Anno IV - Numero 12 Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli 14 Gennaio 2011 Reporter nuovo La mostra Riecco i comunisti quelli veri Focus Le altre cento Italie dei dialetti A Roma Anche far pipì è un dramma Costruzioni Ora la Salini fa moda DONNE IN ARMI CARRELLATA DI FOTO DI SOLDATESSE DALLʼEUROPA E DAL MONDO Politica Dedicato al Cav l’ultimo numero di Limes: l’asse con Putin, i sospetti Usa, le disavventure Fenomenologia (critica) di Silvio Una “diplomazia pop” fallita i suoi incontri personali con i potenti P arlare di Berlusconi è un’irresistibile tentazione a cui neanche le testate più autorevoli riescono a resistere. E Limes, la rivista di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo, non è stata da meno. Il presidente del Consiglio è il protagonista dell’intero numero ora in edicola, dal titolo “Berlusconi nel mondo. L’asse con Putin e i sospetti Usa. Quanto costano agli Italiani le disavventure del Cavaliere”. Trecentoquattro pagine che vivisezionano il berlusconismo e tratteggiano il fenomeno in tutte le sue sfaccettature. Nell’editoriale, Caracciolo spiega l’obiettivo del volume: «Memori del monito di Zhou Enlai, per cui “è troppo presto per giudicare la rivoluzione francese”, non azzarderemo valutazioni sul posto di Berlusconi nella storia universale (...). La domanda cui tenteremo di rispondere è dunque: quanto e come pesa il presidente del Consiglio più longevo della Repubblica nel definire rango e influenza dell’Italia nel mondo?». Il tutto declinato non attraverso un’analisi ad personam, ma provando a delineare una “geopolitica di Berlusconi”. Una costruzione mediatica e personalizzata che, come scri- ASSE DI FERRO Vladimir Putin e Silvio Berlusconi in un incontro nel 2008 a Villa Certosa ve Ilvo Diamanti, in ambito nazionale segna indelebilmente la Seconda Repubblica e progressivamente sostituisce con il marketing la perdita di forza dell’ideologia. Il racconto dell’universo del Cavaliere è diviso in tre parti: i poteri, dall’impero mediatico ai rapporti con la Chiesa fino ad arrivare ai trionfi calcistici con il Milan; il mondo degli amici, la maggior parte dei quali discutibili (Putin, Gheddafi, Erdogan); il resto del globo, dagli Usa alla Cina fino all’Europa, suddiviso in sentimenti che vanno dall’ostilità all’indifferenza nei confronti del nostro premier. L’origine del potere di Berlusconi è sicuramente rappresentato dal gruppo Finivest, roccaforte di famiglia attraverso cui il Cavaliere da trent’anni influenza e controlla il mondo dei media. Secondo Stefano Balassone il segreto di tale longevità è una totale passività a livello globale abbinata al massimo controllo del mercato locale. Più difficile il legame con il Vaticano, ondivago e caratterizzato da momenti di stretti rapporti alternati a momenti di freddezza, causati dai comportamenti moralmente discutibili del premier ma spesso superati dal reciproco interesse. È poi il concetto di “diplomazia pop”, centrata sulla persona del leader e articolata attraverso incontri personali con i potenti, ad introdurre le relazioni di Berlusconi con il resto del mondo. Berlusconi si vanta molto della sua amicizia con Putin. Mauro De Bonis la definisce asimmetrica: per il premier la cosa più importante nelle relazioni tra Russia e Italia, per il collega russo subordinata alle necessità dell’ex Urss. Sullo sfondo, poi, il rapporto speciale con il leader turco Erdogan, positivo in campo energetico e nell’industria della difesa, visto con favore dalla Russia e con sospetto da Washington. Anche il legame con Gheddafi è abbastanza contraddittorio. Accordi finanziari si mescolano a un’abbondante retorica ma tuttavia, secondo Claudia Gazzini, la sostanza dei rapporti tra Italia e Libia è rimasta la stessa del recente passato. Una diplomazia “folkloristica” che non ha mutato le linee guida impostate dai governi precedenti. Questi gli “amici”, a cui fa da contraltare lo scetticismo delle superpotenze mondiali. Per gli Usa l’Italia è un paese ininfluente, incapace di definire un interesse nazionale e governato, come spiega Enrico Beltramini, da un “premier maschilista, razzista e vizioso”. I cinesi sono affascinati dal successo imprenditoriale di Berlusconi ma lo bocciano come uomo politico. L’Europa, invece, è passata da un sentimento di timore a uno di indifferenza, senza nascondere il fastidio per i comportamenti scomposti del Cavaliere. A colloquio con il professor Giovanni Sabbatucci sul giudizio che la storia darà su Berlusconi «Una via di mezzo tra Giolitti e Peron» Il fenomeno Berlusconi alla prova del tempo. Abbiamo chiesto un parere a Giovanni Sabbatucci, docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma ed editorialista del Messaggero. Professor Sabbatucci, anche un mensile come Limes ha dedicato un intero numero a Silvio Berlusconi. Come verrà raccontato secondo lei il Cavaliere tra cinquant’anni dai libri di storia? «La cosa certa è che verrà raccontato a lungo e gli verrà dedicato uno spazio proporzionato alla sua importanza in questa fase. Bisogna considerare che l’età berlusconiana è già durata più dell’età giolittiana e del periodo di governo di De Gasperi o Craxi. Sono ormai quindici anni, che diventeranno quasi venti alla fine. Quando un politico oc- 2 14 Gennaio 2011 cupa in modo rilevante la fermazioni e del successo quindi è molto probabile che scena politica per tanto tem- del personaggio. Lei è d’ac- si continuerà a parlare anche po è ovvio che verrà ricorda- cordo? delle sue vicende meno edito e le analisi si sprecheranno. «Io penso che il gossip ficanti. Anche se probabilPer quanto riguarda il giudi- mediatico faccia parte del fe- mente il problema principale zio sul suo conto, sono con- nomeno Berlusconi. E’ difficile sarà capire i motivi del suo vinto che sarà oggetto di di- dire che cadrà tutto in una vi- consenso». battito. Non sarà universal- sione storica perchè anche Quanto e come il Cavamente condanliere ha camnato e deprecato biato l’Italia? come Hitler, né «In realtà lui è già un’icona pop, il che non «Questo sarà lodato e santifiun altro degli aresclude la possibilità di essere cato come De gomenti su cui Gasperi. Sarà discuteranno gli anche un politico di grande rilevanza» una via di mezzo storici di domatra Giolitti e Peni. Si tratterà di ron». questo è una parte del perso- capire quanto Berlusconi sia A questo proposito lo sto- naggio. Nelle vicende senti- stato il prodotto di un qualcosa rico Luciano Cafagna sostie- mentali di Cavour o nel ma- che era già in atto. E’ un fatto ne che in futuro non rimarrà trimonio esemplare di De Ga- che le forme della politica in nulla del gossip mediatico speri non c’è niente che inci- questi anni sono cambiate, che accompagna il premier, da in maniera rilevante sulla personalizzandosi fortemente ma si parlerà prevalente- loro figura politica. Berlusco- non solo in Italia e non solo a mente delle ragioni delle af- ni è un personaggio diverso e partire dall’avvento del CavaPagina a cura di Marco Cicala liere. Il rivolgimento politicoistituzionale che ha portato Berlusconi al potere già implicava un cambiamento. Lui ha occupato quello spazio che altri avevano creato e in questo senso è un prodotto. Dall’altra parte però lo ha occupato con tale forza e tale presenza che ha contribuito a rendere queste trasformazioni non so se irreversibili ma sicuramente epocali». Il Cavaliere oggi sembra essere ovunque. Film, libri e canzoni a lui dedicati sono sempre di più. Non c’è il rischio di trasformare Berlusconi in una icona pop? «In realtà lo è già. Lui si è presentato anche così. Si può benissimo essere un’icona pop ed essere un politico di grande rilevanza. E probabilmente questo è stato anche un fattore del suo successo». L’IMMAGINE Su di lui film e tanti libri La Berlusconi-mania dilaga nella penisola. Il “cannibale” Silvio non risparmia niente e la sua immagine invade l’intero sistema mediatico. Direttamente o indirettamente. Osannato da Tg vassalli, criticato da giornali ostili, sbeffeggiato dalla satira feroce. Ma il fenomeno Berlusconi non si ferma ai media generalisti e si snoda anche a livello culturale. La galassia dei libri che hanno come protagonista il premier è ampia e diversificata. Ce n’è per tutti i gusti: agiografie travestite da biografie, denunce dei suoi presunti misfatti (Travaglio, Gomez e Colombo i più agguerriti); ricostruzioni storiche dell’epopea del Cavaliere (La resistibile ascesa di Silvio B.: dieci anni alle prese con la corte dei miracoli di Tranfaglia, L’Italia di Berlusconi: 1993-1995 di Montanelli e Cervi, Berlusconi: ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica di Ginsborg); tentativi di inquadrare e spiegare il berlusconismo (Elogio del tempo nuovo: perché Berlusconi ha vinto di Abruzzese, La pancia degli italiani. Berlusconi spiegato ai posteri di Severgnini); veri e propri trattati filosofici (Contro i nuovi dispotismi: scritti sul Berlusconismo di Bobbio). Anche al cinema la figura del Cavaliere ha riscosso un notevole successo. Tra le pellicole più note spiccano Il Caimano di Nanni Moretti, Videocracy – Basta apparire di Gandini e Shooting Silvio di Carboni. Un’attenzione spasmodica che spesso ottiene un effetto boomerang. Perchè come diceva La Rochefoucault, “parlar bene o parlar male di una persona, l’importante è che se ne parli”. E così Berlusconi è sempre più un’icona pop. Reporter nuovo Politica Rivive un pezzo di storia italiana nella mostra” Avanti popolo” installata a Piazza Manfredo Fanti E riecco i comunisti, quelli veri Dalla fondazione (1921) allo scioglimento (1991). Documenti e mediateca Chiara Aranci Gli scritti originali dei Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci consultabili in via digitale, le copie invecchiate de “Il Comunista”, “Il Soviet” e “L’ordine Nuovo”, la prima tessera del Partito Comunista Italiano e quella dell’Associazione ItaliaRussia, “L’Unità” che annuncia la scomparsa di Enrico Berlinguer, i verbali di riunioni importanti della Direzione del partito firmati dai segretari, manoscritti degli appunti autografati da Togliatti, il libretto del Capogruppo, l’edizione originale degli scritti di Gramsci in francese, russo, spagnolo, tedesco. Questo incredibile patrimonio viene esposto insieme a una ricchissima documentazione digitale dell’archivio del Pci alla mostra “Avanti Popolo, il Pci nella storia d’Italia” che racconta i 70 anni della storia del Partito Comunista Italiano, a vent’anni dalla sua trasformazione nel 1991 nel Partito Democratico di Sinistra. Un pezzo di storia italiana nelle vicende del partito di Gramsci che viene celebrato nell’ambito delle manifestazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia. Lunga e densa di avvenimenti la storia del partito di massa per eccellenza e nel video che ac- LA STORIA I lavori di apertura del V^ Congresso Nazionale del Partito Comunista Italiano tenutosi a Roma dal 29 dicembre 1945 al 6 gennaio 1946. Dall’archivio dell’Istituto Gramsci coglie il pubblico vengono mostrati i momenti salienti e più toccanti che hanno fatto la storia del Pci: dalle poche immagini di Antonio Gramsci fino a quelle del funerale di Berlinguer a piazza San Giovanni, quando l’allora Presidente Sandro Pertini baciò la bara del segretario, nel mezzo le manifestazioni, le lotte sindacali, la grande avanzata elettorale del 1975. La mostra è allestita a Roma nella Casa delle Architetture e sarà visitabile dal 14 gennaio al 6 febbra- io. La storia di un partito non può fare a meno di essere legata agli eventi del paese in cui si trova e a quelli della sfera internazionale. Ecco quindi la mostra come lente d’ingrandimento sulla storia nazionale e internazionale. Intessute l’una nell’altra sono lo sfondo e il campo di azione del percorso di quello che è stato il più grande partito comunista d’Europa dalla sua nascita a Livorno nel 1921 fino al suo scioglimento a Rimini nel 1991. La mostra si articola in due livel- timedialità e all’interattività con un nuovo approccio alla storia. Il tutto è disponibile e in maniera immediata rendendo visibile quello che probabilmente sarebbe rimasto come oggetto di approfondimento per pochi studiosi in una polverosa biblioteca. Il materiale digitalizzato (documenti, manifesti, relazioni, fotografie) costituisce la prima tappa di un processo di informatizzazione dell’enorme patrimonio archivistico del Pci gestito dalla Fondazione Istituto Gramsci e dalla Fondazione Cespe, per una prossima e più ampia fruizione sul web. Numerosi schermi per visionare fotografie e documenti dell’epoca sono organizzati per gruppi tematici:i giovani, i comunisti e il cinema, artisti per il PCI, donne in lotta, partigiani e partigiane. Un modo per rivivere le attività del partito che tanto hanno segnato la vita politica italiana insieme ai suoi protagonisti. Oggi come allora viene dedicato grande spazio alla grafica: nel piano superiore due esposizioni con contributi originali. Nella prima “Progetti, Confronti, Incontri” 34 designer italiani interpretano l’idea del Pci, nella seconda “Bobo e Cipputi. Due comunisti di carta” vengono presentate le vignette satiriche di Staino e Altan. li: al primo piano un percorso cronologico conduce ai momenti storici del PCI, sullo sfondo della storia d’Italia e gli eventi della sfera internazionale individuati in sei grandi periodizzazioni, ognuna delle quali viene approfondita in due touchscreen: nel primo, attraverso le parole chiavi, è possibile visionare il materiale dell’epoca; nel secondo sono presenti brevi video dello stesso periodo. Circa 1500 le fotografie e duecento i filmati presenti nella mostra: un grande spazio alla mul- C’è scorta e scorta, quella del professore è atipica e si è rivista in Emilia Per Prodi un bodyguard casareccio Roberta Casa Nel mare magnum di internet non esiste una sua fotografia, né se ne conosce il nome. Eppure quest’uomo ha affiancato l’ex premier Romano Prodi negli ultimi anni della sua carriera. Lo abbiamo visto sempre di sfuggita, alle spalle del politico bolognese per circa due anni, dal 2006 al 2008, quando rivestiva il ruolo di presidente del Consiglio. Seguendolo ovunque, proteggendolo durante i bagni di folla e le convention, che espongono i parlamentari a rischi ben noti. Anche durante l’ultima uscita pubblica di Prodi a Reggio Emilia, in occasione della festa per 150° anniversario dell’Unità d’Italia, lui c’era e in molti lo hanno riconosciuto. Di solito siamo abituati a vedere robusti g-man in abito scuro alle spalle di personalità note sia del mondo politico che dello spettacolo. Questa volta, invece, ciò che si intravede in secondo piano rispetto Reporter nuovo al politico è differente, addirittura “anomalo”. Piccolo, calvo, tozzo, panciuto, lontano dal prototipo di James Bond alle prese con la sicurezza personale, addestrato a sedare tafferugli e scontri, pronto a salvare la vita del protetto in caso di attentati. Questo “bodyguard” ha un Eppure i rischi “del mestiere” esistono, basti ricordare l’attentato di un anno fa ai danni di Silvio Berlusconi, quando venne colpito in pieno volto da una statuetta del duomo di Milano. Da allora una serie di avvenimenti violenti hanno spinto ancor più i politici nostrani a ricorrere Piccolo, calvo, tozzo e dall’aria paciosa, lo segue con discrezione in tutte le manifestazioni pubbliche aspetto bonario, così lontano per immagine e temperamento dalle guardie del corpo del premier in carica. Sicuramente differente dagli oltre 2400 agenti di protezione che ogni giorno prendono in consegna centinaia di parlamentari italiani, ancora più lontano dai prototipi quasi hollywoodiani che accompagnano personalità ben note al pubblico per le strade della città. a scorte, in alcuni casi anche private, che ne garantiscono l’incolumità personale. Ma Romano Prodi sembra semplicemente non farci caso. O forse la ragione è diversa. Spesso, infatti, sorge il dubbio che le scorte siano sempre più uno status symbol, un vezzo irrinunciabile piuttosto che un bisogno. Chiunque abbia provato questo “pedinamento” logorante sa bene quanto sia difficile convivere con tale necessità, che annulla la privacy e riduce la libertà di movimento. Dei 585 servizi di “protezione ravvicinata” disposti dal ministero degli Interni, forse non proprio tutti hanno una vera e propria ragion d’essere, e sono gli stessi militari, con i loro sindacati di comparto, a denunciare la situazione. Inoltre, altro problema attinente al servizio di scorta sono le cosiddette “tutele eterne”, che proseguono per anni anche dopo la fine del mandato parlamentare. È stato così nei casi di Oliviero Diliberto, Carlo Taormina, Fausto Bertinotti e Marcello Dell’Utri, che ancora oggi passeggiano per le vie delle città con energumeni in abito scuro e auricolare. Agenti di scorta dalla fedeltà decennale che diventano più familiari di amici e parenti. Come nel caso di Prodi, che fa affidamento alla sua anomala guardia del corpo, addirittura più bassa del suo protetto. PROTETTO Berlusconi è il politico più scortato Reporter nuovo Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini” della LUISS Guido Carli Direttore responsabile Roberto Cotroneo Comitato di direzione Sandro Acciari, Alberto Giuliani, Sandro Marucci Direzione e redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 0685225558 - 0685225544 fax 0685225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Amministrazione Università LUISS Guido Carli viale Pola, 12 - 00198 Roma Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] ! www.luiss.it/giornalismo 14 Gennaio 2011 3 Economia A Copenaghen, come a Roma per la linea B, la metropolitana parla italiano: 17,4 km di percorso per un appalto che vale 1,7 miliardi di euro da spartire con Tecnimont e Seli LAVORI IN CORSO Un cantiere della Salini a Roma. L’azienda guidata da Pietro Salini (a sinistra) sta già realizzando il prolungamento della seconda linea della metro Anche la Salini ora fa moda Le opere del gruppo italiano sono contese in tutto il mondo U n’italiana a Copenaghen. Venerdì scorso, l’amministratore delegato della Salini Costruttori s.p.a. Pietro Salini ha firmato un contratto importante, con il quale l’azienda da lui guidata, a capo di un consorzio tutto italiano, si è aggiudicata la costruzione della nuova metropolitana della capitale danese. Dopo aver costruito ponti, dighe e autostrade in mezzo mondo, l’ultimo fiore all’occhiello della società, leader mondiale nel settore delle grandi opere, è l’aggiudicazione del progetto «Cityringen»: due tunnel di 17.4 km chilometri e 17 nuove stazioni situate a 30 metri di profondità, completamente automatizzati, dove i treni passeranno 24 ore su 24. E tutto questo nella città che è ritenuta avere il più evoluto sistema di mobilità pubblica d’Europa. Il cliente, cioè Metroselskabet, una società di servizi controllata dal comune di Copenaghen e dal ministero dei trasporti danese, pagherà alle tre società del consorzio (oltre alla Salini, la Tec- DA IMPREGILO AD ASTALDI ALLA TORNO Ecco gli altri nostri general contractor Non solo Salini. A fianco del gruppo di via della Dataria, in Italia operano altri «General Contractor», ossia società attive nel settore delle grandi opere. La più grande per fatturato e numero di dipendenti è Impregilo: 20 mila dipendenti e un portafoglio di contratti che vale 20,7 miliardi di euro. Tra i progetti più noti in mano oggi al gruppo di Milano, c’è quello per il discusso ponte sullo stretto di Messina, presentato in via definitiva lo scorso 21 dicembre. Ma ci sono anche autostrade e ferrovie in Sud America e numerosi impianti di termovalorizzazione in Germania. A dividersi con Salini i lavori per il potenziamento della metropolitana di Roma c’è la Astaldi, che si sta occupando della reanimont e la Seli) 1,7 miliardi di euro. L’appalto in Danimarca è solo dell’ultimo di una serie di ottimi risultati ottenuti sul mercato internazionale: gli ingegneri, i tecnici ed operai del gruppo specializzato nelle grandi opere sono richiesti in tut- lizzazione della linea C. Quotato in borsa dal 2002, il gruppo ha 11 mila dipendenti e opera in 23 paesi con più di 100 cantieri. In Cile e Perù sta costruendo due centrali idroelettriche, in Italia ospedali e metropolitane (oltre a Roma, anche a Milano e Brescia). Torno internazionale, che ha sede a Milano, si occupa di rete ferroviaria e autostradale in tutto il centro e il nord Italia. Torno si occupa di dighe, viadotti, centrali idroelettriche e termoelettriche, soprattutto in Europa e in Sud America. Ma nel suo «curriculum» ci sono anche due «chicche»: Eurodisney, il parco giochi di Parigi, e lo stadio di Milano, il «Giuseppe Meazza» di San Siro. to il mondo, dall’Azerbaijan alla Cina. Ma questo contratto ha per l’azienda un sapore particolare. Pur essendo già un competitor mondiale nel settore delle costruzioni civili, dalle dighe alle grandi vie di comunicazione, è la prima volta che l’azienda si aggiudica un appalto così importante in Europa, un mercato più difficile e oggi reso ancora più asfittico e competitivo a causa della crisi. Una misura ancora più evidente del successo la si ha leggendo le motivazioni che hanno spinto a scegliere le tre aziende. Nella decisione di Metroselskabet un peso importante lo ha avuto il progetto in sé, sviluppato cercando di portare al livello minimo l’impatto sulla popolazione residente nel corso dei lavori: un indizio che più di altri elementi dà la misura dell’affidabilità del gruppo italiano. Per l’amministratore delegato Pietro Salini «l’aggiudicazione dell’appalto è un’ulteriore affermazione del “made in Italy”». Un entusiasmo comprensibile: la Salini Costruttori ha oggi in piedi progetti per circa 11,6 miliardi di euro in tutto il mondo. Se, in Italia, Salini sta lavorando alla variante di valico autostradale tra Firenze e Bologna e al prolungamento della metropolitana B a Roma, in Etiopia le tre dighe Gilbel Gibe, le prime due già realizzate, la terza in corso d’opera, dovrebbero portare energia elettrica a più di 1 milione di persone. E altri impianti per produrre energia idroelettrica e autostrade sono in progetto in Algeria, Nigeria, Georgia, Tunisia, Azerbaijan e negli Emirati Arabi. Sono quasi uguali alla moneta che circola nell’Ue ma valgono solo 40 centesimi Occhio ai 2 euro, ci sono i turchi GEMELLE Le monete a confronto sono quasi indistinguibili 4 14 Gennaio 2011 Una moneta uguale ai 2 euro ma che vale molto meno. Lo annuncia preoccupata un’e-mail che sta raggiungendo le caselle di posta di molte persone negli ultimi giorni e nella quale si mettono a confronto la lira turca e la moneta dell’Ue. Risultato: sono praticamente uguali, anche se la prima vale meno di un quarto della seconda. La nuova moneta di Ankara, in circolazione dal 1 gennaio 2006 e che rimpiazza la vecchia iperdeflazionata lira, è davvero molto simile ai 2 euro. Hanno circa la stessa dimensione, ed entrambe hanno un anello esterno in nickel (grigio) e la parte centrale in rame (giallo scuro). Non solo: su una delle due facce c’è la testa del leader storico del Pae- se, Kemal Ataturk, proprio come sulle monete europee (dove sono raffigurati ad esempio il re di Spagna, quello del Belgio e, da noi, Dante). Le differenze sono che, sull’altra faccia, ci sono due numeri diversi, ma, soprattutto, che la moneta turca vale circa 40 centesimi di euro, ovvero meno di un quarto della nostra moneta. Le due monete, insomma, sembrano fatte apposta per confondere chi le usa e soprattutto chi le riceve, con in prima fila i commercianti. Per loro, la confusione tra monete è sempre un grosso problema, che si aggiunge a quello dei falsi. A Roma, per adesso, la lira turca semPagina a cura di Francesco Alfani bra ancora non essere arrivata, ma già parlarne fa drizzare i capelli a baristi, tabaccai e giornalai. Un edicolante racconta che per lui il problema esiste già con le vecchie monete da 500 lire, anche queste molto simili ai 2 euro, e che continua a ricevere ignaro quasi ogni giorno. I baristi sono ancora più preoccupati: anche perchè nella fretta di servire i clienti non possono mai controllare se nel mucchio delle monete si nasconde la patacca. I distributori automatici invece, racconta un tecnico installatore di una azienda del settore, sono sicuri: anche se monete o banconote sono contraffatte o sbagliate, i sistemi di controllo delle macchine sono sufficientemente sofisticati da riconoscerle e rifiutarle prontamente. IL PROFILO Da 70 anni leader del settore Con un valore consolidato della produzione nel 2010 di circa 1,1 miliardi di euro la Salini Costruttori Spa è oggi il terzo gruppo italiano del settore delle costruzioni. Gli analisti lo inseriscono tra i quattro attori più influenti al mondo per quel che riguarda la produzione di centrali idroelettriche. L’azienda è nata nel 1936 per iniziativa dell’omonima famiglia Salini, che ne detiene tuttora la proprietà. Il gruppo ha negli anni conquistato sempre più posizioni sui mercati esteri, e oggi più del 70 per cento del suo portafoglio lavori si divide tra Africa e Asia. Qui si è costruita un ruolo di primo piano nel settore delle grandi opere: impianti idroelettrici, dighe, strade, autostrade, ponti, reti metropolitane, aeroporti, edifici industriali e civili. Salini oggi può contare su 29 società controllate e 31 partecipazioni in 40 diversi paesi. Ma anche su oltre 13 mila dipendenti, la stragrande maggioranza dei quali impiegati fuori dall’Europa. Alla fine del 2009 la Salini costruttori Spa ha completato l’acquisizione della Todini Costruzioni Generali, nome storico del settore delle grandi opere in Italia, consolidando la sua posizione nel mercato nazionale. Con il contratto firmato in Danimarca, il gruppo fa un altro passo avanti verso la definitiva affermazione come general contractor di livello globale. Reporter nuovo Focus A 150 anni dall’Unità la lingua italiana non ha cancellato le peculiarità locali, lingue vive Le oltre cento Italie dei dialetti Nei singoli idiomi modi di pensare, visioni del mondo, immaginari diversi I talia unita ma multilingue, Italia babele di dialetti. Osteggiati perché corruttori della lingua madre o esaltati perché contenitori di storia e cultura, a 150 anni dall’Unità i dialetti suscitano ancora un grande dibattito. Solo sessant’anni fa un calabrese che andava a Trento rischiava di non capire i propri connazionali. Poi arrivò la televisione di Mike Bongiorno, che con la sua lingua standard insegnò l’italiano ai nuovi telespettatori. Oggi la stessa mamma Rai ricorda ai suoi abbonati di pagare il canone con uno spot in dialetto, provocando un vespaio di proteste. “Sono lingue vive!”, l’urlo a difesa degli idiomi locali risuona dalle Alpi all’Etna. Ma quali sono questi dialetti? C’è il tabarchino, il sabino, il logudurese. Su tutti gli oltre trecento idiomi italiani, però, domina il toscano, che grazie alla produzione letteraria italiana trecentesca (da Dante a Boccaccio) si diffuse tra le “altre genti”. L’Università di Torino, insieme alla Società Filologica Friulana “G.I. Ascoli”, ha tentato di mappare questo intreccio pubblicando l’Atlante linguistico italiano, una raccolta di carte sulle quali sono riprodotte, per ogni località, le traduzioni dialettali di un concetto o di una frase. Il dialetto, infatti, non è solo una lingua: come ogni idioma riflette un modo di pensare, una visione del mondo, un immaginario di storia LA MAPPA e tradizioni, un coagulo di sentimenti. Secondo un’indagine Istat del 2006, il 16 per cento della popolazione italiana parla il dialetto in famiglia, il 13,2 per cento lo parla con gli amici, e solo un 5,4 per cento lo parla con estranei. Un patrimonio che, secondo l’istituto di statistica, sta scomparendo ma che, almeno a livello fonetico, rimane dentro ognuno di noi: chi non distinguerebbe dall’accento un siciliano da un veneto? Oltre che in casa, il dialetto fa la sua parte anche nelle arti. Si prenda il caso del teatro: Roberto De Simone è solo l’ultimo rappresentante di una tradizione secolare che parte dal Medioevo. E se Manzoni andò a “sciacquare i panni in Arno” per adattare I promessi sposi al dialetto toscano, oggi Camilleri fa del siciliano un punto di forza del suo Commissario Montalbano. È con il neorealismo di Visconti e Rossellini, invece, che per la prima volta nella storia del cinema il dialetto viene assunto allo stesso livello dell‘italiano. Ma non basta: l’Italia è divisa anche musicalmente, tanto che anche a Sanremo potranno essere presentate canzoni in dialetto. A riunire il Belpaese, come in una sorta di spedizione garibaldina del suono, ci ha pensato “Dialetti d’Italia”, un cd che raccoglie i 46 più famosi brani popolari in dialetto. Una curiosità: la compilation si apre con l’Inno di Mameli. Il ruolo e il valore delle parlate locali. A colloquio con l’italianista Quondam “Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina”, dicevano i linguisti. Ne parliamo con Amedeo Quondam, professore di letteratura italiana all’Università La Sapienza di Roma e presidente dell’Associazione degli italianisti italiani (Adi). Qual è la differenza tra la lingua italiana e i dialetti? «Di storia, assetto e funzioni. Fino a Manzoni, la “questione della lingua” ha sempre riguardato la lingua della letteratura (la comunicazione referenziale) piuttosto che la lingua dell’oralità (la comunicazione veicolare). I tanti dialetti delle aree geolinguistiche della penisola sono stati le lingue materne delle piccole pa- Reporter nuovo Sono una biodiversità da tutelare trie. Ben presto si pone il problema di una lingua di scambio, in grado di rendere più agevoli le relazioni interpersonali, sia professionali che private, oltre che il mercato. Fino all‘Unità d’Italia il sistema delle lingue si è configurato più in termini di diglossia (titolarità di due lingue diverse per statuto e funzioni), che di bilinguismo, senza dimenticare la parte che per secoli ha avuto il latino come lingua franca di certe professioni, oltre che della Chiesa». Nella nostra storia ha vinto il toscano che con i secoli è diventato lingua nazionale. Sarebbe potuta andare diversamente? «Ha vinto il toscano della tradizione letteraria e più Petrarca (e Boccaccio) che Dante: è stato Petrarca il grande padre della lingua volgare comune a una quota minima di italiani, fino al Sette-Ottocento, quando esplode la lingua delle nazioni che si fanno stato. E questa dinamica si registra in pressoché tutte le lingue europee, soprattutto a partire dall’Ottocento, quando la lin- gua diventa un fattore decisivo e distintivo delle nuove identità nazionali. E non avrebbe potuto essere altrimenti, almeno fino a quando l’accesso alla scrittura è stato limitato a un’elite». Oggi nove italiani su dieci parlano lo stesso idioma. Cosa vuol dire, in una democrazia, parlare la stessa lingua? «È fondamentale: è parte fondamentale delle libertà e dei diritti. E infatti la “questione della lingua” si ripropone in termini del tutto di- Pagina a cura di Giulia Cerasi versi a partire dalla Rivoluzione francese, come lingua dei “cittadini” della Nazione e non più di alcuni suoi ceti minoritari e dominanti; con la seconda rivoluzione tipografica (l’esplosione dei giornali), e con la nascita della scuola pubblica di stato». I dialetti sono una ricchezza o un punto debole per un’Italia che, a 150 anni dalla nascita, ancora stenta a trovare la propria identità? «Oggi che la nuova lingua franca globale, veicolare e referenziale, è l’inglese, in Italia - rispetto ad altri paesi - per- siste una quota eccezionale di dialettofoni. E’ certamente un patrimonio culturale: un aspetto primario della “biodiversità” da tutelare». Ultimamente si è notata una rivalutazione dei dialetti anche da parte delle aziende. La Diesel, ad esempio, ha fatto degli annunci in napoletano, mentre eBay ha contattato gli utenti utilizzando i diversi dialetti. Come si spiega questo fenomeno? «Credo che sia un originale, ma forse effimero, non seriabile, modo di fare marketing, abilmente sulla scia delle discussioni che restano aperte in Italia e che di tanto in tanto caratterizzano persino le cronache politiche». 14 Gennaio 2011 5 Focus Dialetti d’Italia / Le sopravvivenze Fioccano espressioni idiomatiche che suscitano empatia Dallo slang al manifesto politico La Lega, il “ghe pensi mi” di Berlusconi, il “pirla” di Mourinho, le fiction NORD E TOSCANA A Firenze c’è la “gorgia” Romanesco sdoganato Percorrendo la penisola a partire da Nord, troviamo per primo il gruppo di dialetti galloitalici. Ne fanno parte il piemontese (con tutte le sue declinazioni: astigiano, torinese, cuneese e così via), il ligure, il lombardo (diverso tra orientale e occidentale), l’emiliano, il romagnolo e il central-marchigiano. Poi c’è il dialetto veneto, che a differenza delle altre regioni del nord Italia non è una lingua gallo-italica ma ha origini proprie, “venetiche”. Ci sono anche vere e proprie lingue, come il ladino, diffuso tra poche migliaia di persone nelle comunità dolomitiche del Veneto e dell’Alto Adige. Tutti molto diversi, i dialetti settentrionali superano gli stessi confini nazionali. Il veneto è parlato da qualche milione di persone in Istria, il ligure anche in parte della Francia. In compenso, a Bolzano c’è chi preferisce usare il tedesco invece che l’italiano. Un discorso a parte è quello del toscano, che per molti non deve essere considerato un dialetto, ma una versione “vernacolare” dell’italiano. All’ombra della cupola del Duomo di Brunelleschi a Firenze abbondano i raddoppiamenti di consonante tra una parola e l’altra, ma scarseggiano le “c”: è il fenomeno della gorgia toscana, a causa del quale “vado accasa” suona tutto diverso da “affitto la hasa”. Dove governava il Papa Re, oggi si parlano per lo più i dialetti cosiddetti mediani: Marche, ma solo nelle province più a sud, Umbria, Lazio più qualche comune in Abruzzo e nel sud della Toscana. Chi è nato sotto la linea ideale che passa per Orbetello e Senigallia pronuncia “chiesa”, “dieci” o “piede” con la “e” chiusa anziché aperta, dice “annamo” anziché “andiamo” e tronca molte parole, come “magnà” e “cantà”. Giuseppe Gioacchino Belli nell’800 diede dignità letteraria al romanesco con le sue raccolte di poesie, ma oggi a Roma si parla un dialetto molto annacquato dalle centinaia di migliaia di persone trasferitesi nella capitale negli ultimi 60 anni. In compenso, sono rimaste le differenze tra i quartieri: un “pariolino” parla con un filo di accento, mentre nelle borgate le espressioni sono molto più colorite e cambiano da una zona all’altra. Corrado Mantoni, il conduttore Rai, e poi la coppia Paolo Bonolis – Luca Laurenti lo hanno sdoganato in televisione: sentire “bbello” o “pischello” non è più strano, anzi, certi modi di dire si sono diffusi anche nel resto d’Italia. Ci hanno pensato anche i comici, primo tra tutti Alberto Sordi, e le serie tv come “I Cesaroni”, la più odiata dalla Lega Nord, ambientata nel quartiere romano popolare per eccellenza, la Garbatella. SUD Molte influenze greche Anche qui l’origine è nell’Italia preunitaria: i linguisti hanno ribattezzato “meridionali” le parlate diffuse nelle regioni peninsulari dell’ex Regno delle Due Sicilie. Pensi al sud e hai subito in mente il napoletano nobile di Eduardo De Filippo e Totò, che l’Unesco ha recentemente riconosciuto come lingua. Il campano, che ebbe un’enorme importanza nel passaggio dal latino volgare all’italiano, oggi domina il gruppo dei dialetti meridionali: le sue espressioni sono diventate proverbiali, anche grazie alla grandissima diffusione della canzone partenopea. Del gruppo fanno parte anche il molisano, il barese e il lucano. Ancora più a sud abbiamo poi il ceppo meridionale estremo, con il greco-calabro, il calabrese e il salentino. Da qualche anno il resto del paese si è accorto del Salento: la parte sud della Puglia patria della “taranta” e del barocco leccese. Gli abitanti ne hanno approfittato, e oltre a guadagnare con un turismo in crescita costante hanno cominciato a riscoprire, insieme alle tradizioni, anche il dialetto, come segno di distinzione. Nonostante i secoli trascorsi, il calabrese contiene ancora molte forme linguistiche provenienti dal greco, e ci sono ancora piccole comunità sia qui che in Puglia dove si parla un miscuglio di greco, latino e dialetto. 6 CENTRO 14 Gennaio 2011 M arzo 2010, il temuto giudice sportivo Gianpaolo Tosel si pronuncia in merito ad una presunta bestemmia del calciatore del Chievo Michele Marcolini. A sorpresa nessuna squalifica. Questa la motivazione: “Il calciatore proferiva apparentemente un’espressione gergale, in uso nel Triveneto ed in Lombardia con becero riferimento a Diaz e non a Dio (il diverso movimento delle labbra nella pronuncia legittima quanto meno un’incertezza interpretativa)”. Insomma salvato dal dialetto. Se il calcio è il linguaggio universale che unisce i popoli, gli idiomi locali caratterizzano i calciatori e li avvicinano ai tifosi. Come dimenticare i memorabili show in dialetto milanese dell’ex allenatore portoghese dell’Inter Josè Mourinho («Non sono un pirla», «Anche io sono un bauscia»), o la ruspante romanità del capitano giallorosso Francesco Totti, che a un incredulo Paolo Maldini poco prima di battere un rigore della semifinale di Euro 2000 contro l’Olanda confessò candidamente: «Mo je faccio er cucchiaio!». Mantenne la promessa e segnò uno dei più bei penalty che la storia azzurra ricordi. Ma non è stato solo lo sport a sdoganare il dialetto. Oggi la vulgata locale esce dai confini territoriali per fare bella mostra in tutti gli ambiti della società. In politica, ad esempio, è ormai quasi un vezzo utilizzare l’idioma locale per creare empatia con gli elettori. Se Berlusconi decide di prendere in mano la situazione, il mantra è: «State tranquilli, ghe pensi mi!». Totò “vasa vasa”, “bacia bacia” in siciliano, è il soprannome dell’ex governatore dell’isola e oggi senatore Udc Cuffaro, affibbiatogli dai giornalisti per l’abitudine di salutare chiunque con due baci sulla guancia. Il leader dell’Italia dei Valori si distingue per il suo slang dalle forti tinte molisane. Poi c’è la Lega, che della difesa delle origini ha fatto un caposaldo del proprio Quando il Papa disse ai parroci: “Damose da fà” manifesto politico. Il campionario delle espressioni lumbàrd è ampio (un classico il dispregiativo terùn per identificare gli abitanti del meridione). Più concretamente il Carroccio ha fatto molte proposte di legge per introdurre stabilmente lo studio dei dialetti a scuola, ma anche richiesto una serata dedicata alle canzoni in lingue locali al Festival di Sanremo e auspicato una televisione più attenta alle identità regionali, in una sorta di federalismo culturale che si affianchi a quello fiscale e amministrativo. La televisione è effettiva- mente lo specchio di questa impennata nell’attenzione ai dialetti. Negli ultimi anni le fiction più popolari sono state quelle con una forte impronta territoriale. Su tutte spiccano la famiglia allargata dalla romanesca simpatia dei Cesaroni, le indagini nel fantomatico paesino siciliano, Vigata, del Commissario Montalbano, le vicende della Banda della Magliana in Romanzo Criminale e della mafia nel Capo dei capi. E’ paradossale come la televisione che negli anni ’50 e ’60 ha svolto un ruolo importante nell’alfabetizzazione degli italiani, affrancandoli dall’esclusivo utilizzo dei dialetti per comunicare e diffondendo la lingua italiana, riscopra questi ultimi come strumento di audience e ne sfrutti il lato comico e caratterizzante. Da un lato le nuove tecnologie (satellite, digitale terrestre, internet) eliminano i confini nazionali, dall’altro il locale si fa spazio all’interno del globale, dando vita al cosiddetto effetto glocal che è un tratto distintivo del postmodernismo. Del resto, anche l’indimenticato Giovanni Paolo II, il Papa polacco predecessore di Benedetto XVI, aveva spiazzato tutti affermando durante un discorso ufficiale «semo romani, volemose bene», concludendo con un’esortazione ai parroci della Capitale «damose da fà». Dal vescovo di Roma, un vero e proprio messaggio ecumenico detto “cor core”. Pagina a cura di Francesco Alfani e Marco Cicala ISOLE Sardegna, tante lingue Nico, il personaggio interpretato a “Mai dire gol” da Giovanni Storti (quello, per intenderci, del trio comico Aldo Govanni e Giacomo), era perentorio: “Il sardo è una lingua, l’italiano un dialetto”. Che il sardo sia una lingua è ormai assodato: la questione è quante versioni ce ne siano. Un cagliaritano, che parla il campidanese, fa fatica a capire un gallurese, che vive al nord; per non parlare dell’algherese, a metà tra il sardo e il catalano. Del loro idioma i sardi sono estremamente orgogliosi, al punto che sulla rivendicazione dell’autonomia linguistica si è alimentato il più vasto movimento indipendentista. In Sicilia le diverse dominazioni hanno lasciato più di una traccia nel dialetto. Dai secoli durante i quali Palermo era la sede del vicerè spagnolo è rimasto l’uso di dire “travagghiari” anziché lavorare, storpiatura del castigliano “trabajo”. Altre espressioni vengono dall’arabo, come “bagghiu”, il cortile (da “bahah”), “zibbibbu”, l’uva da vino (da “zabib”), e “mischinu”, meschino, da “miskin”. La scarsa alfabetizzazione è una delle cause della tuttora ampia diffusione del dialetto nelle sue molte versioni, da Trapani a Siracusa. Anche il “picciotto” di Palermo cambia nome spostandosi ad est, e diventa “compare” a Messina, e “’mbare” a Catania. Reporter nuovo Focus Dialetti d’Italia / Teatro Da Arlecchino e Pulcinella a De Simone, passando per Carlo Goldoni In scena l’eredità delle maschere Successi a tutto campo per i testi in vernacolo. In Italia 900 compagnie Ida Artiaco Nel dialetto piemontese conserva ancora il suo antico significato. Così, secondo gli studiosi di etimologia, “Masca”, dal latino medioevale “strega”, sarebbe l’antenato della parola “maschera”, quel colorato, ma a volte pauroso artefatto utilizzato fin dalla preistoria per rituali religiosi o feste popolari, e diventato simbolo, a partire dalla fine del Cinquecento, della commedia dell’arte italiana. Il travestimento, dai palcoscenici e dalle pagine delle sceneggiature, si è imposto col tempo nella quotidianità di grandi e piccoli, e non solo in occasione del Carnevale, soprattutto perché ogni regione e ogni città del Bel Paese ha la propria immagine riflessa nel personaggio che la raffigura e che meglio ne sa interpretare le gioie e i tormenti. Le maschere antenate della commedia dell’arte hanno infatti origine regionale, rappresentando i caratteri considerati più tipici dell’area geografica di provenienza, di cui parlano il dialetto. Il tenace mercante veneziano Pantalone, il pedante giureconsulto bolognese Balanzone, il coloratissimo bergamasco Arlecchino e il furbo napoletano Pulcinella sono solo alcune delle maschere che, nel tempo, han- MASCHERE Sui palcoscenici di tutta Italia e non solo, continua il successo dei personaggi di origine regionale. Gli spettacoli dialettali rimandano a una serie di situazioni legate al quotidiano e a un universo valoriale e sentimentale in cui il pubblico si riconosce immediatamente no fissato anche gli abitanti odierni di quelle terre in stereotipi difficili da accantonare, ripresi oggi dal cinema e dalla televisione. Chiunque può identificarsi nella fiera del possibile rappresentato dal teatro, in particolare quello dialettale, che ancora oggi continua a riscuotere successo, nonostante le maschere abbiano lasciato il posto a commedie più buffe e caricaturali. Si tratta, infatti, di uno spettacolo eccezionalmente vero, grazie a un linguaggio che ap- partiene intimamente al pubblico e che rimanda a una serie di situazioni legate al quotidiano e a un universo valoriale e sentimentale in cui ci si riconosce immediatamente. In Italia esistono novecento compagnie teatrali amatoriali dialettali, di cui la maggior parte concentrate in Veneto, patria di Carlo Goldoni, capostipite della commedia moderna, e in Sicilia, dove Luigi Pirandello e Nino Martoglio hanno raccolto l’eredità di Giovanni Meli. Un cult sono diventati i lavori teatrali di Alfiero Alfieri, autore delle commedie romanesche “Er Marchese del Grillo” o “Lassatece passà semo romani”, in grado di rappresentare una parte di Roma e della “romanità”. L’autore,che oggi vive in Australia, amareggiato e deluso dal comportamento delle amministrazioni che si sono avvicendate alla guida della Capitale per lo scarso interesse dimostrato nei confronti del teatro dialettale, denuncia l’assenza di giova- ni che intendano continuare una lunga tradizione di cui egli stesso è solo l’ultimo esponente. «E’ difficile trovare persone che recitano in dialetto- ha confidato Alfieri in una intervista di qualche anno fa- perché hanno paura di essere etichettate. E non posso dargli torto. Io questa ghettizzazione l’ho vissuta sulla mia pelle». In Lombardia, Jacopo Rodi e Rino Silveri continuano la tradizione della commedia in vernacolo milanese, divertente e sapida, con guizzi di cattiveria, umanissima e al tempo stesso venata di quel tanto di surreale che permette all’universo inverosimile di bugie e inganni di apparire realtà. A Napoli, la produzione teatrale dialettale è ancora prosperosa. Qui Eduardo De Filippo, Totò e Raffaele Viviani, la cui filosofia è stata ereditata da Roberto De Simone, Giuseppe Barra e Vincenzo Salemme, hanno rappresentato, con maggiore successo di altri, l’evolversi della città e del suo popolo, attraverso l’esasperazione della tragedia della quotidianità che si risolve sempre in una risata amara. D’Altronde, come disse il grande Eduardo a Enzo Biagi, in una intervista del 1977, “fare teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male”. Cinema È gara tra produttori che inseguono il successo con film in dialetto Sul podio, romanesco e partenopeo Emiliana Costa “Mamma Roma faccela te ‘na bella cantata de core”. Inizia così, con una richiesta un po’ colorita, uno dei film più appassionanti di Pier Paolo Pasolini. Il regista che negli anni ‘60 ha portato sul grande schermo il popolo italiano, con le sue fragilità, le sue mancanze e soprattutto con la sua lingua. Sì, perché l’autore bolognese riabilita la parlata del volgo, con cui ha un rapporto duplice, ma strettissimo. Da un lato la considera un contenitore di cultura, tradizioni ed emozioni che ha la facoltà di conferire alle storie dei suoi “accattoni” un significato universale. Dall’altro, utilizza il gergo locale come arma a supporto delle sue posizioni autonomiste. Ma Pasolini non è stato il primo a riabilitare il dialetto su pellicola. Sono tanti i cineasti che nel secondo dopoguerra hanno sciolto il bavaglio alla parlata della gente comune, dopo gli anni di censura im- Reporter nuovo posta dal regime fascista. Si passa, dunque, dal genovese di Gilberto Govi al siciliano stretto di La terra trema di Luchino Visconti. Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini è considerato il vero e proprio manifesto del neorealismo, il movimento che ha contribuito a frammentare gnori si nasce del 1960: “Signori si nasce, ed io lo nacqui, modestamente!”. E sempre il principe della risata sulle tracce della Malafemmina con la complicità di Peppino de Filippo, scambia il “ghisa” meneghino per un generale tedesco. Cadenze ed espressioni dialettali iniziano ad im- Opere di grandi registi come Visconti e Rossellini con attori celebri come Totò, Sordi, Magnani, Troisi, Benigni l’italiano standard in una fiorente e rigogliosa quantità di sotto-lingue. Nel film, Anna Magnani e Aldo Fabrizi mettono in scena il dramma tutto italiano dell’armistizio del ’43 e lo fanno con la proverbiale ironia capitolina. Ma è il napoletano con la sua veracità travolgente a imporsi nelle sale cinematografiche. Indimenticabile l’esclamazione di Antonio De Curtis, in arte Totò, nel lungometraggio Si- pazzare, dunque, sulla celluloide all’italiana: dal “casanduoglio”, antico termine campano, usato da Totò in Miseria e Nobiltà per chiamare il salumiere, all’accento lombardo di Franca Valeri, la Cesira del Segno di Venere. “Siamo tutti italiani”, recitava Fabrizi in Vita da cani, anche se il cinema ormai è diventato un caleidoscopio di dialetti. La Grande guerra, capolavoro di Mario Monicelli, consacra nel 1959 i due grandi attori romani del cinema italiano, Alberto Sordi e Vittorio Gassman. C’è poi chi, come Gian Maria Volonté, milanese di nascita, passa con disinvoltura dal meridionale Capo della omicidi di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto al settentrionale Lulù Massa di La classe operaia va in Paradiso. L’attore inventa una lingua, non corrispondente a una vera parlata regionale. Questa scelta, in un primo momento criticata dai puristi dell’idioma locale, diventa d’uso comune nell’italica pellicola e arriva fino ai giorni nostri. Si Ricomincia da tre negli anni ’80. Massimo Troisi con la sua inconfondibile cadenza napoletana sbanca il botteghino, anche se qualche impenitente padano chiede i sottotitoli. Si importano dal teatro le caratterizzazioni regionali, dal terrunciello Diego Abatantuono al padano Renato Pozzetto. Negli anni successivi a far concorrenza al- GRANDISSIMI Gassman e Sordi nella Grande Guerra l’immortale romano ci pensa la comicità toscana, prima con Francesco Nuti e Roberto Benigni e poi con Leonardo Pieraccioni e Giorgio Panariello. Il 2008 consacra definitivamente il dialetto al cinema d’autore. Gomorra di Matteo Garrone porta nelle case degli italiani il dramma nostrano della camorra. E lo fa egregiamente, con un gergo campano quasi incomprensibile. Segno che la lingua locale, anche nella sua impenetrabilità, riesce a trasmettere storie ed emozioni più di quanto riesca a fare l’idioma standard. Gli attori comici dei nostri giorni devono quasi tutti il loro successo allo slang regionale. Aldo, Giovanni e Giacomo con il loro ultimo film, La banda dei babbi Natale, sono riusciti a tenere testa al temibile cinepanettone, portando sul grande schermo gli esilaranti sketch di due “polentoni” alle prese con uno strambo palermitano. “L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori”, diceva il grande Ennio Flaiano. E forse aveva ragione. 14 Gennaio 2011 7 Focus Dialetti d’Italia / Letteratura Perché si scrive in lingua locale. Lo spiega Ugo Vignuzzi Si hanno spazi di maggiore libertà Questa produzione letteraria è un mezzo per diffondere più cultura D ialetti sì, dialetti no. Il tema del dialetto si fa sempre più caldo e diventa sempre più parte delle cronache politiche degli ultimi mesi. Ma qual è il ruolo di questo prezioso patrimonio accanto alla lingua italiana? Reporternuovo ne ha parlato il professor Ugo Vignuzzi, docente di dialettologia all’Università La Sapienza di Roma. Professor Vignuzzi qual è il peso della produzione dialettale nel mare magnum della letteratura italiana? «Dipende dalle posizioni teoriche: Croce avrebbe risposto che la letteratura dialettale d’arte è riflessa e quindi è collaborativa al resto della letteratura italiana. Contini, invece, rivisitando Croce ha sostenuto autore- atto di amore. Fino al ‘900 il dialetvolmente, e io sono perfettamente to era una lingua “della realtà”. Poi è d’accordo, che la produzione dialet- diventato uno spazio sempre più tale è una delle due facce della lette- aperto come spazio ulteriore sopratratura italiana. Un detto recita: “La let- tutto di soggettività lirica. Per cui oggi teratura dialettale è visceralmente e in- si parla di neodialettalità. Si pensi a scindibilmente collegata sin dalle un caso più unico che raro che però origini alla letteratura italiana”. Rife- e tipico: Fabrizio De Andre’. L’artista rendoci al modello del policentrismo, non parlava genovese, ma ha scritto quello che De Mauro ha chiamato “Creuza de Ma’” andando a prende“Italia delle Italie”, le letterature dia- re il dialetto genovese di fine ‘800, nei lettali come letterature vocabolari, quello del pluricentriche sono testo non è il genoveLa letteratura componenti intrinsese contemporaneo. Si che della letteratura parla quindi di neodialettale è italiana. Se si pensa dialettalità quando la collegata a quella lingua diventa letterache d’altra parte il fiorentino dantesco prima ria sulla base di una italiana di essere italiano era soggettività personafiorentino, cioè un diale: il poeta può scriveletto». re, al limite, perfino in una lingua che Perché uno scrittore sceglie di non esiste. Non è detto che lo scritscrivere in dialetto? È un atto d’amo- tore debba possedere quel dialetto a re verso la propria terra o una scel- livello parlato, ma soprattutto lo rieta di una precisa identità? labora. Un po’ come Dante con la Di«Beh dovrebbe chiederlo a lui. Co- vina Commedia. L’opera dantesca è il munque non trovo che sia un aut ma modello più forte di lingua letteraria un et. Nel momento in cui si ha ma reale: nel senso che non c’ è nulun’identità, normalmente la si ama. la che contraddice il fiorentino delLa rivendicazione d’identità è un l’epoca di Dante, ma c’è molta altra BEST SELLER Da alcuni anni Andrea Camilleri svetta nelle classifiche dei libri più venduti roba che non è fiorentino del suo periodo. Dante ci ha messo dentro tutto, anche il fiorentino che apparteneva alla generazione dei suoi nonni. Lo stesso oggi fanno i grandi poeti dialettali che usano il dialetto dell’aerea. Secondo me oggi uno scrittore scrive in dialetto per esigenze di soggettivismo realistico, il che mi rendo conto, è perfettamente un ossimoro: qualcosa che io posseggo ma su cui posso esplicare una libertà linguistica che la lingua non mi permette». Come si spiega il caso “Camilleri”, qual è la sua fortuna? «Camilleri è un “contastorie”. Ha imparato quella lingua da un contastorie, un contadino del suo podere. Quella che usa è una lingua coltissima, infarcita di tradizioni letterarie e trova nel dialetto uno spazio di soggettività, contemporaneamente realista, che gli permette di usare una lingua mescidata. Oggi nessuno scrive in dialetto stretto perchè si porrebbero due ordine di problemi:chi lo parla e chi lo legge. Camilleri si capisce perchè anche usando parole estremamente marcate, queste sono inserite in un contesto tale da far capire il sen- Da 150 anni si dice che i dialetti stanno scomparendo, ma in realtà non sono scomparsi. Che abbiano subito delle enormi trasformazioni è vero, perché negli anni ‘60 è finita la realtà contadina, a cui è seguita l’italianizzazione di massa della televisione. Ma è anche vero che il glocalismo ha portato a fenomeni di difesa locale. Io non sono sicuro che insegnare un dialetto regionale in una certa area serva a difendere il dialetto, così come sono convinto che scrivere in letteratura dialettale possa servire agli altri. Quello che serve sarebbe una cultura dialettale, cioè insegnare a tutti la tradizione umana antropologica di cui fa parte anche il dialetto, le radiso. La scelta di scrivere in dialetto ti ci dell’area. È difficile farlo, sia perché crea degli spazi di maggior libertà e mancano i soldi, sia perché abbiamo di maggiore gioco linguistico». la bellezza di 8700 comuni che non La letteratura dialettale segue le si riconoscono nella stessa tradiziostesse regole della letteratura ita- ne. Belli per esempio è un grande liana? però…io sono romano di prima ge«Se dialettale colta sì. Se sono due nerazione, e posso capirlo di più. Un lingue autonome non si vede perchè tivolano fa invece fatica a identificadebbano seguire regole diverse. Il dato re la lingua di Belli come il suo diadi fatto è che appartengono alla stes- letto. In più le regioni, che gestiscosa cultura. Ecco, quello che dice no il tema, sono enti che non corriContini, fin dall’inizio, spondono alle realtà è l’altra faccia della dialettali. Ad ogni Il dialetto da medaglia, cioè da una modo, la letteratura diaparte abbiamo la letlettale può essere un “lingua della teratura alta e poi la mezzo, ma ancora più letteratura altra che realtà” a spazio di importante è il teatro si fonda sui livelli bassoggettività lirica dialettale, che può essi che sono presenti sere strumento di dianche nella commevulgazione e rafforzadia». mento della coscienza dialettale». L’utilizzo del dialetto in letteratura Tra gli autori dialettali ce ne è uno non rischia di far rimanere scono- che predilige e perchè? sciuta, molto localizzata e di nicchia «Tra gli autori dialettali ce ne la produzione letteraria dialettale? O sono molti ma quelli a cui mi sento l’utilizzo in letteratura del dialetto più vicino per affinità elettive sono può essere il mezzo per farlo so- Belli e Di Giacomo, ma anche Piranpravvivere? dello dialettali. Due poeti e un auto«Fare previsioni in campo di fe- re di teatro. E Camilleri che conosco nomeni umani è sempre difficile. quasi a memoria!». Da Pasolini a Pirandello e Gadda anche se De Sanctis lo definiva “un malerba” In campo ci sono le grandi firme FRIULANO Molte le poesie in dialetto di Pier Paolo Pasolini 8 14 Gennaio 2011 “Ma che dichi? Ma leva mano, leva!/ Ma prima assai che lui l’avesse trovo,/ Ma sai da quanto tempo lo sapeva/ Che ar monno c’era pure er monno novo!” Sono i primi versi del poeta romanesco Cesare Pascarella del suo capolavoro “La scoperta dell’America” che raccontano come prima di andare e scoprire il mondo nuovo, Cristoforo Colombo era già a conoscenza della sua esistenza. Per molti “er monno novo” non è più tanto l’America, quanto il dialetto. Un patrimonio per molti versi ancora da scoprire sebbene sia così a portata di mano. Il rapporto tra letteratura e dialetto è antico e nobile, e l’indissolubilità è il tratto fondamentale di questa relazione. L’esigenza di scrivere in dialetto nasce da esigenze intimistiche e identitarie. Il dialetto come lingua di comunicazione primaria viene inteso come legame forte con il proprio terrritorio ed espressione dell’ identità a cui ci si riconosce. La produzione lirica di Andrea Zanzotto, scrittore in dialetto veneto, quella in- finita del grande Eduardo De Filippo a Napoli, quella altrettanto prolifica del premio Nobel Luigi Pirandello in Sicilia, quella poetica del Pasolini in lingua friulana, o quella geniale e rivoluzionaria di Carlo Emilio Gadda hanno contribuito alla piena affermazione della letteratura dialettale nel secondo dopoguerra: ora erede a tutti gli effetti della grande tradizione poetica e letteraria e inserita nell’aristocratica filone della letteratura italiana accanto alla Pagina a cura di Chiara Aranci scuola siciliana del ‘200, passando per quella toscana fino a Goldoni. La scelta del dialetto diventa per i letterati, nel corso del secondo Novecento, sempre più spesso una libera opzione per uno strumento espressivo efficace e pienamente dominato dallo scrivente, anche senza intenti polemici o regressivi, proprio in relazione al fatto che mano a mano che ci si avvicina al presente anche sul piano sociale e culturale i dialetti hanno riconquistato una loro piena dignità espressiva e culturale, non sono più ostracizzati come era accaduto in passato e anzi sono stati in anni recentissimi, nell’ultimo trentennio all’incirca, fortemente rivalutati su tutti i piani. Francesco De Sanctis scriveva a proposito del dialetto “Una malerba che la scuola dovrebbe provvedere a sradicare”. Oggi invece un patrimonio infinito da proteggere e da scoprire. E la conferma viene anche dai grandi successi di pubblico del siciliano Andrea Camilleri e del suo Commissario Montalbano, come anche dal sardo Salvatore Niffoi, che negli ultimi hanno scalato le classifiche delle vendite con i loro romanzi, conquistando sempre più lettori. Reporter nuovo Cronaca Odissea nei wc pubblici della città: per tassisti e autisti la soluzione è prendere un caffè al bar A Roma anche far pipì è un dramma Cinquantatré bagni per tre milioni di cittadini e migliaia di turisti S i sa che il bisogno arriva sempre nel momento meno opportuno, ma a Roma ritrovarsi in questa spiacevole situazione è più facile. Perché scovare in fretta un bagno, soprattutto per chi non conosce la città, può diventare un dramma. Per non parlare di quelle categorie, come i tassisti, gli autisti dei pullman e i metronotte, che passando le proprie giornate in strada, devono arrangiarsi più degli altri. IL TOUR Per verificare come i romani affrontano l’odissea delle toilette, siamo andati in giro per le vie del centro. Piazza San Silvestro, con il suo wc sotterraneo, è la prima tappa del nostro tour. Qui, a indicare dove si trovi l’ingresso, solo un piccolo cartello bianco con una scritta verde. Scese le scale, un corridoio conduce ai bagni. Dalla porta di quello per gli uomini proviene una strana luce azzurrina, che ricorda quella delle lampade abbronzanti. Ci sono quattro toilette, di cui due fuori uso. In uno dei due wc sani, per chiudere la porta bisogna utilizzare un manico di scopa. Il livello di pulizia generale sembra buono, anche perché i servizi sono curati e sorvegliati da un custode. DIFFICOLTA’ All’esterno c’è un ascensore per l’accesso ai disabili. Ma se si spinge il pulsante di chiamata, non si muove nulla. L’apparecchio sembra dismesso da tempo. Piazza San Silvestro è il capolinea di molti autobus dell’Atac, il trasporto pubblico capitolino. Un gruppetto di autisti, su una banchina, chiacchiera per ammazzare il tempo fra un turno e l’altro. Spiegano che di solito, in corrispondenza dei vari capolinea, hanno a disposizione dei servizi privati. Ma se lo stimolo arriva nel bel mezzo di una corsa, beh, lì diventa un problema. «Di solito ci arrangiamo ed entriamo in un bar. Ma lì il costo per andare in bagno equivale a quello di un caffè, perché qualcosa bisogna pur ordinare», spiega Pietro. Sempre che, naturalmente, il bagno del locale non esponga il tanto temuto cartello “guasto”. Se poi l’indisponibilità del wc sia vera o meno, questo è uno di quei misteri che difficilmente possono essere svelati. Un salto alla centralissima piazza di Spagna per visitare il secondo bagno sotterraneo. Qui l’ubicazione dell’ingresso è, se possibile, ancora più difficile da trovare, vista l’ampiezza della piazza. Il cartello, piccolissimo, è identico all’altro. Stesse anche le scale che conducono alla porta. Stavolta nel bagno degli uomini ci sono due soli wc, di cui uno è chiuso per manutenzione. Rimane utilizzabile solo quello riservato ai disabili. Possiamo dire, quindi, che c’è un gabinetto in tutta piazza di Spagna, luogo che pullula di persone a ogni ora del giorno. Ma l’elemento più scoraggiante ce lo fa notare Paolo, un tassista che è in fila con altri colleghi Reporter nuovo LA TESTIMONIANZA Gioie e dolori della modernità Sembra una scena da cinepanettone la singolare esperienza di un blogger romano alle prese con un wc automatico. La riportiamo per intero. Segnalo un fatto realmente accaduto. Ero alla Stazione Tuscolana (Roma) e avevo bisogno di andare al bagno... Non ero mai stato dentro la stazione; come quasi tutte le stazioni, all’esterno, lungo il binario 1, dopo la sala controllo, ho trovato l’indicazione degli “omini” toilette. Ho provato stupore nel trovarmi di fronte ad un bagno automatico e non al classico bagno trasandato italiano. Metto i 50 centesimi... si apre la porta, entro, il pavimento è bagnato d’acqua... penso tra me e me: «Bene, l’autolavaggio chimico funziona, anche se lascia acqua». Aspetto il richiudersi dietro di me della porta che però si chiude non completamente lasciando uno spiraglio; penso sia minimo e che da fuori non si possa vedere niente. Come mi tiro giù i pantaloni, zac! la porta si riapre... tiro su di corsa le braghe e la porta si richiude, le riabbasso e arizac! si riapre. Fortunatamente sulla banchina di fronte ai bagni chimici non c’è gente o meglio ce n’è ma non ha l’angolo di visuale per poter “ammirare” le mie natiche. Il bagno non aveva carta... mi ha preso 50 centesimi e me l’ha fatta fare sotto... perchè impazzito! La morale è: “W i bagni turchi di una volta”. ad aspettare clienti: «Il bagno apre tardi e chiude prestissimo, praticamente per noi è inutilizzabile». Gli orari di attività dei servizi pubblici sono scritti su un foglio appeso sulla porta: 10.00 – 16.40. «Quando possiamo, magari durante una pausa, lo utilizziamo, ma spesso c’è una fila interminabile. Quando arrivano le comitive, poi, è meglio lasciar perdere». E durante le corse? Idem come sopra: ci si arrangia, perché in giro per la città, di wc, se ne trovano pochissimi. «Di solito, oltre ad appoggiarci a un bar, approfittiamo dei grandi eventi, quando magari in Piazza del Popolo mettono i bagni chimici». AL CAFFE’ Non è difficile dedurre che i servizi igienici più utilizzati sono, alla fine, quelli dei bar e dei locali. I più gettonati sono quelli dei fast food, dove si può anche entrare senza destare troppa attenzione e utilizzare il bagno senza dover consumare niente. Altrimenti, bar e solito, simbolico caffè. Si potrebbe pensare a una ALLA PARIGINA In Francia sanisettes anche per i disabili benedizione per i baristi, ma si scopre subito che non è così. È proprio al celebre bar gelateria “Della Palma”, non lontano dal Pantheon, che la delusione si avverte di più. «Al centro di Roma governano i barboni e la gente incivile, basta guardarsi attorno», dice il cassiere, «le persone spesso vengono qui per servirsi del bagno, perché sanno che è pulito. Ma noi paghiamo apposta una donna per mantenerlo. E abbiamo avuto diversi problemi». BIZZARRIE ESOTICHE IN AZIONE Un utente fotografato mentre con disinvoltura e autoironia si avvale di un particolare orinatoio pubblico (maschile) Là, dove il pissoire induce a riflettere Dimmi dove urini e ti dirò chi sei. Sì, perché se qualcuno non crede che la civiltà di un popolo passi anche attraverso lo sciacquone, basta che dia un’occhiata al sito www.urinal.net, una collezione di centinaia di fotografie di orinatoi provenienti da tutto il mondo. Tecnologici in Giappone, alternativi a Londra, eleganti a New York, artistici a Parigi, funzionali in Olanda, decorati in Iraq, minimalisti in Germania. Insomma, a ogni paese le sue caratteristiche. Quanto a particolarità, anche se in giro per il mondo se ne trovano a bizzeffe, chi si distingue sono sempre loro, i cinesi e i giapponesi. A Chongging, città cinese con 31 milioni di abitanti, è stato costruito il bagno pubblico più grande e originale. Parte degli orinatoi sono sul tetto di un palazzo, all’aria aperta, e i sanitari hanno le forme più strane, come gambe sexy, teste di mostri e addirittura effigi della Madonna. Nel paese del Sol levante, le toilette sono praticamente ovunque, in ogni struttura o esercizio commerciale, anche se, spesso, nei bagni non è disponibile la carta igienica né il sapone per lavarsi le mani. Pagina a cura di Andrea Andrei PASSATO GLORIOSO Eppure uno dei segni distintivi della grande civiltà di Roma antica era proprio nel suo avanzato sistema idrico e fognario e nelle sue latrine. Certo, allora c’era una concezione della privacy ben diversa dalla nostra, ed era normale dare sfogo ai propri bisogni fisiologici tutti insieme e a poca distanza l’uno dall’altro, ma di sicuro il problema non esisteva. E pensare che, se Roma era famosa per essere la città dei “vespasiani”, i caratteristici orinatoi oggi in estinzione, ora la capitale italiana da questo punto di vista è fra le città meno organizzate d’Europa. CONFRONTI Un esempio per tutti è Parigi, con la quale il confronto è a dir poco impietoso. Il Comune francese ha fatto installare, dal 1981 al 1986, più di 400 “sanisettes” (bagni chimici moderni e automatizzati), sparse in tutti i quartieri della città. Addirittura in Francia esiste un sito internet (www.baignade-interdite.com), che propone una guida alle toilette di tutto il mondo, in cui chiunque si sia imbattuto nei servizi pubblici o nel bagno di un locale in una qualsiasi città può scrivere la propria valutazione secondo criteri precisi. I DATI Nella capitale del “bel paese”, stando ai dati pubblicati dall’Ama, (l’azienda che a Roma si occupa di gestire i servizi igienici pubblici), sul territorio comunale ci sono soltanto 26 bagni pubblici in muratura e 27 toilette chimiche, per un esiguo totale di 53 wc per circa tre milioni di abitanti e innumerevoli turisti. Se poi si parla di quali di questi servizi pubblici sia accessibile dai disabili, allora la situazione si complica. Eppure c’è chi, come la giovane Valeria, preferisce resistere pur di vedere in giro i bagni chimici come in Francia: «Sono sporchissimi. Meglio tenersela». Beato chi ce la fa. 14 Gennaio 2011 9 Mondo Maghreb tra proteste e spiragli di cambiamento. A colloquio con l’esperta di Internazionale Ma l’Africa si sta risollevando La ricetta: “Sviluppo autonomo delle capacità locali e autodeterminazione” U na fetta gigante di pianeta fatta di foreste rigogliose e distese sterminate di deserto. Una popolazione povera, in alcuni casi poverissima, che vive con meno di 75 centesimi al giorno. L’Africa torna a fare parlare di sé per le rivolte che da giorni attraversano le città tunisine e algerine e per i rischiosi focolai di guerra in Sudan e Costa d’Avorio. Promotori della protesta nel Maghreb sono gli studenti, che chiedono ai propri governi la chance di un futuro migliore. “Le piazze infuocate di Tunisi e Algeri sembrano quelle di Roma, Londra e Atene – spiega Francesca Sibani, giornalista di Internazionale . I giovani nordafricani desiderano prospettive di lavoro dignitose, proprio come i coetanei europei”. Il mediterraneo, dunque, sembra essere attraversato dalla stessa ondata di malcontento causata dalla crisi economica mondiale. “In realtà – aggiunge Sibani – la recessione ha soltanto sfiorato i paesi dell’Africa del nord, a causa dell’impoverimento dei loro partner commerciali. Dietro le manifestazioni contro il carovita c’è anche un’insofferenza dilagante nei confronti dei governi autoritari di questi paesi”. Non è meno preoccupante la situazione in Sudan e Costa d’Avorio, entrambi sull’orlo della guerra civile a causa di divisioni interne alla popolazione. Il 9 gennaio scorso è cominciato a Khartoum il referendum per decidere in merito alla secessione del paese. “Si tratta – dice la giornalista – di un primo passo verso la pace, dopo oltre 20 anni di conflitto”. Ma sono ancora tanti i nodi da sciogliere, come la suddivisione dei profitti provenienti dal pregiato greggio sudanese. Nonostante la fame e le epidemie rappresentino ancora i due grandi flagelli del continente nero, qualcosa sembra muoversi. “L’Africa – conclude Sibani – si sta risollevando. Ha una crescita tale da competere con quella dei giganti asiatici. La ricetta per migliorare le condizioni di vita della popolazione è semplice: favorire lo sviluppo delle capacità locali, lasciando poi a loro la possibilità di autodeterminarsi, senza sgradevoli intromissioni da parte dell’Occidente dall’odore imperialistico”. 10 14 Gennaio 2011 TUNISIA ALGERIA COSTA D’AVORIO SUDAN Dopo la rivolta Ben Ali cede Disoccupati in piazza Unità nazionale come soluzione In gioco anche Cina e Usa Caroselli e cori lungo le strade. Si è conclusa così la protesta del popolo nordafricano contro il carovita, che ha provocato sessantasei vittime. A poche ore dal richiamo francese sull’uso “sproporzionato” della forza repressiva, il presidente Ben Ali è apparso in tv, annunciando un immediato stop al rincaro dei prezzi sui beni di prima necessità. Il presidente ha anche assicurato che la polizia avrebbe smesso di sparare sulla folla e che non si ricandiderà nel 2014. Tensione altissima in Algeria per le proteste contro i rincari dei generi di prima necessità. I disordini sono stati particolarmente violenti ad Algeri, dove centinaia di giovani hanno lanciato pietre e bottiglie contro le forze dell’ordine. Il governo è corso ai ripari e ha adottato misure straordinarie per frenare l’inflazione. Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, la popolazione ha per il 75 per cento meno di 30 anni e il 20 per cento dei giovani è disoccupato. Sono 22mila i rifugiati ivoriani fuggiti in Liberia sulla scia delle tensioni post elettorali del novembre scorso. La comunità internazionale preme perché il presidente uscente Laurent Gbago lasci il posto al nuovo eletto Alassane Outtara. L’agenzia dei rifugiati dell’Onu sta incrementando il proprio intervento umanitario nella zona, ma secondo gli osservatori “l’unica soluzione possibile per pacificare la situazione sarebbe quella di un governo di Unità nazionale”. E’ cominciato il 9 gennaio scorso il referendum per decidere in merito alla suddivisione del paese africano, in Sudan del sud, a prevalenza cristiana e Sudan del nord, abitato da musulmani. A chiedere l’indipendenza sono le regioni meridionali, ricche di giacimenti petroliferi. Le consultazioni rappresentano il primo passo verso la pace, dopo oltre 20 anni di conflitto. Il Sudan è uno degli scacchieri sul quale si gioca una partita più grande. Quella tra Cina e Usa per la conquista delle risorse energetiche. Usa, dopo l’attentato a Gabrielle Giffords si rinfocola il dibattito sugli sceriffi fai da te La pistola di Tucson è uno status symbol Con il massacro in Arizona dell’otto gennaio scorso si riapre in America l’annosa questione del grilletto facile. Sì, perché se in Italia per ottenere il porto d’armi è necessario superare i numerosi sbarramenti imposti dalla legge, negli Stati Uniti gli amanti della colt sono protetti dalla Costituzione. Da oltre 200 anni, infatti, il secondo emendamento sancisce il diritto a essere armati, anche se la sua interpretazione è da sempre oggetto di acceso dibattito. La morte di sei persone e le gravissime ferite riportate dalla deputata democratica Gabrielle Giffords hanno rialimentato le polemiche che emergono ogni qualvolta qualche squilibrato fa strage di innocenti. Ma la ri- chiesta di introdurre con- dal killer in un negozio af- scottanti, visto che quello trolli più rigidi avanzata da follato da famiglie. delle fire-arms è un terreno esponenti del Congresso “Quanto è accaduto a sul quale i pesi massimi continua a infrangersi con- Tucson è un terribile pro- della politica si muovono tro il muro eretto dai “si- memoria sulla violenza da con cautela. Ridurre il nugnori delle armi”, una del- armi da fuoco che si registra mero degli sceriffi fai da te le lobby americane più po- ogni singolo giorno in Ame- in stati come l’Arizona è di tenti che riesce a mettere rica”, ha affermato il sinda- fatto impossibile. Nel 2008 d’accordo dela Corte Sumocratici e reprema dichiapubblicani. rò incostitu“Quanto è accaduto è un terribile Era già accazionale una duto dopo i promemoria sulla violenza da armi da fuoco legge varata massacri di dal District of che si registra ogni giorno in America” Waco (1993), Columbia, che alla Columbivietava ai prone High Schopri residenti di ol (1999) e al Virginia Tech co di New York Michael avere pistole e fucili. Il caso (2007). La storia si ripete, Bloomberg, aggiungendo si trasformò in un test naanche oggi con l’omicidio in che è indispensabile un giro zionale e costrinse l’Alta Arizona, firmato da Jared di vite sul porto d’armi, Corte a fare chiarezza sulLee Loughner con una concesso troppo facilmente. l’interpretazione dell’articoGlock 19. Pistola comprata Si tratta di dichiarazioni lo costituzionale. Non era Pagina a cura di Emiliana Costa chiaro, infatti, se il diritto a essere armati fosse solo per le milizie organizzate o per tutti i singoli cittadini. Più che a nuove leggi, dunque, il sindaco della Grande Mela pensa a una migliore applicazione delle misure vigenti. Anche perché la maggioranza degli americani resta favorevole ai “pistolers” e qualcuno è arrivato perfino a dire che episodi come quello della Giffords sono la prova che l’autodifesa è più che mai necessaria. Mentre imperversa il dibattito politico, nei negozi la “pistola di Tucson” va a ruba. Boom di vendite nell’Ohio e nello stato di New York. La Glock diventa uno status symbol in un paese in cui quattro presidenti sono stati assassinati. Reporter nuovo Mondo In aumento in tutto il mondo la presenza delle “top gun girls”. In Italia sono diecimila L’altra metà del cielo in armi La sociologa:«Ma la componente femminile ancora non muta la struttura” POLONIA CANADA IN SQUADRA Un gruppo di soldatesse portoghesi inserite in un reggimento dell’esercito A FRANCIA nfibi al posto dei tradizionali tacchi a spillo. Uniformi monocolori al posto di minigonne e jeans che esaltano le curve. Banditi trucco e acconciature troppo appariscenti. Ma non fatevi ingannare: queste signore riescono a conservare la loro straordinaria bellezza e femminilità anche se nascoste dietro pesanti elmetti e occhialoni scuri. È in aumento il numero delle donne che, in tutto il mondo, decidono di dedicarsi a tempo pieno alla carriera militare e di servire il loro paese, impiegate spesso in pericolosi teatri internazionali di scontro, soprattutto in Iraq e in Afghanistan. Così, se qualche tempo fa, andavano di moda le ragazze pon-pon, dedite al focolare e alla famiglia, oggi spopolano le “top gun girls”, giovani tra i 18 e i 25 anni, con la passione per il fucile, a cui non dispiace rotolarsi nel fango, combattere in prima linea contro il nemico e affrontare le condizioni climatiche e igieniche più dure. In Italia, a dieci anni dal via libera all’ingresso delle donne nelle forze armate con la legge del 20 ottobre del 1999, le soldatesse sarebbero oltre diecimila, tra comandanti di compagnia, sottoufficiali alla guida di carri armati e a bordo di navi. Una percentuale ancora bassa, in controtendenza rispetto alla media nazionale degli altri Paesi dell’Unione Europea, che hanno aperto le porte alla componente rosa con largo anticipo ri- spetto al nostro Paese. È il caso della Francia, che ha accolto il gentil sesso nei ranghi del suo esercito oltre cinquanta anni fa, pur con alcuni limiti nei ruoli di combattimento. Ma il paese europeo con la percentuale più alta di donne- soldato, superiore persino a quella degli Stati Uniti d’America e del Canada, è il Portogallo, seguito da Spagna, Grecia e Olanda. Fanalini di coda, la Germania e la Polonia. Un processo di integrazione difficile in alcuni paesi, in cui le soldatesse sono spesso vittime di abusi sessuali da parte dei loro colleghi maschi. È il caso di Molti i casi di violenze ad opera dei commilitoni Israele, dove nel 2009 sono stati denunciati oltre quattrocento casi di violenze su donne, per le quali il servizio militare è obbligatorio, o che lavoravano nell’ esercito, ma anche degli Usa, con ben 112 episodi, commessi dai commilitoni contro soldatesse americane in Iraq, Kuwait e Afghanistan. Il passo da vittima a carnefice è però breve. Come dimenticare la foto, pubblicata sul social network facebook, che ritraeva l’ex soldatessa israeliana Eden Abergil mentre deride alcuni prigionieri palestinesi? Oppure le immagini della ragazza americana che, nel carcere di Abu Ghraib, conduce al guinzaglio un detenuto iracheno? «Nelle forze armate il rischio che le donne si comportino come uomini c’è- spiega a ReporterNuovo Fatima Farina, docente di Sociologia del Lavoro all’Università “Carlo Bo” di Urbino- anche per le caratteristiche istituzionali e strutturali dell’organizzazione, perché l’apertura alle donne non si è accompagnata a un cambiamento relativo alle sue strutture culturali. In Italia, solo il tre percento delle forze armate è costituito da donne, una percentuale minima, che non intacca affatto un assetto istituzionale al maschile. Più che di assimilazione si potrebbe parlare di negazione della componente al femminile, anche perché le forze armate tendono all’uniformità più che al riconoscimento della differenza. Questo anche nei paesi stranieri: tutti i problemi nascono perché la femminilità, pur se integrata, non è contemplata e prevista nelle strutture culturali. Da qui nascono quei tentativi di adattamento da cui emergono fatti gravi come questi». Gli ingredienti per favorire l’integrazione tra i due generi, soprattutto in Italia, sono, secondo Farina, tre. «Bisognerebbe cominciare a ragionare su una maggiore trasparenza e comunicazione, uniti a provvedimenti che prendano atto di una componente maschile e femminile proprio nella pratica quotidiana, perché da questo punto di vista nulla è cambiato». TURCHIA Pagina a cura di Ida Artiaco Reporter nuovo 14 Gennaio 2011 11 Costume & Società Fa discutere Hereafter, il film di Cleant Eastwood sulla vita dopo la morte. La parola agli esperti Impossibile credere a Matt Damon Sensitivi in contatto con lo spirito dei defunti? Solo autosuggestione Giulia Cerasi “Se hai paura di essere rimasto solo, sta tranquillo: non sei solo”. Cleant Eastwood, nel suo nuovo film Hereafter, affida a Matt Damon la risposta alla domanda delle domande, al quesito che da millenni attanaglia l’uomo: esiste la vita dopo la morte? E mentre c’è chi, la maggioranza, si rimette alle rassicuranti ma parziali risposte della religione, c’è anche chi, insoddisfatto, si mette nelle mani - è proprio il caso di dirlo - di persone che si fanno mezzi - medium, appunto - per comunicare con l’aldilà. Proprio come George, il protagonista del film, che attraverso l’unione delle mani riesce ad avere delle visioni, grazie ai loro - supposti - poteri soprannaturali questi sensitivi sostengono di mettersi in contatto con lo spirito dei defunti, entrando in una sorta di PARANORMALE Matt Damon parla con i defunti attraverso il tocco delle mani trance e parlando con la voce della persona cara. “Poi ci sono altri che usano la scrittura”, ci spiega Massimo Polidoro, co-fondatore insieme a Piero Angela del Comitato ita- liano per il controllo delle affermazioni sul paranormale (Cicap). “Fino ad oggi - continua Polidoro - nessuno è riuscito a dimostrare che esistono facoltà paranormali di qualche tipo in condizioni scientifiche. Quando si fanno delle verifiche sperimentali in laboratorio si scopre che esistono altre spiegazioni del tutto naturali”. Eppure, nonostante lo scetticismo dei più, sono moltissimi gli italiani che si affidano ai medium più disparati. Si prenda il caso di Vanna Marchi, che insieme al mago Do Nascimiento approfittava dell’incredulità di disperati spacciando sale da cucina e rami di edera per rimedi contro il malocchio. Oppure la sensitiva Allison Dubois, ispiratrice della fortunata serie tv Medium che metterebbe a disposizione della polizia di Phoenix le sue doti paranormali. Ma il caso emblematico è sicuramente quello di Gustavo Rol. Stimato da personaggi illustri come Federico Fellini e temuto addirittura da Charles de Gaulle (“quell’uomo legge nel pensiero e non possiamo rischiare che i segreti dello Stato francese vengano a conoscenza di estranei”), per mezzo secolo Rol ha affascinato con presunti poteri come la telepatia e la chiaroveggenza, ma anche l’attraversamento di superfici e i viaggi nel tempo. Durante la sua vita, però, si è sempre opposto a qualsiasi controllo scientifico. “Questi personaggi - illustra Polidoro - hanno sicuramente una personalità molto forte, molto carismatica e suggestiva, in grado di affascinare le persone che incontrano. Molti di loro, poi, hanno una forte empatia che riescono a capire cosa vuole chi gli sta di fronte”. “Le persone che contattano i medium dice il membro del Cicap hanno un bisogno molto forte di farsi rassicurare perché non riescono ad accettare l’idea che dopo la morte non c’è niente. La possibilità di parlare coi morti, invece, dà la conferma che esiste qualcosa e che dopo la morte si vive ancora in qualche forma”. L’importante, in fin dei conti, è non essere soli. Almeno in vita. L’invenzione di un’internauta canadese rilancia il dibattito su musica e rete Andrea Andrei Di rivoluzione in atto non si può più parlare. Non fosse altro perché ormai la diffusione pressoché incontrollata della musica online è una realtà consolidata. E se qualcuno è ancora preoccupato per gli effetti nefasti che internet avrebbe avuto sulla commercializzazione della musica, qualcun altro ha imparato come trarne vantaggio. È il caso di molti artisti che hanno trovato nella rete una vetrina di grande rilevanza. Ma è anche il caso di diversi siti internet che, mettendo a disposizione file musicali ascoltabili direttamente online, contribuiscono a rivitalizzare un patrimonio artistico che andrebbe altrimenti perduto. Esempio emblematico è “lumau2.com”, curato da Lucie, una signora canadese che ha raccolto un vasto database di canzoni di musicisti francofoni quasi del tutto dimenticati. A questi sono affiancate anche le hit parade americane dagli anni ’50 agli anni ’80, in cui si possono ascoltare per intero le canzoni di musicisti del calibro di Elvis Priesley, Beatles e Paul Anka, fino ad arrivare ai Queen, a Madonna, a Michael Jackson e agli Eurythmics. Gli artisti sono divisi per sezioni ed elencati con tanto di foto. Basta cliccare sui titoli delle canzoni per avviarne la riproduzione. 12 14 Gennaio 2011 Con Lucie risuonano vecchi motivi Caricati centinaia di canzoni da ogni parte del mondo Lucie non è un’esperta webmaster, e si vede. Il suo sito ha una grafica abbastanza “artigianale” e l’organizzazione complessiva appare un po’ disordinata. Ma ciò che è interessante, oltre la grande varietà di contenuti (dagli sfondi per il desktop ai video umoristici), è la mau2.com viene apprezzato soprattutto dagli “over 60”, che rappresentano un target che per definizione dovrebbe essere più legato a una concezione tradizionale della fruizione della musica. Un chiaro segno che il processo di “democratizzazione” dell’arte avviato da Il successo di iTunes Store dimostra che l’industria discografica poteva sfruttare internet in maniera più proficua LUCIE La home page del sito canadese sugli artisti dimenticati tecnica che la signora canadese ha escogitato per ampliare ulteriormente il suo database musicale. Lucie, infatti, mette a disposizione un servizio di conversione dei file musicali “fatto in casa”: basta inviarle per e-mail il file che si vuole convertire (ad esempio da wav a mp3) e lei provvede a rimandarlo indietro bello e pronto, ma non prima di averlo inserito nella collezione del sito. Le canzoni contenute nel database, però, non sono scaricabili. Una cosa particolarmente interessante è che il lavoro di lu- internet è ormai concluso. Ed è così che ci si accorge che forse la rete non ha solo fatto danni, ma ha contribuito a scoprire una nuova dimensione dell’arte. Se il mondo della musica oggi omaggia iTunes, il celebre programma della Apple per la riproduzione degli mp3 che il 9 gennaio scorso ha compiuto dieci anni, sarà comunque difficile dimenticare le reazioni isteriche e le battaglie forsennate dell’industria musicale contro la nuova tecnologia telematica e in particolare verso il libero scambio di file mp3. Come è noto internet e il conseguente fenomeno del peer to peer è stato accolto dalle case discografiche come una vera disgrazia. Anche se poi l’iTunes Store, che nel 2003 è stato il primo negozio online di mp3 ad avere una portata planetaria, ha raggiunto nel febbraio 2010 il record di dieci miliardi di canzoni vendute. Il successo dello store della Apple testimonia che il fenomeno del download musicale poteva essere sfruttato prima e in maniera più redditizia, invece di essere lasciato completa- mente nelle mani della pirateria. Storicamente non è la prima volta che il sistema dell’industria musicale si dimostra restia alle innovazioni. Già con l’invenzione della musicassetta e con la conseguente possibilità di registrare musica, di personalizzarla e di fruirla in maniera molto più libera, un’ondata di sconforto attraversò i discografici di tutto il mondo. Addirittura all’interno della stessa Sony ci fu un aspro contrasto fra il reparto addetto alla produzione e alla distribuzione musicale e quello tecno- logico che aveva appena lanciato sul mercato il primo mangianastri tascabile, il leggendario “Walkman”. Quale sarà, poi, il futuro dei supporti rimane tuttora il vero punto interrogativo. La risposta potrebbe riservare delle sorprese, considerati i dati eloquenti delle vendite musicali, che vedono un importante ritorno del vinile come supporto tra i più apprezzati. Ciò appare come una sorta di rivincita da parte dei più nostalgici, vogliosi di un feticcio e amanti di quel rapporto sensoriale profondo che i larghi dischi neri sono capaci di offrire, sicuramente più significativo dei ben più “freddi” compact disc. Se si parla poi di largo consumo, la soluzione più semplice da immaginare è senz’altro la scomparsa quasi totale dei supporti. D’altronde chi può dire di che sostanza sia fatta la musica? Forse di vinile come i vecchi 45 giri o di policarbonato come i più recenti cd? O forse è “liquida”, come si disse con l’avvento del peer to peer? Quel che è sicuro è che la parte che rimarrà, quella che continuerà ad attrarre e ad emozionare, sarà la parte che non si vede e che non si tocca. Quella che in pochi, in secoli e secoli di storia, sono riusciti a spiegare. Ma che, in un modo o nell’altro, si è trovato il modo di commercializzare. Reporter nuovo