PROGRAMMA SINTETICO DI LATINO
V LICEO SCIENTIFICO
MODULO 1:
CULTURA E SPETTACOLO DELLA LETTERATURA DELLA PRIMA ETÀ IMPERIALE
U.D. 1: I generi poetici dell’età Giulio – Claudia
U.D. 2: Petronio, il Satyricon. Traduzione, analisi e commento dei testi
U.D. 3: La satira sotto il principato: Persio e Giovenale
U.D. 4: L’epica dell’età dei Flavi: Stazio, Valerio Flacco e Silio Italico
MODULO 2:
INCONTRO CON L’AUTORE: SENECA
U.D. 1: I Dialoghi e la saggezza stoica
U.D. 2: Filosofia e potere
U.D. 3: La pratica quotidiana della filosofia: le Epistole a Lucilio
U.D. 4: Lo stile “drammatico” e la scelta tragica
U.D. 5: Traduzione, analisi e commento dei testi
MODULO 3:
L’ETÀ ARGENTEA DELL’IMPERO
U.D. 1: Marziale e l’epigramma. Traduzione, analisi e commento dei testi
U.D. 2: Quintiliano, l’intellettuale al servizio dello Stato.
U.D. 3: Tacito e la giustificazione del Principato. Traduzione, analisi e commento dei testi
U.D. 4: Apuleio, Le Metamorfosi. Traduzione, analisi e commento dei testi
MODULO 4:
LETTERATURA CRISTIANA
U.D. 1: I primi cristiani tra Antico e Nuovo Testamento
U.D. 2: I generi della letteratura cristiana; l’apologetica: Tertulliano
U.D. 3: I Padri della Chiesa: sant’Ambrogio, san Girolamo e sant’Agostino
U.D. 4: Gli albori del Medioevo: Boezio, Cassiodoro e san Benedetto da Norcia
U.D. 5: Traduzione, analisi e commento dei testi
CULTURA E SPETTACOLO: LA LETTERATURA DELLA I ETÀ IMPERIALE
Tiberio. Già la seconda generazione augustea, quella che era stata appena sfiorata
dalla stagione sanguinosa delle guerre civili, che nutriva quindi, una gratitudine minore verso
il princeps che aveva restaurato pax et concordia, aveva dato segni di insofferenza per la
letteratura che a quel programma di restaurazione aveva prestato il proprio appoggio e
consenso.
La scomparsa di Mecenate, e il conseguente venir meno della sua accorta opera di
mediazione fra il potere politico e l’élite culturale (che spesso coincidevano) produsse una
crisi del mecenatismo già con Tiberio. La mancanza di un progetto culturale non potè che
favorire il rinvigorirsi di una storiografia contraria al principato.
In questa corrente storiografica, innestata sulla tradizione repubblicana del Senato, nasce
quell’atteggiamento di ostilità verso la dinastia Giulio – Claudia che arriverà sino a Svetonio e
a Tacito.
Claudio. La situazione non sembra migliorare con Claudio, che personalmente era un
erudito ed aveva scritto diverse opere storiche ed antiquarie sia in greco, sia in latino (una di
grammatica nella quale proponeva di introdurre nell’alfabeto latino 3 nuove lettere).
Nerone. Nei primi anni del suo principato ( il celebre quinquennio felice, 55 – 60 d.C.)
Nerone, con la guida di Seneca, tenta un recupero del consenso del Senato e una ripresa del
mecenatismo: è in questo progetto che si inserisce quella breve stagione classicistica della
quale resta solo qualche modesto prodotto, come la cosiddetta Iliade latina (1000 esametri
manierati). Nella produzione poetica è molto evidente l’influsso di Virgilio.
Nerone incoraggiò molti letterati e promosse regolari ludi poetici (dal 60 d.C. – i
Neronia) con premi per i migliori poeti.In quest’epoca è sempre più diffusa la pratica delle
recitazioni e si afferma uno stile lussuoso e “barocco”, che stupisce il pubblico con immagini
stravaganti, metafore audaci e ricercatezze sonore. Le parodie di Persio e di Marziale ci
danno uno spaccato notevole sull’epoca. La cultura greca viene ostentata e diviene sempre
più necessaria al prestigio dei poeti.
Nerone stesso fu poeta e i suoi Neronia erano un certamen di canto, musica, poesia ed
oratoria. L’iniziativa è interessante perché documenta l’indirizzo che egli volle imprimere alla
cultura.
Gli spettacoli di Nerone erano rivolti ad un vasto pubblico ed erano mossi da una
concezione, estremamente moderna, dell’intera esistenza come performance, come
esibizione artistica. Questo modus operandi non risponde soltanto alle manie del singolare
personaggio, ma anche a precise intenzioni di politica culturale che interpretano un’ esistenza
diffusa di rinnovamento sul piano del costume, di riconoscimento e legittimazione di gusti e
tendenza ormai ampliamente diffuse fra le masse popolari e avversata dall’aristocrazie
senatoria. Furono questi spettacoli lo strumento che Nerone utilizzò con disinvoltura per
guadagnare consenso e favore e insieme legittimare il suo potere sempre più simile a quello
di un satrapo orientale o di un re ellenizzato.
LA DINASTIA DEI FLAVI
La moda dei pubblici agoni poetici si diffuse più ampliamente sotto il principato dei
Flavi, ma questa dinastia imperiale si distingue per una netta inversione rispetto agli indirizzi
culturali di Nerone. Alle sue aperture ellenizzanti essi oppongono un programma di
restaurazione morale e civile. Sul piano letterario spiccano soprattutto due fenomeni:
1. La ripresa della poesia epica (di modello virgiliano)
2. L’assurgere di Cicerone nella prosa come modello di maniera stilistica, ma anche di
educazione fondata sulla retorica (in questi anni Quintiliano ebbe la prima cattedra
statale di retorica).
Ma al di là delle direttive classicistiche del princeps, restano comunque forti nella
letteratura di età flavia, specie nella poesia, le tracce del gusto impostosi via via nella prima
parte del I sec. d.C.; e non si ha nemmeno una organica ripresa del mecenatismo. La
biografia di Marziale e di Stazio, costretti per vivere a scrivere libretti (fabula saltica) per le
pantomime1 lo attesterebbe (questa attività occupò anche Lucano).
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La pantomima era un genere drammatico nel quale un attore cantava, accompagnato da musica, recitando le
scene. Ebbe enorme fortuna durante l’impero accanto all’Atellana e il mimo; solo i giochi del circo e l’ippodromo
godono di un favore non inferiore.
Persio e Giovenale
Il genere satirico, oltre che da Orazio, da Seneca (Ludus de morte Claudii), da
Petronio, fu coltivato anche da Persio e da Giovenale. Anzi proprio con questi due ultimi
interpreti la satira acquistò carattere morale e filosofico, divenendo strumento critico per
fustigare i vizi del tempo.
Aulo Persio Flacco (Volterra 34 – 62), di famiglia equestre, compì gli studi a Roma
con il grammatico Remmio Palemone e con il retore e filosofo stoico Anneo Cornuto.
Scrisse 6 Saturae (in esametri), di ispirazione oraziana, precedute da un prologo (in
versi coliambi, il metro della diatriba cinica e delle invettive; o in trimetri giambici scazonti),
in cui polemizzava contro le mode letterarie del tempo e i poeti magniloquenti.
Sintesi dell’opera
Satira I
Satira II
Satira III
Satira IV
Satira V
Satira VI
Critica la futilità deplorevole della poesia contemporanea e la conseguente
degenerazione morale.
Polemizza contro la religiosità formale di chi prega gli dei solo per soddisfare le
personali brame.
Indirizzata a un giovane che conduce vita dissipata, lo esorta a seguire i precetti
della filosofia, vera via per la spiritualità.
Invita a praticare per chi ha ambizioni politiche il precetto del nosce te ipsum
Dedicata al maestro Cornuto, tratta della libertà secondo la dottrina stoica.
In forma di epistola rivolta all’amico Cesio Basso, deplora il vizio dell’avarizia,
indicando come modello il saggio stoico che usa con moderazione i propri beni.
Nelle satire di Persio prende corpo una poesia dai toni aspri, virili, fondata su salde
convinzioni etiche e per questo in grado di denunciare le debolezze umane. Anche lo stile
ne risente, divenendo oscuro e faticoso: il dettato poetico è fortemente concentrato,
numerosi sono gli accostamenti inusitati di immagini, dove spesso sono sacrificati i
passaggi logici. Il linguaggio è scabro, comune, quotidiano. L’uso della metafora è
audacissima e mira a esplorare rapporti nuovi tra le cose, creando effetti di straordinaria
densità e potenza espressiva. Riportiamo i versi 41 – 47 del libro II, sulla vanità dei
sacrifici:
Tu chiedi aiuto per i tuoi nervi e un corpo che non ti
tradisca nella vecchiaia. Bene. Ma i grandi piatti e le
grosse salsicce hanno impedito agli dei di esaudire i tuoi
voti e trattengono anche Giove. Tu chiedi di ammassare
ricchezze e per questo sacrifichi un bue e invochi Mercurio
con le viscere: “Fa sì che prosperino i miei Penati, dammi
bestiame e piccoli al mio gregge”. E come, sciagurato, dal
momento che ti si strugge nel fuoco il grasso di tante
giovenche?
Poscis opem nervis corpusque fidele senctae.
Esto age. Sed grandes patinae tuccetaque crassa
adnuere his superos vetuere iovemque morantur.
Rem struere exoptas caeso bove Mercuriumque
arcessis fibra:”da fortunare Penatis,
da pecus et gregibus fetum”. Quo, pessime, pacto,
tot tibi cum in flamma iunicum omenta liquescant?
Giovenale. Molto incerte sono le notizie sulla sua vita, sarebbe nato ad Aquino tra il
50 e il 65 d. C., da famiglia benestante. Ricevette una buona educazione retorica ed
esercitò l’avvocatura con scarso successo. Si dedicò all’attività poetica in età matura e
come Marziale visse nella condizione di cliente, all’ombra dei potenti, privo di autonomia
economica. Secondo una fonte non molto attendibile sarebbe morto in Egitto intorno al
127.
La sua produzione poetica è costituita da 16 satire, in esametri, raccolte in 5 libri e
composte presumibilmente tra il 100 e il 127.
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Sintesi delle satire
Proemio
Satira II
Satira III
Satira IV
Satira V
Satira VI
Satira VII
Satira VIII
Satira IX
Satira X
Satira XI
Satira XII
Satira XIII
Satira XIV
Satira XV
Satira XVI
Giovenale spiega l’adesione al genere satirico dovuta al disgusto (indignatio) per la
corruzione della società (difficile est saturam non scribere, v. 30).
Contro la depravazione e l’ipocrisia degli omosessuali.
Descrive l’allontanamento dell’amico Umbricio da Roma, metropoli invasa da
molti mali.
Si narra del consiglio riunito da Domiziano per deliberare sul modo di cucinare un
grosso rombo.
Descrive la cena offerta dal ricco Virrone e l’umiliante condizione dei clienti
convitati
Lunga requisitoria contro l’immoralità e i vizi delle donne.
Dedicata all’infelice condizione dei letterati e degli avvocati
Oppone alla nobiltà di nascita quella di ingegno e di spirito
In forma di dialogo. Nèvolo, un omosessuale mal ricompensato per le sue
prestazioni riferisce le sue lamentele
Vanità dei desideri umani
Contro il fasto dei banchetti
Contro i cacciatori di eredità
Contro i frodatori e gli imbroglioni: di uno di questi è rimasto vittima Calvino
Sull’educazione dei figli e sulla necessità di accompagnare i precetti con
l’esempio
Episodio di cannibalismo avvenuto in Egitto, causato da fanatismo religioso
Incompleta. Vi si descrivono i privilegi della vita militare.
Riportiamo i versi 93 – 101 della Satira II, sull’ipocrisia degli omosessuali:
Uno, servendosi di un ago obliquo, allunga le sopracciglia
tinte di nerofumo umido e si dipinge gli occhi alzandoli
tremolanti al cielo; quest’altro, che beve in una coppa di
vetro a forma di cazzo, gonfia con la sua enorme
capigliatura una reticella d’oro e veste stoffe a grandi
quadri azzurri o tessuti rasati di colore verde pallido:
mentre anche il suo servo giura in nome di Giunone. Un
altro impugna uno specchio, già portatile ornamento
dell’effeminato Otone in cui, quasi “spoglia di Attore di
Aurunca”, egli si rimirava armato quando era ormai sul
punto di dare il segnale di battaglia.
Ille supercilium madida fuligine tinctum
obliqua producit acu pingitque trementis
attollens oculos; vitreo bibit ille priapo
reticulumque comis auratum ingentibus implet
caerulea indutus scutulata aut galbina rasa
et per lunonem domini iurante ministro;
ille tenet speculum, pathici gestamen Othonis,
Actoris Aurunci spolium, quo se ille videbat
armatum, cum iam tolli vexilla iuberet.
E i versi 136 – 148 della satira IV, esempio della misoginia di Giovenale:
“Ma come mai Cesennia, a detta dello stesso marito, è
perfetta?” Gli ha portato in dote un milione e a questo
prezzo egli la chiama casta. Non sono certo i dardi o le
fiaccole di Venere che lo fanno dimagrire e ardere: dalla
dote vengono le frecce, di lì le fiaccole! Si è comprata la
libertà. Ella può civettare e scrivere bigliettini in presenza
del marito: è vedova di fatto una donna ricca che abbia
sposato un avaro! “Perché Sartorio brucia di passione per
Bibula?” Se guardiamo a fondo, egli non ama la moglie,
ma la sua bellezza. Compaiano sul suo viso solamente tre
rughe, le si afflosci secca la pelle, i denti le divengano neri
e gli occhi più piccoli: “Fatti il fagotto” intimerà il liberto
“e vattene. Ci sei venuta a noia e ti soffi il naso ogni
momento: vattene presto e senza voltarti indietro. Sta per
arrivare una che ha il naso asciutto”.
“Optima sed quare Caesennia teste marito?”
Bis quingena dedit. Tanti vocat ille pudicam,
nec pharetris Veneris macer est aut lampade fervet:
inde faces ardent, veniunt a dote sagittae.
Libertas emitur. Coram licet innuat atque
rescribat: vidua est, locuples quae nupsit avaro.
“Cur desiderio Bibulae Sertorius ardet?”
si verum excutias, facies non uxor amatur.
Tres rugae subeant et se cutis arida laxet,
fiant obscuri dentes oculique minores,
“Collige sarcinulas” dicet libertus “et exi.
Iam gravis es nobis et saepe emungeris. Exi
ocius et propera. Sicco venit altera naso”.
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La poetica e lo stile. La scelta programmatica del genere satirico, già coltivato da
Lucilio e da Orazio, appare per il poeta una necessità, determinata dai vizi e dall’ipocrisia
circostante (si natura negat, facit indignatio versus, dirà in I, 79). È proprio la indignatio che
segna lo scarto rispetto alla tradizione precedente: al contrario di Orazio e di Persio,
Giovenale non crede con la sua poesia di poter influire sugli uomini, prede della
corruzione. La sua satira intende denunciare e protestare senza coltivare illusioni di
riscatto. Dunque, l’astio sociale, il risentimento per la mancata integrazione è una
componente importante della satira di Giovenale. Il poeta intende aggredire il lettore e per
mantenere alto e teso il suo verso fa uso di figure retoriche, tra cui iperboli, antitesi,
esclamazioni e sententiae, tra cui alcune celeberrime, come mens sana in corpore sano (X, 356).
Costante è la ricerca di parole espressive, anche nella lingua d’uso, spesso crude, e di
neologismi. Si tratta dunque di uno stile innovativo per genere satirico: non più dimesso
e vicino alla commedia, quanto piuttosto simile a quello della tragedia. Un procedimento
tipico di Giovenale è il ricorso alle solenni movenze epico – tragiche proprio in coincidenza
con i contenuti più bassi e volgari, in modo che risalti per contrasto l’altezza della forma
espressiva e l’abiezione della materia trattata.
La fortuna. Giovenale acquisì fama nel IV secolo, quando le sue satire furono lette
e commentate da Lattanzio, Ausonio, Claudiano e Rutilio Namaziano. Furono note anche
a Dante, che citò il poeta nel Canto IV dell’Inferno e a Petrarca. Giovenale ottenne enorme
successo nella tradizione satirico – moralistica europea, da Ariosto a Parini, da Alfieri a
Hugo e Carducci.
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PETRONIO
Il genere satirico annovera oltre che Orazio e Seneca, anche Giovenale, Persio e
Petronio.
Con i primi due la satira divenne un genere che acquistò carattere morale e filosofico,
strumento critico per fustigare i vizi del tempo.
Circa l’autore del Satyricon invece rimane il dubbio sulla sua identità storica, prevale
l’identificazione con il Gaio (o Tito) Petronio Nigro, il cui ritratto indimenticabile fu tracciato
da Tacito negli Annales (XVI, 18-19). Costui fu proconsole in Bitinia nel 60 d.C. e console
qualche anno dopo; entrò quindi nella di amici di Nerone distinguendosi per l’eleganza dei
modi e l’edonismo raffinato (per questo fu detto elegantiae arbiter). Accusato di aver preso
parte alla congiura dei Pisani, nel 66 fu costretto a darsi la morte, che affrontò, secondo il
racconto tacitiano, nel corso di un banchetto allietato da conti e discorsi piacevoli.
Oltre al Satyricon, non è certo se Petronio abbia scritto altre opere: l’Anthologia Latina
(una collezione di poesie di vari autori o anonime, formatosi nel V-VI sec.) conserva sotto il
nome di Petronio alcuni carmi e frammenti poetici.
SATYRICON
Sotto il titolo di Satyricon (sottinteso libri, è una forma latinizzata di genitivo plurale
greco da Satyrikà, “storie di satiri”, con riferimento al carattere erotico dell’opera) ci è
pervenuto un lungo frammento narrativo in prosa, con parti in versi, residuo di una
narrazione molto più estesa (quello che copre parte dei libri XIV e XVI e la totalità del libro
XV, la cosiddetta Cena Trimalchionis). La storia è narrata in prima persona dal giovane
protagonista Encolpio.
Il Satyricon presenta un carattere letterario di grande multiformità: trattandosi di un
racconto di avventure (per lo più erotiche) di persone comuni la critica ha parlato di
romanzo, sebbene il termine non sia antico e il genere, pur esistendo nella antichità
(romanzo ellenistico), non disponeva di una precisa teoria. In quanto tale, il testo di
Petronio è considerato una parodia del romanzo erotico greco. Quest’ultimo fiorito
soprattutto nella tarda età ellenistica (I-II sec. d.C.), aveva una trama invariabile: una
coppia di innamorati (uomo e donna) sono separati e devono attraversare mille peripezie
prima di potersi riunire; l’amore è sentito come passione seria, esclusiva e l’eroina riesce
sempre a conservare la sua castità. Petronio ne rovescia i canoni: non c’è spazio per la
castità; nessun personaggio è un credibile portavoce di valori morali; la relazione è di
natura omosessuale; l’amore virtuoso è sostituito da costumi e da pratiche di schietta
franchezza; alla serietà subentra l’umorismo e il realismo. Elementi tipicamente
romanzeschi sono invece l’estensione dell’opera e l’intreccio avventuroso. La complessità
degli eventi narrati, inoltre, trova il suo punto unitario nella figura del protagonista Encolpio
(così come accadeva nei poemi epici).
Chiaro è anche l’influsso della Fabula Milesia, introdotta a Roma da Cornelio Sisenna
con il suo riferimento latino dei Milesiaka di Aristide di Mileto (I sec a.C.). si trattava di
brevi novelle, caratterizzate da situazioni comiche, spesso piccanti e amorali delle quali
rendono testimonianza alcune inserzioni di spiritosa acutezza del Satyricon, come la
novella della “Matrona di Efeso” (111-112) e del “Fanciullo di Pergamo” (85-87).
La prosa narrativa di Petronio è interrotta spesso da inserti poetici (i più importanti sono
i due brani recitati da Eumolpo, la Troiae halosis, “la caduta di Troia” i senari giambici e il
“bellum civile”, “la guerra civile” in esametri), nei quali l’autore si allontana dalla storia e si
abbandona a commenti che hanno una funzione ironica (a tal proposito il critico Batchthu
ha parlato di pluridiscorsività e di intertestualità, per la complessità del testo petroniano).
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Il punto di riferimento appare la Satira menippea, contenitore misto di prosa e di versi
(prosimetro), vario per contenuti e forma, testimoniata a Roma con Marrone prima (I sec.
a.C.) e quindi da Seneca con l’Apokolokyntosis.
Infine il Satyricon mostra familiarità con forme più elevate di narrazione, come l’epica, la
storiografia e la tragedia.
Quanto maggiore è lo scarto tra l’elevatezza dello stile e di contenuto, tanto più efficace
è l’effetto parodistico. Secondo alcuni critici (Courtney, Klebs e Fedeli) ci sarebbe un
intento di fare la parodia all’Odissea e all’Eneide: l’ira di Poseidone che perseguita
Odisseo o di Giunone che perseguita Enea sarebbe così sostituita dall’ira di Priapo nei
confronti di Encolpio; il tema del viaggio e delle peripezie; ancora lo stesso nome di
Polieno che il protagonista assume in una avventura di seduzione di una matrona ricorda
l’epiteto Polyàinos attribuito da Omero al solo Odisseo. Come Odisseo dalla cicatrice, così
Encolpio è riconosciuto dalle caratteristiche di una certa parte del corpo (105,9 sgg.).
Petronio, inoltre, trasferisce nell’opera numerosi riferimenti alla cultura giudaica ed
ebraica, come ha correttamente fatto rilevare il Clarke.
Sintesi dell’opera. Encolpio viaggia in compagnia di Gitone, il suo bellissimo e
capriccioso amante, e per lui viene in contrasto con il rivale Ascilto. Su Encolpio, però, si
abbatte l’ira del dio Priapo che gli toglie la virilità. In una ignota città della Campania i due
amanti vengono invitati a cena presso il liberto Trimalcione, un arricchito che ha
conservato tutta la rozzezza e l’ignoranza dello schiavo. La cena altro non è che
l’occasione per esibire le ricchezze del padrone di casa in modo volgare ed eccessivo tra
una sfilata di piatti più o meno elaborati. I protagonisti riescono a liberarsi a stento. La
rivalità tra Encolpio e Ascilto precipita e Gitone viene sottratto all’antico amante. Encolpio,
affranto, entra in una pinacoteca e incontra Eumolpo, un poeta vagabondo che si sostituirà
a Ascilto nel ruolo di rivale. Dopo varie avventure il protagonista recupera il suo Gitone,
ma non avrà modo di liberarsi di Eumolpo. Il nuovo terzetto si ritrova sulla nave del
mercante Zica; l’imbarcazione naufraga nei pressi di Crotone, una città decaduta,
dominata dai cacciatori di eredità. Eumolpo si finge un vecchio facoltoso e senza eredi,
Encolpio e Gitone i suoi servi. Lo stratagemma ha inizialmente successo e i tre vivono alle
spalle dei cittadini; poi i Crotoniani scoprono la verità. Eumolpo rende pubblico un
testamento-beffa nel quale nomina erede chi accetterà di mangiare il suo cadavere. Qui la
narrazione si interrompe.
La poetica e lo stile. Il mondo descritto da Satyricon non trova precedenti nella
letteratura latina: la vita ritratta come realtà labirintica ed ingannevole, appare dominata
dal sesso e dal denaro. Petronio si guarda bene dall’esprimere giudizi di valore e del
proporre regole morali o religiose. L’originalità consiste proprio nell’offrire al lettore una
visione del reale che è critica quanto disincantata. Anche rispetto ai suoi personaggi,
l’autore non ostenta partecipazione e immedesimazione, ma divertita simpatia.
Per esprimere la scabrosità del soggetto, da un punto di vista linguistico, Petronio si
serve di una prosa ispirata alla urbanitas, cioè alla lingua delle persone istruite, non priva
però di numerosi volgarismi, che obbediscono a un preciso codice espressivo; a tal
proposito gli studiosi hanno parlato di “realismo mimetico”, dato che ogni personaggio si
esprime per lo più con il linguaggio caratteristico della propria condizione (imitazione del
carattere). Vi è una evidente distinzione fra personaggi colti, come Eumolpo, Encolpio e
Gitone, che si servono di una lingua semplice ma elegante, non priva di riferimenti ai
principali modelli letterari (Cicerone, Virgilio, Orazio), e personaggi di bassa cultura, come
molti dei convitati di Trimalcione, questi ultimi si servono del latino parlato, ricorrendo a
vocaboli popolareschi, a espressioni di gergo oppure idiomatiche, a grecismi.
Un caso a parte è Trimalcione, che nella sua ansia di sembrare diverso da quello che è,
ovvero un arricchito “parvenu”, cerca disperatamente di far sfoggio di erudizione,
impiegando un linguaggio elevato, magniloquente ed artificioso, che, però, non riesce a
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sostenere a lungo, ricadendo poi, con effetti comici, nel modo di parlare che gli è più
congeniale, quello rozzo.
La stessa funzione mimetica è svolta dalle forme erronee (cambi di genere, uso
improprio dei casi, incertezze sintattiche). Da qui deriva un forte realismo.
La lingua risulta così molto composita e insieme indifferenziata: il livello superiore è
quello poetico, il più umile quello volgare; i diversi registri linguistici creano un effetto
ironico e servono a caratterizzare il personaggio, ad esempio grazie al sermo plebeius. In
tal modo possiamo affermare che la celeberrima Cena Trimalchionis è un documento del
latino parlato nel I sec. d.C.
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LA POESIA EPICA DI ETÀ IMPERIALE
Tra i principali autori di poesia epica della prima età imperiale si ricordano i seguenti
interpreti:
Nerone: l’imperatore, appassionato di poesia, promosse circoli culturali e istituì
competizioni di poesia e di canto alle quali lui stesso prendeva parte: gli Iuvenilia e i
Neronia, con scadenza quinquennale. Tra le opere ricordiamo una Presa di Troia, che
probabilmente faceva parte del poema di Troica.
Gaio Valerio Flacco: attivo sotto l’imperatore Vespasiano al quale dedicò il suo
capolavoro Argonautica. Il poema in 8 libri (l’ultimo incompleto) di esametri racconta
l’impresa di Giasone alla ricerca del vello d’oro e la passione della maga Medea. Fonte di
Flacco è l’omonima opera del greco Apollonio Rodio (III sec a. C.) del quale enfatizzò il
pathos degli eroi e il contrasto dei sentimenti, con un risultato stilistico complesso ed
esagerato. La scelta mitologica è chiaramente in polemica con Lucano.
Silio Italico: neroniano, console nel 68 e proconsole d’Asia nel 77, compose il
poema epico-storico Punica (in 17 libri sulla II guerra punica) Per gli eventi storici si basa
su Tito Livio, ma stile e tono sono modellati su Virgilio. Manca il protagonista allo scopo da
lasciare emergere l’idea di populus romanus e i personaggi sono privi di pathos. Dissero di
lui: scribebat carmina maiore cura quam ingenio.
Marco Anneo
Lucano
(39-65): nativo di Cordova in Spagna, nipote di
Seneca, fu educato dallo stoico Anneo Cornuto. Grazie all’appoggio dello zio Seneca,
Lucano divenne intimo amico di Nerone e per l’imperatore declamò le Laudes Neronis,
oggi perdute. Ciò gli valse la corona di poeta, la questura e l’augurato. Scrisse molto:
Iliaca (poema sulla guerra di Troia), Orpheus (epillio sulla catabasi), 10 libri di Silvae
(poema di vario argomento), ma tutto è per noi perso. Pubblicò quindi i primi tre libri della
Pharsalia o Bellum Civile, poema epico di 10 libri in esametri, in cui si esaminavano le
cause della guerra civile tra Cesare e Pompeo, dal passaggio del Rubicone fino all’arrivo
di Cesare in Egitto. L’opera è incompiuta. Le idee repubblicane e anticesariane in esso
contenute gli alienarono le simpatie del Principe, che dopo la scoperta della congiura di
Pisone (65), alla quale Lucano aveva aderito, gli intimò di uccidersi.
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Sintesi della Pharsalia:
LIBRO I: La marcia su Roma. Il poema si apre con il proemio, l’elogio di Nerone e la presentazione dei
due protagonisti: Cesare e Pompeo. Siamo nel 49 a C: passato il Rubicone, Cesare marcia verso Roma,
da cui Pompeo e i senatori fuggono da sinistri presagi.
LIBRO II: Bruto,Catone e la Libertas. Nel corso di un incontro notturno Bruto chiede a Catone se ritenga
giusto partecipare a questa guerra; Catone lo invita a schierarsi con Pompeo, rimanendo fedele a Roma
e all’ideale della libertas repubblicana. Incalzato da Cesare, che avanza rapidamente, Pompeo,
attraversa tutta l’Italia, riesce a malapena a imbarcarsi a Brindisi per la Grecia.
LIBRO III: Pompeo in Grecia, Cesare in Occidente. Giulia, la moglie defunta, appare in sogno a Pompeo
con l’aspetto di un orrido fantasma e gli predice la morte. A sostegno di Pompeo si raduna intanto un
ingente esercito. Cesare, giunto Roma, impossessatosi del tesoro custodito presso il tempio di Saturno,
decide di dirigersi alla volta della Spagna. Oltrepassate le Alpi, deve affrontare l’eroica resistenza degli
abitanti di Marsiglia, che capitolano dopo una sanguinosa battaglia navale.
LIBRO IV: Successi e sconfitte dei Cesariani. Mentre Cesare costringe alla resa e poi lascia andare
liberi i Pompeiani asserragliatasi a Lérida, in Spagna, in Dalmazia, invece, nel mare antistante Salona, le
truppe cesariane cadono in un agguato e preferiscono suicidarsi piuttosto che arrendersi- Anche in Libia
la situazione precipita e i Pompeiani attirano in un agguato i soldati di Cesare, guidati da Curione, e li
sconfiggono.
LIBRO V:Cesare in difficoltà in vista dello scontro diretto. Cesare, sottomessa la Spagna, giunge in
Grecia e, per la prima volta, si trova a contatto diretto con l’avversario. Il mancato arrivo di Antonio con le
truppe di rinforzo spinge Cesare a tornare nuovamente in Italia. Durante la traversata viene sorpreso da
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una terribile tempesta che lo rigetta sulle coste dell’Epiro. Nel frattempo Pompeo costringe la moglie
Cornelia a rifuggiarsi a Lesbo e si congeda da lei con una struggente scena d’addio.
LIBRO VI: Pompeo in Tessaglia, la terra della strega Eritto, Pompeo assediato da Cesare a Durazzo,
durante le alterne vicende si distingue l’eroico centurione cesariano Sceva. I due eserciti si spostano
infine in Tessaglia, terra di mostri e di streghe. Sesto, figlio di Pompeo, si rivolge a una di loro, Eritto, per
conoscere il futuro; la strega ricorre ad un raccapricciante rito di necromanzia e fa resuscitare un soldato
morto, costringendolo a profetare. Il responso è sfavorevole:padre e figlio saranno sconfitti in battaglia,
tuttavia riusciranno a salvare la vitaLIBRO VII: La battaglia di Farsalo. Sulla piana di Farsalo l’esercito di Cesare si scontra con quello di
Pompeo: Pompeo è sconfitto e fugge a Larissa. I morti sul campo di battaglia rimangono insepolti alla
merù degli uccelli.
LIBRO VIII: Pompeo ucciso a tradimento. Pompeo cerca rifugio in Egitto presso il giovane re Tolomeo,
ma, al suo arrivo, il consigliere del re, Potino, temendo l’ira di Cesare, organizza una trappola, e Pompeo
viene ucciso. Il suo corpo decapitato e la testa, invitata a Tolomeo, sarà sepolta sommariamente da un
soldato mosso a compassione.
LIBRO IX: Cesare in Egitto, Catone comanda gli eserciti. Catone guida gli eserciti repubblicani
attraverso il deserto della Libia tra inauditi pericoli. Cesare arrivato in Egitto, piange di fronte al teschio di
Pompeo.
LIBRO X: Cesare e Cleopatra. Cesare entra in Alessandria e visita la tomba di Alessandro Magno. Il
condottiero romano è sedotto da Cleopatra, che avendo sposato il fratello Tolomeo, è regina d’Egitto.
Scoppia una rivolta tra gli alessandrini fomentata dal clero egizio e Cesare si rifuggia sull’isola di Faro.
Qui si interrompe il poema.
Con la Pharsalia Lucano rinnova il genere epico, in quanto elimina l’apparato
mitologico, introduce più protagonisti (Cesare, antagonista; Pompeo, figura tragica,
predestinato alla sconfitta; Catone, esaltato come eroe stoico), non idealizza la storia di
Roma, ma rievoca il dramma della perdita della libertà, non trascurando le mosse, il
popolo e l’esercito. Anche per Lucano però la storia è opus oratorum: da qui i numerosi
discorsi, le descrizioni, lo stile teso, il lessico ricercato, il periodare spezzato e la frase
pregnante.
Le sue fonti sono storiche: Livio, le epistole di Cicerone, Cesare, Asinio Pollione etc.
e radicale è il rifiuto della mitologia.
L’epica di Lucano è tragica e lo stile riflette la drammatica realtà nella scelta
lessicale, nella collocazione della parola a in un certo gusto per il macabro.
La nuova epica di Lucano. Lucano si pone in atteggiamento antitetico nei confronti
della Eneide di Virgilio, dove un motivo centrale era costituito dalla esaltazione del
principato, interpretato in chiave provvidenziale come momento necessario per la nascita
di un nuovo, lungo periodo di pace e prosperità.
Una visione “rovesciata”. Alla ottimistica visione virgiliana, Lucano contrappone, da
un lato, la celebrazione degli ideali repubblicani, incarnati dalle figure emblematiche di
Pompeo e di Catone, dall’altro, la denuncia della violenza inaudita di una guerra fratricida
che ha spazzato via il vecchio ordine, per sostituirsi un governo tirannico e sanguinoso.
Mentre Virgilio con toni profetici canta l’avvento di un impero di clemenza e di pace,
Lucano propone invece la visione di un mondo feroce, dove il diritto e la giustizia sono
schiacciati dalla violenza e il delitto e divenuto legalità (iusque datum sceleri: I, 2). Questo
rovesciamento del modello epico si attiva su due piani: in primo luogo con l’assenza di un
eroe protagonista, portatore di valori positivi, poi eliminando quasi la presenza degli
dei, il cui intervento nelle cose umane viene sostituito dalla Fortuna, infine con un
rovesciamento di alcuni episodi del poema virgiliano. Due casi, tra i molti che si potrebbero
fare, sono emblematici.
Nel Proemio (I,1-7), Lucano afferma:
Bella per emathios plus quam civilia campos
iusque datum sceleri canimus populumque potentem
in sua victrici conversum viscera dextra
cognatasque acies et rupto foedere regni
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certatum totis concussi viribus orbis
in commune nefas infestique obvia signis
signa, pares aquilas et pila minantia pilis.
[Cantiamo guerre più atroci che le civili sui campi d’Elmazia (Farsalo), il delitto divanuto legalità e un popolo potente
che contro le sue stesse viscere volse la destra vittoriosa, gli eserciti di uno stesso sangue e- infranto il patto su cui si
fondava lo stato- la gara di nefondezza a cui si abbandonarono le forze del mondo sconvolto, levando ostilmente
insegna contro insegna, aquila conto aquila, arma minacciosa contro arma]
Si tratta, com’è evidente, di una scelta opposta a quella di Virgilio, il quale si era
proposto di esaltare l’eroe e le imprese militari che avevano portato alla fondazione dello
Stato romano: il tema centrale in Lucano non è la costruzione, bensì la distruzione, non la
vittoria ma la sconfitta, non la virtù ma il crimine.
Altro esempio di completo rovesciamento della prospettiva è rappresentato dal lungo
passo del libro VI dedicato alla strega Eritto e ai riti di necromanzia. Nel libro VI della
Eneide, Enea scende dalla terra degli inferi per ricevere dal padre Anchise la profezia
della futura grandezza di Roma, in Lucano, il posto della Sibilla è occupato dall’orrida
strega Eritto, sono i morti a tornare sulla terra e la predizione annuncia terribili sciagure.
I personaggi del Bellum Civile. Anche nella scelta dei personaggi Lucano si
distacca dall’epica tradizionale: pochi sono infatti i personaggi di secondo piano che
abbiamo nel corso della narrazione un ruolo di qualche peso, come l’eroico centurione
Sceva (VI,144-262), vivam magnae speciem virtutis (“simbolo vivente dell’immenso
valore”), ma anche esempio di sacrificio per una causa sbagliata. Manca poi il
personaggio principale, portatore di valori positivi e perno di tutta la vicenda: Lucano
arditamente, lo sostituisce con tre protagonisti, Pompeo, Cesare e Catone.
Il primo, Pompeo è un uomo del passato, un eroe ormai in declino, che si accorge
che gli antichi valori repubblicani, nei quali si identifica e che cerca disperatamente di
difendere, sono inesorabilmente destinati a cadere. Dalla sua condizione di Magnus e di
uomo troppo fiducioso nella sua gloria e nelle sue possibilità, precipiterà, come un eroe
tragico che si sia macchiato di hybris (tracotanza verso gli dei), nel baratro della sconfitta
militare e del tradimento; solo la serena accettazione del proprio destino e la morte degna
di un filosofo stoico gli restituiranno la grandezza. È a questo eroe sconfitto che Lucano
rivolge la sua adesione commossa.
Il secondo, Cesare, deve rappresentare per Lucano il prototipo del tiranno feroce e
sanguinario, per questo motivo è meticolosamente costruito come un personaggio
negativo, con palesi forzature, se non mistificazioni, della realtà storica. Empio e crudele,
avido di potere, incurante delle leggi degli uomini e degli dei non solo fa il male, ma
soprattutto ne trae grande piacere. La sua ira, che spesso si tramuta in un furor, lo
accomuna ad Alessandro Magno, che seminò la strage tra i popoli dell’Asia.
Infine Catone, fin dalla sua prima apparizione (II, 389-90), viene presentato come uno
iustitiae cultor, rigidi servator honesti in commune bonus (“osservante della giustizia,
cultore dell’onestà più rigida, retto nell’interesse della comunità”). Egli si oppone, in una
lotta disperata e titanica, agli dei, che non si curano degli uomini, e al Fato, che si
accanisce a colpire i giusti. In un momento nel quale tutti sembrano aver smarrito il giusto
orientamento, egli, alieno da ogni compromesso, rimane incrollabilmente coerente con i
suoi principi morali, convinto che l’unico giudice delle sue azioni sia la propria coscienza.
Significativa a questo riguardo è l’affermazione (II,301-303):
[…] non ante revellar
exanimem quam te complectar, roma, tuumque
nomen, libertas, et inanem prosequar umbram.
[…così non mi si riuscirà a strappar via prima che io abbia avvinto il tuo corpo esanime, o Roma, il tuo nome, o
Libertà; terrò dietro, fino in fondo, al tuo vacuo fantasma]
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I personaggi di Lucano. In più punti del poema, con scarsa coerenza, quando non
in aperta contraddizione con la dottrina stoica, che pure afferma di seguire, Lucano mostra
un radicato pessimismo. Egli ha la convinzione che manchi del tutto quella forza
provvidenziale, cara all’etica stoica, capace di reggere il mondo e da guidarlo verso il
bene. Tutto è retto da un cieco Caso, che pare annullare anche la divinità (VII,445-448):
[...] sunt nobis nulla profecto
numina:cum caeco rapiantur saecula casu
mentimur regnae iovem
[...di sicuro noi non abbiamo dei: poiché il cielo caso domina e trascina la vicenda delle generazioni, noi mentiamo
quando affermiamo che esiste Giove]
La concezione ottimistica della filosofia stoica svanisce, quindi, nella visione di un
mondo, in cui non c’è posto per la giustizia, dove la fortuna favorisce i malvagi, e gli dei
sono capaci di colpire solo i deboli (III, 448-449):
[...] servat multos fortuna nocentes
et tantum miseris irasci numina possunt.
[...La buona sorte favorisce spesso i colpevoli ed i numi riservano la loro ira soltanto sugli infelici]
Il poeta inoltre è convinto che Roma sia entrata in una fase di inarrestabile
decadenza: come ogni organismo, arrivato alla piena maturità, è destinato a invecchiare e
morire, così anche una civiltà, giunta a suo parere all’apice della potenza è destinata a
cadere. La guerra civile fra Cesare e Pompeo, con il suo carico di orrore e di morte,
rappresenta per Lucano l’inizio di questo irreversibile processo, un processo che il
principato, con la sua mancanza di libertà, può soltanto accelerare.
Uno stile modello per gli oratori. Quintiliano nella Institutio oratoria (X,1.90)
afferma: Lucanus ardens et concitatus et sententiis clarissimus et, ut dicat quod sentio,
magis oratoribus quam poetis imitandus (“Lucano è poeta appassionato e veemente,
luminoso nei pensieri e, per dire quel che penso, modello più per gli oratori che per i
poeti”). Cogliendo con questo giudizio gli aspetti caratteristici del poeta. Un aspetto
dominante dello stile di Lucano è la predilezione per i periodi densi di massime
(sententiae), destinate a sorprendere continuamente il lettore e a creare un’ininterrotta
tensione. Fondate su sapienti espedienti retorici, come l’antitesi, il parallelismo, il
paradosso, esse attestano un’incredibile abilità linguistica e un assoluta padronanza
tecnica, ma spesso risultano contorte, ambigue e talora oscure.
Seguendo la tendenza retorica dominante dell’asianesimo, Lucano non solo fa uso (e
abuso) delle principali figure retoriche (antitesi, chiasmo, anafora, climax, varatio), ma
ricorre anche alla enfatizzazione, alla magniloquenza, alla frase ad effetto.
Tendenza al tragico e all’orrido. Caratteristico è pure l’impiego di alcuni moduli
tipici della tragedia, come i lunghi monologhi, l’io del poeta è sempre presente con
appassionate apostrofi o violente invettive. Il gusto per l’orrido e il macabro, su cui tante
volte, forse troppe, il poeta indugia, non è solo una concessione alla moda del tempo, ma
mira anche a far riflettere sull’orrore di una guerra civile, in cui gli uomini hanno perso tutti i
loro valori etici.
Un esametro antivirgiliano. Anche l’esametro è costruito in maniera volutamente
(e polemicamente) opposta a quello di Virgilio: quanto quest’ultimo è fluido e scorrevole,
tanto quello di Lucano è teso, concitato, frammentario, con frequente ricorso alle
spezzature. Questo fenomeno è acuito dall’uso frequente della paratassi: i periodi, ma
anche le descrizioni e gli excursus si susseguono a blocchi, o, più spesso, si alternano o si
sovrappongono, senza un’apparente sequenza logica, al fine di colpire il lettore con una
serie inesauribile e varia di immagini che creano una tensione e un phathos ininterrotto.
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Publio Papinio Stazio, nacque fra il 40 e il 50 d.C da un erudito maestro di scuola
cultore di poesia. Giunto a Roma ottenne successo e popolarità legandosi all’imperatore
Domiziano. La sua attività letteraria fu intesa: compose il poema mitologico Thebais, che
lo impegnò per circa 12 anni, la raccolta Silvae e la perduta Agave, libretto per il
pantomimo Paride. Un insuccesso riportato nel 94 nei Ludi Capitolini lo indusse a ritornare
a Napoli dove si dedicò al poema epico Achilles, rimasto incompiuto per la sua morte
avvenuta forse nel 96.
La Tebaide è un poema epico mitologico in esametri in 12 libri. L’argomento
narrato è la lotta fratricida (fraternae acies; I,1) tra Eteocle e Polinice, leggenda del ciclo
tebano (noto come dei “7 contro Tebe”) già trattata dai tragici greci e a Roma da Seneca
nelle Phoenisshe).
In un epilogo programmatico Stazio dichiara il suo altissimo modello, augurando
con una formula di modestia lunga fortuna al suo poema (XII,815-16): “Non tentare di
gareggiare con la divina Eneide, ma seguila a distanza e venera sempre le sue orme”. Del
resto, la sua ambizione è rivelata dalla stessa divisione in 12 libri, a loro volta divisi, sul
modello di Virgilio, in due gruppi di 6. La scelta è impegnativa, anche perché i primi 6 libri
appaiono inconcludenti e privi di un baricentro unificante. Oltre alla ripresa virgiliana, non
mancano echi anche della Pharsalia di Lucano, soprattutto per la natura del contenuto;
tuttavia rispetto ai suoi predecessori, la poesia epica di Stazio diventa “manieristica”,
costantemente alla ricerca dell’effetto; abbondano per questo atmosfere fosche e cupe,
scene raccapriccianti improntate spesso al gusto del macabro.
Leggiamo i versi 539-546 del libro XI in cui Polinice ferisce a morte Eteocle nel
duello fatale per entrambi:
Fratis uterque furens cupit adfectatque cruorem
et nescit manare suum;tandem irruit exsul,
hortatusque manum, cui fortior ira nefasque
iustius, alte ensem germani in corpore pressit,
qua male iam plumis imus tegit inguina torax.
Ille dolens nondum, sed ferri frigore primo
territus in clipeum turbatos colligit artus;
mox intellecto magis ac magis aeger anhelat volnere.
[...Ciascuno dei due brama follemente il sangue del fratello /e non si accorge quando è il suo a scorrere;alla fine
irrompe l’esule /e, fatto appello alla sua mano di cui più forte è l’ira e più giusto il delitto,/affonda la spada nel corpo
del fratello,/là dove le scaglie poste all’estremità della corazza lasciano semiscoperto l’inguine /quello, non ancora
toccato dal dolore ma subito atterrito dal freddo del metallo,/raccoglie le membra tremanti dietro lo scudo; /poi
avverte la ferita e sempre più abbandonato dalle forze indietreggia respirando affannosamente. ]
Achilleide. Poema epico in esametri. Stazio intendeva narrarvi la vita di Achille
dall’infanzia alla guerra di Troia e quindi alla morte, a completamento dell’opera omerica.
Ma il poeta potè scrivere solo i primi due libri.
La poetica e lo stile. Il mondo poetico di Stazio è ricco di riferimenti mitologici, di
figure complesse e di immagini che davano al lettore una rappresentazione colorita dei
fatti, carente però di sensibilità e di profondità interiore. Sono numerose le fonti letteraria
alle quali attinge: oltre che dal modello Eneide, la vicenda dei sette contro Tebe era stata
cantata nel mondo greco del V sec a. C. da Antimaco di Colofone (Tebaide) e da Euripide
(Fenicie) e nel mondo romano da Seneca (Phoenisse).
La lingua di Stazio è scelta, ricca,ed elegante. Lo stile narrativo dell’epica ha ricerca
l’effetto emotivo: il lettore viene coinvolto e partecipa interiormente alla vicenda. Se lo stile
narrativo e la metrica risentono della lezione tecnica di Ovidio, la sua visione del mondo è
influenzata da Seneca, da cui mutua il gusto dell’orrido e la tendenza al patetico.
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SENECA
La vita. Lucio Anneo Seneca nacque in Spagna, a Cordova, da una ricca famiglia
equestre, forse nel 4 a.C. Venne presto a Roma, dove fu educato nelle scuole retoriche e
filosofiche (tra i suoi maestri lo stoico Attalo e Papirio Fabiano). Dal 26 al 30 ca. d.C. fu in
Egitto (al seguito di uno zio prefetto). Nel 31 iniziò l’attività forense e la carriera politica
ottenendo buoni risultati – ricordiamo a tal proposito una presunta condanna a morte che,
nel 37, Caligola avrebbe decretato perché invidioso della sua fama oratoria della quale si
dice fosse poi salvato da un’amante dell’imperatore.
Più tardi, siamo nel 41 venne esiliato da Claudio perché coinvolto in uno scandalo
di corte che vedeva protagonista Giulia Livilla, figli minore di Germanico e sorella dello
stesso Caligola (in realtà è più probabile che dietro il casus ci fosse la volontà di colpire
l’opposizione politica raccolta intorno alla famiglia di Germanico).
La svolta. L’esilio in Corsica, terra allora selvaggia ed inospitale, durò fino al 49
quando Agrippina riuscì ad ottenere da Claudio la sua nomina a precettore del figlio di
primo letto, il futuro imperatore Nerone, e quindi il suo ritorno nell’Urbe. In questo ruolo di
educatore (affiancato da Afranio Burro, prefetto del pretorio), Seneca accompagnò
l’ascesa al trono del giovanissimo Nerone (54 d.C.) e da allora di fatto resse la guida dello
Stato (insieme ad Agrippina ed allo stesso Burro): è il celebre periodo del buongoverno di
Nerone, ispirato ai principi di concordia ordinum e di conciliazione dei poteri del princeps e
del Senato, che progressivamente si deteriora (del 59 è il matricidio) costringendo Seneca
a gravi compromessi.
Il crepuscolo. Dal 62, dopo la morte di Burro, con Nerone sempre più determinato
ad imporre una politica autocratica di tipo ellenizzante, con l’avvento al potere di
personalità come Poppea e Tigellino, nuovo prefetto del pretorio, Seneca si aliena sempre
di più dalla vita di corte e si ritira gradualmente a vita privata. Divenuto inviso alla corte ed
allo stesso Nerone, Seneca viene coinvolto nella celebre “congiura dei Pisoni” (aprile 65),
di cui era forse solo al corrente senza esserne partecipe e viene perciò condannato a
morte. Si suicidò nello stesso anno 65 (celeberrimo il racconto che ne fa Tacito negli
Annales XV, 62 – 64).
LE OPERE
I Dialoghi. Della vasta produzione senecana molte opere furono raccolte dopo la
morte di Seneca in 12 libri di Dialoghi (titolo già noto a Quintiliano), titolo che non implica
generalmente la forma dialogica ma pare piuttosto dovuto alla grande tradizione del
dialogo filosofico risalente a Platone.
12 libri di Dialoghi: 1) Ad Lucylium de provvidentia, 2) Ad Serenum de costantia sapientis,
3 – 5) Ad Novatum de ira libri III, 6) Ad Marciam de consolatione, 7) Ad Gallionem de vita
beata, 8) Ad Serenum de otio, 9) Ad Serenum de tranquillitate animi, 10) Ad Paulinum de
brevitate vitae, 11) Ad Polybium de consolatione, 12) Ad Helviam matrem de consolatione.
Le altre opere. De beneficiis (7 libri), De clementia, 124 Epistulae morales ad
Lucilium (20 libri ci sono pervenuti attraverso i manoscritti, ma abbiamo notizia di almeno
24 libri), Naturales quaestiones.
Le tragedie. Abbiamo inoltre 9 tragedie cothurnate, cioè di argomento greco:
Hercules furens, Troades, Phoenisse, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes,
Hercule Oetaeus.
Un posto a parte occupa il ludus de morte Claudii più nota come Apokolokintosys, una
satira menippea, sulla singolare apoteosi dell’imperatore.
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Molti dubbi ci sono sulla paternità senecana degli Epigrammi. Diverse le opere
perdute: orazioni e vari trattati fra cui i Moralis philosophiae libri, cui accenna più volte egli
stesso.
Molte altre sono le sue opere spurie tra le quali le più menzionate lettere a San Paolo che
sono un falso del IV secolo.
LE FONTI
Molte notizie sono fornite da Seneca stesso soprattutto nelle Epistulae e nella
Consolatio ad Helviam matrem. Altre fonti importanti: Tacito (Annales XII-XV) e le
biografie di Svetonio sugli imperatori Caligola, Claudio e Nerone.
1. I DIALOGHI E LA SAGGEZZA STOICA.
Della vasta produzione senecana molte furono raccolte, dopo la morte di Seneca, in 12
libri di Dialoghi (titolo già noto a Quintiliano), che non implica generalmente la forma
dialogica, ma pare piuttosto dovuto alla grande tradizione del dialogo filosofico risalente a
Platone.
Il genere della Consolatio. Il genere della consolazione, già coltivato nella
tradizione filosofica greca, si costituisce attorno ad un repertorio di temi morali (la fugacità
del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile dell’uomo, etc..)
attorno ai quali ruota gran parte della riflessione senecana: adesso egli fa riferimento nella
Consolatio ad Marciam (scritta probabilmente nel 40, sotto Caligola) ed anche nelle altre
due consolationes pervenuteci.
Queste ultime risalgono entrambe agli anni dell’esilio: quella Ad Helviam matrem (42
ca.) cerca di tranquillizzare la madre sulla condizione del figlio esule esaltando gli aspetti
positivi dell’isolamento e dell’otium contemplativo; l’altra (43 ca.) rivolta Ad Polybium, un
potente liberto di Claudio, per consolarlo della perdita del fratello, si rivela in realtà come
un tentativo di adulare indirettamente l’imperatore per ottenere il rientro a Roma (ed è
l’opera che più è costata a Seneca l’accusa di opportunismo).
I libri De ira: Le singole opere dei Dialoghi costituiscono trattazioni autonome di aspetti
o problemi particolari dell’etica stoica, il quadro generale in cui l’intera produzione filosofica
senecana si scrive (uno stoicismo, che ha stemperato l’antico rigore dottrinale, sulle orme
della cosiddetta “scuola di mezzo”, e non conosce chiusure dogmatiche). I tre libri del de
ira, ad esempio scritti in parte prima dell’esilio, ma pubblicati dopo la morte di Caligola,
sono una sorte di fenomenologia delle passioni umane: ne analizzano i meccanismi di
origine e i modi di inibirle e dominarle (all’ira in particolare è dedicato il III libro). L’opera è
dedicata al fratello Novato, al quale Seneca dedicherà qualche anno dopo (quando Novato
si chiamerà Gallione, dal nome del padre adottivo, il retore Giunio Gallione).
Il De vita beata e il problema della ricchezza : anche il De vita beata (forse del 58),
che affronta il problema della felicità e del ruolo che nel perseguimento di essa possono
svolgere gli agi le ricchezze. In realtà dietro il problema generale, Seneca sembra voler
fronteggiare le accuse, che sappiamo gli venivano mosse (tacito, Annales XIII,42), di
incoerenza fra i principi professati e la concreta condotta di vita che lo aveva portato,
grazie alla posizione di potere occupata a corte, ad accumulare un patrimonio sterminato
(anche mediante la pratica dell’usura). Posto che l’energia della felicità è nella virtù, non
nella ricchezza e nei piaceri (la polemica è rivolta soprattutto all’epicureismo o almeno alle
sue versioni deteriori), Seneca legittima tuttavia l’uso della ricchezza se questa si rivela
funzionale alla ricerca della virtù. Saggezza e ricchezza non sono necessariamente
antitetiche (“nemo sapientiam paupertate damnavit – nessuno ha condannato la saggezza
alla povertà), avvertito come pericolosamente asociale: chi aspira alla “sapientia” ( che
resta un ideale mai pienamente conseguibile raggiungibile) dovrà saper sopportare gli agi
e il benessere che le circostanze della vita gli hanno procurato, senza lasciarsene
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invischiare ( secondo il principio, cioè, che l’importante non è non possedere ricchezze,
ma non farsi possedere da esse).
I dialoghi a Sereno e il distacco del saggio stoico delle contingenze terrene. Il
superiore distacco del saggio dalle contingenze terrene è anche il tema unificante della
“trilogia” dedicata allo amico Sereno, che abbandona le sue convinzioni epicuree per
accostarsi all’etica stoica: “De costantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi. Il primo
dei tre “dialoghi” (pubblicato dopo il 41) esalta appunto l’imperturbabilità del saggio stoico,
forte della sua interiore fermezza, di fronte alle ingiurie e alle avversità. Il De tranquillitate
animi (l’unico in forma parzialmente dialogica) affronta un problema fondamentale nella
riflessione filosofica senecana, la partecipazione del saggio alla vita politica. Seneca cerca
una mediazione fra i due estremi dell’otium contemplativo e dell’impegno proprio del civis
romanus, suggerendo un comportamento flessibile, rapportato alle condizioni politiche:
l’obiettivo da conseguire, sottraendosi sia al tedio di una vita solitaria sia agli obblighi della
tumultuosa vita cittadina, è sempre quello della serenità di un’anima capace di giovare agli
altri, se non con l’impegno pubblico, almeno con l’esempio e la parola. Se la tensione fra
impegno e rinuncia è qui ancora irrisolta (e anche perciò si tende a collocare il dialogo
poco prima del 62), la scelta di una vita apportata è invece chiara nel De otio: una scelta
forzata, resa necessaria da una situazione politica compromessa tanto gravemente da non
lasciare al saggio, impossibilitato a giovare agli altri, alternativa diversa dal rifugio nella
solitudine contemplativa,di cui si esaltano i pregi (l’oper si colloca forse nel 62, ai tempi del
ritiro dalla vita politica).
Il De brevitate vitae e il De provvidentia: più indietro, forse agli anni tra il 49 e il 52,
sembra risalire il De brevitate vitae (dedicato a Paolino, prefetto dell’annona, forse parente
della seconda moglie di Seneca), che tratta il problema del tempo, della sua fugacità e
dell’apparente brevità di una vita che tale ci sembra perché non ne sappiamo afferrare
l’essenza, ma la disperdiamo in tante occupazioni futili senza averne piena
consapevolezza. Agli ultimi anni dovrebbe invece appartenere quello che apre la raccolta
dei “dialoghi”, cioè il De provvidentia (dedicato al Lucilio delle Epistulae): affronta il
problema della contraddizione fra il progetto provvidenziale che secondo la dottrina stoica
presiede alle vicende umane (in polemica con la tesi epicurea dell’indifferenza divina) e la
sconcertante constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire
gli onesti. La risposta di Seneca è che le avversità che colpiscono chi non le merita non
contraddicono tale disegno provvidenziale, ma attestato la volontà divina di mettere alla
prova i buoni ed esercitarne la virtù: il sapiens stoico realizza la sua natura razionale nel
riconoscere il posto che nell’ordine cosmico governato dal Logos a lui è assegnato, e
nell’adeguarvisi compiutamente.
2. FILOSOFIA E POTERE
Le Naturales questiones. Dedicati a Lucilio, e successivi al ritiro della vita pubblica,
sono i Naturalium questionium libri VII, l’unica opera di Seneca di carattere scientifico
rimastaci. Vi sono trattati i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai temporali alle
comete: è il frutto di un vasto lavoro di compilazione, durato probabilmente lunghi anni, da
svariate fonti soprattutto stoiche (come Posidonio), e sembra costituire il supporto “fisico”
all’impianto filosofico senecano, m in realtà non c’è integrazione né organicità fra indagine
e ricerca morale.
Il De beneficiis e il ripiegamento sulla morale individuale. Più o meno allo stesso
periodo (è terminata nel 64, come attesta lo stesso Seneca in Epistulae ad Lucilium 81,3)
risale un’altra opera filosofica tramandata oltre ai Dialoghi, cioè i sette libri De beneficiis,
dedicati all’amico Ebuzio Liberale. Vi si tratta appunto della natura e delle varie modalità
degli atti di beneficenza, del legame che istituiscono fra benefattore e beneficiato, dei
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doveri di gratitudine che li regolano e delle conseguenze morali che colpiscono gli ingrati (
si sospetta una velata allusione al comportamento di Nerone nei suoi confronti). L’opera,
che analizza il beneficio soprattutto come elemento coesivo dei rapporti interni
all’organismo sociale, sembra trasferire sul piano della morale individuale il progetto di una
società equilibrata e concorde che Seneca aveva fondato sull’utopia di una monarchia
illuminata. L’appello, rivolto soprattutto ai ceti privilegiati , ai doveri della filantropia e della
liberalità, nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali, si configura perciò
come la proposta alternativa al fallimento di quel progetto.
Il De clementia e il problema del buon sovrano. L’ opera nella quale Seneca aveva
esposto più compiutamente la sua concezione del potere è il De clementia,
opportunamente dedicato al giovane imperatore Nerone (55-56 ) come traccia di un ideale
programma politico ispirato a equità e moderazione. Seneca non mette in discussione la
legittimità costituzionale del principato né le forme apertamente monarchiche che esso ha
ormai assunto: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine
comico governato dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale
di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che
formano l’impero; senza considerare, infine, che si era ormai imposto nei fatti, e non
sembrava realistico confidare in quel miraggio di una restaurazione della libertas
repubblicana che animava i circoli stoicheggianti dell’opposizione aristocratica. Il problema,
piuttosto, è quello di avere un buon sovrano: e in un regime di potere assoluto, privo di
forme di controllo esterno, l’unico freno sul sovrano sarà la sua stessa coscienza, che lo
dovrà trattenere dal governare in modo tirannico. La clemenza (che non si identifica con la
misericordia o la generosità gratuita, ma esprime un generale atteggiamento di filantropica
benevolenza) è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti con i sudditi: con essa, e non
incutendo timore, egli potrà ottenere da loro consenso e dedizione, che esso la più sicura
garanzia di stabilità di uno stato.
La filosofia alla guida dello stato. È evidente, in questa concezione di un principato
illuminato e paternalistico, che affida alla coscienza del sovrano, al suo perfezionamento
morale, la possibilità di instaurare un buon governo, l’importanza che acquista l’educazione
del princeps e più in generale la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della
direzione politica dello stato . In questa generosa illusione, che sembrava rinnovare l’antico
progetto platonico dal governo dei filosofi, e che determinò in modo drammatico anche le
sue vicende biografiche, Seneca impegnò a lungo le proprie energie: mosso sempre
dall’impulso ai doveri della vita sociale, e ugualmente lontano dalle posizioni estreme di un
intransigente rifiuto alla collaborazione col princeps come di una servile acquiescenza al
suo dispotismo, egli coltiva un ambizioso progetto di equilibrata ed armoniosa distribuzione
del potere tra un sovrano moderato e un senato salvaguardato nei suoi diritti di libertà e
dignità aristocratica. All’interno di quel progetto, alla filosofia spetta un ruolo assolutamente
preminente, quello di promuovere la formazione morale del sovrano e dell’èlite politica. Ma
la rapida degenerazione del governo neroniano, dopo la parentesi del quinquennio felice,
mette a nudo i limiti di quel disegno, vanificandolo, e la filosofia senecana deve ridefinire i
suoi compiti, alleando i suoi legami con la “civitas” e accentuando progressivamente il suo
impegno ad agire sulle coscienze dei singoli: privato di un suo ruolo politico, il saggio
stoico si pone al servizio dell’umanità.
3. LA PRATICA QUOTIDIANA DELLA FILOSOFIA: LE EPISTOLE A LUCILIO
Il ripiegamento verso la coscienza individuale. Se è vero che non si possono
distinguere troppo nettamente, nella elaborazione filosofica di Seneca, i due momenti
dell’impegno civile e dell’otium meditativo, è tuttavia innegabile che nella produzione
successiva al suo ritiro dalla scena politica egli si muove soprattutto nell’orizzonte della
coscienza individuale. L’opera principale della sua produzione tarda (anche la più celebre
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in assoluto), sono le Epistulae morales ad Lucilium, una raccolta di lettere di maggiore o
minore estensione (alcune raggiungono le dimensioni di un trattato) e di vario argomento,
indirizzate all’amico Lucilio (personaggio di origini modeste, un po’ più giovane di Seneca
e proveniente dalla Campania, raggiunse il rango equestre e occupò varie cariche
politiche-amministrative, di buona cultura, poeta e scrittore egli stesso). Se si tratti di un
epistolario reale o fittizio è questione della quale si continua ancora a discutere: non ci
sono difficoltà insormontabili per credere alla realtà di uno scambio epistolare (varie lettere
richiamano quelle di Lucilio in risposta ), ipotesi peraltro non inconciliabile con la possibilità
che altre lettere, specie quelle più ampie e sistematiche, non siano state effettivamente
inviate e invece siano state inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L’opera
ci è giunta incompleta, e si può datare dal 62 o dall’inizio del 63 (il periodo del disimpegno
politico); costituisce in ogni caso un unicum nel panorama letterario e filosofico antico.
L’epistola filosofica come genere letterario. Lo spunto a comporre lettere di
carattere filosofico indirizzate ad amici sarà probabilmente venuto a Seneca da Platone e
soprattutto da Epicuro; comunque sia, egli dimostra piena consapevolezza, non priva di
orgoglio, di introdurre un genere nuovo nella cultura letteraria latina, che egli tiene
polemicamente a distinguere dalla comune pratica epistolare, anche quella di tradizione
più illustre (rappresentata da Cicerone). Il modello cui egli intende uniformarsi è appunto
Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo perfettamente realizzare quel rapporto
di formazione e di educazione spirituale che Seneca con Lucilio. Le sue lettere vogliono
essere uno strumento di crescita morale, un diario delle conquiste dello spirito nel lungo
itinerario verso la sapientia. Riprendendo un topos molto comune nell’epistolografia antica,
Seneca insiste sul fatto che lo scambio epistolare permette di istituire un colloquium con
l’amico, di creare con lui un’intimità quotidiana che, fornendo direttamente un esempio di
vita, sul piano pedagogico si rivela più efficace dell’insegnamento dottrinale.
La pratica quotidiana della filosofia. Più degli altri generi di letteratura filosofica,
la lettera, vicina alla realtà della vita vissuta (da cui riprende svariati argomenti,
servendosene come spunto per considerazioni di carattere morale), si presta
perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia: proponendo ogni volta un nuovo tema,
semplice o di apprendimento immediato, alla riflessione dell’amico discepolo, essa ne
accompagna e ne scandisce le tappe, conquista dopo conquista verso il perfezionamento
interiore (per lo stesso motivo Seneca conclude ogni lettera, nei primi 3 libri, con una
sententia, un aforisma che offre un frammento di saggezza sul quale riflettere).
Rifacendosi ad uno schema di procedimento in uso nella scuola di Epicuro (che graduava i
vari momenti del cammino verso la sapientia), Seneca utilizza l’epistola come strumento
ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale, fondata sull’acquisizione di
alcuni principi basilari, cui farà seguito, con l’accrescimento delle capacità analitiche del
discente e l’arricchimento del suo patrimonio dottrinale, il ricorso a strumenti di
conoscenza più impegnativi e complessi: e la conferma di questo progressivo adeguarsi
della forma letteraria ai diversi momenti del processo di formazione è fornita dalla
tendenza delle singole lettere, man mano che l’epistolario procede, ad assimilarsi al
trattato filosofico. Non meno importante dell’aspetto teorico (più volte anzi Seneca
polemizza contro le eccessive sottigliezze logiche dei filosofi, specialmente stoici) è infatti
nella lettera quello parenetico (esortativo): essa tende non solo e non tanto a dimostrare
una verità quanto ad esortare, ad invitare al bene.
IL SISTEMA FILOSOFICO: Lo stoicismo del periodo romano pur obbedendo all’indirizzo eclettico generale
dell’epoca, indirizzi per il quale le divergenze teoretiche possano in seconda linea di fronte all’accordo
fondamentale delle conclusioni pratiche, cui la ricerca filosofica viene interamente subordinata, mostra già in
modo evidente un carattere che la fase ulteriore della speculazione doveva accentuare: la prevalenza
dell’interesse religioso. Questa prevalenza è fondata sull’accentuazione che negli Stoici romani riceve il tema
dell’interiorità spirituale. La concezione stoica del saggio, che è autosufficiente e ricava da sé la verità, è il
presupposto dal valore che lo stoicismo comincia a riconoscere a ciò che oggi chiamiamo introspezione o
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coscienza. Per giungere a Dio e conformarsi alla sua legge, il saggio stoico non ha bisogno di guardare fuori
di sé; deve solo guardare in se stesso. Gli Stoici romani fanno di questo ritorno a se stesso dell’uomo uno dei
loro temi preferiti: tema che doveva poi diventare centrale e dominante nel neoplatonismo. Non si tratta
tuttavia di un tema che offra lo spunto a nuove formulazioni concettuali. Dei numerosi Stoici dell’età imperiale
di cui sappiamo il nome e qualche notizia, nessuno presenta una qualche originalità di pensiero eccettuato
per Musonio, Epitteto, l’imperatore Marco Aurelio, ma primo tra loro Seneca.
Seneca insiste sul carattere pratico della filosofia: “La filosofia – dice – insegna a fare, non a dire“ (Ep. 20,2).
Il Saggio è per lui l’educatore del genere umano (Ep. 89,13). Perciò egli trascura la logica e si occupa della
fisica solo da un punto di vista morale e religioso. Difatti l’ignoranza dei fenomeni fisici è la causa
fondamentale dei timori dell’uomo, e la fisica elimina tali timori. Inoltre la grandezza del mondo e della divinità
ci insegna a riconoscere la nostra piccolezza. In un certo senso poi, la fisica è superiore alla stessa etica
perché mentre questa ha a che fare con l’uomo, quella ha a che fare con la divinità che si rivela nei cieli e in
generale nel mondo. Tuttavia né la fisica né la metafisica di Seneca contengono nulla di originale rispetto alle
dottrine comuni dello stoicismo. Per ciò che riguarda il concetto dell’anima, invece egli si ispira alla dottrina
platonica. Dopo aver distinto una parte razionale ed una parte irrazionale dell’anima, distingue in quest’ultime
due parti : una irascibile, ambiziosa, passionale, l’altra umile, languida, dedita al piacere; divisione che
corrisponde a quella platonica delle parti razionale, irascibile e volitiva dell’anima stessa. A Platone egli
s’ispira anche nel considerare il rapporto dell’anima con il corpo: il corpo è prigione e tomba per l’anima. Il
giorno della morte è veramente per l’anima il giorno della nascita eterna (Ep, 102,26). Seneca è molto
lontano dal rigorismo stoico che poneva un abisso tra il saggio che segue la ragione e lo stolto che non la
segue. Egli è convinto che c’è sempre un’opposizione tra ciò che l’uomo deve essere e ciò che è in linea di
fatto; e che l’oscillazione tra il bene e il male è propria di tutti gli uomini; è perciò portato a considerare con
maggiore indulgenza l’imperfezioni e le cadute dell’uomo. La sua massima morale fondamentale è la
parentela universale tra gli uomini “Tutto quello che vedi, che contiene il divino e l’umano, è tutt’uno : noi
siamo tutti membra di un grande corpo. La natura ci generò parenti dandoci una stessa origine e uno stesso
fine. Essa ci ispirò l’amore reciproco e ci fece socievoli” (Ep. 95,51). Seneca afferma energicamente
l’interiorità di Dio all’uomo: Non dobbiamo innalzare le mani al cielo né pregare il guardiano dal Tempio che ci
permetta di avvicinarsi agli orecchi della statua di Dio, quasi che potessimo così più facilmente essere
ascoltati: la divinità ti sta vicino, è con te, è dentro di te “(Ep.,41).la dottrina di Seneca è così uno stoicismo
eclettico a sfondo religioso. Taluni aspetti di dottrina, come il concetto di divinità, di fraternità e di amore tra gli
uomini e della vita dopo la morte, sono così vicini al cristianesimo che hanno fatto nascere la leggenda dei
rapporti tra Seneca e San Paolo, leggenda che portò perfino a falsificare un corteggio ( che non ci giunto) tra
lui e l’Apostolo. Tali rapporti tra Seneca e San Paolo non ci sono di certo mai stati, ma non c’è dubbio che la
sua dottrina, speculativamente poco notevole, è mossa da un’ispirazione religiosa che le dà un carattere
originale.
Filosofia di Seneca e tradizione diatribica. Oltre però ad essere funzionale ad
una fase specifica del processo di direzione spirituale, il genere epistolare si rivela anche
appropriato ad accogliere un tipo di filosofia priva di sistematicità ed incline piuttosto alla
trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere sono svariati,
ma vengono in genere ricondotti alle tematiche della tradizioni diatribica (nella varietà e
nell’occasionalità, nonché nell’aggancio fra vita vissuta e riflessione morale, sono evidenti
le affinità con la satira oraziana) : vertono sulle norme alle quali il saggio adegua la sua
vita, sulla sua indipendenza e autosufficienza, sulla sua indifferenza alle seduzioni
mondane e sul suo disprezzo per le opinioni correnti. Col tono pacato, cordiale, di chi non
si atteggia a maestro severo ma ricerca egli stesso la via verso la saggezza, una meta mai
pienamente raggiungibile, Seneca propone l’ideale di una vita indirizzata al raccoglimento
e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante un’attenta riflessione sulle
debolezze e vizi propri e altrui. La considerazione della considerazione umana che
accomuna tutti i viventi lo porta ad esprimere una condanna del trattamento comunemente
riservato agli schiavi, con accenti di intesa pietà che hanno fatto pensare a un sentimento
di carità cristiana: in realtà l’etica senecana resta profondamente aristocratica, e il sapiens
stoico che esprime la sua simpatia per gli schiavi maltrattati manifesta apertamente anche
il suo irrevocabile disprezzo per le masse popolari abbrutite degli spettacoli del circo.
L’obiettivo del saggio stoico. Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano
si accentua, nelle Epistole, parallelamente al fascino della vita appartata e all’assurgere
dell’otium a valore supremo: un otium che non è inerzia ma alacre ricerca del bene, nella
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convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati
nella ricerca della sapientia, ma anche agli altri, e che le Epistole possano esercitare il loro
benefico influsso sulla posterità. La conquista della libertà interiore (resasi necessaria la
alle rivendicazioni sul terreno politico) è l’estremo obiettivo che il saggio stoico si pone, a
cui si accompagnala meditazione quotidiana della morte, alla quale egli sa guardare con la
mente serena come al simbolo della propria indipendenza dal mondo.
LO STOICISMO: La stoà. Lo stoicismo, che trae il suo nome dal “Portico dipinto” in cui teneva ad Atene le
sue lezioni l’iniziatore della scuola, Zenone di Cizio (336-264 a.C.), si diffonde a partire dal 300 a.C., anno di
fondazione della scuola stessa. A Zenone succedono come scolarchi, nell’ambito della cosiddetta Antica
Stoà, Cleante di Asso, Crisippo di Soli, Zenone di Tarso, Diogene di Seleucia (che con Carneade e Critolao
fu a Roma (156-155 a. C) in occasione della famosa ambasceria che suscitò le ire di Catone) Antipatro di
Tarso, maestro di Panezio. Con Panezio di Rodi e il suo discepolo Posidonio di Apamea si apre la
cosiddetta Media Stoà (II –I secolo a.C.) mentre Seneca, Epitetodi Terapoli e l’imperatore Marco Aurelio
rappresentano la cosiddetta Nuova Stoà (I-II secolo d.C.) .
Lo stoicismo a Roma. Mentre la primitiva etica stoica era ben poco propositiva sul piano pratico l’etica di
Panezio e Posidonio si adatta perfettamente alle esigenze della mentalità pratica dei Romani e può essere
quindi accolta dal civis colto ed ellenizzato. Il cosiddetto “circolo degli Scipioni”teorizzerà la conciliazione trs
la veneranda tradizione romana e la più elaborata e raffinata cultura greca. L’età Augustea (in particolare
nell’Eneide) più della nobile etica, viene recuperato dalla filosofia stoica il Provvidenzialismo”, alla quale è
attribuita l’affermazione della benefica augustea per il bene universale. Da Posidonio, poi, l’uomo è visto
anche come parte integrante di un cosmo tutto permeato da una magica forza vitale, la forza del Logos, che
tiene unite in un legame di sumpàtheia compartecipazione affettiva) tutte le cose e permetti dunque la pratica
della montica(arte della divinazione) e in particolare dell’astrologia. Nel I e nel II secolo d.C. la nuova stoà
oscilla tra il desiderio di modificare la corrotta società contemporanea e l’aspirazione al ritiro per dedicarsi in
toto al perfezionamento individuale. Questo contrasto è presente nelle varie fasi del pensiero di Seneca.
Marco Aurelio, infine, quando Roma è sotto la minaccia dei barbari e alla vigilia della crisi del III secolo
rinuncia alla ricerca volta a capire la razionalità del corso degli eventi e, con fede profonda, si limita ad
eseguire i compiti che la divinità gli ha assegnato. Con il III secolo lo stoicismo e le altre filosofie ellenistiche
cedono il passo al Neoplatonismo e al Cristianesimo poi. All’etica cristiana, comunque, lo stoicismo continua
ad offrire un prezioso contributo, soprattutto con i concetti di virtù e dovere.
4. LA LINGUA E LO STILE
Lo stile di Seneca nella teoria e nella pratica. Se il fine della filosofia è giovare al
perfezionamento interiore, il filosofo dovrà badare alle res, non alle parole ricercate ed
elaborate: non delectent verba nostra sed prosint (Ep.75,5): queste si giustificheranno solo
se (proprio in virtù della loro efficacia espressiva, in forma ad esempio di sententiae o
citazioni poetiche) assolveranno a una funzione psicagogica, se contribuiranno cioè a
fissare nella memoria e nell’animo un precetto o una norma morale. In realtà, a fronte di
un programma di stile inlaboratus et facilis (Ep.75,1), la prosa filosofica senecana è
diventata quasi l’emblema di uno stile elaborato, teso e complesso, caratterizzato dalla
ricerca dell’effetto e dell’espressione concisa. Seneca rifiuta la compatta architettura
classica di Cicerone (concinnitas), che nella sua disposizione ipotattica organizzava anche
la gerarchia logica interna, e dà vita a uno stile eminentemente paratattico, che (anche
nell’intento di riprodurre il sermo, la lingua parlata) frantuma l’impianto del pensiero in un
susseguirsi di frasi aguzze e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto
all’antitesi e alla ripetizione (variatio).
Stile di Seneca e retorica asiana. Questa prosa antitetica all’armonioso periodare
ciceroniano è rivoluzionaria sul piano del gusto (grande influsso eserciterà sulla prosa
d’arte europea), affonda le sue radici nella retorica asiana e nella predicazione dei filosofi
di scuola cinica : il cui tipico procedere mediante un ricercato gioco di parallelismi,
opposizioni, in un succedersi serrato di brevi frasi nervose e staccate (le minutissimae
sententiae che Quintiliano deplorerà), con una tecnica che produce l’effetto di sfaccettare
un’idea secondo tutte le angolazioni possibili, fornendone una formulazione sempre più
pregnante e concisa, fino a cristallizzarla in un espressione sintetica.
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Stile e pensiero di Seneca. Di questo stile aguzzo e penetrante (che nella sua
continua tensione non sa evitare una certa teatralità) Seneca si serve come di una sonda
per esplorare i segreti dell’animo umano e le contraddizioni che lo lacerano, ma anche per
parlare al cuore degli uomini ed esortare al bene: uno stile intimamente antitetico e
conflittuale è possibile definire “drammatico”, che alterna i toni sommessi della
meditazione interiore e quelli vibranti della predicazione: uno stile che riflette
emblematicamente le spinte che animano la filosofia senecana, tesa fra la ricerca della
libertà dell’io e la libertà dell’io e la liberazione dell’umanità.
La scrittura di Seneca. Si è detto che la “predicazione” del moralista viene affidata ai
modi colloquiali, in un linguaggio non aulico ma certamente non sciatto, che si articola in
un periodare differente da quello di Cicerone. Infatti alla subordinazione dei concetti
Seneca preferisce la coordinazione, spesso per asindeto; sui costrutti simmetrici, sulla
concinnitas, prevale la variatio. Ciò non significa che il ragionamento, soprattutto nei
trattati, non induce Seneca a ricorrere all’ipotassi. Tuttavia, in genere, quanto più il
pensiero è intenso, tanto più il discorso si spezzetta in brevi sententiae, che in apparenza
fluiscono con semplicità e spontaneità, ma sono in realtà frutto di un’arte sapiente: la loro
efficacia deriva sia dal ritmo degli enunciati sia dalla scelta oculata dei singoli termini e dal
loro accurato accostamento, che generano spesso il paradosso o la metafora atta a
colpire occhi e mente del lettore, imprimendovi con vigore il messaggio trasmesso. Anche
la concinnitas dei parallelismi o delle antitesi, non dissimile da quella di Cicerone, spesso
collabora alla ricerca dell’effetto, con funzione edificante. Figure di suono, anafore,
poliptoti, figure etimologiche, chiasmi, paronomasie affollano le frasi accentuandone quel
carattere che appare quasi “barocco” e a volte infastidisce per l’eccessivo turgore e la
concettosità esasperata.
Puerum aetas excuset, feminam sexus, extraneum libertas, domesticum familiaritas. Nunc primum offendit:
cogitemus quam diu placuerit; saepe et alias offendit: feramus quod diu tulimus. Amicus est: fecit quod noluit;
inimicus: fecit quod debuit. (De ira, III, 24,3)
In queste righe domina la concinnitas. Nella prima frase ad un unico predicato
(excuset) si appoggiano quattro accusativi a quattro nominativi in alternanza simmetrica,
ma con un ampliamento ritmico, dalle prime due coppie di bisillabi all’ultima di quattro più
sei sillabe. Il periodo intermedio si articola in quattro membri pressoché speculari, per
disposizione di parole e rispondenze lessicali e foniche, ma semanticamente antitetici:
nunc primum OFFENDIT
cogiteMUS QUAM DIU placuerit
saepe et alias OFFENDIT
feraMUS QUOD DIU tulimus
Massima simmetria nell’ultimo periodo, salvo che per l’elissi di EST dopo INIMICUS:
anche qui però ha risalto l’antitesi semantica proprio per l’epidermica corrispondenza dei
termini tonicamente affini:
AMICUS est: FECIT QUOD nolUIT; iniMICUS: FECIT QUOD debUIT
A ben guardare, tutte queste simmetrie non rendono armoniosamente fluido e piano il
discorso, come in genere avviene in Cicerone. Qui il procedere paratattico, sia per
l’assenza di connettivi, sia per le antitesi rilevate, ha un andamento quasi “a scatti”: come
se si svolgesse un dibattito tra chi è stato provocato e Seneca che lo ammonisce alla
moderazione.
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ESEMPIO II:
Mihi amicorum defunctorum cogitatio dulcis ac blanda est. Habui enim illos tamquam amissurus, amisi
tamquam habeam.
(Ep.63,7)
Questa frase costituisce un esempio di concettosità “barocca”: Seneca intende dire che,
godendo della presenza dei suoi amici, già presagiva il rischio di perderli e che questo, ora
che li ha perduti, gli consente di sentirli ancora vicino a sé. La sententia lapidaria è
costruita con l’accostamento paratattico e asindetico di due frasi in cui si assommano
corrispondenze antitetiche e varatio:
Habui illos TAMQUAM amissurus
Amisi TAMQUAM habeam
Il gioco antitetico intorno ai due TAMQUAM è dato dai verbi habere e amittere,
semanticamente opposti e disposti a chiasmo nel periodo. Tuttavia l’antitesi non è
perfettamente simmetrica, perché al participio futuro (uno dei costrutti tipici di Seneca) si
contrappone, in modo piuttosto paradossale che anomalo, il presente habeam. La difficoltà
di rendere Seneca deriva proprio dalle sue arditezze verbali che spesso esigono di essere
parafrasate più che trasferite efficacemente nella lingua italiana, assai meno sintetica del
latino.
5. LE TRAGEDIE
Impossibilità di una cronologia delle tragedie di Seneca. Un posto importante della
produzione letteraria di Seneca è occupato dalle tragedie: sono nove quelle ritenute
generalmente autentiche (qualche dubbio sussiste solo per l’Hercules Oetaeus), tutte di
soggetto mitologico greco. Molto poco, comunque, è ciò che sappiamo su di esse, sulle
circostanze della loro eventuale rappresentazione o sulla data di composizione, sulla
quale non è possibile avanzare illazioni nemmeno in base a critesi stilistici o, tanto meno,
a presunti riferimenti ad eventi contemporanei; sicché, nell’impossibilità di delineare una
cronologia attendibile, le si elenca nell’ordine nel quale le trasmette la tradizione più
autorevole:
1) Hercules furens, costruita sul modello dell’Eracle di Euripide, tratta il tema della
follia di Ercole, che, provocata da Giunone, induce l’eroe a uccidere moglie e figli:
una volta rinsavito, e determinato a suicidarsi, egli si lascia distogliere dal suo
proposito e si reca infine ad Atene a purificarsi.
2) Le Troades, risultanti dalla contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei ( le
Troiane e l’Ecuba), rappresentano la sorte delle donne troiane prigioniere ed
impotenti di fronte al sacrificio di Polissena, figlia di Priamo, e del piccolo Astianatte,
figlio di Ettore ed Andromaca.
3) Le Phoenisse, sono improntate sulle Fenicie di Euripide e sull’Edipo a Colono di
Sofocle, l’unica tragedia senecana incompleta, che ruota attorno al tragico destino
di Edipo e all’odio che divide i suoi figli Etèocle e Polinice.
4) La Medea, si rifà naturalmente ancora ad Euripide (ma forse anche a un’omonima,
e fortunata, tragedia di Ovidio), la cupa vicenda della principessa della Colchide
abbandonata da Giasone e perciò assassina, per vendetta, dei figli avuti da lui.
5) La Phaendra, presuppone anch’essa il celebre modello euripideo (l’Ippolito)
nonché, probabilmente, una tragedia perduta di Sofocle e la quarta delle Heroides
di Ovidio: tratta dell’incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito e del
drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna,
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la quale si vendica denunciandolo al merito Teseo, padre da Ippolito, e
provocandone la morte.
L’Oedipus, è basato sull’Edipo re di Sofocle,che narra il notissimo mito tebano di
Edipo inconsapevole uccisore del padre Laio e quindi sposo della madre Giocasta:
alla scoperta della tremenda verità egli reagisce accecandosi.
L’Agamemnon, si ispira, assai liberamente, all’omonimo dramma di Eschilo, che
rappresenta l’assassinio del re, al ritorno da Troia, per mano della moglie
Clitennestra e dell’amante Egisto.
Il Thyestes, rappresenta invece il cupo mito dei Pelòpidi (già trattato in opere
perdute di Sofocle ed Euripide, nonché del teatro latino arcaico e più recente, per
esempio, nella omonima tragedia di Vario, amico di Orazio e Virgilio): animato da
odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, Atreo si vendica con
un fiuto banchetto di riconciliazione nel quale imbandisce al fratello ignaro le carni
dei figli.
Lo Hercules Oetaeus, modellato sulle Trachinie di Sofocle, tratta il mito della
gelosia di Deianira che per riconquistare l’amore di Ercole, innamoratosi di Iole, gli
invia una Tunice intrisa del sangue del centauro Nesso, credito un filtro d’amore e
in realtà dotato di potere mortale: tra dolori atroci Ercole si fa innalzare un rogo e vi
si getta per darsi la morte, (cui farà seguito la sua assunzione tra gli dei).
Le tragedie di Seneca erano destinate soprattutto alla lettura. La scarsità di
notizie esterne sulle tragedie di Seneca non ci permette di sapere nulla di certo sulle
modalità della loro rappresentazione. Ciò che sappiamo, anzi, sulla destinazione della
letteratura tragedia in età già anteriore a Seneca, e cioè che da un lato si continuava sì
a rappresentare normalmente in scena le tragedie, ma che ci poteva anche limitare a
leggerle nelle sole di recitazioni; e dell’altro sulla base di certe loro peculiarità
stilistiche, ci induce a pensare che quelle di Seneca fossero tragedie destinate
soprattutto alla lettura, il che poteva non escludere talora, o per alcune di esse, la
rappresentazione scenica. Questa opinione è tuttora, a ragione, prevalente, anche se
non tutti gli argomenti a sostegno di questa tesi sono ugualmente probanti: ad esempio
la macchinosità, o la truce spettacolarità, di alcune scene, che certo erano
incompatibili, coi canoni di rappresentazione del teatro greco classico, sembrerebbero
presupporre, piuttosto che smentire, una rappresentazione scenica, laddove una
semplice lettura avrebbe limitato, se non annullato,gli effetti ricercati dal testo
drammatico.
Filosofia e tragedia in Seneca. Le varie vicende tragiche si configurano come
conflitti di forze contrastanti (soprattutto all’interno dell’animo umano), come
opposizione tra mens bona e furor, tra ragione e passione: la ripresa di temi e motivi
rilevanti delle opere filosofiche (come ad esempio, nella vicenda di Ercole, il tema
dell’uomo forte che supera le prove della vita per assurgere alla superiore libertà)
rende evidente una consonanza di fondo tra i due settori della produzione senecana, e
ha alimentato la convinzione che il teatro senecano non sia che una illustrazione, sotto
forma di exempla forniti dal mito, della dottrina stoica. L’analogia però non va troppo
accentuata, sia perché resta forte, nelle tragedie, la matrice specificamente letteraria
(che poteva già offrire, come nel caso di Euripide, il modello più utilizzato,
rappresentazioni paradigmatiche di conflitti interni alla psiche umana), sia perché,
nell’universo tragico, il logos, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo
del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e originare il dialogare del male.
Alle diverse vicende tragiche fa infatti da sfondo una realtà dai toni cupi ad atroci, e su
questo scenario di orrori si scatena la lotta delle forze maligne: lotta che non investe
solo la psiche umana, ma il mondo intero, conferendo al conflitto tra bene e male una
dimensione cosmica e una portata universale. Un rilievo particolare, tra le forme in cui
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più espressamente si manifesta questo emergere del male nel mondo, ha la figura del
tiranno sanguinario e bramoso di potere, chiuso alla moderazione e alla clemenza,
tormentato dalla paura e dall’angoscia, che dà luogo a frequenti spunti di dibattito etico
su un tema, appunto quello del potere, che come si è visto occupa un posto centrale
nella riflessione di Seneca.
Il rapporto con i modelli greci. Di quasi tutte le tragedie di Seneca possediamo i
corrispondenti modelli greci, nei confronti dei quali possiamo quindi valutare
l’atteggiamento che egli tieni. Atteggiamento che, rispetto a quello tenuto dai tragici
latini arcaici, denota da un lato maggiore autonomia, e al tempo stesso però
presuppone un rapporto continuo con il modello, sul quale Seneca opera interventi di
contaminazione, di ristrutturazione, di razionalizzazione nell’impianto drammatico.
Il peso preponderante della poesia augustea. Anche se diretto, il rapporto con gli
originali greci e mediato comunque dal filtro del gusto e della tradizione latina. Il
linguaggio poetico delle tragedie ha la sua base costitutiva nella poesia augustea (in
particolare quella di Ovidio), dalla quale Seneca mutua anche le raffinate forme
metriche, come i metri lirici di Orazio utilizzati negli intermezzi corali.
Tragedia arcaica latina e retorica asiana. Le tracce della tragedia latina arcaica si
avvertono soprattutto nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza al cumulo
espressivo e alla frase sentenziosa, isolata in netto rilievo: ma la ricerca delle
sententiae è alimentata soprattutto del gusto retorico del tempo. La stessa tendenza si
manifesta anche nella frammentazione dei dialoghi in serrate corresponsioni stilistiche
(un verso per ogni personaggio), in una costante ricerca della brevitas asiana. Da
sempre infatti sul teatro di Seneca grava il marchio della retorica asiana, percepibili
nella continua tensione, nell’enfasi declamatoria, nello sfoggio di greve erudizione (ad
esempio nei cataloghi geografici o mitologici), in quella tinte fosche e macabre che
hanno propiziato la fortuna moderna di Seneca tragico.
Le digressioni. Spesso l’esasperazione della tensione drammatica è ottenuta
mediante l’introduzione di lunghe digressioni (ekphràseis), esorbitanti rispetto alla
consuetudine epica e soprattutto tragica, che alternano i tempi dello sviluppo scenico
inserendosi così nella tendenza, propria del teatro di Seneca, a isolare singole scene
come quadri autonimi, estraniati dal contesto della dinamica teatrale (il che
contribuisce a far pensare che questi “pezzi di bravura” fossero da leggere nelle sole di
recitazione). Uno stile, insomma, che coi suoi tratti più peculari si inquadra
agevolmente nel gusto letterario contemporaneo, di cui costituisce un documento tra i
più rappresentativi.
6. L’APOKOLOKYNTOSIS
Il titolo con cui è nota l’originale opera senecana ci è stato tramandato dallo storico
Cassio Dione e sarebbe da intendersi con il significato di “deificazione di una zucca, di
un zuccone”, con riferimento alla cattiva fama di cui godeva l’imperatore Claudio,
protagonista dell’opera. Alcuni studiosi ritengono che il criptico titolo Apokolokyntosis
sia in realtà una corruzione, un errore di trascrizione di un copista dell’originario:
Apokolokyntosis, ovvero “flagellazione dello zoppo” (l’imperatore Claudio era infatti
claudicante). Due manoscritti, inoltre, trasmettono il testo con il titolo Ludus de morte
Claudi cioè “scherzo sulla morte di Claudio”. L’opera appartiene al genere della satira
menippea, mescola prosa e versi in un originale imposto linguistico e stilistico,
alternando i toni piani delle parti prosastiche con quelle solenni delle parti metriche,
accostando le parti spesso parodicamente solenni con sapide coloriture colloquiali e
beffarde nel lessico volgare.
11
Il componimento narra la morte di Claudio e la sua ascesa all’Olimpo nella vana
pretesa di essere assunto fra gli dei, i quali lo condannano invece a discendere, come
tutti i mortali, agli inferi, dove finirà schiavo dal nipote Calligola e da ultimo sarà
assegnato al liberto Menandro: una condanna in contrappasso per chi aveva avuto
fama di essere vissuto in mano dei suoi potenti liberti.
LA SATIRA MENIPPEA: la satira menippea. In primo luogo e necessario accennare alla comparsa, in
ambiente filosofico ellenistico, di un nuovo genere letterario, la “diatriba cinica” che avrà largo seguito nella
produzione satirica romana (da Lucrezio a Orazio a Seneca). Il cinismo è una scuola socratica la cui dottrina
incitava soprattutto ad una pratica di vita rigorosa ed austera, questa scuola sviluppò inoltre una forma di
divulgazione precettistica dai toni polemici e aggressivi nei confronti del malcostume pubblico; questo tipo di
discorso era condotto con piglio popolaresco su luoghi comuni. Il genere poi influenzò anche la scuola stoica.
Presentava affinità con la diatriba la satira menippea, che nacque anch’essa in ambiente cinico ed ebbe
discreta fortuna in Roma: si trattava di un genere misto di prosa e di prosa e di versi dal carattere seriocomico, del quale si diceva inventore Menippo di Gàdara, vissuto nella prima metà del III secolo a.C. , della
cui vasta produzione ci restano scorsi frammenti.
7. LA FORTUNA
La fortuna di Seneca, dall’antichità all’età moderna, è imponente. Dopo il suo
immediato successo fu giudicato negativamente da Quintiliano, Frontone e Gallio per lo
stile asiano; la profondità del suo pensiero filosofico non fu compresa pienamente, ma
guadagnò un prestigio altissimo presso i Cristiani, prestigio che durò per tutto il Medioevo
ed oltre (Dante lo definisce “Seneca morale” nel canto IV dell’Inferno) e il suo influsso si
fece sentire sulla cultura gesuitica e su quella protestante. Dal XIV secolo in poi la fortuna
delle tragedie che, dopo aver agito da modello del teatro tragico rinascimentale italiano,
influenzarono profondamente, con il loro “barocco” truce e tenebroso, il teatro
elisabettiano, Marlowe e, soprattutto, Shaskespeare. Ma rilevante fu la loro azione anche
sul teatro classico francese (Corbeille, Racine, poi Voltaire) e su quello romantico tedesco.
In italia si ispirarono alle tragedie senecane vari autori da Giraldi Cinzio (Orbecchi) allo
Speroni (Canace) e il Foscolo (Tieste), ma soprattutto Alfieri, nella sua violenta polemica
antitirannica, ne mutuò la vibrante tensione.
12
Tiberio. Già la seconda generazione augustea, quella che era stata appena sfiorata
dalla stagione sanguinosa delle guerre civili, che nutriva quindi, una gratitudine minore verso
il princeps che aveva restaurato pax et concordia, aveva dato segni di insofferenza per la
letteratura che a quel programma di restaurazione aveva prestato il proprio appoggio e
consenso.
La scomparsa di Mecenate, e il conseguente venir meno della sua accorta opera di
mediazione fra il potere politico e l’élite culturale (che spesso coincidevano) produsse una
crisi del mecenatismo già con Tiberio. La mancanza di un progetto culturale non potè che
favorire il rinvigorirsi di una storiografia contraria al principato.
In questa corrente storiografica, innestata sulla tradizione repubblicana del Senato, nasce
quell’atteggiamento di ostilità verso la dinastia Giulio – Claudia che arriverà sino a Svetonio e
a Tacito.
Claudio. La situazione non sembra migliorare con Claudio, che personalmente era un
erudito ed aveva scritto diverse opere storiche ed antiquarie sia in greco, sia in latino (una di
grammatica nella quale proponeva di introdurre nell’alfabeto latino 3 nuove lettere).
Nerone. Nei primi anni del suo principato ( il celebre quinquennio felice, 55 – 60 d.C.)
Nerone, con la guida di Seneca, tenta un recupero del consenso del Senato e una ripresa del
mecenatismo: è in questo progetto che si inserisce quella breve stagione classicistica della
quale resta solo qualche modesto prodotto, come la cosiddetta Iliade latina (1000 esametri
manierati). Nella produzione poetica è molto evidente l’influsso di Virgilio.
Nerone incoraggiò molti letterati e promosse regolari ludi poetici (dal 60 d.C. – i
Neronia) con premi per i migliori poeti.In quest’epoca è sempre più diffusa la pratica delle
recitazioni e si afferma uno stile lussuoso e “barocco”, che stupisce il pubblico con immagini
stravaganti, metafore audaci e ricercatezze sonore. Le parodie di Persio e di Marziale ci
danno uno spaccato notevole sull’epoca. La cultura greca viene ostentata e diviene sempre
più necessaria al prestigio dei poeti.
Nerone stesso fu poeta e i suoi Neronia erano un certamen di canto, musica, poesia ed
oratoria. L’iniziativa è interessante perché documenta l’indirizzo che egli volle imprimere alla
cultura.
Gli spettacoli di Nerone erano rivolti ad un vasto pubblico ed erano mossi da una
concezione, estremamente moderna, dell’intera esistenza come performance, come
esibizione artistica. Questo modus operandi non risponde soltanto alle manie del singolare
personaggio, ma anche a precise intenzioni di politica culturale che interpretano un’ esistenza
diffusa di rinnovamento sul piano del costume, di riconoscimento e legittimazione di gusti e
tendenza ormai ampliamente diffuse fra le masse popolari e avversata dall’aristocrazie
senatoria. Furono questi spettacoli lo strumento che Nerone utilizzò con disinvoltura per
guadagnare consenso e favore e insieme legittimare il suo potere sempre più simile a quello
di un satrapo orientale o di un re ellenizzato.
La moda dei pubblici agoni poetici si diffuse più ampliamente sotto il principato dei
Flavi, ma questa dinastia imperiale si distingue per una netta inversione rispetto agli indirizzi
culturali di Nerone. Alle sue aperture ellenizzanti essi oppongono un programma di
restaurazione morale e civile. Sul piano letterario spiccano soprattutto due fenomeni:
1. La ripresa della poesia epica (di modello virgiliano)
2. L’assurgere di Cicerone nella prosa come modello di maniera stilistica, ma anche di
educazione fondata sulla retorica (in questi anni Quintiliano ebbe la prima cattedra
statale di retorica).
Ma al di là delle direttive classicistiche del princeps, restano comunque forti nella
letteratura di età flavia, specie nella poesia, le tracce del gusto impostosi via via nella prima
parte del I sec. d.C.; e non si ha nemmeno una organica ripresa del mecenatismo. La
biografia di Marziale e di Stazio, costretti per vivere a scrivere libretti (fabula saltica) per le
pantomime1 lo attesterebbe (questa attività occupò anche Lucano).
1
La pantomima era un genere drammatico nel quale un attore cantava, accompagnato da musica, recitando le
scene. Ebbe enorme fortuna durante l’impero accanto all’Atellana e il mimo; solo i giochi del circo e l’ippodromo
godono di un favore non inferiore.
La vita. Marziale nacque a Bilbilis nella Spagna Terragonense, verso il 40. Giunse a
Roma nel 64 con una formazione grammaticale e retorica, conobbe Seneca e Lucano e
visse da cliente, grazie alla protezione di importanti personaggi, dai quali, in cambio di
omaggi e amicizia, riceveva una sportula, ossia un compenso in viveri. Nell’80 in
occasione dell’inaugurazione del Colosseo, pubblicò il Liber de Spettaculis (contenente 30
epigrammi), dedicandolo all’imperatore Tito; ottenne fama e onori, come lo ius trium
liberorum (un beneficio fiscale) e in seguito la carica di Tribunus militum. Pubblicò intanto
con successo altri due libri di epigrammi: “Se per gli altri l’epigramma era stato un gioco
letterario, per lui divenne ragione della sua vita, moneta spicciola di ogni giorno, mestiere,
mezzo infallibile per procacciarsi il cibo” (F. della Corte).
Nell’87 abbandonò Roma e soggiornò a Forum Corneli (Imola) e in altre città
dell’Emilia, curando la diffusione dei suoi epigrammi.
Nel 98 Marziale ritornò in Spagna dove compose l’ultimo libro di epigrammi e morì nel
104.
L’opera di Marziale consta quindi del Liber de Spectaculis, di 12 libri di epigrammi
(epigrammata) composti e pubblicati tra l’86 e il 101 – 102 e di 2 libri a sé stanti, noti come
XIII e XIV, intitolati rispettivamente: Xenia e Apophoreta pubblicati tra 84-85.
La metrica. I metri sono vari, ma per lo più usa quelli amati da Catullo: oltre al
distico elegiaco, sono frequenti il falecio e lo scazonte. Diverse sono anche le dimensioni
degli epigrammi: da un solo distico, a 10 e più. Una varietà ancora più accentuata riguarda
i toni: spiccano i motivi conviviali, gli epicedi, le dediche, le celebrazioni di avvenimenti, le
descrizioni di opere d’arte, ma anche le confessioni personali e le polemiche letterarie.
Ecco un celebre epicedio dai toni commossi e toccanti:
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Epigramma V, 34
La poetica e lo stile. Il genere letterario dell’epicedio aveva radici antiche nella
letteratura greca di età ellenistica e nella letteratura romana (Lutazio Catulo, II sec a. C.;
Catullo e i poeti novi), tuttavia solo con Marziale assunse quelle caratteristiche che ancora
oggi lo individuano, cioè un tema artistico (comico-satirico) svolto in pochi versi (brevitas)
che si risolvono in un finale a sorpresa (fulmen in clausula), ossia in una battaglia
umoristica o pregnante. L’epicedio di Marziale può essere ricondotto a uno schema tipo
(studiato dal Lessing): nella prima parte si descrive la situazione, l’affetto, il personaggio,
suscitando nel lettore una tensione di attesa che nella parte finale è scaricata con un
paradosso e con una stoccata finale.
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Epigramma XII, 65
1
La poesia di Marziale ha una natura occasionale, schietta, da cui è assente
qualsiasi intendimento serio, pur non mancando atteggiamenti talvolta poetici.
Caratteristica peculiare della sua opera (orgogliosamente rivendicata dall’autore: hominem
pagina nostra sapit, X, 4, 10) è l’aderenza alla vita concreta descritta talvolta con crudo
realismo: gli individui, rappresentanti di ogni ceto sociale, sono colti nella loro miseria e
nei loro aspetti più radicali e contribuiscono a realizzare un quadro colorito e vivace della
società del tempo che esprime una visione pessimistica.
L’atteggiamento di Marziale di fronte allo spettatore della realtà e dei personaggi
che occupano la scena è quello di un osservatore attento, ma per lo più distaccato, che
raramente si impegna nel giudizio morale e nella condanna: una satira sociale priva di
asprezza (parcere personis, dicere de vitiis smascherare i vizi apertamente, risparmiare sempre
le persone – X, 33, 10)
Il dettato poetico è estremamente curato, raffinato ed essenziale, in sintonia con la
brevità e l’immediatezza dell’epigramma.
Le modalità espressive rivelano una notevole ricchezza e duttilità che ben si prestano
alla molteplicità dei temi e alla varietà del mondo reale.
La fortuna. Marziale riscosse un successo immediato e duraturo, influenzando i poeti
della tarda antichità, come Ausonio, Claudiano e Sidonio Apollinare.
Nel Medioevo fu noto attraverso i florilegi; Boccaccio ne scoprì e trascrisse un codice
Nel Rinascimento il poeta latino influenzò Pontano e Pietro Bembo. Nei secoli
successivi la fortuna dei suoi epigrammi fu grande, fino al declino dell’Ottocento.
2
La vita e le opere. Marco Fabio Quintiliano nacque a CALAGURRIS (Calahorra)
In Spagna intorno al 35 d C a Roma fu educato da illustri maestri, il grammatico REMMIO
PALEMONE a il retore Domizio Afro; in Spagna esercitò l’insegnamento e l’avvocatura
fino al 68, quando l’imperatore GALBA lo condusse a Roma, dove cominciò l’attività di
maestro di retorica; il successo riscosso fece sì che nel 70 Vespasiano gli concesse una
cattedra con stipendio pubblico che tenne per venti anni.Nel 96 pubblicò l’ISTITUTIO
ORATORIA, interamente pervenutaci, e nello stesso anno morì, dopo avere perso la
giovanissima moglie e i due figlioletti.
Tra le opere perse di Quintiliano si segnalano le sue orazioni forensi, i libri ARTIS
RHETORICAE, due libri di retorica redatti dai suoi allievi, e il trattato DE CAUSIS
CORRUPTAE ELOQUENTIAE sulla decadenza della retorica (attribuita alla lontananza
della scuola, con i suoi EXEMPLA FICTA,dalla vita reale) La tradizione attribuisce a
Quintiliano anche due raccolte di DECLAMATIONES:la prima comprende 19
DECLAMATIONES MAIORES, giunte complete; la seconda 145 DECLAMATIONES
MINORES, semplici abbozzi creati per la scuola.
INSTITUTIO ORATORIA. Il trattato (93-96 d. C) in 12 libri si occupa della istruzione
di base del futuro oratore, dall’infanzia fino al momento in cui avrà acquistato qualità e
mezzi per affrontare un uditorio, formando in tal modo un disegno organico di formazione
culturale e morale, scolastica e intellettuale.
SINTESI DELL’OPERA:
LIBRO I: Proemio con dedica al finanziario imperiale Marcello Vittorio per l’educazione del
figlio;si tratta dell’insegnamento elementare, pubblico e privato; si affronta il problema della
scelta dei precettori che dovranno impartire i primi insegnamenti.
LIBRO II: si tratta dell’eloquenza, la scienza del ben parlare (“bene dicendi sententia”), per
conseguire la quale sono necessarie la dottrina e la disposizione naturale
LIBRO III: si trattano i generi oratori:celebrativo, deliberativo e giudiziario, che hanno per
oggetto, la cerimonia, il comizio politico e il processo in tribunale.
LIBRO IV: si affrontano le parti in cui si divide l’orazione.
LIBRI V e VI:si esamina l’INVENTIO: la scelta degli argomenti.
LIBRO VII: si considera la DISPOSITIO, cioè l’ordine degli argomento:esordio, narrazione
dei fatti, dimostrazione della tesi, oppugnazione degli argomenti, perorazione.
LIBRO VIII: si esamina la ELOCUTIO, lo stile espositivo che deve essere elegante.
LIBRO IX: si descrivono le figure di parola e di pensiero
LIBRO X: si esamina la IMITATIO, la cura nello scrivere e nel tradurre e l’analisi critica dal
punto di vista retorico degli scrittori greci e latini.
LIBRO XI: si considera la MEMORIA, ossia i metodi per ricordare situazioni, date, fatti
LIBRO XII:si affronta il problema della cultura necessaria all’oratore
La INSTITUTIO ORATORIA aveva dunque un chiaro INTENTO PEDAGOGICO:
L’educazione era un fatto morale (da realizzarsi mediante l’insegnamento della virtù e la
perfezione dei costumi) e culturale (mediante la trasmissione del sapere letterario,storico e
filosofico). Per questo per la formazione dell’oratore sono necessarie l’ARS (tecnica), la
MATERIA (doti naturali), lo STUDIUM, l’IMITATIO dei modelli greci e latini. A questo
scopo, il libro X contiene una nutrita, acuta e per noi interessantissima galleria di analisi,
confronti e giudizi su autori greci e latini, appartenenti ai vari generi letterari(18) ANTE OMNIA FUTURUS ORATOR, CUI MAXIMA CELEBRITATE ET IM MEDIA REI PUBLICAE
LUCE VIVENDUM EST, ADSUESCAT IAM A TENERO NON REFORMIDARE HOMINES NEQUE ILLA
1
SOLITARIA ET VELUT UMBRATICA VITA PALLESCERE. EXCITANDA MENS ET ATTOLLENDA SEMPER
EST, QUAE IN EIUS MODI SECRETIS AUT LANGUESCIT ET QUENDAM VELUT IN OPACO SITUM DUCIT,
AUT CONTRA TUMESCIT INANI PERSUASIONE: NECESSE EST ENIM NIMIUM TRIBUAT SIBI QUI SE
NEMINI COMPARAT.(19) DEINDE CUM PROFERENDA SUNT STUDIA, CALIGAT IN SOLE ET OMNIA
NOVA OFFENDIT, UT QUI SOLUS DIDICERIT QUOD INTER MULTOS FACIENDUM EST.(20) MITTO
AMICITIAS, QUAE AD SENECTUTEM USQUE FIRMISSIME DURANT RELIGIOSA QUADAM
NECESSITUDINE IMBUTAE: NEQUE ENIM EST SANCTIUS SACRIS ISDEM QUAM STUDIIS INITIARI.
SENSUM IPSUM, QUI COMMUNIS DICITUR, UBI DISCET CUM SE A CONGRESSU, QUI NON
HOMINIBUS SOLUM SED MUTIS QUOQUE ANIMALIBUS NATURALIS EST, SEGREGARIT? (21) ADDE
QUOD DOMI EA SOLA DISCERE POTEST QUAE IPSI PRAECIPIENTUR, IN SCHOLA ETIAM QUAE ALLIS.
AUDIET MULTA COTIDIE PROBARI,MULTA CORRIGI, PRODERIT ALI CUIUS OBIURGATA DESIDIA,
PRODERIT LAUDATA INDUSTRIA, EXCITABITUR LAUDE AEMULATIO, TURPE DUCET CEDERE PARI,
PULCHRUM SUPERASSE MAIORES.(22) ACCENDUNT OMNIA HAEC ANIMOS, ET LICET IPSA VITIUM
SIT AMBITIO, FREQUENTER TAMEN CAUSA VIRTURUM EST. (23) NON INUTILEM SCIO SERVATUM
ESSE A PRAECEPRORIBUS MEIS MOREM, QUI, CUM PUEROS IN CLASSIS DISTRIBUERANT,
ORDINEM DICENDI SECUNDUM VIRES INGENII DABANT, (24) ET ITA SUPERIORE LOCO QUISQUE
DECLAMABAT
UT
PRAECEDERE
PROFECTU
VIDEBANTUR:HUIUS
REI
IUDICIA
PRAEBEBANTUR.[……..]
(18) FUTURUS ORATOR: Quintiliano non dimentica mai che i suoi precetti sono generali,
ma rivolti a uno scopo preciso, quello cioè dell’educazione dell’oratore; CUI = dativo
d’agente, connesso con la perifrastica VIVENDUM EST. IN MAXIMA…….LUCE: “in
mezzo alla gente e nella piena luce dello stato” oggi potremmo dire “sotto i riflettori”;
ILLA...VITA: “in quel genere di vita passata da solo e , se così si può dire, nell’ombra”;
l’espressione si riferisce all’insegnamento dei precettori domestici.VELUT attenua la
metafora dell’aggettivo UMBRATICUS,di uso soprattutto poetico. IN SECRETIS: “in luoghi
nascosti di tal fatta”;QUENDAM…DUCIT: “fa per così dire la muffa”, come all’ombra”;
QUENDAM svolge la medesima funzione di VELUT. Il primo rischio è che l’ambiente
chiuso
offra
stimoli
insufficienti
per
un
corretto
sviluppo
mentale.TUMESCIT….PERSUASIONE: il rischio opposto è quello di sopravvalutare le
propri qualità, non potendole paragonare con quelle altrui, come Quintiliano spiega subito
dopo. TRIBUAT: è accostato PARATATTICAMENTE a NECESSE EST.(19)
CALIGAT:”non ci vede chiaro”(il verbo ha la stessa radice di CALIGO – IGNIS =nebbia,
oscurità); il soggetto è sempre il fanciullo educato dei precettori:questo tipo di
insegnamento, infatti, non può durare in eterno e, abbandonata la propria casa,egli si
troverà “abbagliato” e spaesato anche in pieno sole (fuor di metafora, non riuscirà neppure
nelle cose più facili).UT QUI: la locuzione spesso usata da Quintiliano con il valore di
QUIPPE QUI, introduce una proposizione RELATIVA CAUSALE (“come colui
che”,”poiché”).(20) INBUTAE: predicativo di QUAE(le AMICITIAE) SENSUM
IPSUM:oggetto di DISCET(il soggetto è PUER);anche in italiano si può mantenere
l’anticipazione dell’oggetto; CUM:la congiunzione temporale introduce SE SEGREGARIT
(AVERIT); nota il rispetto dell’anteriorità.MUTIS:l’epiteto non è indicazione superflua, ma
pone l’uso del linguaggio come discrimine tra uomo e animale, che hanno invece la
necessità di stringere rapporti sociali (congressu). (21) ADDE QUOD: introduce la
completava con l’indicativo POTEST DOMI: locativo; all’inizio di proposizione come il
seguente in SCHOLA. QUAE ALLIIS: sottinteso PRAECIPIENTUR.(22) LICET…AMBITIO:
(proposizione concessiva):”ammettiamo pure che il desiderio di lode sia di per sé un
vizio”(nota il forte IPERBATO del soggetto) (23) NONINUTILEM (litotate):da unire a
MOREM; sono frequenti nella ISTITUTIO i ricordi di Quintiliano qui relativi a quando lui
stesso era studente.CUM...DISTRIBUERANT:cum temporale; IN CLASSIS (=ES):non in
2
aule diverse, ma in livelli progressivi di profitto (cfr.il seguente SUPERIORE LOCO,da non
intendersi in senso fisico) ITA…VIDEBATUR:”ciascuno declama da una posizione tanto
più elevata quanto più sembrava avanzare in profitto”
ANALISI DEL BRANO(21-22)
Soffermiamoci sul periodo AUDIET….MAIORES, in modo da cogliere meglio la sapiente simmetria
dei COSTUTTI PARALLELI E ANTITETICI, che rivela la partecipazione accorata e commossa di
Quintiliano-
AUDIET
PRODERIT
INDUSTIA,
MULTA COTIDIE PROBARI
MULTA CORRIGI,
ALICUIUS OBIURGATA DESIDIA,PRODERIT
EXCITABITUR LAUDE AEMULATIO,
TURPE DUCET CEDERI PARI,
LAUDATA
PULCHRUM SUPERASSE MAIORES.
Nella progressione enfatica dei verbi principali, posti all’inizio delle rispettive proposizioni,
spicca la VARIATIO DEI SOGGETTI: l’iniziale e la finale nominativo sottinteso AD AUDIET
e DUCET è il FUTURUS ORATOR del par.18; invece gli altri predicati sono seguiti dal
nominativo di significativi termini astratti (DESIDIA, INDUSTRIA, AEMULATIO).inoltre,
l’ANTITESI dei primi due astratti è da un lato sottolineata dall’ANAFORA di PRODERIT,
dall’altro rafforzata dalla contrapposizione dei participi congiunti (OBIURGATA,
LAUDATA). Ma anche gli altri predicati AUDIET e DUCET sono perno di costrutti paralleli
e antitetici, costruiti dalle due coppie di proposizioni infinitive da loro dipendenti. A inizio
periodo l’opposizione semantica di PROBARI/CORRIGI è sottolineata dall’ANAFORA di
MULTA; in chiusura tutti i termini sono in antitesi:TURPE/PULCHRUM;
CEDERE/SUPERASSE (con VARATIO temporale) PARI/MAIORES. Infine, soppesando a
livello semantico i vari vocaboli, si avverte una prevalenza di quelli positivi: nella visione
ottimistica del pedagogo, la lode e il trionfo finale (sottolineato dal perfetto SUPERASSE)
premiano l’operosità del discente.
LA POETICA E LO STILE:Scrivendo un trattato sull0oratore, Quintiliano estese il discorso
alla formazione generale dell’uomo, esaltando il valore spirituale della cultura, di cui
l’eloquenza era l’espressione più alta. L’oratore era quindi anche un intellettuale dedito alla
casa pubblica, utile alla società per le sue doti morali. Pur nella nuova situazione politica,
in un Impero unitario e pacifico, Quintiliano, coltivando un illusione infondata e
anacronistica, ripropone il modello di oratore di età repubblicana, di stampo catonianociceroniano: l’oratore ideale è il VIR BONUS DICENDI PERITUS, guida al senato e al
popolo romano, impegnato in una missione civile. Tuttavia, Quintiliano non si rende conto
che il ritorno a Cicerone esigeva anche un impossibile ritorno alle condizioni di libertà
politica di quel tempo. Dal punto di vista stilistico Quintiliano ricerca soprattutto la
chiarezza e la trasparenza, avendo cura di evitare l’ostentazione espressiva. Il modello di
Cicerone, proposto all’imitazione del futuro oratore, è dall’autore reinterpretato ai fini di un
equilibrio tra asciuttezza e ampollosità.
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programma sintetico di latino v liceo scientifico