Tutela delle Lavoratrici Madri Adempimenti D.Lgs 81/08 ( Le considerazioni del presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore.) Dott.ssa Levato Francesca, funzionario della Direzione Provinciale del Lavoro di Livorno Premessa. Storicamente la tutela della salute delle lavoratrici madri rappresenta un obiettivo di primaria importanza in tutte le strategie della prevenzione, a prescindere dai sistemi economici utilizzati o dagli orientamenti politici dei governi che li applicano. E non potrebbe essere altrimenti, considerando l’irrinunciabile contributo in termini di creatività e di operosità che le donne hanno sempre dato al mondo del lavoro. Si pensi, soltanto a titolo di esempio, al contributo dato dalle lavoratrici reclutate in massa durante il periodo bellico in sostituzione degli uomini al fronte ed al notevole impulso che le stesse hanno dato alla ricostruzione dell’economia di molti paesi dopo la “grande guerra”. Un determinante aspetto della tutela delle lavoratrici madri deve essere la salvaguardia della loro funzione chiave nella conservazione della specie. Quest’ultima espressione potrebbe far sorridere o addirittura, ad una interpretazione superficiale, generare irritazione, richiamando alla mente stereotipi femminili ormai vetusti. In realtà è opportuno sottolineare che se in molti paesi ancora arretrati dal punto di vista socio-economico, è ancora completamente delegato alla figura femminile il ruolo di custodia e di assistenza della prole, nelle società a sistemi economici molto avanzati, questa espressione assume un significato estremamente più complesso. Non possiamo escludere che le profonde trasformazioni nell’organizzazione sociale e dei ruoli ad essa correlati possano aver generato delle disfunzioni che in qualche modo riguardano la conservazione della specie. A tal riguardo basta ricordare i recenti tragici fatti di cronaca nazionale che inducono a riflettere sul ruolo della madre nella società contemporanea. Infatti fenomeni diffusi e riproducibili di disaffezione e violenze verso la prole all’interno di comunità socioeconomicamente evolute, non possono essere sempre giustificati da cosiddetti “raptus di follia”. È fondata, ad avviso di chi scrive l’ipotesi che le discrasie di oggi, abbiano le loro radici nell’educazione alla socialità degli individui. Le spinte all’individualismo ed alla competizione, che troppo spesso assumono significato di valore nella società contemporanea, potrebbero generare, in soggetti predisposti, conflitti ingestibili con i sentimenti di generosità e dedizione che sono alla base del ruolo genitoriale. Il punto di rottura potrebbe essere rappresentato proprio dalla consapevolezza di non essere aderenti al modello culturale dominante, e la custodia della prole potrebbe essere visto dalla donna come il maggiore ostacolo a tale percorso di omologazione. Tale modello può essere per certi versi verificato nella “iconografia” mass-mediologica ed in particolare televisiva, dove il ruolo femminile appare molto spesso frammentato e schizoide. Sempre più spesso infatti ritroviamo negli spot pubblicitari o nella fiction una donna-madre assediata da figli e mariti iperattivi ed iperesigenti, da accontentare fulmineamente con delizie appena scongelate o bucati splendenti. La donna-moglie-compagna, invece, è perennemente assillata (in una società che invecchia vertiginosamente) da rughe e capelli bianchi da cancellare con costosi cosmetici per compiacere spietati “eterni giovanotti”. Infine la donna-lavoratrice, è rappresentata (e probabilmente cosi è o la si vuole) sempre più appiattita su un’immagine al maschile nell’aspetto e nei modi, persino quando si ribella e provocatoriamente inchioda la cravatta del capo al tavolo di lavoro (come in un diffuso spot pubblicitario).Ovviamente non si vuole far scaturire dal momento lavorativo una dinamica di patologia sociale di tale portata, ma, considerando che quello dedicato all’attività lavorativa rappresenta almeno il 50% del tempo utilizzato dall’individuo, ci rendiamo conto del peso che assume la partecipazione o, paradossalmente, l’emarginazione da tale momento di socializzazione. Non può infatti essere ignorato che l’impegno in un’attività lavorativa da parte di un soggetto modifichi profondamente le modalità dei rapporti ed il sistema di valori interiorizzato: in una parola il suo ruolo sociale. Il lavoro ha infatti un ruolo tanto determinante nella socializzazione dell’individuo adulto quanto quello della famiglia per il bambino. Svolgere un’attività lavorativa soddisfacente e in condizioni di compatibilità con le altre dinamiche quotidiane (rapporti familiari, di amicizia ed hobby) contribuisce allo sviluppo armonico della personalità dell’individuo, creando i presupposti per la realizzazione di quella condizione di benessere a cui hanno diritto tutti gli individui. Se il problema della tutela della salute nelle lavoratrici madri è un problema trasversale alle varie attività lavorative, il problema, almeno da un punto di vista quantitativo, appare maggiormente significativo nel settore del terziario (e quindi della pubblica amministrazione), se è vero che l’83% delle donne sono impiegate nei servizi. Allergie, malattie infettive e neuropsichiche, epatiche o dermatologiche, sono, secondo la stessa fonte, nell’ordine, le patologie più diffuse nelle lavoratrici. Tale dato indubbiamente sottende una diversa correlazione tra lavoro e salute nel sesso femminile rispetto a quello maschile. Riguardo poi al rischio di infortuni sul lavoro, pur rimanendo più basso rispetto al sesso maschile, ha subito negli ultimi anni un incremento, anche per l’allargamento al “gentil sesso” di attività abitualmente riservate al “sesso forte”.Da quanto detto emerge la necessità di una maggiore attenzione nella ricerca di modalità di approccio diverse al problema del rischio, o più correttamente nel suo aspetto speculare, del benessere sul luogo di lavoro, in un settore per lungo tempo definito come relativamente privo di rischi. Per tale motivo, nel presente studio, vengono di seguito esaminate le complesse problematiche relative allo specifico della lavoratrice madre, al fine di identificare un percorso di riconoscimento degli specifici rischi correlati alla detta figura. Il 30 aprile 2008 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il “Testo Unico normativo in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori” (D.Lgs. 81/08), firmato dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano il 10 aprile 2008. All’interno del Testo Unico, che si compone di 303 articoli, 12 titoli e 50 allegati, sono comprese tutte le norme già presenti nel D.Lgs 626/94, oltre, ovviamente, ad una serie di altre misure che già esistevano in materia di cantieri, vibrazioni, segnaletica, rumore, amianto e piombo. Atteso da trenta anni (art 24 legge 833/78), lo scopo principale di questo provvedimento legislativo, successivamente modificato ed integrato dalla L. Comunitaria 88/09 e dal D.Lgs 106/09, è quello di semplificare il quadro normativo sulla sicurezza dei lavoratori, una tematica molto attuale in quest’ultimo periodo, a causa dell’onda emotiva, nella popolazione generale, provocata dai recenti eventi luttuosi che hanno coinvolto il mondo del lavoro negli ultimi mesi. Per meglio comprendere il reale significato di questo documento, appare opportuno approfondire l’evoluzione storica della legislazione di riferimento nel campo della medicina del lavoro in Italia, correlando lo sviluppo della normativa con i mutamenti del mondo sociale e lavorativo avvenuti nel nostro paese nell’ultimo secolo. La sicurezza dei lavoratori: l’evoluzione normativa L’Italia è stato uno dei primi paesi al mondo a dotarsi di una specifica legislazione sul tema della tutela della sicurezza dei lavoratori. I fattori determinanti di salute socio-lavorativi, infatti, sono sempre stati studiati ed analizzati con attenzione dal mondo medico-scientifico italiano. Non è un caso che, storicamente, venga riconosciuto come “fondatore” della medicina del lavoro, proprio un italiano, il modenese Bernardino Ramazzini il quale, al principio del XVIII secolo, inserì nell’anamnesi ippocratica una nuova domanda “et quam artem exerceas? - quale lavoro svolgi?”. Autore del “De morbis artificum diatriba” (Padova, 1700), Ramazzini identificò, attraverso l’analisi di sessanta categorie di lavoratori, gli effetti dannosi del lavoro e “la natura nociva delle sostanze utilizzate”. Un altro primato italiano, in continuità con l’opera del medico emiliano, fu rappresentato dallo sviluppo della medicina del lavoro come branca clinica autonoma. All’interno degli Istituti Clinici di Perfezionamento milanesi, venne fondata nel 1902 la “Clinica del Lavoro”, primo istituto al mondo dedicato a questa disciplina, portata a termine nel 1910 ed in seguito intitolata al suo primo direttore, Luigi Devoto (1864-1936). Nel 1906, sempre a Milano, si svolse il primo congresso internazionale di medicina del lavoro e venne fondata la International Commission on Occupational Health (ICOH), l’organizzazione scientifica mondiale di medicina occupazionale. In questo clima culturale e scientifico, si sviluppò la normativa italiana a tutela dei lavoratori. Alla fine del XIX secolo, in piena Rivoluzione Industriale italiana, la concezione del lavoro era profondamente differente da quella attuale. Le risorse ambientali e la stessa forza-lavoro umana erano considerate come risorse illimitate, beni inesauribili a disposizione del capitano di industria che poteva sfruttarli a proprio piacere, senza alcun interesse ad una loro salvaguardia. Non veniva, perciò, preso in considerazione il problema della protezione del lavoratore e della prevenzione di infortuni e malattie professionali. A differenza dell’artigiano, infatti, l’operaio era il più delle volte non specializzato, in ragione del fatto che le mansioni svolte nelle fabbriche erano spesso caratterizzate da uno scarso livello di qualificazione. Il lavoratore, perciò, era intercambiabile e il proprio stato di salute non era motivo di preoccupazione per il datore di lavoro, che poteva facilmente sostituirlo. Con la nascita e l’organizzazione dei primi sindacati iniziarono ad essere emanate specifiche normative a tutela dei lavoratori. Dopo la legge Crispi-Pagliani del 1888 incominciò infatti a svilupparsi in Italia un sistema basato sulle assicurazioni dei lavoratori. Pochi anni dopo, nel 1899, vennero emanate le prime leggi, dedicate ad una specifica attività lavorativa, il lavoro nelle miniere e nelle cave. Il sistema mutualistico si estese progressivamente a nuove categorie di lavoratori. In epoca fascista, all’interno di un modello sociale basato sulle Corporazioni, la mutualità di malattia passò dal regime volontario a quello obbligatorio; prima per singole categorie (gente di mare e dell’aria, 1929) o per singole malattie (tubercolosi, 1924; malattie professionali, 1935), più tardi in forma generalizzata con la creazione dell’Istituto per l’assistenza di malattia ai lavoratori (1943), che diventerà INAM nel 1947 assimilando al suo interno differenti enti assicurativi. Sempre nel medesimo periodo, con l’emanazione del Codice Civile (1942) e del Codice Penale (1930), cominciò ad affermarsi il concetto di “responsabilità d’impresa” sul piano civile e penale, riconoscendo che “l’imprenditore è tenuto ad adottare le misure necessarie a tutelare la salute fisica e morale dei prestatori di lavoro” (C.C. art. 2087). Anche nella Costituzione del 1948 venne enunciata la tutela del lavoro in tutte le sue forme (art. 35), anche in ragione del fatto che la neonata Repubblica riconosceva il proprio fondamento proprio nell’attività lavorativa svolta dai propri cittadini (art 1). Il mutamento socioeconomico dell’Italia negli anni successivi ha determinato la necessità dello sviluppo di un apparato legislativo a tutela del lavoratore basato sull’imposizione all’impresa di restrizioni e di vincoli. Le imprese non applicavano, perciò, le normative secondo un reale interesse della salute dei propri lavoratori, ma piuttosto per evitare le sanzioni amministrative e penali conseguenti alla loro violazione. Tra il 1955 e il 1956, nel pieno sviluppo industriale della Ricostruzione post-bellica, vennero emanati una serie di provvedimenti (i Decreti del Presidente della Repubblica 547/55, 164/56 e 303/56) tesi ad identificare le gerarchie responsabili della sicurezza, a prevedere specifiche sanzioni e a garantire la vigilanza sulla loro applicazione (si veda ad esempio la nascita dell’Ispettorato del Lavoro nel 1955). La legislazione degli anni Cinquanta presentava ancora numerosi limiti al suo interno. Non era infatti prevista alcuna attività di informazione/formazione dei lavoratori, come intervento qualificante in termini preventivi; mancava l’identificazione di specifici valori-limite di esposizione; gli interventi di bonifica individuati erano troppo generici e, infine, i lavoratori e i loro rappresentanti erano ancora scarsamente coinvolti nella prevenzione. Il riconoscimento della necessità della partecipazione diretta dei lavoratori nel processo di tutela della propria salute, avvenne al termine dell’Autunno Caldo del 1969, quando si affermò la convinzione, da parte del mondo operaio, che solo l’esperienza diretta di chi lavorava quotidianamente in ambienti nocivi poteva essere efficace per valutare le condizioni di lavoro e le ripercussioni sullo stato di salute del lavoratore stesso. Lo “Statuto dei Lavoratori” (legge 300/70) introdusse, perciò, il diritto dei lavoratori di controllare, tramite i propri rappresentanti sindacali, l’applicazione delle norme di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali (art. 9). A partire dallo stesso anno nacquero spontaneamente, in varie regioni, alcuni servizi di medicina del lavoro sul territoriali, legati alle fabbriche. Nello stesso periodo si portò avanti la rivendicazione della piena retribuzione salariale e della conservazione del posto di lavoro in caso di infortunio, malattia professionale, maternità e malattia in generale fino a completa guarigione. Venne inoltre esteso per le lavoratrici partorienti il congedo di parto a 4 mesi prima e 6 mesi dopo il parto con il diritto in questo periodo al salario pieno. Con la creazione del Sistema Sanitario Nazionale (833/78), vennero istituiti specifici “servizi di igiene ambientale e medicina del lavoro” organizzati all’interno delle singole Unità Socio-Sanitarie Locali alle quali vennero progressivamente trasferite le competenze dell’Ispettorato del lavoro in tema di prevenzione degli infortuni ed igiene del lavoro (art. 21). Venne inoltre istituito il libretto sanitario personale, da distribuire a tutti i cittadini, comprendente l’eventuale esposizione a rischi in relazione alle condizioni di vita e di lavoro (art. 27). Inoltre, all’art. 24 della 833 si prevedeva la stesura, entro il 31.12.1979, di un Testo Unico in materia di sicurezza e igiene del lavoro, per il quale si è dovuto però attendere l’aprile del 2008.A partire dagli anni Novanta le problematiche di salute incominciarono a divenire aspetti intrinseci e strategici nei processi produttivi, costituendone un indicatore di qualità. Dopo la nascita dell’Unione Europea (Trattato di Maastricht, 1992), l’Italia incominciò a recepire e le direttive CEE in tema di salvaguardia della salute sul luogo di lavoro. La 626/94 venne emanata dopo un lungo iter, preceduta, pochi anni prima, dal D.lgs. 277/91 sulla protezione dai rischi di esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici (nello specifico piombo, amianto e rumore). Il D.lgs 626/94, nell’applicarsi “a tutti i settori di attività pubblici o privati” (art. 1), recepì sette direttive CEE (luoghi di lavoro, uso di attrezzature di lavoro, uso DPI, movimentazione dei carichi, uso dei videoterminali, protezione da agenti cancerogeni e da agenti biologici). Questa normativa introdusse nuove disposizioni in materia di valutazione del rischio, informazione/formazione completa e periodica dei lavoratori e loro controllo sanitario. Vennero istituiti i “Servizi di Prevenzione e Protezione” (obbligatori solo per aziende con un numero maggiore di 200 dipendenti) e definiti ruolo e funzioni della figura del Medico Competente. L’evoluzione normativa della tutela delle lavoratrici madri La tutela delle lavoratrici madri nasce da una finalità protezionistica accolta dalle norme costituzionali in tema di eguaglianza e di tutela della salute. In particolare, la norma contenuta nell’art. 37, comma 1, della Costituzione ha riaffermato gli obiettivi protettivi tradizionali della tutela differenziata del lavoro femminile, tipici dell’epoca fascista, statuendo che alla donna devono essere garantite le condizioni di lavoro necessarie all’adempimento della sua essenziale funzione familiare e alla protezione della maternità. Sulla base del disposto costituzionale, si giustifica l’emanazione di normative di tutela differenziata al fine del raggiungimento di tali obiettivi, nell’ambito della più ampia normativa antidiscriminatoria ( Discriminazioni di genere).La tutela della lavoratrici madri è stata così attuata con l’emanazione della Legge 1204/1971, integrata successivamente dalla Legge n. 903 del 1977 e dalla Legge 53/2000. La materia della tutela delle lavoratrici madri, tuttavia, è stata ridisegnata in una logica paritaria (Discriminazioni di genere) dalD.Lgs. 151/2001, contenente il T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, modificato e integrato con il D.Lgs. 115/2003. Il Testo Unico raccoglie e riordina il complesso delle disposizioni vigenti in materia, nonché alcune norme della Legge n. 903 del 1977 in tema di parità di trattamento tra uomo e donna. Con l’entrata in vigore del suddetto decreto si è superata la precedente disciplina contenuta nella Legge 653/1934, che ammetteva i lavori pericolosi e insalubri a determinate condizioni, vietava il lavoro notturno e stabiliva limiti massimi per l’orario di lavoro e l’obbligo di riposi intermedi. In parallelo si era evoluta anche la normativa a tutela e sostegno della maternità. La prima legge italiana in questo campo venne approvata nel giugno del 1902. La legge 242/1902, detta legge Carcano dal nome del ministro presentatore del disegno di legge, vietava alle donne di qualsiasi età i lavori sotterranei; limitava a dodici ore l’orario massimo giornaliero prevedendo un riposo di due ore; vietava, ma solo alle donne minorenni, il lavoro notturno. La normativa mentre tutelava le puerpere nel mese successivo al parto, non prevedeva ancora nessuna limitazione durante tutto il periodo della gravidanza. L’esigenza demografica durante il regime fascista, determinò l’istituzione di un ente denominato “Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia” (OMNI) per la tutela delle gestanti, il quale favorì la promulgazione del Regio Decreto n. 654 del 1934. La nuova legislazione preveda l’astensione obbligatoria delle donne dal lavoro anche all’ultimo mese precedente la data del parto. La tutela delle lavoratrice madre fu garantita anche dalla legislazione repubblicana con la legge 860 del 1950 (“Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”) e la legge 1204/71. La normativa emanata negli anni Settanta si caratterizzava per l’aver dato realizzazione ai valori costituzionalmente garantiti della parità fra uomo e donna, della funzione sociale della maternità e dell’inserimento della donna nel mondo del lavoro. In particolare l’art. 10 disponeva che il datore di lavoro debba “consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata”. L’attuale normativa vigente è il frutto della ricezione delle normative europee ed è rappresentata dal D.Lgs. 151/2001 (Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità). In base alle attuali disposizioni l’astensione obbligatoria durante la gravidanza è prevista da due mesi prima ai tre mesi successivi al parto, ma è possibile che la gestante chieda di continuare l’attività fino all’ottavo mese, posticipando, però, di un mese il ritorno al lavoro post-partum. Tutela della salute e della sicurezza della lavoratrice madre La tutela delle lavoratrici madri si estrinseca innanzitutto in alcune norme di protezione della salute e della sicurezza delle stesse. In particolare il Capo Secondo del D.Lgs. 151/2001 prescrive una serie di misure finalizzate alla tutela della sicurezza e della salute delle lavoratrici durante il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio, a condizione che le stesse abbiano informato il datore di lavoro del proprio stato. La tutela si applica, allo stesso modo, alle lavoratrici che abbiano ricevuto bambini in adozione o in affidamento, fino al compimento dei sette mesi di età. Infine, salva l’ordinaria assistenza sanitaria e ospedaliera a carico del Servizio sanitario nazionale, le lavoratrici durante la gravidanza, possono fruire presso le strutture sanitarie pubbliche o private accreditate, con esclusione del costo delle prestazioni erogate, oltre che delle periodiche visite ostetricoginecologiche, delle prestazioni specialistiche per la tutela della maternità, in funzione preconcezionale e di prevenzione del rischio fetale , previste dal decreto ministeriale della sanità di cui all’art. 1, comma 5, lettera a), del Decreto legislativo 124/98, purché prescritte secondo le modalità ivi indicate. Gli artt. 7 e 8 del D.Lgs. 151/2001 tracciano una chiara linea relativa ai lavori vietati alle lavoratrici madri, in quanto pericolosi, faticosi ed insalubri, così come elencati negli Allegati A e B del D.Lgs. n. 151/2001, nonché nell’art. 5 del D.P.R. n. 1026 del 1976. Pertanto, durante il periodo in cui vige il divieto di svolgere i sopraindicati lavori, ossia durante il periodo di gravidanza e sino a sette mesi di età del bambino, la lavoratrice è addetta ad altre mansioni, anche inferiori a quelle abituali, purché conservi il diritto alla retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica originale. Quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, il servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio, può disporre l’interdizione dal lavoro per il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio. Ai sensi degli articoli 11 e 12 del D.Lgs. 151/2001, il datore di lavoro valuta i rischi per la sicurezza e la salute delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento fino a sette mesi dopo il parto, in particolare i rischi di esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici, nonché dei processi industriali ritenuti pericolosi per la sicurezza o per la salute delle lavoratrici e delle condizioni di lavoro di cui all’Allegato “C” del T.U. Il Ministero del Lavoro, con riferimento alla valutazione dei rischi cui è onerato il datore di lavoro, nella Circolare n. 3328 del 16/2/2002 ha affermato che la stessa debba avvenire contestualmente alla valutazione dei rischi generali, in modo tale che il datore medesimo possa informare le lavoratrici prima ancora che sopraggiunga la gravidanza circa i rischi esistenti in azienda, le relative misure di prevenzione e protezione che egli ritiene di dover adottare in tal caso. L’obbligo di informazione di cui all’articolo 21 e 36 del D.Lgs. n. 81/2008 comprende quello di informare le lavoratrici ed i loro rappresentanti per la sicurezza sui risultati della valutazione di cui sopra e sulle conseguenti misure di protezione e prevenzione adottate. A seguito della valutazione che rilevi la presenza di rischio per la sicurezza e salute della lavoratrice, il datore di lavoro deve adottare tutte le misure necessarie affinché l’esposizione al rischio delle lavoratrici sia evitata, modificandone temporaneamente le condizioni o l’orario di lavoro. Ove tale modifica non sia possibile per motivi organizzativi o produttivi, il datore di lavoro modifica le mansioni della lavoratrice (che mantiene la stessa qualifica e retribuzione), dandone contestuale informazione scritta al servizio ispettivo del Ministero del Lavoro competente per territorio che può disporre l’interdizione dal lavoro per tutto il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio. L’articolo 14 del D.Lgs. 151/2001 stabilisce che durante tutto il periodo della gestazione le lavoratrici hanno il diritto a permessi retribuiti per l’effettuazione di esami prenatali, accertamenti clinici ovvero visite mediche specialistiche, nel caso in cui questi debbano essere eseguiti durante l’orario di lavoro. Per la fruizione dei permessi la lavoratrice deve presentare al datore apposita istanza e successivamente presentare la relativa documentazione giustificativa attestante la data e l’orario di effettuazione degli esami. L’articolo 53 del D.Lgs. 151/2001 afferma la sussistenza del divieto di lavoro notturno (dalle ore 24 alle ore 6) per le sole lavoratrici madri (eliminando il divieto per le altre donne) dal momento dell’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino. Inoltre si aggiunge che non sono obbligati a prestare lavoro notturno: 1. la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o alternativamente il padre convivente con la stessa; 2. la lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni; 3. la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della legge 104/92 e successive modificazioni I congedi per maternità e paternità Il legislatore ha previsto, in attuazione del diritto della lavoratrice alla sospensione del rapporto di lavoro di cui all’art. 2110 c.c., che il periodo di astensione obbligatoria opera durante i due mesi precedenti alla data presunta del parto e fino al terzo mese successivo. Ai sensi dell’art. 16 D.Lgs. 151/2001 ove il parto avvenga oltre la data presunta, l’astensione obbligatoria opera anche per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto, nonché durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. La lavoratrice è tenuta a presentare, entro trenta giorni, il certificato attestante la data del parto. L’art. 17 del D.Lgs. 151/2001 individua alcune ipotesi di estensione del congedo di maternità: 1. L’astensione obbligatoria dal lavoro è anticipata a tre mesi prima della data presunta del parto quando le lavoratrici siano impegnate in lavori che, in relazione all’avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli. Tali lavori sono determinati con propri decreti dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentite le organizzazioni sindacali nazionali maggiormente rappresentative. 2. Il servizio ispettivo del ministero del lavoro può disporre, in relazione alle condizioni di salute della lavoratrice, l’anticipazione dell’interdizione dal lavoro delle lavoratrici in stato di gravidanza, fino al periodo di astensione obbligatoria (due mesi precedenti alla data presunta del parto), per uno o più periodi, per i seguenti motivi: o nel caso di gravi complicanze della gestazione o di preesistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza; o nel caso in cui le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna o del bambino. In questa ipotesi, l’astensione dal lavoro anticipata potrà essere disposta (oltre che a seguito di istanza della lavoratrice) anche d’ufficio dal servizio ispettivo, qualora nel corso della propria attività di vigilanza constati l’esistenza delle suddette condizioni; o quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni secondo quanto stabilito dagli articoli 7 e 12 del medesimo decreto legislativo. Anche in questo caso l’astensione potrà essere disposta d’ufficio dal servizio ispettivo del Ministero. La lavoratrice ha la facoltà di rendere flessibile il periodo di astensione obbligatoria, spostandone il godimento - ferma restando la durata complessiva del congedo di maternità - a partire dal primo mese precedente la data presunta del parto e fino a quattro mesi successivi al parto, a condizione che tale spostamento non rechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro, in base ad attestazione del medico specialista del servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e del medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro. Il periodo di astensione obbligatoria è computato ad ogni effetto di legge nell’anzianità di servizio, inclusi gli effetti relativi alla tredicesima mensilità e alla gratifica natalizia, ed è equiparato all’attività lavorativa anche ai fini della progressione in carriera, salvo che la contrattazione collettiva non preveda particolare requisiti allo scopo. Il diritto di astensione obbligatoria è stato esteso anche al padre lavoratore (c.d. congedo di paternità), per tutto il periodo o per la parte residua che sarebbe spettata alla madre, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre (art. 28 D.Lgs. 151/2001). In tale situazione si applicano al padre le medesime norme che regolano il trattamento economico e normativo della lavoratrice madre. Ai sensi dell’art. 26 D.Lgs. n. 151/2001, il congedo di maternità spetta, per un periodo massimo di cinque mesi, anche alle lavoratrici che abbiano adottato un minore. In caso di adozione nazionale, il congedo deve essere fruito durante i primi cinque mesi successivi all’effettivo ingresso del minore nella famiglia della lavoratrice. In caso di adozione internazionale, invece, il congedo può essere fruito durante il periodo di permanenza all’estero richiesto per l’incontro con il minore e gli adempimenti relativi alla procedura adottiva, oppure può essere fruito entro i cinque mesi successivi all’ingresso del minore in Italia.Nelle ipotesi di affidamento del minore, è previsto un congedo di maternità della durata massima di tre mesi, che può essere fruito entro cinque mesi dall’affidamento. Tutte le disposizioni in materia di congedi per adozione e affidamento del minore sono applicabili anche al padre lavoratore, ai sensi dell’art. 31 D.Lgs. 151/2001 I congedi parentali Per congedo parentale si intende il diritto in capo ad entrambi i genitori naturali di astenersi dal lavoro facoltativamente e contemporaneamente entro i primi otto anni di vita del bambino (per i figli adottivi e in affidamento entro i primi dodici anni di vita). Nel caso di parto plurimo, il diritto al congedo parentale sussiste per ciascun bambino. Il diritto all’astensione facoltativa dal lavoro è riconosciuto, ai sensi dell’art. 32 D.Lgs. 151/2001 ai lavoratori e alle lavoratrici dipendenti (esclusi quelli a domicilio o gli addetti ai servizi domestici) titolari di uno o più rapporti di lavoro in atto, nonché alle lavoratrici madri autonome per un periodo massimo di tre mesi. Il congedo parentale spetta al genitore richiedente anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto in quanto non occupato o perché appartenente ad una categoria diversa dai quella dei lavoratori subordinati. Per quanto riguarda le modalità di esercizio del diritto la nuova normativa riconosce una durata complessiva non eccedente i dieci mesi. Alla madre lavoratrice compete, trascorso il periodo di congedo obbligatorio di maternità, un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi. Al padre lavoratore compete un periodo facoltativo continuativo o frazionato non superiore ai sei mesi. Quando vi sia un solo genitore, allo stesso compete un periodo continuativo o frazionato non superiore a dieci mesi. Se il padre fruisce del congedo parentale (continuativo o frazionato) per almeno tre mesi ,il periodo complessivo dei congedi per i genitori è elevato a undici mesi complessivi, quindi il padre potrà usufruire di un periodo complessivo di sette mesi . Con tale disposizione, la legge tenta di sollecitare una modifica degli atteggiamenti sociali circa i ruoli parentali, incentivando la fruizione dell’astensione facoltativa da parte del padre. Anche le lavoratrici autonome hanno il diritto di fruire del congedo parentale per un massimo di tre mesi entro l’anno di vita del bambino. La lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre di minore con handicap in situazione di gravità accertata (Legge n. 104/1992 art. 4, comma 1), hanno il diritto al prolungamento fino a tre anni dal congedo parentale, o in alternativa, ad un permesso giornaliero di due ore retributive, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati. Ai fini dell’esercizio del diritto al congedo parentale, i genitori lavoratori devono preavvisare, salvo casi di oggettiva impossibilità, il datore di lavoro secondo le modalità previste dai rispettivi contratti collettivi e, comunque, con un periodo di preavviso non inferiore ai quindici giorni. La malattia della lavoratrice madre o del lavoratore padre durante il periodo di congedo parentale interrompe il periodo stesso con conseguente slittamento della scadenza e fa maturare il trattamento economico relativo alle assenze per malattia. È evidente che in tal caso occorrerà inviare all’azienda il relativo certificato medico e comunicare esplicitamente la volontà di sospendere il congedo per la durata del periodo di malattia ed eventualmente spostarne l’utilizzo. Il genitore richiedente deve allegare alla domanda: 1. Certificato di nascita (o dichiarazione sostitutiva) da cui risulti la paternità o la maternità (i genitori adottivi o affidatari sono tenuti a presentare il certificato di stato di famiglia che includa il nome del bambino ed il provvedimento di affidamento o adozione); 2. Dichiarazione non autenticata di responsabilità dell’altro genitore da cui risulti il periodo di congedo eventualmente fruito per lo stesso figlio; nella dichiarazione occorre indicare il proprio datore di lavoro o la condizione di non avente diritto al congedo; 3. Analoga dichiarazione non autenticata di responsabilità del genitore richiedente relativa ai periodi di astensione eventualmente già fruiti per lo stesso figlio; 4. Impegno di entrambi i genitori a comunicare le variazioni successive. Come per l’astensione obbligatoria, il periodo di astensione facoltativa è computato nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alla tredicesima mensilità e alla gratifica natalizia. Il diritto all’astensione facoltativa spetta anche per le adozioni e gli affidamenti e può essere fruito entro otto anni dall’ingresso del minore nel nucleo familiare Il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, con la Circolare n. 15 del 12 maggio 2009, ha riconosciuto il diritto del padre lavoratore ad usufruire, durante il primo anno di vita del bambino, dei congedi di cui all’art. 40 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001 n. 151 (riposi giornalieri), anche nei casi in cui l’altro genitore svolga attività di lavoro casalingo Il trattamento economico dei congedi parentali I periodi di assenza obbligatoria e, in parte, quelli di assenza facoltativa, sono coperti da un trattamento economico di carattere sociale, gestito dall’INPS. I genitori che usufruiscono dell’astensione obbligatoria hanno diritto ad un’indennità pari all’80% della retribuzione per il periodo di astensione obbligatoria. Tale indennità è dovuta anche tra il quarto e il settimo mese di gravidanza alla lavoratrice che sia addetta a mansioni vietate,la quale non potendo essere spostata ad altre mansioni, sia costretta ad assentarsi su disposizione dell’Ispettorato del lavoro (si veda Corte Cost., 972/1988).Durante il periodo di astensione facoltativa, spetta al genitore un’indennità giornaliera pari al 30% della retribuzione, fino al terzo anno di vita del bambino, per un periodo massimo di sei mesi per i due genitori complessivamente. Oltre i sei mesi e dal terzo all’ottavo anno di vita del bambino l’indennità spetta solo nel caso in cui il reddito individuale dell’interessato sia inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria. L’astensione facoltativa costituisce, inoltre, una nuova ipotesi che fa nascere il diritto all’anticipazione del trattamento di fine rapporto. L’accredito della contribuzione figurativa viene effettuato dall’Inps su richiesta della lavoratrice. Anche se la madre partorisce in un periodo in cui non presta alcuna attività lavorativa, può, con una apposita domanda all’Inps, chiedere l’accredito della contribuzione figurativa del periodo corrispondente al congedo di maternità (due mesi prima e tre mesi dopo il parto). In questo caso l’accredito viene riconosciuto a condizione che, al momento della domanda, l’interessata possa far valere almeno cinque anni di contribuzione. È inoltre possibile il riscatto, cioè il pagamento in proprio dei contributi, anche del periodo corrispondente al congedo parentale. Diritto al rientro e alla conservazione del posto Al termine del periodo di astensione obbligatoria, la lavoratrice ha il diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinunci, di rientrare nella stessa unità produttiva ove era impiegata all’inizio del periodo di gravidanza, o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino. Ha altresì diritto di essere adibita alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti. I riposi giornalieri Il datore di lavoro deve consentire alla lavoratrice madre due periodi di riposo durante il primo anno di vita del bambino, anche cumulabili durante la giornata. I periodi di riposo giornaliero hanno dunque la durata di un’ora ciascuno (in totale due ore al giorno), se l’orario di lavoro è pari o superiore alle sei ore giornaliere. Se l’orario di lavoro è inferiore alle sei ore giornaliere, la lavoratrice madre avrà diritto ad un solo periodo di riposo della durata di un’ora al giorno. Qualora la lavoratrice possa avvalersi di strutture aziendali quali asili nido o altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa, i suddetti periodi avranno la durata di mezz’ora ciascuno. Congedi per malattia del figlio Entrambi i genitori possono fruire di assenze della durata delle malattie del bambino durante i primi tre anni di vita dello stesso, previa presentazione del certificato medico; se, invece, il bambino ha un’età compresa tra i tre e gli otto anni ciascun genitore ha diritto ad astenersi dal lavoro senza retribuzione per un massimo di cinque giorni lavorativi all’anno. Il congedo parentale viene pagato dal datore di lavoro, il quale lo anticipa per conto dell’Inps e lo conguaglia con il versamento dei contributi. Per le seguenti categorie di lavoratori, invece, il pagamento viene effettuato direttamente dall’Inps: 1. operai agricoli a tempo determinato; 2. operai agricoli a tempo indeterminato; 3. lavoratori dello spettacolo a tempo determinato o a prestazione; 4. lavoratori a tempo determinato per lavori stagionali, nel caso in cui il contratto non preveda la liquidazione a cura del datore di lavoro; 5. lavoratrici autonome (i lavoratori autonomi non ne hanno diritto). Divieto di licenziamento Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento un anno di età del bambino, ai sensi dell’art. 54 D.Lgs. 151/2001. Il divieto è connesso con lo stato oggettivo di gravidanza, senza che si tenga conto della conoscenza da parte del datore della stato della lavoratrice, essendo sufficiente l’esibizione di idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza all’epoca del licenziamento delle condizioni che lo vietavano. Il licenziamento effettuato in connessione con lo stato di oggettiva gravidanza e puerperio è da considerarsi nullo, con la conseguenza che la lavoratrice avrà diritto al ripristino del rapporto di lavoro mediante. È altresì nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino. Il divieto di licenziamento si applica anche al padre lavoratore, in caso di fruizione del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso, e si estende sino al compimento di un anno di età del bambino. Il divieto di licenziamento di cui all’art. 54 D.Lgs. 151/2001 si applica altresì in caso di adozione e di affidamento, sino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare, in caso di fruizione del congedo di maternità e di paternità.Il divieto di licenziamento non si applica nel caso: 1. di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; 2. di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta; 3. di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine 4. di esito negativo della prova, facendo salvo il divieto di discriminazione di cui all’art. 4 Legge n. 125/1991. Durante il periodo in cui opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salva che sia sospesa l’attività dell’azienda o del reparto cui essa è addetta, né può essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo, salvo che sia avvenuto per cessazione dell’attività dell’azienda. Dimissioni Nel caso in cui la lavoratrice madre manifesti la volontà di presentare le dimissioni, la volontarietà e la spontaneità di tale atto entro il primo anno di vita del bambino devono essere valutate dalla Direzione provinciale del lavoro, ai fini della loro convalida, tramite un colloquio diretto con la lavoratrice stessa. In caso di mancato accertamento della volontarietà tramite convalida si determina la nullità delle dimissioni anche a prescindere dalla conoscenza dello stato di maternità da parte del datore di lavoro. Anche nel caso di dimissioni, la legge interviene a tutelare la lavoratrice riconoscendole l’indennità di maternità nel periodo che va dall’inizio della gestazione fino al compimento di un anno di vita del bambino (ovvero, in caso di adozione, fino ad un anno dall’ingresso del minore in famiglia) Sicurezza delle lavoratrici madri Nonostante la ricezione della normativa europea in materia di tutela della salute sul luogo di lavoro, la mancata applicazione e osservanza di alcuni suoi principi, ha determinato in questi ultimi anni la permanenza di un alto numero di incidenti, anche fatali, sul lavoro (1260 morti bianche nel 2007, secondo le recenti stime dell’INAIL), anche se in graduale riduzione rispetto agli anni precedenti. In modo particolare i clamori seguiti agli incidenti mortali degli ultimi mesi del 2007 (tra cui l’incidente alla Thyssen-Krupp di Torino, nella notte tra il 6 e 7 dicembre) hanno determinato l’accelerazione del governo nelle fasi di stesura e approvazione di un nuovo Testo Unico in materia di salute e sicurezza dei lavoratori (D.Lgs. 81/08), il cui valore è attualmente in discussione da parte del mondo sociale e scientifico italiano. Da parecchi anni, a seguito delle novità introdotte dal D.Lgs.. 626/94, alcune iniziative importanti per la tutela della salute della lavoratrice madre ricadono direttamente sotto l’autonoma responsabilità del Datore di Lavoro. La recente entrata in vigore del D.Lgs 81/’08, con quanto indicato all’art 28, ribadisce ulteriormente l’autonomia e la responsabilità del DdL anche in tema di valutazione del rischio finalizzato alla tutela delle lavoratrici in stato di gravidanza. Sicurezza sul lavoro, donne, stress, discriminazioni: c’è un denominatore comune. Ad evidenziarlo è la nuova normativa sulla sicurezza, ancora in itinere. Il Testo Unico 81/2008 , all’articolo 28 va oltre la concezione tradizionale della tutela del lavoro femminile circoscritta alla gravidanza e introduce, per la prima volta anche i pericoli connessi al genere come materia da considerare per la valutazione del rischio. Sono situazioni legate sia allo stress da lavoro correlato, ma il rischio è anche rapportato alle differenze tra uomini e donne. Un esempio: l’esposizione a possibili danni fisici e chimici. E le molestie sessuali, il mobbing, la disparità di trattamento non colpiscono i lavoratori dei due sessi allo stesso modo e con la stessa incidenza. Chiaro e veloce è il percorso per una corretta applicazione della norma secondo la logica di praticità e semplificazione. Qui di seguito cercheremo di schematizzare una sequenza che dovrebbe consentire di organizzare un Sistema di Gestione del Rischio per Lavoratrici Gravide aderente a tutto quanto richiede l’art 28 del D.Leg.vo 81/’08 e corrispondente alle caratteristiche di semplicità e praticità . Ma attenzione la particolarità dei rischi per la salute durante la gravidanza e il puerperio richiede che il DdL per questa Valutazione si avvalga sempre della professionalità del MC (vedi art. 29 comma 1) coinvolgendolo e responsabilizzando nella analisi dei rischi di tutti i posti di lavoro in cui è occupato personale femminile. Si tratta ora di arrivare ad alcuni orientamenti operativi e farne pratica, recependo l’attuale orientamento europeo e internazionale. La strategia comunitaria per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro nel programma 2002/2007 ha iniziato ad introdurre il tema della differenza di genere come strategico, con azioni mirate alla progettazione dei luoghi di lavoro,dell’organizzazione. Questo orientamento è stato confermato con il Piano Strategico 2007/2012. Ci sono direttive comunitarie sviluppate dalla Commissione e dal Parlamento Europeo e dall’Agenzia Europea per la sicurezza e salute sul lavoro. Ne parlano anche le recenti risoluzioni della Conferenza Oil dedicata alle politiche di pari opportunità. Infine, il recente “Advisory Committee on equal opportunities for women and men” della Commissione Lavoro della UE nella soluzione finale ha impegnato gli Stati membri, tra le priorità individuate per le politiche di pari opportunità, ad applicare gli strumenti di sicurezza e benessere lavorativo, con particolare riferimento al dialogo sociale e alla condivisione della strategie adottate tra attori territoriali, soprattutto per prevenire il danno. I rischi connessi alla differenza di genere identifica le caratteristiche comportamentali, fisiologiche,strutturali maschili e femminili nel loro impatto dinamico sull’organizzazione dell’attività lavorativa. Nel TU il legislatore sottolinea il genere sia per i rischi già noti e censiti ( chimici,biologici,fisici,ergonomici) che verso i rischi emergenti di carattere fortemente organizzativo e psicosociale, che si possono prevenire. Inoltre, le differenze di genere possono essere fonte di pratiche discriminatorie nei confronti delle donne. Qui naturalmente si individua la particolare sensibilità delle Consigliere di parità che, in collaborazione con gli ispettori del lavoro, devono promuovere azioni di prevenzione delle discriminazioni e vigilanza degli adempimenti previsti dalla norma e come ultima scelta andare in giudizio.Nel pesare l’entità dei rischi presenti nei luoghi di lavoro con l’obiettivo di salvaguardare una situazione particolarmente delicata come la gravidanza ed il periodo post parto-allattamento è necessario ricorre a l’uso di criteri di massima cautela. In particolare si segnala al DdL, al RSPP e al MC che per la valutazione di questo rischio in molti casi si devono utilizzare standard più restrittivi di quelli usati per valutare l’entità del rischio per gli altri Lavoratori. Per esempio, durante la gravidanza (in particolare nei primi mesi) può essere rischiosa l’esposizione a sostanza chimiche anche se sono in concentrazione che è stata valutata ….irrilevante per la salute secondo quanto previsto dall’art 224 comma 2 del D.Leg.vo 81/08. In modo analogo è opportuno comportarsi per valutare rischio da Movimentazione Manuale dei Carichi(MMC), da posture (stazione eretta prolungata), uso di macchine mosse a pedale,ecc. Sarà importante considerare e valutare in modo distinto il rischio durante la gravidanza e quello successivo, durante il periodo di post-parto-allattamento. In sintesi il DdL per predisporre la sezione del Documento di valutazione dei Rischi(DVR) relativo alle lavoratrici Gravide può procedere in questo modo: Il via preliminare il DdL insieme al RSPP dovrà avere definito, almeno in linea generale, la struttura generale ed il contenuto di massima del DVR dell’Azienda, indicando quali sono i rischi principali presenti suddivisi in rischi di infortunio e rischi per la salute. In questo lavoro sono contenute le indicazioni generali per la Valutazione dei rischi per la salute, ma è opportuno segnalare che nella ricognizione delle mansioni che comportano rischio per le lavoratrice gravide occorre tenere in debito conto anche di alcuni rischi infortunistici: p.e. mansioni che richiedono l’uso di scale portatili, mansioni che espongono a rischio di investimento da veicoli per i trasporti interni, ecc. Secondo la nostra esperienza i rischi per la gravidanza più diffusi sono: la prolungata stazione eretta, la MMC ,l’esposizione a sostanze chimiche, il rischio di esposizione ad agenti biologici. Si segnala l’opportunità di considerare anche la valutazione dello stress lavoro correlato, una la novità del DL 81 art. 28 : in alcuni settori particolari potrebbe essere importante valutarne il rischio per la gravidanza. Per indicazioni operative specifiche sulle mansioni i possibili rischi connessi e le relative azioni di prevenzione si può consultare la tavola allegata.Dopo avere individuati le mansioni e i relativi rischi, il DdL in collaborazione con il RSPP e con il MC dovrà valutare, pesare le caratteristiche di tutti i rischi presenti con criteri ancora più specifici. Quindi tutti i rischi saranno registrati indicandone la suddivisione in a- rischi ben noti b- rischi che hanno necessità di analisi di approfondimento A questo punto, DdL RSPP e MC,esamineranno ciascun rischio, e ,nel caso vi siano esposte delle lavoratrici, provvederanno a classificarli anche come : a- rischi ben noti per gravidanza a1 rischi ben noti per gravidanza e per post- parto- allattamento b- rischi che hanno necessità di analisi di approfondimento per gravidanza b1- rischi che hanno necessità di analisi di approfondimento per gravidanza e post- partoallattamento Nel caso di rilevazione di rischi per la gravidanza e per post- parto- allattamento che hanno necessità di analisi di approfondimento, bisognerà concludere con urgenza le verifiche necessarie per accertare o escludere il rischio per le Lavoratrici Gravide. Completata questa fase sarà facile definire il documento di valutazione del rischio ex art. 28 con l’analisi e l’identificazione delle operazioni incompatibili per la gravidanza indicando per ognuna di tali mansioni a rischio le misure di prevenzione e protezione che si intendono adottare nel caso di gravidanza: • spostamento della lavoratrice ad altra mansione non a rischio; • modifica delle condizioni di lavoro o del posto di lavoro: ad esempio l’orario di lavoro; prevedendo l’ esenzione dall’uso di particolari macchine o attrezzature (Scale portatili), mettendo a disposizione un sedile per alternare stazione eretta a seduta, ecc. • invio della richiesta dell’interdizione anticipata dal lavoro agli Enti Competenti. A questo punto sarà importante che il DdL provveda ad informare tutte le lavoratrici di questa valutazione dei rischi e dell’importanza di segnalare tempestivamente al DdL l’inizio di una gravidanza. Il DdL quando avrà completate le verifiche di cui ai punti precedenti potrà disporre di una precisa individuazione dei rischi per la gravidanza presenti in tutte le mansioni in cui è impiegato personale femminile. Parimenti sarà disponibile l’elenco delle mansioni non a rischio alle quali potrà trasferire le lavoratrici quando iniziano una gravidanza. ( vedi ALL 1) ALL 1. Tabella indicativa delle mansioni e rischi collegati La tabella vuole essere un’utile guida per il Datore di Lavoro che è tenuto a valutare i rischi per le lavoratrici al momento dell’inizio della gravidanza e poi dopo il parto. Per facilitare questo compito di valutazione dei rischi e di adozione dei provvedimenti conseguenti , si sono presi in esame i fattori di rischio per la gravidanza e per il post parto che più frequentemente giungono alla nostra attenzione. Ricordiamo ancora che il Datore del Lavoro è il soggetto individuato dalla norma come responsabile della valutazione dei rischi, che questa deve essere eseguita in collaborazione con il Medico Competente e il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione. Come si può vedere, in molti settori lavorativi è facile sovrapporre la mansione della lavoratrice ad una di quelle individuate dal legislatore come a rischio per la gravidanza e per il post parto (vedi gli allegati al D.Lgs 151/2001). In altri casi la valutazione non è così automatica e bisogna quindi procedere per analogia di rischio, cercando di interpretare le normative vigenti avendo come obiettivo la massima tutela della lavoratrice e del neonato. L’elenco delle mansioni e situazioni lavorative da noi prese in considerazione non è esaustivo, vuole essere un esempio di come procedere nell’analisi dei rischi nelle realtà produttive. Misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti, puerpere ed in periodo di allattamento L’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere ed in periodo di allattamento-, si inserisce a completamento delle norme già presenti nel nostro ordinamento, disposte a tutela delle lavoratrici madri e a sostegno della maternità e della paternità, eliminando quella penalizzazione attualmente a carico di tutte quelle lavoratrici adibite ad attività lavorative pericolose per se e per il nascituro.Questa proposta di legge, inoltre, dà piena attuazione alla direttiva R191 Maternity protection Recommendation 2000 dell’OIL ( Inernational Labour Organization) ovvero OIT ( Organisation Internazionale du Travail), che individua specifici rischi lavorativi per la donna durante la gravidanza, sanando quella carenza legislativa, che è stata fra l’altro più volte fonte di richiamo proprio da parte degli stessi organismi internazionali. La tutela della funzione riproduttiva, della gravidanza e del prodotto del concepimento presenta molteplici aspetti non solo sanitari ma anche di ordine: giuridico, sociale, bioetico, ed economico. L’importanza di questa tutela è sancita dai principi giuridici dell’ordinamento sammarinese, Dichiarazione dei Diritti dei Cittadini e dei Principi Fondamentali dell’Ordinamento Sammarinese, Legge N° 59 del 8 Luglio 1974 che all’articolo 12, comma 2 recita “ogni madre ha diritto all’assistenza e alla protezione della comunità”. Questo diritto all’assistenza e alla protezione raggiunge la sua massima espressione nella tutela della donna durante il periodo della gravidanza, dove è necessario predisporre un’attenta azione di salvaguardia per la salute sia della madre che del nascituro. Il binomio madre-nascituro è inscindibile ai fini della tutela delle lavoratrici madri. Non si può parlare solo di tutela della salute del feto, ma di tutela della salute riproduttiva che va dal pre-concepimento, al concepimento vero e proprio, al post concepimento. Nella normativa sammarinese pur essendo presenti sufficienti garanzie sia: occupazionali, contributive, retributive, di salvaguardia del posto di lavoro, è assente una specifica legislazione che imponga obblighi di tutela della salute delle lavoratrici madri adibite a lavori pericolosi per se e/o per il nascituro. Si pone quindi il superamento di questo vuoto legislativo, disponendo uno specifico disegno di legge sulla base dei principi riconosciuti a livello internazionale, alla luce anche della filosofia di tutela dei lavoratori presente nella Legge N°31 del 18 Febbraio 1998. Fermi restando i divieti già previsti per legge, va garantita la salute delle lavoratrici madri, là dove le condizioni di lavoro o di rischio possono essere potenzialmente pericolose per la salute della lavoratrice-madre- e del nascituro. Il completamento della normativa si rende quindi necessario per sanare quel processo di discriminazione in cui si trovano attualmente tutte quelle lavoratrici che svolgendo un’attività lavorativa, che può comportare un rischio per la gestazione e per il nascituro, sono costrette, non per causa loro, all’astensione dal lavoro ricorrendo impropriamente all’utilizzo dei disposti relativi alla certificazione di malattia. La gravidanza non può essere considerata una malattia, ma un momento particolare della vita che per le sue specifiche caratteristiche necessita comunque di una protezione della salute e della sicurezza delle gestanti. Molte donne lavorano durante la gravidanza e molte ritornano a lavorare quando ancora stanno allattando. Alcuni fattori di rischio presenti sul posto di lavoro possono influire sulla salute e la sicurezza delle madri e di quelle che stanno per diventarlo come anche sui loro bambini. Durante la gravidanza la donna va incontro a notevoli cambiamenti d’ordine fisiologico e psicologico, aumentando la suscettibilità che può comportare complicazioni e produrre aborti. Su questa base sarà fondamentale ricercare la valutazione delle attività che comportano un rischio o possono arrecare lesioni o danni a carico della gestante o del nascituro. A tal proposito merita ricordare che determinate condizioni di lavoro accettabili in uno stato normale potrebbero non essere considerate accettabili durante la gravidanza, pertanto: • considerando che talune attività possono comportare un rischio specifico di esposizione, delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento ad agenti, a processi o a condizioni di lavoro pericolosi, è necessario che questi rischi siano adeguatamente valutati e il risultato di questa valutazione dovrà essere comunicato alle lavoratrici ed ai loro rappresentanti, • considerando che qualora da detta valutazione risultasse un rischio per la sicurezza e salute delle lavoratrici in gravidanza occorrerà prevedere specifici dispositivi per la loro protezione, • partendo dal principio che le lavoratrici gestanti o in periodo di allattamento non devono assolutamente svolgere attività la cui valutazione abbia rilevato un rischio di esposizione, a taluni agenti o condizioni di lavoro particolarmente pericolosi, che possono mettere in pericolo la sicurezza e la salute della lavoratrice madre, • considerando la vulnerabilità delle donne gestanti, puerpere ed in allattamento, si rende necessario definire uno specifico procedimento per il riconoscimento di un diritto di congedo di maternità legata alla tutela della salute delle lavoratrici in considerazione della pericolosità dell’attività svolta. La proposta di legge prevede che la lavoratrice, una volta accertato lo stato gravido, comunica al più presto il suo stato al datore di lavoro. Sulla base di una specifica valutazione del rischio, supportata dalla certificazione del Medico del Lavoro, sarà definita la compatibilità/incompatbilità al lavoro svolto. Qualora il lavoro effettuato sia riconosciuto pericoloso o a rischio per la lavoratrice in gravidanza o per il nascituro il datore di lavoro adotta tutte le procedure affinché la lavoratrice sia adibita ad un lavoro adeguato. Se l’assegnazione ad altre mansioni non è tecnicamente e/o oggettivamente possibile o non può essere ragionevolmente applicata per motivi debitamente giustificati la lavoratrice in questione è dispensata dal lavoro durante tutto il periodo della gravidanza. Tale dispensa è certificata dal Responsabile dell’Unità Organizzativa di Medicina Legale e Fiscale. Al fine di corrispondere la stessa opportunità a tutte le lavoratrici madri, l’astensione dal lavoro sarà riconosciuta per tutto il periodo della gravidanza e per i quattro mesi successivi al parto. La proposta di legge prevede, nell’articolo 7 “oneri derivanti” l’istituzione di uno specifico fondo a cui accedere per coprire i costi dell’astensione dal lavoro delle lavoratrici evitando così di utilizzare impropriamente, come avviene oggi, i fondi delle indennità economiche temporanee. Inoltre al fine di non penalizzare le aziende si prevede la possibilità per le aziende di assumere temporaneamente un altro lavoratore, in sostituzione della lavoratrice a cui è stata riconosciuta l’astensione dal lavoro, predisponendo a favore dell’azienda una agevolazione contributiva. Si è ritenuto necessario, anche in considerazione del nuovo atto organizzativo dell’ISS, aggiornare le modalità procedurali che riguardano la facoltà della lavoratrice di voler utilizzare la possibilità di astenersi dal lavoro a partire dal 30° giorno precedente la data presunta del parto è stata disposta l’opportuna modifica del secondo comma dell’articolo 1 della legge 29 ottobre 2003 N°137, e del primo comma dell’articolo 2 della legge 29 ottobre 2003 N°137. Riferimenti normativi internazionali Per quanto concerne il quadro normativo di riferimento a livello europeo si richiama quanto segue: • la parità fra uomini e donne è un principio giuridico universale riconosciuto da vari testi internazionali sui diritti umani, tra i quali la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione della donna, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1979; • Trattato di Maastricht (1993) art. 119 sul principio di parità di retribuzione; • la parità è un principio fondamentale anche dell’Unione Europea. Dall’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam del 1° maggio 1999, la parità tra gli uomini e le donne e l’eliminazione delle ineguaglianze tra le une e gli altri è un obiettivo che deve essere perseguito da tutte le politiche e le azioni dell’Unione e dei suoi membri. Tale principio ha assunto, nel corso del tempo, un sempre maggior rilievo nel diritto comunitario, fino a diventarne uno dei principi cardine della Comunità Europea (attuali articoli 3, 13, 137 e 141 del Trattato istitutivo della Comunità Europea); • Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Nizza 2000) (2000/C 364/01) art. 21 sul divieto di discriminazione, art. 23 sulla parità tra uomini e donne, art.33 sulla conciliazione fra vita familiare e vita professionale; • il Consiglio europeo straordinario di Lisbona (marzo 2000), titolato “Verso un’Europa dell’innovazione e della conoscenza”, ha ribadito la priorità della promozione della parità fra uomo e donna; • Carta europea per l’uguaglianza di donne e uomini nella vita locale e regionale invita gli enti territoriali a utilizzare i loro poteri a favore di una maggiore uguaglianza delle donne e degli uomini a livello locale: gli enti locali e regionali d’Europa sono invitati a firmarla, a prendere pubblicamente posizione sul principio dell’uguaglianza fra donne e uomini e ad attuare, sul proprio territorio, gli impegni definiti nella Carta. Per assicurare la messa in atto degli impegni, ogni firmatario deve redigere un Piano d’azione per l’uguaglianza che fissi le priorità, le azioni e le risorse necessarie alla sua realizzazione. La Carta è stata redatta nell’ambito del progetto (2005-2006) realizzato dal Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa in collaborazione con numerosi partners; • Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni “Una tabella di marcia per la parità fra le donne e gli uomini 2006-2010” SEC(2006) 275 distingue sei punti principali da realizzare entro il 2010: un pari livello di indipendenza economica per donne e uomini; la conciliazione della vita professionale e privata; un’eguale rappresentanza nei processi decisionali; l’eliminazione della visione stereotipata del femminile; la promozione delle pari opportunità oltre i confini dell’Unione europea. Il controllo sull’effettiva realizzazione di tali obiettivi all’interno dei singoli Stati membri spetterà alla Commissione attraverso il coinvolgimento diretto dei ministri per le pari opportunità in incontri programmatici e valutativi; • la proclamazione dell’anno 2007 quale Anno europeo delle pari opportunità per tutti vuole essere una nuova grande occasione di confronto, di iniziativa, di crescita per le politiche di genere e soprattutto per le donne. La Commissione inaugurerà i nuovi indicatori delle pari opportunità, che saranno individuati in base alle dodici aree critiche contenute nel documento della Piattaforma di Pechino; • la nuova programmazione 2007-2013 evidenzia come la nuova strategia europea continui a riservare ampio spazio e rilievo alle politiche di genere. L’articolo 14 del Regolamento generale sui Fondi Strutturali per il periodo di programmazione 2007-2013 — Uguaglianza fra uomini e donne — riafferma l’impegno che gli Stati membri e la Commissione devono assumere per assicurare l’uguaglianza fra uomini e donne e l’integrazione della prospettiva di genere durante i vari stadi di implementazione finanziaria. Misure a favore delle donne, percorrono trasversalmente quasi tutte le azioni previste anche dal Fondo sociale europeo; • il Programma comunitario per l’occupazione e la solidarietà - Progress (2007-2013), si prefigge di fornire un aiuto finanziario all’attuazione degli obiettivi dell’Unione europea nel settore dell’occupazione e degli affari sociali: contribuisce, pertanto, alla realizzazione degli obiettivi della strategia di Lisbona. Uno dei cinque macro-obiettivi del programma sarà l’uguaglianza fra donne e uomini; • un ulteriore sviluppo di tali linee di indirizzo si ritrova nei documenti di preparazione al prossimo periodo di programmazione comunitaria (2007-2013). Il Terzo Rapporto di Coesione indica come “l’impegno dell’Unione in favore della parità tra uomini e donne debba tradursi in un approccio di mainstreaming completo che assicuri che tutte le politiche tengano conto del loro impatto in termini di genere in fase di pianificazione ed attuazione” e, conseguentemente, conferma la necessità di assicurare l’integrazione delle azioni a favore delle pari opportunità tra uomini e donne nei programmi nazionali e regionali e la definizione di modalità di valutazione dell’impatto in un’ottica di genere. • Direttiva 79/7/CEE del Consiglio del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale • Direttiva 86/613/CEE del Consiglio dell’11 dicembre 1986, concernente l’applicazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, ivi comprese le attività nel settore agricolo, e relativa altresì alla tutela della maternità • Direttiva 92/85/CEE del Consiglio del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento • Direttiva 96/34/CE del Consiglio del 3 giugno 1996, concernente l’accordo quadro sul congedo parentale concluso dal UNICE, dal CEEP e dalla CES • Direttiva 97/81/CEE del Consiglio del 15 dicembre 1997, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES • Direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica • Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro • Direttiva 2004/113/CE del Consiglio del 13 dicembre 2004, che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura • Direttiva n. 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (pubblicata nella G.U.U.E. del 26 luglio 2006 n L. 204) — riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione. Questa direttiva ha lo scopo di semplificare, modernizzare e migliorare la normativa comunitaria in materia di parità di trattamento fra donne e uomini in materia di occupazione e di lavoro, riunendo in un unico documento i punti pertinenti delle precedenti direttive sullo stesso tema, in maniera di rendere la normativa più chiara e accessibile ai cittadini. La direttiva aggiorna inoltre la legislazione alla luce della giurisprudenza della corte europea di Giustizia Levato Dott.ssa Francesca