la Klein spartiva con
Ferenczi e Winnicott un importante talento: l’entusiasmo e la devozione
nell’assolvere il compito terapeutico (una sorta di compartecipato “furor”,
pur se indirizzato da lei diversamente: non tanto sull’healing, ma sull’analysing); e credo sia stato proprio questo fattore ad averla messa in
grado di riaccendere e rianimare anch’essa l’appassionata “strahlende
Intelligenz des Kindes” (“la radiosa intelligenza dei bambini”) di cui parlava Freud (1909).
10
Fanno eccezione le sue lettere a Riviere, Klein e Bion (Winnicott, 1987) dove, anch’egli, chiede in modo esplicito un riconoscimento che sente non essergli dato.
11
Stando alla biografia di Melanie Klein non si evince una madre meno narcisistica e
depressa di quella che toccò in sorte a Ferenczi e a Winnicott, ma se mai ancora più francamente “interferente” (Grosskurth, 1987).
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L’entusiasmo e la vitalità, però, sovente sostituiscono e rimediano un
vuoto e un buco del caregiver avvertiti non consapevolmente, dei quali ci si
è fatti carico sentendosene responsabili nel tentativo non inusuale di fuggire la propria depressione (Ferenczi, 1920-32, 1932ab; Klein, 1935;
Winnicott, 1948, 1949, 1954a, 1969a, 1989). Possono difatti nascondere dietro a essi, al di là dell’attenzione e del concern manifestati, una florida
richiesta sotterranea di venire contraccambiati, come d’altro canto succede
a tutti i “wise baby” che nonostante siano “wise” rimangono immancabilmente “baby”. Uno spruzzo di grandiosità “euforica”, a tratti “ribalda”, traspare pertanto – alla resa dei conti – nei comportamenti di tutti e tre questi pionieri (Ferenczi, Klein e Winnicott), come del resto accade a tutti i geni
creativi (Speziale-Bagliacca, 2002).
“A total immersion right to the mothers”: l’importanza del materno
È la famiglia che “deve adattarsi al bambino e non viceversa”, ha scritto Ferenczi (1927, 1932b), vigorosamente spalleggiato in questo postulato
cruciale da Winnicott che ha messo anch’egli in primo piano una madre
devota e non narcisistica che “si adatta attivamente” alle esigenze di rapporto e di comunicazione del neonato al fine di permettergli di “sentirsi
reale” (di sentire, ossia, di essere desiderato e amato nella sua unicità) e di
sentire riconosciuta e non fraintesa la “sua originale linea di vita” e il suo
“vero sé” (Winnicott, 1963a, 1967ce, 1969b, 1970).
Ecco – paiono senza incertezza e tentennamenti sostenere tutti e due –
dove sorge il disturbo psichico: dal “rovesciamento dell’adattamento” quando nell’accudimento dei bambini la permeabilità, la debolezza, la dipendenza estrema dal contesto umano di cui sono intrisi i figli sono minacciate, messe a repentaglio e sabotate dall’“intrusione” e dall’“estrazione” dell’altro. Da “impianto” ed “espianto” per Ferenczi (1920-32, 1932b), da
“impingement” per Winnicott (Winnicott, 1958; Rodman, 2003): da una violazione, in pratica, dell’essenza personale dell’anima del bambino, relativa
al fallimento genitoriale nel comprendere i significati del mondo psicologico infantile e nell’“assumere i dovuti obblighi” verso la prole che viene,
quando ciò accade, lasciata in stato di parziale o totale “abbandono” e
“disconferma” psichici. Un fallimento pur sempre dovuto a mancanza di
responsività per “eccesso” e “difetto” di pulsioni nei genitori e per una loro
“inclinazione trasformativa” non idonea o insufficiente, non di rado di
marca proiettiva piuttosto che introiettiva come invece sarebbe conveniente agli albori dell’esistenza.12 L’esistenza infatti, nella prospettiva che essi
condividono, esita con facilità in una condizione di “non esistenza” e di
“morte psichica”, a meno che non intervenga un robusto aiuto e una favorevole situazione di protezione a porgere l’“immunizzazione fisica e psichica di base” che sta a fondamento del vivere e della sua “significatività”
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(Ferenczi, 1929a) contro il concreto “morire di tristezza e di inesistenza” che
Spitz più avanti mostrerà nelle sue osservazioni dei neonati ospedalizzati e
privi di genitori e contro lo struggente scoramento della solitudine emozionale di cui la stessa Klein parlerà poco prima della sua morte.13
L’istinto, in sintesi, nel loro modello di sviluppo, non è perciò affatto il
motore preminente di crescita, come postulavano Freud e Klein, poiché – al
di là della “pienezza” e della “rapidità” con cui fin dai primi giorni si accrescono gli organi e le loro funzioni – l'“impulso vitale” che rende la vita
“degna di essere vissuta” e non semplicemente un sopravvivere è dato dal
profondo vincolo primario con la madre (Ferenczi, 1929a; Winnicott, 1967d,
1971b). A esso nessun istinto o dote innata potrà mai davvero sopperire e,
se in certi casi è la potenza dell’istinto che sembra “farla da padrone”, è
piuttosto la storia di un fallimento d’ambiente, rimossa e dissociata, che
dovrà essere cercata dietro ciò che, erroneamente, può venir preso di primo
acchito come espressione abnorme dell’istinto. Un’evidenza, quest’ultima,
che bene emerge dalla loro casistica clinica quando dipingono un inconscio
che non è niente altro che un “luogo somatico” popolato di aspetti del sé e
degli oggetti disertati oppure mai nati psichicamente (Wright, 1991, 2008)
a causa di un “allevamento” difettoso che non li ha al momento opportuno
adeguatamente risvegliati e rispecchiati.14
Di fronte a siffatta coincidenza di tesi non può, d’altro canto, nuovamente sorprendere il fatto che nella storia della psicoanalisi siano stati proprio questi due autori ad avere posto in primo piano un intervento terapeutico elastico e flessibile (vedi a questo proposito L’elasticità della tecnica psicoanalitica [1928a] di Ferenczi) che permetta la regressione
(Ferenczi, 1929b, 1931, 1932ab; Winnicott, 1954b, 1955, 1967a, 1989) del
paziente senza introdurre nel suo sviluppo personale un “quid alieno” (sensazione, parola e sentimento), ad avere ossia indicato – di conseguenza –
12
La madre per essere tale non deve opporsi al “venire temporaneamente parassitata”,
dichiarava Ferenczi (23 febbr. 1932 in 1932b) anticipando quanto Winnicott (1956), sulla stessa
onda ideativa, segnalava attraverso l’indispensabilità di una “preoccupazione materna primaria”.
13
In Sul senso di solitudine, presentato nel 1959 e pubblicato nel 1963, e allorché, poco
prima di morire, dirà – secondo quanto riferisce il figlio Erich – di sentirsi molto angosciata a
causa del pianto sconsolato di un piccolo bambino nella stanza di ospedale accanto alla sua
(Grosskurth, 1987).
14
Va qui assolutamente menzionato l’esemplare libro Le origini dell’amore e dell’odio di
Ian Suttie, che già alla fine degli anni Venti influenzato da Ferenczi proponeva con decisione
questa concezione dello sviluppo psichico (Suttie, 1935). Un autore, Suttie, che è stato anche
lui del tutto censurato dalla comunità psicoanalitica, ma che nonostante ciò ha influenzato il
pensiero di Winnicott come di molti altri psicoanalisti britannici appartenenti al gruppo degli
“Indipendenti”.
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quanto sia irrinunciabile la “costruzione di uno spazio psichico” che consenta la “rappresentabilità” non dandola già per esistente e quanto di
rimando possa essere iatrogeno il processo dell’introiezione, principalmente nella sua forma “incorporativa”. Una fonte a loro avviso – l’introiezione
primaria – non puramente benefica, ma crogiuolo di fatti (e di misfatti, si
potrebbe aggiungere) di per sé difficili da intercettare e, per questo motivo,
a lungo parzialmente ignorata dalla nostra letteratura che ha indiscutibilmente favorito l’esplorazione della sua controparte, vale a dire l’ambito dei
fenomeni proiettivi, a scapito di quanto pertiene – poiché non ancora simbolizzato – al registro della “circolazione corporea”.15
Nel paziente come nel bambino, nei “nuovi nati” – essi ci avvisano apertis verbis – è sempre forte l’arrendevolezza e la docilità dell’“esistere nelle
forme di altri” con risultante “cedimento di sostanza vivente” appartenente
al proprio sé, come analogamente forte è la spinta del “partner più avvantaggiato della diade” a imprimere nel più sfornito la sua lingua e il suo
potere (leggasi: le sue necessità e la sua ideologia) a scopi impropri di sfruttamento. Valgano per tutto ciò la nota immagine di Ferenczi della “maturazione precoce dei frutti teneri e dolci beccati dagli uccelli” (Ferenczi,
1932a) e, corrispettivamente (pensando all’esito di svuotamento e di immiserimento psichico dovuto a una simile invasione determinata dall’odio
genitoriale che porta al “percepirsi niente”), il paragone a tutta prima insolito a cui attinge Winnicott per raffigurarlo: “Sono, come le Danaidi del mito
greco, condannati a trasportare acqua in cesti bucati” (Winnicott, 1969a).
Siamo a questo punto arrivati, per chiudere la mia seconda tranche di
riflessioni, al trauma: un deciso cavallo di battaglia che interseca la teoria
e la tecnica che li accomuna. Un trauma che, contrariamente al trend in
quegli anni maggioritario, non è un prodotto di fantasia, bensì un coacervo
di esperienze – condensatesi cumulativamente – realmente accadute ma
“registrate nella carne” e molte volte, naturalmente, non integrate e poco o
nulla metabolizzate.16 Un trauma ch’essi pensavano dovesse inevitabilmen-
15
Ferenczi (1909; 1920-1932; 1932b), Winnicott ma anche Paula Heimann (1939-1980) e
Ronald Fairbairn (1952) in tutti i loro scritti hanno dato un contributo notevole rispetto alla
differenziazione delle varie forme di introiezione: un contributo purtroppo a noi per lo più ignoto
e rimasto inascoltato. Hanno per esempio, per dirla sinteticamente, differenziato le forme di
introiezione attiva da parte del soggetto e quelle, al contrario, subite passivamente quando il
soggetto non aveva alcuno strumento per potersi davvero opporre e per potere quindi ostacolare la loro assimilazione.
16
Un trauma che, sia per Ferenczi che per Winnicott, poteva essere dedotto dalle “cicatrici psichiche” di cui il paziente porta traccia (Lettera di Freud a Ferenczi, 16 settembre 1930,
in Freud, Ferenczi, 1919-1933) e dai segni di “annientamento”, “apatia”, “agonia”, “crollo” e
“catastrofe” a esso conseguenti (Winnicott, 1963-1974).
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te e reiteratamente “riproporsi” (Ferenczi, 1924) entro l’analisi17 perché
sostanzialmente in attesa di quell’“insieme di risposte portatrici di ‘elementi di contrasto’ rispetto alle vicende del passato” (Ferenczi, 1929b,
1932ab) che – ri-innescando la scintilla della speranza nell’affidabilità dell’ambiente e della propria dotazione – permette, proprio grazie all’essere
rivissuto nelle sedute e all’averne ottenuto una possibilità di raffigurabilità
e di pensabilità, un “new beginning”.18 Un trauma che sarebbe, cioè, in attesa di un nuovo incoraggiamento a “provare e pensare fino in fondo eventi
psichici traumaticamente interrotti” (Ferenczi, 26-III-1931 in 1920-32) al
fine di “completare” una parte di esperienza mai rappresentata.
Un trauma infine, che – non in modo sporadico – può anche non pertenere all’“area dell’accaduto”, ma “a ciò che sarebbe dovuto accadere” nello
sviluppo fisiologico ma che all’opposto non è avvenuto. Un trauma, in quest’ultimo caso, che richiama a prestare attenzione all’“omissione di soccorso” e che richiede un globale ripensamento dei “fattori di malattia e di salute psichica”, che non possono essere ridotti a vicissitudini di frustrazione e
non gratificazione senza tenere conto con pari sollecitudine dei sottili e subdoli insulti e violenze alla propria integrità (Ferenczi, 1920-32, 1932b;
Winnicott, 1963-1974, 1969c, 1989; Borgogno, 2005).
È sottointeso in questa loro conclusione che per Ferenczi e per Winnicott
la posta in gioco nello sviluppo e nell’analisi fosse per il bambino e per il
paziente anzittutto “la ricerca della ‘realtà’” e non la sua evasione o deformazione (Winnicott, 1944). Se la “realtà” infatti non è presentata al momento giusto e in dosi confacenti esita nella sua stessa scomparsa insieme a quella del soggetto che, non avendola “ricevuta”, non la può “ricreare”, “fare propria” e di conseguenza vivere come un dato evidente non eliminabile dalla
fantasia. In definitiva, sarebbe la dimensione personale e interpersonale ciò
che permette o meno l’“accesso alla percezione del reale” e ciò che, instancabilmente, il bambino e altresì il paziente si sforzano di incontrare.
Scrive Winnicott (1967c):
“Quando io guardo vengo visto, quindi esisto.
Ora posso permettermi di guardare e vedere.
17
“Regressione è re-visione”, osserva Winnicott (vedi Wright, 1991) in completa sintonia
con il Ferenczi che sostiene che la ripetizione è un’occasione di “ri-inscrizione” – da un’angolatura alternativa – di inassimilati real life’s events e non soltanto di lived events (Ferenczi, 26III-1931 in 1920-32).
18
Un concetto, quello di new beginning, reso famoso dal principale allievo di Ferenczi,
Michael Balint, che lo ha ufficialmente introdotto nel 1932 e nel 1934. Tuttavia, sotto la chiara
influenza di Ferenczi, quest’idea è già presente nei suoi scritti sin dal 1930 quando Balint
affronta il processo biologico della regressione. Vedi: Balint, 1952.
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Ora guardo creativamente e ciò che appercepisco, lo percepisco.
In realtà non mi interessa vedere ciò che non è lì per essere visto
(a meno che non sia stanco)”.
Ferenczi e Winnicott, fondatori di futura discorsività
Per terminare, Ferenczi e Winnicott – ingegni ispiratori e luminosi poeti,
fondatori di una discorsività futura – hanno avversato con le loro peculiari
idee sia gli aspetti ipocriti e moralistici che ci abitano, sia la “normoteticità” e
la “paura dei sentimenti e del rapporto” che davano loro uggia. Hanno in altre
parole – grazie alla loro “immaginazione etica” e con l’affermare che “è il contesto relazionale passato e presente che rende comprensibili le cose” – concorso a curare la “cura che in precedenza si prestava ai pazienti” (Winnicott,
1964a), e lo hanno fatto da una parte combattendo l’“ovvio” e, dall’altra, riattivando e re-inscrivendo nel nostro “genoma mentale ed emozionale” di psicoanalisti diverse “risorse psichiche” e “voci disperse” essenziali per divenire
pienamente individui, e altrettante “funzioni parentali date per scontate” o
“soffocate” dalla gergalità dell’establishment,19 contribuendo così ad ampliare
le effettive potenzialità integrative che la psicoanalisi può offrire.
Hanno inoltre, nel loro soggettivo e personale perseguimento della
verità, non solo potuto opporsi come partner franchi e solidali, e non unicamente discepoli, ai maestri (il primo a Freud, il secondo a Klein), ma anche
saputo essere allievi dei propri rispettivi pazienti potendone in tale modo
accogliere suggerimenti e insegnamenti che li hanno portati a porsi e a porgerci una vasta gamma di interrogativi fondamentali per il nostro domani
disciplinare e professionale.
Certamente, non essendo divenuti padri nella loro vita (fu questo il
segreto cruccio doloroso delle loro esistenze), hanno reso in non poche circostanze “figli sostitutivi” coloro di cui si sono occupati con tutte le inevitabili ricadute che scaturiscono da siffatto trattamento “speciale”, ma – ciononostante – hanno indubbiamente accresciuto di molto la nostra pensabi-
19
Funzioni – lo preciso – non esclusivamente di “madre” ma anche di “padre”, annunciando con questa precisazione una mia futura terza tranche di osservazioni centrata sulle funzioni paterne e non esclusivamente materne che con il loro tragitto analitico e il loro lavoro clinico hanno contribuito a mettere in luce delineando in maniera personale ciò che è “femminile”
e “maschile” all’interno dello sviluppo e di un trattamento. Un’area, questa, che in questa sede
per questioni di spazio non ho potuto approfondire, come del resto non ho qui approfondito tutta
l’attenzione che essi hanno riservato al problema dell’odio e del negativo nel controtransfert e
nell’analisi.
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F. Borgogno: Ferenczi e Winnicott: “a partially missing link” 139
lità e disponibilità rispetto all’essere contemporaneamente figli e genitori
nel nostro status di adulti e di professionisti, e penso si situi esattamente
qui una delle ragioni per cui essi appaiono oggi a parecchi di noi progenitori più attraenti di altre figure “storiche” del nostro albo genealogico.
Per questa loro caratteristica di sapersi situare più consapevolmente
sia nel ruolo di bambini piccoli sia nel ruolo di adulti limitati seppure competenti hanno, in conclusione, alleggerito la quota di “terrorismo della sofferenza” che accompagna inesorabilmente la “paura di soffrire” presente
nella nostra formazione e nel nostro lavorare quotidiano, aprendo in questo
modo la psicoanalisi allo studio di quelle personalità che pongono al “limite” e alla “prova” lo psicoanalista che cerca di occuparsene e anticipando la
successiva esplorazione della moderna psicoanalisi sugli stati borderline e
psicotici della mente (Borgogno, 1999a, 2002).
Riassunto
Lo scopo di questo lavoro è presentare lo stretto legame fra il pensiero teorico,
clinico e terapeutico di Ferenczi e quello di Winnicott, segnalando al tempo stesso
come questo legame sia divenuto nella storia delle idee psicoanalitiche una sorta di
“missing link”, tutt’oggi in parte operante. Nella prima parte, intitolata “Chi parla a
chi?”, l’Autore esplorerà i contenuti principali del loro messaggio sottolineandone le
vicendevoli somiglianze e differenze, e soprattutto svelerà quelli che a suo parere
sono gli interlocutori impliciti ed espliciti a cui essi si rivolgono. Nella seconda parte
verrà affrontata la sottostante direzione generale del loro “percorso d’opera e di vita”
all’insegna innanzitutto del “materno”, direzione di cui viene considerata la ricaduta
teorica e tecnica che l’accompagna e ne deriva. Nella terza, “a congedo”, saranno presentate a volo d’uccello alcune riflessioni conclusive sul significato delle loro idee per
la psicoanalisi attuale e sul loro essere ed essere stati entrambi, per molti versi, “fondatori di futura discorsività”.
Parole chiave: Ferenczi, Winnicott, il materno, trauma, rovesciamento dei ruoli,
storia delle idee psicoanalitiche.
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Franco Borgogno, Psicoanalista con funzioni di training (Società Psicoanalitica Italiana).
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