Le pagine che seguono sono tratte da: Armando PETRUCCI, Medioevo da leggere. Guida allo studio delle testimonianze scritte del medioevo italiano, Torino, Einaudi, 1992, pp. 5-37. I DOCUMENTI 0. Il Medioevo costituisce indubbiamente, almeno per quanto riguarda l’Italia, un’età documentaria; non tanto per la quantità di testimonianze scritte prodotte, che anzi nei suoi secoli più antichi fu scarsa, quanto piuttosto per l’importanza che la documentazione scritta, pubblica e privata, solenne o semplice, ebbe comunque e sempre nella società medievale, incline più che a fissare i fatti della vita attraverso precise coordinate cronologiche, a riconoscerli attraverso un fitto reticolato di formule, di consuetudini, di liturgie, il cui ritmo era rigidamente regolato da pochi, ma compreso e osservato da tutti. Strumento essenziale di una simile concezione e di tali pratiche era il documento scritto, del quale i ceti dirigenti della società medievale si servivano per esprimere e per comunicare non soltanto rapporti giuridici ed amministrativi, ma anche, e a volte soprattutto, credenze religiose, concetti politici, ideologie di potenza e sentimenti di pietà, con l’ausilio di formule tradizionali, di artifici retorici, di citazioni scritturali e giuridiche, di eleganze calligrafiche, di simboli grafici. Ma che cos’è un documento? Secondo una recente definizione di Alessandro Pratesi il documento è un «testo scritto che vale a comprovare il compimento di un’azione giuridica (ossia di un atto volontario destinato a creare o a confermare o ad estendere o a modificare diritti e obbligazioni) ovvero l’esistenza di un fatto giuridico (ossia di un avvenimento o di uno stato di fatto che producono conseguenze giuridiche); ma per raggiungere la prova è indispensabile che il documento obbedisca sia nelle procedure [p. 6] del suo farsi, sia nelle caratteristiche esteriori, sia nella forma del dettato a regole determinate, in grado appunto di conferirgli tale capacità certificante» (A. Pratesi, Nolo aliud instrumen- tum, in Francesco d’Assisi. Documenti e Archivi. Codici e Biblioteche. Miniature, Milano 1982, p. 11). Ogni documento, dunque, è per certi aspetti la testimonianza e/o la prova di un avvenuto accordo o fatto con conseguenze giuridiche; per altri la documentazione di una cultura, di una ideologia, di determinati rapporti di potere. 1. I documenti scritti dell’Occidente medievale possono essere distinti, da un punto di vista diplomatistico, in documenti «pubblici», «semipubblici» e «privati». Sono considerati «pubblici» i documenti emanati da una pubblica autorità sovrana (imperatore, pontefice, re, signori, se e in quanto sovrani) attraverso un ufficio particolare, la cancelleria, e redatti secondo determinate procedure e con particolari caratteristiche tendenti a conferire loro autenticità e solennità. Sono considerati «semipubblici» i documenti emanati da autorità minori laiche ed ecclesiastiche (duchi, marchesi, conti, vescovi, legati e così via) non attraverso una cancelleria vera e propria, ma con l’adozione di alcune caratteristiche di solennità. Sono considerati «privati» i documenti redatti da notai, o operatori analoghi, su richiesta di persone private e privi di ogni caratteristica di solennità. Per fare qualche esempio, è pubblico un diploma emanato a Pavia l’8 ottobre del 913, con il quale Berengario I imperatore concede alla chiesa di Santa Maria Vergine e di San Prospero di Reggio Emilia una braida detta «Prato Pauli»; ed è pubblico anche un mandato con cui il 20 luglio del 1232 Federico II ordina da Melfi al giustiziere di Terra di Giordano di intervenire a reintegrare il feudo di Santa Severina di proprietà di una Saracena che si era rivolta per ciò all’imperatore; è semipubblico un documento con cui nel novembre del 1005 Landenolfo arcivescovo di Lucera e altri concedono a Roccio abate del monastero di San Giacomo di Tremiti il permesso di costruire una chiesa in una località sul litorale garganico detta «ad Fuci [p. 7] Veterem»; e lo è anche un diploma con cui Riccardo conte di Catanzaro nel gennaio del 1201 dona al monastero di Santa Maria della Sambucina una tenuta a pascolo; è privato un documento, rogato a Lucca 31 marzo del 759 da un Teutpert, con cui Gunduino e Udulfo figli del fu Martino vendono al prete Gundualdo, al prezzo di dieci soldi d’oro, la loro casa con tutte le sue pertinenze; o l’altro documento rogato a Lucera il 26 maggio del 1456 dal notaio Matteo di Troia, con cui Cristoforo Testa e sua moglie Caterina vendono a Iacobuccio di Risotto, per il prezzo di cinque carlini d’argento, una casa sita in quella città. Dello studio critico dei documenti medievali si occupa una particolare disciplina denominata diplomatica, i cui fini sono: l’individuazione delle caratteristiche formali fisiche, grafiche e testuali delle singole testimonianze documentarie, l’accertamento della loro genuinità (o falsità), la ricostruzione del loro processo di produzione nelle sue diverse e successive fasi e infine la comprensione della loro funzione giuridica, culturale, politica all’interno della società e dell’ambiente che le hanno prodotte ed usate. 2. Come si presenta un documento medievale originale? Quali ne sono le caratteristiche fisiche principali? I documenti medievali occidentali sono per la maggior parte scritti su singoli fogli di pergamena, poiché l’uso del papiro, pur prolungatosi in campo documentario più che in campo librario, declinò con la fine dell’Impero romano e cessò definitivamente, anche a Roma e a Ravenna, con la metà dell’XI secolo. La scrittura è disposta soltanto sul lato carne; il lato pelo è lasciato vuoto. Il formato è assai variabile. Documenti dal testo molto esteso possono anche essere scritti su rotoli membranacei ottenuti cucendo insieme più fogli di pergamena e disponendo la scrittura lungo il lato più corto; di norma i documenti privati sono scritti su fogli singoli con la scrittura disposta secondo il lato corto; e quelli pubblici, al contrario sono prevalentemente scritti disponendo la scrittura lungo il lato più lungo. Rara (e tipica del basso Medioevo) è la presenza di documenti scritti in forma di fascicolo, su più fogli di pergamena ripiegati, inseriti l’uno dentro l’altro e cuciti. [p. 8] Nel Medioevo in campo documentario la carta fu relativamente poco usata, perché ritenuta, a ragione, più fragile e meno durevole nel tempo della pergamena. Ma essa fu largamente adoperata per scrivere minute, protocolli notarili, registri di cancelleria; quasi mai gli originali, anche se, per evidente influenza orientale (bizantina e araba), il più antico esempio di uso della carta (araba) in Italia è appunto costituito da un documento originale: un famoso mandato della contessa Adelaide del 1109 posseduto dall’Archivio di Stato di Palermo. Un altro elemento fisico che caratterizza i documenti pubblici e semipubblici (e assai raramente anche alcuni privati) è costituito dal sigillo, che adempie ad una precisa funzione di corroborazione e di autenticazione del testo documentario, ed anche di segnalazione del valore di autorevolezza del documento cui è applicato. I sigilli si distinguono fra loro in ragione della materia (possono essere di cera o di metallo: oro, argento, piombo) o del sistema di applicazione; possono essere infatti sospesi ad un cordoncino di seta o di canapa fatto passare attraverso il lembo inferiore del foglio membranaceo opportunamente ripiegato (plica); oppure applicati direttamente sul documento, di solito nella parte inferiore di esso, secondo tecniche diverse. Dei sigilli si occupa una disciplina specifica, la sigillografia, che ne studia anche la forma (circolare, ovale, a losanga, ecc.), il formato, la tipologia iconografica delle figurazioni che vi compaiono, le leggende di solito incise sul bordo, su cui torneremo più avanti. 3. La produzione documentaria, contrariamente a quella dei libri o di altre testimonianze scritte, ha sempre obbedito a precise necessità, e soprattutto è stata sempre affidata a personale specializzato, riconosciuto come tale dalla società: i notai (o persone con altra equivalente qualifica) per quanto riguarda gli atti privati e il personale di cancelleria per quanto riguarda gli atti pubblici. Nel corso del millennio medievale la produzione documentaria subì forti modificazioni, sia quantitative, sia qualitative. Nettissime sono le differenze formali e sostanziali [p. 9] che corrono fra un diploma di Childeberto III del 23 dicembre 695 e delle litterae patentes di grazia di Ferrante d’Aragona re di Napoli del 10 agosto 1470; ed è altrettanta la diversità che separa un atto di vendita del 721 da un analogo atto di vendita del 1456. Ciò dipende non soltanto dal lungo lasso di tempo che separa gli esempi più antichi dai più recenti; ma anche, se non soprattutto, dal forte mutamento intervenuto nel corso del XII secolo nel processo di produzione dei documenti che ha investito sia il settore privato che quello pubblico. L’alto Medioevo (secoli VI-XI) fu un periodo di ridotta diffusione dell’uso dello scritto e perciò anche di scarsa produzione documentaria. I documenti, peraltro, e soprattutto quelli pubblici, rari e importanti, erano altamente formalizzati, le loro tipologie erano estremamente ridotte. La funzione giuridica e sociale della documentazione scritta si limitava essenzialmente al riconoscimento e alla tutela della proprietà immobiliare, in particolare di quella delle istituzioni religiose, oltre che di alcuni proprietari privati. Il processo di documentazione, sia per quanto riguarda il documento privato, sia per quanto riguarda quello pubblico, era assai semplice. Praticamente, tranne poche eccezioni, cui accenneremo più avanti, non esistevano minute preparatorie, né registrazioni. Inoltre gli unici luoghi di conservazione previsti per il patrimonio documentario erano quelli di istituzioni soprattutto ecclesiastiche. Nel basso Medioevo, dal Duecento in avanti, il quadro fu totalmente modificato. La produzione di documentazione aumentò enormemente, non solo in Italia, ma in tutta l’Europa. Le tipologie dei documenti, soprattutto pubblici, si articolarono e si differenziarono, dai più solenni, di carattere beneficiario, ai più semplici, di natura amministrativa. La funzione giuridica e sociale della documentazione scritta si allargò a comprendere non soltanto la tutela della proprietà privata, ma anche a regolare complessi rapporti economici (prestiti, costituzioni di società, ecc.) e giuridici fra due o più persone private e fra cittadini e pubblici poteri, anche sulla base della riscoperta e della piena adozione del diritto romano. [p. 10] Sempre dal Duecento in avanti si sviluppò e crebbe a dismisura la documentazione pubblica, di natura politica, amministrativa, fiscale e giudiziaria, dei Comuni e delle signorie territoriali. Elaborata e scritta interamente da notai al servizio delle singole istituzioni, essa consistette in un numero progressivamente sempre più alto di documenti sciolti e soprattutto di registri, membranacei dapprima, poi quasi esclusivamente cartacei, relativi ai diversi settori documentari. L’aumento quantitativo assai forte della produzione scritta portò come conseguenza una maggiore articolazione in più fasi del processo di produzione del documento, sia pubblico che privato. Nacque la minuta, che spesso venne conservata; in campo privato i notai la trasferirono assai presto su registri (i protocolli), che conservavano un esteso riassunto del testo dei singoli documenti, munito di valore giuridico. Nelle cancellerie si cominciò a diffondere e stabilizzare la prassi di fissare un ricordo scritto dei documenti redatti e spediti (o almeno di una parte di essi) su appositi registri. La serie conservata dei registri pontifici comin- cia senza interruzioni dal 1198, anno di inizio del pontificato di Innocenzo III. Anche i meccanismi della conservazione divennero più differenziati. Ormai i documenti erano conservati non soltanto dalle istituzioni religiose, ma anche dai Comuni, da corporazioni e associazioni, da privati. In una situazione caratterizzata da un forte bisogno di documentazione, il notariato cambiò radicalmente natura, si laicizzò completamente (tranne che a Venezia), acquisì in apposite scuole una solida competenza professionale e soprattutto riuscì a conquistare quella che viene chiamata la publica fides, cioè la capacità professionale, riconosciuta dall’autorità competente, di dare valore di prova ai documenti rogati su richiesta di privati, per il fatto stesso di averli scritti e di averli autenticati con il proprio segno (signum tabellionatus). Da tutti i punti di vista la documentazione dei secoli più tardi del Medioevo prelude a quella moderna e contemporanea, da cui si differenzia soltanto per l’adozione ancora prevalente della lingua tradizionale dei testi documentari: il latino. [p. 11] 4. Al contrario che per i codici, spesso scritti da più scribi, ogni documento è di regola scritto da una sola mano, quella del suo estensore ufficiale. Nel documento possono comparire anche interventi di altri, ma solo per apporre la loro sottoscrizione come testimoni o (se si tratta di documenti pubblici) come riconoscitori e revisori, o comunque annotatori di cancelleria. Dalla seconda metà dell’XI secolo in buona parte d’Italia (tranne che a Venezia e nel Regno meridionale) anche le sottoscrizioni autografe dei testimoni scomparvero dal documento privato, e vi furono sostituite dalla relativa attestazione del notaio estensore. I documenti, insomma, nel Medioevo erano materialmente scritti da personale qualificato e specializzato, che in genere adoperava scritture particolari, non coincidenti, di norma, con quelle usate per trascrive- re i libri. Tali scritture, che impropriamente vengono definite documentarie, perché comunque non restarono mai esclusive dei documenti, furono di regola corsive, cioè con le lettere e talvolta le parole legate fra loro, inclinazione a destra, notevole rapidità esecutiva, e caratterizzate da gradi di corsività ora maggiori (corsive, correnti), ora minori (semicorsive, corsiveggianti). Tutte le scritture corsive e corsiveggianti del Medioevo discendono direttamente dalla corsiva nuova a base minuscola diffusa largamente nell’uso documentario e quotidiano negli ultimi secoli di vita dell’Impero romano. Tutta la documentazione privata italiana sino ai primi del IX secolo per l’Italia meridionale longobarda e sino praticamente all’XI secolo per le regioni centrosettentrionali fu scritta sostanzialmente in corsiva nuova. Una scrittura cancelleresca corsiva, ma diritta e solenne, fu probabilmente adoperata nella cancelleria pavese dei re longobardi. In età carolingia, fra fine dell’VIII e X secolo, la cancelleresca di origine corsiva venne sostituita gradualmente nei documenti pubblici da una minuscola diplomatica diritta derivata dalla minuscola carolina. Nella cancelleria pontificia venne usata una scrittura cancelleresca particolare, solenne e rotondeggiante, detta curiale, che solo fra XI e XII secolo fu sostituita dalla minuscola diplomatica [p. 12] di base carolina. Più complessa fu la situazione nell’Italia meridionale altomedievale ove, mentre nei territori longobardi fu adoperata fino al XII secolo una corsiva di tipo beneventano anche nei documenti pubblici dei principi locali, nei ducati tirrenici di obbedienza bizantina venne usata una corsiva analoga a quella romana, denominata curialesca, durata, a Napoli almeno, fino al pieno XIII secolo e oltre. In tutta la Penisola, venute a scomparire, con il rinnovarsi del notariato, le vecchie mode particolaristiche, fra XII e XIII secolo nella documentazione venne adottata una nuova corsiva, detta minuscola can- celleresca, basata sui legamenti dal basso, che fu comune a tutta l’Europa e che fu adottata anche dalle cancellerie (come quella pontificia e quella imperiale). Fra il XIV e il XV secolo questa corsiva divenne più angolosa ed è stata definita «semigotica delle carte». Nel corso del XV secolo, sia nelle cancellerie regie e signorili, sia nell’attività professionale dei notai, si venne affermando gradualmente la corsiva di tipo umanistico, contemporaneamente adoperata anche nei prodotti librari. In conclusione, si può affermare che la realizzazione grafica dei documenti medievali dovette rispondere a due opposte esigenze: da una parte quella, tradizionale, della rapidità esecutiva, che imponeva l’uso di scritture corsive, ereditata dalla prassi burocratica romana e rimasta viva anche quando la produzione era divenuta numericamente assai ridotta; e quella della solennità, che portava invece all’uso di scritture posate e perciò di lenta e accurata esecuzione. Dai tentativi operati di volta in volta dagli scriventi per conciliare queste opposte esigenze derivarono la diversità delle tipologie grafiche adoperate e le oscillazioni fra massima posatezza e massima corsività che caratterizzarono tanti periodi della produzione documentaria medievale. Nel suo complesso la documentazione pubblica e privata del Medioevo rappresenta una fonte preziosa per lo studio della storia delle forme grafiche e della diffusione sociale dello scritto fra età tardoantica ed età moderna. In particolare per il periodo altomedievale la presenza di più [p. 13] o meno numerose sottoscrizioni testimoniali autografe nei documenti offre precise testimonianze per lo studio della diffusione dell’alfabetismo fra religiosi e laici e per l’individuazione delle tipologie grafiche usate nell’insegnamento elementare, rimaste proprie dei semialfabeti. 5. L’alto formalismo della documentazione medievale non si manifestò soltanto nell’aspetto fisico e in quello grafico delle singole testimo- nianze, ma causò anche l’uso di un determinato schema testuale, di un determinato linguaggio e di determinate formule. Lo schema di base del documento medievale, pubblico o privato, è di tipo epistolare ed è formato di tre parti successive: la prima costituisce il cosiddetto protocollo del documento, cioè la sua parte introduttiva, esplicativa e designativa, in cui sono indicati i protagonisti dell’azione giuridica (autore e destinatario), la data (per quanto riguarda il documento privato) e il luogo dell’azione giuridica che è documentata; la seconda, che è il vero e proprio testo, costituisce la parte informativa e dispositiva, in cui è indicata, motivata e specificata nei suoi elementi essenziali l’azione giuridica documentata; e la terza, detta escatocollo, che costituisce la parte autenticativa, quella in cui vengono inserite le sottoscrizioni o ricordate le presenze testimoniali, in cui compaiono la formula di completamento del notaio e le formule di ricognizione di cancelleria per il documento pubblico, e, per quest’ultimo soltanto, anche la datazione. Si tratta naturalmente di una schematizzazione assai sommaria, che non rende appieno l’idea della complessità della struttura del documento medievale, soprattutto del vero e proprio instrumentum, cioè del documento privato posteriore alla rinascita del diritto romano nel XII secolo. Anche dal punto di vista propriamente linguistico e formulare esiste una forte diversità fra il documento altomedievale (detto charta), redatto in prima persona in nome dell’autore dell’azione giuridica, e l’instrumentum notarile di età gotica. La lingua della charta è un latino che può definirsi «rustico», in cui si alternano parti di formulano più formali a parti evidentemente prevolgari o volgareggianti, soprattutto nella descrizione delle res contrattate. La lin[p. 14]gua dell’instrumentum è invece costituita da un corretto latino scolastico, e le formule giuridiche (di diritto romano) vi sono riportate esattamente. L’instrumentum, inoltre, rispetto alla più semplice charta, non soltanto è di norma assai più esteso, ma anche assai più complesso, con l’inserimento di frequentissime formule, citazioni del Corpus iuris e clausole diverse. Per la stesura degli atti sia i rogatari altomedievali che quelli bassomedievali si servivano di formulari, nel periodo più antico diversi da area ad area, anche se sostanzialmente analoghi. Nel periodo più recente (dal XIII secolo in poi) i trattati di arte notarile, e soprattutto quello di Rolandino de’ Passeggeri, maestro di arte notarile a Bologna († 1297), universalmente adottato, finirono per uniformare il linguaggio e il formulario dei notai in tutta la Penisola. Diverso deve essere il giudizio a proposito dei documenti pubblici, prodotti da cancellerie organizzate, di solito dirette da religiosi di buona cultura retorica. La lingua della cancelleria pontificia è sempre stata fedele al canone scolastico del latino corretto, anche se con qualche concessione sul piano grafico-fonetico (per es. con l’obliterazione dei dittonghi), e così anche quella regia normanna e soprattutto quella imperiale degli Svevi e di Federico II († 1250) in particolare. Nel periodo preumanistico e umanistico la presenza di letterati classicisti nelle cancellerie italiane fece sì che la lingua e lo stile dei documenti pubblici da esse emanati tornassero ad andamenti classici, soprattutto nella cancelleria della Repubblica di Firenze, in quella visconteo-sforzesca di Milano e in quella romana dei pontefici. Il latino rimase la lingua unica della documentazione notarile e quella normalmente usata anche nella documentazione pubblica. Soltanto particolari carteggi pubblici con amministratori locali o ambasciatori furono dal Trecento in poi redatti in volgare da alcune cancellerie; mai da quella pontificia. 6. I documenti, pubblici e privati, sono stati assai meno copiati nel passato di quanto non lo siano stati i testi letterari; inoltre di essi molto spesso è stato conservato sino a [p. 15] noi l’originale. Tutto ciò rende la tradizione manoscritta del testo documentario medievale molto meno complessa rispetto a quella dei testi letterari coevi e dunque più facile il lavoro di edizione del diplomatista rispetto a quello del filologo. Ciononostante è vero che nella tradizione testuale del documento possono essere identificate più fasi, alcune anteriori alla redazione del testo definitivo, altre ad essa successive, che vanno conosciute nella loro natura e nella loro evoluzione nel tempo. Già i notai altomedievali italiani, sin dall’VIII secolo, ricorsero, sia pure occasionalmente, alla stesura di brevi notizie vergate in forma di appunti essenziali sul verso (lato pelo) dei fogli di pergamena sul cui recto sarebbe poi stato redatto il documento originale. Da qui, attraverso una lunga e complessa evoluzione, conclusasi fra XII e XIII secolo, si giunse dapprima alla redazione delle cosiddette «imbreviature» (vere e proprie minute sommarie separate dagli originali), quindi alla loro materiale riunione in filze e infine alla loro registrazione in volumi chiamati cartolari o protocolli, di solito cartacei e destinati ad essere conservati; va ricordato qui almeno il caso straordinario costituito dai protocolli notarili genovesi, scritti su carta araba, di cui il più antico, dovuto al notaio Giovanni Scriba, abbraccia gli anni 1154-64. Anche in questo caso alla costituzione di un vero e proprio archivio di minute estese, aventi valore giuridico e conservate in volume, indussero il riconoscimento della capacità autenticante del notaio e la nascita del complesso ed articolato instrumentum publicum, cioè il determinarsi di una situazione del tutto diversa rispetto a quella altomedievale. Nel medesimo periodo (XII-XIII secolo), come si è già accennato, le maggiori cancellerie europee (pontificia almeno dal 1198, anno dell’inizio del pontificato di Innocenzo III, regia francese e imperiale di Federico II) adottarono la sistematica, anche se parziale, prassi della registrazione dei documenti spediti, il cui testo veniva copiato in registri somma- riamente ordinati in serie cronologica, direttamen[p. 16]te dall’originale o da minute cartacee, di cui si ha qualche esempio dal XIV secolo in avanti. Dei documenti finiti nelle mani dei destinatari furono spesso tratte delle copie, sia per esibirle in giudizio, sia per sostituirle ad originali guasti per età, sia per altre occorrenze. Esse potevano essere eseguite da un notaio (e dunque essere «copie autentiche»), o anche dal possessore o da un suo dipendente non dotato di capacità autenticante (e dunque essere «copie semplici»); da esse vanno distinte le semplici trascrizioni di studio eseguite da antiquari e storici dal XVII secolo in avanti. Il Medioevo fu anche età caratterizzata da un gran numero di falsificazioni documentarie, eseguite sempre con chiari intenti di tutela di precisi interessi economici. Fra di esse occorre distinguere quelle intese a falsificare parzialmente un documento genuino, manipolandone più o meno radicalmente il testo; quelle totali, intese a creare un documento intero ex novo; inoltre quelle volte a fornire documentazione, sia pur falsa, di un fatto realmente accaduto, da quelle volte a dare un supporto documentario falso a un fatto a sua volta mai accaduto e perciò inventato. L’età che vide la maggiore produzione di falsi fu quella dei secoli XII e XIII, l’epoca stessa della prima organizzazione in senso moderno delle grandi cancellerie europee e del nuovo notariato professionalmente esperto. Si tratta di una apparente contraddizione che si spiega con il sempre più forte bisogno di documentazione scritta che proprio allora la società europea avverti e che indusse coloro (soprattutto istituzioni ecclesiastiche) che erano rimasti privi dei documenti necessari a crearseli da sé, in modi ora più ora meno abili. Nota bibliografica Per lo studio del documento medievale, e in particolare di quello italiano, si può far ricorso in prima istanza ai manuali di diplomatica generale esistenti: 1) C. Paoli, Diplomatica, a cura di G. C. Bascapè, Firenze s.d., ma 1942. Vecchia (l’edizione originale è del 1899!), ma sempre utile compilazione. 2) [p. 17] A. de Boüard, Manuel de diplomatique française et pontificale. I, Diplomatique générale, Paris 1929; II, L’acte privé, Paris 1948. Originale, brillante, informato. 3) G. Tessier, La diplomatique, Paris 1952. Rapida compilazione divulgativa di notevole efficacia e chiarezza. 4) A. Pratesi, Genesi e forme del documento medievale, Roma 1979. Sintesi didatticamente e scientificamente lucidissima, costituisce l’introduzione obbligata ad ogni studio di carattere diplomatistico, anche per l’ampia e aggiornata bibliografia, cui si rimanda per ogni ulteriore informazione. Per gli aspiranti storici di grande utilità è anche il saggio metodologico di 5) C. Violante, Lo studio dei documenti privati per la storia medievale fino al XII secolo, in Fonti medievali e problematica storiografica, II, Roma 1977, pp. 69-129. In particolare per la tipologia, ricca e varia, della documentazione tardomedievale, cfr. 6) P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991, pp. 113-265. Cfr. anche, più in generale: 7) Sources of social history. Private acts of the Middle Ages, a cura di P. Brezzi e E. Lee, Toronto 1984. I LIBRI MANOSCRITTI [p. 18] 0. La cultura scritta del Medioevo occidentale fu trasmessa attraverso una lingua comune a tutte le élites europee, il latino (e solo secondariamente attraverso le lingue volgari e il greco) e mediante un unico mezzo di riproduzione e di conservazione – e perciò anche di diffusione – dei testi: il libro manoscritto (o codice). Nel millennio medievale (secoli VI-XV) natura, aspetto, modi di produzione di tale strumento culturale variarono moltissimo; ma nella sostanza le sue caratteristiche fondamentali rimasero inalterate. In Italia la produzione, relativamente alta in ogni epoca, e l’uso del libro costituirono un elemento caratterizzante ogni fase della vita culturale; vi fu infatti molto forte nell’alto Medioevo la presenza e l’uso di codici latini (ma anche greci) di età tardo antica; e quindi l’influenza di modelli grafici e librari tradizionali. Furono tuttavia anche forti i moti di rinnovamento che, in determinati momenti di crisi e di mutamento della cultura ufficiale, modificarono modelli, produzione e pratiche di uso del libro, come, per esempio, nel XII-XIII secolo o in età umanistica. Poiché il cristianesimo fu (ed è) una religione «del libro», cioè fondata su un testo scritto considerato sacro, la Chiesa, e quella medievale in particolare, fu una istituzione che diede particolare importanza alla produzione ed alla conservazione del libro: di quello di natura religiosa, innanzi tutto, ma anche di altri di diversa natura. Data l’importanza centrale della religione e della Chiesa nella storia medievale europea e in particolare in quella italiana, è naturale che il libro manoscritto abbia avuto un ruolo centra[p. 19]le nella vita socioculturale del periodo. In realtà in tutta l’epoca medievale il libro costituì un elemento decisivo per l’espansione, i mutamenti, le funzioni della cultura scritta. Conoscere il libro manoscritto, le sue caratteristiche materiali e testuali, gli usi che se ne fecero nel tempo è indispensabile per la comprensione del mondo medievale nel suo complesso; e soprattutto per una conoscenza non superficiale ed approssimativa della mentalità e dei comportamenti dei ceti dirigenti ecclesiastici e laici che di quel mondo modellarono il sentimento religioso, la cultura, i comportamenti. 1. Il libro manoscritto (o codice) medievale può essere definito, da un punto di vista oggettuale, un complesso di materiale scrittorio (pergamena o carta) costituito di fogli ripiegati, riuniti in fascicoli cuciti fra loro e composti insieme a formare un complesso coerente, più o meno parzialmente ricoperti di scrittura a mano ed eventualmente di ornamentazione e di illustrazioni, che in genere è protetto da una legatura. I libri manoscritti medievali contengono testi delle più diverse nature, redatti prevalentemente in lingua latina, assai più raramente, e solo da un certo periodo in avanti, nelle lingue volgari in uso nel Continente. Assai pochi in proporzione sono i codici prodotti in Occidente e contenenti testi in lingua greca, molti dei quali originati delle regioni meridionali italiane. Lo studio del libro manoscritto medievale (ma anche di quello antico e di quello moderno) è compito precipuo della codicologia; tale disciplina, di origine recente, si occupa in particolare degli aspetti materiali del codice, della sua struttura e delle tecniche di fattura, senza trascurare, tuttavia, il suo contenuto testuale; compito della codicologia è anche la descrizione dei manoscritti secondo prassi omogenee in inventari e cataloghi a stampa o in repertori di dati informatizzati. Lo studio dei codici medievali deve comprendere anche la loro storia nel tempo, dal momento della loro fattura e dalla prima sede di conservazione, sino alle ultime e più recenti vicende. Ciascuno di essi, infatti, non deve essere considerato soltanto nella sua qualità di oggetto singolo e [p. 20] di unico contenitore di testi, ma anche come elemento, per origine o per provenienza, di una serie omogenea, da considerare storicamente nel suo complesso; per esempio, nel primo caso, in quanto appartenente al gruppo di codici prodotto in un certo periodo di anni da un determinato centro scrittorio; o, nel secondo, in quanto costituente oggi, con altri codici, il fondo di manoscritti di una biblioteca, con una sua storia unitaria da un determinato periodo in poi. 2. Per comprendere appieno la funzione che i libri manoscritti svolgevano nel Medioevo e l’uso cui erano adibiti, occorre conoscerne anche la natura fisica e il processo di produzione, che nel corso del millennio medievale subirono profonde modificazioni. In epoca altomedievale (secoli VI-XI), in quella tardomedievale (secoli XII-XIV) e in quella umanistica (secolo XV) le caratteristiche del codice sono fra loro notevolmente differenti. Il codice altomedievale è prodotto di regola all’interno di istituzioni ecclesiastiche quali chiese cattedrali, chiese urbane di particolare rilievo, monasteri urbani ed extraurbani, cui è annessa una scuola (o a volte più di una) destinata all’educazione dei giovani religiosi. La fabbricazione materiale del codice altomedievale in quanto manufatto e la sua copiatura, in quanto contenitore di un testo, sono nell’alto Medioevo compito di religiosi addetti a tale lavoro, a volte riuniti ad operare insieme, in uno scriptorium, sotto la guida di un maestro responsabile, a volte operanti singolarmente. Il codice altomedievale è scritto quasi esclusivamente su pergamena, cioè su pelle animale (più frequentemente di capra; più raramente di pecora o di vitello) conciata, preparata e tagliata in modo da renderla atta a ricevere la scrittura. Molto rari, e limitati ai secoli VI e VII, furono i codici scritti su fogli di papiro. La pergamena altomedievale può presentare aspetti diversi da un’area geografica all’altra, soprattutto per diversità di tecniche di pre- parazione; caratteristica, ad esempio, appare quella usata nelle isole anglosassoni (Irlanda e [p. 21] Gran Bretagna), che si presenta grigiastra, grossa, rigida e di superficie scamosciata. Di solito gli scribi disponevano i fogli nei fascicoli in modo che si affrontassero facciate omogenee, cioè chiare e lisce contro chiare e lisce, e scure e scabre contro scure e scabre, evitando di contrapporre il lato della carne a quello del pelo. Di solito ogni fascicolo contava quattro fogli (era cioè un quaternio, quaternione o quaderno in italiano), dunque otto carte, corrispondenti a 16 facciate o pagine. Le tecniche di fattura del codice altomedievale europeo non sono omogenee, cosi come non lo sono i tipi di scrittura adoperati per la copiatura dei testi nelle diverse regioni e centri europei. Le prime comprendono il taglio delle pelli animali, preventivamente preparate, per determinare la misura dei fogli e quindi il formato del codice, nonché le procedure adottate per permettere una precisa delimitazione dello spazio destinato allo scritto e un’ordinata disposizione delle righe di scrittura nella pagina, cioè la foratura e la rigatura di guida. Una volta scritti i singoli fogli venivano riuniti a formare i fascicoli, cuciti secondo l’ordine progressivo dei fogli e delle carte ed infine protetti da una legatura, in genere e dopo una certa epoca, costituita da due assi di legno, parzialmente o totalmente ricoperte da uno strato di pelle. Il formato dei libri, manoscritti o stampati che siano, è legato alla loro funzione, al tipo di lettura che si suppone che se ne faccia, ai modi di conservazione che si prevedono per essi. Il formato è naturalmente determinato anche, se non innanzi tutto, dal tipo di testo che il codice è destinato ad accogliere; ciò vale anche per l’alto Medioevo, in cui i codici presentano formati grandi per i libri liturgici e formati relativamente piccoli per quelli di studio; in tale differenziazione è chiaro anche il rapporto fra le pratiche di uso / lettura da una parte e il formato dall’altra. In alcuni periodi (secoli VI-VII ed età carolingia, secoli IX-X) si fece frequentemente ricorso al formato quasi quadrato, che era proprio del codice tardoantico, nel primo caso per un fenomeno di naturale continuità e nel secondo per un fenomeno di consapevole imitazione. [p. 22] Per quanto riguarda la disposizione del testo nella pagina, nell’alto Medioevo la disposizione su due colonne fu assai frequente per ogni tipo di testo, ma soprattutto per quelli liturgici e scritturali, secondo una tradizione propria del libro manoscritto cristiano più antico; anche la disposizione a piena pagina fu, tuttavia, molto diffusa, soprattutto nei codici di formato più ridotto. Nel disporre le righe di scrittura ordinatamente giustificate e distanziate fra loro lo scriba aveva l’ausilio della rigatura, eseguita di solito a secco, cioè con uno strumento di osso o di metallo, che tracciava dei solchi sulla pelle di ciascun foglio o contemporaneamente di più fogli o magari di un intero fascicolo. La rigatura era tracciata con l’aiuto di una doppia serie di piccoli fori di guida, eseguiti lungo i margini di ciascun foglio, o, nel periodo più antico, al centro di ciascuna carta, secondo un uso tardoromano. Anche l’operazione di foratura poteva essere eseguita foglio per foglio o riguardare più fogli per volta. 3. Il sistema di produzione del libro manoscritto cambiò radicalmente in Europa, e perciò anche in Italia, fra XII e XIII secolo a causa di diversi fattori, quali l’estensione dell’alfabetismo dei laici, il diffuso processo di urbanizzazione, la creazione di nuove chiese e la presenza degli ordini mendicanti, e soprattutto la fondazione delle grandi università. Si verificò un sommovimento socioculturale esteso e generalizzato, che portò alla formazione di un nuovo pubblico di lettori, religiosi e laici, costituito di professori, di studenti, di professionisti, di studiosi, che avevano tutti bisogno di libri, in misura incomparabilmente maggiore che per il passato. Sotto la spinta di questa forte domanda di lettura, di istruzione, di studio la produzione del libro aumentò fortemente in tutte le città europee, soprattutto in quelle dove dalle precedenti scuole venivano nascendo le nuove Università: Bologna, Parigi, Oxford, Padova. Dopo circa otto secoli la produzione libraria divenne di nuovo, come nel mondo antico, un processo artigianale e commerciale, essenzialmente urbano e laico, volto all’acquisizione di un profitto. I libri venivano materialmente scritti da singoli ar[p. 23]tigiani (studenti, notai, frati, chierici, maestri, donne) su commissione di clienti o di cartolai-librai. I procedimenti di fattura materiale del codice divennero più uniformi. I fascicoli furono costituiti da un maggior numero di fogli, anche dodici, pur continuando a presentarsi spesso come quaternioni. La pergamena impiegata era spesso meglio lavorata e più sottile. Si diffuse largamente l’uso dei «richiami», cioè di apporre nel margine inferiore dell’ultima pagina del fascicolo le prime parole di quello seguente, per favorire l’ordinamento dei fascicoli stessi. La rigatura divenne «visibile», in quanto eseguita a piombo o a inchiostro; essa inglobò, inoltre, il testo al suo interno, il cui primo rigo fu vergato, di regola, al di sotto e non più al di sopra del primo solco della rigatura. Anche se i formati furono i più vari, il libro comunemente adoperato nel mondo universitario, strumento principe di quella che è stata definita la cultura «scolastica», fu assai grande, in modo che ciascuna pagina potesse contenere il massimo possibile di testo e di commento. A tal fine fu adottata la disposizione del testo su due colonne, molto accostate l’una all’altra, in modo da lasciare largo spazio nei margini per il commento; la doppia colonna favoriva inoltre una lettura rapida, permettendo al lettore di abbracciare con un solo colpo d’occhio un intero rigo del testo. Il libro universitario non doveva essere soltanto letto: doveva essere anche studiato e commentato. Per questo il testo fu diviso in sezioni, articolato in paragrafi, ordinato da titoletti scritti in rosso (rubriche), da iniziali alternativamente rosse e turchine, collegato al commento vergato nei margini con lettere e segni di richiamo, preceduto e seguito da indici e da tavole alfabetiche del contenuto. Nasceva in questo modo in Europa per la prima volta il moderno libro di studio, programmato per la lettura e per la consultazione, offerto ad un pubblico selezionato, ma vasto, di specialisti. Il testo di studio doveva però essere corretto e non arbitrariamente modificabile; non ci si poteva permettere di far circolare ad esempio esemplari del Corpus iuris giustinianeo con il testo delle leggi contenente errori o con il [p. 24] commento infarcito di citazioni difettose. Le maggiori Università (Parigi, Bologna, Oxford) applicarono un sistema, noto con il nome di «sistema della pecia», che permetteva di controllare in qualche misura il processo di riproduzione del testo e nel medesimo tempo di renderlo rapido. Di ogni opera adottata nei corsi tenuti dai diversi professori veniva depositato un esemplare «autentico» presso un libraio riconosciuto dall’Università come ufficiale (gli «stationarii»); i fascicoli («pecie») di questo esemplare non rilegato erano affidati contemporaneamente a più scribi e, essendo tutti eguali fra loro per estensione, costituivano anche l’unità di misura per il pagamento del lavoro di copia. Un’altra novità, quella del libro manoscritto contenente testi in lingue volgari, caratterizzò la cultura scritta tardo medievale sin dal XIII secolo. Si trattò sia di libri di lusso (i cosiddetti «libri cortesi»), in genere di piccolo formato, membranacei e miniati, sia di libri di uso comune, copiati dagli stessi utenti per uso proprio, della famiglia e degli amici; tali codici erano quasi sempre cartacei, piccoli, rozzamente preparati e privi di miniature, ornati al massimo con disegni eseguiti e colorati con tecniche povere. La carta, apparsa nel Mediterraneo occidentale fra XI e XII secolo, ruppe con il XIII secolo, dopo quasi mille anni, il monopolio della pergamena come materia scrittoria e contribuì ulteriormente alla diffusione, per il suo basso costo, della scrittura e della lettura. 4. Proprio contro il libro universitario ed il suo tipo di produzione insorsero con critiche sempre più precise i preumanisti italiani, in particolare Petrarca († 1374) e Coluccio Salutati († 1406), i quali proposero il ritorno al libro di età carolingia e alla sua scrittura, la minuscola carolina. Tra la fine del Trecento e i primissimi anni del Quattrocento a Firenze (ma anche altrove) si cominciarono infatti a produrre libri manoscritti di formato medio-piccolo, con il testo disposto a piena pagina, con rigatura a secco, privi di commento e di rubriche, decorati con iniziali di tipo altomedievale. L’iniziativa fu di due umanisti fiorentini, Niccolò Niccoli e Poggio Bracciolini, e il loro esempio ven[p. 25]ne presto seguito da altri. Il libro umanistico, fatto e scritto secondo modelli antichi, divenne così in pochi decenni lo strumento della nuova cultura prevalente nelle città italiane sedi di corti e di grandi biblioteche: oltre Firenze, anche Roma, Milano, Urbino, Cesena e così via. Il nuovo libro fu prodotto da scribi professionisti a volte stanziali, a volte itineranti, quasi tutti laici, talvolta legati ad un cartolaio-libraio, come il famoso Vespasiano da Bisticci, fiorentino; molti di loro erano stranieri, soprattutto tedeschi; per loro influenza si tornò presto a pratiche di fattura (come la rigatura visibile) che erano state in un primo momento abbandonate. Il libro umanistico in pergamena ha formati diversi, prevalentemente medi (l’altezza va dai 20 ai 38 cm); i fascicoli sono in prevalenza quinterni, ma a Milano ed a Napoli, probabilmente per influenza francese, sono piuttosto quaderni. Con gli ultimi decenni del Quattrocento, in parallelo con l’affermarsi della stampa (introdotta in Italia nel 1464-1465 da due tipografi tedeschi, Conrad Schweynheim e Arnold Pannartz, operanti prima a Subiaco e poi a Roma), si diffuse un tipo di libretto di lusso di piccolo formato, riccamente ornato, scritto prevalentemente in elegante corsiva umanistica da copisti di alta qualità: il cosiddetto «libretto da mano», che Aldo Manuzio riprenderà nella produzione a stampa di una collana di classici latini, greci ed italiani. 5. Studiare la storia della scrittura e perciò anche le scritture adoperate per copiare libri manoscritti è compito precipuo di una disciplina a sé, la paleografia. In questa sede dobbiamo limitarci a fornire un succinto resoconto dei principali tipi di scrittura adoperati in Italia nei tre periodi in cui abbiamo suddiviso la storia del libro medievale: alto Medioevo, basso Medioevo ed età umanistica, rimandando per gli opportuni approfondimenti alle opere citate nella nota bibliografica che segue. Nell’alto Medioevo italiano vennero usate, fino agli inizi del IX secolo, le scritture principali del periodo tardo antico, legate alla trasmissione scritta dei testi del messaggio [p. 26] cristiano: l’onciale, sostanzialmente maiuscola, e la semionciale, minuscola. Accanto ed oltre ad esse furono, però, ampiamente adoperate scritture corsive e semicorsive derivate dalla corsiva nuova di uso documentario e cancelleresco; in alcune aree dell’Italia settentrionale, inoltre, furono usate scritture importate da altre regioni europee: la merovingica e le scritture insulari. I principali centri di copia di manoscritti noti per questo primissimo periodo (secoli VII-IX inizi) sono costituiti sia da chiese cattedrali urbane, come Verona e Lucca, sia da monasteri extraurbani, come Bobbio, di fondazione irlandese, o Nonantola. Nell’Italia meridionale dalla seconda metà del secolo VIII in avanti si venne formando e sviluppando una minuscola semicorsiva, diritta, molto caratteristica, che col tempo divenne la scrittura nazionale dei Longobardi del Sud e fu per questo chiamata, dal nome della capitale del più grande principato longobardo dell’area, «beneventana»; essa durò nell’uso almeno sino a tutto il XIII secolo. Con l’occupazione del Regno d’Italia da parte dei Franchi (774) e con la costituzione poi del Sacro romano Impero da parte di Carlomagno (800) l’influenza franca divenne prevalente nelle regioni dell’Italia centrosettentrionale; vi fu introdotta anche la nuova scrittura comune, elaborata nei centri francesi, che chiamiamo minuscola carolina e che corrisponde quasi perfettamente alla nostra minuscola a stampa. Si tratta di una minuscola, praticamente priva di abbreviazioni, in cui le lettere sono chiaramente differenziate e nettamente separate fra loro (prive cioè delle legature tipiche delle scritture corsive). La sua diffusione fu immediata nei territori sottoposti al dominio franco (Francia, Germania, Italia centrosettentrionale); con l’XI secolo la nuova scrittura comune si diffuse anche nelle aree rimaste legate alle tradizionali scritture altomedievali: le isole britanniche, la Spagna e l’Italia meridionale, ove i Normanni se ne fecero portatori. A Roma e nell’Italia centrale la carolina assunse particolari caratteristiche grafiche di schiacciamento delle forme e di inclinazione delle aste, che ne fecero un tipo a sé (la «romanesca»), diffusa, fra X e XII secolo, anche nel Lazio me[p. 27]ridionale (Farfa, Subiaco) e nell’Umbria meridionale (Sant’Eutizio di Norcia). 6. Verso la fine dell’XI secolo, anche per l’adozione di una penna con taglio obliquo e largo, fra Normandia ed Inghilterra meridionale (ormai normanna) venne sviluppandosi uno stile particolare di minuscola carolina, caratterizzata dal tratteggio fortemente contrastato e dall’accorpamento delle lettere fra loro, da cui si sviluppò la scrittura che definiamo gotica. Anche questa nuova stilizzazione si diffuse molto rapida- mente in tutta l’Europa durante il XII secolo e nel Due-Trecento costituì la scrittura propria del mondo culturale universitario-scolastico. In Italia la gotica si affermò in modi diversi e per vie traverse; nel Nord e nel Centro per influenza francese ed a causa dell’assunzione del nuovo stile da parte del notariato; nel Sud introdottavi dai Normanni e dal nuovo ordine cistercense, che in più sedi sostituì i benedettini, rimasti legati alla vecchia scrittura, la beneventana, ormai in via di estinzione. A Bologna si ebbe una tipizzazione rotonda e compatta, usata nella produzione del libro universitario, che già i contemporanei definivano «littera bononiensis». Nel tardo Medioevo molti libri, soprattutto quelli in lingue volgari, furono scritti in scritture corsive. In Italia con il XIII secolo rinacque nell’uso documentario una nuova corsiva derivata dalla tarda carolina e basata sull’uso di legamenti eseguiti dal basso (come quelli che eseguiamo noi scrivendo correntemente), che definiamo «minuscola cancelleresca». Come indica il nome, essa fu la scrittura delle cancellerie pubbliche, ma anche del notariato, ed ebbe larga diffusione come scrittura dell’uso comune e quotidiano di molti scriventi; Petrarca, figlio, nipote ed allievo di notai, scriveva in minuscola cancelleresca le minute delle sue opere e le lettere. Nel XIV secolo la minuscola cancelleresca fu largamente adoperata per la copia di testi in volgare; famosi sono i codici della Commedia di Dante scritti da un notaio fiorentino, ser Francesco di ser Nardo da Barberino, fra il 1337-1338 e il 1347. Con le medesime origini e nel medesimo periodo nac[p. 28]que in Toscana e si sviluppò poi anche in altre aree, soprattutto dell’Italia settentrionale (Venezia, Genova, Milano), un’altra corsiva, caratterizzata da rotondità di forme, uniformità di tratteggio, limitatezza di aste e occhielli: la «mercantesca», che fu propria di mercanti, banchieri, artigiani e insomma del «popolo» urbano ignorante di latino. Fu adoperata fino al Cinquecento inoltrato e servì anche per esemplare codici in volgare, soprattutto cartacei e di umile fattura; molti fra i più antichi manoscritti del Decameron di Boccaccio sono in mercantesca. 7. Obiettivo principale delle critiche dei preumanisti non era soltanto il libro gotico, ma anche la scrittura gotica, fitta, artificiale, illeggibile, cui essi contrapponevano l’antica minuscola carolina. La scrittura propria del libro umanistico fu appunto una imitazione puntuale della carolina eseguita con grande accuratezza e professionalità già dai primi esempi dovuti alla mano stessa del Niccoli e di Poggio Bracciolini. Sin dalla prima metà del secolo XV, contemporaneamente alla stilizzazione fiorentina, ispirata a modelli di carolina tarda, del secolo XI, è possibile individuare una stilizzazione settentrionale, più corsiveggiante e inclinata verso destra, che si ispirava a modelli in carolina del IX secolo. La minuscola umanistica (o «antiqua») è, come la carolina, posata, tondeggiante, diritta, praticamente priva di abbreviazioni. Con la metà del secolo a Milano ed a Roma si affaccia una nuova tipizzazione, di modulo più grande e più schiacciato: la cosiddetta «antiqua tonda». Intanto, anche nella produzione libraria sin dai primi decenni del secolo si adoperarono tipi di corsive fortemente influenzate dalla minuscola umanistica posata, che definiamo genericamente «umanistiche corsive». Nell’ultimo trentennio all’incirca del secolo queste tipizzazioni danno vita ad una corsiva fortemente inclinata, artificiosa, elegante, denominata «italica», che col principio del Cinquecento passerà alla stampa. 8. Una delle maggiori difficoltà che un principiante incontra quando si accinge a leggere un manoscritto medie[p. 29]vale è costituita dal fatto che in esso molte parole si presentano di norma abbreviate, a volte ridotte a una o due sole lettere: e per est; ca per causa e così via. Erano varie le ragioni per cui si usava abbreviare alcune, o molte, parole di un testo. Per scrivere più rapidamente; per concentrare più testo possibile sul rigo e nella pagina; per permettere di leggere più rapidamente al lettore esperto, capace di sciogliere senza esitazione i compendi; per segnalare in modo immediatamente visibile alcune particolari parole, come nomi propri o espressioni continuamente ricorrenti. In effetti l’uso delle abbreviazioni è caratteristico delle testimonianze scritte medievali e in particolare del libro. Esso deriva direttamente dagli usi scrittori del mondo antico, che adoperò largamente sistemi tachigrafici ed abbreviativi. Nell’alto Medioevo non è esistito un sistema coerente ed omogeneo di abbreviazioni. Gli scribi irlandesi adoperarono molte abbreviazioni di derivazione antica; altri usi particolari furono adoperati in Spagna ed in Italia meridionale, nei libri scritti in scrittura beneventana. I sistemi di abbreviazione erano sostanzialmente due: le parole venivano abbreviate troncandole, cioè scrivendone soltanto la prima lettera o le prime lettere (per es: e = est; an = ante), o contraendole, cioè scrivendone soltanto la prima e l’ultima lettera (per es: ca = causa) o anche una o qualcuna delle intermedie (per es: cois = communis). Ogni abbreviazione era segnalata al lettore con un segno, che poteva consistere in uno o due punti, in una lineetta, diritta o ondulata, sovrapposta alla parola, in una lineetta obliqua sovrapposta ad una lettera, e così via. Alcune abbreviazioni per contrazione erano eseguite anche con il sistema della letterina soprascritta, cioè scrivendo nell’interlineo al di sopra di una delle lettere espresse un’altra lettera, di modulo minore, che serviva anche per segnalare l’abbreviazione (per es: qomo = quomodo; qandā = quandam). Comunemente adoperate furono le abbreviazioni delle nasali m ed n finali, delle preposizioni per, pre, pro e dei pronomi relativi qui, que, quam, quod, quid, quem. [p. 30] 9. Ogni epoca forma la propria cultura riproducendo testi prodotti nelle epoche precedenti e producendone di nuovi. Dei primi opera una scelta, sulla base dei propri interessi culturali; i secondi sono i prodotti diretti di tali interessi. Il rapporto che la cultura del Medioevo occidentale ebbe con la tradizione testuale classica che l’aveva preceduta va studiato sulla base di tali considerazioni. Esso fu assai differenziato nel tempo e determinato dalle condizioni socioeconomiche generali dell’Europa – e dell’Italia – durante il millennio medievale. Insieme le vecchie e le nuove opere costituirono il repertorio testuale che ogni epoca del Medioevo ebbe a disposizione per acculturarsi. Sapere come tale repertorio si articolasse nel tempo è indispensabile per comprendere i fondamentali mutamenti subiti dalla cultura medievale. Da questo punto di vista l’alto Medioevo può essere diviso in due periodi: il primo abbraccia i due secoli fra il 550 e il 750 all’incirca; il secondo comprende l’età carolingia e quella postcarolingia (768-1000). Fra la metà del VI secolo e la metà dell’VIII la produzione libraria in Europa, e perciò anche in Italia, fu assai ridotta: da quanto ci è pervenuto sembra che i testi classici non fossero praticamente più ricopiati, il che significa che ci si limitava a riprodurre testi di interesse puramente ecclesiastico-religioso: libri liturgici utili per il servizio divino, opere di Padri della Chiesa, parti del Vecchio e del Nuovo Testamento; poco o nulla di retorica, di storia, di medicina, di diritto, di letteratura e di poesia. E poco anche veniva prodotto di nuovo, ove si escludano la Siviglia del grande Isidoro († 636), accumulatore disordinato di nozioni, e le isole britanniche, ove monaci irlandesi ed anglosassoni scoprivano a gara il latino ed elaboravano nuovi testi grammaticali, letterari e storici. Questi due secoli, dunque, che segnarono, nell’Europa occidentale, il più basso livello della diffusione sociale delle capacità di scrivere, furono un’epoca in cui si scrissero pochi testi e pochi se ne copiarono; in cui molti libri antichi furono distrutti per utilizzarne la pergamena, al fine di riscrivervi sopra altri testi; in cui pochi libri furono letti da parte di pochi. La seconda fase dell’alto Medioevo è quella caratteriz[p. 31]zata dalla rinascenza carolingia e dall’onda lunga dei suoi effetti positivi. Soprattutto fra il 768 e l’850 una nuova intellettualità costituita di ecclesiastici di ogni parte d’Europa, concentrati nelle principali località della civiltà carolingia, in monasteri e scuole, quali la corte regia prima e imperiale poi, San Martino di Tours, Corbie, Orléans, Reims, Fulda, Lorsch, e cosi via, promosse una fitta opera di riproduzione di testi della grande letteratura classica. Vennero così riscoperte, ricopiate e rilette opere abbandonate all’oblio da secoli, dai poeti come Virgilio, Orazio, Lucano, ai satirici, da Cicerone a Seneca, dagli storici a Plinio, fino persino a Vitruvio e ad Aulo Gellio, Plauto, Petronio e altri. Nuove scuole, nuovi centri di copia, nuove biblioteche significarono anche, e soprattutto, nuovi lettori e nuovi studiosi; e dunque nuovi testi. In questo periodo, e in quello immediatamente successivo, che giunge fino all’età di Ottone III (†1002), fiorisce una vivace e vasta produzione di nuove opere poetiche, storiche, biografiche, di retorica e di esegesi biblica e patristica; contemporaneamente si torna ad un latino di alta qualità stilistica. L’allargamento complessivo di conoscenze è, rispetto al periodo immediatamente precedente, enorme; il repertorio generale a disposizione dei dotti conta non più qualche decina, ma di nuovo centinaia di opere. Ciononostante, perché ci sia un cambiamento radicale del repertorio delle conoscenze e della creatività letteraria e scientifica occorre attendere il periodo della cultura universitaria, fra XII e XIV secolo. Soltanto allora l’Europa occidentale seppe costruire una cultura scritta omogeneamente nuova, cioè radicalmente diversa da quella antica, ricca di centinaia e centinaia di testi nuovamente scoperti e di opere composte secondo un spirito nuovo; allora per la prima volta, con le grandi traduzioni avviate fra XI e XII secolo, ci si volse di nuovo dopo tanti se- coli agli autori greci di filosofia e di medicina; allora si tornarono a copiare ed a studiare direttamente i testi del diritto romano; allora per la prima volta dopo secoli le opere di nuova composizione in latino, ma anche nelle lingue volgari, in francese, in provenzale, in tedesco, e poi in tutte le altre lingue d’Europa (anche in italiano), cominciarono ad essere più numerose [p. 32] di quelle antiche ricopiate. Si compilarono enciclopedie ed opere di sintesi e di guida ai singoli settori disciplinari; rinacquero la poesia e la storia, il diritto e la medicina, la giurisprudenza e la filosofia. Tutto ciò veniva insegnato, imparato e diffuso attraverso lo scritto e dunque letto e studiato, riletto e ricopiato. La cultura scritta occidentale, prevalentemente in lingua latina, sebbene ancora povera, almeno in termini numerici, di testi disponibili, rispetto a quella bizantina o a quella araba coeve, seppe ricostituire un tesoro imponente di opere «leggibili» e riproducibili, e disporle ordinatamente nelle sue nuove biblioteche. Ad esso in Italia, oltre che negli altri paesi d’Europa, si venne aggiungendo nel corso del XIII, e soprattutto del XIV secolo, il repertorio sempre più ricco e vario delle opere della letteratura in lingua, dalla Commedia di Dante al Canzoniere petrarchesco, al Decameron del Boccaccio, fino al gran numero di testi di narrativa, poesia, trattatistica tecnica e devozionale, e ai numerosissimi volgarizzamenti, che costituirono il patrimonio specifico della cultura scritta volgare, con un suo circuito in parte integrato, in parte separato rispetto a quello della cultura ufficiale in lingua latina. Gli umanisti italiani, tuttavia, non amavano questo repertorio, pur così ricco, in cui le presenze di autori classici apparivano minoritarie rispetto ai testi di medicina o di filosofia e a quelli moderni. A loro si dovette, infatti, l’ultimo grande cambiamento di repertorio testuale che il Medioevo abbia conosciuto: un cambiamento insieme modernissimo e contemporaneamente rivolto al passato classico. Gli umanisti, dal Petrarca in avanti, fino al Poliziano († 1492), seppero interpretare con grande intelligenza le esigenze ideologico-politiche delle nuove signorie che in Italia venivano formando gli embrioni di altrettanti stati moderni e che avevano bisogno, per affermarsi, di una nuova retorica e perciò di un nuovo linguaggio e di nuovi valori ideali; tutte novità, rispetto ai valori, al linguaggio e alla retorica del periodo precedente, che era possibile attingere direttamente al patrimonio, ancora in buona parte sconosciuto, della letteratura latina (e poi anche greca) classica e alla lingua dei suoi autori maggiori. Da Petrarca al Poliziano gli umanisti non fecero altro [p. 33] che cercare nelle vecchie biblioteche abbandonate (non nelle nuove frequentate e funzionanti) testi classici non più letti da secoli, ricopiarli, diffonderli, imitarli ed imporli come modelli assoluti di una nuova letteratura, di una nuova storiografia, di una nuova poesia, di una nuova visione del mondo; e ne riempirono le nuove biblioteche che si venivano costituendo secondo i nuovi gusti: innanzi tutto le proprie e quindi anche quelle dei re, dei signori, dei papi, dei cardinali, dell’élite politica e religiosa d’Italia prima e poi anche d’Europa, fondando in sostanza, sulla base dell’antica, la cultura dell’Europa moderna. È merito loro se oggi possediamo l’epistolario e le orazioni di Cicerone, Plauto e Vitruvio, Catullo, Lucrezio, Ammiano Marcellino, Silio Italico, Tacito, Celso, Cornelio Nepote, e tanti altri poeti e prosatori antichi. È merito loro aver restituito alla cultura occidentale il patrimonio della letteratura classica greca. È merito loro aver fondato, per necessità più che vocazione, lo studio critico dei testi, cioè la moderna filologia. È merito loro aver consegnato all’Europa un latino incomparabilmente più ricco ed omogeneo di quello basso medievale, come lingua internazionale di educazione e di comunicazione delle élites. È infine merito loro aver imposto al nuovo strumento di riproduzione dei testi, la stampa, il repertorio da loro canonizzato, promuovendone la conservazione e la diffusione per i secoli avvenire. 10. Quella finora narrata è stata una storia di produzione di libri e di riproduzione e di recupero di testi. Ma perché questa storia potesse realizzarsi è stato necessario che i libri contenitori di questi testi fossero conservati e tramandati da una generazione all’altra, ricordati, letti e studiati. Occorre dunque che alla storia della produzione e della riproduzione si affianchi la storia della conservazione, a quella dei centri scrittori quella delle biblioteche, a quella delle pratiche di scrittura quella delle pratiche di lettura, a quella dei libri fatti, quella dei libri perduti e non più recuperati; una storia insomma che, oltre ad essere di tesaurizzazione, è inevitabilmente anche di abbandoni e di perdite senza recupero; una storia non soltanto di memoria, ma anche di oblio. [p. 34] Il manoscritto medievale è un oggetto fatto per durare nel tempo; la sua solidità materiale, dovuta alla pelle usata come materia scrittoria e alla protezione garantita dalla legatura, era la massima che un libro abbia mai avuto nella sua lunga storia. Ciononostante molti libri alto e basso medievali sono andati perduti irrimediabilmente, a causa non soltanto di fattori ambientali, quali l’umidità, gli insetti o i topi, ma anche (se non soprattutto) umani: incendi, eventi bellici, distruzioni o erasioni, effettuate per riutilizzare il materiale. In realtà la debolezza del patrimonio librario raccolto e tramandato dal medioevo è dipesa soprattutto da tre cause di fondo: i libri medievali erano troppo pochi, troppo poco usati e troppo mal conservati. L’alto Medioevo non ha conosciuto vere e proprie biblioteche organizzate per la consultazione e lo studio; i libri posseduti dalle comunità religiose venivano conservati in luoghi diversi a seconda della loro funzione: nella scuola, presso la chiesa, nelle celle dei singoli monaci e in appositi locali, ove uno o alcuni armadi li ospitavano, magari assieme ai documenti d’archivio, ma ove non era possibile alcuna attività di lettura o di consultazione. Del resto i libri posseduti dalle singole comunità erano, tranne ovvie eccezioni, numericamente scarsi e di solito poco consultati; ciò poteva favorire la loro dispersione. L’assenza insomma, di una concezione bibliotecaria intesa a costruire e garantire le condizioni per una buona conservazione del patrimonio e per un suo agevole uso ha fatto sì che l’alto Medioevo abbia trasmesso poco e male la grande tradizione scritta del mondo antico, ancora sopravvissuta, nel suo complesso, alla fine del V secolo, soprattutto nei grandi depositi italiani. Una nuova concezione della lettura ed un nuovo modello di biblioteca apparvero fra XII e XIII secolo con la cultura universitario-scolastica. Presso i grandi ordini mendicanti (domenicani, innanzi tutto, poi anche francescani e agostiniani) nacquero allora vere e proprie biblioteche dotate di centinaia e centinaia di volumi; esse erano in genere organizzate in due locali comunicanti, uno con libri conservati in armadi, che potevano essere prestati, e l’altro con libri incatenati ai banchi, che dovevano essere letti sul po[p. 35]sto. Risorgeva così, dopo molti secoli, il modello di biblioteca antica, progettata in modo da costituire un luogo in cui gli studiosi potessero studiare insieme i libri, ivi appositamente e ordinatamente conservati ed elencati, a volte, in cataloghi. Tutte le biblioteche tardomedievali seguirono questo modello, caratteristico anche per la disposizione materiale in sale di tipo basilicale con doppia fila di banchi. Cosi appaiono ancora oggi in Italia alcune illustri biblioteche pubbliche rinascimentali, quali la Malatestiana di Cesena o la fiorentina Laurenziana; così era organizzata nel Quattrocento la biblioteca Vaticana, in una sede assai prossima all’attuale. Il basso Medioevo conobbe anche altri due tipi di biblioteca, mobili ed aperti, diversi sia da quello comunitario altomedievale, che da quello istituzionale degli ordini mendicanti: la biblioteca signorile e quella mercantile. La prima era costituita da una raccolta di testi, prevalentemente nelle lingue «cortesi» dell’Europa tardomedievale e soprattutto in francese, di contenuto cavalleresco, devozionale, narrativo o poetico, la cui conservazione avveniva in locali di tesaurizzazione e non di consultazione; la seconda era costituita da libri in lingua italiana, di argomento tecnico o di «intrattenimento», conservati a casa fra le carte e gli arredi domestici. Ambedue comportavano pratiche di lettura occasionali e libere, in spazi non specifici e non attrezzati e anche all’aperto. Gli intellettuali della cultura universitario-scolastica e quelli dell’Umanesimo elaborarono un ulteriore modello di biblioteca e di lettura, fondato sul possesso e sull’uso individuale ed organizzato di uno spazio strettamente personale: lo studio. Alcune delle raccolte di libri manoscritti costituite da singoli studiosi sono famose: il Petrarca possedeva moltissimi libri, dei quali meno di cento sono giunti fino a noi; anche Boccaccio e Coluccio Salutati ebbero ricche biblioteche; nel tardo Quattrocento la biblioteca di Pico della Mirandola († 1492) arrivò a contare 1190 volumi, di cui 489 a stampa. Se la biblioteca privata degli umanisti ed il loro «studio» privato hanno costituito il modello più alto di una pratica di lettura e di lavoro personale, quasi elevata a reli[p. 36]gione e divulgata dall’iconografia, le «biblioteche di Stato», sorte in Italia nel secondo Quattrocento, hanno costituito il modello delle moderne biblioteche pubbliche fondate direttamente dal potere politico. Si tratta di biblioteche come quella urbinate dei Montefeltro, quella pavese degli Sforza, quelle cesenate e riminese dei Malatesta, quella aragonese creata a Napoli da Alfonso d’Aragona, che nel repertorio seguirono sostanzialmente il canone umanistico e che svolsero prevalentemente la funzione di celebrare e legittimare il potere del signore e della sua più o meno fresca dinastia. Anche le biblioteche tardomedievali ed umanistiche, pur essendo copiose di libri ed aperte alla consultazione, subirono danni e dispersioni; quella aragonese finí a Parigi, a Valencia e in molti altri luoghi, mentre a Napoli non ne rimase nulla o quasi. Ma si trattò, quasi sempre, di dispersioni senza distruzione fisica e soprattutto senza durevoli oblii. Esse in realtà costituirono, tutte insieme e nel loro complesso, il tesoro archetipico della nostra cultura testuale, passato integralmente nella stampa e perciò consegnato, all’alba dell’Europa moderna, alle generazioni avvenire. A conclusione di un suo fortunato manuale, più di quarant’anni fa un grande filologo e codicologo quale Alphonse Dain affermava: «Il libro manoscritto è stato qualcosa di vivo prima di diventare, sugli scaffali delle nostre biblioteche, una materia morta, riservata all’uso di qualche erudito. Ma è proprio vero che il libro manoscritto è cosa morta? Non rappresenta esso, al contrario, una materia sempre viva, che continua a far vivere l’umanità?» (Les manuscrits, Paris 1964, pp. 175-76). Nota bibliografica Occorre innanzitutto ricordare due opere generali lontane nel tempo, ma originali ed importanti, quali: 1) W. Wattenbach, Das Schriftwesen in Mittelalter, Leipzig 1896. Enorme raccolta di dati e di notizie sulle materie scrittorie, i modi [p. 37] della produzione di testimonianze scritte, le scritture in uso nel Medioevo: ancora indispensabile. 2) A. Dain, Les manuscrits, 3a ed. a cura di J. Irigoin, Paris 1975. È il libro più intelligente che in questo campo sia stato scritto, è di lettura piacevolissima e, per quanto invecchiato assai nell’impostazione (prevalentemente filologica), rimane ineliminabile. Per un’informazione più propriamente codicologica, si vedano: 3) D. Muzerelle, Vocabulaire codicologique. Répertoire méthodique des termes français relatifs aux manuscrits, Paris 1985. 4) R. H. Rouse - M. A. Rouse, Codicology, western european, in Dictionary of the Middle Ages, a cura di J. R. Strayer, New York 1988, pp. 475-78. 5) O. Mazal, Leherbuch der Handschriftenkunde, Wiesbaden 1986 (Elemente des Buch- und Bibliothekswesens). 6) E. Ruiz, Manual de codicologia, Madrid 1988. 7) J. Lemaire, Introduction à la codicologie, Louvain-la-Neuve 1989. Per la storia della scrittura latina nel Medioevo esistono numerosi manuali in varie lingue. Si consigliano: 8) G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna 1954. Fondamentale trattazione generale. 9) G. Cencetti, Paleografia latina, edizione a cura di P. Supino Martini, Roma 1978. Redazione abbreviata del testo precedente. 10) B. Bischoff, Paläographie des römischen Alterturms und des abendländischen Mittelalters, Berlin 1979 (1a ed.), (ne esiste una traduzione francese, Paléographie de l’Antiquité romaine et du Moyen Age occidental, a cura di H. Atsma e J. Vezin, Paris 1985). È un informatissimo e ricco manuale di tipo tradizionale. 11) A. Petrucci, Breve storia della scrittura latina, Roma 19922. Per la storia delle biblioteche medievali, si veda: 12) G. Cavallo (a cura di), Le biblioteche nel mondo antico e medievale, Roma-Bari 1988. Come generale guida bibliografica, è comunque indispensabile l’uso di: 13) L. Boyle, Medieval latin palaeography. A bibliographical introduction, Toronto 1984. Ivi anche l’indicazione delle raccolte di riproduzioni e dei facsimili di manoscritti medievali esistenti.