Un popolo di insegnanti, poeti e formatori Basta con i luoghi comuni sui sistemi educativi e la formazione professionale. Per favore! Gilberto Collinassi Il capro espiatorio In un recente convegno cui partecipavano esponenti politici regionali e provinciali, funzionari dell’amministrazione regionale, rappresentanti delle categorie imprenditoriali e dei lavoratori -‐ mentre venivano introdotti, illustrati o commentati i risultati di una ricerca sui fabbisogni formativi delle imprese del territorio-‐ ho avuto l’occasione di ascoltare per l’ennesima volta una quantità di frasi fatte e luoghi comuni sul tema della formazione professionale e del sistema scolastico. Questo profluvio di banalità, costantemente riproposto in ogni incontro in cui si parli di sistemi formativi e del mondo del lavoro, è impressionante per la quantità, avvilente per la povertà del contributo fornito, stupefacente per la trasversalità rispetto agli interlocutori che l’adottano, privo di reale riscontro con dati oggettivi se ci riferiamo alla nostra regione. Purtroppo ci troviamo di fronte a due fenomeni tipici: -‐ non so se sia vero che nel nostro paese tutti sono poeti, di sicuro tutti si pensano competenti in materia di insegnamento e in grado di suggerire soluzioni per risolvere i problemi che affliggono il nostro sistema educativo/formativo (chi non è mai stato a scuola? chi non ha un figlio o un parente che la frequenta? chi non ha mai partecipato ad un corso? ... tutti si sentono in grado di dare giudizi in merito); -‐ la storia ci insegna che nei momenti di crisi sociale, culturale, economica, quando le situazioni problematiche sono complesse e per esse non sono prospettabili soluzioni a breve o medio termine, sempre si cerca con funzione catarchica un capro espiatorio. Un soggetto, reale o immaginario, su cui scaricare la responsabilità dei guai o dell’incapacità di trovare soluzioni per risolverli. Pare che i politici della maggioranza così come quelli dell’opposizione, i rappresentanti dei lavoratori e quelli delle associazioni di categoria –insomma tutto l’arco della rappresentanza istituzionale e sociale-‐ siano afflitti da entrambe le patologie. E pare che, per quanto attiene al capro espiatorio, ne abbiano –finalmente-‐ trovato uno adatto alla crisi occupazionale ed economica che caratterizza questo momento storico: la scuola e la formazione professionale. Si attribuiscono infatti ai due sistemi responsabilità pesanti relativamente all’effettivo livello di “occupabilità” offerto dai percorsi formativi che realizzano (intesa -‐in modo riduttivo-‐ come capacità di un disoccupato di trovare subito un nuovo lavoro), in particolare per quelli mirati ad affrontare la crisi occupazionale attuale. Si invocano di conseguenza processi di rinnovamento delle strutture scolastiche e della formazione, l’innovazione delle metodologie e tipologie formative, un contatto più stretto con il mondo del lavoro, un coinvolgimento maggiore e diretto delle imprese quali soggetti formativi. Temi questi tutti sacrosanti, sui quali il mondo dell’istruzione e della formazione professionale di questa regione sono impegnati e stanno intervenendo da anni, pur in presenza di una legislazione vecchia di decenni (come la legge regionale 76/1982 sulla formazione professionale regionale) oppure in continuo stato di cambiamento (come la riforma della scuola, che procede a strattoni dal 2001 con l’intervento scoordinato di ben quattro ministri : Berlinguer, Moratti, Fioroni e Gelmini), di reiterati tagli agli investimenti, della scarsa attenzione delle parti sociali, della strumentalizzazione che sempre la politica aggancia a queste tematiche. Le prospettive per un sistema che permetta la formazione organica e integrata per l’intero arco della vita dei cittadini di questo paese non sono quindi molto incoraggianti, nonostante la buona volontà di molti soggetti. Ma il capro espiatorio ce l’abbiamo, quindi possiamo stare tranquilli. Non ci sono più le stagioni di una volta! Chi di Voi non ha sentito pronunciare negli ultimi 20 (venti!) anni in ogni convegno, tavola rotonda, meeting, brain-‐storming, focus group sul lavoro, sulla formazione, sulla scuola, sulle crisi occupazionali, sui fabbisogni formativi almeno una decina di queste affermazioni, alzi la mano! Chi di Voi non ha avuto occasione di leggere simili frasi su articoli di giornali e riviste, nei rapporti di ricerca, nei documenti di programmazione regionale, nazionale ed europea, nelle interviste rilasciate da autorevoli rappresentanti delle associazioni di categoria e dei lavoratori, faccia un passo indietro! A beneficio di costoro, propongo una breve summa dei più usuali -‐beceri, triti e ritriti, ormai patetici e insopportabili-‐ luoghi comuni cui innumerevoli relatori ed esperti, ma soprattutto i politici, ricorrono quando parlano dei problemi della scuola, della formazione professionale, del mondo del lavoro e del legame che intercorre fra questi soggetti: Il sistema educativo di istruzione e formazione è autoreferenziale I giovani escono dalla scuola impreparati Non si formano i profili richiesti dal mercato ma quelli voluti dalle scuole Non si fa formazione sulle tecnologie più aggiornate in uso nelle imprese I corsi sono sempre sproporzionati in durata rispetto al fabbisogno reale Le attività formative producono scarsi risultati occupazionali Gli insegnanti lavorano poco e non sono aggiornati Non c’è competizione fra scuole e università La formazione non soddisfa i fabbisogni del territorio La formazione è lontana dalle imprese Le figure professionali/competenze sono specifiche del territorio Gli imprenditori hanno bisogno di formazione manageriale Lingue e informatica non servono, meglio corsi su saperi professionali Programmazione formativa è asincrona rispetto a fabbisogni imprese La formazione costa troppo rispetto ai risultati che offre Gli Enti di formazione si arricchiscono con i soldi pubblici Non si fa analisi dei reali fabbisogni formativi delle imprese Le imprese esprimono fabbisogni solo a breve termine Scuola e formazione professionale non dialogano con le imprese Il mondo del lavoro e quello della scuola usano lingue e modelli diversi Bisogna adottare le competenze come riferimento comune Serve un sistema di certificazione delle competenze professionali C’è una scarsa attrattività delle professioni tecniche/operaie Nessuno vuole più sporcarsi le mani Nessuno vuole fare più l’operaio, muratore, idraulico, carpentiere, ecc.. Non si fa sufficiente orientamento professionale ai giovani La scuola non riesce a orientare le famiglie verso ciò che serve alle imprese Si impara veramente solo facendo Solo lavorando nell’impresa si impara davvero Bisogna integrare istruzione, formazione e lavoro Bisogna riconoscere la valenza formativa del lavoro Le tipologie formative proposte non sono più adeguate ai fabbisogni C’è bisogno di individualizzare/personalizzare i piani di studio E’ necessario riconoscere la formazione non-‐formale Ebbene, come ha scritto Umberto Eco1 riferendosi al film Casablanca, quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento cliché commuovono ... il colmo della banalità lascia intravedere un sospetto di sublime. Qualcosa ha parlato al posto del regista. Il fenomeno è degno se non altro di osservazione. Beh, ci troviamo nella medesima situazione: il fenomeno va osservato e analizzato con la massima attenzione. E’ divenuto ormai improcrastinabile per tutti coloro che di questi problemi si interessano da anni, in termini non strumentali e con la reale intenzione di trovare soluzioni, per tutti coloro che sono convinti che istruzione e formazione sono una priorità assoluta per evitare il declino del nostro paese, di interrogarsi in prima istanza sul perché risulti così difficile impostare un ragionamento serio sul tema, sganciato una volta per tutte dai luoghi comuni (e magari invertendoli2). Infatti se è vero che i luoghi comuni rappresentano spesso (ma non sempre) delle ovvie verità, e dire la verità non dovrebbe fare mai male in un paese civile mentre nel nostro -‐per dirla alla Orwell-‐ dire la verità è diventato un atto rivoluzionario, è altrettanto vero che la funzione dei luoghi comuni è prevalentemente “fàtica”3, mirata cioè a creare o/e mantenere un 1 Eco Umberto, 2003, “Dalla periferia dell'impero. Cronache da un nuovo medioevo” , Bompiani, cap. “Casablanca, o la rinascita degli dei” 2 a cura di AlFb, 2010, “Scusa lanticipo ma ho trovat tutti verdi”, ET Einaudi 3 Trupia Pietro, 2009, “Cento talleri di verità-‐Autobiografia didattica”, Angeli, pag.104 e Umberto Eco, 2010, “Una volta qui era tutta città”, Espresso on-‐line canale comunicativo positivo fra interlocutori ma non a trasmettere informazioni o fornire valore aggiunto rispetto ad un tema in discussione. Va detto inoltre che molto spesso queste frasi fatte vengono formulate utilizzando sinonimi, oppure presentando i medesimi concetti con perifrasi o parafrasi. In questi casi occorre tenere presente che due parole o frasi possono intendere la stessa cosa dicendola tuttavia in modo diverso, adottando diversi punti di vista, accenti, culture e ideologie, rappresentando quindi molteplici e differenziate “verità” di solito utili in termini strumentali, quando non demagogici, a chi le usa. Ad esempio, anche scuola e formazione adducono spesso luoghi comuni quali giustificazioni per l’inadeguatezza di servizi da loro offerti -‐inaccettabili quanto quelli citati in precedenza-‐ come argomenti di confronto per un reale miglioramento. Ne riporto anche in questo caso alcuni a titolo di esempio: I fabbisogni vengono espressi male e con tempi troppo stretti Le imprese non sono capaci di esprimere i propri fabbisogni I dati statistici non sono aggiornati e forniscono dati fuorvianti La scuola deve lavorare anche per il futuro non solo per il contingente Insegnare è sempre più difficile Manca la motivazione allo studio da parte dei giovani I genitori non collaborano con i docenti Le famiglie scaricano sulla scuola tutta la responsabilità educativa E’ difficile coinvolgere le imprese in attività di stage veramente formativi Le imprese non rispondono alle nostre sollecitazioni Contratti e regolamenti non ci permettono di lavorare bene Gli insegnanti sono sottopagati e in crisi di identità/missione I contratti impediscono interventi di valutazione/motivazione insegnanti Dobbiamo rispettare il programma, non c’è spazio per altre cose Abbiamo poco tempo a disposizione rispetto agli obiettivi da raggiungere I regolamenti europei, nazionali, regionali, provinciali sono complicati Ciascuno di noi quindi ha il proprio elenco di banalità, più o meno vere, cui fare ricorso per difendere lo status-‐quo o argomentare in termini polemici. Quel che è certo, è che non è possibile dare corso a un confronto costruttivo -e ancor meno innovativo- ragionando per, e a partire da, frasi fatte. Anzi: la cosa è assai pericolosa in quanto porta quasi sempre a conclusioni e scelte errate perché, sempre parafrasando Eco, non basta essere ignoranti per essere innocui, soprattutto se si ricoprono ruoli decisionali! Se desideriamo realmente far evolvere i sistemi educativi e formativi in termini strategici, dobbiamo abbandonare una volta per tutte la demagogia ed essere capaci di accollarci la pena della separazione da facili e comode identità. Che fare? Semplicità e assunzione di responsabilità Come ci insegna De Bono4, in termini generali bisogna tendere alla semplicità dell'estrema elaborazione; una semplicità cioè in cui l'efficacia pratica e l'essenzialità della forma siano presenti in grado elevato. Non la semplicità del vuoto ma quella della compiutezza. Solo le soluzioni semplici si dimostrano nel lungo periodo efficaci (danno dei risultati tangibili da subito e li mantengono nel tempo) ed efficienti (costano poco e quindi sono più sostenibili socialmente). Inoltre è auspicabile un maggior livello di assunzione di responsabilità politica e amministrativa nella scelta e promozione delle soluzioni che si dimostrano oggettivamente migliori di altre, superando interessi corporativi o di parte, valorizzando ciò che di buono si fa ed è stato fatto. Purtroppo sappiamo bene che l'accettazione delle responsabilità non è un compito facile per nessuno: non solo perché introduce il tormento della scelta (che comporta sempre una perdita e un guadagno), ma anche perché preannuncia la perenne preoccupazione di aver compiuto un errore5. Ciò non deve scoraggiarci nel sollecitare e promuovere la definizione di una strategia di sviluppo di medio lungo termine sorretta innanzitutto: -‐ “dal credere” nel valore di ciò che si sta facendo, in quanto consapevoli di operare per il bene per la collettività e non per il proprio; -‐ “dall’essere coerenti” in ciò che si dichiara e ciò che si fa, rinunciando a logiche spartitorie e alla difesa del particolare; -‐ “dall’essere concreti” dando seguito ad azioni che offrano reale valore aggiunto per il sistema (efficienza, efficacia, coerenza, equilibrio). Innovazione degli strumenti di analisi dei fabbisogni L’analisi dei fabbisogni formativi del mercato del lavoro e le conseguenti indicazioni di orientamento dei sistemi educativi e formativi sono il primo settore che necessita un profondo rinnovamento dei metodi e degli strumenti. Infatti se è vero che la formazione non risponde ai fabbisogni delle imprese, ciò è dovuto principalmente all’inadeguatezza degli strumenti di analisi disponibili e dalla scarsa strutturazione/collegamento delle reti di soggetti che intervengono sul territorio al riguardo (nella nostra regione la ex agenzia regionale del lavoro in primis, poi centri per l’impiego, enti bilaterali, associazioni di categoria, enti di formazione, università). 4 De Bono Edward, 1998, “Essere creativi”, Il Sole 24 Ore 5 Bauman Zygmunt, 1999, “La società dell’incertezza”, Il Mulino Oggi come oggi si stanno affrontando queste tipologie di rilevazioni ed analisi con strumenti vecchi, obsoleti, adatti ad un mondo del lavoro ed un mercato che non esistono più; con una sovrastruttura di soggetti (in particolare quelli che rappresentano imprenditori e lavoratori) spesso ridondante, che opera con logiche concorrenziali, naturalmente tesa a mantenere lo status quo in termini di regole, norme e metodi e che raramente è portatrice di reale valore aggiunto, tantomeno di innovazione. Occorre immaginare nuovi ruoli -‐e soprattutto responsabilità-‐ per coloro che vi devono contribuire, immaginare nuovi strumenti operativi di raccolta e diffusione delle informazioni, sviluppare strumenti di rilevazione ed analisi previsionale diversi dagli attuali. Scaricare la responsabilità della scarsa efficacia dell’analisi dei fabbisogni formativi sul sistema della formazione professionale oppure attribuire solo all’ente locale la capacità di affrontare seriamente ed efficacemente le problematiche occupazionali del territorio significa lavorare per cliché. Dovrebbe essere l’Agenzia Regionale per il Lavoro (ora assorbita dalla Direzione Regionale Lavoro) che dovrebbe essere motore dell’innovazione e sperimentazione metodologica, catalizzatore delle eccellenze, collante e coordinatore della rete e dei ruoli/responsabilità attribuiti ai vari soggetti, coordinando una rete che agisce in base a principi di sussidiarietà. Un simile intervento risolverebbe alla radice il problema della corrispondenza fabbisogni/proposta formativa, quello dell’auto-‐ referenzialità dei sistemi (non solo di quelli della formazione, ma anche di scuola e università e, non ultimi, di quelli della rappresentanza delle parti sociali!) per gli aspetti sui quali questi riescono ragionevolmente a intervenire nel breve periodo (altro infatti è impattare sui trend di scelta delle famiglie e cittadini). Bisogna quindi investire nello sviluppo e nella sperimentazione di nuovi metodi per l'analisi del fabbisogno e la sua trasformaizone in feed back verso i sistemi educativi e formativi, evitando di reinventare la ruota e cominciando con l'identificazione e il trasferimento -‐se ci sono-‐ delle esperienze di successo realizzate in altre regioni o paesi europei al riguardo. Politiche di orientamento e politiche attive del lavoro Manca nel paese6, ma anche nella nostra regione, una rete orientativo/informativa integrata per il Life Long Learning in grado di facilitare la transizione dalla scuola al lavoro (e viceversa), nonostante alcuni tentativi di costruirla ci siano stati. Molteplici soggetti intervengono in modo parcellizzato per promuovere ciascuno le proprie proposte formative o occupazionali sul territorio, senza reale coordinamento, senza una 6 Gelmini-‐Sacconi, 2009, “Italia 2020 -‐ Piano di azione per l’occupabilità dei giovani attraverso l’integrazione tra apprendimento e lavoro” strategia di comunicazione complessiva, spesso senza che queste attività trovino esplicito riconoscimento formale ed economico. L’ottica di formazione per l’intero arco della vita implica invece un approccio Life Long anche per le politiche di informazione e orientamento del cittadino, studente o lavoratore che sia. Su questo versante molto si può e deve fare, se si superano i campanilismi e gli ostacoli derivanti –anche qui-‐ dalla presunta centralità di soggetti che ormai centrali più non possono essere, per poter fornire un servizio di questo tipo non solo agli studenti ma ai cittadini tutti. E’ auspicabile che l’Agenzia Regionale dell’Orientamento prosegua senza indugi e atteggiamenti autoreferenziali la strada recentemente intrapresa di adozione di ottiche di decentramento del servizio, di differenziazione e ampliamento della rete dei soggetti attivi sul territorio a vario titolo, di garanzia di prossimità dei servizi al cittadino, di integrazione e implementazione di nuove possibilità orientative. E' necessario traslare dall'idea di orientamento scolastico e professionale a quella di politica attiva del lavoro, intesa come insieme integrato di servizi che deve combinare orientamento, placement, supporto alla disoccupazione e strategie formative in un'ottica di stretta integrazione. Anche qui, come per l'analisi del fabbisogno, è necessario investire per la ricerca e sviluppo di soluzioni integrate che valorizzino -‐integrandole-‐ le esperienze positive esistenti e sviluppino idee per nuovi servizi riferiti ai principi europei della flexicurity, di cui la formazione e l'orientamento sono solo uno degli elementi costituenti. La recente esperienza italiana della gestione dei fondi europei per il sostegno della mobilità in deroga è stata la dimostrazione lampante della povertà di pensiero e di elaborazione teorico-‐ pratica che caratterizza il nostro paese in riferimento a questo tema. Tema che é centrale per un'economia globale ed un mercato del lavoro flessibile. Anche la riforma Fornero si è dimostrata del tutto incapace di recepire elementi di innovazione che favorissero lo svilupparsi di elementi concreti a sostegno di politiche attive del lavoro che non si riducano, come al solito, a colloqui di orientamento e bilancio delle competenze o percorsi formativi di riqualificazione professionale. Sperare di risolvere queste problematiche con la sola riforma dei Centri per l'Impiego, è un cliché. Ancor più becero quello che afferma il principio che un'efficace corrispondenza fra offerta e fabbisogno, fra desiderata del cittadino e prospettive lavorative, possa essere migliorare semplicemente restringendo sempre più le aree territoriali cui i servizi vengono offerti. Riconoscimento delle competenze professionali e attribuzione di valore d’uso reale delle certificazioni Che il costrutto di competenza sia ormai stato assunto come unico possibile riferimento adottabile per favorire la trasparenza fra sistemi educativo/formativi, mondo del lavoro, cittadino è assodato. Benché ci si trovi ancora in presenza di una moltitudine di modelli e approcci che differenziano le singole regioni del nostro paese e in mancanza di un riferimento comune europeo non è più procrastinabile l’adozione da parte della nostra regione di un sistema di verifica, certificazione e riconoscimento delle competenze tecnico-professionali, anche assunte in contesti formativi non formali.7 Questo è un passaggio fondamentale e che coinvolge in modo molto stringente oltre all’amministrazione regionale, che deve confrontarsi anche con le altre reigoni, anche le imprese ed i sindacati (che purtroppo al riguardo hanno dimostrato finora ben scarsa attenzione, se si va oltre le dichiarazioni di principio “da convegno”). Infatti il valore d’uso di una certificazione di tal genere si ha solamente quando a fronte di un’attività di formazione, verifica e certificazione delle competenze professionali corrisponda poi un effettivo riconoscimento delle stesse da parte del mondo del lavoro. Ciò significa recepire all’interno dei contratti di lavoro i repertori di riferimento (possibilmente nazionali, ma almeno regionali), legare a questi standard i sistemi di programmazione delle attività formative, i sistemi di selezione del personale, i metodi di rilevazione e definire di fabbisogni formativi, i sistemi di valutazione e premianti nelle imprese, ecc.. Temi evidentemente delicatissimi e che implicano per tutti la difficile “assunzione di responsabilità” di cui si è parlato in precedenza, in quanto i modelli per competenze comportano vantaggi e svantaggi sia per le imprese che per i lavoratori e, di solito, ciascuna delle parti desidera i primi rinunciando volentieri ai secondi. Un simile sistema di certificazione offrirebbe innumerevoli vantaggi e costituirebbe un passo importante verso la soluzione della maggioranza dei problemi che i cliché ripropongono costantemente, ne ricordo solo alcuni: -‐ l’interazione efficace (trasparenza) fra imprese, sistemi dell’orientamento e sistemi educativi e formativi; 7 E' recentissimo l'accordo stato-‐regioni che sancisce la nascita del sistema di certificazione delle competenze acquisite in contesti non formali. Buona notizia mitigata, come sempre, dal fatto che la legge rinvia l'implementazione al lavoro di commissioni nazionali e al recepimento a livello regionale della norma. E come sanno tutti, le scelte che vengono effettuate normalmente a livello interregionale seguono la regola: accettare solamente ciò che non modifica il sistema regionale attivo e che ci lascia autonomia decisionale alla regione. Ciò conduce sistematicamente alla produzione di norme nazionali "frullato", che forse accontentano le amministrazioni ma che di sicuro non sono soddisfacenti per il cittadino, tantomeno se si considera cittadino europeo. -‐ -‐ una programmazione didattica modulare, snella e adattabile, che coinvolge direttamente le imprese (per la valutazione delle competenze, per l’utilizzo di laboratori e attrezzature che nessuna scuola o ente di formazione può più ormai permettersi) e know-‐how specifici; si rivaluterebbe e darebbe significato al “Libretto formativo del cittadino” ed i lavoratori vedrebbero riconosciuto sia formalmente che in termini di effettivo “valore d’uso” le competenze acquisite durante lo studio Life Long, compreso l’apprendimento in contesto non formale (mentre sarebbe meglio lasciar perdere il livello informale, almeno finchè non sono garantiti gli altri). Operare congiuntamente per perseguire questi ambiziosi obiettivi dovrebbe essere uno degli impegni prioritari per di tutti i soggetti, in particolare sindacati e imprenditori. Anche in considerazione del fatto che a livello nazionale si sta ragionando sulla possibilità di eliminare il valore legale dei titoli di studio per introdurre una cultura del merito e della qualità sostanziale. Un simile approccio comporterebbe automaticamente un profondo rinnovamento dei sistemi educativi e soprattutto in quelli della formazione professionale (competenze dei formatori, sviluppo metodologie innovative di valutazione dell’apprendimento e dell’efficacia e della qualità della formazione, sviluppo di strumenti e proposte formative flessibili, ecc.). Formare, validare, certificare e riconoscere competenze richiede però la definizione di un ruolo formativo nuovo per l’impresa, in particolare la micro-‐impresa, senza la quale l’azione formativa per competenze rischia di essere inevitabilmente monca. E’ un cliché invece pretendere che ai lavoratori possa garantire flessibilità e occupabilità la sola formazione, senza che siano presenti gli altri meccanismi necessari a sostenerla, meccanismi che sono tipicamente di competenza di altri soggetti. Un ruolo formativo (verosimile) per l’impresa E’ vero che si impara facendo, ma serve anche una prassi riflessiva che consolidi i saperi acquisiti lavorando; su tempi e modi si può discutere, ma che questo sia necessario è certo. Non per nulla la questione del riconoscimento e strutturazione dell’apprendimento non formale è una delle questioni centrali nella discussione sul apprendimento permanente in Europa. Essa si sostanzia in pratica nel problema degli standard di competenza professionale di riferimento, di cui si è già detto, e nel ruolo formativo che l’impresa può verosimilmente svolgere all’interno di un sistema sociale che le chiede anche questo. Ci riferiamo qui soprattutto all’impresa piccola e micro, non alla media e grande che già possiede al suo interno strutture di formazione formale. Sul ruolo formativo della micro impresa non si dice nulla, non esistono ricerche e si applicano ad essa i modelli che emergono dagli studi effettuati su quella di maggiori dimensioni, che sono del tutto inutili in questo diverso contesto. E’ quindi molto importante dare inizio ad un serio confronto per identificare e specificare un reale “ruolo formativo” per la PMI e la microimpresa, all’interno di un sistema di formazione Life Long che ha le competenze professionali al centro e che preveda per le aziende un coinvolgimento diretto nell’osservazione, verifica e analisi delle competenze possedute da studenti, tirocinanti e lavoratori in stretta collaborazione con i sistemi formativi, scolastici e universitari. Invocare un ruolo attivo dell’impresa perché tutti sappiamo che si impara facendo e quindi si apprende solo in azienda e solo lavorando -‐e morta lì-‐ è un cliché. Riforma dei sistemi educativi e della formazione professionale Tutti i luoghi comuni sulla scuola e sui sistemi di formazione professionale (con gli opportuni e necessari distinguo fra regione e regione che vanno tenuti presenti nel nostro paese) rappresentano delle verità vere quando si riferiscono a problemi legati alla mancanza di una riforma organica della scuola da un lato (fra tre anni dovremmo vedere i primi risultati dell’ultimo atto di un processo di riforma iniziato nel 2001 dalla Moratti e sul quale sono intervenuti, facendo e disfacendo, quattro governi) e al mancato aggiornamento della legge regionale che regola il sistema di formazione professionale locale, la n.76 che risale al 1982. Sulla scuola c’è poco da dire, se non che essa vede purtroppo una progressiva riduzione delle risorse economiche allocate cui corrisponde una pressante richiesta di evoluzione e rinnovamento, che risulta nei fatti impraticabile a causa della mancanza di risorse e nell’impossibilità di intervenire seriamente sul personale a causa degli eccessivi vincoli posti dai contratti. All’interno del sistema scolastico è impossibile effettuare una seria valutazione, selezione e composizione del corpo docente che, va detto, è comunque stato sottoposto a innumerevoli “strattoni” senza che una strategia complessiva di sviluppo e qualificazione del sistema8 venisse esplicitata e portata a compimento. Ogni riforma della scuola che non parta da un serio e credibile sistema di valutazione dei docenti e degli istituti è velleitaria e destinata solamente a complicare ulteriormente un panorama già confuso ogni oltre accettabile limite. Così come la scuola pubblica, anche il sistema della formazione professionale regionale è stato sottoposto negli ultimi anni a modificazioni radicali, della struttura delle organizzazioni, nella tipologia degli interventi, nelle modalità di finanziamento, nei rapporti con gli altri soggetti economici del territorio. Il tutto in 8 Campione-‐Ferratini-‐Ribolzi, 2005, “Tutta un’altra scuola”, Il Mulino mancanza di una nuova legge che impostasse la strategia di sviluppo di lungo periodo del sistema educativo/formativo regionale nel suo complesso. Ne deriva un sistema che si muove a vista, prigioniero di vincoli posti nei singoli avvisi e bandi di gara, nonché nei regolamenti, che sono privi di una visione strategica di sviluppo. Sulla necessità di porre rimedio a tale situazione tutti concordano ma sono anche qui presenti interessi incrociati e contradditori che, in mancanza di un obiettivo strategico, la politica non è ancora stata in grado di risolvere. E’ un cliché affermare che enti di formazione e scuola operano per mantenere lo status quo e costruiscono proposte formative auto-‐ referenziali e incoerenti con i fabbisogni del tessuto economico. Semplificazione gestionale e amministrativa Occorre trasformare lo slogan proposto a tutti i livelli di gestione dei fondi comunitari, cioè la “semplificazione delle procedure”, in prassi operativa. Ciò si può realizzare solamente partendo da un presupposto: la semplificazione va riferita all’utente non al gestore (cioè, in ordine di priorità, all’allievo e non all’ente, all’ente e non alla direzione regionale, alla regione e non al controllo di secondo livello ecc) con un ragionamento che parta sistematicamente dalla base (dal fruitore del servizio) e non dal vertice (chi fornisce il servizio) su tutta la catena del valore. Fare questo richiede una volontà politica fortissima e un coinvolgimento straordinario dei funzionari regionali e dei soggetti attuatori “per spostare l’attenzione dalle procedure ai risultati e, prima ancora, al destinatario”9. Finora la maggioranza dei processi di "semplificazione" hanno generato l'effetto contrario (vedasi non ultima la recente riforma del sistema di accreditamento degli enti di formazione). 9 Gelmini-‐Sacconi, 2009, “Italia 2020 -‐ Piano di azione per l’occupabilità dei giovani attraverso l’integrazione tra apprendimento e lavoro”, Priorità: Facilitare la transizione dalla scuola al lavoro