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lunedì 8 settembre 2014
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L’ARCI SUI MEDIA
Da il Salvagente – numero unico in edicola ad Agosto, pag. 76
TUTTI A SABIR IN OTTOBRE
Segnate i giorni: 1-5 ottobre, appuntamento a Lampedusa con “Sabir”, Festival delle
culture diffuse del Mediterraneo, con dibatti, laboratori, spettacoli. Sabir era l’idioma
parlato in tutti i porti del Mare Nostrum, una sorta di ponte linguistico che consentiva a
marinai e mercanti di comunicare. Ora richiama il ruolo dell’isola come ponte tra le due
sponde del Mediterraneo e luogo di scambio di culture, tradizioni, saperi. Promosso da
Arci, Comitato 3 ottobre e Comune di Lampedusa, avrà la direzione artistica di Ascanio
Celestini (per gli eventi teatrali) e Fiorella Mannoia (per quelli musicali).
Da Redattore Sociale del 05/09/14
Minori stranieri: a Messina 54 in un tendone
fatiscente. Arci: "Vanno tutelati"
Il responsabile immigrazione, Filippo Miraglia: “Chiediamo un
collocamento e un’accoglienza adeguata. I minori non accompagnati
oggi possono contare solo sul buon cuore dei volontari. Non può
essere questo il sistema adottato”. A Pontivrea accoglienza gestita
senza nessuna convenzione
ROMA – Collocamento e accoglienza adeguata per i minori stranieri non accompagnati
che vivono in condizioni inadeguate, e oggi possono contare solo sul “buon cuore” di
associazioni e volontari. A chiederlo è Filippo Miraglia, responsabile immigrazione
dell’Arci, che in una nota sottolinea lo stato di abbandono dei minori non accompagnati a
Messina, e a Pontivrea, in provincia di Savona.
“Da mesi abbiamo segnalato la presenza di 11 minori all’interno del Pala Nebiolo di
Messina: una tendopoli che continua ad allagarsi a ogni pioggia. Un posto inadeguato per
gli adulti, figuriamoci per i minori – spiega Miraglia -. 11 minori, tutti richiedenti protezione
internazionale, costretti a convivere con persone adulte e ai quali non è dedicato alcun
percorso di integrazione se non la tutela e l’orientamento garantito dalla tutrice dell’Arci.
Oggi denunciamo che i minori presenti nella tendopoli sono 54”. Secondo il responsabile
Arci, questa non è l’’unica struttura in cui si fa fronte all’accoglienza dei minori facendo
leva solo sul buon cuore degli operatori. “Anche a Pontinvrea, a dieci km nell'entroterra di
Albisola, ci sono 12 minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo, arrivati in Liguria
tramite l'associazione La Forza della Vita di Modica senza nessun inserimento formale –
aggiunge -sono ospitati in una comunità per minori gestita dalla Cooperativa Re.So.Sa. di
Acqui Terme, che però non ha nessuna convenzione (e non è riuscita ad averla) ma che di
fatto, per buon cuore, si sta prendendo cura dei minori con fondi propri senza avere
competenze specifiche che permettano di tutelare e orientare adeguatamente i minori.
Anche in questo caso operatori volontari dell’Arci si stanno adoperando per preparare i
minori alle audizioni in commissione”.
“Finora abbiamo creduto nei buoni propositi e nelle migliori intenzioni che il piano
nazionale sull’accoglienza dichiarava in materia di minori stranieri non accompagnati
(msna). Così abbiamo segnalato sempre, a chi di competenza, tutte quelle situazioni
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inadeguate per qualsiasi minore nelle quali erano costretti molti ragazzi giunti in Italia da
soli – conclude il responsabile immigrazione -L’Arci è stata promotrice, in accordo con i
giudici tutelari, di un sistema di tutori volontari in Sicilia che ha coinvolto centinaia di
persone, che sono state formate per sostenere e monitorare il percorso di questi minori.
Adesso gli stessi tutori non comprendono l’indifferenza e l’approssimazione con cui è
gestita l’accoglienza di questi ragazzi. Buon cuore, volontariato, inserimenti informali,
tendopoli: non può continuare a essere questo il sistema adottato per i minori stranieri non
accompagnati!”
Da Immezcla del 06/09/14
Arci, collocamento e accoglienza adeguata
per i minori stranieri non accompagnati
Collocamento e accoglienza adeguata per i minori stranieri non accompagnati che vivono
in condizioni inadeguate, e oggi possono contare solo sul “buon cuore” di associazioni e
volontari. A chiederlo è Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci, che in una
nota sottolinea lo stato di abbandono dei minori non accompagnati a Messina, e a
Pontivrea, in provincia di Savona.
“Da mesi abbiamo segnalato la presenza di 11 minori all’interno del Pala Nebiolo di
Messina: una tendopoli che continua ad allagarsi a ogni pioggia. Un posto inadeguato per
gli adulti, figuriamoci per i minori – spiega Miraglia -. 11 minori, tutti richiedenti protezione
internazionale, costretti a convivere con persone adulte e ai quali non è dedicato alcun
percorso di integrazione se non la tutela e l’orientamento garantito dalla tutrice dell’Arci.
Oggi denunciamo che i minori presenti nella tendopoli sono 54”. Secondo il responsabile
Arci, questa non è l’’unica struttura in cui si fa fronte all’accoglienza dei minori facendo
leva solo sul buon cuore degli operatori. “Anche a Pontinvrea, a dieci km nell'entroterra di
Albisola, ci sono 12 minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo, arrivati in Liguria
tramite l'associazione La Forza della Vita di Modica senza nessun inserimento formale –
aggiunge -sono ospitati in una comunità per minori gestita dalla Cooperativa Re.So.Sa. di
Acqui Terme, che però non ha nessuna convenzione (e non è riuscita ad averla) ma che di
fatto, per buon cuore, si sta prendendo cura dei minori con fondi propri senza avere
competenze specifiche che permettano di tutelare e orientare adeguatamente i minori.
Anche in questo caso operatori volontari dell’Arci si stanno adoperando per preparare i
minori alle audizioni in commissione”.
“Finora abbiamo creduto nei buoni propositi e nelle migliori intenzioni che il piano
nazionale sull’accoglienza dichiarava in materia di minori stranieri non accompagnati
(msna). Così abbiamo segnalato sempre, a chi di competenza, tutte quelle situazioni
inadeguate per qualsiasi minore nelle quali erano costretti molti ragazzi giunti in Italia da
soli – conclude il responsabile immigrazione -L’Arci è stata promotrice, in accordo con i
giudici tutelari, di un sistema di tutori volontari in Sicilia che ha coinvolto centinaia di
persone, che sono state formate per sostenere e monitorare il percorso di questi minori.
Adesso gli stessi tutori non comprendono l’indifferenza e l’approssimazione con cui è
gestita l’accoglienza di questi ragazzi. Buon cuore, volontariato, inserimenti informali,
tendopoli: non può continuare a essere questo il sistema adottato per i minori stranieri non
accompagnati!”.
http://www.immezcla.it/notizie-immigrazione/item/521-filippo-miraglia-messina-pontivreasavona.html
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ESTERI
del 08/09/14, pag. 12
Ucraina, si combatte nell’Est bombe in
aeroporto a Donetsk è giallo sulle armi date a
Kiev
La tregua non regge: “Uccisi una donna e i suoi bambini” L’Italia pronta
a fornire elmetti e giubbotti antiproiettile
PAOLO G. BRERA
DAL NOSTRO INVIATO
MOSCA .
Troppo difficile, tenere a bada questo partito della guerra.
La labile tregua siglata a Minsk è strattonata dall’irrequietezza delle bande armate, da
volontari e mercenari che né Kiev né il frastagliato comando ribelle, o il Cremlino, riescono
a controllare (non volendo credere siano essi stessi a suggerire o ordinare di rompere il
cessate il fuoco). Si spara all’aeroporto di Donetsk; ci si massacra nei dintorni di Mariupol,
dove insieme alle anime di soldati, volontari e mercenari la guerra si è presa una «mamma
con due bambini». A Spartak, nord di Donetsk, le scaramucce sono diventate bombe, e
qualche casa non esiste più.
Nuovi lapilli sulle fascine, intanto: Kiev ha annunciato che durante il vertice Nato alcuni
Paesi tra cui l’Italia (con Usa e Francia, Polonia e Norvegia) «aiuteranno l’Ucraina
fornendo armi». Parole che Roma ha subito corretto: solo «elmetti e giubbotti
antiproiettile». Oggi l’Ue dovrebbe varare le nuove sanzioni contro Mosca, che aggiornano
in senso accrescitivo le precedenti. Mosca ha già annunciato che reagirà con durezza.
«Siamo pronti a fare un passo indietro se tiene la tregua», si cautela il presidente del
Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ma non c’è ottimismo. Il ponte sul fiume Kwai, in
questa guerra di bande, è Mariupol, il porto in un crocevia strategico tra la frontiera russa e
la Crimea. Da quando gli operai dell’oligarca Akhmetov cacciarono il manipolo di ribelli che
aveva preso la città, liberando le barricate, Mariupol era tornata una tranquilla e operosa
città industriale di 500mila persone, lontana dal clamore della guerra.
Improvvisamente, mentre Poroshenko e Putin si stringevano la mano a Minsk è diventata
il grande obiettivo da conquistare o da difendere.
Le truppe molto ben armate dei ribelli, evidentemente ben foraggiati da oltre confine, sono
a una decina di chilometri dalla periferia, verso Novoazovsk, e per giorni hanno
bombardato duro i check point ucraini. Dall’altra parte, accanto ai volontari che erigono
difese e trincee, combatte la brigata paramilitare Azov, anima e cuore neonazista alle
dirette dipendenze del ministero degli Affari interni di Kiev. Yuri Khotlubey, sindaco di
Mariupol, ieri ha annunciato l’arrivo dell’artiglieria a presidiare la città sotto attacco dei
ribelli. La brigata Azov, intanto, vanta un contrattacco verso Novoazovsk.
Eccola, la tregua. I Grad, i terribili lanciagranate in batteria che devastano e incendiano
terreni, opere e vite umane, non tacciono. Ma anche se la diffidenza resta il minimo
comune multiplo della guerra, non ci si rassegna alla cattiva ragione delle armi: il Cremlino
e la presidenza ucraina tacciono, ma la diplomazia lavora sottotraccia per un nuovo
incontro a Minsk che metta nero su bianco il livello di autonomia da lasciare alle regioni di
Lugansk e Donetsk, uno dei punti più controversi. E si trattiene il fiato: sono ore
difficilissime.
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del 08/09/14, pag. 14
Si vota tra dieci giorni e i “sì” per la prima volta sono balzati in testa La
regina “inorridita”. Si teme il crollo della sterlina e dei mercati
Scozia, sondaggio shock “Vincono gli
indipendentisti” Cameron rischia il posto
ENRICO FRANCESCHINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
LONDRA .
La regina è “inorridita”. Il primo ministro rischia le dimissioni. La sterlina e la borsa
tremano. Sono le prime conseguenze del sondaggio pubblicato ieri dal Sunday Times che
assegna la vittoria ai sì all’indipendenza della Scozia nel referendum in programma tra
dieci giorni nella terra di Braveheart. Una previsione clamorosa, scioccante, da thriller
finale, perché è la prima volta, da quando è stata indetta la consultazione popolare, che gli
indipendentisti ottengono la maggioranza in un rilevamento statistico. Il loro vantaggio
appare minimo: 51 a 49 per cento. Ma è significativo per almeno due ragioni: fino a un
mese fa i no hanno sempre avuto circa 20 punti percentuali a proprio favore; e l’istituto che
ha condotto il sondaggio, YouGov, tra i più autorevoli, era finora scettico a scommettere su
un’affermazione dei sì. Se il 18 settembre il pronostico verrà rispettato, si profila un
cataclisma per il Regno Unito, che diventerebbe meno unito e rischierebbe di perdere altri
pezzi (a cominciare dall’Irlanda del Nord), e per l’Europa intera, che potrebbe essere
travolta da un’ondata di referendum secessionistici.
Per coincidenza Elisabetta II sta concludendo le vacanze estive, come ogni anno, proprio
in Scozia, nel castello di Balmoral. Avrebbe commentato in privato che la prospettiva che il
suo regno perda la Scozia la «fa inorridire» e le causa «fortissime preoccupazioni»:
ufficialmente Sua Maestà è neutrale sul referendum scozzese, ma fonti di palazzo reale
confermano al Times ciò che è del resto ben noto, «la sovrana è un’unionista convinta ».
Ieri ha ricevuto Cameron a Balmoral per saperne di più e ha chiesto aggiornamenti
quotidiani sulla possibilità che tra poco più di una settimana la Gran Bretagna si svegli
rimpicciolita.
Non meno tranquillo è il primo ministro: nel partito conservatore sarebbe già partita la
fronda per costringerlo a dimettersi se «perderà la Scozia». Viene accusato di avere fatto
troppe concessioni ad Alex Salmond, il premier indipendentista del governo autonomo
scozzese, e di avere completamente sbagliato tattica nella campagna referendaria. Tra i
Tory c’è già chi lo paragona a lord North, il leader britannico che nel 1782 dovette
dimettersi dopo che Londra «perse le colonie americane » nella guerra d’indipendenza.
Downing street corre ai ripari: ieri il ministro del Tesoro George Osborne ha promesso in
tivù più ampi poteri alla Scozia se voterà per il no all’indipendenza. Ma il premier scozzese
Salmond bolla l’iniziativa come «una bustarella dettata dal panico »; e comunque potrebbe
essere tardiva. L’indipendenza scozzese sarebbe un disastro anche per il partito laburista,
che potrebbe non vincere mai più un’elezione nazionale senza l’apporto degli elettori
scozzesi: pure per il suo leader Ed Miliband si levano richieste di dimissioni. Quanto ai
mercati finanziari, il Times rivela timori di un crollo della sterlina e della borsa se il 18
settembre, come prevede l’ultimo sondaggio, avranno la meglio i sì.
Le residue speranze degli unionisti potrebbero dipendere da un ripensamento degli elettori
il giorno del voto. C’è un precedente: nel 1995 in Quebec i no all’indipendenza erano
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sempre stati in vantaggio di 20 punti, poi nell’ultimo sondaggio balzarono in testa i sì di un
soffio ma dalle urne uscì la vittoria dei no, 50,6 a 49,4 per cento. A dieci giorni dal voto,
conclude la Bbc , è impossibile prevedere chi vincerà.
del 08/09/14, pag. 1/15
INDIPENDENTISTI IN TESTA IL FRONTE DEL SÌ
Scozia, liberati
il Regno Unito è un fallimento
IRVIN WELSH
L’ASPETTO
più interessante del referendum sull’indipendenza sta nel fatto che il fronte del “sì”,
inizialmente percepito da parte della sinistra come una campagna antibritannica, è oggi
visto come l’avanguardia di parte di un movimento populista più ampio, che ha come
obiettivo il ritorno della democrazia attraverso queste isole. Visto all’interno di un contesto
più generale, questo non dovrebbe sorprendere: da molto tempo, infatti, i conservatori
hanno smesso persino di fingere di rappresentare altri che non siano le élite.
CIOÈ quelle classi sociali e le loro coorti che negli ultimi trentacinque anni hanno
impoverito il Paese (e chiunque nutra dubbi in proposito dovrebbe semplicemente
osservare il continuo trasferimento della ricchezza dai tanti ai pochi). Un obbrobrio che si è
protratto nel tempo, e al quale gli stessi laburisti hanno assistito, proponendo di quando in
quando di estorcere qualche concessione a malincuore a quelle élite. Cosa che è
accaduta di rado, o forse mai: il Regno Unito semplicemente non è fatto così. Oggi, con il
suo sistema di partiti moralmente corrotto, i suoi politici di professione che non godono di
alcuna stima e una pletora di insabbiamenti e complotti che arrivano fino al cuore di un
establishemnt squallido, decadente e opportunista nel campo degli affari, della politica, dei
media e della giustizia, il Regno Unito è considerato da molti dei suoi cittadini come uno
Stato fallito. Ha posto l’attaccamento al potere e al privilegio al di sopra dell’aspirazione a
qualsiasi autentica forma di democrazia. Adesso però le élite delle scuole pubbliche,
l’aristocrazia, i banchieri d’investimento della City di Londra, i lobbisti del mondo degli
affari, i guerrafondai imperialisti e la stampa apologetica e cospiratrice non sono più
considerati strumenti del buon governo e di una sana democrazia, bensì pericolosi ostacoli
al loro raggiungimento. Tutto questo in Scozia verrà eliminato - o quanto meno la sua
influenza verrà in gran parte ridotta dalla vittoria del sì e dall’affermarsi di una Costituzione
che conferisca ai cittadini degli autentici diritti. Se la Scozia imboccherà quella strada,
dubito che in Inghilterra passerà molto tempo prima che nasca un vero movimento di base
a livello popolare a favore della democrazia.
La campagna per il “sì” ha dato alle persone il potere di assumere il controllo del proprio
destino; ha offerto loro la speranza di un futuro per loro, le loro famiglie e le loro comunità.
Il principio è semplice: significa destinare le risorse nazionali all’istruzione, alla sanità e
agli alloggi - anziché dirottarle nei conti offshore dei super-ricchi o dissiparle in sordidi
conflitti all’estero istigati dagli incapaci per l’arricchimento dei loro finanziatori. (Ecco che
cosa intendono quando parlano di “peso sulla scena mondiale”).
La campagna del “sì” merita di vincere con un voto positivo. In ogni caso, sia che vinca sia
che perda, ormai il genio è uscito dalla lampada, e di certo non svaniranno né il dibattito
sollevato, né la consapevolezza dei cittadini che hanno da poco scoperto il proprio potere.
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Quanto a me, ho trascorso la maggior parte degli ultimi dieci anni in Irlanda e in America:
due Paesi un tempo governati da Londra. Non ho ancora incontrato una singola persona
in quei Paesi mossa dal benché minimo desiderio di tornare indietro a quel governo.
Quando anche Scozia e Inghilterra si saranno liberate del sistema corrotto, imperialista ed
elitista, vi garantisco che i loro popoli la penseranno esattamente come gli irlandesi e gli
americani. ( Traduzione di Marzia Porta)
Dell’8/09/2014, pag. 10
«Colpiremo l’Isis» Obama e la nuova fase
della guerra al terrore
Il piano presentato alla vigilia dell’11 settembre
Dopo gli interventi di contenimento decisi per scopi umanitari e per proteggere il personale
Usa nell’area, adesso, «è ora di entrare in una nuova fase, quella nella quale saremo, in
qualche modo, all’offensiva». Tornato dal vertice Nato di Newport con in tasca l’accordo di
dieci Paesi dell’Alleanza pronti a partecipare a uno sforzo comune per «degradare e
distruggere» l’Isis, Barack Obama ha annunciato ieri in un’intervista alla rete televisiva Nbc
che mercoledì presenterà agli americani un piano dettagliato d’intervento contro il quasiStato dei terroristi sunniti che si è consolidato a cavallo tra Siria e Iraq.
Il presidente americano non ha fornito dettagli, ma ha spiegato che il piano — che verrà
significativamente presentato alla vigilia dell’anniversario dell’attacco di Al Qaeda dell’11
settembre di 13 anni fa — avrà una componente militare, una parte politica e una parte
economica. Per quest’ultima è facile immaginare che l’obiettivo sarà quello di tagliare le
fonti di finanziamento di un «califfato» che ha fin qui prosperato grazie alla straordinaria
disponibilità di mezzi finanziari arrivati dalle donazioni di alcuni Paesi sunniti, ma
soprattutto dalla vendita sul mercato nero del petrolio estratto nelle regioni dell’Iraq
occupate dalle truppe dall’autoproclamato califfo Al-Baghdadi.
Alla colazione politica sta lavorando il segretario di Stato John Kerry che Obama ha deciso
di mandare in missione in Medio Oriente per allargare ai Paesi arabi il fronte anti Isis,
attualmente costituito soprattutto dagli alleati europei degli Usa, Italia compresa. Dopo
molte incertezze, Obama ha deciso che è necessario battere l’Isis militarmente perché
rappresenta una minaccia ormai enorme per tutti, in Occidente e nel mondo arabo. Ma per
distruggere davvero quest’organizzazione terrorista è necessario demolire anche il
consenso politico che si è conquistato tra le popolazioni locali nelle province sunnite della
Siria e dell’Iraq. E, per far questo, Obama, ha bisogno del sostegno attivo anche degli altri
governi sunniti della regione. Sulla possibilità di mettere in piedi una coalizione realmente
coesa e di combattere insieme — sunniti moderati, sciiti e curdi — per distruggere l’Isis e
creare un nuovo ordine, possibilmente democratico, i dubbi sono, però, molto forti. La
Casa Bianca punta sulla nascita di un governo realmente multietnico a Bagdad, dopo
l’uscita di scena di quello, settario, di Al Maliki. E questi dovrebbero essere i giorni decisivi
per la formazione della coalizione del nuovo premier moderato Al Abadi. Ma se si guarda a
quello che accade sui campi di battaglia, non sembra sia il caso di farsi troppe illusioni.
L’ultimo caso è quello della città sciita di Amerli attaccata un mese fa dagli estremisti
dell’Isis e salvata dall’assedio da un’inedita coalizione di forze sciite, curde e sunnite
moderate. Ma quando i peshmerga sono entrati nella città appena liberata pensando di
ricevere i ringraziamenti della cittadinanza, hanno trovato, invece, i combattenti sciiti coi
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mitra spianati che li hanno cacciati: «Andatevene, i curdi non entrano in questa città».
Insomma, appena rientrata la minaccia del califfato, tornano i vecchi conflitti tribali.
Negli Stati Uniti, comunque, l’intervista al nuovo anchor della Nbc Chuck Todd ha colpito
più per la decisione di Obama di rinviare a dopo le elezioni di mid-term di novembre le
misure per ridurre le deportazioni degli immigrati clandestini, che per l’annuncio del piano
anti Isis. Accusato dagli ispanici di aver ceduto alle pressioni politiche dei parlamentari
democratici impegnati in difficili campagne elettorali in collegi con un forte elettorato
conservatore, il presidente ha negato di aver fatto una scelta opportunista. Ma, nello
spiegare che preferisce agire solo quando la situazione dei ragazzini che entrano negli
Usa da soli, senza genitori, sarà più chiara e quando potrà spiegare in modo più pacato
agli americani quali sono i problemi, gli interessi, anche economici, del Paese, il
presidente ha anche fatto riferimento all’estrema politicizzazione di questa questione da
parte del partito repubblicano.
Massimo Gaggi
del 08/09/14, pag. 10
Al fronte di Mosul con i peshmerga
“In fuga i capi dell’IS”
In prima linea sono rimasti solo giovani È il risultato dei bombardamenti
aerei Obama: “I raid continuano ma niente truppe”
PIETRO DEL RE
DAL NOSTRO INVIATO
KALAK (KURDISTAN IRACHENO) .
L’ultimo avamposto curdo è una trincea scavata in cima a una collina. Basta infilare la
testa tra i sacchi di sabbia che la proteggono per scorgere, a poche centinaia di metri, le
case di Hazam Sham, un malconcio agglomerato agricolo controllato dai soldati dello
Stato islamico. Hic sunt leones , dunque, sebbene a difendere quel presidio siano rimasti
solo leoni sdentati o comunque troppo giovani per saper combattere. Da quando sono
cominciati i raid aerei americani attorno a Mosul, prima per riconquistare la sua diga, che
gli islamisti minacciavano di far saltare, poi per appoggiare la controffensiva dei
peshmerga, gli ufficiali militari del califfato sono tutti fuggiti. C’è chi s’è rifugiato nei
quartieri più popolosi di Mosul per mimetizzarsi tra i civili, e chi invece è scappato in Siria,
lasciando il fronte nelle mani di ragazzini appena assoldati. Proprio ieri, il presidente
Obama ha dichiarato che questi raid aerei proseguiranno nel tempo, per sostenere le
truppe irachene e curde sul campo.
Hazam Sham è uno dei tanti villaggi che circondano Mosul (seconda città irachena,
conquistata dai jihadisti lo scorso giugno) e che stanno cadendo, uno dopo l’altro, nelle
mani dei peshmerga. Dopo aver strappato ai fondamentalisti il monte che lo sovrasta, i
combattenti curdi potrebbero prenderlo senza sparare un colpo. «Ma aspettiamo che i
caccia americani lo ripuliscano un po’ meglio: abbiamo già perso troppi uomini, e sarebbe
un peccato se ne morissero altri in un posto del genere», dice il leader delle truppe curde
sul fronte occidentale, il generale Rowsch Nouri Shaways.
Si direbbe che grazie all’intervento americano l’avanzata curda affondi nelle terre del
califfato come un coltello nel burro, ma con un numero di vittime che è quello di un
massacro. Infatti, sotto i razzi statunitensi e sotto il piombo dei peshmerga, i morti sono
tanti, sempre di più. Dall’8 agosto scorso gli americani già hanno effettuato un totale di 140
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raid in Iraq, e solo nelle ultime quarantotto ore circa 250 islamisti sono stati uccisi, molti dei
quali giovanissimi, soldati alle prime armi, spesso locali, irreggimentati con due dinari tra le
enormi falangi di disoccupati.
«Ma anche se hanno vent’anni sono ugualmente pericolosi perché molti di loro hanno
subìto un lavaggio del cervello e non esitano a farsi esplodere se proviamo a catturarli»,
spiega il generale peshmerga.
Quando gli chiediamo che cosa aspettano a sferrare l’attacco decisivo contro Mosul, il
militare allarga le braccia e dice: «Noi siamo pronti, ma la decisione deve provenire
dall’alto, ossia dal presidente del Kurdistan iracheno, Masud Barzani, e dalle autorità di
Bagdad». Una decisione politica che verosimilmente sarà presa a giorni, poiché oggi il
parlamento iracheno voterà per la nuova squadra di governo formata dal premier
designato, lo sciita Haider al Abadi. Intanto, oltre ai nuovi raid destinati «a proteggere
Erbil», capoluogo del Kurdistan iracheno, i caccia e i droni americani hanno ieri, per la
prima volta, lanciato i loro attacchi nella provincia sunnita di Anbar. Stavolta i razzi
statunitensi sono stati sparati contro islamisti che stavano tentando di impadronirsi della
diga di Haditha, una delle principali del paese, a nord-ovest di Bagdad. Questi raid hanno
consentito alle truppe irachene di riconquistare due distretti nella regione, come spiega
Ahmed al-Delmi, governatore della provincia di Anbar: «Continua la battaglia per liberare
tutte le aree di Haditha. Ieri, almeno 60 elementi dello Stato islamico, fra cui afgani e arabi,
sono stati uccisi dalle forze di sicurezza nell’operazione di pulizia delle due aree».
Ma ora che gli squadroni dello Stato islamico sembrano pesantemente fiaccati e pronti al
ripiego, potrebbe riaccendersi la lotta politica tra Erbil e Bagdad, soprattutto all’indomani
della nascita del nuovo governo federale. Anche perché il presidente Barzani sarebbe
stato costretto da Obama ad accettare di farne parte, sia pure con la promessa dell’avvio
di un programma per una futura indipendenza del Kurdistan. Per il momento, ciò
che più preme agli Stati Uniti è di predisporre una coalizione internazionale nella lotta
contro chi ha decapitato i due giornalisti americani, James Foley e Steven Sotloff. Per
questo il presidente statunitense ha dichiarato ieri che i raid aerei proseguiranno anche se
«quello che stiamo facendo non è l’equivalente della guerra in Iraq del 2003».
Dopodomani spiegherà in un discorso alla nazione in che modo intende sconfiggere gli
islamisti.
Dell’8/09/2014, pag. 11
Israele «apre» a una forza europea nella
Striscia
Il controllo del confine con l’Egitto forse affidato anche a militari
americani e Caschi Blu dell’Onu Ministro Il capo della diplomazia di
Israele, Avigdor Lieberman
GERUSALEMME — Due pagine, quattro proposte, quattordici chilometri da pattugliare. Il
ministero degli Esteri israeliano ha presentato un piano al governo di Benjamin Netanyahu
per dare il controllo della frontiera di Gaza, almeno quella a Sud verso il Sinai e l’Egitto, a
una forza internazionale. I diplomatici privilegiano nel progetto — rivela il quotidiano
Haaretz — l’idea di affidare la missione alle truppe europee, perché dai Paesi dell’Unione
sarebbe già arrivata la disponibilità durante i cinquanta giorni di guerra fermati con il
cessate il fuoco del 26 agosto. Indicano anche l’ipotesi di soldati occidentali (compresi
americani, canadesi, australiani, neozelandesi), Caschi Blu delle Nazioni Unite o militari
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della Nato. Qualunque siano le divise, il drappello verrebbe dispiegato lungo quello che è
chiamato «corridoio Philadelphia», una striscia di sabbia che preoccupa gli israeliani per
quello che avviene sotto al deserto: qui sono stati scavati i tunnel usati per i traffici
clandestini di benzina, sigarette, medicine. E soprattutto armamenti. La forza
internazionale affiancherebbe il lavoro degli egiziani dall’altra parte della barriera che negli
ultimi mesi hanno distrutto le gallerie: temono che il via vai viaggi nelle due direzioni e i
kalashnikov o i lanciagranate possano raggiungere gli estremisti nella penisola del Sinai.
Il mandato sarebbe definito sul modello del gruppo di monitoraggio dell’Unione Europea
stazionato sul confine a Rafah tra il 2005 e il 2007: fino a quando Hamas non ha tolto con
le armi il controllo di Gaza al presidente Abu Mazen e Israele ha imposto l’embargo
economico contro l’organizzazione fondamentalista. La missione «Eu Bam» è appena
stata rinnovata di un altro anno, anche se i controllori non sono per ora operativi sulla
frontiera. Il ministero degli Esteri a Gerusalemme raccomanda che le truppe internazionali
abbiano il potere di intervenire per impedire il riarmo di Hamas: l’intelligence dello Stato
ebraico sostiene di avere le prove che i miliziani abbiano già cominciato a ricostruire i
tunnel verso Israele bombardati nel conflitto. «Si stanno preparando alla prossima
guerra». Abdel Fattah Al Sisi, il generale egiziano diventato presidente, ripete di essere
pronto ad aprire i cancelli di Rafah, se le chiavi vengono affidate dal lato palestinese alla
Guardia presidenziale di Abu Mazen. Che ieri ha minacciato Hamas di far saltare il
governo di unità nazionale creato prima dell’estate, perché — accusa il leader — i
fondamentalisti non hanno ceduto il controllo di Gaza ai nuovi ministri tecnici, soprattutto
quello delle forze militari. «Se non accettano una sola autorità, una sola legge e un solo
esercito, non ci sarà più alcuna unità». Durante le settimane di guerra, i dirigenti di Fatah,
la fazione del presidente, sono stati messi agli arresti domiciliari, chi non ha rispettato gli
ordini è stato gambizzato.
Davide Frattini
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INTERNI
del 08/09/14, pag. 1/2
Il premier chiude la Festa con i leader socialisti europei “Da solo non ce
la faccio, serve una segreteria unitaria”
Renzi lancia il patto con la sinistra Ue “Basta
liti nel Pd”
MICHELE SMARGIASSI
BOLOGNA
FENDONO la folla in camicia bianca, sorridenti, giovanili e bellocci. Prima di essere una
novità politica nella sinistra europea, l’euro-renzismo è una tendenza estetica, un comune
apparire. «Manno’...», ride Matteo Renzi quando gli chiedi se era concordato, il dress code
camicia bianca e pantaloni neri dei cinque euro-leader.
OLTRE a lui: il premier francese Manuel Valls, il laburista olandese Diederik Samson, il
socialista spagnolo Pedro Sanchez, il segretario tedesco del Pse Achim Post. Vabbe’,
allora sarà stato il caldo tardo- estivo di parco Nord a Bologna che ha costretto tutti a
levare le giacche e adottare il look renziano per eccellenza. Però: Renzi non ce l’ha
azzurra, la camicia, quando all’una li accoglie alla Festa nazionale dell’Unità? Sì, ma
un’ora dopo si è cambiato, e anche lui è in bianco sul palco. Il neocommissario europeo
Federica Mogherini li invita a entrare in scena uno a uno (scossa da in vago dubbio, Lady
Pesc: «Faccio la parte della valletta...? »), e li presenta così: «C’è una nuova generazione
di leader europei, cominciamo a farli vedere». Esatto. Potenza politica del visuale. «Siamo
una squadra », la divisa c’è, e per le foto si abbracciano in lineup sportivo, braccia sulle
spalle uno dell’altro.
Per Renzi non potrebbe esserci un modo più chiaro per tracciare la riga del non-ritorno al
passato: vedete? Non ci sono solo io, abbiamo cambiato radicalmente generazione
politica ovunque. Non ci vedete? Leader quarantenni che parlano sciolti, magari microfono
in mano come a uno show, fanno battute, alzano la voce (Samson: «Rivoglio la mia
Europa!») infiammano, usano parole fuori corso («Contro l’avarizia!»), spiazzano (Post si
congeda con un guevariano «Venceremos!»), pronunciano forse un po’ troppe volte la
parola «sinistra» per le abitudini del loro ospite italiano, quando Sanchez saluta
«compagne e compagni» lo prenderesti per Tsipras.
Ma Renzi non è preoccupato, anzi è galvanizzato perché se anche sono più a sinistra di
lui sono lì per lui, ringraziano tutti lui, che ha preso più voti di tutti, e gli fanno i
complimenti, «invece di parlare dei problemi della sinistra, ha sfidato la destra e l’ha
battuta», chapeau .
E così «oggi stringiamo il patto del tortellino», annuncia Renzi anticipando la fantasia dei
titolisti. La cosa buffa è che al ristorante Bertoldo, dove gli scamiciati si accomodano
assieme a un po’ di dirigenti e ministri italiani, pochi assaggiano davvero il piatto eponimo
di Bologna: i tortellini in brodo non vanno tanto col termometro a 36 e con le performance
comiziali, meglio una fetta di prosciutto. Non li mangia neppure Renzi, frenetico, parla con
tutti, scherza, tiene banco. Pochi minuti prima di sedersi lo assale uno scrupolo, «Donini!»,
chiama il segretario Pd bolognese, «ma non vengono Bersani e Errani?», «Veramente non
ci avevamo pensato...», «Chiamali chiamali». Non verranno a tavola, ma al comizio sì.
E cambia appunto anche il comizione conclusivo. Per Renzi, è la prima volta da segretario
e da premier. Torna da plurivincitore dove era venuto a chieder consensi. «Ho incontrato
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tanti che un anno fa mi dicevano “se vinci tu, non torno più alla Festa”, invece eccoli lì».
Nelle cucine, tra i fornelli, dove Renzi pilucca una patatina qua, una scheggia di
parmigiano là e dice qualcosa a tutti. Acclamato. È il vincitore del 41 per cento, «MatteoMatteo ». Se c’è qualcosa di diverso è che a lui non dicono «tieni duro» come ai suoi
predecessori che le elezioni le perdevano, ma chiedono cose: «Matteo noi insegnanti »,
«Matteo noi pensionati», chi vince deve anche convincere. Gioia e aspettative, entusiasmo
e attese.
E allora, sul palco, davanti ad alcune migliaia di persone, non discorso programmatico
fatto col bilancino, ma rilancio emotivo. Tutto a braccio o quasi (un refolo gli porta via il
foglio, Matteo lo lascia andare, «tanto, che mi serve...»). Un’ora, non di più, pochi temi ben
scelti, gli 80 euro «atto di giustizia sociale», grande enfasi sulla scuola, e poi finalmente la
dice, la parola che i colleghi euro-renziani amano tanto, dice «sinistra», declinata però
renzianamente: «il merito è di sinistra, il talento è di sinistra, la qualità è di sinistra».
Ma soprattutto: il partito. È il Pd che deve «coprire» oggi che la marcia del governo va in
salita e magari qualcuno comincia a insinuare che non ce la fa. È il partito che Renzi non
può mollare, perché è da lì che possono partire i tentativi di logoramento più pericolosi,
che deve tenere saldo in mano, ma senza apparire dominus .
La critica di D’Alema (non ci sono più dirigenti, solo fiduciari) deve aver fatto effetto,
«venerdì nuova segreteria», annuncia. Ma soprattutto intima la fine delle ostilità
all’opposizione interna, io non farò da solo, ma voi basta diritti di veto, «se qualcuno vuole
la rivincita, la data è novembre 2017», ora si lavora in «gestione unitaria del partito».
«D’accordo, ma vorrei capire cosa significa gestione », commenta Pierluigi Bersani, in
piedi sotto il palco.
Per lui però Renzi chiama l’applausone. Ringrazia per nome i segretari rottamati che
l’hanno preceduto, ma è per il suo grande avversario che vuole l’onore delle armi, «sono
fiero di essere segretario di un partito plurale, che litiga ma poi va insieme». Il «popolo
della Festa» esplode, è sensibile alle mozioni degli affetti, vorrebbe vedere i suoi leader
sempre concordi e fraterni. E quando il segretario-premier nomina Vasco Errani, il
governatore emiliano dimissionario per incidente giudiziario, e lo ricopre della sua stima
per la dignità del gesto, è addirittura standing ovation , sotto telecamere impietose Errani
si commuove e affonda il viso nell’abbraccio del sindaco di Modena Muzzarelli. «Siamo il
Pd che vince e convince», chiude Renzi in maggiore. Il circolo Pd di Marsciano, Perugia,
sventola un carrello: «Dio c’è, e Matteo governa».
del 08/09/14, pag. 1/21
Il leader che spara sul quartier generale
ILVO DIAMANTI
LO SGUARDO degli italiani sul futuro economico del Paese è scettico. Anzi: piuttosto
pessimista. Eppure, la fiducia nel governo resiste. Tanto più nei confronti del premier. Di
Renzi. Lo dimostrano i primi sondaggi realizzati dopo la pausa estiva.
NON è un fatto nuovo. È avvenuto anche in passato. Quando al governo erano
Berlusconi, in particolare, e, più di recente, Monti. È l’effetto di diversi fattori. Riflette, in
particolare, la capacità del leader di trasmettere fiducia ai cittadini. E, reciprocamente, la
ricerca, da parte dei cittadini, di qualcosa o qualcuno in cui credere, in tempi di crisi. Il
problema, però, è che se la crisi dovesse acuirsi ancora e durare a lungo, com’è probabile,
allora la sfiducia tenderebbe a trasferirsi, soprattutto, sul governo e, per primo, sul Capo.
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Ne è ben consapevole Renzi. Il quale, anche per questo, sta seguendo una strategia di
comunicazione e di relazioni, in parte, diversa dalla fase precedente.
1. In primo luogo, sembra aver temperato lo stile iper-cinetico dei primi mesi di governo.
Non che sia divenuto “lento”, ci mancherebbe. Non è nella sua natura. Ma ha cambiato
tabella di marcia. Non più — solo — tappe ripetute, a scadenze ravvicinate. L’orizzonte di
governo, così, si è allungato. Abbraccia i prossimi 1000 giorni. E giunge, cioè, quasi alla
fine della legislatura. Un modo per lanciare due messaggi. A) Che intende restare e
governare a lungo. B) Che è finito il tempo dell’annuncite. Degli annunci reiterati e
ansiogeni, senza soluzione di continuità. Oggi Renzi detta tempi “realisti”. Anzi, chiarisce
che “correrà” per mesi, anni. “Passo dopo passo”. E, dunque, durerà a lungo. Come la
legislatura.
Naturalmente, ciò non significa che Renzi abbia, davvero, rinunciato all’idea di elezioni
anticipate. Dipende: dall’opportunità, dalla convenienza, dalle condizioni — economiche e
politiche — generali. Insomma, dal clima d’opinione.
2. Anche per questa ragione il premier ha affilato l’altra faccia della sua strategia di
comunicazione e di relazioni. Ben espressa, nei giorni scorsi, dalla sua assenza
all’incontro organizzato, come ogni anno, a Cernobbio dal Forum Ambrosetti. Il “salotto
buono” (come ha appuntato ieri Eugenio Scalfari) frequentato dai principali attori
dell’impresa e della finanza. Oltre che, di riflesso, delle istituzioni e della politica. (Era
presente anche Roberto Casaleggio, ideologo del M5s.) Renzi, invece, ha preferito
inaugurare una rubinetteria. Si è recato a Gussago, nel bresciano. Dove «le imprese
investono». E, ha aggiunto, «ne girerò tante». Un modo esplicito per dichiarare la sua
“diversità” rispetto alla classe dirigente nazionale. La sua “estraneità” rispetto ai luoghi e ai
gruppi che guidano e controllano la politica e i mercati. I “grandi imprenditori”. Ma non
solo, visto che a Cernobbio si riuniscono anche i gruppi dirigenti della finanza. E del
sindacato. Verso il quale Renzi, d’altronde, non ha mai mostrato particolare attenzione. Fin
dall’inizio ha annunciato che «la musica è cambiata. Andiamo avanti anche senza i
sindacati ». E, dunque, anche senza concertazione. Così, Renzi ha proceduto “veloce”,
marcando la sua distanza dal sindacato ma anche dalle associazioni imprenditoriali. Da
molto tempo, in declino di consensi, fra gli elettori. Il sindacato, in particolare: stimato da
circa 2 italiani su 10. E, di conseguenza, guardato con diffidenza dagli altri 8. Anzitutto e
soprattutto, dai lavoratori dipendenti. D’altronde, la componente più ampia degli iscritti è
costituita dai pensionati. Mentre la fiducia nelle associazioni degli imprenditori non supera
il 30%. Renzi, in altri termini, ha scelto di prendere le distanze da soggetti e organizzazioni
che gran parte dei cittadini considera “lontani” dai loro problemi e dai loro interessi.
Complici della Casta. Anzi, anch’essi Casta (e, dunque, non “casti”). Per la stessa ragione,
il premier ha agito, senza troppa diplomazia, nell’ambito della Ue. Dove ha “imposto” la
ministra degli Esteri, Federica Mogherini, come “Lady Pesc”. Cioè, al posto di Alto
Rappresentante per la politica estera europea. Dopo lunghe trattative e tensioni molto
accese. Ieri, a Bologna, ha annunciato il “patto del tortellino” con i leader della sinistra
europea, per prendere le distanze dalla Germania e dalla Merkel.
Perché a Renzi interessa contare, ma, ancor più, marcare i confini con i “poteri forti”. In
Europa. E non solo. Gli interessa mostrarsi “dalla parte del popolo”. Per usare le sue
parole: “Contro l’Europa delle banche e a favore dell’Europa delle famiglie”. Contro
l’establishment che oggi lo tratta con sospetto o, peggio, con dispetto. Ma, come ha
sostenuto di recente, sul Sole 2-4 Ore , intervistato dal direttore Roberto Napoletano, «è lo
stesso che ha portato il Paese in queste condizioni». Mentre lui, lo ha ribadito ieri, alla
Festa dell’Unità a Bologna, non accetta lezioni «da tecnici della Prima Repubblica».
Renzi, dunque, oltre agli amici, sceglie con cura i “nemici”. I “gufi” che scommettono contro
di lui e contro il governo. L’establishment, appunto. Che controlla economia e affari. I
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professionisti del sindacato, i circoli degli affari e dell’impresa. Dell’informazione e della
cultura. Allo stesso tempo, non esita a riproporre il blocco delle retribuzioni dei dipendenti.
Pubblici. In primo luogo: statali. Non solo perché, come ha ammesso la ministra Madia,
«non ci sono i soldi». Ma anche perché il pubblico impiego, gli “statali”, nella percezione
popolare, rappresentano una categoria privilegiata. Non (sol) tanto dal punto di vista
retributivo, anche per condizioni e tempi di lavoro, oltre che (un tempo, soprattutto) di
pensionamento.
Renzi, dunque, per contrastare le difficoltà crescenti che minacciano la popolarità del suo
governo, polemizza contro il mondo economico e politico. Di cui, tuttavia, anch’egli fa
parte. Prende le distanze dalle caste e dai gruppi di interesse. Dalle categorie sociali
“privilegiate”. Dall’establishment europeo e statale. Dagli “statali”. Anche dal Pd. Che
Renzi ha trasformato in PdR. Renzi oggi è il leader di un post-partito e di un post- governo
personale. Premier di un “popolo” di post-italiani. Che, come avvertiva Edmondo Berselli
oltre 10 anni fa, abitano un “Paese provvisorio”. Da ciò il problema di Renzi. Perché è
difficile correre veloce, da solo contro tutti, per mille giorni e oltre. Senza che la
“provvisorietà”, più che un vizio, divenga uno stile narrativo necessario per governare il
Paese. Dunque, uno stile di governo, visto che, in tempi di democrazia ibrida, la distanza
fra narrazione e governo è molto sottile.
Dell’8/09/2014, pag. 3
Segreteria unitaria per azzerare il passato
Il premier vuole la nuova generazione della minoranza, per un Pd più
compatto
«C’è un nuovo gruppo dirigente, che non è più quello di un tempo: non c’è nessun uomo
solo al comando». Parola di Matteo Renzi, che per dimostrare plasticamente la veridicità
di quel che dice si presenta alla festa con i nuovi leader del socialismo europeo: il premier
francese Manuel Valls e il leader del Psoe Pedro Sánchez. Con loro ci sono l’olandese
Diederik Samsom e il segretario generale del Pse Achim Post. Indossano tutti la camicia
bianca e salutano sorridenti. La photo opportunity con loro non è solo un messaggio
all’Europa, dove il premier vorrebbe esportare un po’ di rottamazione. Ma è anche un
segnale interno, che gli serve proprio per ribadire il concetto: «C’è un nuovo gruppo
dirigente». Il che vale anche per l’Italia, e, segnatamente, per il Pd.
Che cos’altro rappresenta se non questo, anche l’altra foto, quella che fa da copertina al
libretto sul successo elettorale delle europee, che viene distribuito alla Festa? Lì ci sono
tutti i trentenni e i quarantenni del Pd, di qualsiasi corrente, quelli che si presentarono alla
conferenza stampa della vittoria. Una nuova generazione, appunto.
Quella foto serve ad azzerare la vecchia classe dirigente del Partito democratico. A cui
vanno i più sentiti ringraziamenti, è ovvio. Renzi pronuncia i nomi dei segretari che lo
hanno preceduto e dedica un doppio omaggio a Bersani, che pure lo ha criticato e
continua a mostrarsi diffidente anche ora lì, sotto il palco. È un grazie, che è un po’ come
archiviare una pratica. Ora c’è un «tempo nuovo». Talmente nuovo che il leader del Pd
non nomina nemmeno Massimo D’Alema (assente alla Festa). È il grazie di chi non vuole
aprire nuove polemiche o inimicarsi i «vecchi» leader perché intende coinvolgere nella
gestione del partito tutti coloro che sono stati (o stanno ancora) con Bersani e D’Alema,
ma che appartengono a un’altra generazione. È a loro che il premier propone di entrare in
una segreteria unitaria in cui ognuno si «assuma le proprie responsabilità». Lui per primo,
ma pure gli altri, perché «il pantano delle correnti non è più possibile». Non è più il
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momento di perdersi in «beghe interne»: fuori c’è il Paese che ha bisogno del «più grande
partito d’Europa». E il leader di quel partito ha vinto le primarie, ha conquistato il 40,8 per
cento dopo la «botta elettorale» delle politiche del 2013, e ora non «può sottostare a veti».
Renzi sa bene che con un Pd unito sarà più facile far marciare i provvedimenti lungo il
percorso parlamentare impervio del Senato, dove la maggioranza è risicata. E sarà più
difficile per gli alleati del Nuovo centrodestra dettare condizioni o per l’opposizione di
Forza Italia offrire il «soccorso azzurro» in cambio di un occhio di riguardo per Silvio
Berlusconi. E allora segreteria unitaria sia, che «c’è bisogno di tutti»: quello che Renzi
offre ai bersaniani e ai dalemiani è un patto generazionale.
«Non voglio dare spazio alle polemiche», aveva anticipato il leader ai collaboratori prima di
salire sul palco per il suo comizio. E così è stato. Anche se la convinzione del premier è
che «le polemiche di questi giorni nei miei confronti non hanno fatto altro che rafforzare il
nuovo profilo del Pd». Già. Da una parte c’è il vecchio gruppo dirigente, dall’altra c’è Renzi
«con chi vorrà starci» e che, intanto incassa gli elogi e gli apprezzamenti degli altri leader
del nuovo socialismo europeo. I nomi degli esponenti della minoranza che potrebbero
entrare nella nuova segreteria unitaria circolano già: i bersaniani Danilo Leva e Manuela
Campana e il dalemiano Enzo Amendola. Ma in realtà Renzi preferisce tenere le sue carte
ancora coperte e lavorare sotto traccia per raggiungere il risultato.
Per il leader del Partito democratico è un obiettivo importante, ma sia chiaro, e Renzi lo
dice senza troppi giri di parole, che se vi saranno dei «no» lui andrà avanti lo stesso,
perché non è possibile porre veti per impedirgli di fare «ciò che gli hanno chiesto gli elettori
delle primarie, prima, e quelli delle europee dopo». Quel che il presidente del Consiglio
non dice, ma che da giorni si vocifera, benché da lui più volte ufficialmente smentito, è che
il premier non si farà logorare e che le elezioni anticipate restano lì sullo sfondo, anche se
non volute e non cercate. In quel caso quanti ostacolano Renzi otterrebbero solo di non
rivedere più, almeno per la maggior parte, il loro scranno parlamentare. Ma non è certo
questo quello a cui mira l’inquilino di Palazzo Chigi che anzi, per spronare il partito, ricorda
al Pd che le riforme istituzionali e quella elettorale sono state esplicitamente richieste da
Giorgio Napolitano come condizione per accettare il bis al Quirinale. Ora, come da
costume, entreranno nel vivo le trattative per la segreteria unitaria e vi sarà chi cercherà di
opporsi in tutti i modi. «D’Alema in primis», sostengono i renziani. Ma anche a lui, come
alla minoranza interna, è dedicata la kermesse di ieri a Bologna. Una kermesse per dire
che il leader e il Partito democratico sono una cosa sola.
Maria Teresa Meli
del 08/09/14, pag. 5
“Processo civile, grida manzoniane
risparmiata la lobby degli avvocati”
DAL NOSTRO INVIATO
EUGENIO OCCORSIO
CERNOBBIO .
«La classe politica non è riuscita a piegare una lobby debole come quella dei tassisti,
figuriamoci se ce la farà con una lobby forte come quella degli avvocati. Il risultato è che
nella bozza di riforma della giustizia non c’è nulla di concreto per abbreviare i processi».
Piercamillo Davigo, uno dei più prestigiosi magistrati italiani, già “mente” del pool di Mani
Pulite e oggi consigliere di Cassazione, irrompe nel dibattito al Forum Ambrosetti e gela
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sul nascere qualunque eventuale entusiasmo sulla riforma della giustizia, uno dei punti
cardine per il recupero di competitività dell’Italia, pre-approvata dal governo il 29 agosto
“salvo intese”, cioè tutt’altro che definitiva. Ma ce n’è già abbastanza perché Davigo la
paragoni a una “grida” manzoniana. «Il gran cancelliere Antonio Ferrer annunciò: il pane
costerà un soldo. Ma il pane continuò a costare di più». Portato all’attualità, la riforma, per
la parte della giustizia civile, «non riuscirà minimamente a incidere sulla durata dei
processi».
Ad ascoltare il giudice una platea attonita di economisti e manager di tutto il mondo.
Davigo, che già ai tempi del pool era il più analitico del gruppo, cita cifre inquietanti: «In
Italia ci sono 9 milioni di processi, e visto che in ogni causa ci sono due parti, i cittadini
coinvolti sono 18 milioni, più che in Gran Bretagna, Francia e Spagna messe insieme. Un
processo per ogni famiglia. Ogni anno ci sono 3 milioni di nuove cause, in Gran Bretagna
300mila». Ma cosa va fatto? «Si devono introdurre clausole penalizzanti per le cause
temerarie, qualche misura che scoraggi il cittadino dal ricorrere alla giustizia per qualsiasi
inezia. Le cause vanno fatte per le questioni serie, quando c’è una ragionevole possibilità
di vincerle. Ma questo va contro gli interessi degli avvocati, che sono tanti e agguerriti, con
tutto l’interesse alla proliferazione dei processi. Oltretutto sono ben rappresentati nella
classe politica».
A questo punto si alza dalla platea Maurizio De Tilla, presidente dell’Associazione
nazionale avvocati: «A noi risulta che la riforma sia bloccata per la resistenza all’intero
pacchetto dei magistrati, che hanno paura che si vada a fondo su problemi quali
responsabilità e intercettazioni. Parliamone ma parliamo di tutto». Seduta a fianco di
Davigo c’è il ministro Boschi, guarda caso avvocato: «Negli ultimi tempi sono già stati presi
provvedimenti che rendono molto più costoso fare causa ». Ma nulla placa il magistrato:
«Il fatto è che siete troppi. Andrebbe istituito il numero chiuso anche a giurisprudenza
come è stato fatto a medicina ».
del 08/09/14, pag. 8
Si insabbia la “rivoluzione” lanciata nel 2012. Appello dei Comuni al
Quirinale. Tra i dem l’idea di un referendum sul governatore
Tutti contro Crocetta il Pd gli dà l’aut aut Lui:
non cedo ai califfi
EMANUELE LAURIA
PALERMO .
L’ultima arma poggiata sul tavolo è un referendum per chiedere agli iscritti del Pd siciliano
se sia giusto continuare a sostenere il governo Crocetta. La richiesta l’ha presentata un
gruppo di militanti e il segretario regionale del partito Fausto Raciti non boccia l’iniziativa:
«Una larga parte del gruppo dirigente mi invita a prenderlo in considerazione. Devo
tenerne conto». E’ già l’ora X, per il presidente della «rivoluzione », il primo presidente
della Regione di sinistra eletto direttamente dai siciliani, l’ex sindaco di Gela simbolo
dell’antimafia che proponeva la rottura con un passato ingombrante (i due predecessori
Cuffaro e Lombardo nei guai giudiziari per i rapporti con Cosa nostra) e con alcuni facili
cliché: lui, comunista e gay, doveva rappresentare per forza il cambiamento. Oggi, a
distanza di meno di due anni dall’insediamento, Crocetta è in una condizione di
isolamento. Attaccato da gran parte della sua maggioranza, dai sindacati e dalle
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organizzazioni di categoria, messo nel mirino dai sindaci dell’Anci che hanno scritto a
Napolitano per chiedere aiuto «di fronte alla disastrosa situazione della Regione».
Barcolla, sotto questi colpi, il sogno rappresentato da questo governatore sui generis,
capace inizialmente di trascinare due personalità come Battiato e Zichichi nella sua giunta
(salvo liberarsene sei mesi dopo) e di saltare da una trasmissione tv all’altra annunciando
le sue riforme: su tutte, quella delle Province, che tutt’oggi è lontano dall’essere attuata.
Dopo un inverno terribile, con trentamila famiglie senza stipendio a causa della bocciatura
della Finanziaria regionale da parte del commissario dello Stato, ecco un’estate bollente
segnata dal flop del piano giovani, con 50 mila persone in corsa per 800 tirocini retribuiti
beffati da un sistema informatico andato in tilt. A quel punto, -il plauso per le azioni di
rottura portate avanti da Crocetta (tetto alle pensioni d’oro, definanziamento degli enti di
formazione professionale del sistema- Genovese, revoca delle autorizzazioni ai padroni
delle discariche sospettati di aver pagato tangenti, attacco ai precari che prendevano il
sussidio malgrado un patrimonio milionario o condanne gravi) ha lasciato spazio, nel Pd e
nei partiti alleati, a una domanda: dopo la demolizione, quando comincia la ricostruzione?
Quesito che brucia, con il peggiorare dei dati economici (l’indice di povertà relativa è salito
al 27 per cento), con l’assenza di provvedimenti strutturali di riforma (nella formazione 4
mila persone rischiano il posto) e con le continue manifestazioni di piazza di precari e
disoccupati. Quesito che ha cominciato a porsi pure il luogotenente di Renzi in Sicilia,
Davide Faraone. Che ha preso a invocare un azzeramento della giunta nella quale, pure, i
renziani sono ampiamente rappresentati, a differenza dell’ala cuperliana del segretario
Raciti e che invece non ha alcun assessore. Ma le due correnti, nell’Isola, restano distanti:
i renziani, per far dimettere i propri esponenti dalla giunta, chiedono che i cuperliani
rinuncino ad alcune postazioni di spicco in Assemblea regionale. Questi ultimi non si
fidano e rispondono picche. Crocetta, in questo clima, si è irrigidito: «Chi chiede rimpasti
vuole solo fermare la rivoluzione. Io non cedo ai vecchi califfi».
La questione ora è sul tavolo del vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini al quale Raciti
venerdì ha fatto un report del caso Sicilia. Guerini, probabilmente, incontrerà il governatore
in settimana. Crocetta è costretto a giocare in difesa anche davanti alle polemiche sui
protagonisti della sua rivoluzione, dagli alti burocrati che sono gli stessi dell’era cuffariana
e lombardiana ai leader politici a lui più fedeli che non sono proprio alle prime armi: il
senatore Beppe Lumia è in parlamento dal 1994, Salvatore Cardinale fu ministro con
D’Alema. «La rivoluzione si fa pure con qualche compromesso», replica il presidente.
Come finirà? Difficilmente con il voto anticipato: una mozione di sfiducia sulla carta
avrebbe largo consenso ma comporterebbe lo scioglimento dell’intera Assemblea, con
nuove elezioni per un numero limitato di seggi (venti in meno). Trovare 46 deputati disposti
a votarla, oggi, sarebbe la vera rivoluzione.
del 08/09/14, pag. 8
Forza Italia-Ncd, prove di cartello elettorale
TOMMASO CIRIACO
ROMA .
Lontani da occhi indiscreti, gli ambasciatori di Forza Italia e del Nuovo centrodestra si
incontreranno già oggi a Roma. Sul tavolo c’è il dossier delle future alleanze, perché entro
la primavera del 2015 si voterà in nove Regioni. Altero Matteoli e Gaetano Quagliariello,
allora, cercheranno di ragionare su un accordo di pace, anche se intorno a loro infuria la
battaglia. Nel partito di Angelino Alfano, infatti, sono in parecchi a tifare per un’intesa con il
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Pd, mentre in casa azzurra Raffaele Fitto prepara la campagna di settembre. L’obiettivo è
conquistare alla causa Fratelli d’Italia e Lega, nel nome delle primarie di coalizione.
Il vero nodo, in realtà, resta il gelo tra Silvio Berlusconi e Alfano.
La maggioranza del Nuovo centrodestra — da Lupi a Casero a De Girolamo — spinge per
la riconciliazione. «Vogliamo ricostruire un altro centrodestra — conferma Barbara
Saltamartini — per confrontarci con la sinistra da avversari fin dalle Regionali». Un gruppo
di peso del gruppo dirigente del Ncd, però, la pensa diversamente. E se Quagliariello non
ha escluso l’ipotesi di un’intesa con il Pd, anche Fabrizio Cicchitto e Beatrice Lorenzin non
gradirebbero un nuovo inizio con l’ex premier. Quest’ultima, tra l’altro, pare sia sempre più
vicina al Pd di Renzi.
Il Cavaliere, però, osserva diffidente i preparativi per un nuovo matrimonio. O, almeno,
così lascia intendere in privato: «Siamo pronti a ricostruire il centrodestra con Alfano, ma a
questo punto nessuno può chiedere garanzie sulle poltrone...». Pensa ad altro, in questa
fase. Al rapporto con il premier, al ruolo filogovernativo di FI: «Siamo all’opposizione — ha
spiegato ai giovani azzurri riuniti a Giovinazzo — ma portiamo avanti i nostri impegni con
senso di responsabilità, a partire dalla modifica dell’assetto istituzionale ». Avanti con
questo esecutivo, insomma, e avanti con un centrodestra a trazione berlusconiana: «Sarò
la vostra bandiera, nonostante l’età. Combatto ancora per riconquistare l’agibilità politica».
Eppure, il partito del Cavaliere resta in fermento. Non sono tanto i tweet quotidiani di
Augusto Minzolini e Daniele Capezzone contro Palazzo Chigi, né l’allarme della senatrice
Cinzia Bonfrisco: «Bisogna fare chiarezza sull’opposizione al governo, altrimenti tradiamo
il nostro elettorato». Piuttosto, è la guerriglia dell’ala meridionale nel partito, guidata da
Fitto, a tenerlo sulle spine. Il big pugliese pretende le primarie, a partire dalla “sua” Puglia.
E intensifica i contatti con Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Non a caso ieri la leader di Fdi
ha alzato la voce: «Primarie, altrimenti le alleanze non sono scontate ».
La strada, comunque, resta in salita. E le forze del centrodestra non potranno
accontentarsi di un’intesa al ribasso: «Siamo pronti a discutere di tutto — conferma
Matteoli — ma di certo non si faranno alleanze a macchia di leopardo. Alleati in tutte le
Regioni, oppure in nessuna».
del 08/09/14, pag. 16
Napoli, il video del carabiniere con la pistola
in pugno
Polemica sulle foto del cadavere del ragazzo. Oggi l’autopsia
CONCHITA SANNINO
NAPOLI .
Un video di due minuti e mezzo nella notte di Rione Traiano. Un filmato che documenta,
però, la fase successiva a quella fuga, in cui il 17enne Davide Bifolco è rimasto ucciso da
un carabiniere. E almeno «quattro testimoni» sentiti dall’avvocato Fabio Anselmo che ha
assunto la difesa della famiglia di Davide, che ieri ha ricevuto anche la visita di Ilaria
Cucchi. Il legale aggiunge di aver sentito «quattro giovani, ma forse ve n’è anche un
quinto, i cui racconti smentiscono la versione dell’Arma su quella pallottola “accidentale” ».
E soprattutto, una foto shock: l’immagine del cadavere di Davide con il foro del proiettile al
petto, è stata lanciata in Rete dalla famiglia. Dopo il dolore, la controffensiva. Tutto mentre,
nelle stesse ore, va in scena nel quartiere una veglia di preghiera.
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Il povero corpo di Davide non è ancora sepolto, ma è già in pieno corso il “dibattimento”
mediatico. Il legale produce un video in cui, alla fine dell’inseguimento che costerà la vita a
Davide, si vede l’altro carabiniere con l’arma in pugno — è il collega di colui che ha
sparato e ucciso — inseguire fin dentro una sala giochi l’uomo che l’Arma ritiene essere «il
latitante Arturo Equabile». Due minuti e mezzo di video, visibile anche su repubblica. it.
Sottolineano fonti dell’Arma: «Quel filmato prodotto conferma ciò che il carabiniere, collega
del militare indagato, ha già dichiarato al pm in sede di testimonianza. E cioè che aveva
continuato a inseguire a piedi l’uomo in fuga fin dentro una sala da biliardo ».
Non basta. Sul feretro di Davide scatta la strategia hard della famiglia Bifolco, che ieri
“lancia” online foto devastanti del ragazzo: sul pallore del torace nudo, spicca il foro del
proiettile, vicino al cuore. Un elemento tuttavia, che come lostesso legale Anselmo
conferma a Repubblica , «certo non aggiunge nulla a quello che si sapeva. Sarà invece la
perizia balistica a rivelarci gli elementi utili a ricostruire la traiettoria. Io ho saputo che una
cugina ha postato questa foto. Credo sia, in fondo, una scelta emotiva: “era giovane e vivo
e guardate come ce lo hanno ridotto”». Ma l’iniziativa spinge la Procura ad attivarsi a tarda
sera. «Una scelta che inquieta, sia per i profili di sensibilità, sia perché la salma è a
disposizione della giustizia e qualunque contatto o immagine è da considerarsi abusiva —
sottolineano fonti della Procura — Saranno i carabinieri a riferirci e adotteremo eventuali
provvedimenti». Ma l’avvocato Anselmo replica: «Francamente non mi sembra uno
scandalo. Ci sono decine di casi in cui si fotografano i cadaveri e si pubblicano perché si
conosca la verità». Ilaria Cucchi è solidale «e vicinisima» ai Bifolco: «Io capisco rabbia e
amarezza. Non generalizzo, ma so che cosa li aspetta. Troveranno sempre qualche
magistrato pronto ad assolvere».
Dell’8/09/2014, pag. 8
Polizia, sblocco degli scatti solo per gli agenti
più anziani
Michele Di Branco
Messa giù in termini molto brutali servono non meno di 800 milioni di euro nel 2015 per
togliere il tappo che blocca gli scatti di carriera e gli assegni funzionali dei 305 mila uomini
delle forze dell'ordine in agitazione. Soldi che il governo non ha visto che meno di una
settimana fa il ministro della Pa Marianna Madia ha detto chiaro e tondo che i 2,1 miliardi
che servono per scongelare i contratti degli statali fermi ormai dal 2010 non ci sono.
Tuttavia il governo, che ha attivato una war room composta da Tesoro, Difesa a Interni,
una mediazione in grado di sopire la protesta scongiurando in questo modo uno sciopero
senza precedenti nella storia della Repubblica la sta cercando con tutte le forze. La linea
Maginot di sindacati di polizia e Cocer è netta: la protesta finisce se si elimina il tetto
salariale imposto dal 2010 a tutto il personale in uniforme. Una misura di contenimento
della spesa pubblica voluta dal governo Monti e che in quattro anni è costata alle forze
dell'ordine un deficit aggregato in busta paga di 4-6 mila euro a testa. Quei soldi, è bene
chiarirlo, sono ormai perduti. Ma si lavora comunque per rimediare.
UNA TANTUM
In queste ore, trova conferma l'ipotesi di scongelare, ma solo per il 2015, gli assegni di
funzione che, a prescindere dall'avanzamento di grado e di carriera, spettano al
raggiungimento, nell'ordine, di 17, 27 e 32 anni di servizio. Si tratterebbe di una specie di
misura una tantum a parziale compensazione delle sostanze salariali andate in fumo negli
19
ultimi anni. Servono 80 milioni per coprire questa operazione che andrebbe a beneficio di
50 mila persone. Il governo è comunque consapevole che una mossa di questo genere,
non affiancata da ulteriori e più robuste iniziative, sarebbe accolta quasi come una
provocazione dai corpi di polizia che negli ultimi 5 anni hanno lasciato sul terreno 2,3
miliardi di euro. E per questa ragione si ragiona su un intervento più radicale e soprattutto
più ravvicinato. Già a luglio, i ministri Alfano e Pinotti avevano annunciato che puntavano a
trovare le risorse nei bilanci dei dicasteri per anticipare già a questo autunno lo sblocco
stipendiale. E intervenendo sul bilancio sarebbero saltati fuori circa 200 milioni, frutto in
particolare dello stop ad una tornata di assunzioni. Così ci sarebbero i margini finanziari
(ma servono altri 70 milioni) per sbloccare, a partire da ottobre, assegni funzionali,
promozioni e scatti gerarchici che fanno crescere le busta paga. E' bene chiarire che
l'intervento darebbe respiro solo agli uomini in divisa che, nel periodo compreso tra il 2010
e il 2014, hanno maturato i diritti non ancora riconosciuti. Il che vuol dire che il personale di
più antica militanza otterrebbe benefici negati invece alle reclute ed agli agenti più giovani.
I quali dovranno sperare nell'eventuale riapertura di una finestra nel prossimo futuro.
Consolandosi nel frattempo con gli 80 euro, considerato che le truppe alle prime armi
viaggiano sotto i 1.400 euro e incassano dunque il bonus fiscale in vigore da maggio.
Questa operazione incontra però un ostacolo non da poco.
LA COPERTURA
Come farà il governo a rendere strutturali, a partire dal 2015, gli aumenti? La risposta,
sostengono i sindacati delle forze dell'ordine incontrando però cautela nel ministero del
Tesoro, è contenuta nel Def di aprile dove si fa riferimento ad un incremento della spesa
del personale dello 0,1% «per il venir meno di alcune delle misure di contenimento della
spesa in vigore nel periodo 2011-2014» Tra le quali, appunto, le progressioni di carriera.
Peccato, fanno però notare fonti del Tesoro, che quei soldi vadano spalmati su 3,2 milioni
di dipendenti Pa di cui i militari rappresentano meno del 10% della forza complessiva.
Dell’8/09/2014, pag. 9
Emergenze, contro gli sprechi: accorpamenti
e centrali operative unificate
Michele Di Branco
Bruxelles lo chiede invano da tre anni ma l'Italia, beccandosi anche qualche multa dall'Ue,
non ha saputo rispondere che con sparute iniziative sperimentali. Il dossier che riguarda
l'unificazione delle centrali operative delle forze dell'ordine gira tra i tavoli di Palazzo Chigi,
Tesoro, Viminale e Difesa da troppi anni senza che nessuno, nella girandola di premier,
ministri e vertici militari, venga davvero a capo di qualcosa. Adesso sembra che il governo
voglia finalmente accelerare la questione offrendo al Paese e ai cittadini un solo punto di
riferimento al posto dei 5 (Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza, Vigili del Fuoco e
Forestale) che ci sono attualmente. O anche di pìù perchè nei grandi centri urbani come
Roma e Milano le centrali salgono fino a 8-9. Una sola centrale operativa, insomma, nel
prossimo futuro. Il progetto, in realtà, rientra in un quadro molto più ampio di
razionalizzazione dell'attività delle polizie dello Stato. Una razionalizzazione dalla quale, a
regime, si punta ad ottenere risparmi per almeno 600 milioni sui 20 miliardi di costo di
funzionamento della macchina amministrativa delle forze dell'ordine. Oltre alle centrali
operative, si studia l'accorpamento del dipartimento di pubblica sicurezza e del
dipartimento di soccorso pubblico dei vigili del fuoco. Raccontano fonti vicine al dossier
20
governativo che solo questi due interventi potrebbero far risparmiare alle casse dello Stato
circa 150 milioni di euro. Meno sedi, meno mense, meno auto di servizio. In una parola,
minori sprechi. E magari un coordinamento funzionale più appropria tra gli apparati e gli
uomini impegnati negli uffici e sulle strade. Il progetto ovviamente, rientra nella prospettiva,
della quale il premier Renzi ha parlato in più di una circostanza, di ridurre numericamente i
corpi di polizia.
GLI ACCORPAMENTI
E da questo punto di vista trova conferma l'ipotesi di procedere con la riconduzione di
polizia penitenziaria e guardia forestale sotto il controllo della Polizia di Stato. La
riorganizzazione dei presidi di pubblica sicurezza appare ormai una necessità. Si contano
1.850 centri di comando della polizia di stato, 6.140 dei carabinieri (di cui 4.632 stazioni) e
le direzioni centrali della polizia, che erano appena una decina 20 anni fa, sono
raddoppiate. «Una capillarità inutile e improduttiva non più sostenibile e su cui urge
procedere con drastici accorpamenti» dicono fonti sindacali. D'altronde il problema delle
sovrapposizioni funzionali e degli sprechi è ben noto al ministero del Tesoro. In una
recente ricognizione, la ragioneria ha messo in mostra che, nel corso degli anni, sono
aumentati sensibilmente i centri di costo della Pa passando da 137 nel 2008 a 251 nel
2013. «A tale aumento - osservano i tecnici di Via XX Settembre - hanno contribuito
principalmente il Ministero della giustizia e il ministero delle Infrastrutture ma soprattutto il
Ministero dell’Interno con un aumento delle prefetture del governo e l’apertura nel 2011 di
alcuni centri di costo riguardanti le questure e le direzioni regionali dei Vigili del Fuoco».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Dell’8/09/2014, pag. 23
Sarti Cinesi e Orafi del Bangladesh cresce il
Made in Italy degli immigrati
Il rapporto: «Nel 2013 più 50 mila ditte straniere, meno 18 mila le
italiane»
Fatto in Italia sì, ma da sarti cinesi, orafi bangladesi, cavatori macedoni, meccanici romeni.
Non solo manodopera, ormai è assodato: il made in Italy è sempre più una fabbricazione
«straniera» in casa. Anche negli storici distretti manifatturieri, ossatura della nostra
produzione, un numero crescente di aziende è di proprietà di donne e uomini nati
all’estero. Wu Y. Q., per esempio, imprenditore tessile nel Gallaratese, arrivato 18 anni fa
dallo Zhejiang. Per diffidenza, incertezze della lingua e anche perché lavora per un grosso
marchio dell’alta moda, del suo nome vuole dare solo le iniziali. «Ho 31 anni, moglie e tre
figli, tutti nati qui — racconta —. Ho aperto la mia azienda sei anni fa, dopo aver lavorato
nello stesso settore, nella ditta di mia madre». Da lì, ha cominciato a capire come
funziona. «Arrivato bambino, ho frequentato la seconda e la terza media. Non parlavo
benissimo l’italiano, ma meglio del resto della famiglia: è così che hanno affidato a me il
rapporto con le altre aziende». Un po’ di studi, molti contatti, Y. Q. ha fatto il salto: oggi ha
sette dipendenti, ma nel 2010 era arrivato ad averne anche 15, perché il marchio del lusso
per cui lavora aveva ritirato in fretta le confezioni dalla Tunisia, spaventato dalle rivolte
della Primavera, e le aveva ricollocate tra i terzisti cinesi. Che in Italia, ormai, il tessile lo
dominano. Sono stranieri, prevalentemente nati nella Repubblica popolare, otto
imprenditori su dieci nel distretto dell’abbigliamento di Prato, con una crescita di oltre il 10
per cento in cinque anni; la metà dei titolari delle aziende nell’area di Empoli; quasi il 40
per cento in provincia di Teramo; oltre il 30 a Santa Croce sull’Arno (Pisa); e ancora sopra
la media nazionale (del 24 per cento) nel Gallaratese (Varese), a Montebelluna (Treviso),
a Verona. Si legge con chiarezza nelle tabelle elaborate per il Corriere della Sera da
Enrico Di Pasquale e Chiara Tronchin, ricercatori della «Fondazione Leone Moressa».
«La crescita imprenditoriale straniera nel nostro Paese non deve stupire — spiegano gli
esperti —: è il naturale evolversi di un processo di integrazione». Sviluppo in
controtendenza, però, rispetto alle aziende italiane, che rallentano. L’ultimo dossier della
Fondazione segnalava che, su sei milioni di imprese, 497 mila sono condotte da persone
nate all’estero (l’8,2%) e che, nonostante la crisi, le ditte straniere sono aumentate nel
2013 di 50 mila unità, mentre quelle «autoctone» sono diminuite di 18 mila.
Il nuovo studio si concentra sui distretti produttivi, prendendo in considerazione solo il
manifatturiero. Per dimostrare che anche qui, nerbo del made in Italy , «le dinamiche
economiche degli ultimi anni hanno mutato profondamente il panorama, aprendo
all’internazionalizzazione». Non solo nel tessile. L’incidenza di «stranieri» nelle ditte di pelli
del Valdarno Superiore è del 37,9%, quasi tutti cinesi, cresciuti tra il 2009-14 del 28,5 per
cento. Importante la presenza “estera” pure nel calzaturiero di San Mauro Pascoli, in piena
Romagna (18,9%); e persino nella Regione delle scarpe per eccellenza, a Civitanova
Marche (14,4) e a Fermo (12,9). «Non è da sottovalutare la presenza in altri settori ancora
– continuano i ricercatori -, come il porfido trentino o la metalmeccanica del Canavese, in
cui la prima nazionalità è romena (25,6%). È “l’evoluzione” dell’operaio che dopo aver
imparato il “lavoro” inizia l’avventura imprenditoriale». La storia dei nuovi orafi pakistani e
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bangladesi del distretto di Arezzo, tra gli altri, una realtà ancora piccola (il 9,2 per cento)
ma in forte crescita (più 27,6% in 5 anni); a fronte di una diminuzione di imprese con
titolare italiano (meno 17%). Si comincia a osservare, allora, un effetto «sostituzione»: la
vecchia ditta italiana chiude per mancanza di eredi, l’ex dipendente la rileva o ne apre una
propria con il know how qui appreso, portando avanti una tradizione che le nuove
generazioni autoctone non sanno o non vogliono perpetuare. «I dati sulle imprese da una
parte confermano la sedimentazione della presenza dei migranti in Italia — nota il
geografo dell’Università Orientale di Napoli, Fabio Amato —: non un’anomalia, ma un
trend di lunga durata. Dall’altra, indicano un dinamismo e una capacità di adattamento
spesso superiori a quelli degli italiani». Gli stranieri non fanno più solo i mestieri «scartati»
perché troppo faticosi, continua lo studioso, ma «coprono» con nuove imprese anche le
competenze manuali che via via si stanno perdendo. Ultima roccaforte, l’agroalimentare,
dove il rapporto tra l’azienda e il territorio è particolarmente blindato e richiede forze
maggiori per essere espugnato. Nel distretto del prosecco di Conegliano Valdobbiadene,
per capire, gli stranieri sono i tedeschi che hanno comprato la Mionetto o un magnate
russo che s’è accaparrato la Contarini. Vicenda diversa, forse anche più importante, nella
storia del made in Italy ma da altri.
Alessandra Coppola
del 08/09/14, pag. II (Cronaca di Roma)
Ponte Galeria, rivolta al Cie gli immigrati
salgono sul tetto
CONTINUANO le proteste al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria.
Dopo il rogo dei materassi di venerdì scorso, ieri alcuni immigrati che vivono nella struttura
sono saliti sul tetto protestando al grido di “liberi! liberi!” denunciano la lunghezza dei tempi
di permanenza nel cie romano. Contemporaneamente, davanti alla struttura di Ponte
Galeria, si è tenuta una manifestazione di solidarietà con i reclusi a cui sono intervenute
decine di persone. “Sempre più persone arrivano dai nostri mari direttamente nelle gabbie
dei centri, le retate svuotano il litorale e le strade della città - si legge in un volantino
diffuso dai manifestanti - anche se le espulsioni aumentano, gli ingressi nel centro di
identificazione continuano ad aumentare”. Nella struttura di Ponte Galeria sono
attualmente presenti 120 persone di cui 90 uomini e 30 donne “che per tutto il mese di
agosto hanno continuato a portare avanti gesti di protesta come scioperi della fame,
tentativi di fuga in alcuni casi riusciti, e gesti estremi di autolesionismo come quando alcuni
di loro si sono cuciti le labbra” si continua a leggere nei volantini che vengono distribuiti
dalla gente accorsa alla protesta per denunciare le condizioni di vita degli immigrati.
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INFORMAZIONE
Da Repubblica – Affari e Finanza del 08/09/14, pag. 12
Villaggio Globale
Al Jazeera, il nuovo anti-Murdoch dal Qatar
alla conquista dell’Europa
IL NETWORK ARABO, CHE DAL 2006 HA UNA FORTE SEDE A LONDRA
E UFFICI DI CORRISPONDENZA IN UTTTO IL MONDO, SBARAGLIA LA
CONCORRENZA DEL “RE” DEI MEDIA SUI DIRITTI DEL CALCIO
FRANCESE E ORA L’ATTACCA SUL TERRENO DI CASA DELLA
PREMIER LEAGUE
Alberto Flores d’Arcais
Gerusalemme furono 147 milioni di dollari, un generoso “prestito” dell’emiro del Qatar che
avrebbe garantito i primi cinque anni di vita. Milioni che nel corso di quasi tre decenni sono
diventati miliardi (quanti con certezza nessuno lo sa), seguendo la incredibile
trasformazione del più grande fenomeno televisivo di questo nuovo secolo: Al Jazeera,
parola che significa “la penisola” in arabo. I primi tempi (anche economicamente) non
furono facili, come non lo furono i programmi, fin troppo spesso boicottati dai regimi arabi
di allora. Ora, 18 anni dopo il via alle trasmissioni (1 novembre 1996), la televisione in
lingua araba partita dal Qatar, è diventato uno dei più grandi imperi dell’informazione (e
non solo) mondiale. Decine di canali visibili in ogni parte del mondo, tv che trasmettono in
inglese, turco, serbo- croato, uffici in ottanta paesi del mondo, migliaia di impiegati. E da
qualche anno un network per lo sport (beIN) che sta rendendo la vita difficile anche ad un
gigante come Rupert Murdoch. Il tutto grazie al polmone finanziario di uno dei fondi
sovrani del piccolo emirato del Golfo che ha asset per oltre 100 miliardi di dollari. Che ha
finanziato via via la creazione di un mega-staff di 3000 dipendenti di cui 400 giornalisti,
degli 80 uffici di corrispondenza, di una faraonica sede a Londra con 1000 persone, di
infrastrutture di rete di primissimo piano. E a questo punto, almeno a giudicare da quello
che si può vedere sullo schermo, anche di un apparato di pubblicità tutt’altro
che indifferente. Una pubblicità internazionale, riservata a un pubblico colto, di quella che
di solito viene pagata molto bene dagli inserzionisti. Con questo fondo di dotazione, Al
Jazeera ha potuto dormire sonni tranquilli quando le cose non andavano bene e può
guardare (senza troppi fastidi) anche a qualche piccolo problema che forse avrebbe voluto
evitare. Come la causa che gli ha intentato l’ex vice-presidente degli Stati Uniti e cofondatore di Current Tv Al Gore, che nel 2013 aveva venduto il suo canale ad Al Jazeera
per la bella somma di 500 milioni di dollari. E che ora accusa senza troppi giri di parole il
network del Qatar: “Usa tattiche subdole per utilizzare depositi in garanzia come riserva da
cui prelevare denaro per pagare favori ai suoi distributori e renderli felici senza spendere
un centesimo del proprio denaro”. In effetti, in base all’accordo di vendita, 85 milioni di
dollari dovevano fungere da depositi in garanzia fino al 2 luglio 2014, quando Gore e gli
altri proprietari di Current avrebbero dovuto ricevere il saldo. Che, stando alla denuncia,
non avrebbero avuto. La cosa si risolverà presto, quei milioni sono pochi spiccioli se messi
a confronto con le spese complessive (un miliardo di dollari solo per il canale in lingua
inglese) di Al Jazeera e del suo Media Network, spese di cui si fa carico l’Emiro Hamad
bin Thamer Al Thani, che dal 2011 è anche presidente del network. Tutto ebbe inizio quasi
24
vent’anni fa. Era il 1996 e (per ironia della sorte) furono due atti di censura a segnare la
nascita della più famosa televisione satellitare araba. Il primo un misterioso black-out che
fece saltare in Arabia Saudita una trasmissione della Bbc in lingua araba, proprio mentre
veniva intervistato un noto dissidente. Cosa che segnò di fatto la fine della joint venture tra
la Bbc e la Orbit (la compagnia di telecomunicazione dei sauditi). Il secondo episodio
avvenne quando un canale francese, che aveva un prezioso slot su ArabSat, mandò in
onda (per errore o per il dispetto di un tecnico, la verità non si è mai saputa) un film
pornografico al posto di un programma per i bambini arabi. Uno scandalo che costò ai
francesi la presenza sulla piattaforma satellitare inter-araba e aprì una porta inaspettata
alla appena creata tv del Qatar: che ne prese il posto e poté iniziare a diffondere i suoi
programmi a milioni di teleutenti del mondo arabo. Quella dell’Emiro del Qatar fu una
mossa da grande businessman. Prese in consegna la tecnologia, la manodopera e
soprattutto l’idea centrale del defunto canale Bbc Arabic, il cui staff non solo era ben
addestrato ma praticava un giornalismo di stampo anglosassone, grazie ai lunghi
soggiorni a Londra e agli anni di servizio alla Bbc (la casa-madre) dei suoi reporter arabi.
Per il mondo islamico l’arrivo di Al Jazeera fu un vero e proprio shock. Anche se all’inizio i
suoi programmi andavano in onda solo sei ore al giorno ci fu la corsa ad abbonarsi a quel
canale satellitare (in alcuni paesi via cavo) che non iniziava i suoi telegiornali con le attività
del sovrano che lo aveva finanziato e che guardava all’intero mondo arabo anche se la
sua redazione si trovava a poche centinaia di metri dal palazzo reale. Fu chiaro fin
dall’inizio che il nuovo canale era aperto alle voci di dissenso, in precedenza rigidamente
vietate: oppositori politici dei regimi arabi, i gruppi sempre e comunque discriminati che si
occupavano dei diritti civili (donne comprese), Stati come l’Iraq e la Libia e perfino gruppi
dichiaratamente terroristici come al-Qaeda, tutti ebbero in qualche modo diritto di parola.
Per la prima volta argomenti incendiari nei paesi dell’Islam venivano messi sul tavolo e
portati nelle case di tutti per una discussione senza tabù nei talk show in diretta. Dai
microfoni di Al Jazeera po-litici, religiosi, professori, dissidenti, cittadini comuni e donne (la
novità più dirompente) avevano il diritto di parola e potevano sfogarsi contro regimi e
governanti oppressori. E come in qualsiasi tv occidentale ai telespettatori, alle persone
comuni di ogni ceto, veniva data la parola con un filo diretto via telefono. Il resto è cosa più
nota. Il successo planetario arriva dopo l’11 settembre 2001, con le guerre in Iraq e in
Afghanistan, la consacrazione definitiva grazie alla primavera araba in cui Al Jazeera
divenne protagonista fin dalle prime proteste in Tunisia nel dicembre 2010. Successo
amplificato dai grandi investimenti per dare il via ad Al Jazeera English (con l’assunzione
di noti e preparati giornalisti del mondo anglosassone) e agli altri successivi cloni.
Successo tra molte polemiche e la rottura brutale con Arabia Saudita, con le accuse alla tv
di istigare alla violenza e con la repressione diretta nei confronti dei suoi giornalisti.
Mercoledì tre settembre, per la terza volta in pochi mesi, un tribunale egiziano ha deciso
l’oscuramento di al Jazeera. Motivo? Essere schierata “troppo a favore dei Fratelli
Musulmani”, “incitare gli studenti alla rivolta”, “destabilizzare il governo”. Accuse pesanti,
come pesanti sono state le pene (dai sette ai dieci anni di carcere) inflitti a tre giornalisti
del network. Il quartier generale di Al Jazeera a Doha, capitale del Qatar La cabina di regia
di uno degli studi della rete televisiva internazionale Al Jazeera a Doha
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CULTURA E SCUOLA
del 08/09/14, pag. 18
Nel sito della Sovrintendenza tutti i dati sugli interventi e su quanto
verrà speso dopo lo scandalo dei crolli e dell’incuria
Pompei ora è social così i restauri e gli
appalti non avranno segreti
CINZIA DAL MASO
IL GRANDE Progetto Pompei si apre ai cittadini. Da oggi i dati relativi agli interventi di
restauro e manutenzione, avviati nella città antica, sono in rete sul portale della
Soprintendenza in modalità Open Data, cioè non solo consultabili ma anche liberamente
riutilizzabili da chiunque. È il primo grande risultato di OpenPompei, progetto voluto nel
2012 dall’allora ministro per la coesione territoriale Fabrizio Barca, che ora finalmente
diventa operativo. Vuole avviare una collaborazione tra lo stato e i cittadini, chiedendo a
tutti di partecipare al monitoraggio di quanto avviene nella città antica e attorno a essa.
«L’idea è di avere tanti occhi puntati sulla città. Più gente controlla, e meno problemi
insorgono» spiega il responsabile scientifico Alberto Cottica. E lo strumento primo del
controllo è la conoscenza: per questo oggi vengono “aperti” i dati su lavori e costi dei 20
interventi appaltati finora (circa 28milioni di euro), ma lo stesso accadrà in futuro per gli
altri cantieri finanziati con i 105 milioni dei fondi comunitari del Grande Progetto. E il team
di OpenPompei ha già creato una rete di attivisti sociali capaci di riutilizzare i dati
producendo statistiche, analisi, proposte. «È il tentativo di creare un modello di gestione
diverso, costruito con le idee dei cittadini, anche nel settore dei beni culturali», conclude
Cottica.
Proprio per questo OpenPompei sta già lavorando per “aprire” anche le informazioni
scientifiche sulla città antica: rilievi, schede informative, piante, foto, mappa del rischio,
ricostruzioni virtuali. È un patrimonio di conoscenze immenso che oggi molti chiedono a
gran voce, per Pompei e per tutti i beni culturali, di rendere disponibile a chiunque voglia
riutilizzarlo per ricerca ma anche per creare strumenti di promozione turistica, app o
videogiochi. La libera circolazione di queste informazioni potrebbe dar vita a un’economia,
oltre che a una comunità civica virtuosa. L’impresa non è facile per i mille cavilli legati a
proprietà e diritti d’autore che, in Italia più che altrove, complicano l’apertura dei dati sui
beni culturali, ma già diverse amministrazioni locali e lo stesso ministero vi stanno
lavorando.
Finora OpenPompei ha proceduto a piccoli passi adoperandosi, per esempio, per
l’apertura di Pompei all’edizione 2014 di Wiki Loves Monuments: questo mese un pool di
fotografi invaderà la città scattando immagini che condividerà sul web. E si conta di
giungere un giorno a condividere persino la cosiddetta “letteratura grigia”, cioè i dati
prodotti durante uno scavo archeologico che sovente, dopo la pubblicazione, vanno
perduti. Lo scavo è distruttivo e, una volta avvenuto, quei documenti ne sono l’unica
testimonianza. L’unica possibilità, per altri ricercatori, di riutilizzare quel lavoro per nuove
ricerche storiche, per nuove ricostruzioni, o per la tutela.
Per questo stanno nascendo negli ultimi anni diversi portali per l’archiviazione aperta dei
dati archeologici. L’Archaeology Data Service inglese, per esempio, esiste già dal 1996,
mentre il Italia solo ultimamente è nato il MAPPA Open Data (MOD) per iniziativa di Letizia
Gualandi dell’Università di Pisa. «Usato ancora troppo poco dai colleghi, anche perché le
conoscenze per archiviare e riutilizzare i dati non sono alla portata di tutti. Deve farsi
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strada una nuova mentalità» osserva Gabriele Gattiglia, tra gli ideatori del MOD e
collaboratore di OpenPompei. Gattiglia conta molto sull’effetto- Pompei: «È un luogo
simbolo. Se apre i suoi dati, anche gli altri seguiranno. E sarà una vera rivoluzione per
l’archeologia e i beni culturali tutti».
Da Repubblica – Affari e Finanza del 08/09/14, pag. 37
Università top, l’Italia fuori dalle magnifiche
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CRESCE LA CONCORRENZA TRA GLI ATENEI ANCHE SE ALLA FINE
LA DIFFERENZA LA FA IL MERCATO. SECONDO UNA RICERCA A
SHANGAI IL NOSTRO PAESE NON SI PIAZZA BENE NELLA
CLASSIFICA INTERNAZIONALE GUIDATA DA HARVARD
Luigi Dell’Olio
Milano I n un mercato del lavoro sempre più globalizzato, cresce la concorrenza tra gli
atenei. Un discorso che vale in primo luogo per le università private, che hanno rette
importanti, giustificabili solo a fronte di un’elevata occupabilità in tempi ragionevoli. Dal
punto di vista delle matricole, la scelta non è semplice, data la vastità dell’offerta, e in
questo senso le classifiche più accreditate possono aiutare a discernere le migliori, per
quanto i criteri seguiti siano inevitabilmente soggetti a un margine di discrezionalità. Alla
fine, comunque, la differenza lo fa il mercato, con i selezionatori che spesso tendono a
effettuare una prima scrematura dei candidati proprio in base all’ateneo di provenienza.
L’ultimo ranking a essere stato pubblico fornisce un quadro sconfortante per il nostro
Paese, dato che nessuna università italiana riesce a piazzarsi nelle prime 150, mentre in
sei entrano tra le prime 200. Lo studio, intitolato Academic ranking of world universities
(Arwu), è stato curato come ogni anno dall’ateneo Jao Tong di Shangai ed è uno dei più
accreditati a livello mondiale, insieme con la QS World University Rankings e la Times
Higher Education World University Rankings. Tornando all’Arwu, la metodologia utilizzata
per stilare la classifica segue criteri di tipo scientifico, come il numero di premi Nobel
ottenuti dagli ex alunni e dal corpo accademico, le citazioni e le pubblicazioni, oltre a
parametri relativi alla qualità
dell’insegnamento e della ricerca e alla performance di ciascun istituto rispetto al numero
degli iscritti. Il risultato vede primeggiare gli atenei statunitensi, con Harvard (dove, tra gli
altri, hanno studiato il presidente americano Barack Obama e il fondatore di Facebook
Mark Zuckerberg) che conferma il primato per il dodicesimo anno di seguito. La piazza
d’onore spetta a Stanford, davanti al Mit (Massachusetts Insitute of Technology). Più in
generale, la sensazione che emerge è il persistere de dominio da parte degli atenei privati
in lingua inglese. Negli ultimi anni i Paesi emergenti, in primis quelli asiatici, hanno
investito massicciamente per scalare le graduatorie (in molti casi anche offrendo contratti
d’oro agli insegnanti più accreditati), ma per il momento restano indietro. Ai piedi del podio
si piazza l’Università della California-Berkeley, che precede la britannica Cambridge
(prima presenza europea) e un altro quartetto a Stelle e Strisce composto da Princeton,
California Institute of Technology, Columbia e Università di Chicago, quest’ultima in
coabitazione con la britannica Oxford. Dopo i primi 100 posti, la classifica è organizzata
per blocchi, indicati esclusivamente in ordine alfabetico. Nella categoria 101-150esimo
posto non vi sono realtà italiane, mentre nel range 151-200 vi rientrano Bologna, Milano,
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Padova, Pisa, Roma La Sapienza (che fino al 2006 era stabilmente indicata tra le prime
100) e Torino. Tra la 201esima e la 300esima posizione si trovano il Politecnico di Milano
e l’Università di Firenze, mentre ancora più giù (301-400) la Normale di Pisa, Milano
Bicocca, Federico II di Napoli, Roma Tor Vergata. Infine, tra il 401esimo e il 500esimo
posto si incontrano l’Università Cattolica e quelle di Cagliari, Ferrara, Genova, Palermo,
Parma, Pavia, Perugia e Trieste. A voler scorgere una nota positiva, va sottolineata la
presenza di 21 atenei italiani tra i primi 500, due in più rispetto alla classifica stilata lo
scorso anno. Per trovare qualche nota positiva in merito agli atenei italiani occorre far
riferimento alle classifiche di settore. La Penisola conta tre presenze nella top 100 con
Milano, Pisa e la Sapienza (nel gruppo che va dal 76esimo-100esimo posto) e altre cinque
nel gruppo 101-125, vale a dire il Politecnico di Milano, la Normale di Pisa, Padova, Pavia
e Parma. Bologna è 50esima nella classifica Arwu per la fisica, con buoni piazzamenti
anche per Padova (51-76esimo posto) e la Sapienza (76-100). L’Università Bocconi,
assente nella classifica generale, è al 101-150esimo posto delle università mondiali per
l’insegnamento dell’economia, mentre in questa categoria la statale di Milano si piazza
invece tra il 151-200esimo posto.
Dell’8/09/2014, pag. 4
Ricercatori di tutta Europa unitevi
IN TUTTA EUROPA I FONDI VENGONO FALCIDIATI. I GIOVANI SONO COSTRETTI A
EMIGRARE PORTANDOSI DIETRO I CONTRIBUTI EUROPEI LORO ASSEGNATI. IL
19 OTTOBRE LA PROTESTA IN FRANCIA
Giardinieri pagati con i soldi della ricerca. Roma, agosto inoltrato, il malumore è palpabile
all’Istituto dei sistemi complessi: “Ci hanno tolto 20mila euro per pagare la manutenzione
dei giardini della sede distaccata del Cnr a Monte Libretti”, spiegano nei corridoi semideserti. Benvenuti nell’anno anno zero della ricerca. Via i cervelli, via i fondi e il potenziale.
L’Italia e il sud Europa sono contribuenti netti di scienza: danno più di quanto ricevono. La
via del salasso porta a Nord, verso i Paesi “virtuosi”. Dal 2008 le università e i laboratori
italiani hanno perso il 18,7 per cento dei finanziamenti statali, il 100 per cento dei fondi per
la ricerca di base e il 90 per cento dei reclutamenti (meno 10 mila ricercatori). Altrove non
è andata meglio: Spagna, Portogallo, Grecia e Francia affrontano tagli spaventosi (ne
trovate una sintesi a pagina 6). Al contrario, Paesi come Germania, Olanda e Inghilterra
hanno retto l’urto della crisi, e non sempre per meriti propri, anzi, ai cervelli migranti si
sono affiancati i fondi europei vinti dai ricercatori in rotta verso il Nord. Il drenaggio è nei
numeri, lento, inesorabile e in atto da almeno una decade. A parte gli scienziati, nessuno
sembra accorgersene, e il motivo è semplice: tutto è in uno stato di coma vigile, le risorse
che ci sono bastano solo a mantenere in piedi la struttura, e nulla più, mentre pezzo dopo
pezzo il crollo della spesa e la fuga di ricercatori, dottorandi e post-doc ne mina le
fondamenta, compromettendone il futuro. In Italia, secondo l’Associazione dei dottori di
ricerca, dei 15.300 assegnisti attivi nel 2013, il 96,6 per cento non continuerà a fare
ricerca. Il 19 ottobre, migliaia di ricercatori lanceranno l'ultimo mayday della scienza. A
Parigi arriveranno in bicicletta da tutto il Paese (Sciences en marche), in Italia
mostreranno in aula all’inizio di ogni lezione i dati catastrofici sullo stato di salute della
ricerca raccolti dalla rivista Roars . Altrove le forme si stanno studiando, ma si annunciano
proteste clamorose e l’obiettivo è lo stesso per tutti: “O si inverte la rotta, o si muore”. Un
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salasso continuo Smettere di tagliare sarebbe il primo passo. In cinque anni, la riduzione
di fondi, assegni di ricerca e programmi di reclutamento oscilla dal 41 per cento della
Spagna al 50 per cento della Grecia, mentre una brutale revisione dei criteri di valutazione
(appaltata ad istituzioni europee) rischia di tagliare fuori dal finanziamento pubblico metà
delle unità di ricerca portoghesi. Allargando lo sguardo non va meglio. In Francia nel 2014
poco meno di un decimo dei progetti presentati all’Agenzia nazionale della ricerca verrà
finanziato. Eppure si tratta della principale forma di sovvenzione dei laboratori, visto che
l’80 per cento del finanziamento statale è servito a pagare i salari dei ricercatori (pari a 2
miliardi di euro). “Per triplicare i fondi per la ricerca basterebbe trovare 600 milioni, il
bilancio annuale della squadra di calcio del Paris Saint-Germain”, hanno attaccato i
ricercatori in una lettera al quotidiano Liberation . Secondo l’Ocse, nel 2012, fatta
eccezione per Germania, Svezia, Danimarca e Finlandia, l’Europa ha fatto registrare una
spesa per ricerca e sviluppo inferiore al 3 per cento del Pil fissato come obiettivo dal
Trattato di Lisbona (2007). L’Italia ha destinato solo l’1,3 per cento della ricchezza
nazionale ed è 32esima (su 37) nella classifica Ocse nella spesa per università. I tagli
imposti dall’au - sterità fiscale non impattano sulla bravura degli scienziati, semplicemente
li costringono a emigrare. A differenza di cinquant’anni fa, però, non portano con sé va
ligie di cartone, ma fondi europei per milioni di euro. Per dare l’Idea, a gennaio sorso
l'European research council (Erc) ha assegnato 312 Consolidator Grants, fondi di ricerca
attribuiti a scienziati con una discreta esperienza accademica e dagli importi molto alti: si
arriva fino a 2,75 milioni di euro (per un totale di 575 milioni). Gli italiani ne hanno vinti 46,
due in meno della Germania primatista (Francia e Inghilterra sono molto indietro). Un
risultato straordinario che testimonia l’enorme potenziale della ricerca italiana. Peccato
però che solo 20 arriveranno nel nostro Paese, gli altri voleranno via: 50 milioni (più i circa
500.000 euro a testa che è costata la loro formazione) che regaleremo alle università che
hanno accolto i ricercatori italiani a braccia aperte. Succede così che l’Inghilterra, che ne
ha vinti molti meno di noi, grazie all’esodo dal basso realizza il punteggio migliore (62), la
Germania tiene botta e la Svizzera raddoppia. L'Italia? Solo uno dei premi è stato vinto da
un ricercatore di stanza all’estero, che (presumibilmente) rientrerà in patria. La fuga
accomuna tutti i Paesi del sud dell’Eu - ropa, e si ripete, anche se con minor intensità,
nelle altre due categorie di fondi Erc: gli advanced e gli starting. L’unico fondo in città
“Eppure questi sono gli unici fondi con cui si fa ricerca in Italia - spiega Mauro Nisòli,
docente del dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano - se non ne avessimo vinti tre
negli ultimi anni saremmo rimasti fermi. Così si vive alla giornata: non è possibile fare
progetti a lungo raggio, chiamare qualcuno dall'estero o stabilizzare un ricercatore, perché
non c'è alcuna garanzia che ne vincerai altri in futuro”. Il sistema funziona così: fatti cento i
fondi per università e ricerca, 90 arrivano dallo Stato e dieci dall’Europa. I primi coprono la
gestione ordinaria, i secondi la ricerca avanzata. Sulla carta ci sarebbero anche i fondi per
la ricerca di base. Che fine hanno fatto? Spariti nel nulla. Dal 20009 al 2012 la prima
sforbiciata (70 per cento) poi il taglio netto. Non che prima si navigasse nell’oro: due anni
fa tra Firb (ricerca di base) e Prin (Progetti di interesse nazionale) si è arrivati a 69 milioni
di euro (erano 196 nel 2009). Dovevano essere sostituiti dai Sir (Scientific indipendence of
young researchers): nuovi fondi e una dotazione di 47 milioni di euro. L’acronimo è
cambiato ma i soldi non sono mai arrivati. Perché? Il bando pubblicato a gennaio scorso
dal Miur prevedeva una commissione con due membri scelti da una rosa di nomi fornita
dal Consiglio europeo per la ricerca (Erc), che però non è mai arrivata. Davanti ai
ricercatori inferociti il ministero ha provato a dare la colpa all’ente europeo ma quest'ultimo
ha fatto presente alle autorità italiane che non era possibile fornire la rosa di nominativi e
diffondere le informazioni dei propri commissari per motivi di privacy. In pratica, il più
importante (e unico) bando per fare ricerca in Italia è stato redatto senza verificare prima
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la disponibilità dei giurati. Risultato? Sognando la Apple di Cupertino “A tutt’oggi - spiega
Luisa Maria Paternicò, ricercatrice all’Università degli Studi internazionali - è tutto fermo, e
probabilmente si slitterà di un anno. Spero non fosse questo l’intento perché altrimenti ci
sarebbe da emigrare all’istante. Oltretutto, a differenza di quelli europei, questi bandi
hanno un limite anagrafico, non accademico: a 40 anni e un giorno sei fuori da tutti i
giochi”. All'indomani del primo bando, l’allora ministro Maria Chiara Carrozza ne promise
un altro per gli over 40, poi naufragato per la caduta del governo Letta. Ma il vuoto non è
stato riempito. Il nuovo ministro Stefania Giannini si è limitata a promettere l’assunzione di
“seimila ricercatori l’anno per almeno quattro anni”. Costo? 864 milioni di euro, che il
governo non ha. E se gli uffici di viale Trastevere non si inventano qualcosa, dal 2015
scatterà un ulteriore limatura di 170 milioni del disastroso piano di tagli lineari varato a suo
tempo da Giulio Tremonti. Come ha fatto notare l’economista Mariana Mazzucato, senza
gli investimenti pubblici in ricerca non avremmo avuto prodotti come l’Iphone e aziende
coma la Apple. Dallo schermo Lcd al multi touch, dal micro disco rigido al programma di
assistenza vocale Sirio, il colosso di Cupertino non ha speso un dollaro: ha semplicemente
implementato il frutto di progetti di ricerca finanziati con miliardi di dollari dallo Stato
americano. Per questo, nonostante la più bassa percentuale di spesa per ricerca e
sviluppo tra i colossi della tecnologia, Apple è diventata un'azienda che oggi fattura 170
miliardi di dollari l'anno.
Dell’8/09/2014, pag. 19
Otto milioni di ragazzi sui banchi
Parte Bolzano, fra 10 giorni il Sud
Oggi i primi rientri in classe. Polemiche sui costi di libri e corredo
Per la maggior parte dei ragazzi questa sarà l’ultima settimana libera.
Per quelli della Provincia autonoma di Bolzano le vacanze sono già finite: oggi tornano sui
banchi di scuola. «Perché iniziamo prima di tutti gli altri?», si lamentano i giovanissimi su
Twitter e Facebook. A cui si aggiungono i post «disperati» degli iscritti di alcuni istituti,
soprattutto milanesi, che hanno deciso di anticipare rispetto al calendario regionale. Anche
se la differenza è di qualche ora: la campanella suonerà poco dopo anche per i «cugini» di
Trento e i molisani (mercoledì), per i valdostani e gli abruzzesi (giovedì). Tra sette giorni
toccherà agli alunni di quattordici regioni. I più «fortunati» al Sud: in Puglia e Sicilia le
classi torneranno ad affollarsi il 17.
In otto milioni sui banchi
Tra elementari, medie e superiori quest’anno scolastico gli studenti saranno 7.881.838, a
cui vanno aggiunti quelli che frequenteranno gli istituti nelle regioni a statuto speciale
(Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige) e quelli paritari. Sullo sfondo la «disperazione» —
affidata sempre ai social network — dei ragazzi: «Non sono psicologicamente pronto»,
sintetizzano in molti. Qualcuno spera in un «ripescaggio» della soluzione di Umberto
Buratti, sindaco di Forte dei Marmi, che settimane fa propose di posticipare l’apertura a
ottobre. «Ripescaggio» che difficilmente ci sarà, visto che il ministro dell’Istruzione,
Stefania Giannini, ha già risposto con un «no, grazie».
Dal 2014/2015 due grandi regioni, Lazio e Toscana, introducono i «calendari pluriennali»
(anche se in Lombardia ed Emilia Romagna succede da un po’) per permettere a famiglie
e scuole di programmare il tutto per tempo. Le lezioni inizieranno e finiranno nelle stesse
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date: si parte il 15 settembre, si chiude l’8 giugno. Se l’apertura capita di sabato o
domenica allora si anticipa o posticipa al primo giorno lavorativo utile.
Le spese dei genitori
Grembiuli o casacche (nere, blu, bluette...) per femmine e maschi, zaini (50-70 euro),
astucci vuoti (10-15 euro) o pieni (20-25 euro), matite colorate (6-10 euro per dodici pezzi),
diari (11-15 euro), quaderni e quadernoni (1-2 euro a pezzo), penne. Ma anche — come
chiedono tanti istituti — rotoli di scottex, risme di carta, pacchi di fazzoletti, confezioni di
bicchieri di plastica. Il corredo scolastico si allarga sempre di più e aumenta pure la spesa
di mamma e papà: +2 per cento, rispetto al 2013, secondo il Codacons. E se in media le
cartolibrerie costano più dei supermercati, l’unica voce di risparmio è quella delle
promozioni: si arriva a sborsare anche il 40% in meno. A fare in conti in tasca alle famiglie,
quest’anno si spenderanno 450-490 euro soltanto per il corredo scolastico. Altri 300-350
euro serviranno per l’acquisto dei testi alle scuole medie e superiori. Conto finale: da 750 a
840 euro per ogni figlio.
La mancata svolta digitale
Un conto, quello sui libri per studiare, in parte «alleggerito» dai contributi del ministero
dell’Istruzione alle famiglie meno abbienti (con un reddito netto inferiori a 15.493,71 euro)
raddoppiato e portato a 103 milioni di euro. Ma che potrebbe essere ancora più basso —
ricorda Skuola.net — se fosse davvero andata in porto l’idea di adottare libri in forma mista
(versione cartacea e digitale) o interamente scaricabili dal web. Se ne parla dal 2008. Si
doveva partire tra il 2011 e il 2012. Il debutto ufficiale poi venne annunciato — con tanto di
circolare ministeriale — per l’anno scolastico 2012/2013. Ma ad oggi, a parte qualche
eccezione, è rimasto su carta pure quello.
Leonard Berberi
Antonella De Gregorio
Dell’8/09/2014, pag. 19
L’Istituto elementare con due classi per soli
italiani
PRATOLA PELIGNA (L’Aquila) — Aule con soli italiani e aule miste. A Pratola Peligna,
comune di circa 8 mila abitanti in provincia dell’Aquila, la campanella dell’istituto
comprensivo «Gabriele Tedeschi» rischia di dare l’inizio non solo alle lezioni ma anche
alle polemiche sulla nazionalità degli alunni. Basta un’occhiata agli elenchi di nomi che
compongono le quattro prime classi delle elementari nei due plessi di piazza Indipendenza
e Valle Madonna: in sole due classi (una per plesso), quelle che per una coincidenza sono
denominate «B», si trovano ragazzi stranieri. Cognomi di nazionalità diversa da quella
italiana sono invece assenti nelle altre due. Lo ammette, con sconcerto, il sindaco Antonio
De Crescentiis, dopo le verifiche effettuate a scuola: «È stata la conseguenza di scelte
avvenute nelle more del passaggio di consegne tra il preside precedente e l’attuale, che è
in servizio dal 1° settembre e ha preso subito le distanze dall’accaduto. Non so se ci siano
state pressioni da parte delle famiglie sugli insegnanti per evitare che i figli capitassero in
una classe o in un’altra. Sarà il preside a fare chiarezza, certo la cosa preoccupa perché
qui finora non abbiamo mai registrato fenomeni di intolleranza». A Pratola Peligna ci sono
circa 600 extracomunitari, per il 90% di origini albanesi. Finora mai nessun problema,
ripete il sindaco: «Ma se qualcuno dei nostri concittadini la pensa diversamente e ci sono
insegnanti disposti a sostenerli dovremo riconsiderare tutto». Già stamattina il preside,
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Raffaele Santini, dovrebbe intervenire annullando gli elenchi attuali e ricomponendo le
classi con sorteggio.
Nicola Catenaro
Dell’8/09/2014, pag. 37
Scuole al via ma il 40% è inagibile
Un istituto su tre senza manutenzione. Lavori estivi fermi per mancanza
fondi
Oltre il 40% degli edifici non rispetta le norme di sicurezza e non ha le carte in regola
Scarsa manutenzione per mancanza di fondi, privati in soccorso. Allarme dei presidi Dal
Newton al Tasso, dal Mamiani al Righi, quasi la metà degli istituti superiori della Capitale
si presenta all’apertura del nuovo anno scolastico, fissata per il prossimo 15 settembre,
senza i documenti richiesti dalla normativa sulla sicurezza. Secondo l’Associazione Presidi
di Roma infatti «oltre il 40% dei licei della città non ha la certificazione per l’agibilità».
Allarme anche per materne, elementari e medie: per i municipi la manutenzione ordinaria
non è stata fatta in un istituto su tre. E molte scuole ricorrono a sponsor privati.
L’ALLARME
Oltre il 40% dei licei di Roma non rispetta le norme per la sicurezza. Dal Newton al Tasso,
dal Mamiani al Righi, quasi la metà degli istituti superiori della Capitale all’apertura del
nuovo anno scolastico, fissata per il prossimo 15 settembre, arriverà senza i documenti
richiesti dalla normativa sulla sicurezza. «Il 40% delle scuole superiori non si è adeguato ai
parametri richiesti», spiega Ivana Uras dell’Associazione Presidi di Roma. «Per questo
non sono stati rilasciati documenti per l'agibilità: in quasi tutti gli istituti non a norma
mancano uscite di sicurezza ed estintori». «Aspettiamo ancora risposte dai vigili del
fuoco», spiegano i dirigenti di Mamiani e Righi. Mentre al Newton i bagni rimangono
ostaggio delle perdite d’acqua. «Negli edifici storici servono interventi strutturali», spiegano
i presidi. È allarme anche nelle scuole materne, elementari e medie: secondo i municipi in
oltre un istituto su tre non è stata fatta la manutenzione durante l’estate. Maniglie da
sostituire, rubinetti da riparare, serrande da cambiare. La carenza di fondi non ha
permesso di far partire i lavori. «E pensare che con la manutenzione ordinaria effettuata
ogni anno – analizzano molti dirigenti scolastici romani – si potrebbero prevenire del 50%
gli interventi straordinari».
ZERO FONDI
I quindici municipi di Roma - cui spetta la gestione della manutenzione ordinaria - non
hanno molti margini di manovra sulla gestione dei fondi. Fondi che invece sono di
competenza dei dipartimenti per la Manutenzione urbana e per l’Ambiente del Comune.
Alcuni distretti hanno provveduto nei mesi estivi ai piccoli lavori ordinari grazie ai fondi
residui, come il II o il XIV municipio. Nel primo caso si è potuto dare il via ai lavori in tutte e
36 le scuole del territorio, mentre nel secondo, tutti i 40 interventi necessari su 73 scuole,
sono stati coperti. Molti altri distretti però, con i fondi al lumicino, si trovano a dover battere
cassa agli uffici comunali. «Stiamo intervenendo con i pochi soldi rimasti – spiega il
minisindaco del XII municipio, Cristina Maltese – ma ho già stanziato una cifra in difetto di
80mila euro per dare il via ai lavori che servono in quasi tutte le 50 scuole del mio
territorio». Analoga situazione nel XV municipio. «Sulla manutenzione ordinaria – accusa il
presidente Daniele Torquati – abbiamo in bilancio zero euro». In sostanza i municipi
chiedono più fondi, diretti e immediati, al Comune che intanto si sta occupando degli
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interventi, considerati più urgenti, di manutenzione straordinaria. L’assessorato alla Scuola
tra maggio e giugno ha licenziato 3 milioni 713mila euro per interventi straordinari in 60
istituti. Il governo, con il piano sull’edilizia scolastica, licenzierà entro il 31 dicembre 4
milioni e 799mila euro per 322 scuole di Roma e provincia, mentre la Regione dovrebbe
sbloccare, nelle prossime settimane, 37 milioni. In attesa degli interventi però molti
studenti troveranno ancora, rientrando in classe, gli istituti con le uscite di sicurezza non a
norma, le perdite d’acqua nei bagni e le finestre fuori uso.
del 08/09/14, pag. 22
L’azienda in classe
Più stagisti, meno disoccupati. Cade l’ultimo tabù nelle aule italiane. I
privati entrano a pieno diritto nella formazione dei ragazzi: riaprono
laboratori abbandonati, offrono esperienze. In cambio ottengono sgravi
e contatti con la futura forza lavoro Ma è polemica: si rischia di
inquinare il sapere
CORRADO ZUNINO
LA scuola italiana si fa azienda. La riforma di governo, “La Buona scuola” appena
sfornata, chiede alle imprese di pagare una fetta d’istruzione pubblica. Per ricostruire, un
esempio, i laboratori degli istituti tecnici ormai musei della storia industriale fin qui
insegnata. Le aziende vanno oltre. Sono pronte a offrire agli istituti superiori i loro
ingegneri come professori, i fisici come tutor. Le teacher companies per ora si
accontentano di avere ragazzi formati e subito produttivi, non più pulcini con gli occhi
sgranati in azienda davanti a un tornio, una stampante in 3D. L’ultimo tabù — “scuola
pubblica e finanziata dallo Stato”, che prima di essere un totem è stato un principio che ha
retto l’istituzione da prima di Giovanni Gentile — ora viene attaccato dal governo di Matteo
Renzi. Rischia di essere abbattuto, visto l’impegno. Delle 126 pagine che riformeranno la
trasmissione del sapere da qui a luglio 2016, ventuno sono dedicate alla spinta del
sistema scolastico verso l’occupazione lavorativa e, tra queste, il capitolo
6.2 è dettagliato tutto ai finanziamenti privati.
Scrivono i tecnici del ministero dell’Istruzione: «Le risorse pubbliche non saranno mai
sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola, la più grande e
preziosa rete pubblica del paese». Oggi il sapere italiano costa allo Stato 55 miliardi
l’anno. «Nella scuola come nella ricerca sommare risorse pubbliche a interventi dei privati
è l’unico modo per tornare a competere ». Quindi, «non c’è nulla da temere dall’idea che,
a certe condizioni, risorse private possano contribuire a trasformare la scuola in un vero
investimento collettivo ».
Il sottosegretario Gabriele Toccafondi, delega alla scuola-lavoro, dice: «Siamo partiti da un
dato semplice e tragico: in Italia l’abbandono scolastico raggiunge negli istituti tecnici
punte del 30 per cento. La questione del lavoro, con il 43% di disoccupati giovani, è
centrale per spiegare l’emorragia in classe. In Italia fatichiamo a mandare in azienda per
quattro settimane i ragazzi al penultimo anno degli istituti tecnici. Partiremo con duecento
ore di tirocinio l’anno, nelle ultime tre stagioni. Costerà cento milioni. Ci vuole, poi, un
Piano Marshall dei laboratori. Oggi sono chiusi, non ci sono tecnici per farli funzionare. Nei
primi due anni i ragazzi dei tecnici non ci si avvicinano. Frequentare un alberghiero, un
agrario, un meccanico senza fare laboratorio è inutile. Ci sono 300 milioni di euro per i
laboratori e serve l’aiuto, anche economico, delle imprese priva di te».
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Il governo, e il sottosegretario Toccafondi, guardano alla Germania dove un diplomato
tecnico entra subito in fabbrica a 2.500 euro il mese, ma prima hanno esplorato una realtà
che funziona anche da noi: i 65 Istituti tecnici superiori italiani (gli Its fondati dalla legge
Gelmini) già offrono a 5.500 diplomati un biennio di specializzazione pre-produttiva
successo: il 75% di chi arriva in fondo trova un lavoro coerente e a tempo indeterminato in
pochi mesi, contro una media italiana del 60%. Qui, istituti meccanici, agroalimentari,
nautici, metà delle ore di insegnamento in classe è affidata a prof prestati dall’industria, un
terzo delle lezioni devono essere di tirocinio attivo. Avamposti di quel che potrà diventare
la scuola italiana in un futuro ravvicinato, gli Its sono governati da una fondazione con
aziende e camere di commercio a fianco di ministeri ed enti locali. Negli Its dove si
insegna la tecnologia del mare i costosi simulatori di navigazione sono dati in concessione
dalle compagnie.
A fine luglio la legge Carrozza, che ha fatto partire gli stage in azienda, è diventata
operativa. E tra dieci giorni sette scuole da Nord a Sud offriranno all’Enel classi
sperimentali dove ogni tre settimane di insegnamento frontale ce ne sarà una quarta
trascorsa in azienda. Il governo Renzi vuole arrivare al primo settembre 2015 con una fila
di aziende medio-piccole, enti pubblici, realtà no profit e artigianali (le scuole bottega)
pronte a ospitare migliaia di scolari: oggi sono meno dell’un per cento le imprese
che offrono stage. Gli undici milioni di euro stanziati nel 2014 per l’alternanza scuolalavoro diventeranno cento milioni e gli stage sul lavoro, a cui parteciperanno i prof,
saranno obbligatori. Già. Ora le imprese faticano a trovare competenze nell’industria
elettronica e informatica, diplomati commerciali e tecnici nei settori del legno, del mobile,
dell’arredamento. Il 40% della disoccupazione in Italia non dipende dal ciclo economico,
ma dalla distanza tra domanda e offerta.
C’è chi il sistema duale tedesco (scuola e lavoro) l’ha già importato. Il prossimo 21
settembre 48 ragazzi del biennio finale di due istituti tecnici di Bologna si specializzeranno
a scuola, pagati 600 euro al mese dalla Volkswagen. La Ducati, di suo, ha aperto il
laboratorio di fisica interno all’azienda (Borgo Panigale) alle ultime classi delle scuole
superiori e ai primi due anni di università. Gratis. Ma il piano Renzi-Reggi va oltre, vuole
“apertamente incentivare” l’investimento privato. “Per le scuole deve essere facilissimo
ricevere risorse”. Gli istituti di istruzione superiore e i professionali potranno
commercializzare servizi prodotti utilizzando i ricavi per investimenti sull’attività didattica.
Al settore privato, inoltre, “va offerto un pacchetto di vantaggi graduali”. Ci si ispira al
sistema anglosassone, in via di sperimentazione tra l’altro al ministero dei Beni culturali
(“Art bonus”). Approda nel sistema lo “School bonus”: cittadini, associazioni e imprese che
investiranno nella scuola avranno sconti fiscali. Servirà a prolungare in estate l’apertura
delle sedi scolastiche. Lo “School guarantee”, invece, premierà l’investimento che crea
occupazione giovanile. Ancora, il governo spinge sul microfinanziamento diffuso a favore
della scuola: “Lo Stato metterà a disposizione fino a 5 milioni: per ogni euro messo dai
cittadini, lo Stato ne metterà un altro”. Infine, le obbligazioni a impatto sociale, i “Social
impact bonds”, contro la dispersione scolastica.
del 08/09/14, pag. 23
IN AMERICA
Charter school la sfida vincente dei mecenati
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
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NEW YORK
FINANZIAMENTI delle imprese private alla scuola: il paese pilota in questo campo sono
gli Stati Uniti. Per l’influenza dell’ideologia neoliberista, da molti decenni i confini tra
pubblico e privato sono stati rivoluzionati in molti settori. La scuola è uno di questi. A parte
le scuole private di élite, capaci di autofinanziarsi grazie alle rette elevatissime, è
nell’insegnamento pubblico o semi-pubblico che sta crescendo il peso dei finanziatori
aziendali. Il fenomeno di gran lunga più vasto e significativo sono le “charter school”, che
ricevono donazioni importanti da fondazioni del mecenatismo privato come la Bill and
Melinda Gates Foundation, la Walton Family Foundation (la famiglia proprietaria degli
ipermercati Walmart), la Broad Foundation, Ameritech Corporation, Annenberg Fund. Le
charter school sono esse stesse di proprietà privata, generalmente con statuto giuridico di
non-profit. Non sono però svincolate dal controllo statale sull’istruzione: in particolare i
risultati di apprendimento sono sottoposti al controllo degli Stati Usa, e devono
raggiungere standard comparabili a quelli delle scuole pubbliche. Il movimento delle
charter school ha tra i suoi obiettivi quello di ovviare allo scadimento dell’istruzione
pubblica soprattutto nelle aree metropolitane dove risiedono le minoranze etniche più
sfavorite: afroamericani, ispanici. Nei quartieri degradati delle grandi città, dove
prevalgono queste componenti, la scuola pubblica ha avuto spesso un decadimento
disastroso per la cronica penuria di fondi. Le charter school sostengono il principio che
non solo i figli dei ceti medioalti, ma anche i ragazzi più poveri dovrebbero avere la scelta,
l’opzione di iscriversi a un istituto privato di qualità. Le charter school hanno ottenuto aiuti
pubblici, per esempio con la cessione di edifici scolastici e altri sussidi diretti o indiretti.
Facendo una media sul territorio nazionale, un alunno di una charter school costa allo
Stato 7.000 dollari all’anno contro gli 11.000 dollari spesi per l’alunno di una scuola
pubblica; il livello medio dei sussidi arriva quindi al 60% delle spese per l’insegnamento
pubblico mentre tutto il resto è coperto da fondi privati. Sicché le charter school hanno
finito per assumere il carattere di un “terzo settore” dell’insegnamento, un’economia mista,
un ibrido fra il pubblico e il privato. Con il tempo sono cresciuti dei colossi del business
dell’insegnamento, grandi aziende su scala nazionale, specializzate nella gestione di
decine o centinaia di charter school. A New Orleans, una delle città più povere d’America,
il 60% degli studenti sono iscritti a charter school, a riprova del favore che questi istituti
incontrano fra i genitori afroamericani. Il numero delle charter school è cresciuto da poche
centinaia nei primi anni Ottanta, fino a 6.400 quest’anno. Hanno 2,5 milioni di studenti, e
delle liste di attesa di 365.000 allievi che hanno chiesto di potersi iscrivere.
Che cosa spinge le grandi imprese a finanziare questo “movimento” di scuole semiprivate? In certi casi c’è un interesse diretto, per poter attingere a questa popolazione
studentesca al momento di assumere nuova forza lavoro. Questo rientra nella tradizione
che porta le imprese americane (dai tempi delle dinastie Carnegie e Rockefeller) a
finanziare borse di studio nei licei e nelle università, per promuovere i l’accesso allo studio
dei più meritevoli. Alcuni dei quali poi diventano i candidati ideali per l’assunzione. Le
charter school non a caso investono molto nell’insegnamento tecnico-professionale. Una
variante recente sono le cyber-charter school che hanno una funzione pionieristica nella
formazione informatica e nell’uso di tecnologie digitali applicate all’insegnamento. Più in
generale il mecenatismo d’impresa, in casi come quello di Bill Gates, è allarmato per il
declino della qualità dell’istruzione americana. Dopo che gli Stati Uniti sono scivolati oltre il
ventesimo posto nelle classifiche internazionali Ocse- Pisa sulla qualità
dell’apprendimento nei licei, superati da paesi asiatici e nordeuropei, il tema è balzato al
centro dell’attenzione degli imprenditori. Un capitalismo moderno ha bisogno di una forza
lavoro qualificata, l’establishment imprenditoriale non se ne può disinteressare. Le charter
school hanno ricevuto giudizi variegati e talvolta positivi da parte del partito democratico e
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dell’intellighenzia liberal, ma hanno un avversario implacabile nel sindacato degli
insegnanti: uno dei principi delle charter school infatti è l’assunzione di prof non
sindacalizzati.
Dell’8/09/2014, pag. 34
Se l’Italia vince a metà. Munzi: «Che fatica
riuscire a fare cinema»
VENEZIA — L’Italia che piace, premiata alla Mostra di Venezia dalla stampa e dal
pubblico delle anteprime, non ha trovato lo stesso consenso nella giuria. Non sono stati
presi in considerazione il Leopardi di Martone (se n’è un po’ stupita anche la stampa
francese) e la ‘ndrangheta di Munzi, l’unico ad avere avuto delle chance è stato Hungry
Hearts di Saverio Costanzo. Gli ultimi due Leoni d’Oro sono stati vinti in Italia quando c’era
come presidente un italiano: Ettore Scola premiò Così ridevano di Gianni Amelio, 1998; e
Bernardo Bertolucci Sacro GRA di Gianfranco Rosi, nel 2013.
Mai come quest’anno i nostri tre film hanno avuto un’accoglienza così positiva. Il vincitore
morale, e la rivelazione, è Francesco Munzi: con Anime nere , è stato paragonato dal
Telegraph a Visconti e Coppola: «Considero una vittoria uscire dal Lido in questo modo. Il
cinema italiano è fatto di contraddizioni e paradossi. Molti film non hanno le caratteristiche
produttive per andare in sala. E poi se da una parte c’è la riproposizione della commedia
ovvero l’idea di un film unico, dall’altra c’è la fucina dei cineasti che tengono viva la ricerca
e il nome del cinema italiano all’estero. Tutto questo però è legato a uno sforzo enorme
degli autori, è vissuto sulla nostra pelle, il mio film si è fatto con grande fatica grazie a un
collage di tanti fondi». Paolo Del Brocco è amministratore delegato di Rai Cinema (negli
ultimi quattro anni ha raddoppiato l’investimento complessivo, fino a 85 milioni),
coproduttore dei tre film italiani in gara e di altri sei alla Mostra: «A Venezia conta la bella
accoglienza che ha ricevuto il cinema italiano». In dieci anni 579 cinema hanno chiuso,
anche se sono aumentati gli schermi (+269) grazie ai multiplex. «In Francia — prosegue
— nei cineplex cittadini trovi di tutto, non solo i blockbuster ma il cinema d’autore, questo è
il vero problema». L’Italia non vive più di sola rendita dei De Sica e dei Fellini, gli autori
hanno un respiro più universale: si gira in inglese.
Il presidente dei produttori Riccardo Tozzi: «La quota del mercato italiana, al 30%, resta
alta; gli autori hanno uno sguardo più largo e vincono all’estero, dagli Oscar a Cannes;
siamo pronti per una legge di sistema. Tra le cose negative restano la stagionalità
(d’estate il cinema è fermo, servono incentivi maggiori). E soprattutto si produce
un’abnormità di film: circa 300 l’anno, rispetto ai 170 del recente passato. È demagogia
pensare che tanto ci sia comunque un cinema che li proietta. In sala ne escono 100, di cui
significativi 50-60. In Francia, dove hanno 6.000 schermi e noi 3.500, ne realizzano 200».
Vania Traxler è la Signora dei film d’autore: «Fui la prima a portarli, dagli Anni 70, nei
cinema commerciali. Oggi il mio mestiere è quasi impossibile, non c’è stato un ricambio
nel pubblico, che è sempre quello». Con You, the Living , ha fatto conoscere in Italia il
Leone d’Oro Roy Andersson: come andò? «Ah, malissimo, fu snobbato da tutti. Però sono
fiera di averlo fatto». A Venezia comprò il Faust diretto da Aleksandr Sokurov , Leone
d’Oro nel 2011: «In sala incassò 500 mila euro, per un film così è un miracolo. Ma è vero,
il cinema d’autore italiano è un po’ migliorato».
Valerio Cappelli
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del 08/09/14, pag. 41
119 mila presenze, 7000 in più Tanti i giovani e i libri esauriti senza
sconti e promozioni
Mantova chiude in lieve crescita il suo
Festival
FRANCESCO ERBANI
MANTOVA
IL FESTIVALETTERATURA chiude con 119 mila presenze, qualcosa in più rispetto allo
scorso anno (112 mila). Tutto esaurito e lunghe, scenografiche file lungo i portici di
Palazzo Ducale per Claudio Magris e Michael Cunningham (presentato da Massimo
Vincenzi). In molti hanno ascoltato Suad Amiry e Wasim Dahmash, Mario Brunello, Mario
Dondero (intervistato da Emanuele Giordana), Giorgio Fontana e Benedetta Tobagi.
Successo pieno, per gli organizzatori. Ma ne esce confermata anche l’idea di un festival
pieno di argomenti, più che di nomi. Tanti fili che si snodano, scelte persino rischiose e
che inducono a riflettere sulla letteratura, con scrittori noti ma anche con tanti che noti non
sono. E poi approfondimenti condotti con incontri in serie su linguistica e neuroscienze,
sulle fiabe d’autore del Novecento, sulla Grande Guerra, sul recupero dell’agricoltura e
sulla dimensione urbana, sull’alimentazione, sul giornalismo, su corruzione e mafia,
sull’ascolto della musica e persino sul lavoro a maglia, accanto alla rovente attualità
internazionale come l’Ucraina e il Medio Oriente.
Chi frequenta Mantova apprezza. Lo confermano la crescita dei presenti, ma un’altra spia
si accende: le vendite nella libreria sotto il grande tendone di piazza Sordello. «Sabato
sera abbiamo registrato un 10 per cento in più: nei primi sei mesi dell’anno le librerie
italiane hanno accumulato un 4 e mezzo in meno», dice Luca Nicolini, presidente del
comitato organizzatore. «Niente promozioni o sconti, solo duemila borse di tela in omaggio
a chi spendeva più di 40 euro: sono andate via in un baleno. Negli anni scorsi la libreria si
svuotava durante gli incontri di maggior richiamo, ora invece il tendone che ospitava anche
incontri gratuiti è rimasto sempre pieno e dava il senso di una comunità».
Il pubblico è sembrato più giovane delle passate edizioni. Ha speso per i biglietti (66 mila i
biglietti staccati), per i libri, meno per i ristoranti. Camping pieni. Tanti zainetti con l’acqua
minerale e file davanti al chiosco dei panini con il salame e la culatta. Molto seguiti gli
incontri della Creative Summer School organizzata dalla Luiss: “Meglio di un romanzo (in
bozze)”, s’intitolava il bando cui hanno risposto con elaborati di giornalismo narrativo letti e
commentati in pubblico – comprese le punture di spillo – studenti dai 16 ai 22 anni. Per il
prossimo anno (9-13 settembre) è previsto “Prototipi”, un contenitore tutto da costruire per
nuove forme di scrittura, rigorosamente under 25.
La formula mantovana attraversa la crisi dell’editoria scommettendo sui libri e sugli autori,
ma anche sui temi. «Ci abbiamo lavorato tutto l’anno», spiega Nicolini, che, dicono a
Mantova, potrebbe essere il prossimo candidato sindaco del centrosinistra (lui ci pensa,
ma abbandonare il festival è doloroso). «Riunioni molto allargate, con i volontari, con
collaboratori anche stranieri: l’obiettivo era quello di uscire dalle strettoie in cui si rischia di
finire in tempi come questi, battendo le piste più prevedibili, con i nomi più scontati.
Essendo nati per primi ed essendo diventati tanti i festival in Italia, abbiamo l’obbligo di
mantenere freschezza e novità».
Budget fissato intorno al milione e trecentomila, molti sponsor privati, il festival ha vinto un
bando della Fondazione Cariplo che contribuisce per cinquecentomila euro in tre anni.
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«Questo ci consente di programmare a lunga scadenza il lavoro e ci aiuta, essendo basse
le quote di Comune, Provincia e Regione: il Comune ci dà tre volte di meno di quel che
prendiamo, in un anno, dalla Fondazione Cariplo».
I rapporti con la città restano felici. Quest’anno molte chiese sono rimaste aperte fino a
tarda sera: la basilica di Sant’Andrea di Leon Battista Alberti e il Duomo di Jacobello e
Pierpaolo dalle Masegne, fra le altre. Meno facile l’intesa con il Comune: sabato un
assessore, Celestino Dall’Oglio – racconta sulla Gazzetta di Mantova il direttore Paolo
Boldrini – ha bruscamente rimbrottato una giovanissima volontaria che non gli trovava un
posto in prima fila all’incontro con Jeremy Rifkin. «Vi tagliamo i contributi… », le ha urlato.
Chissà che cosa lo interessava delle parole sull’economia solidale di
Rifkin.
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ECONOMIA E LAVORO
del 08/09/14, pag. 6
Padoan replica a Visco “Per le riforme c’è
tempo capaci di farle da soli”
Marchionne a Renzi: “Scegliete tre cose e realizzatele” Cottarelli:
possibili tagli per 20 miliardi ma servono sanzioni
PAOLO GRISERI
DAL NOSTRO INVIATO
CERNOBBIO .
L’Italia ha il tempo necessario per fare le riforme e, tra queste, «per prima viene quella del
mercato del lavoro che è uno snodo centrale dell’azione di governo». Il ministro
dell’Economia, Pier Carlo Padoan, risponde così ai timori del Governatore di Bankitalia,
Ignazio Visco che ieri su Repubblica aveva ammonito: «Abbiamo poco tempo per far
percepire con chiarezza e accettare il disegno complessivo delle riforme». «Siamo
capacissimi di fare le riforme - risponde da Cernobbio il ministro dell’Economia faremo la
nostra parte in Europa e l’Europa farà la sua». A sostenere la stessa analisi interviene in
mattinata il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli: «E’ possibile fare tagli per
20 miliardi, visto che si parte da una base di spesa primaria di 700 miliardi. Bisogna anzi
andare oltre il 2015 con il programma in 1.000 giorni del governo». A spronare «un
esecutivo giovane» composto da «un gruppo di persone pronte a scardinare il sistema»
interviene l’ad di Fiat Sergio Marchionne. Che prima attacca l’arretratezza del sistema
italiano: «Ci sono tre nodi da superare: quello del mercato del lavoro, quello della
burocrazia e la mancanza di certezza del diritto». Sull’efficienza del mercato del lavoro
«nelle classifiche mondiali siamo un gradino sopra lo Zimbawe». Questo, dice l’ad del
Lingotto «a causa di una impostazione ideologica che vede contrapposti capitale e lavoro,
padroni e operai». Ma, secondo Marchionne «la sfida non è tra imprese e lavoratori ma tra
tutti noi e il resto del mondo». Da qui un attacco al secondo nodo da sciogliere, quello
della certezza del diritto. Il numero due di Fiat lamenta il contenzioso legale con la Fiom
che si è concluso, dopo 62 processi, con il giudizio insindacabile della Corte Costituzionale
che ha costretto il Lingotto a riportare in azienda il sindacato più conflittuale bocciando
l’interpretazione della legge dei legali della casa torinese. Infine Marchionne mette sotto
accusa la lentezza della burocrazia, gli infiniti impedimenti che rallentano gli investimenti.
E propone al governo di intervenire in fretta: «Prendete tre cose, realizzatele e poi passate
alle tre successive». Nelle prime tre questioni indicate ieri dal manager, la riforma del
lavoro è centrale. Difficilmente potrà essere realizzata secondo i desiderata di Marchionne
(che sembrano ispirati a posizioni simili a quelle dell’ex ministro Maurizio Sacconi)ma è un
fatto che dal lavoro si partirà. Per questo, concludendo i lavori, Padoan ringrazia l’ad del
Lingotto «per aver dato fiducia al programma dei 1.000 giorni del governo». E ricorda, il
ministro dell’Economia, per abbattere il debito «la strada maestra è quella delle
privatizzazioni» e non quella «di ricette fantasiose». Bisogna stare attenti infatti «a non
dare per scontato il rating sovrano che va difeso ogni giorno» da eventuali downgrade
delle agenzie internazionali.
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del 08/09/14, pag. 9
Tasi, i comuni incassano milioni ma non
dicono come li spendono
I sindaci sono obbligati a informare i cittadini però è quasi impossibile
districarsi tra i bilanci
La maggior parte delle risorse a trasporti, sicurezza, verde e fontanelle
VALENTINA CONTE
ROMA .
Dove finiscono i soldi della Tasi? La legge che ha istituito la Tassa sui servizi indivisibili
dice chiaro e tondo che i sindaci devono indicare in modo “analitico” non solo il gettito
incassato dagli immobili, ma anche l’uso che se ne fa in termini di servizi pubblici
finanziati. E lo devono fare in modo chiaro e trasparente. Dunque sui siti dei Comuni, ad
esempio. È così? No. Per capire la destinazione del più tormentato dei balzelli, il cittadino
dovrebbe essere un segugio informatico, un esperto di bilanci pubblici e rapido di calcolo.
Aprire così delibere, documenti contabili e programmatici, relazioni, regolamenti, bozze. E
chi più ne ha, più ne metta. E poi fare tabelle, applicare percentuali, sempre ad avere
tempo da perdere. Insomma, una fatica immane. Eppure non dovrebbe essere così. E non
solo perché la trasparenza è un obbligo di legge. Ma proprio per la natura stessa della
Tasi, da quest’anno e per la prima volta nella storia italiana non più imposta sul patrimonio
immobiliare, ma tassa per i servizi ricevuti. E invece niente. Altro che “vedo, pago, voto”.
Qui di federalismo fiscale (ancora)neanche l’ombra.
Il Servizio politiche territoriali della Uil ci ha provato. Ed è andato a spulciare nei meandri
dei documenti contabili di otto grandi città - Roma, Milano, Torino, Genova, Bologna,
Venezia, Firenze e Napoli - per capire che fine fanno le tasse sulla casa. E scoprendo che
servono a coprire in media poco più di un terzo - il 38% - del costo totale dei servizi
indivisibili, quelli cioè non offerti a domanda individuale, come gli asili nido o il trasporto
scolastico, ma destinati alla collettività. Intanto quasi nessun Comune rispetta la legge,
laddove la 147 del 2013 dice che l’elenco dei servizi finanziati dalla Tasi con relativo
importo deve essere inserito nel Regolamento stesso della tassa. Le informazioni si
trovano un po’ qui, un po’ nei bilanci (se approvati), un po’ nelle relazioni programmatiche.
Roma è al top della confusione. Indica in 627 milioni i servizi finanziati dalla Tasi. Ma il
gettito stimato della tassa è inferiore e indicato in 572 milioni nel Regolamento e in 636
milioni nel bilancio di previsione. Com’è possibile? Cifre a parte, al top dei servizi troviamo
“mobilità e trasporti” per oltre 300 milioni. Nessuna sorpresa, visto che in totale il servizio
per bus e metro, non proprio impeccabile, costa al Campidoglio circa 1 miliardo l’anno, un
terzo dunque pagato dalla Tasi dei romani. Lo sanno? Al terzo posto, con 47 milioni c’è la
“manutenzione stradale, del verde pubblico, illuminazione”. Tra buche, alberi che cadono
ad ogni pioggia, strade al buio, non proprio un bel modo di impiegare i proventi della tassa.
Il Comune di Milano è più analitico e trasparente. Ma al pari di Genova lascia al cittadinocommercialista la divisione della torta Tasi: quanto a quali servizi. Al primo posto, nel
capoluogo meneghino c’è l’ordine pubblico e la sicurezza: 77 milioni su 165 di gettito Tasi.
Poi i trasporti (57) e l’ambiente (18). Torino ottiene 136 milioni dalla tassa e al di là dei 71
impiegati per i vigili e i 18 per l’illuminazione, curiosamente indica un milione per le
fontanelle. Chissà se i proprietari torinesi apprezzano. Venezia non ha approvato il
bilancio 2014 e dunque non si capisce se i 40 milioni del costo dei servizi corrispondano o
meno al gettito Tasi. Così Napoli indica 7 servizi indivisibili da finanziare con la Tasi
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(ambiente, strade, edilizia, anagrafe, sicurezza, assistenza, commercio). Ma null’altro: né
gettito della tassa, né ripartizione. Nulla di nulla. Alla faccia della trasparenza.
Il Comune di Firenze a guida Nardella mette il gettito Tasi nella relazione programmatica
al bilancio di previsione (40 milioni e mezzo). E fa sapere che per metà andrà a polizia
locale e ambiente, una parte (circa 14 milioni) per i servizi socioassistenziali e una fiche,
circa 282 mila euro, per i servizi bibliotecari. Bologna e Genova sono le uniche a coprire
con la Tasi anche il “costo degli organi istituzionali”. Bolognesi e genovesi sono
consapevoli dunque di contribuire con la loro Tasi anche allo stipendio del sindaco e dei
consiglieri municipali? Chissà. Bologna però è anche l’unica ad avere al top dei servizi
indivisibili coperti da Tasi la sicurezza urbana. Genova invece non dettaglia e non si
capisce quanti dei 21 servizi (che in totale costano ai cittadini 192 milioni) vengano
foraggiati dai 75,4 milioni incassati dal mattone. Curioso, questo federalismo fiscale.
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