SVEVO E SABA: TRIESTE NUOVO MARGINE FRA LETTERATURA E ARTE.
Trieste è stata la città di Svevo, di Joyce, di Saba, una città di confine, una zona di scambio con
la grande tradizione europea. In questo crogiuolo di etnie, in questo humus fertilissimo, sono
sorte nel Novecento delle figure che hanno fatto la grande letteratura, hanno creato una nuova
idea d’intellettuale, hanno preluso all’apertura europea dei confini nazionali. Per capire al
meglio, quanto queste personalità e le loro opere siano state influenzate, nella narrazione, nelle
descrizioni, nei colori, non vi è modo migliore che analizzare i contatti fra letteratura e arti
figurative. Questo binomio è profondamente radicato negli scrittori triestini, così attaccati alle
immagini, da non poter fare a meno di guardare continuamente all’aspetto artistico, allo sviluppo
pittorico, all’unico linguaggio che è comprensibile da tutti senza bisogno di traduzioni o del
cimentarsi nella difficoltà di una nuova lingua. Prendendo come riferimento un grande studioso
triestino il Professor Sergio Molesi, recentemente scomparso, si andranno volta per volta
indicando i passaggi fondamentali che uniscono l’opera di Svevo e di Saba alle tele degli artisti
che li circondavano e li ispiravano, e che davano forma alle loro parole. Gli intellettuali triestini
del Novecento vivevano d’arte e vivevano nell’arte. L’ultimo di essi, il Professor Sergio Molesi,
prima di salutare i suoi studenti, ha insegnato loro questa preziosa unione fra due discipline, la
quale è l’unico modo per comprendere al meglio le opere di Italo Svevo, di Umberto Saba, e di
molti altri triestini come loro. Molesi riconobbe diversi collegamenti fra Svevo e alcuni pittori
della zona del triveneto, ma anche con artisti di fama nazionale e internazionale, esattamente
com’è riscontrabile per Umberto Saba. Tutto questo si mescola a Freud, alla forza attrattiva che
la psicoanalisi esercitava a Trieste con Edoardo Weiss, il quale diede alla città una posizione
d’avanguardia rispetto al resto d’Italia, e anche alla commistione perenne di lingue, stili e
correnti che proliferò a Trieste.
In questa sede si desidera mettere a confronto due figure di letterati, quella di Italo Svevo e
quella di Umberto Saba, che maggiormente, uno per la prosa e l’altro per la poesia, sono stati in
grado di dare voce ai dipinti, di creare un’opera d’arte totale, comprensibile a più popoli, di
dimensione Europea, ma di tradizione italiana. Non parleremo di critica d’arte, ma di letteratura
ispirata dall’arte figurativa, un ambito ben diverso, ma, in questo porto in cima all’Adriatico,
qual è Trieste, molto frequentato.
Per quanto riguarda Svevo saranno analizzati in ordine i tre romanzi, facendo attenzione a
riportare i luoghi più significativi per l’indagine svolta, i Racconti, qualche articolo, e dei
frammenti. L’edizione utilizzata per i riferimenti testuali è quella della collana I Meridiani
1
Mondadori: ITALO SVEVO, Tutte le Opere, edizione diretta da Mario Lavagetto, Milano, Arnoldo
Mondadori Editore, 2004. Mentre per Saba l’edizione guida sarà: UMBERTO SABA, Tutte le
prose, a cura di Arrigo Stara, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001.
Il Professor Molesi, nel 1978, per il Cinquantenario della morte di Italo Svevo, fu incaricato dal
Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste, di redigere un catalogo dal titolo Artisti triestini dei
tempi di Italo Svevo. In ciò lo aiutarono la studiosa Cora Mosca – Riatel, lo scrittore Stelio
Mattioni e lo scultore Marcello Mascherini. Gli estremi cronologici individuati per compiere
questo studio furono ovviamente la data della morte (1928), come termine ante quem, e il 1880
come termine post quem, considerando il fallimento dell’industria paterna e il nuovo impiego
presso la Banca Union l’effettivo ingresso di Svevo all’interno della vita pubblica e culturale
della città. L’inizio certo della nostra trattazione però è sicuramente l’anno 1883, in cui venne
fondato il Circolo Artistico Triestino, che Svevo cominciò a frequentare nel momento in cui
artisti come Grünhut, Veruda e Wostry, i “vessilliferi della nuova cultura figurativa”, come li
definisce Molesi, portavano le nuove tendenze da Monaco. Fra i tre, Veruda in particolare fu il
traghettatore dell’esperienza artistica più influente dal punto di vista dell’impatto pittorico,
ovvero l’impressionismo, che grazie a lui fu conosciuto a Trieste. L’amicizia fra Svevo e Veruda
ha come data cardine il 1890, in cui i due intellettuali iniziano a conoscersi e ad apprezzarsi.
Infatti in Una vita, pubblicato nel 1892, Svevo mostra ancora tendenze “cupamente romantiche”,
per quanto riguarda il gusto figurativo, anche se flebili, ogni tanto, emergono le tracce simboliste
con pretese “moderniste”, quali potevano essere quelle che l’amico Veruda iniziava a percepire
in quegli anni. È lo stesso Svevo che attraverso le sue opere fa emergere la competenza artistica
che via via va acquisendo. In Una vita (1892), infatti lo scrittore ammette1:
Non s’intendeva affatto di pittura Alfonso, ma aveva letto qualche volume di critica artistica e sapeva cosa
significasse, nell’idea, scuola moderna. Rimase colpito dinanzi a un quadro che non rappresentava altro che
una lunga via aperta segnata attraverso terreno sassoso. Non v’era alcuna figura; sassi, sassi e sassi. Il
colore era freddo e la via sembrava perdersi all’orizzonte. Una mancanza di vita sconsolante.
E sempre riguardo allo stesso dipinto, poco più avanti2:
Ora Annetta si dedica alle chineserie, fu la prima ad introdurle in città, ma ne sa quanto i suoi autori gliene
dissero e non ne capisce nulla affatto perché non le sente. L’unico quadro buono che abbia in casa l’ho
comperato io, una via attraverso i sassi.
1 RC p. 33 rr. 8 - 15
2 RC p. 45 rr. 11 - 19
2
-
L’ho visto, magnifico! – esclamò Alfonso e per darsi aria d’importanza chiese: - Di chi è?
-
Il nome dell’autore non rammento, rammento il quadro – rispose Macario – io sono figliuolo di mia
zia.
In Senilità la confidenza con l’arte figurativa è completamente mutata e la sensibilità di Svevo si
è notevolmente potenziata. Ormai Svevo e Veruda hanno un’amicizia forte e il pittore ha
influenzato tantissimo lo scrittore con le sue nuove esperienze artistiche. Si potrebbe addirittura
parlare in questo caso, suggerisce Molesi, di “impressionismo sveviano”. Livia Veneziani –
Svevo racconta del legame fra il marito e Veruda nella Vita di mio marito, partendo da quando
Svevo collaborava con il giornale irredentista l’«Indipendente» e i due s’incontravano in casa
Veneziani per le conversazioni nei pomeriggi domenicali. Più il tempo passava e più i due
uomini si sentivano legati. Scrive Livia Veneziani 3:
C’era fra loro un’analogia del destino: ambedue si sentivano incompresi dall’ambiente, impregnato di
quietismo provinciale. Ambedue andavano contro corrente ed erano oppressi da una profonda melanconia,
che il pittore cercava di dissipare con l’abbandonarsi, nelle «sabatine» del Circolo Artistico, a una sfrenata
allegria.
Veruda non è solo un importante compagno di vita per Svevo, ma diventa una fonte
d’ispirazione continua, per le descrizioni, per le vedute, per la nuova luminosità dei tratti
narrativi, oltre ad essere tradotto egli stesso in letteratura, poiché Svevo lo ritrae nelle vesti dello
scultore Balli. Nota a tutti è la lettera del 14 giugno 1928, scritta da Svevo a Emerico Schiffrer,
in cui è lo stesso narratore a sottolineare affinità e differenze fra Veruda della realtà e Balli della
letteratura4:
La prima cosa che mi colpisce cercando di ricordare il carattere di Veruda è che radicalmente è differente
da quello del Balli almeno quando arrivò a me da Monaco oltre Napoli e Roma. […] Era dunque differente
del tutto da quel sicuro e poco artistico Balli. […] Al Balli egli certo somigliava in qualche cosa che il
Benco tanto bene espresse: La grande lealtà, ma anche una certa indifferenza per le cose di questo mondo
quando non sono belle.
In Senilità il gusto artistico e la competenza in ambito figurativo di Svevo filtrano dal tessuto
vivo del testo. Abbiamo letto alcune delle continue testimonianze dello stretto legame fra Svevo
e Veruda, delle loro passeggiate lungo il Corso e al caffè dei Portici di Chiozza, delle
3 p. 33 dell’edizione SVEVO VENEZIANI LIVIA, Vita di mio marito, Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1958.
4 p. 879 dell’edizione BRUNO MAIER, Italo Svevo – Opera Omnia, Epistolario, Milano, Dall’Oglio, 1966.
3
interminabili visite che Svevo faceva all’amico presso il suo atelier in Via degli Artisti,
frequentato anche dall’allievo di Veruda: Flumiani e dal quale non era estraneo nemmeno un
artista come Arturo Fittke, inesausto disegnatore della sorte dell’inetto, protagonista sveviano per
eccellenza. Seguendo dunque le nuove tecniche artistiche di Veruda si può dire che Svevo in
Senilità (1898) realizzi le sue descrizioni con tratti veloci e velature rapide, come quadri
impressionisti5:
La luce lunare non ne mutava il colore. Gli oggetti dai contorni divenuti più precisi non s’illuminavano, si
velavano di luce. Vi si stendeva un candore immoto, ma di sotto, il colore dormiva intorpidito, fosco, e
persino nel mare che ora lasciava intravedere il suo eterno movimento, bloccandosi con l’argento alla sua
superficie, il colore taceva, dormiva. Il verde dei colli, i colori tutti delle case rimanevano abbrunati e la
luce di fuori, inaccolta, distinta, un effluvio che saturava l’aria, era bianca incorruttibile, perché nulla in lei
si fondeva.
Oppure, come nella citazione successiva, in cui sembra davvero che Svevo sia ispirato da un
quadro simile a quello realizzato da Giovanni Zangrando proprio nel 1898 e intitolato Passeggio
Sant’Andrea, posseduto nella collezione Fonda Savio 6:
L’aria era tiepida ma, coperto di una fitta bianca nebbia, tutta una cappa dello stesso colore, il cielo era
veramente invernale e Sant’Andrea con quegli alberi dai lunghi rami nudi, secchi, non ancora tagliati, e il
suolo bianco per la luce impedita e diffusa, sembrava un paesaggio di neve. Riproducendolo e non potendo
ridare la mitezza dell’aria, un pittore avrebbe stampata quell’erronea illusione.
Questo “colorismo impressionistico”, Svevo non lo esercita soltanto sui paesaggi. Anche le
descrizioni che riguardano i personaggi sono cariche di luminosità e di pennellate materiche, in
particolare quelle riguardanti la figura di Angiolina7:
La testa usciva da tutto quel bianco, non oscurata da esso, ma rilevata nella sua luce gialla e sfacciatamente
rosea, alle labbra una sottile striscia di sangue rosso che gridava sui denti, scoperti dal sorriso lieto e dolce
gettato all’aria e che i passanti raccoglievano. Il sole le scherzava nei riccioli biondi, li indorava e
incipriava.
5 RC p. 420 rr. 7 - 16
6 RC pp. 465 - 466 rr. 32 - 39
7 RC p. 438 rr. 19 - 25
4
La figura femminile non è rappresentata soltanto, però, come rarefatta vaporosità di diversi toni
di bianco. Diventa immagine intrigante, animale cesellato, esplodendo nella fantasia di una
figurazione del tutto non canonica e ormai pienamente simbolista come per la donna-tigre8:
Aveva immaginato la sua eroina secondo la moda di allora: un misto di donna e di tigre. Del felino aveva le
movenze, gli occhi, il carattere sanguinario. Non aveva mai conosciuto una donna e l’aveva sognata così,
un animale ch’era veramente difficile fosse mai potuto nascere e prosperare. Ma con quale convinzione
l’aveva descritta! Aveva sofferto e goduto con essa sentendo a volte vivere anche in sé quell’ibrido
miscuglio di tigre e di donna.
Non si tratta solo d’impressionismo, dunque, ma di vero e proprio simbolismo, a tratti
spiritualismo, con un prepotente imporsi della celebrazione dell’individualità dell’artista e della
liberazione di questo dalle costrizioni accademiche 9:
Questa cena di vitelli – disse il Balli con la bocca piena guardando in faccia gli altri tre – non è
precisamente una cosa molto armonica. Voi due stonate assieme; tu nero come il carbone, ella bionda come
una spiga alla fine di giugno, sembrate messi insieme da un pittore accademico. Noi due poi si potrebbe
metterci sulla tela col titolo: Granatiere con moglie ferita.
Oppure10:
Il Balli si commosse rumorosamente. Scopriva che nel defunto scultore l’artista era esistito fino all’abbozzo
e che l’accademico era sempre intervenuto a distruggere l’artista, dimenticando le prime impressioni, il
primo sentimento per non ricordare che dei dogmi impersonali: i pregiudizi dell’arte.
Il profondo legame d’amicizia fra Svevo e Veruda si interrompe nel 1904, con la morte di
quest’ultimo a trentasei anni, e dopo qualche tempo muore anche l’altro grande pittore e
compagno di una vita Fittke. Svevo dedica a Veruda una mostra retrospettiva di tutte le opere,
proprio nel centro della città, in un padiglione allestito vicino alla chiesa di Sant’Antonio
Nuovo11. Svevo rimane così privo di spunti visivi e abbandona la letteratura per un periodo.
8 p. 529 rr. 3 - 11
9 p. 452 rr. 1 - 7
10 p. 463 rr. 5 - 10
11 cfr. p. 35 dell’edizione Svevo Veneziani Livia, Vita di mio marito, Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1958
5
Circa a questo momento sono stati datati alcuni romanzi come Lo specifico del dottor Menghi, in
cui Svevo fa dire dell’io narrativo 12:
Per la prima volta vidi in esso lo sforzo di linee fatto dal poco destro artista la cui arte barocca era stata resa
meno ridicola dall’antichità. Io non ho natura di pittore, tutt’altro, e fui sorpreso della delicatezza e finezza
del mio occhio.
Qui il protagonista sta descrivendo l’armadio della sua stanza, e seppur sia ripetuta l’ammissione
di non essere portato per l’arte, come abbiamo visto in Una vita, egli si compiace e al contempo
stupisce per la sua abilità visiva. Indicativamente nello stesso arco cronologico, del primo
decennio del Novecento, è stato anche incastonato l’altro racconto intitolato In serenella, dove
Svevo fa descrivere con entusiasmo al signor Giulio una pietà13:
Là sulla palude proprio – se egli fosse stato milionario – avrebbe fatto costruire una enorme Pietà in marmo
pario che avrebbe riepilogato il tempio magnifico di marmo…[…]La Pietà egli l’aveva vista a Trieste ma
doveva essere riprodotta in forme colossali tali che alla distanza di un chilometro cioè dalle Fondamenta
Nuove si avrebbe potuto percepire le due figure della Donna che consola l’Uomo inginocchiato e riposante
nel suo grembo.
Qui si tratta di un gruppo in stucco, appartenente all’arte popolare tirolese, che Svevo vide della
cappella di S. Servolo della Cattedrale di San Giusto, databile al XV secolo. Svevo dimostra di
difendersi bene per quanto riguarda la conoscenza artistica e proseguirà questo cammino con il
suo ultimo capolavoro.
Lo scrittore approfondisce la conoscenza di Freud e nel 1923 arriva a pubblicare La coscienza di
Zeno. Svevo ha mutato ancora una volta la sua posizione nei confronti dell’arte figurativa. Il suo
ultimo grande romanzo e capolavoro è ugualmente intessuto da diversi rimanti artistici, pittorici,
visivi, ma con la sensazione che lo scrittore li percepisca dal di fuori, senza viverli pienamente
dal loro interno, com’era in Senilità. Lo scrittore sembra più un critico d’arte, che un esperto
conoscitore e cultore, diciamo per passione. Molto frequenti sono le similitudini che fanno
riferimento a Raffaello, o a Michelangelo e persino a Velasquez, ad esempio 14:
12 R p. 77 rr. 3 - 5
13 R pp. 312 – 313 rr. 28 - 37
14 RC pp. 921 – 922 rr. 33 - 44
6
Solo gli stivaletti erano di lusso e ricordavano un po’ la carta bianchissima che Velasquez metteva sotto i
piedi ai suoi modelli. Anche Velasquez, per staccare Carmen dall’ambiente, l’avrebbe poggiata sul nero di
lacca.
Svevo mescola tradizione e avanguardia, con il suo solito estro di precursore e così scrive dei
rimandi ai grandi Maestri dell’arte italiana, non rinunciando alla metafisica. Il Professor Molesi
nel suo studio ha formulato una penetrante e suggestiva proposta figurativa da accostare alla
chiusa della Coscienza, che ha avuto notevole fortuna. L’opera di Nathan Lo scoglio incantato,
infatti, potrebbe benissimo essere un’illustrazione esplicativa della fine del romanzo sveviano,
con l’“esplosione enorme che nessuno udrà e la terra [che] ritornata alla forma di nebulosa errerà
nei cieli priva di parassiti e di malattie”. Il dipinto è stato datato al 1931, e perciò si può
confermare che la narrativa sveviana ha influenzato la pittura metafisica di Nathan con
prepotente suggestione. Con il 1923, però non si esaurisce l’arte di Svevo che è pronto a stupire
ancora il lettore con Corto viaggio sentimentale, di datazione incerta fra il 1924 e il 1925 e con
l’eventuale continuazione della Coscienza delle Confessioni del vegliardo.
In Corto viaggio sentimentale le reminiscenze figurative sono tante e importanti, a partire dal
fatto che il narratore racconta del suo protagonista, mentre scruta il compagno di viaggio 15:
Ricordava qualche ritratto celebre, ma il signor Aghios, che ne aveva visti tanti, non sapeva precisare quale.
Per arrivare alla divertente e un po’ malinconica narrazione del viaggio di Aghios e di un suo
amico pittore fino a Torlano, in Carnia. Qui è forte la nostalgia di Svevo per il Veruda, infatti il
fantomatico pittore è da riconoscersi proprio con lui16:
E il vecchio s’incantò a ricordare quella roba giovine e quel vino vecchio (aveva tre anni, di quegli anni
lunghi della montagna) e la propria fresca gioventù resa geniale dal grande pittore triestino, sparito tanto
presto e che guardando il ponte di Torlano sapeva come Manet l’avrebbe ritratto.
La gita fuoriporta è stata persino riportata in una lettera a Livia del 15 aprile 1912 17. Ma la tenera
commemorazione del Veruda non termina qui, poiché Svevo, qualche pagina più avanti celebra
15 R p. 519 rr. 10 - 12
16 R p. 534 rr. 27 - 32
17 cfr. R p. 1234
7
il vecchio amico citandone l’opera maggiore (si tratta del Ritratto dello scultore di Veruda, citato
anche in Senilità)18:
Si passa dinanzi a Palazzo Pesaro, bruno tempio dalle pietre quadre, ma consacrato all’arte, e ad alta voce il
signor Aghios menzionò il nome di Umberto Veruda, il grande pittore triestino il cui capolavoro vi
dormiva.
Nelle Confessioni del vegliardo sempre l’amico pittore viene raccontato nella figura del figlio
Alfio, pittore incompreso, sostenitore delle nuove tendenze impressionistiche, la cui arte, un
padre conservatore e di strette vedute non riesce ad accettare, se non dopo una reiterata
osservazione e interpretazione. All’interno di queste pagine letterarie sono descritti i primi passi
del concettualismo dell’arte contemporanea. Alfio spiega al padre19:
«Ma padre mio! È un’arte che non è per tutti. È un’arte nuova. Bisogna intenderla. Essendo nuova è rude, è
la raccolta di segni quasi non sorvegliati di un’impressione».
Il padre di Alfio chiama le opere del figlio “imparaticci”, “sgorbi”, e li deride pubblicamente con
gli amici, eppure pian piano li analizza e li interpreta20:
Intanto era evidente che Alfio aveva voluto fare una collina. Non v’era dubbio. I colori non s’erano alterati
né per la lontananza né per l’altezza ma quando compresi e amai quel dipinto arrivai veramente a
conclusioni che mutavano tutto l’aspetto dell’aria di questo mondo. Sulla collina erano state costruite o si
aveva avuto l’intenzione di costruire tre file di case parallele. E studiando ebbi il sentimento gradevole di
collaborare attivamente con Alfio. Dipingevo anch’io. In basso la via era segnata da qualche pennellata di
color viola. Non era il solito colore del suolo. Ma insomma era facile intendere che quello doveva essere il
suolo. Al di sopra c’era la prima fila di costruzioni: Un lungo muricciolo giallo e in un canto una sola casa,
con la sua parte più alta gialla anch’essa, di sotto lasciata nuda bianca, il colore della carta. Ma questa casa
era la più abitabile di tutte. Le mura veramente perpendicolari, era esattamente quadra, col solo difetto di
aver poche finestre, due al secondo piano ed una al primo, ma quelle munite di regolari persiane di un color
grigio che più tardi veramente amai. Questa certamente era la casa domenicale. Al di là di questa prima fila
c’erano delle altre pennellate di quel color violaceo che – come risultava dalla chiave fornita dal quadro
stesso – segnava di nuovo una strada. E c’erano poi altre due file di case divise dallo stesso color violaceo
che per la distanza, cioè per esser visto meglio si rinforzava. Ma che case, mio Dio! C’era dentro tutta la
compassione di un poeta per delle povere case derelitte, un pianto contenuto. Quasi tutte le mura erano
18 R p. 577 rr. 32 - 36
19 RC p. 1129 rr. 17 - 20
20 RC p. 1132 rr. 29 - 62
8
perpendicolari ma le case mancavano di finestre e dove le avevano erano decisamente nere e informi
proprio per denotare che quelle finestre mancavano di persiane e anche di lastre. Invece che riverberare la
luce di fuori, ne usciva la tetra oscurità dell’interno.
Svevo, dunque, non rimarrà mai fuori dal circuito culturale cittadino, nemmeno negli ultimi anni.
Frequenta il caffè Garibaldi e lì incontra Bolaffio, Giotti, Rovan, Saba e Stuparich, e non
rinuncia nemmeno a restare al passo con le nuove correnti artistiche. Percepisce, infatti, nel
giovane pittore Sbisà, da poco ritornato da Firenze, una nuova e attraente prospettiva artistica,
quella metafisica21:
Carlo Sbisà abbandonò Trieste giovinetto. Vi ritorna nella piena maturità della sua arte che per la prima
volta è presentata ai suoi concittadini. La nostalgia che l’accompagnò ha certo contribuito ad affinare il suo
pensiero, la sua visione, il suo colore. L’osservatore un poco accorto saprà scoprire nei suoi dipinti il
desiderio nostalgico dell’evocazione per cui le cose da lui fissate ritrovano intero lo spazio e la luce in cui
nacquero, senza sforzo, senza traviamenti strani, per il lavoro compiuto fino in fondo con amore sempre
vivo, fino all’ultima pennellata. È più nostro che se fra noi fosse sempre rimasto.
Nell’anno della morte, Svevo scriverà questa presentazione per una mostra di Sbisà e il pittore lo
celebrerà con un ritratto in sanguigna.
Sempre legata agli ultimi anni della vita di Svevo è invece la recensione su «Il Popolo di Trieste»
del 21 gennaio 1928, che lo scrittore fa ad una scultura in terracotta di Ruggero Rovan intitolata
Giovanotto triestino, esposta alla mostra al giardino pubblico di Trieste dello stesso anno.
All’apertura metafisica con Sbisà, la grande ammirazione per Rovan, non va dimenticata la
pittrice Leonor Fini, autrice di uno splendido e misterioso ritratto di Svevo, e a cui il narratore
manda una dedica, conservata, dietro ad una foto, perduta22:
Alla cara artista augurando che come la sua grande giovinezza non le impedì l’arte più alta, così la sua arte
non le offuschi la giovinezza.
Accennando al circolo intellettuale formatosi al caffè Garibaldi, è stato nominato anche Vittorio
Bolaffio. Questo artista goriziano che fu la vivente trasposizione della figura letteraria dell’inetto
nella realtà. Il pittore, infatti, che non godeva di ottima salute e che cercò per tutta la sua
esistenza di vivere solo dell’arte, sfuggendo le cure e la protezione dei suoi benestanti genitori,
era molto affine all’idea che Svevo aveva del vinto, del debole. La favola sveviana Un artista,
21 TS p. 1174
22 R p. 796
9
del 1920, potrebbe benissimo essere recitata da lui, animo irrequieto e mai soddisfatto.
Esattamente come avviene per Veruda o per Fittke, Bolaffio fu molto vicino a Svevo e in stretto
contatto con lui e con Saba. Tutto ciò denota come in questo “mito sottile”, come recita il titolo
dal catalogo23 di una mostra tenutasi al Museo Revoltella di “pittura e scultura nella città di
Svevo e Saba”, siano implicati legami fitti e sotterranei, come tanti fili che si intrecciano fra di
loro a creare un panorama di più ampio respiro. L’arte a Trieste stava mutando prospettive, si
percepiva ormai la curiosa e cupa atmosfera del surrealismo, arrivato anche in quest’angolo
d’Italia e appendice d’Europa.
Affiancato ad uno Svevo così legato all’arte figurativa, si trova Umberto Saba, anche lui
cresciuto in una Trieste di letteratura e arte, che gli permette di incontrare artisti come Bolaffio,
già citato per Svevo, Giotti, Rovan e molti altri. L’amico Bolaffio è spesso citato nell’opera di
Saba come in questa Scorciatoia24:
99) TRIESTE […]. Trieste italiana ha dato Italo Svevo, Umberto Saba, alcune tele (se esistono
ancora) del grande pittore Vittorio Bolaffio. […] Ma se le cose alle quali ho accennato- poesie,
quadri, romanzi- hanno ancora un peso, pesano- senza contropartita- sul nostro piatto della
bilancia.
Questo è solo l’inizio di una vastissima serie di ricordi, riprese, omaggi che Saba rivolge
all’amico Bolaffio. Storia e Cronistoria del Canzoniere, Saba cita Bolaffio nel capitolo dedicato
alla raccolta Cuor morituro (1925-1930), collegandolo alla poesia La brama. Ci si trova davanti
al caso in cui Bolaffio, esattamente come avveniva per Svevo e Veruda, ha dato vita alle parole
di Saba25:
La lirica, che ha momenti di grande passionalità, è dedicata alla “venerata memoria del pittore
Vittorio Bolaffio”. Era un grande pittore, che non ebbe, fino ad oggi, fortuna. Era anche uno dei
quattro amici triestini di Saba, quello che, nella poesia “Due felicità”, faceva i suoi strani disegni
sopra il marmo bianco di un tavolo da Caffè. Saba gli deve il solo ritratto nel quale si riconosca; e
l’ultima strofa della “Brama” (uno dei punti più alti a cui egli sia giunto) che è come la risposta
del poeta a quel ritratto:
Devotamente egli la mano stende,
che d’ansia trema, a colorir sue tele…
23 AA. VV., Il mito sottile, pittura e scultura nella città di Svevo e Saba, Catalogo della mostra, Trieste, Civico Museo Revoltella, 26 ottobre 1991 – 30 marzo 1992, Trieste,
Litografia Ricci, ottobre 1991;
24 Pr p. 47
25 Pr p. 226 rr. 15 - 29
10
Anche questa strofa della “Brama”, di cui la forza s’insinua, per vie traverse nell’arte di fanciullo
del pittore “non vecchio ancor, ma curvo - come un vecchio”, vorremmo interamente riprodurla.
Il ritratto cui si riferisce Saba è il celeberrimo Ritratto di Umberto Saba, realizzato da Vittorio
Bolaffio per l’amico poeta, che raffigura benissimo come a Trieste arte, letteratura e psicanalisi
fossero inscindibili. Il viso di Saba, con gli occhi azzurri è frutto di un’attenta analisi psicologica
da parte del pittore, che ne coglie ogni ombra, ogni filo d’espressione. C’è dunque un legame
fortissimo che lega le due personalità e che le unisce oltre ai limiti temporali dell’esistenza. Fra
le Prose Sparse, all’interno de Le schegge del “mondo meraviglioso” scritte tra il 1945 e il 1957,
c’è un breve raccontino intitolato Ritratto di un pittore: Vittorio Bolaffio (1946). Saba racconta
che Bolaffio è morto ormai da oltre vent’anni, e che la forza per scrivere quelle pagine, gliel’ha
data il critico d’arte Giuseppe Marchiori, poiché il poeta è convinto che non serva tanto parlare
di pittura, ma che piuttosto vada vista.
Un’altra grandissima amicizia è quella che lega Saba a Virgilio Giotti, anche lui triestino e poeta
dialettale, di cui Saba in Storia e Cronistoria del Canzoniere, all’interno di Cose leggere e
vaganti (1920) scrive26:
Il libretto, che uscì per la prima volta in un’edizioncina di 35 esemplari, quasi privata (Editrice la
Libreria Antica e Moderna, Trieste, Via San Nicolò 30) e fu curata ed illustrata con fraterno
amore da Virgilio Giotti […].
In queste righe Saba fa riferimento alle illustrazioni, che Giotti creò appositamente per l’edizione
della raccolta sabiana. Tale fatto è sintomatico di una grande collaborazione artistica e
intellettuale, e di una forte coesione fra le due figure di artisti. Negli anni successivi il rapporto di
collaborazione continuò, con l’edizione di Ammonizione ed altre poesie, curata da Giotti e fatta
stampare da Saba nel 1932 in seicento esemplari. Le illustrazioni sono state eseguite da Giotti a
matita e ripassate con l’inchiostro. In questa sede a esempio si riporta l’immagine riprodotta sul
frontespizio di Cose leggere e vaganti. Dopo una così stretta collaborazione e frequentazione,
Saba e Giotti si separarono. Ognuno visse la sua vita senza curarsi l’uno dell’altro. Ma Saba
portò sempre nel cuore l’amico, dedicandogli una prosa in forma di lettera, oggi presente ne Le
schegge del “mondo meraviglioso” e intitolata [Per Virgilio Giotti], datata: Trieste, 28 aprile
1956. Sono moltissimi dunque i momenti sia in prosa che in poesia in cui si assiste per Saba
26 Pr p. 180 rr. 9 - 12
11
come per Svevo a questa fusione a questa sorta di opera d’arte totale, che li univa nella vita e
nell’opera.
Saba, come Svevo nel saggio Del sentimento in arte, anche senza riferirsi a un artista in
particolare si sente spinto a trattare d’arte, oppure è questa che lo ispira e influisce sulla scelta
dei suoi temi. Ad esempio ne I Prigioni (1924), la raccolta poetica che maggiormente implica un
riferimento storico artistico alle spalle, Saba, nell’incipit della sua trattazione, sostiene di essersi
ispirato spesso alle arti figurative. Egli scrive di non aver mai voluto “trasporre una statua o un
quadro in una poesia”, ma di compiere un gesto simile per l’ammirazione che egli porta nei
confronti del genio di Michelangelo. Inoltre Saba si trova ad avere in casa ben presto una
pittrice: la figlia Linuccia, un po’ come Zeno nelle Confessioni di un vegliardo. Linuccia è quella
che mette in contatto il padre con Carlo Levi e Renato Guttuso. In particolar modo l’amicizia che
lega Saba e Levi è molto conosciuta, anche perché svolgendo un lavoro estremamente accurato,
Silvana Ghiazza ha pubblicato nel 2002, per la casa editrice Dedalo di Bari, un volume intitolato
Carlo Levi e Umberto Saba, storia di un’amicizia, nel quale sono contenuti tutti gli scritti e i
documenti che l’autrice ha potuto reperire presso la Fondazione Carlo Levi di Roma. Da tali
ricerche sono pervenuti moltissimi scritti, che testimoniano un’attività, che si stende negli anni
per oltre un ventennio, e che riporta a galla una complessa e ricchissima amicizia.
Due sono i ritratti più noti che Levi eseguì per Saba, uno si trova alla Galleria di Arte Moderna e
Contemporanea di Roma ed è il fratello di un altro noto dipinto di Saba, in possesso
dell’Università degli Studi di Trieste. I contatti figurativi tra Saba e Levi sono davvero
sterminati: schizzi, disegni, caricature scherzose, e incisioni. Nel catalogo della mostra tenuta a
Palazzo Medici - Riccardi, per esempio, nel maggio - luglio 1977, Pitture e disegni, a cura di G.
Gromo, Firenze, 1977, Linuccia Saba descrive così uno schizzo realizzato da Levi su una
tovaglietta da osteria:
“Disegnato su un pezzo di tovaglia di carta d’osteria, la tovaglia sulla quale sia il pittore che il
modello avevano mangiato. Poi il disegno, strappato dalla tovaglia, è stato inviato alla moglie
Lina, la Lina di Saba. Attorno al ritrattino ci sono le firme degli amici che avevano mangiato con
loro: Giuseppe Marchiori, Carlo Levi, Umberto e Linuccia Saba, Marcella”.
Fin qui abbiamo davvero citato solo alcuni artisti e certo è difficile ancora capire quanto vasta fu
la rete di rapporti intessuta da Saba. A questo proposito vanno fatti due nomi davvero notevoli
all’interno del panorama artistico novecentesco, quasi quanto Levi e Guttuso, ovvero Ardengo
Soffici e Filippo De Pisis. Ciò collega direttamente Saba con il mondo artistico parigino, con
l’avanguardia, l’innovazione, l’apertura, i nuovi ideali. Saba incontra De Pisis negli anni parigini
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del pittore, ovvero dal 1925 al 1939, periodo descritto egregiamente da Giuliano Briganti27. Si è
sempre presunta l’effettività dei loro contatti, ma non ci sono mai stati degli studi incentrati
unicamente su questo rapporto. Nelle serate mondane di De Pisis, oltre a parteciparvi la
vulcanica Leonor Fini, che abbiamo visto aveva ritratto Svevo, vi prendeva parte anche lo
scrittore Comisso. Il carteggio Saba – Comisso28, presenta degli scambi interessanti fra i due
letterati, o meglio fra i due commercianti. Proprio di commercio, infatti, si trattava. Saba visse
della rendita fornita dalla sua Libreria Antica e Moderna e Comisso, fra i vari mestieri che
intraprese, fu anche commerciante di quadri, stampe e libri, lavoro che fu per lui uno dei più
affascinanti. Nelle lettere emergono questi dati a titolo informativo su libri, clienti, richieste,
vendite. I contatti fra Saba e De Pisis, inoltre, sono testimoniati anche in Filippo de Pisis ogni
giorno, biografia interamente costituita su documenti inediti, a cura di Sandro Zanotto, Neri
Pozza Editore, Vicenza, 1996, dove il nome di Saba compare cinque volte, prima in un elenco
delle letture fatte nel 1918, poi negli anni parigini (1934-1939). De Pisis vendette a Saba delle
tele, alcune anche che avrebbe potuto rivendere nella sua Libreria Antiquaria, ed ebbe dei
fruttuosi scambi con il poeta. Ecco che sfogliando il catalogo della collezione Malabotta di
Ferrara, si viene a conoscere che più di un dipinto di De Pisis era appartenuto a Saba. Si veda per
esempio in ordine Pesci nel paesaggio di Pomposa, questo dipinto del 1928 è lo stesso autore a
parlarne in tali termini ne La pagina dell’artista su “L’Arte” di Roma nel maggio 1931:
Umberto Saba, a cui il quadro appartiene, insisteva, guardandolo nel mio piccolo studio parigino,
sulla gaiezza del colore; ma questa gaiezza non sarebbe che un contrasto per sottolineare la
melanconia che dà la caducità delle belle cose colorate.
Ma altri dipinti appartennero anche a Saba, si pensi per esempio allo splendido Una rosa sta
buttando, del 1938, anno in cui Saba si recò a Parigi, dove, come anticipato vi era anche
Comisso, che in Sodalizio ricorda così:
In quei giorni a Parigi vi era anche il poeta Umberto Saba, venuto ad acquistare per la sua libreria
antiquaria. Era iniziata, anche in Italia, la persecuzione contro gli ebrei, egli non osava più
rientrare a Trieste e viveva inquieto. De Pisis mi disse che una mattina ne era stato spaventato, a
una primissima ora era venuto a bussare alla sua abitazione svegliandolo di soprassalto, credeva
fosse la polizia, invece era lui che veniva in cerca di conforto.
27 GIULIANO BRIGANTI, De Pisis, gli anni parigini, Mazzotta, Milano, 1987;
28 MARIO SUTOR, Saba Svevo Comisso, Lettere Inedite, officine grafiche STA- Vicenza.
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A conclusione di questo vivo scambio che unì De Pisis a Saba, grazie al paziente ed entusiasta
supporto del signor Mario Cerne si possono qui di seguito presentare alcuni spezzoni del testo di
un capitolo dell’opera di Aldo Palazzeschi, Il piacere della Memoria, intitolato Tre italiani a
Parigi ed edito dalla Mondadori nel 1964, in cui l’autore racconta della sua esperienza parigina:
Appena entrato nella porta vidi Umberto Saba adagiato con certa grazia e mollezza su un
divanetto floreale tutt’altro che comodo, ma dimostrando l’intimo compiacimento del proprio
stato. Senza scomporsi dalla sua posizione di modello, fece col dito e il volgere dell’occhio un
cenno per darmi il benvenuto. Aveva in testa un berrettone di pelo da cosacco (la calvizie di Saba
era totale come quella di D’Annunzio). In piedi, davanti a lui con la cartella in mano, il pittore
Filippo De Pisis ne eseguiva a matita il ritratto. E anche De Pisis, senza distogliere lo sguardo dal
rapido lavoro fece con la testa ripetuti inchini accompagnati da un ampio sorriso per dimostrare
che pure senza guardarmi mi aveva visto e ch’era felice ch’io fossi li. De Pisis era con gli amici
cortese e affettuosissimo. […] Volle ch’io salissi nella sua camera per mostrarmi il quadro che De
Pisis gli aveva regalato, quadro marino con dei grossi pesci legati a un palo: bellissimo. Dallo
studio di De Pisis non usciva un amico che non avesse in mano un disegnino o un acquerello, e
talvolta un quadro vero e proprio, di quelli che oggi possono bastare per l’acquisto di un piccolo
appartamento. […].
Oltre all’esperienza parigina, sono soprattutto gli anni Fiorentini quelli che consentono a Saba i
maggiori incontri in campo figurativo. Certamente non mancano i contatti con i “vociani”, con
Papini, di cui è conservata una fitta corrispondenza fra il 1911 e il 1928, il quale cerca di mettere
il poeta in contatto con Vallecchi, Ojetti, Treves, Bemporad e Mondadori, ma non ultimo
all’interno di questo vortice c’è il celeberrimo e venerato genio del Futurismo Ardengo Soffici,
con cui Saba ha un, seppur breve, scambio, a volte anche molto fertile.
Saba non ha dimenticato in quel periodo la promessa di inviare i suoi versi alla «Rassegna
Contemporanea». Si tratta di redazioni varianti finora trascurate di 4 poesie confluite nel
Canzoniere 1921: Dopo la passeggiata, Intorno ad una cosa in costruzione, La bugiarda, Dopo
la tristezza. A testimonianza di questo scambio epistolare ci sono le lettere conservate
all’Archivio di Stato di Firenze nel Fondo Soffici. In una, datata: Trieste, 09/12/1923 e si legge:
Forse avevo torto anche prima, ma tu devi sape-/ re, anche per tua personale esperienza, che il
cuore/ d’un artista è come quello d’un fanciullo; un/ nulla basta a rattristarlo, una parola
affettuosa,/ un segno di riconoscimento e di stima lo commuovo- / no fino a dargli il rimorso dei
suoi sentimenti di ieri./ Di nuovo, tuo/
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Saba (firma autografa).
Il penultimo documento è una cartolina dattiloscritta, datata Trieste, 22/08/1911 per Soffici a
Poggio a Caiano:
Egregio Signor Soffici! Tengo de parecchi giorni una/ Sua cartolina sopra il mio/ tavolo, e appena
questa sera mi prendo il piacere di/ risponderLe. La ringrazio dunque delle sue buone inten /zioni, e dei miei versi (dei quali tengo un’ altra co -/ pia) faccia quanto le piace meglio: li
conservi cioè/ o li stracci. Solo non li dia a leggere a chi non cono -/ sce altro di mio./ E Lei che fa
a Poggio/ Caianno? Dipinge? Quei paesaggi che ha in casa Prezzo-/lini sono (alla mia ignoranza)
piaciuti parecchio./ Lo sfondo sul quale sono costruiti, mi à meravigliato,/ perché dalla Sua
attività letteraria lo avrei supposto/ molto diverso./ Stia sano e aggradisca i miei/ cordiali saluti./
Umberto sabato
Riportando questi brevi spezzoni delle lettere di Saba a Soffici, si voleva dimostrare, quanto, pur
essendo il poeta una figura schiva e pacata, egli fosse ben inserito all’interno dei giochi di
equilibrio intellettuale che si svolgevano in quel periodo. Certo, le lettere sono per la maggior
parte legate a interessi editoriali, a informazioni generiche su eventuali pubblicazioni, eppure
Saba, v’inserisce qualche elemento altro, qualche frase di autobiografismo, che, esattamente
come avviene nelle sue liriche, poi armonizza il tutto, raggiungendo anche momenti intensi di
letterarietà.
Umberto Saba e Italo Svevo, dunque, portarono la voce di Trieste nel resto d’Italia e all’Estero,
testimoniando un clima particolarmente fertile di collaborazione e integrazione non solo fra
culture, ma anche fra discipline e diversi campi di studio, di pensiero e di rappresentazione della
realtà. Questo intersecarsi di ambiti e di esperienze rese famosa Trieste, i suoi intellettuali e il
mondo culturale che gravitava attorno ad essa. Saba scriveva che la sua città era arretrata per
quanto riguardava le novità, e che così decentrata soffriva di una certa dislocazione storica per
cui tutto arrivava con anni di ritardo, ma questo fu la sua fortuna, quella di Svevo e degli altri che
condivisero con essi questo clima culturale. La Trieste odierna è molto mutata, ma certo non ha
cambiato la posizione geografica e non ha dimenticato i nomi che l’hanno resa grande, così si è
deciso di eternare il legame fra città, letteratura e arte con delle statue che raffigurano questi
intellettuali, collocate nei luoghi che ognuno di loro aveva più a cuore, e chissà che qualche
passante vedendole non si ricordi ancora oggi della loro lezione.
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svevo e saba: trieste nuovo margine fra letteratura e arte.