Sulla scia dell’intuizionismo bergsoniano, in particolare del principio
dell’”evoluzione creatrice”, Pirandello concepisce l’universo come incessante
divenire, sempre identico a se stesso e insieme sempre mutevole. La vita nel
suo perenne dinamismo vanifica ogni norma, ogni limite con cui l’intelletto
cerca di darle forma. Nel flusso incessante della vita dell’universo è immerso
naturalmente l’uomo, che, mentre si sente trasportato in esso, vorrebbe anche
comprenderne la ragione, racchiuderlo entro qualche schema o sistema. Si
sforza di capire, ma la sua ricerca rimane senza esito. Gli sfugge
inesorabilmente la conoscenza dell’essenza delle cose, della quale non può
afferrare che aspetti esteriori e parziali. Sono queste le “forme” delle cose, che
non corrispondono alla verità ultima in quanto mutate e falsificate
continuamente dal flusso della vita, che non ha sviluppo lineare ma è
governato dal caso. Agisce qui un altro concetto di origine bergsoniana,
quello del tempo come “durata”. Per Pirandello la nozione di tempo
nell’accezione comune, cioè come categoria oggettiva e convenzionale per
indicare il passato, il presente e il futuro, si addice alle forme create dall’uomo
per esigenze pratiche; è essa stessa una forma, priva di fondamento e falsa .
La vera dimensione del tempo è quella
soggettiva, quella del tempo registrato e
misurato dalla coscienza di ciascuno:
questo prescinde dalla successione passato
– presente - futuro, non procede
linearmente, a senso unico, e risulta diverso
da soggetto a soggetto. Di conseguenza,
ogni individuo è un mondo complesso e
multiforme a sé stante, che non comunica
con gli altri con i quali pure si incontra e si
scontra. Per questo l’individuo, assediato
dalla molteplicità di parvenze che lo
imprigionano, finisce per non ritrovarsi, per
non essere più se stesso, per alienarsi, in
preda alla solitudine e all’angoscia. Il
contrasto vita/forma equivale al contrasto
fra ragione e realtà, fra illusione e realtà: la
ragione tende all’ “essere”, mentre la realtà è
solo e sempre “divenire casuale”.
Pirandello distingue fra comicità e umorismo, sottolineando la
diversità fra arte comica e arte umoristica e i diversi effetti che
comicità e umorismo producono. Per Pirandello la comicità
consiste nell’avvertimento del contrario, nella sorpresa
improvvisa e immediata di qualcosa che appare diversa, contraria,
da come la si aspetterebbe e , perciò, produce immediatamente il
riso. L’umorismo, invece, consiste nel sentimento del contrario
ovvero in una comprensione della realtà che passa attraverso la
riflessione, l’intervento critico, l’analisi, ed è perciò più profonda ,
va oltre l’apparenza immediata. L’umorismo produce un riso non
automatico e superficiale, ma consapevole e drammatico, in parte
comico e in parte tragico, capace di allegria ma anche di pietà e
compassione.
L’io si frantuma dunque in mille aspetti. Nel caleidoscopio delle forme e delle
apparenze, l’uomo si ritrova privo di una precisa ed unica identità; cerca di
conoscersi, ma scopre di essere una “maschera nuda”. Nella realtà di ogni giorno
gli individui non si mostrano mai per quello che sono veramente, ma in ogni
momento, in ogni circostanza, assumono una maschera diversa, che li fa
“personaggi” e non li rivela come “persone”. L’esistenza dell’individuo chiama in
causa la convivenza sociale, i rapporti con gli altri e mette in luce un altro
contrasto, quello tra individuo e società. Come è impossibile la conoscenza di
noi stessi, così sono impossibili rapporti autentici fra gli individui. Si possono
stabilire con gli altri solo rapporti mediati da atteggiamenti esteriori, dalle
forme delle maschere, dai modelli dei ruoli che ciascuno è costretto ad
assumere per poter vivere e operare in società, o che gli altri e la società in
genere impongono. Queste maschere – ruoli sono prodotti dalle disposizioni
naturali di ciascuno, dalla condizione sociale, dall’educazione, dalla cultura, da
tutta la serie di convenzioni sociali in mezzo alle quali l’individuo si trova a
vivere.
Il romanzo narra la singolare vicenda di Mattia Pascal che, cercando una
momentanea evasione da un matrimonio fallimentare e dal noioso impiego nella
biblioteca di un centro di provincia, arriva a Montecarlo, dove vince una grossa
somma al gioco. Per caso apprende dai giornali la propria morte: la moglie, i parenti
e gli amici lo hanno riconosciuto nel cadavere di uno sconosciuto trovato in un
canale. Decide allora di approfittare della situazione e di costruirsi una nuova
identità e una nuova vita. Si inventa il nome di Adriano Meis, si costruisce un
passato plausibile e si stabilisce a Roma, dove pian piano gli si ricrea attorno la rete
dei rapporti sociali, gli amici, i nemici, l’amore. Presto però si rende conto
dell’impossibilità di esistere al di fuori di ogni legge: non può trovarsi un lavoro, non
può far valere i propri diritti, non può abbandonarsi con sincerità al sentimento
amoroso né difendere la donna amata. La sua libertà senza anagrafe non serve a
nulla, perché rimane sempre un morto, e come vivo è un clandestino. Tenta quindi
di riacquistare la sua primitiva identità, simulando il suicidio di Adriano Meis. Ma,
tornato al paese natale, scopre di essere ormai un estraneo per i compaesani e per la
moglie, che si è felicemente risposata. Non gli resta quindi che sopravvivere a se
stesso adattandosi a non essere altro che “il fu Mattia Pascal”.
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