PREVISIONI MACROECONOMICHE
E TENDENZE DELL’INDUSTRIA
La politica economica alla ripresa autunnale
Settembre 2001
INDICE
I)
Previsioni macroeconomiche e tendenze dell’industria dopo i fatti
dell’11 settembre…………………………………………………………………… Pag.
5
1.
Relazione introduttiva, di Giampaolo Galli…………………………………… “
5
2.
2.1
2.2
2.3
2.4
2.5
2.6
L’economia internazionale
Il quadro a settembre……………………………………………………………….…
Stati Uniti……………………………………………………………………………….
Giappone…………………………………………………………………………………
Regno Unito……………………………………………………………………………..
Economie emergenti……………………………………………………………………
Tassi di interesse, cambi e borse……………………………………………………..
“
“
“
“
“
“
25
26
35
37
39
46
3.
3.1
3.2
3.3
3.4
3.5
3.6
L’economia dell’area dell’euro e dell’Italia
L’attività produttiva…………………………………………………………………..
Il mercato del lavoro e le retribuzioni………………………………………………
Prezzi, costi e margini……………………………………….………………………..
I conti con l’estero……………………….………………………..………………….
La politica monetaria………………………………...……………………………….
La finanza pubblica……………………………………………………………………
“
“
“
“
“
“
51
62
73
80
87
89
II)
Sintesi del Rapporto CeRP “La riforma del sistema previdenziale:
opzioni e proposte”
a cura di Elsa Fornero e Onorato Castellino……………………………………… “
115
Riquadri
Conseguenze economiche di shock politico-militari……………………………… “
La revisione delle serie di contabilità nazionale negli Stati Uniti…………….. “
La crisi argentina……………………………………………………………………… “
Le dispute commerciali Usa-Ue e le prospettive di ripresa del Millenium
Round……………………………………………………………………………………. “
L’influenza degli “effetti di calendario” sui conti trimestrali.............………….. “
Problemi del sistema di contrattazione nel pubblico impiego…………………... “
Lo scoreboard degli aiuti di Stato nell’Unione europea………………………… “
I principali provvedimenti di politica economica dei 100 giorni…………….…… “
Decentramento, federalismo e controllo della spesa pubblica………………….. “
16
34
40
44
57
97
101
104
110
La parte I di questo Rapporto è stata realizzata da un gruppo di lavoro del
Centro Studi Confindustria, composto da Pasquale Capretta, Giulio de
Caprariis, Paolo De Luca, Giovanni Foresti, Giampaolo Galli, Andrea
Gavosto, Anita Guelfi, Ugo Inzerillo, Marco Malgarini, Stefano Manzocchi
(Università di Perugia), Beatrice Pierluigi, Anna Ruocco, Fabrizio Traù.
Hanno collaborato Gianna Bargagli, Stefania Bianchini, Simona Caputi,
Simona Giannini, Alessandro Terzulli e Giuliana Timpani.
Il Rapporto è stato chiuso con le informazioni disponibili al 21 settembre
2001.
La parte II del presente Rapporto è la sintesi di una ricerca effettuata da un
gruppo di lavoro del Center for Research on Pensions and Welfare Policies
(CeRP) di Torino, coordinato da Elsa Fornero e Onorato Castellino e
composto da: Michele Belloni, Margherita Borella, Pier Marco Ferraresi,
Michela Scatigna e Giovanna Segre. Hanno inoltre collaborato Fabio Cesare
Bagliano (Università di Torino e CeRP) e Giovanna Nicodano (Università di
Torino e CeRP). Hanno partecipato a discussioni di lavoro: Michelangelo
Filippi (R&P – Ricerche e Progetti), Laura Piatti (Società Reale Mutua di
Assicurazioni) e Claudia Villosio (R&P – Ricerche e Progetti).
La ricerca è stata realizzata con il contributo finanziario dell’Assonime e di
Confindustria. I curatori e gli autori si assumono l’intera responsabilità delle
opinioni espresse. Le proposte ivi contenute non impegnano la responsabilità
delle istituzioni committenti.
I. PREVISIONI MACROECONOMICHE E TENDENZE
DELL’INDUSTRIA DOPO I FATTI DELL’11
SETTEMBRE
1.
Relazione introduttiva, di Giampaolo Galli
I tragici eventi dell’11 settembre non potranno non avere conseguenze di
rilievo sui mercati finanziari e sull’economia mondiale. Le analisi che si
possono fare, sulla scorta di episodi in qualche modo paragonabili del
passato, suggeriscono che, anche nella migliore delle ipotesi circa gli
sviluppi politico-militari, sarà difficile evitare ripercussioni negative, sia
pure forse solo temporanee, sull’economia, per via degli effetti sulle borse e
sugli indici di fiducia di imprese e famiglie. Vi sarà verosimilmente un
cospicuo aumento in tutti i paesi delle spese civili e militari, pubbliche e
private, per la sicurezza delle persone, delle cose, dei sistemi informatici e di
telecomunicazione. Questa mobilitazione di risorse, in parte già annunciata
dall’amministrazione Bush, non potrà compensare – a differenza di quanto
accadde ad esempio, in tutt’altre condizioni, negli Stati Uniti all’inizio degli
anni quaranta - la probabile contrazione della propensione al consumo e agli
investimenti generata dalla condizione di insicurezza che segna,
drammaticamente, il nuovo scenario mondiale.
I fattori critici. L’entità degli effetti dipenderà criticamente da tre fattori.
(i) Gli sviluppi sul piano politico-militare. (ii) Le reazione dell’Opec riguardo
al prezzo del petrolio. (iii) Il clima di fiducia, a sua volta fortemente
condizionato dagli sviluppi politici e dalle reazioni della politica economica.
Dopo il discorso di Bush del 13 settembre, sembra probabile che vi siano
sviluppi rilevanti anche sul piano militare. E’ peraltro difficile che la guerra
al terrorismo e agli Stati che eventualmente si fossero dimostrati conniventi
possa risolversi nel giro di pochi giorni, come accadde nel gennaio del 1991
per la liberazione del Kuwait, in seguito alla quale vi fu un’immediata
ripresa delle borse e degli indici di fiducia.
Il prezzo del petrolio. Le conseguenze di eventuali azioni militari,
soprattutto sulla già tesissima situazione in Medio Oriente e sul prezzo del
petrolio, sono al momento del tutto imponderabili. Uno spiraglio di
ottimismo può però derivare dalla considerazione che la situazione sembra
oggi diversa da quella che si registrò nei tre principali episodi di impennata
dei prezzi. Oggi non sembrano prospettarsi né un fronte unito dei produttori
medio orientali in chiave anti occidentale, come avvenne dopo la guerra del
Kippur nel 1973, né un’interruzione fisica dei rifornimenti, come avvenne a
seguito della rivoluzione in Iran nel 1979 e dell’invasione del Kuwait
nell’agosto 1990. Nella previsione che proponiamo in questo rapporto
ipotizziamo perciò, in attesa di conferme o smentite, uno scenario ottimistico
in cui il petrolio torna rapidamente attorno ai 25 dollari, dopo l’aumento
sino a oltre 30 dollari registratosi dopo gli attentati.
5
La fiducia. La questione forse decisiva è valutare l’impatto possibile sugli
indici di fiducia, anche attraverso i valori di borsa, e per questa via
sull’economia reale nei diversi paesi. In questo rapporto presentiamo una
breve rassegna delle conseguenze economiche dei principali episodi di
tensione politico - militare degli ultimi sessant’anni, da Pearl Harbour alla
guerra del Golfo.
L’impressione che se ne ricava è che gli episodi che hanno avuto le
conseguenze più gravi siano stati quelli in cui, oltre alle tensioni politiche, vi
furono forti aumenti dei prezzi delle materie prime (guerra del Kippur nel
1973, rivoluzione in Iran e guerra con l’Iraq nel 1979, Guerra del Golfo nel
1990-91). Negli altri episodi, le conseguenze negative furono molto limitate
(in particolare guerra di Corea nel 1950-1953 e i momenti di massima
tensione nel corso della lunga guerra del Vietnam), o addirittura positive,
qualche mese dopo lo shock iniziale, per via della mobilitazione di risorse
generate dalla guerra (Pearl Harbour).
La guerra di Corea è forse l’episodio più pertinente in questo contesto perché
non determinò rilevanti tensioni sulle materie prime, avvenne in un periodo
di pace (a differenza di Pearl Harbour), iniziò con uno shock di grandissima
emotività (il superamento del 38° parallelo da parte delle truppe nordcoreane, appoggiate dall’Urss, il 25 giugno del 1950, cui Truman rispose
immediatamente autorizzando il generale MacArthur a compiere missioni
aree sulla Corea del Nord), ed infine perché generò un clima di paura, quello
di un conflitto nucleare con l’Urss, non dissimile e verosimilmente maggiore
di quello di oggi. Le conseguenze negative sulla borsa e sull’economia reale
americana furono limitatissime e rapidamente sopravanzate dagli effetti
espansivi dell’aumento della spesa militare.
Va però osservato che la guerra di Corea si inserì nella fase in cui si stava
avviando lo straordinario ciclo espansivo del dopoguerra, mentre oggi siamo
piuttosto al termine di un ciclo espansivo. Inoltre le reazioni psicologiche,
che costituiscono parte rilevante della cosiddetta “fiducia”, sembrano essere
fortemente influenzate dai ricordi recenti. Nel caso della guerra di Corea il
ricordo recentissimo era quello della seconda guerra mondiale, talché
l’effetto iniziale fu un boom di acquisti per l’accaparramento di beni durevoli
e di prima necessità. Oggi i ricordi recenti, nella memoria degli operatori
finanziari, dei consumatori e delle imprese, sono quelli degli shock
petroliferi e in particolare di quello che seguì l’invasione del Kuwait da
parte dell’Iraq il 2 agosto del 1990.
In quell’occasione, gli indici di fiducia crollarono immediatamente. Negli
Stati Uniti, la caduta dell’indice proseguì sino a gennaio, raggiungendo il
47%. I consumi si contrassero e il Pil statunitense scese del 3,3% in ragione
d’anno nel quarto trimestre del 1990 e del 2% nel primo trimestre del 1991.
Anche in Europa si ebbe un fortissimo calo della fiducia ed un rallentamento
dell’attività economica: nel quarto trimestre del 1990 il Pil diminuì nel
Regno Unito (-2% in ragione d’anno), in Francia (-0,4%) e in Italia (-4%).
Solo la Germania evitò la recessione per via degli effetti, inizialmente
6
espansivi, dell’unificazione. E’ difficile distinguere quanto della caduta del
Pil e della stessa prolungata flessione della fiducia sia stata dovuta alla
maggiore incertezza del quadro mondiale e quanto alle conseguenze sul
potere d’acquisto dell’aumento del prezzo del petrolio; il confronto con gli
altri episodi di cui si è detto suggerisce che il petrolio abbia svolto un ruolo
importante. Rimane tuttavia il fatto che quell’episodio è ben vivo nella
memoria collettiva e che le prime reazioni dei mercati finanziari dopo l’11
settembre sono state molto più simili a quelle del 1990 che a quelle di
episodi forse più pertinenti, ma assai più lontani nel tempo.
Queste considerazioni inducono da un lato a ritenere che sarà difficile
evitare qualche ripercussione negativa, anche qualora non vi fossero
tensioni sulle materie prime, e dall’altro ad attribuire grande importanza
alla capacità di ricreare un clima di fiducia da parte dei leader politici e
delle autorità di politica economica.
Le politiche economiche. La Fed e la Bce hanno prima fornito liquidità,
in quantità ingente, al mercato e poi ridotto, di mezzo punto, i tassi di
intervento. Ciò ha contribuito ad evitare effetti a catena sul sistema dei
pagamenti internazionali derivanti dalle perdite sui valori azionari, nonché
dal rischio che alcuni importanti operatori, coinvolti nei crolli di Manhattan,
non fossero in grado di dar seguito ai propri impegni di pagamento.
Ulteriori cali di tassi d’interesse sono probabili nelle prossime settimane.
Quanto alle politiche di bilancio, sembra probabile una riduzione dell’avanzo
americano per finanziare lo sforzo bellico e anche per sostenere la domanda
interna. In Europa assumerà nuovi connotati il dibattito già in corso
sull’applicazione del Patto di Stabilità.
A nostro avviso, il Patto di Stabilità rimane essenziale. I paesi europei, e in
particolare quelli ad alto debito, devono continuare a perseguire una politica
di rigore volta a perseguire il pareggio di bilancio nel medio termine. Ciò
non contrasta, come ha riconosciuto la Bce, con la possibilità di lasciar
operare gli stabilizzatori automatici, né con l’opinione, espressa in un
recente lavoro della Direzione Generale per gli Affari Economici e Finanziari
della Commissione, secondo cui il dibattito sulle politiche di bilancio nella
Ue deve “allargarsi rispetto all’attuale focalizzazione sul tema del rigore a
favore di un’analoga enfasi sulla qualità e sostenibilità delle finanze
pubbliche”; in quest’ottica il giudizio sugli andamenti congiunturali dei
disavanzi va contemperato con un’analisi della politiche di medio termine
circa la sostenibilità delle pubbliche finanze (“Public Finances in Emu”,
luglio 2001). Questo approccio, ancorché problematico sotto il profilo del
monitoraggio, comporta in sostanza di dare più enfasi alle riforme
strutturali della spesa pubblica, quali la riforma delle pensioni e gli
interventi volti a snellire e restituire efficienza all’amministrazione. Queste
riforme tipicamente producono risultati finanziari che sono relativamente
modesti nell’immediato - e dunque non deprimono eccessivamente la
domanda interna -, ma sono fortemente crescenti nel corso del tempo. Esse
garantiscono quindi gli equilibri di bilancio nel tempo assai meglio degli
7
interventi di breve respiro o, peggio, degli artifici contabili che spesso
costituiscono la parte più rilevante delle manovre annuali di bilancio.
Il quadro prima dell’11 settembre. Un calo della fiducia si inserirebbe in
un quadro internazionale già segnato da grande fragilità dell’economia reale
e delle borse. Nel secondo trimestre la crescita si è pressoché azzerata negli
Stati Uniti e nell’area dell’euro, in particolare in Italia e Germania; è stata
negativa in Giappone, la cui economia è ormai in recessione, e in molti paesi
dell’Estremo Oriente. Rimangono gravi le situazioni di crisi in Argentina,
Indonesia e Turchia (cfr. par. 2.5). Come sempre avviene nelle fasi di
rallentamento della congiuntura, erano diventate più acute le tensioni
commerciali fra paesi, il che rendeva assai incerta la prospettiva di ripresa
del negoziato Wto in vista della conferenza di Doha (cfr. riquadro: Le
dispute commerciali Usa-Ue e le prospettive di ripresa del Millenium Round
nel par. 2.5). La situazione potrebbe oggi capovolgersi, perché gli Stati Uniti
non possono permettersi di apparire protezionisti. E’ estremamente
significativo che pochi giorni dopo gli attentati sia stato dato il via libera
definitivo all’ingresso della Cina nel Wto.
Le borse. Grazie alla rapidità di reazione della Federal Reserve, le borse
non erano crollate, ma già prima dell’11 settembre le perdite erano state
ingenti su quasi tutti i mercati, soprattutto per il titoli Ict. La caduta si era
accentuata nella seconda metà di agosto. Rispetto ai massimi raggiunti nei
primi mesi del 2000, le perdite oscillavano fra il 30 e il 50% nella generalità
dei mercati. Milano, Parigi e Francoforte avevano perso circa il 30%.
La previsione. Le considerazioni di cui si è detto sopra avevano già indotto
la generalità degli analisti a rivedere verso il basso le previsioni di crescita
per il 2001-2002. Secondo il Csc, la crescita americana si sarebbe collocata
all’1,5% nel 2001 e al 2,6% nel 2002; quella dell’area dell’euro all’1,9% nel
2001 e al 2,5% nel 2001. L’Italia sarebbe probabilmente cresciuta allo stesso
ritmo dell’area dell’euro.
L’assunto sotteso a quello scenario era che, sia negli Stati Uniti sia in
Europa, i successivi trimestri dell’anno sarebbero stati meno sfavorevoli del
secondo e che qualche segno di accelerazione iniziasse a manifestarsi a
cavallo del nuovo anno. Questa valutazione era sorretta dalla considerazione
dell’esaurirsi del drenaggio di potere d’acquisto determinato l’anno scorso
dagli alti costi del petrolio; dal tono più espansivo, o comunque meno
restrittivo, delle politiche monetarie e fiscali negli Stati Uniti e in Europa;
dall’andamento ancora positivo dei consumi e di numerosi indicatori
anticipatori.
8
Tab. 1 – Le previsioni del Csc: variabili internazionali e area dell’euro
(variazioni % salvo diversa indicazione)
1999
2000
2001
2002
2003
1,07
114,0
122,0
2,9
5,4
5,3
3,4
4,1
0,8
17,9
0,92
108,0
100,0
4,4
6,5
12,4
4,5
4,1
1,5
28,6
0,91
120,0
109,0
4,3
3,9
3,9
1,7
1,2
-0,3
26,0
0,98
125,0
123,0
3,2
2,3
4,0
2,5
1,8
0,6
25,0
1,02
125,0
128,0
4,1
4,0
7,1
3,3
3,5
2,0
24,0
Variabili internazionali
Dollaro/euro (1)
Yen/dollaro (1)
Yen/euro (1)
Tasso a 3 mesi euro (1)
Tasso a 3 mesi dollaro (1)
Commercio mondiale
Pil mondiale
Pil Stati Uniti
Pil Giappone
Prezzo del petrolio (2)
Euro-12
Prodotto interno lordo
2,5
3,4
1,7
1,8
2,9
Prezzi al consumo
1,2
2,3
2,8
1,8
1,3
Occupazione
1,6
2,0
1,2
0,8
1,1
Tasso di disoccupazione (1)
9,9
8,8
8,4
8,3
7,9
Partite correnti (3)
-0,1
-0,5
-0,1
0,2
0,2
Indebitamento netto della P.A. (3) (*)
1,2
0,8
1,1
1,1
0,7
Debito pubblico (3)
72,0
69,7
68,4
68,2
67,1
(1) Livelli. (2) Dollari a barile. (3) Rapporti percentuali con il Pil. (*) Al netto dei proventi
Umts.
Oggi questo quadro deve essere rivisto verso il basso. Per gli Stati Uniti,
ipotizziamo che nel quarto trimestre del 2001 e nel primo del 2002 i tassi di
crescita si abbassino rispetto alla precedente previsione (2% in ragione
d’anno in entrambi i trimestri), ma non sino al punto da diventare negativi.
Portando questa previsione a 0,1 e 0,4% rispettivamente nei due trimestri –
ossia a valori ancora positivi e comunque in linea con quelli del secondo
trimestre – l’effetto aritmetico sarebbe di ridurre il tasso di crescita medio
annuo a 1,2 % nel 2001 e a 1% nel 2002. Una parte del calo sarebbe però
verosimilmente dovuta a decisioni di rinvio, anziché di cancellazione, delle
spese di consumo o investimento. Per tenere conto di questa circostanza, e
sempre mantenendo le ipotesi dette sul quadro strategico - militare e sul
prezzo del petrolio, sembra ragionevole rialzare il tasso di crescita dei
successivi tre trimestri dell’anno. La crescita del 2002 si attesterebbe così a
1,8% (tab. 1).
La stessa operazione, con variazioni trimestrali più contenute, per l’area
dell’euro porterebbe il tasso di crescita a 1,7% nel 2001 e a 1,8% nel 2002.
Per l’Italia la crescita sarebbe dell’1,9% sia nel 2001 che nel 2002 (tab. 2).
Sia nell’area dell’euro sia in Italia, i tassi di crescita trimestrali
rimarrebbero sempre positivi e superiori al dato del secondo trimestre. In
Italia il tasso di crescita si ridurrebbe nel quarto trimestre da 0,8% a 0,4%;
nel primo del 2002 da 0,7% a 0,5%. L’ipotizzata accelerazione dalla
9
primavera prossima porterebbe la crescita tendenziale al 3% alla fine del
2002.
E’ del tutto evidente che queste valutazioni debbono essere considerate, più
che come previsioni in senso tradizionale, come punti di riferimento per
iniziare a ragionare con qualche concretezza numerica sugli scenari
possibili. Ed è opportuno ribadire che esse si fondano su uno scenario ancora
ottimistico circa gli sviluppi politico-militari e il prezzo del petrolio. In ogni
caso ci sembra che ad una conclusione si possa giungere: al momento
sarebbe poco prudente, in Europa come in Italia, fondare un budget
previsivo, di un’azienda o del settore pubblico, su tassi di crescita del Pil
2002 di molto superiori al 2%; questo valore appare oggi come il limite
superiore di un ragionevole intervallo di confidenza della previsione.
Tab. 2 – Le previsioni del Csc: Italia
(variazioni % salvo diversa indicazione)
1999
2000
2001
2002
2003
Prodotto interno lordo
Consumi delle famiglie residenti
Investimenti fissi lordi
Macchinari e mezzi di trasporto
Esportazioni di beni e servizi
Importazioni di beni e servizi
1,6
2,3
4,6
6,0
0,0
5,1
2,9
2,9
6,1
7,8
10,2
8,3
1,9
1,7
1,6
0,8
6,0
3,9
1,9
2,1
3,7
4,7
2,6
3,2
2,9
2,8
7,3
11,0
5,5
8,2
Saldo conto corrente e c/capitale (1)
0,9
-0,2
0,1
0,2
0,4
Occupazione totale (unita' standard)
Tasso di disoccupazione (2)
0,8
11,4
1,5
10,6
1,1
9,8
0,8
9,7
1,2
9,2
1,7
2,4
2,9
2,5
3,1
2,4
2,8
3,4
3,1
1,8
2,4
2,6
1,3
2,5
2,6
1,8
5,0
37,8
6,7
3,9
46,7
1,5
5,0
37,1
6,5
3,7
45,8
1,5
4,8
37,3
6,3
3,8
45,9
1,0
4,9
36,8
5,9
3,9
45,6
0,5
5,1
36,0
5,6
3,9
45,0
Debito della P.A. (1)
114,6
110,5
108,7
(1) Rapporti percentuali con il Pil. (2) Livelli. (*) Al netto dei proventi Umts.
105,4
103,1
Prezzi al consumo
Retribuzioni: totale economia
industria in s.s.
Indebitamento netto della P.A. (1) (*)
Avanzo primario P.A. (1)
Spesa corrente al netto interessi (1)
Spesa per interessi (1)
Spesa in conto capitale (1)
Entrate della P.A. (1)
L’inflazione. Prima dell’11 settembre, la caduta della domanda mondiale
aveva contribuito a ridurre i prezzi del petrolio. Nel complesso erano in calo
anche i prezzi delle altre materie prime. Le tensioni inflazionistiche, che si
erano accentuate nei primi mesi dell’anno soprattutto in Europa, stavano
rapidamente rientrando. A fine agosto la Banca Centrale Europea aveva
10
preso atto che i rischi non riguardavano più l’inflazione, ma il livello di
attività.
Nelle ipotesi di cui si è detto sopra, è possibile che questo scenario non
subisca sostanziali modifiche nel medio termine; il rallentamento
dell’economia e il probabile apprezzamento dell’euro potrebbero infatti
compensare gli effetti sull’inflazione di un temporaneo aumento del prezzo
del petrolio. E’ tuttavia probabile che la discesa dell’inflazione sia meno
rapida di quella che era precedentemente prevista (tab. 1 e tab. 2). Sia
nell’area dell’euro sia in Italia valutiamo che l’inflazione si attesti attorno al
2,8% nel 2001 e al 1,8% nel 2002. Il rientro al di sotto della soglia critica del
2% sarebbe rinviato di qualche mese rispetto alle precedenti previsioni della
Bce e potrebbe avvenire nella primavera del 2002. La previsione per l’Italia
assume che prosegua il clima di sostanziale moderazione salariale che ha
improntato il gran numero di contratti di lavoro conclusi negli ultimi mesi.
La crescita dell’Italia. Nei nostri scenari, pre e post 11 settembre, la
crescita dell’Italia risulta sostanzialmente allineata a quella europea, un
risultato di rilievo date le performance deludenti degli anni precedenti, ma
anche in parte determinato da demeriti altrui, ossia dalle forti difficoltà
dell’economia tedesca.
La questione di fondo che si pone alla politica economica è se sia possibile
raggiungere rapidamente ritmi di sviluppo notevolmente più elevati. A
questa domanda non si può che rispondere positivamente sol che si guardino
i risultati ottenuti in molti paesi europei tradizionalmente non molto
dissimili dal nostro, per quanto riguarda gli istituti della protezione sociale
e il ruolo dello Stato. Nella seconda metà degli anni Novanta, Olanda,
Spagna, Irlanda, Svezia e Finlandia sono cresciuti a ritmi vicini o superiori
al 4%.
Le politiche per la crescita. Le misure utili ad irrobustire la crescita
dell’Italia ed in particolare del Mezzogiorno sono moltissime. Le idee che
siamo riusciti ad elaborare in proposito sono ampiamente esposte nel
volume “Azioni per la competitività” (Sipi Ed., Roma, 2001). Fornire un
elenco delle priorità ci pare poco costruttivo, dato che quasi tutto è
importante e nulla è di per sé risolutivo: è cruciale migliorare la scuola e la
ricerca scientifica, ma non è meno importante restituire efficienza
all’amministrazione pubblica, attuare un federalismo responsabile,
semplificare le norme, realizzare le infrastrutture, modernizzare il mercato
finanziario, privatizzare e liberalizzare, rendere più flessibile il mercato del
lavoro, diffondere internet, utilizzare meglio i fondi per le aree depresse e
quant’altro. Alcune riforme importanti, o deleghe per riformare, sono già
contenute nel cosiddetto pacchetto dei 100 giorni presentato dal governo,
riguardo in particolare a questioni cruciali quali l’economia sommersa e le
infrastrutture (cfr. riquadro: I provvedimenti dei 100 giorni nel par. 3.6).
Molti suggerimenti utili sono contenuti nel Dpef, riguardo alle nuove
tecnologie, alle riforme del mercato del lavoro, alle liberalizzazioni e allo
sviluppo del Mezzogiorno. In questa sede ci sembra utile concentrare
11
l’attenzione sui temi centrali in vista della presentazione della legge
finanziaria.
Il contenimento della spesa. In quest’ottica, il punto cruciale ci sembra
l’avvio di una politica di contenimento delle spese correnti che renda
credibili nel medio termine le promesse elettorali in materia di riduzioni
fiscali, tenuto conto degli impegni europei riguardo al disavanzo pubblico. Il
peggioramento del quadro internazionale rende questa politica forse più
difficile da realizzare sotto il profilo politico immediato, ma certamente più
necessaria sotto il profilo economico. Potrebbe essere il fattore decisivo
capace di trasformare un rischio di stagnazione in un’opportunità di
crescita. Occorre attuare quelle riforme strutturali che garantiscono
risparmi di spesa crescenti nel tempo, più che nell’immediato, e dunque un
solido equilibrio del bilancio pubblico nel medio termine. Come si è detto,
questa argomentazione, specialmente nell’attuale situazione congiunturale,
può essere fatta valere anche a Bruxelles, nell’ambito della riflessione in
corso sull’applicazione del Patto di Stabilità.
I conti pubblici. In questo rapporto confermiamo la valutazione che
facemmo a giugno e che, dopo qualche polemica, ha trovato conferma a fine
luglio nelle stime del Fmi. Dicemmo allora che il disavanzo tendenziale
dell’anno si situava attorno all’1,8%, riconducibile entro l’1,5%, senza una
manovra aggiuntiva, ma con una gestione rigorosa dei flussi di spesa nella
seconda parte dell’anno. Alla luce delle prime misure attuate o in corso di
attuazione nonché dei miglioramenti dei saldi registrati negli ultimi mesi, ci
pare che il punto di partenza per ragionare sulla finanziaria sia un
disavanzo 2001 all’1,5% (cfr. par. 3.6).
Il Dpef prevede tagli alla spesa corrente prima degli interessi pari all’1% del
Pil ogni anno. All’incirca ciò è quanto si richiede oggi per riportare l’Italia in
linea con l’obiettivo previsto per il 2002 dal programma di stabilità (0,5%); lo
spazio residuo per riduzioni fiscali, nonché per rilanciare gli investimenti in
infrastrutture, sarebbe pressoché nullo. Il governo intende inoltre
mantenere fede all’impegno di aumentare le pensioni minime, il che
comporta che le altre spese correnti dovrebbero essere ridotte in misura
anche maggiore.
Riduzioni della spesa di questa entità fra un anno e l’altro - non rispetto ad
una qualche più o meno arbitraria stima del tendenziale - non si sono
verificate nemmeno a seguito delle maxi finanziarie del governo Amato
(1992) e del governo Prodi (1996) e appaiono difficilmente proponibili
nell’attuale situazione congiunturale.
Formuliamo dunque una previsione cauta per il 2002 che comprende una
più modesta riduzione delle spese correnti primarie (-0,5%). Per conseguire
questo risultato occorre in ogni caso più rigore di quello messo in atto nella
precedente legislatura nel controllare le spese per gli acquisti e soprattutto
quelle per il personale. Ipotizziamo una riduzione di 0,3 punti della
pressione fiscale e un leggero aumento della spesa per opere pubbliche. In
12
queste condizioni, tenuto conto da un lato del prevedibile miglioramento
della spesa per interessi e dall’altra della minor crescita rispetto al previsto,
il disavanzo non scenderebbe allo 0,5%, bensì al 1%. Date le condizioni
iniziali, la variazione del disavanzo fra il 2001 e il 2002 (-0,5%, ossia da 1,5%
a 1%) sarebbe superiore a quella prevista dal Programma di Stabilità
dell’anno scorso (-0,3%, ossia da 0,8% a 0,5%).
La riforma delle pensioni. Una riforma del sistema pensionistico che
possa essere considerata definitiva, ossia tale da rendere sostenibile ed equo
il sistema nel medio - lungo termine, è ben più importante di qualche
decimale in più o in meno di disavanzo in un dato anno.
Data l’importanza che attribuiamo a questo tema, a margine di questo
rapporto presentiamo i risultati di un ampio lavoro analitico svolto, in piena
indipendenza, dal CeRP, sotto la supervisione di Onorato Castellino ed Elsa
Fornero. Non condividiamo per intero le loro proposte. Abbiamo però
ritenuto utile dare spazio a un lavoro che ci sembra contenga tutti gli
elementi analitici necessari per formarsi un’opinione circostanziata su
questo delicatissimo tema. In questa sede richiamiamo l’attenzione su
alcuni punti cruciali.
La demografia. Secondo le più recenti proiezioni dell’Eurostat, in Italia il
rapporto fra la popolazione anziana (al di sopra di 64 anni) e quella in età di
lavoro (fra 15 e 64 anni) è destinato a salire dal 25% del 2000 al 40% nel
2025 e al 60% nel 2050. Si passerebbe dunque da un rapporto di 1 a 4 ad un
rapporto di 1 a 1,6. E’ evidente che, a parità di altre condizioni, in un
sistema a ripartizione, è destinata a salire drammaticamente la quota di
salario che ogni lavoratore deve devolvere al mantenimento dei pensionati.
Le prospettive demografiche dell’Italia sono peggiori che nel resto d’Europa
(dove in media si passerebbe dall’attuale 24% al 49% nel 2050) perché è più
forte la caduta in atto dei tassi di natalità. E’ peraltro molto difficile
ipotizzare una politica dell’immigrazione che possa modificare
significativamente queste proiezioni.
?
Le aliquote dei contributi pensionistici. In Italia l’attuale
aliquota sul lavoro dipendente è al 32,7%, 10 punti al di sopra di quelle della
generalità degli altri paesi europei. Malgrado aliquote tanto elevate, il
disavanzo del sistema pensionistico nel suo complesso è di ben 90 mila
miliardi, a carico della fiscalità generale. Per portare in equilibrio la
gestione dei lavoratori dipendenti, occorrerebbe un aliquota del 45%,
destinata a salire al 48 già nel 2010. Il grande divario che si registra in
Italia fra il costo del lavoro per l’azienda e il reddito netto del lavoratore è
per lo più dovuto alle aliquote pensionistiche, che rappresentano una tassa
straordinariamente elevata sull’occupazione.
?
Le iniquità dell’attuale sistema. La riforma Dini ha determinato
una cesura fra coloro che avevano più di 18 anni di anzianità nel 1995 (ai
quali si applica l’attuale sistema retributivo) e coloro che avevano meno di
18 anni (ai quali si applica, pro rata, il sistema contributivo). Ciò fa sì che,
13
per una carriera tipo, fra una coorte e la successiva (ad es. fra i nati nel
1955 e i nati nel 1956), si verifica, a parità di anzianità di servizio, un calo
molto consistente (nell’ordine di 13 punti) del rapporto fra il valore attuale
dei benefici pensionistici e il valore attuale dei contributi versati (par. 2.2
del rapporto CeRP).
?
L’inefficacia degli incentivi per scoraggiare il pensionamento
anticipato. Incentivi di questo tipo sono stati introdotti nella finanziaria
dell’anno scorso. Non funzionano perché l’attuale sistema di calcolo dei
benefici pensionistici comporta una tassa estremamente elevata sul
prolungamento di un anno dell’attività lavorativa: tassa che sale da valori
pari a 40- 50% della retribuzione per anzianità brevi (35 anni) sino a oltre il
70 % per anzianità attorno ai 40 anni (par. 2.3 del rapporto CeRP). Oggi il
sistema premia dunque chi va in pensione anticipatamente, il che è
palesemente ingiusto e socialmente inefficiente.
?
I risparmi possibili. Per abolire questa tassa, o quantomeno ridurla
drasticamente, l’opzione suggerita dal Rapporto CeRP è di applicare
coefficienti attuarialmente equi ai pensionamenti di anzianità, in base ai
quali chi va in pensione a 57 anni percepisce una rata annuale più bassa di
una persona che lavora sino a 65 anni, perché mediamente fruisce della
pensione per un maggior numero di anni. I risparmi derivanti
dall’applicazione di tali coefficienti potrebbero raggiungere, a seconda delle
ipotesi, quasi 40.000 miliardi in cinque anni e oltre 50.000 in dieci (par. 2.3
del rapporto CeRP).
?
Le potenzialità della capitalizzazione. Anche con ipotesi molto
caute sui rendimenti di mercato, si dimostra che un riequilibrio del sistema
a favore dei fondi pensioni a capitalizzazione non comporta pensioni più
basse per il lavoratore. Il passaggio alla capitalizzazione, con una graduale
riduzione del ruolo del sistema pubblico a ripartizione nonché del costo del
lavoro per le imprese, è dunque conveniente, oltreché necessario per motivi
di sostenibilità finanziaria. Costituirebbe in ogni caso un contributo
essenziale alla modernizzazione del nostro mercato finanziario (par. 4.2).
Welfare e mercato del lavoro. I due istituti delle pensioni di anzianità e
del Tfr costituiscono oggi importanti ammortizzatori sociali. Svolgono, più o
meno impropriamente, la funzione che in altri paesi svolge il sussidio di
disoccupazione. Inoltre il Tfr può essere utilizzato dal lavoratore a fronte di
esigenze diverse ed importanti, quali le spese sanitarie e per la casa, e, come
argomenta il rapporto CeRP, la possibilità di questi utilizzi ne compensa in
larga misura la modesta redditività. E’ dunque evidente che non esiste un
“free lunch” e che qualora si mettesse mano a questi due istituti si
porrebbero due ordini di problemi, per i lavoratori e per le imprese. Per i
lavoratori si porrebbe un problema di ammortizzatori sociali, sostituivi
rispetto agli attuali. Per le imprese si aggraverebbe il problema della
mancanza di flessibilità perché verrebbero meno, o comunque si
restringerebbero, anche quei modesti margini che sono oggi offerti dai
pensionamenti di anzianità e dal fatto che il lavoratore, in caso di
14
interruzione del rapporto di lavoro, ha comunque diritto al trattamento di
fine rapporto. Sussistono dunque nessi assai stretti fra i diversi aspetti del
sistema di welfare e delle regole del mercato del lavoro - nessi cui in diversi
paesi sono state trovate soluzioni diverse, ma generalmente più efficienti
che in Italia. Quello che è certo che le soluzioni esistono e che la riforma
delle pensioni è anche un occasione da non perdere per avviare un più ampio
progetto di riforma volto a modernizzare il nostro mercato del lavoro.
15
CONSEGUENZE ECONOMICHE DI SHOCK POLITICO-MILITARI
Questo riquadro illustra l’andamento di alcune variabili economiche a seguito di
shock di natura extraeconomica (prevalentemente politici o militari). Il principale
paese di riferimento sono gli Stati Uniti. Gli eventi considerati sono l’attacco
giapponese a Pearl Harbour (1941), la guerra di Corea (1950-53), il conflitto UsaUrss sull’installazione dei missili sovietici a Cuba (1962), l’intervento militare
americano in Vietnam (che assume connotati di guerra aperta negli anni 1964-73),
la guerra del Kippur (1973), la guerra del Golfo (1990-91); a questi episodi viene
aggiunto il terremoto giapponese di Kobe (1995), i cui effetti sul piano delle perdite
umane ed economiche possono essere paragonati a quelli delle recenti vicende
statunitensi.
Complessivamente, la breve ricognizione qui effettuata suggerisce che l’andamento
delle variabili economiche nella fase successiva agli shock subisca le oscillazioni
maggiori (quale che sia la gravità degli eventi sul piano politico) quando lo shock
comporta conseguenze sul prezzo o sulla quantità delle materie prime.
1) Pearl Harbour (fig. 1). L’8 dicembre 1941 forze aeree giapponesi attaccano la
base militare americana di Pearl Harbour (Hawaii); la flotta Usa resterà fuori
combattimento per mesi. Il Congresso americano dichiara lo stato di guerra con il
Giappone lo stesso giorno. L’attacco giapponese si inscrive in un contesto economico
che è naturalmente già segnato pesantemente dalla guerra. L’indice
Standard&Poor è caduto pesantemente all’inizio del 1937, e nonostante una
parziale ripresa nel biennio 1938-39 a partire dalla fine del 1939 si verifica una
nuova fase di flessione. L’evento di Pearl Harbour coglie dunque l’economia
americana in un momento di caduta dei listini, e coincide con una ulteriore caduta
dell’indice (dal 9,37 di novembre all’8,76 di dicembre); fin dai primi mesi del 1942 si
assiste tuttavia a una nuova ripresa, che segna l’avvio di un periodo di forte
aumento. L’attività produttiva negli Usa era d’altra parte in espansione fin dalla
fine del 1938, ed era entrata in una fase di crescita accelerata dalla metà del 1940.
Con l’ingresso in guerra il deficit di bilancio passa tra il 1941 e il 1942 da 6 miliardi
di dollari a 21 miliardi, per raggiungere un picco di 57 miliardi nel 1943. La
produzione industriale, trainata dalla spesa per armamenti, si impenna.
2) Corea (fig. 2). Il 25 giugno del 1950 forze armate nord-coreane (appoggiate
dall’Urss) oltrepassano il 38° parallelo, entrando nella Corea del Sud senza
preavviso. Il 29 giugno il presidente Truman, avvalendosi di una risoluzione del
Consiglio di sicurezza che invita i paesi membri dell’Onu a fornire assistenza alla
Corea per respingere l’attacco, autorizza il generale MacArthur a compiere missioni
aeree su obiettivi militari specifici in Nord Corea, dando avvio a un intervento
diretto nell’area. Il conflitto, che apre una stagione di forte tensione tra Usa e Urss,
evocando per la prima volta lo spettro di un conflitto nucleare, durerà tre anni.
L’armistizio è firmato il 27 luglio del 1953. Nel mese di luglio 1950 lo
Standard&Poor subisce una flessione, che viene però riassorbita già tra agosto e
settembre; nel triennio successivo seguita a salire senza contraccolpi di rilievo.
L’indice non subisce oscillazioni di rilievo anche in coincidenza della dichiarazione
di emergenza rilasciata da Truman il 15 dicembre del 1950, in cui si riconosce
ufficialmente la pericolosità della situazione, e si annuncia una politica di
riconversione della spesa dai consumi civili alla produzione per usi militari. Lo S&P
manifesterà una flessione soltanto nei primi mesi del 1953, lasciando poi il terreno
a una fase di forte espansione a partire dalla fine dell’anno. In questo contesto
l’Economic Report del Presidente del luglio 1950 contiene espressioni singolarmente
consonanti con quelle che stanno affollando i canali di informazione negli ultimi
16
Fig. 1
STATI UNITI: PIL DEL SETTORE PRIVATO E
INDICE DI BORSA STANDARD & POOR'S
20
180
Indice di borsa (Gennaio 1928=100)
Pil (1940-41=100;scala destra)
18
160
16
140
14
120
12
100
10
80
8
60
6
40
1935 1936 1937
Fonte: Bloomberg.
1938
1939
1940
1941
1942
1943
1944
1945
giorni: “The world responsibilities of the United States have become heavy. (…) The
American people know how much is at stake. They are prepared to shoulder their
tasks without flinching. (…)” E più avanti: “This is not the time for business as
usual. We are not now living under peaceful world conditions. But neither are we
engaged in a general or widespread war. We are in a situation between these opposite
extremes, and economic policy should be guided accordingly” (p. 1).
Fig. 2
STATI UNITI: PRODUZIONE INDUSTRIALE, PIL E INDICE DI BORSA STANDARD & POOR'S
180
160
130
Indice di borsa (gennaio 1949=100)
Produzione industriale (1947-49=100)
Pil (1 trim. 1949=100; scala destra)
125
120
140
115
110
120
105
100
100
80
95
1949
Fonte: Bloomberg.
1950
1951
1952
1953
Le serie trimestrali del Gnp mostrano una crescita regolare lungo tutto l’arco del
conflitto (1950-53), con un leggero innalzamento del trend rispetto al quadriennio
precedente; nello stesso periodo tuttavia le serie mensili dell’indice di produzione
industriale (in forte crescita dalla fine del 1949) rivelano un appiattimento del
profilo di crescita dopo il mese di agosto. Il profilo dell’indice di produzione trova
una spiegazione sia nel rallentamento, osservabile a partire dall’ultimo trimestre
del 1950, della domanda (e in particolare di quella di beni durevoli, che sconta
anche il boom degli acquisti avvenuto nei giorni successivi alla dichiarazione dello
17
Fig. 2bis
INDICE DOW JONES
(Dati giornalieri, 20 giugno-31 luglio 1950)
250
240
230
220
210
200
190
20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31
Luglio
Giugno
Fonte: Bloomberg.
stato di guerra), sia nel fatto che il sistema industriale si trova nei mesi che
precedono la crisi in condizioni prossime alla piena utilizzazione della capacità
produttiva. In questo quadro le esigenze della produzione militare si risolvono,
almeno in una prima fase, in una compressione della produzione destinata ad usi
civili, implicando anche forti pressioni sui prezzi (alimentate anche dalle difficoltà
incontrate nel realizzare la riconversione). L’indice di produzione, influenzato nei
mesi centrali del 1952 anche da uno sciopero nell’industria dell’acciaio, che si risolve
nel luglio, mostrerà di nuovo un profilo ascendente solo nella seconda metà del
1952. Il forte aumento delle spese militari spinge il deficit a 4 miliardi di dollari nel
1952 e a 9,5 miliardi nel 1953, corrispondenti al 2,6% del Gnp (nel 1951 il bilancio
era ancora attivo per 3,5 miliardi di dollari).
3) Cuba (fig. 3). In seguito a informazioni che documentano l’installazione a Cuba di
missili sovietici a medio raggio il Presidente Kennedy diffonde il 22 ottobre 1962 un
messaggio in cui annuncia alla nazione di avere decretato il blocco navale intorno a
Cuba per tutte le navi che trasportino armamenti, e invita a smantellare i missili
già installati. Di fronte all’effettivo passaggio al blocco navale da parte degli Usa (24
ottobre), il primo ministro sovietico Khruscev richiede un incontro “ad alto livello”,
che non riceve risposta. La crisi si scioglie soltanto il 28 ottobre, quando Khruscev
accetta lo smantellamento dei missili, in seguito al quale gli Usa rimuovono il
blocco.
La rapidità con la quale si risolve la crisi fa sì che gli effetti sull’attività produttiva
siano di fatto inesistenti. Il livello del Dow Jones mostra una flessione tra il 22 e il
23 ottobre (da 569 a 558), ma risale già il giorno successivo (577), e dopo un’altra
breve flessione torna in salita appena la crisi si esaurisce. L’indice di produzione
industriale di ottobre resta sostanzialmente allo stesso livello di settembre (ma la
stagnazione è osservabile lungo l’intera seconda metà del 1962, e sembra dunque
largamente indipendente dagli eventi in questione).
18
4) Vietnam (fig. 4). Di fronte alla crescente intensità degli scontri tra le forze
insurrezionali dei Viet-cong e quelle governative del Vietnam del Sud, che
raggiungono una particolare intensità nella seconda metà del 1961, il presidente
Fig. 3
INDICE DOW JONES
(Dati giornalieri, 19-30 ottobre 1962)
590
585
580
575
570
565
560
555
19
20
21
22
Fonte: Bloomberg.
23
24
25
26
27
28
29
30
Kennedy decide – nonostante il parere contrario dei servizi di informazione – di
impegnarsi direttamente nel conflitto, attraverso l’invio di un numero via via
crescente di consiglieri militari e la sperimentazione di tecniche anti-guerriglia.
L’intervento americano assume però l’aspetto di guerra aperta solo a partire dal
1964, quando (in seguito all’affondamento in acque internazionali di un incrociatore
americano da parte di forze nord-vietnamite) il presidente Johnson il 6 agosto
ordina per rappresaglia un bombardamento di postazioni nel Golfo del Tonchino.
Negli anni che seguono le forze americane impegnate nel conflitto passeranno da
25.000 a 550.000 unità. L’ascesa alla presidenza di Nixon nel 1969 segnerà
successivamente il passaggio a una politica di graduale disimpegno degli Usa; il 27
gennaio 1973 viene firmato a Parigi l’accordo che prevede il ritiro delle basi
americane.
Fig. 4
STATI UNITI: PRODUZIONE INDUSTRIALE E DOW JONES
1955=100
240
220
1100
1000
200
900
180
800
160
700
140
120
100
Produzione industriale
Dow Jones (scala destra)
60 61 62 63 64 65 66 67 68
Fonte: Federal Reserve, Thomson Financial.
69
70
71
72
600
73
500
19
Fig. 5
PREZZO SPOT DEL PETROLIO
(Dollari per barile)
14.0
12.0
10.0
8.0
6.0
4.0
2.0
1973
Fonte: Fmi.
1974
1975
1976
1977
Rispetto ai casi precedenti la vicenda del Vietnam presenta naturalmente differenze
marcate, sia perché non trae origine da uno shock improvviso, sia per la sua durata
(nel complesso oltre un decennio). Gli effetti sull’economia sono quelli dovuti a una
escalation progressiva dell’onere (e del rischio) implicato dal crescente impegno
militare. Il Dow Jones subisce una flessione nei primi mesi del 1962, per poi
riprendersi nella seconda parte dell’anno e salire costantemente fino alla fine del
1965 (da un livello di 90 a quasi 160); nel 1966 l’indice torna a scendere, ma già alla
fine dell’anno è in ripresa, e alla fine del 1968 è ancora sui livelli di fine 1965. Nel
quinquennio successivo (1969-73) l’andamento è altalenante, con un picco oltre
quota 160 alla fine del 1972. Nello stesso periodo l’indice di produzione industriale è
in costante crescita, con cadute nei primi mesi del 1967 e lungo l’intero arco del
1970. L’Economic Report del Presidente Usa del gennaio 1966 affronta la questione
Vietnam esplicitamente, sottolineando tuttavia che “the economic cost of Vietnam
imposes no unbearable burden upon our [U.S.] resources” (p. 4). Il peso della
produzione destinata a sostenere l’intervento è stimato nell’ordine di un punto
percentuale e mezzo di Gnp; mentre ciò implica comunque una riallocazione della
domanda, la convinzione espressa è che in ogni caso “our prosperity does not depend
on our military effort” (p. 5). Il Report del febbraio 1968 sottolinea con grande enfasi
come il 1967 costituisca, nonostante il rallentamento dei primi mesi, il settimo
anno “of the longest and strongest economic espansion of our history” (p. 6);
l’espansione si manterrà sostenuta ancora per un biennio. Alla fine del decennio il
problema diventa piuttosto quello dell’inflazione: la crescita dei deficit di bilancio e
l’espansione monetaria in atto dal 1965 esercitano, nonostante una politica
monetaria più restrittiva a partire dai mesi finali del 1968, una crescente pressione
sul livello dei prezzi. La parallela espansione del deficit estero e le conseguenti
pressioni sul dollaro porteranno nell’agosto 1971 alla dichiarazione di
inconvertibilità del dollaro e al crollo del sistema di Bretton Woods.
5) La guerra del Kippur (fig. 5). La guerra iniziò il 5 ottobre 1973 con un attacco di
Siria ed Egitto ad Israele teso a riconquistare i territori arabi occupati nella guerra
20
dei sei giorni (5/10 giugno 1967). Finì ufficialmente il 22 ottobre con l’approvazione
da parte delle Nazioni Unite di una Risoluzione che imponeva un negoziato tra le
parti belligeranti. Gli Stati Uniti e la gran parte dei paesi occidentali si schierarono
a sostegno di Israele, provocando la reazione dei paesi arabi produttori di petrolio
(con in testa l’Arabia Saudita) e l’imposizione dell’embargo nei confronti degli Stati
Uniti e altri paesi occidentali fino al marzo del 1974. Nonostante l’aumento di un
milione di barili al giorno della produzione da parte di paesi non Opec, la
produzione giornaliera di petrolio si ridusse di 4 milioni di barili (il 7% della
produzione mondiale). Tra il 1972 e il 1974 i prezzi del petrolio quadruplicarono
passando dai circa 3 dollari al barile del 1972 ai 12 dollari del 1974. Il rapido
aumento dei prezzi portò, tra la seconda metà del 1974 e la prima metà del 1975 ad
una forte recessione negli Stati Uniti e negli altri paesi occidentali, accompagnata
da significativi aumenti dell’inflazione e del tasso di disoccupazione, dando inizio al
fenomeno della stagflazione.
6) La guerra del Golfo (figg. 6-10). La guerra inizia il 2 agosto 1990 con l’invasione
del Kuwait da parte dell’Iraq, e interrompe una lunga fase di espansione
dell’economia statunitense (4,3% il tasso di crescita medio del Pil tra il 1983 e il
1989) e di quella mondiale (3,9% la crescita media nello stesso arco di tempo). Nel
gennaio 1991 le forze Nato, sotto la leadership degli Stati Uniti, lanciano i primi
bombardamenti sull’Iraq. Il rallentamento americano, già iniziato nel II trimestre
del 1990 (+0,9% in ragione d’anno contro il +5,1% nel I trimestre 1990), si tramutò
in recessione durante i sette mesi di guerra. La fase di recessione che caratterizzò
l’economia americana ed i principali paesi industrializzati durante la guerra del
Golfo fu il prodotto di una crisi globale di fiducia che portò al crollo dei consumi
privati e dunque del prodotto. Il calo della fiducia all’indomani dell’invasione del
Kuwait dipese non solo dalla prospettiva (poi realizzatasi) della guerra , ma anche
dallo shock petrolifero causato dalla sospensione di produzione di greggio in Iraq e
Kuwait. Dai 16 dollari a barile di luglio 1990 il prezzo del Brent passò a oltre 40 tra
agosto e settembre: tra il secondo e il quarto trimestre del 1990 il prezzo del petrolio
aumentò di oltre 15 dollari a barile. Una volta avviate le operazioni militari
l’aggiustamento al ribasso dei corsi petroliferi fu molto veloce: nel febbraio 1991, con
il ritiro dell’Iraq dal Kuwait, il Brent tornava ad essere quotato a 20 dollari a barile.
Fu dunque la somma di questi due shock esogeni – guerra e petrolio – ad innescare
il crollo delle borse e della fiducia. Sul fronte dei mercati azionari, tra l’agosto 1990
e gennaio 1991 l’indice Dow Jones cadde di oltre il 20%. La caduta dell’indice,
interrotta solo nell’ultimo trimestre del 2000, si esaurì con la fine della guerra del
Golfo. In poco più di un mese (metà gennaio – fine febbraio 1991) i mercati
recuperarono tutte le perdite, benché nello stesso tempo gli Stati Uniti e la gran
parte dei paesi industrializzati stessero entrando in una fase di recessione. Sul
fronte della fiducia dei consumatori, tra agosto e dicembre 1990 l’indice
statunitense (Conference board index) subì un crollo del 35%. La caduta della
fiducia si estese a tutti i paesi industrializzati (con l’eccezione della Germania,
condizionata dall’euforia della riunificazione); in Italia essa fu del 12%. La crisi di
fiducia condusse a minori consumi: nel IV trimestre del 1990 i consumi degli Stati
Uniti subirono un crollo del 3,3% in ragione d’anno sul trimestre precedente. La
caduta proseguì nel I trimestre del 1991 (-1,8% in ragione d’anno). I minori consumi
determinarono un calo del Pil statunitense del 3,3% in ragione annua nel IV
trimestre del 1990 e del 2% nel I trimestre del 1991. Anche in Europa il
rallentamento dell’attività economica fu molto forte: nel quarto trimestre del 1990 il
Pil calò del 2% nel Regno Unito, dello 0,4% in Francia e del 4% in Italia. Solo in
Germania, impegnata nel processo di riunificazione, la recessione venne evitata: il
Pil nel quarto trimestre del 1990 aumentò del 5,6% in ragione d’anno. Durante la
21
Fig.6
PREZZO DEL SPOT DEL PETROLIO
(Dollari per barile)
45.0
40.0
35.0
30.0
25.0
20.0
15.0
10.0
1990
Fonte: Thomson Financial.
1991
Fig.7
INDICE DOW JONES
(Gennaio 1990=100)
110
105
100
95
90
85
22
1990
Fonte: Thomson Financial
1991
Fig.8
FIDUCIA DEI CONSUMATORI IN ITALIA E STATI UNITI
1980=100
1995=100
140
130
120
120
100
110
80
Stati Uniti
Italia (scala destra)
100
60
40
1988
1989
1990
Fonte: Isae,Thomson Financial.
1991
1992
1993
1994
90
Fig. 9
CONSUMI NEGLI STATI UNITI
(Var. % tendenziali)
5.0
4.0
3.0
2.0
1.0
0.0
-1.0
1989
1990
Fonte: Thomson Financial.
1991
1992
1993
1994
23
Fig.10
PRODOTTO INTERNO LORDO
(Var. % congiunturali annualizzate)
7.0
8.0
5.2
6.0
4.0
3.3
2.0
1.5
0.0
-0.3
-2.0
-2.2
-4.0
Stati Uniti
Italia (scala destra)
1989
1990
1991
Fonte: Thomson Financial.
1992
1993
-4.0
1994
-6.0
guerra del Golfo gli americani ridussero i loro viaggi oltreoceano del 9,2%, i viaggi
verso l’Europa si ridussero del 22% e non tornarono ai livelli del 1990 sino al 1994.
7) Il terremoto di Kobe (fig. 11). Il 17 gennaio 1995 la regione del Kansai in
Giappone fu colpita da un fortissimo terremoto con epicentro a Kobe (7,2 gradi della
scala Richter). L’area colpita, che produceva poco meno del 5% dell’output
industriale giapponese, contò una perdita di oltre 5000 vite umane e danni fisici per
circa 60 miliardi di dollari (l’1,3% del Pil). Si tratta di cifre non distanti da quelle
stimate a seguito del crollo delle Torri del World Trade Center di New York.
Immediatamente dopo il terremoto il mercato azionario giapponese cadde del 6,5%.
Tra gennaio e agosto 1995 la fiducia dei consumatori continuò a cedere: l’indice
costruito dall’Epa registrò una flessione del 10%. Nello stesso arco temporale la
fiducia delle imprese crollò di quasi il 60%. La flessione della produzione industriale
si concentrò nel solo mese di gennaio (-2,6%). La distruzione dello stock di capitale
da una parte e la crisi di fiducia dall’altra determinarono una caduta del Pil
giapponese dell’1,2% annuo nel I trimestre del 1995: i consumi privati caddero del
2,4% e gli investimenti del 5,4% in ragione d’anno. Il ritorno a tassi di crescita
positivi fu però veloce: nel II trimestre del 1995 il Pil crebbe del 2,7% in ragione
d’anno e nei due trimestri successivi del 4,5%. L’accelerazione fu determinata da
una forte crescita degli investimenti privati e della spesa pubblica, anche a seguito
dell’attività di ricostruzione.
Fig. 11
GIAPPONE: PRODUZIONE INDUSTRIALE
(Indici: 1995=100)
106
104
102
100
98
96
94
92
90
1994
Fonte: Thomson Financial
24
1995
1996
2.
L’economia internazionale
2.1
Il quadro a settembre
Nel corso dei mesi estivi è proseguito il rallentamento dell’economia
mondiale. Sino a qualche settimana fa gli indicatori anticipatori di Stati
Uniti ed Europa sembravano suffragare l’ipotesi di un recupero dell’attività
mondiale verso la fine dell’anno. Dopo gli attentati dell’11 settembre lo
scenario globale è divenuto molto più incerto (cfr. cap. 1). Nel seguito verrà
esposto lo stato dell’economia internazionale desumibile dai dati disponibili
a settembre, quindi antecedenti gli attentati; solo per borsa, tassi di
interesse e cambi verranno incluse le informazioni successive all’11
settembre.
Alla chiusura del terzo trimestre 2001 la congiuntura economica mondiale si
presenta in questo modo:
?
negli Stati Uniti al crollo nella prima parte di quest’anno della
produzione industriale e degli investimenti, in particolare nel settore dell’hitech, ha corrisposto una brusca caduta degli utili di impresa, un’ulteriore
flessione delle quotazioni di borsa e l’avvio di una campagna di riduzione del
personale. Nel secondo trimestre l’economia è rimasta praticamente ferma;
le indicazioni congiunturali emerse nel corso dei mesi estivi disegnano un
quadro di stallo anche per il terzo trimestre;
?
l’area dell’euro ha accusato il rallentamento americano ben più di
quanto lasciassero intuire i rapporti commerciali tra le due aree;
l’occupazione ha cessato di aumentare a ritmi elevati; la flessione
dell’attività produttiva è risultata particolarmente ampia nelle maggiori
economie dell’area. La crescita del Pil è stata pari allo 0,1% nel secondo
trimestre; segnali di stagnazione dell’attività produttiva sembrano prevalere
anche per il trimestre in corso;
?
in Giappone la brusca caduta del commercio internazionale ha acuito
la crisi economica e finanziaria del paese; non accenna a fermarsi il processo
di deflazione mentre la caduta dei corsi azionari aumenta i rischi di default
del sistema bancario. L’economia giapponese è in recessione.
Nel primo semestre del 2001 il tasso di espansione dell’economia mondiale è
stato pari al 2%, in netta flessione rispetto al 4,6% del 2000. Il perdurare
della fase di stagnazione dei paesi industriali durante tutto il terzo
trimestre del 2001, la debolezza delle nuove economie emergenti dell’Asia
orientale e dell’America latina e il contraccolpo sulla fiducia dei consumatori
degli attentati dell’11 settembre rendono improbabile una ripresa del Pil
mondiale nel corso dell’anno.
La brusca frenata della domanda mondiale nel 2001 si è riflessa nel
rallentamento del commercio mondiale (calcolato sulla base degli scambi di
beni e servizi dei paesi industriali e dei Nics): nel secondo trimestre di
25
quest’anno la crescita del commercio è scesa al 3%, dal 5,9% del primo
trimestre 2001 e dal 10,3% del quarto trimestre del 2000. La frenata della
domanda mondiale aveva favorito una flessione dei prezzi del petrolio fino a
25 dollari. Dopo l’11 settembre la quotazione del Brent è inizialmente salita
verso i 30 dollari, per poi ridiscendere verso i 26-27 dollari al barile, anche
alla luce dei timori di recessione negli Stati Uniti. Nei prossimi mesi i corsi
del greggio dipenderanno dagli sviluppi politici e militari conseguenti agli
attentati terroristici. I paesi produttori hanno dichiarato di voler garantire
la stabilità dell’offerta: questo impegno dovrebbe evitare il ripetersi
dell’impennata del prezzo del petrolio che caratterizzò il periodo della guerra
del Golfo (cfr. cap. 1).
2.2
Stati Uniti
Sulla base dei nuovi dati di contabilità nazionale (cfr. riquadro: La revisione
delle serie di contabilità nazionale negli Stati Uniti), negli Stati Uniti nel
secondo trimestre di quest’anno l’economia è rimasta sostanzialmente
ferma; il Pil è infatti cresciuto al tasso annualizzato dello 0,2%, in
progressivo calo rispetto al dato del quarto trimestre del 2000 (+1,9%) e del
primo trimestre di quest’anno (+1,3%). I consumi privati, cresciuti al tasso
annualizzato del 2,5% (3% nel I trimestre e 3,2% nel IV trimestre del 2000)
hanno continuato a fornire il contributo maggiore alla crescita del Pil.
Consumi pubblici, investimenti residenziali (che hanno beneficiato del taglio
dei tassi di interesse) ed esportazioni nette hanno sostenuto la crescita per
lo 0,7% complessivamente, mentre gli investimenti non residenziali le hanno
sottratto ben il 2%. Il crollo degli investimenti produttivi non residenziali
(-3,6% e -0,04% nel I trimestre del 2001) è dipeso soprattutto dalla
componente relativa alle attrezzature e software (-3,8% e -1,1% nel I
trimestre del 2001; cfr. fig. 1). Il decumulo delle scorte infine ha sottratto
uno 0,1% alla crescita; questa tendenza appare proseguire nel terzo
trimestre.
Il rallentamento economico si è tramutato in vera e propria recessione per
l’industria manifatturiera. Nel primo semestre del 2001 la produzione
industriale è diminuita del 2,6% rispetto al seconda metà del 2000; la
contrazione iniziata ad ottobre 2000 si è prevalentemente concentrata nei
settori hi-tech (-4,9% nel II trimestre 2001 rispetto al primo e -1,5% nel I
trimestre 2000) ed è stata la più lunga degli ultimi 40 anni.
Contemporaneamente il grado di utilizzo della capacità produttiva è sceso ai
livelli più bassi dal 1980. Nello stesso periodo gli ordini del settore
manifatturiero sono diminuiti del 5%, mostrando però una ripresa negli
ultimi mesi. In agosto, gli ordini sono saliti dello 0,1%, mostrando segnali
positivi soprattutto nei settori dei beni intermedi. Sia a luglio che ad agosto
la produzione industriale ha continuato a cedere. Lo scorso agosto la
flessione dell’attività produttiva è stata dello 0,8% su luglio. Dopo essere
caduta per undici mesi consecutivi la produzione di agosto è stata del 4,8%
inferiore al livello dell’agosto 2000.
26
Fig.1
STATI UNITI: INVESTIMENTI FISSI LORDI
(Variazioni % tendenziali)
20
15
10
5
0
-5
-10
Totali
Software e apparecchiature
1997
1998
Fonte: Thomson Financial.
1999
2000
2001
Nel primo semestre dell’anno il tasso di disoccupazione è stato pari al 4,4%
(4% nel 2000); ad agosto esso è balzato al 4,9%, dopo essere stato pari al
4,5% nei due precedenti mesi estivi. Nel solo mese di agosto il numero totale
di occupati è diminuito di circa un milione di unità, mentre i payrolls della
trasformazione industriale sono diminuiti di 136.000 unità.
La contrazione dell’attività produttiva e l’incremento del tasso di
disoccupazione hanno contribuito a contenere il costo del lavoro.
L’employment cost index del settore manifatturiero è cresciuto dello 0,9% nel
II trimestre del 2001 rispetto al primo trimestre (1,1% nel I trimestre 2001;
cfr. fig. 2). Nello stesso periodo la produttività del lavoro ha accelerato al
2,1% dopo la stasi del primo trimestre. L’inflazione al consumo nella prima
metà dell’anno è stata pari al 3,4% ed uguale al valore medio del 2000. La
caduta dei prezzi dei prodotti energetici (il prezzo del gasolio è sceso del 14%
nel mese di luglio) si è riflessa a luglio in una forte flessione dell’inflazione
(passata al 2,7% dal 3,3% di giugno). Ad agosto l’inflazione al consumo è
risultata invariata al 2,7%.
27
Fig. 2
STATI UNITI: COSTO DEL LAVORO E TASSO DI DISOCCUPAZIONE
(Variazioni % tendenziali)
5
15
4
10
3
5
2
0
1
-5
0
-10
Costo del lavoro
-1
1997
1998
Fonte: Thomson Financial.
Tasso di disoccupazione (scala destra)
1999
2000
2001
-15
Fig. 3
STATI UNITI: INDICE NAPM E PRODUZIONE INDUSTRIALE
Indice NAPM (*)
Variazioni %
65
8.0
6.0
60
4.0
55
2.0
50
0.0
45
40
35
28
-2.0
Indice NAPM
Produzione industriale (scala destra)
-4.0
-6.0
1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
(*) Indice NAPM dei nuovi ordini; valori superiori a 50 indicano espansione,
valori inferiori recessione.
Fonte: National Association of Purchasing Management.
Prima dell’attacco terroristico dell’11 settembre gli indicatori anticipatori
del ciclo sembravano puntare a un arresto della fase di declino dell’attività
produttiva. In particolare l’indice Napm dei responsabili degli acquisti del
settore manifatturiero, pur rimanendo ancora al di sotto della soglia (dei 50
punti) che separa la fase di espansione da quella di contrazione, lo scorso
agosto risultava in forte recupero, salendo a quota 47,9 dal 41,2 del gennaio
2001. Segnali incoraggianti erano pervenuti dalla componente dei nuovi
ordini dello stesso indice, balzata nello stesso periodo da quota 37,8 a quota
53,1. Allargando l’analisi agli ultimi dieci anni, sino a includere la
recessione di inizio anni novanta, si può notare che la ripresa dell’indice
Napm si è sempre accompagnata in passato a un’analoga ripresa della
produzione industriale (fig. 3). Questa considerazione è rafforzata
dall’esistenza di un’analoga correlazione positiva tra la produzione
industriale e l’indice di fiducia dei consumatori; nel corso del 2001, anche in
questo caso con un andamento contrastante, l’indice di fiducia ha recuperato
rispetto ai livelli minimi di fine dell’anno precedente (fig. 4). Negli ultimi
due mesi tuttavia i timori legati all’andamento dell’occupazione sembrano
aver avuto nelle aspettative dei consumatori maggiore peso dei rimborsi
fiscali (iniziati nella seconda metà di luglio), frenando la ripresa dell’indice.
L’aumento, ad agosto, del tasso di disoccupazione, dovrebbe aver
ulteriormente influenzato in maniera negativa la fiducia delle famiglie
americane; indicazioni in tal senso provengono dai risultati preliminari
della survey dell’Università del Michigan, relativa al mese di settembre ma
chiusa il giorno prima dell’attacco terroristico. Malgrado ciò, e malgrado la
brusca caduta registrata nel corso dell’anno precedente, la fiducia delle
famiglie rimane sui livelli elevati del 1997, ben al di sopra dei livelli minimi
raggiunti dieci anni fa, durante la guerra del Golfo. Vi è infine evidenza che
la riduzione dei tassi di interesse ha prodotto effetti positivi per il mercato
di nuove case; le vendite sono aumentate a luglio del 6% rispetto alla media
del II trimestre del 2000.
L’insieme di questi segnali, in gran parte antecedenti ai fatti dell’11
settembre, potevano ancora indurre, seppur con grande cautela, a un
moderato ottimismo sulle prospettive di ripresa dell’economia americana;
questa considerazione si basava soprattutto sul mix di politica economica
attuato dalle autorità americana, fatto di sgravi fiscali alle famiglie e di
forte riduzione dei tassi di interesse.
Dopo aver ridotto il tasso interbancario di 2,5 punti nei primi sei mesi di
quest’anno, dal 6,5 al 4%, la Federal Reserve aveva infatti abbassato di un
altro mezzo punto i tassi ufficiali nel corso dei mesi estivi, al 3,5%.
29
Fig. 4
STATI UNITI: PRODUZIONE INDUSTRIALE E FIDUCIA DELLE FAMIGLIE
Var. %
1995=100
160
8.0
6.0
140
4.0
120
2.0
100
0.0
80
-2.0
60
40
Indice di fiducia delle famiglie
Produzione industriale (scala destra)
1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
Fonte: Thomson Financial.
-4.0
-6.0
Complessivamente da inizio anno i tassi ufficiali erano stati ridotti di 3
punti, il che equivale al più forte allentamento dal dopoguerra in un così
ristretto arco di tempo. I tassi di mercato monetario, vicini al 7% alla fine
dello scorso anno, si erano addirittura dimezzati (fig. 5). Malgrado la
riduzione dei tassi di interesse ufficiali l’allentamento delle condizioni
monetarie è risultato più contenuto per effetto dell’ulteriore apprezzamento
del tasso di cambio effettivo (fig. 6) e della modesta riduzione dei tassi sui
corporate bonds, scesi nella media di quest’anno di solo mezzo punto rispetto
al 2000 (al 7,8% quelli sui titoli BAA e al 7% quelli sui titoli a tripla A).
In questo quadro di rilevante incertezza sulle prospettive di crescita del Pil
nel breve e medio termine, l’attacco terroristico dell’11 settembre ha
rappresentato uno shock in grado di far precipitare la fiducia delle famiglie
e quindi, in ultima analisi, di trascinare con sé l’intera economia, alla luce
della prolungata flessione degli investimenti e delle esportazioni. La Federal
Reserve è intervenuta con la massima tempestività, di concerto con le altre
principali banche centrali, nel tentativo di contrastare un prevedibile crollo
delle quotazioni di borsa e, indirettamente, della fiducia delle famiglie e per
garantire, nei limiti del possibile, l’ordinato svolgimento delle transazioni
finanziarie.
30
Fig. 5
TASSI DI INTERESSE A BREVE TERMINE
7.0
6.0
5.0
4.0
3.0
Area dell'euro (*)
Stati Uniti
2.0
1996
1997
1998
(*) Prima del 1999 dati relativi all'ecu.
Fonte: Thomson Financial.
1999
2000
2001
Fig. 6
TASSI DI CAMBIO EFFETTIVI NOMINALI
(Indici: 1 gennaio 1998=100)
140.0
130.0
Stati Uniti
Giappone
Area dell'euro
120.0
110.0
100.0
90.0
80.0
1998
1999
2000
Fonte: Elaborazioni CSC su dati Thomson Financial.
2001
31
In maniera in gran parte analoga a quanto attuato subito dopo la crisi di
borsa del 1987, la Banca Centrale americana ha in primo luogo aumentato
immediatamente e in misura rilevante la liquidità a disposizione del
mercato monetario, per contenere le tensioni sui tassi di interesse; questo
anche in considerazione del fatto che nell’attacco terroristico sono rimaste
coinvolte alcune grandi istituzioni finanziarie che potevano e in parte hanno
incontrato difficoltà nel mantenere gli impegni di pagamento con le
rispettive controparti finanziarie. La contemporanea chiusura della borsa
per i restanti giorni della settimana è risultata particolarmente opportuna
perché ha permesso di contenere i riflessi emotivi dello shock sulle
quotazioni azionarie. Per garantire alle banche commerciali europee
un’adeguata disponibilità di dollari in un momento di chiusura o di parziale
funzionamento dei mercati finanziari, la Federal Reserve ha inoltre messo a
disposizione della Banca Centrale Europea 50 milioni di dollari per un
periodo di 30 giorni; disponibilità cui la Bce può attingere depositando
l’equivalente in euro.
La rete di protezione dei mercati predisposta dalla Federal Reserve è stata
completata, alla riapertura del mercato di borsa degli Stati Uniti, dal taglio
di mezzo punto del tasso sui federal funds , sceso così al 3%, come nel 1992.
E’ probabile che la Banca centrale americana riduca nuovamente al ribasso i
tassi ufficiali nei prossimi mesi. Una riduzione dei tassi (di almeno un
quarto di punto) era attesa dai mercati già prima dell’11 settembre; la
possibilità di una brusca caduta dei consumi delle famiglie e quindi della
stessa crescita dell’economia americana, dovrebbe spingere nuovamente
all’azione la Banca centrale. Nelle attese dei mercati il tasso sull’eurodollaro
a 3 mesi dovrebbe scendere di almeno mezzo punto entro il primo trimestre
del prossimo anno; la Federal Reserve potrebbe però decidere, come accaduto
nel corso di tutto il 2001 e alla luce soprattutto della drammaticità della
situazione interna e internazionale, di agire in tempi più stretti e anche in
modo più deciso. Questo servirebbe a dare un’iniezione di fiducia ai mercati
e opererebbe a sostegno anche della fiducia delle famiglie; i tassi a breve
termine dovrebbero quindi scendere attorno al 2,5% già a fine anno, ma non
è da escludere una discesa fino al 2% se l’impatto sull’economia degli eventi
più recenti dovesse rivelarsi particolarmente negativo. Assumendo
un’inflazione in modesto calo, attorno al 2,5% nei prossimi dodici mesi, in
termini reali i tassi di mercato monetario diventerebbero addirittura
negativi, scendendo a -0,25/-0,5%, come accaduto a cavallo tra il 1992 e il
1993.
All’intervento della Federal Reserve ha fatto immediatamente seguito nello
stesso giorno quello delle banche centrali di quasi tutte le maggiori
economie, nel tentativo evidente di rassicurare i mercati anche attraverso
un coordinamento operativo che non ha precedenti nella storia più recente;
sia nel 1998, in occasione della crisi di uno tra i maggiori operatori di
mercato americani, sia nel 1987, in occasione del crollo del mercato di borsa,
l’intervento della Federal Reserve infatti fu seguito da quello delle altre
principali banche centrali solo dopo alcuni mesi. In Europa, al ribasso di
mezzo punto operato dalla Federal Reserve, ha fatto seguito – a distanza di
32
poche ore - un’analoga riduzione dei tassi ufficiali di riferimento nell’area
dell’euro (al 3,75%), in Canada (al 3,5%), in Svezia (al 3,75%) e in Svizzera,
dove la banda di oscillazione dei tassi è stata abbassata al 2,25-3,25%; nella
giornata successiva, sono intervenute al ribasso anche la banche centrali
della Danimarca, che ha ridotto di mezzo punto il suo tasso base, al 4,15%,
la Banca d’Inghilterra, che ha operato una riduzione di solo un quarto di
punto, al 4,75%, e, in misura simbolica, anche la Banca del Giappone, che ha
ridotto di un decimo di punto il tasso di riferimento, allo 0,15%. In molti casi
i tassi ufficiali – che erano già stati abbassati nella prima parte dell’anno –
sono scesi sui livelli minimi degli ultimi 30-40 anni. Nel caso in particolare
delle banche centrali delle due maggiori economie – Stati Uniti e area
dell’euro – gli interventi sono stati decisi al di fuori delle periodiche riunioni
dei rispettivi comitati monetari; ciò sottolinea la drammaticità del momento
condivisa dalle due banche centrali che si sono mantenute sin dall’inizio
della crisi in continuo contatto.
All’orientamento fortemente espansivo della politica monetaria si somma
quello altrettanto espansivo - specialmente in prospettiva - della politica di
bilancio. Prima dei fatti dell’11 settembre infatti l’Amministrazione
americana aveva avviato un programma di sgravi fiscali alle famiglie
nell’arco dei prossimi dieci anni (pari al 13% del Pil); già a luglio scorso le
famiglie americane avevano ricevuto un rimborso di imposte pari a 100
miliardi dollari. Dopo l’attacco terroristico il governo ha stanziato un primo
pacchetto di aiuti straordinari pari a 40 miliardi di dollari (0,4% del Pil), di
cui 10 miliardi già attivati, mentre i 30 restanti saranno inseriti nella legge
di bilancio per l’anno fiscale 2000 che avrà inizio il prossimo mese di ottobre.
Altri interventi più mirati a sostegno dell’economia sono in discussione e
dovrebbero essere varati in tempi assai rapidi; si discute in particolare di
ampliare le spese per la sicurezza militare (il Pentagono ha chiesto 20
miliardi di dollari per far fronte alle necessità più immediate), di aiuti alle
compagnie aeree (circa 10 miliardi), tra i settori più colpiti da quanto
accaduto, dei fondi necessari alla ricostruzione (oltre 5 miliardi di dollari),
ma è chiaro che a lievitare in misura assai significativa saranno soprattutto
le spese legate alle operazioni militari in programma. Come mostra
l’esperienza di situazioni analoghe del passato, gli effetti sulla crescita di
medio termine dell’economia americana dovrebbero essere positivi, mentre
nel breve periodo dovrebbero prevalere gli effetti negativi legati in primo
luogo al calo della fiducia dei consumatori.
33
LA REVISIONE DELLE SERIE DI CONTABILITÀ’ NAZIONALE
NEGLI STATI UNITI
Ogni anno a luglio il Bureau of Economic Analysis (Bea) degli Stati Uniti rivede le
serie storiche di contabilità nazionale, secondo una prassi comune a tutti gli istituti
nazionali di statistica. La revisione relativa al periodo 1998 – 2000, recentemente
pubblicata, ha determinato una correzione al ribasso della crescita del Pil di 1,1
punti percentuali cumulati nel triennio, di cui lo 0,9% nel solo 2000. L’anno scorso il
tasso di espansione del prodotto americano è stato quindi pari al 4,1% anziché al 5%
precedentemente reso noto. La forte correzione intervenuta nei dati del 2000 è
dipesa essenzialmente da nuove, più aggiornate informazioni resesi disponibili 1 nei
primi mesi del 2001 per la misurazione della variazione delle scorte, degli
investimenti in attrezzature e software, della spesa personale per servizi e per i
beni non durevoli.
Per quel che riguarda l’andamento dei singoli trimestri la revisione maggiore ha
riguardato il primo trimestre del 2000: anziché dell’1,2% rispetto al trimestre
precedente il Pil è cresciuto della metà, lo 0,6%. Fra marzo e maggio 2000 (l’arco
temporale in cui si sono avute le prime anticipazioni e poi le stime dei dati di
contabilità nazionale del I trimestre 2000) la Federal Reserve aveva alzato i tassi
ufficiali di un punto percentuale: alla luce dei dati rivisti ci si può domandare se la
Fed non abbia reagito eccessivamente a quelli che all’epoca sembravano chiari segni
di “surriscaldamento” dell’economia americana. In effetti la sovrastima dell’output
gap nel primo trimestre del 2000 sembrerebbe essere stata pari a circa un punto
percentuale: questo implica, interpretando l’azione della Fed con la regola di Taylor,
che lega il livello dei tassi di interesse all’output gap e all’inflazione attesa, una
risposta del tasso di interesse dello 0,5% superiore a quella necessaria (fig. 1).
Ovviamente questo non implica necessariamente che la Fed abbia commesso un
errore di valutazione, basandosi sulle informazioni allora disponibili: altri
indicatori, inclusi gli indici di fiducia e gli andamenti di borsa, segnalavano allora
concreti rischi di una crescita eccessiva dell’economia. La revisione dei dati di
contabilità nazionale ha ridimensionato il peso di altri squilibri dell’economia
emersi nel corso del 2000. In particolare, il reddito personale è stato rivisto al rialzo
dello 0,5% e quello disponibile è stato rivisto al rialzo di 41,2 miliardi di dollari. Le
spese personali - spese di consumo, interessi pagati, trasferimenti personali al resto
del mondo - sono state riviste al ribasso. Tutto ciò ha comportato una revisione
verso l’alto del tasso di risparmio: nel 2000 esso non è stato negativo, come si
riteneva fino a oggi (-0,1% nella precedente serie), ma pari all’1%.
______________________________________
1 La
revisione di queste poste è in parte dipesa anche da alcuni cambiamenti di metodologia,
tra cui il più rilevante è stato il passaggio dalla classificazione Sic (Standard Industrial
Classification) a quella Naics (North American Industry Classification System). I nuovi dati
basati su Naics sono stati utilizzati per la stima della spesa personale per il consumo di beni,
degli investimenti privati in attrezzature e della variazione delle scorte.
34
Fig. 1
OUTPUT GAP DEGLI STATI UNITI E FEDERAL FUND RATE
3
2,5
2
1,5
1
0,5
7
0
-0,5
-1
-1,5
-2
3
6
5
4
post revisione
ante revisione
federal fund rate
1
0
1995
2.3
2
1996
1997
1998
1999
2000
2001
Giappone
La congiuntura economica giapponese è andata ulteriormente
deteriorandosi nel corso degli ultimi mesi: dopo essere cresciuta nel primo
trimestre del 2001 al tasso annualizzato dello 0,5% essa potrebbe essere
entrata in una fase “tecnicamente” recessiva (due trimestri consecutivi di
crescita negativa): nel secondo trimestre il Pil del Giappone ha subìto una
caduta del 3,2% in ragione d’anno. E’ prevedibile una ulteriore flessione
dell’1% nel terzo trimestre. Il quadro macroeconomico continua ad essere
caratterizzato dal processo di deflazione, con una diminuzione sia dei prezzi
al consumo (-0,8% su base annua nel secondo trimestre dell’anno) sia di
quelli all’ingrosso. Per le prospettive di breve – medio termine l’indagine
trimestrale Tankan effettuata presso le imprese manifatturiere ha
confermato il giudizio negativo sullo stato dell’economia anche per la
seconda metà dell’anno (fig. 7).
35
Fig. 7
GIAPPONE: PRODUZIONE INDUSTRIALE E FIDUCIA DELLE IMPRESE
(Variazioni % e saldi delle risposte)
Var. %
Saldi
10
20
10
5
0
0
-10
-20
-5
-30
Produzione industriale
Fiducia delle imprese (scala destra)
-10
1993 1994 1995 1996
Fonte: Thomson Financial.
1997
1998
1999
2000
2001
-40
Segnali di indebolimento della domanda aggregata provengono sia
dall’interno (forte aumento delle scorte) sia dal settore estero (con il surplus
commerciale che a maggio 2001 era di 95 miliardi di dollari su base annua,
ovvero il 25% in meno rispetto a maggio 2000). I forti rapporti commerciali
del Giappone con gli Stati Uniti contribuiscono a spiegare la tendenza alla
riduzione del surplus commerciale, mentre i rapporti con i paesi emergenti
dell’Asia costituiscono un forte canale di propagazione e retroazione degli
impulsi negativi. Sul fronte interno, permane insoluto il problema delle
insolvenze bancarie, che stime ufficiali collocano a circa 100 miliardi di
dollari ma che potrebbero rivelarsi assai maggiori; dopo le elezioni di fine
luglio il governo sembra intenzionato ad avviare al riguardo un’azione
politica più incisiva, ricapitalizzando le banche con migliori prospettive ed
avviando processi di fusione o di liquidazione per le banche nelle condizioni
peggiori.
Il nuovo governo ha inoltre annunciato l’intenzione di risanare i conti
pubblici dopo che quasi dieci anni di crescenti disavanzi hanno portato il
debito pubblico al 130% in rapporto al Pil. La riduzione prevista delle spese
per il bilancio del 2002-2003 (oltre 3000 miliardi di yen, pari allo 0,6% del
Pil del 2000), sommati al rallentamento della congiuntura internazionale,
rischiano tuttavia secondo gli analisti di far precipitare ulteriormente la
crisi economica e finanziaria del Giappone; non a caso il governo sembra ora
36
intenzionato a ridurre l’entità dei tagli previsti alle spese di bilancio. Il
governo ha anche anticipato all’anno fiscale in corso il tetto di 30 mila
miliardi di yen per l’emissione di nuovi titoli pubblici: le maggiori spese
dovrebbero riguardare la formazione professionale e la sicurezza sociale. E’
allo studio infine un provvedimento che dovrebbe abbassare la tassazione
dei capital gains dal 26 al 10% nel tentativo evidente di dare sostegno alle
quotazioni di borsa, precipitate ai livelli minimi degli ultimi 17 anni.
Gli spazi di manovra della politica monetaria sono anch’essi limitati, dal
momento che i tassi di interesse oscillano su livelli vicini a zero da diversi
anni. A metà aprile, nel tentativo di contrastare il perdurare del processo
deflattivo, la Banca Centrale ha annunciato un’espansione dell’offerta di
moneta, con misure tecniche che allargano la platea dei titoli pubblici che la
Banca Centrale è disposta a comprare. A metà agosto l’orientamento della
politica monetaria è diventato ancora più espansivo attraverso un
cambiamento del target di breve termine: dai tassi di interesse alla quantità
di moneta, con l’obiettivo esplicito di creare inflazione. M1 è cresciuta a
luglio dell’8% su base annua, mentre la massa monetaria è cresciuta del
3,2%, il ritmo più alto dalla fine del 1999.
A seguito dell’attacco terroristico negli Stati Uniti, la Banca del Giappone
ha ridotto anche i tassi ufficiali. La riduzione, come detto in precedenza, è
stata largamente simbolica; i tassi ufficiali, praticamente pari a zero, sono
infatti stati ridotti di un decimo di punto, allo 0,15%. Ben più rilevanti sono
stati gli interventi della Banca Centrale sul mercato valutario per
contrastare l’apprezzamento dello yen nei confronti del dollaro; questi
interventi non sono stati sterilizzati e si sono quindi tradotti in
un’immissione di liquidità nel sistema. L’interpretazione fornita dagli
analisti è che la Banca del Giappone abbia in sostanza accettato l’idea di
creare inflazione aumentando l’offerta di liquidità sul mercato.
2.4
Regno Unito
Nel Regno Unito nel secondo trimestre del 2001 l’economia è cresciuta al
tasso annualizzato dell’1,2%, in netta decelerazione rispetto all’1,8% del
primo trimestre.
Durante il secondo trimestre del 2001 i dati per l’economia britannica hanno
continuato a mostrare una crescita a due velocità. Dal lato della domanda
interna le indicazioni congiunturali segnalano ritmi di crescita elevati: sia le
vendite al dettaglio (cresciute a luglio dello 0,6% rispetto a giugno) che le
importazioni (+3% nei primi sei mesi dell’anno) sono aumentate. Tra maggio
e giugno si sono accentuate le pressioni inflazionistiche. Il tasso di inflazione
depurato della componente dei mutui ipotecari (definizione rilevante per
l’obiettivo della Banca d’Inghilterra) è salito al 2,4% in entrambi i mesi,
avvicinandosi alla soglia obiettivo del 2,5%. A luglio, grazie al ribasso delle
quotazioni energetiche e dei prodotti alimentari, i prezzi al consumo hanno
subito una forte flessione (-0,7%) riportando l’inflazione al 2,2%.
37
Dal lato dell’offerta la produzione industriale, dopo essere caduta a maggio
dello 0,9% (–0,3% a marzo ed aprile), è tornata a crescere dello 0,1% a
giugno (la variazione sull’anno precedente rimane negativa e pari a –2,2%).
La fiducia delle imprese continua ad essere debole. I risultati dell’ultima
survey trimestrale della Cbi indicano che la fase di contrazione dell’attività
produttiva non è ancora terminata (fig. 8); gli ordini continuano a calare. Gli
indicatori anticipatori del ciclo risultano soprattutto condizionati dal
deterioramento delle aspettative di esportazione sia verso gli Stati Uniti che
verso i 12 paesi dell’euro. Il disavanzo commerciale del Regno Unito ha
continuato ad ampliarsi: tra gennaio e giugno esso ha raggiunto 16 miliardi
di sterline.
La contrazione della produzione industriale ha indotto la Banca centrale a
ridurre di un punto nei primi sei mesi dell’anno il tasso base, dal 6,25 al
5,25%; ad agosto, a fronte di un peggioramento della congiuntura interna, la
Banca di Inghilterra è intervenuta nuovamente portando il tasso ufficiale al
5%. Nelle attese dei mercati i tassi dovrebbero scendere di circa un quarto di
punto entro fine anno; spingono in questa direzione da un lato, il
deteriorarsi delle prospettive di ripresa, dall’altro, il rientro dell’inflazione e
delle attese di inflazione, che apre nuovi spazi di intervento alla Banca
Centrale.
Sulla scia dei ribassi operati dalle altre banche centrali anche la Banca
d’Inghilterra, come detto in precedenza, ha ridotto ulteriormente il tasso di
riferimento. Il taglio è stato di un quarto di punto, al 4,75%, quindi di
dimensioni inferiori rispetto a quelli operati da tutte le altre banche
centrali. Questo comportamento, in parte spiegato nel comunicato diffuso
subito dopo la riduzione, riflette i timori della Banca d’Inghilterra per
l’inflazione, risalita ad agosto al 2,6%, al di sopra dunque dell’obiettivo del
2,5%. L’inflazione riflette a sua volta, in parte, l’aumento dei prezzi
petroliferi intervenuto nell’ultimo anno, e in parte una crescita che, seppure
in sensibile rallentamento, rimane più sostenuta di quella delle altre
maggiori economie. Con ogni probabilità, prima di procedere a nuove
riduzioni dei tassi - il mercato sconta una riduzione di almeno un quarto di
punto entro fine anno, al 4,5% - la Banca centrale attenderà ulteriori
informazioni per valutare appieno l’impatto sulla crescita degli eventi
recenti e la prospettiva di centrare l’obiettivo di inflazione nel medio
termine.
38
Fig. 8
REGNO UNITO: ASPETTATIVE DELLE IMPRESE
SU PRODUZIONE E ESPORTAZIONI
Saldi delle risposte
40
20
0
-20
-40
Esportazioni
Produzione
-60
-80
2.5
1995
1996
1997
Fonte: Thomson Financial.
1998
1999
2000
2001
Economie emergenti
Le prospettive delle economie emergenti sembrano dipendere, in questa
fase, sia dagli sviluppi macroeconomici dei paesi industrializzati sia dalla
eventualità di un contagio finanziario connesso ad alcune situazioni di crisi.
Le maggiori tensioni politico-finanziarie si registrano in particolare in
Argentina (cfr. riquadro: La crisi argentina), in Turchia ed Indonesia; esse
hanno cause e sintomi molto diversi tra loro: in estrema sintesi, eccesso di
debito estero e perdita di competitività in Argentina, eccesso di debito estero
a breve e deficit fiscale insostenibile in Turchia, eccesso di debito estero a
breve, insolvenza bancarie e collasso del sistema politico in Indonesia.
Rispetto alla crisi finanziaria del 1997 i rischi di contagio sembrano tuttavia
più contenuti, a riflesso di un minor indebitamento verso l’estero, di bilanci
pubblici sostanzialmente in ordine e dell’adozione di un sistema di cambi
flessibili. Le previsioni di crescita per il 2001-02 sono tuttavia condizionate
dal rallentamento nelle diverse economie industriali, che avrà conseguenze
differenziate nelle principali regioni emergenti a seconda dell’intensità
relativa delle interdipendenze dei flussi commerciali.
L’Europa Centro-orientale non sembra ad oggi aver risentito troppo delle
tensioni finanziarie sui mercati emergenti, anche se lo zloty polacco si è
sensibilmente svalutato, del 6,9% da giugno ad agosto rispetto al dollaro.
39
LA CRISI ARGENTINA
I pericoli di una crisi finanziaria in Argentina, analizzati nel Rapporto dello scorso giugno,
si sono accresciuti nel corso dei mesi estivi. Il rischio paese implicito nei tassi di interesse,
misurato dall’indice Embi+, si è portato dai 990 punti base di inizio giugno agli oltre 1600
attuali, dopo aver toccato i 1700 nel mese di luglio, ponendo l’Argentina in cima alla lista
dei paesi maggiormente a rischio di default sul debito. In seguito all’intervento del Fmi,
che alla fine di agosto ha promesso un ulteriore prestito di 8 miliardi di dollari (di cui 3
legati a una ristrutturazione del debito su scadenze più lunghe), dopo il finanziamento per
complessivi 40 miliardi concesso lo scorso dicembre, le tensioni erano leggermente calate
all’inizio di settembre. Le conseguenze degli attentati negli Stati Uniti e i timori di una
riduzione dei flussi di capitale diretti ai paesi emergenti hanno determinato un nuovo
rialzo del premio al rischio.
A partire da giugno il governo ha adottato misure di emergenza per fronteggiare la
perdurante debolezza dell’economia – il paese è in recessione da tre anni – e per limitare il
ricorso al finanziamento esterno. Dal 18 giugno scorso, per le sole transazioni
commerciali, il peso non è più legato con una parità di uno a uno al solo dollaro ma a un
paniere composto in modo paritetico da dollaro ed euro; per le transazioni finanziare
rimane invece invariata la parità con il dollaro. L’adozione di un sistema di cambio duale
ha l’obiettivo di rendere più competitivi i prodotti argentini sui mercati internazionali (il
legame con il paniere ha comportato una svalutazione del peso fra il 5 e l’8% nei confronti
della divisa americana), mantenendo nel contempo invariato il valore in dollari delle
attività argentine in mano agli investitori internazionali. Il guadagno di competitività è
stato però in gran parte annullato dalla riduzione dal 12 al 4% dei rimborsi all’export e
dal 35 al 27% della tariffa massima sulle importazioni extra Mercosur, oltre che dalla
continua svalutazione del real brasiliano. La modifica del regime di convertibilità è stata
accolta con preoccupazione dai mercati finanziari che temono che essa costituisca il
preludio a un definitivo abbandono del currency board.
Le preoccupazioni sono aumentate in seguito all’annuncio del peggioramento del deficit
pubblico argentino, che nei primi sei mesi dell’anno, ha già pressoché eguagliato
l’obiettivo per il 2001 originariamente concordato con il Fmi, in conseguenza della
debolezza delle entrate e dell’aumento della spesa per interessi. Il governo ha reagito con
misure draconiane: il decreto sul “deficit zero”, approvato in luglio dal Congresso, ha
imposto alle amministrazioni centrali e locali di pareggiare immediatamente entrate e
uscite, in modo da evitare il ricorso al mercato a tassi di interesse penalizzanti. Gli
stipendi pubblici e le pensioni sono state ridotte del 13% in termini nominali: tagli
ulteriori potranno aver luogo nei prossimi mesi se non verranno ridotte altre voci di spesa.
In questo modo il governo prevede una riduzione della spesa primaria di oltre 3 miliardi
di dollari nel prosieguo dell’anno e di oltre 6 il prossimo. In agosto è stato in effetti
raggiunto il pareggio nel bilancio del settore pubblico. Naturalmente si tratta di misure
altamente impopolari e di difficile realizzazione, soprattutto in vista delle prossime
elezioni parlamentari di ottobre. Il decreto del “deficit zero”, insieme al recente intervento
di sostegno del Fondo monetario, dovrebbe consentire al governo argentino di non
ricorrere all’emissione di nuovi titoli, per un ammontare originariamente previsto in circa
4 miliardi di dollari, di qui alla fine dell’anno.
La scommessa delle autorità è di riuscire a ripristinare la fiducia degli investitori
internazionali e interni, abbassando il premio al rischio sui tassi di interesse ed arginando
la fuga di capitali (da giugno ad agosto si è registrato un calo di oltre il 10% dei
depositi bancari): solo a questa condizione è possibile evitare la combinazione default sui
titoli pubblici e svalutazione del peso, che avrebbe ulteriori pesanti conseguenze sul
reddito delle famiglie e i profitti delle imprese.
40
Le stime per la crescita del Pil nel 2001 erano fino ad oggi condizionate
favorevolmente dalle prospettive macroeconomiche dell’Unione europea, e
l’area del Centro Europa sembrava ben posizionata per consolidare i buoni
risultati del 2000. Tuttavia, il deterioramento del ciclo nell’area dell’euro
inducono a rivedere al ribasso le previsioni. Se si considera che Ungheria,
Repubblica Ceca e Polonia esportano verso la Ue rispettivamente il 37, il 27
ed il 15% del loro prodotto interno, si comprende come il rallentamento
dell’area dell’euro condizioni queste economie. L’inflazione è scesa al 5,2%
in Polonia, mentre si mantiene attorno al 9% in Ungheria (5,5% nella
Repubblica Ceca). In Russia il Pil è cresciuto del 5,4% nel primo semestre
del 2001 (7,7% in media nel 2000). Nei mesi estivi l’attività produttiva ha
subito un forte calo (la variazione congiunturale della produzione
industriale è stata pari al -3,2% a giugno e a +0,8% a luglio) a riflesso di una
domanda sia interna che estera più debole. Su questo risultato influiscono le
misure di austerità fiscale che hanno accompagnano la recente riforma del
sistema di tassazione, gli effetti ritardati sulla bilancia commerciale
dell’apprezzamento nominale e reale del rublo (6% da inizio anno) e della
riduzione dei prezzi dei prodotti energetici di cui la Russia è esportatore
netto.
Numerose economie emergenti dell’Asia hanno mostrato di recente segnali
di peggioramento delle prospettive congiunturali. Le valute dell’Asia
orientale si sono deprezzate dall’inizio dell’anno di circa il 25-30% rispetto al
dollaro, e del 15% rispetto all’euro. La contrazione dei mercati azionari è
stata particolarmente forte ad Hong Kong e in Tailandia (-25%) a Singapore
e nelle Filippine (-15%). In India l’indice di borsa è sceso da inizio 2001 del
17%. La crisi delle economie del Sud Est asiatico continua ad essere
influenzata dal protrarsi della flessione della domanda (fig. 9) e dell’attività
produttiva di Stati Uniti e Giappone: questi due paesi rappresentano quasi
il 40% del commercio totale delle economie Nics e Asean (le sole Filippine
scambiano il 53% dei propri beni con Stati Uniti e Giappone). Tra i Nics il
Pil di Singapore si è contratto nel primo semestre dell’anno del 2,8% rispetto
al secondo semestre del 2000, entrando così in una fase di recessione molto
più forte di quella sperimentata nel 1998. Il Pil di Taiwan è caduto del 2,1%
nella prima metà del 2001 rispetto al secondo semestre del 2000, mentre
quello della Corea del sud è cresciuto del 2,3% nello stesso periodo. Alla luce
di queste statistiche le nostre previsioni per il 2001 sono state riviste al
ribasso di oltre un punto percentuale per i Nics: il tasso di espansione di
questi paesi non supererà quest’anno il 2% (3,5% la previsione di giugno)
valore che corrisponde ad un quarto del tasso di crescita raggiunto nel 2000
(tab. 3).
41
Tab. 3 : Crescita del Pil nelle economie emergenti
(variazioni % tendenziali)
________________________________________________________________________
2000
1° trim. 2001
2° trim. 2001
________________________________________________________________________
Cina
7,9
8,1
7,8
Hong Kong
10,5
2,5
0,5
India
6,1
3,8
3,8
Indonesia
5,2
4,0
3,5
Malaysia
8,3
3,2
0,5
Filippine
4,0
2,5
3,3
Singapore
9,9
4,7
-0,9
Corea del Sud
8,8
3,7
2,7
Taiwan
6,0
1,1
-2,4
Tailandia
4,4
1,8
Argentina
Brasile
Messico
-0,6
4,4
6,9
-2,1
3,8
1,9
-0,5
0,8
0,0
Turchia
7,1
-1,8
-9,3
Repubblica Ceca
3,0
3,7
Ungheria
3,9
4,4
4,0
Polonia
4,0
2,3
Russia
8,3
4,9
_______________________________________________________________________
Fonte: Oef.
Prosegue invece, secondo le statistiche ufficiali, il ritmo della crescita cinese
(7,8% nel secondo trimestre del 2001) in assenza di inflazione, ma dati
ufficiosi sull’accumulazione di non-performing loans nel sistema bancario
(stimati a 400 miliardi di dollari, il 40% del Pil) lasciano intravedere un
panorama meno ottimistico.
L’attenzione degli analisti dell’America latina è focalizzata sul caso
Argentina (cfr. riquadro: La crisi argentina), ma la debolezza della
congiuntura Usa ha anche notevolmente compromesso le prospettive di
crescita nel 2001 del Messico e del Brasile. Il Messico è in recessione: a
partire dal quarto trimestre del 2000 il Pil ha subito tre variazioni negative
consecutive; nei primi sei mesi del 2001 la caduta del Pil è stata pari all’1%
rispetto al secondo semestre 2000. In Brasile, oltre al rallentamento globale,
incide negativamente sulla crescita il problema delle carenze nel potenziale
di forniture elettriche e l’orientamento restrittivo della politica monetaria
(da inizio anno il tasso overnight è aumentato di circa 5 punti, al 20%), volta
a contrastare la svalutazione del real (36,9% da inizio anno). Permane, in
America latina più che altrove, un rischio di contagio finanziario
dall’Argentina: il premio di rischio sui titoli del debito pubblico nelle due
principali economie si è mosso finora in modo differente in Brasile (dove ha
raggiunto i 12 punti rispetto agli equivalenti titoli Usa) ed in Messico (dove
è rimasto attorno a 5 punti). Questo indica che gli investitori stanno tuttora
42
adottando strategie differenziate per paese, e al tempo stesso che i
fondamentali dei due paesi sono chiaramente diversi (il debito estero
brasiliano è pari a tre volte il suo export, mentre quello messicano è pari al
93% delle esportazioni).
Fig. 9
STATI UNITI: IMPORTAZIONI DAI NICS
(Variazioni %)
30
20
Hong Kong
Taiwan
Singapore
10
0
-10
-20
1997
1998
Fonte: Thomson Financial.
1999
2000
2001
43
LE DISPUTE COMMERCIALI USA-UE E LE PROSPETTIVE DI RIPRESA
DEL MILLENIUM ROUND
Le tensioni commerciali tra Europa e Stati Uniti si erano intensificate a pochi mesi
dall’appuntamento della Conferenza ministeriale del Wto in novembre a Doha (Qatar),
che dovrebbe rilanciare il Millenium Round arenatosi a Seattle nel 1999. Le dichiarazioni
del rappresentante Usa per le trattative commerciali, Robert Zoellick, appena insediato,
erano state improntate al rilancio del nuovo Round di negoziati, anche erano emerse
alcune differenze di prospettiva con l’Unione europea. In particolare, gli Stati Uniti
vogliono condizionare l’avvio ufficiale del negoziato all’adozione da parte dei paesi in via
di sviluppo di alcune misure di liberalizzazione nell’ambito degli investimenti diretti (le
cosiddette Trim’s) già decise nell’Uruguay Round, mentre la posizione dell’Unione europea
è quella di rinegoziare tali misure nell’ambito del nuovo Round. Tuttavia, sia Zoellick sia
il Commissario europeo Lamy avevano annunciato la volontà comune di cooperare per la
riuscita della Conferenza di Doha.
La recente sentenza del Wto, che boccia nuovamente il regime fiscale statunitense che
concede riduzioni d’imposta agli esportatori, dopo la analoga decisione negativa del panel
Wto del gennaio 2000, rischia invece di innescare un conflitto tra Usa e Ue sulle
legislazioni di sostegno fiscale all’export. Nel 1998 l’Unione europea aveva sottoposto al
giudizio del Wto la questione delle cosiddette Fsc (Foreign Sales Corporations), ovvero di
società americane costituite all’estero (soprattutto nelle Isole Vergini ed alle Barbados)
dagli esportatori Usa per usufruire di riduzioni d’imposta comprese tra il 15 ed il 30% del
reddito netto. Le riduzioni fiscali per gli esportatori attraverso il meccanismo delle Fsc
furono introdotte nella legislazione fiscale americana con il Tax Reform Act del 1984; da
allora oltre 7.000 imprese esportatrici hanno costituito una Fsc, per un risparmio fiscale
complessivo di circa 2,5 miliardi di dollari (tra i principali beneficiari, Microsoft, Ford, ed
Exxon). La prima sentenza di condanna del Wto (gennaio 2000) si fondava su
un’interpretazione del regime fiscale statunitense come di un sussidio occulto agli
esportatori americani. A seguito di quella sentenza, il Congresso americano aveva
trasformato la legislazione decretando che dal 30 settembre 2000 non si potessero più
costituire nuove Fsc; tuttavia, aveva esteso la possibilità per le imprese di escludere dalla
base imponibile una parte (il 15% appunto) dei loro profitti da esportazioni senza bisogno
di ricorrere alle Fsc: in sostanza, pur decretando la fine delle Fsc, il sussidio fiscale
all’export veniva ribadito. La nuova sentenza del Wto rigetta anche la modifica
legislativa; a questo punto, l’Unione europea avrebbe titolo per imporre dazi punitivi
contro gli Usa per 4 miliardi dollari (ovvero, dieci volte i dazi richiesti nelle dispute sulla
carne agli ormoni o sulle banane). Le reazioni americane sono state molto negative, e
mentre da un lato l’Amministrazione intende verificare la possibilità di modificare
nuovamente la legislazione per adeguarla alle richieste del Wto, alcuni esponenti del
Congresso sembrano intenzionati a mettere sotto inchiesta le normative fiscali europee.
Il contrasto sulle Fsc ha acuito le tensioni commerciali già esistenti fra Usa e Ue, con
riguardo ai sussidi all’agricoltura e gli organismi modificati geneticamente, su cui le
posizioni rimangono distanti. Si è invece risolta la questione dell’importazione delle
banane dai paesi caraibici da parte della Ue.
In questo contesto, la decisione del Presidente Bush di aprire un’inchiesta federale sulle
importazioni di acciaio negli Stati Uniti, secondo quanto previsto dalla “Sezione 201” del
Trade Act del 1974, rischia di innalzare ulteriormente la tensione commerciale Usa-Ue.
Il capitolo dell’acciaio è infatti tra i più spinosi del contenzioso commerciale, e
la mossa statunitense rischia di innescare una reazione a catena nell’Unione europea e
nei principali paesi produttori dell’Asia Orientale (Giappone, Corea e Taiwan).
44
Inoltre, essa potrebbe complicare il clima già difficile dei negoziati conclusivi per
l’allargamento ad Est della Ue, dal momento che il comparto siderurgico europeo è tra
quelli che si ritengono più minacciati dall’ingresso dei produttori dell’Europa CentroOrientale, che beneficiano di consistenti aiuti di stato e la cui capacità produttiva si
aggiungerà ad uno stock di impianti in eccesso rispetto alle esigenze della domanda
mondiale. L’iniziativa di Bush di avviare un’inchiesta ex-articolo 201 del Trade Act non
giunge del tutto inattesa. Si pensi che circa un terzo di tutte le misure anti-dumping
richieste negli Usa tra il 1980 ed il 1995 sono da attribuire al settore siderurgico: ad oggi,
ben 159 azioni promosse dall’industria siderurgica sono risultate in misure anti-dumping
o in “countervailing duties”. L’industria statunitense ha da tempo avanzato nuove
richieste di protezione, anche a fronte di un’altra sentenza controversa del Wto (il caso
“Uk Bar”) che ha sostanzialmente decretato che i sussidi ottenuti dalle imprese
produttrici non sono più sanzionabili una volta che le imprese siano state privatizzate, con
la conseguenza che le imprese pubbliche cinesi o dell’Europa Orientale che sono state
sovvenzionate non possono più essere soggette a procedure di infrazione in ambito Wto
una volta che siano state privatizzate. A fronte delle richieste degli industriali siderurgici
Usa, un gruppo bipartisan del Congresso ha elaborato quest’anno lo Steel Revitalization
Act che, se approvato, condurrebbe al risultato di limitare le importazioni Usa di acciaio
grezzo nei prossimi cinque anni al livello medio mensile del periodo luglio 1994-giugno
1997, ovvero il livello precedente l’aumento di importazioni connesso con la crisi asiatica
del 1997-98. Si tratta, com’è ovvio, di un provvedimento in palese violazione del Trattato
Wto, come rimarcato dalla stessa Amministrazione Bush.
L’avvio di un’inchiesta ex-articolo 201 da parte dell’Amministrazione Bush si può quindi
interpretare come un tentativo di sottrarre al Congresso l’iniziativa in questo campo, ed al
tempo stesso di ottenere il sostegno della lobby dell’acciaio per sostenere la richiesta di
Bush di ricevere la cosiddetta “trade promotion authority” (un tempo denominata “fast
track authority”) che consente al Presidente di negoziare in ambito Wto senza chiedere
l’approvazione successiva del Parlamento sui singoli aspetti del negoziato, ma solo
sull’eventuale Trattato finale nel suo complesso. La procedura ex-articolo 201 richiede che
una commissione federale (la Us International Trade Commission) valuti se le
importazioni di acciaio “danneggino o minaccino di danneggiare” l’industria statunitense,
nel qual caso l’Amministrazione ha il potere di intervenire. Sotto alcune condizioni, le
clausole di salvaguardia negoziate con l’Uruguay Round consentono di imporre alcune
barriere (ad esempio, quote all’import) che devono col tempo essere smantellate; tali
clausole impongono tuttavia anche di pagare un indennizzo ai paesi esportatori per i
primi tre anni di validità delle misure protezionistiche.
Alcune stime conducono tuttavia a ritenere che i costi diretti per il bilancio Usa di tali
misure sarebbero molto elevati (circa 3,5 miliardi di dollari all’anno), Inoltre un
intervento in tale direzione peggiorerebbe notevolmente lo stato dei negoziati Wto in vista
di Doha. In quella sede, infatti, occorrerà mettere mano anche al complesso dossier
dell’ingresso simultaneo della Cina e di Taiwan nel Wto. Nel caso dell’acciaio, ma non
solo, si assiste inoltre alla tendenza da parte del Congresso Usa e della Commissione
Europea di inserire nelle trattative Wto alcuni temi collaterali quali il rispetto
dell’ambiente e gli standard salariali minimi, che possono sovraccaricare il negoziato e
renderlo di difficile soluzione, creando tensioni con i paesi in via di sviluppo. Una
iniziativa di Bush per risolvere la questione siderurgica statunitense senza imporre
barriere commerciali, e al contempo per promuovere regole condivise ed eque sul
commercio internazionale (ad esempio, superando i principi della sentenza “Uk Bar”),
potrebbe invece favorire un clima costruttivo a Doha.
45
2.6
Tassi di interesse, cambi e borse
Sui mercati valutari i primi sei mesi dell’anno sono stati contraddistinti
dalla perdurante forza del dollaro nei confronti dell’euro e, in misura
inferiore, dello yen. La moneta europea si è indebolita rispetto alle altre
principali valute; tra fine maggio e inizio giugno, con il diffondersi di dati
negativi sull’andamento della produzione industriale nell’area dell’euro, in
particolare in Germania, l’euro è scivolato vicino ai minimi rispetto al
dollaro, attorno agli 85 centesimi di dollaro e a quota 103,6 sullo yen, in calo
rispettivamente del 9,4 e del 3,2% da inizio anno e del 5,6 e del 7% nei dodici
mesi.
Ancora nella prima metà di quest’anno la moneta americana ha continuato
a trarre forza dalla convinzione dei mercati che nel medio periodo l’economia
degli Stati Uniti, sospinta da una maggiore crescita della produttività grazie
ai cospicui investimenti attuati nel decennio precedente, avrebbe continuato
ad espandersi a ritmi più sostenuti rispetto agli altri principali paesi. Il
fatto che il dollaro sia rimasto forte nonostante la comparsa già a inizio
anno di segnali di un brusco ridimensionamento dell’attività produttiva
americana indica che a giudizio dei mercati si trattava solo di una
temporanea interruzione. E’ prevalsa in sostanza la tesi secondo cui il
rallentamento dell’economia sarebbe stato di breve periodo; questo spiega
come mai, malgrado il notevole restringimento (e in seguito inversione) dei
differenziali sui tassi di interesse a breve termine tra l’euro e il dollaro (fig.
10), la moneta americana abbia continuato ad apprezzarsi. Proprio perché,
assumendo che l’inflazione sia sotto controllo, la riduzione dei tassi ufficiali
(e quindi il restringimento del differenziale con l’area dell’euro) segnalava
un miglioramento delle prospettive di crescita.
Nel terzo trimestre dell’anno una nuova batteria di indicatori è
sopraggiunta a segnalare che il recupero dell’attività produttiva sarebbe
stato meno rapido e soprattutto assai più graduale rispetto a quanto
inizialmente ipotizzato; il dollaro ha iniziato a deprezzarsi, oscillando
attorno ai 90 centesimi di dollaro per euro, pur con notevole volatilità legata
al fluire dei dati sull’economia americana.
Il cambio dello yen, che nel corso dei primi dieci mesi del 2000 aveva
oscillato attorno a quota 105 rispetto al dollaro, a partire da ottobre si è
progressivamente deprezzato, stabilizzandosi attorno ai 120 yen per dollaro
nei primi otto mesi di quest’anno (-14% rispetto a ottobre 2000). Il
deprezzamento è stato favorito dalla Banca Centrale giapponese per
sostenere le esportazioni. Nello stesso periodo lo yen si è deprezzato in
misura ben superiore nei confronti dell’euro. La moneta giapponese è
scivolata dai 92 yen per euro di fine ottobre ai 111 yen di inizio 2001 (-20%),
46
Fig. 10
CAMBIO EURO-DOLLARO E DIFFERENZIALE SUI TASSI
1.3
2.0
1.0
1.2
0.0
1.1
-1.0
1.0
-2.0
0.9
-3.0
Dollaro-euro
Differenziale tassi a breve (scala destra)
0.8
1997
1998
Fonte: Thomson Financial.
1999
2000
2001
-4.0
per rimbalzare a quota 103 yen per euro nei mesi successivi (-12% da
ottobre).
L’attacco terroristico dell’11 settembre ha rafforzato la tendenza al
deprezzamento (contenuto) della moneta americana; nel giudizio dei mercati
infatti l’effetto immediato dell’attacco è di azzerare le prospettive di crescita
dell’economia americana nel breve periodo. Nei dieci giorni successivi
all’attacco, il dollaro si è di conseguenza deprezzato nei confronti dell’euro,
scendendo oltre i 92,5 centesimi, non lontano dai livelli di inizio anno, e in
calo del 10% dai livelli di metà anno. Il dollaro si è indebolito anche nei
confronti dello yen; la moneta giapponese è risalita a quota 117 yen per
dollaro, in aumento di oltre il 7% rispetto ai livelli di metà anno.
Sin qui, il calo del dollaro intervenuto nei giorni successivi ai fatti dell’11
settembre è risultato abbastanza modesto, sicuramente inferiore rispetto ai
forti timori di una fuga degli operatori dalla moneta americana che avrebbe
avuto, sommandosi allo shock dell’attacco terroristico, conseguenze
potenzialmente dirompenti sui mercati finanziari. La possibilità di un
consistente deprezzamento del dollaro è da almeno un paio di anni un
rischio concreto che grava non solo sui mercati finanziari ma in generale
sulle prospettive di crescita dell’economia mondiale: esso è legato alla
questione della sostenibilità di un cambio troppo sopravvalutato se si fa, in
particolare, riferimento al disavanzo corrente degli Stati Uniti (che negli
47
ultimi cinque anni è aumentato, in rapporto al Pil, dall’1,1 al 4,5%). Di
fronte a uno shock come quello dello scorso 11 settembre, che ha – almeno
nel breve termine - l’effetto di indebolire i flussi di capitale cross border che
hanno sostenuto nel recente passato la moneta americana, diventa assai
probabile un aumento del grado di avversione al rischio degli operatori;
questo si traduce in una tendenza al ritorno dei capitali nei paesi di origine
e in una maggiore attenzione ai fondamentali dell’economia, a partire dagli
squilibri commerciali. Questo probabilmente contribuisce a spiegare i
movimenti intervenuti sui mercati valutari negli ultimi giorni (in
particolare l’apprezzamento del franco svizzero su tutte le principali valute,
a riflesso di un avanzo delle partite correnti del 12% in rapporto al Pil che
ne accentua il ruolo di moneta rifugio); spiega poco invece il contenuto
deprezzamento del dollaro nei confronti dello yen e dell'euro, che hanno alle
spalle paesi con partite correnti in considerevole avanzo o in pareggio.
Diversi fattori possono contribuire a spiegare il contenuto deprezzamento
della moneta americana successivo all’attacco terroristico. In primo luogo il
fatto che nel breve termine le prospettive di crescita delle altre due
principali economie sono anch’esse alquanto modeste, anche se –
limitatamente all’area dell’euro - superiori a quelle degli Stati Uniti; in
secondo luogo il fatto che la pronta e diffusa riduzione dei tassi di interesse
operata dalle banche centrali, insieme alla massiccia immissione di liquidità
sui mercati, ha avuto l’effetto sperato di contrastare il diffondersi
dell’avversione al rischio nei confronti della moneta americana, mostrando
la comune determinazione delle banche centrali a sostegno del dollaro. In
terzo luogo il fatto, collegato a quello precedente, che nei giorni
immediatamente successivi all’attacco terroristico le principali banche
centrali hanno esercitato una costante opera di “moral suasion” sugli
operatori proprio al fine di prevenire un brusco deprezzamento della moneta
americana. Anche i ripetuti interventi sui mercati valutari della Banca del
Giappone, volti a contrastare l’apprezzamento dello yen nei confronti del
dollaro, hanno probabilmente giocato un loro ruolo, se non altro nel senso di
limitare la volatilità delle quotazioni.
Sui mercati di borsa, prima dell’attacco terroristico dell’11 settembre, gli
indici delle principali piazze finanziarie, salvo temporanei inversioni di
tendenza, erano risultati in costante calo; rispetto ai livelli di inizio anno, la
flessione era di circa il 25% nell’area dell’euro e in Giappone, del 18% nel
Regno Unito e negli Stati Uniti. In entrambe le aree la flessione delle
quotazioni di borsa rifletteva il perdurare della fase di stagnazione del ciclo
economico e la prospettiva di utili modesti o in calo.
48
Fig. 11
INDICI DI BORSA: TITOLI TECNOLOGICI
(Indici: 1 gennaio 1997=100)
700.0
600.0
500.0
Stati Uniti
Area dell'euro
Giappone
400.0
300.0
200.0
100.0
0.0
1997
1998
Fonte: Thomson Financial.
1999
2000
2001
In tutti i paesi – in particolare nell’area dell’euro - la flessione ha riguardato
principalmente i titoli tecnologici (fig. 11); escludendo i titoli di questo
settore tutti gli indici evidenziano una performance ancora negativa ma più
contenuta; la performance negativa si riduce ulteriormente sino ad
annullarsi negli Stati Uniti se il confronto viene effettuato a partire dal
gennaio dell’anno 2000 (fig. 12). In Giappone, dove la flessione dell’indice
complessivo di borsa era risultata da inizio anno particolarmente
significativa, le quotazioni sono influenzate negativamente anche dalla crisi
del sistema bancario e dalla prosecuzione del processo deflativo.
Malgrado il crollo delle quotazioni intervenuto dal picco storico dello scorso
anno, negli Stati Uniti l’indice Standard&Poor restava ben al di sopra dei
livelli di metà anni novanta (tra la metà del 1995 e la metà del 1999 l’indice
di borsa è cresciuto in media d’anno del 30%); il rapporto prezzo utili inoltre,
seppure sceso in misura significativa nel corso dell’ultimo anno, rimaneva
su livelli storicamente elevati.
L’attacco terroristico dell’11 settembre ha inevitabilmente prodotto una
nuova ondata di vendite che ha guidato al ribasso gli indici di tutte le borse
mondiali; a determinare il calo delle quotazioni è stato il panico che ha fatto
seguito allo shock dell’attacco e il timore di una contrazione della crescita a
livello mondiale. La rete di protezione predisposta dalle Autorità monetarie
dei principali paesi, la chiusura straordinaria per quattro giorni della borsa
di New York e il via libero concesso a numerose società di procedere al
49
riacquisto di azioni proprie, hanno evitato un tracollo iniziale delle
quotazioni di borsa, che avrebbe potuto determinare un avvitamento della
crisi a livello mondiale. Nella giornata di riapertura della borsa, l’indice
Standard&Poor ha perso immediatamente oltre il 5% (il 7% il Dow Jones e
il 6,8 % il Nasdaq); la flessione delle quotazioni è proseguita senza
interruzioni nei giorni successivi, accentuandosi dopo l’annuncio da parte
degli Stati Uniti di un imminente avvio delle operazioni militari.
Complessivamente nei 9 giorni successivi all’attacco la borsa americana ha
perso quasi il 10% (indice Standard&Poor). Le flessioni più pronunciate non
si sono tuttavia registrate negli Stati Uniti ma in diversi paesi asiatici (tra il
12 e il 15%) e nei principali paesi europei (attorno al 13%), in Italia (-16%) in
particolare.
In tutti i paesi le vendite sono state molto selettive; i titoli più penalizzati
sono stati quelli delle compagnie aeree, che hanno accusato consistenti
ribassi in tutte le piazze finanziarie, fino a superare il 30% a Wall Street nei
primi tre giorni di contrattazione successivi all’attacco terroristico.
Fig. 12
INDICI DI BORSA (ESCLUSI I TITOLI TECNOLOGICI)
(Indici: 1 gennaio 2000=100)
120.0
110.0
100.0
90.0
80.0
70.0
Stati Uniti
Area dell'euro
Giappone
60.0
G F M A M G L A S O N D G F M A M G L A S
2000
2001
Fonte: Thomson Financial.
50
3.
L’economia dell’area dell’euro e dell’Italia
3.1
L’attività produttiva
La crescita nell’area dell’euro. Nei mesi centrali del 2001 la crescita
nell’area dell’euro ha risentito, in misura superiore alle attese, del
rallentamento della domanda mondiale e dell’incertezza sulle prospettive di
ripresa. L’incertezza è destinata ad accentuarsi nella parte finale dell’anno a
seguito degli attentati terroristici che hanno colpito gli Stati Uniti l’11
settembre. Nel secondo trimestre, secondo i dati di Eurostat, il Pil dell’area
dell’euro è aumentato dello 0,1%, in forte decelerazione rispetto allo 0,5%
registrato nei primi tre mesi dell’anno (tab. 4). Sulla base dei dati di
Eurostat per il complesso del primo semestre, emerge che l’andamento
ancora favorevole dei consumi delle famiglie (+1,1%) è stato controbilanciato
dall’indebolimento degli investimenti (-0,4%) e da un accentuato processo di
decumulo delle scorte (-0,4% il contributo alla crescita del Pil nel primo
semestre). Il marcato rallentamento dell’economia mondiale e la
conseguente situazione di incertezza sulle prospettive della domanda estera
hanno quindi indotto le imprese europee a rivedere i piani di investimento e
a ridurre i propri magazzini, pur in presenza di un andamento dei consumi
ancora soddisfacente nella prima parte dell’anno.
Tab. 4 - Crescita del Pil e delle sue componenti nell’area dell’euro
Variabili
Pil a prezzi costanti
Consumi delle famiglie
Consumi collettivi
Investimenti fissi lordi
Esportazioni
Importazioni
Contributi alla crescita
Consumi delle famiglie
Consumi collettivi
Investimenti fissi lordi
Variazione delle scorte
Esportazioni nette
1999 2000
2,6
3,2
2,1
5,5
5,1
7,0
3,4
2,6
1,9
4,4
11,9
10,7
1,8
0,4
1,2
-0,2
-0,5
1,5
0,4
1,0
0,0
0,6
I
1,0
1,2
0,8
1,9
1,1
2,2
1999
II III
0,5 1,1
0,1 1,0
0,2 0,6
1,5 1,7
2,8 2,9
2,0 2,5
0,7 0,0 0,6
0,2 0,0 0,1
0,4 0,3 0,4
0,0 -0,2 -0,1
-0,3 0,3 0,2
IV
1,0
0,8
0,7
0,7
3,1
3,0
I
1,0
0,7
0,5
1,5
2,9
2,4
2000
II III
0,8 0,5
0,8 0,2
0,4 0,2
0,9 1,0
2,4 3,1
2,8 2,4
0,5 0,4 0,4
0,1 0,1 0,1
0,1 0,3 0,2
0,1 -0,1 0,2
0,1 0,2 -0,1
0,1
0,0
0,2
-0,1
0,3
IV
0,6
0,1
0,6
-0,1
2,6
2,3
0,1
0,1
0,0
0,3
0,1
2001
I II
0,5 0,1
0,8 0,6
0,6 0,1
0,1 -0,8
0,3 -1,2
-1,1 -0,6
0,4
0,1
0,0
-0,6
0,5
0,3
0,0
-0,2
0,1
-0,3
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.
Nel complesso dell’area dell’euro, l’andamento dei consumi delle famiglie nei
mesi primaverili è stato favorevole (+0,6% nel secondo trimestre, in lieve
rallentamento rispetto al +0,8% dei primi tre mesi dell’anno). Le vendite al
dettaglio sono aumentate in termini reali dello 0,2% rispetto ai tre mesi
precedenti e le immatricolazioni di nuove autovetture sono aumentate
dell’1,2% rispetto ad un anno prima (nel primo trimestre erano diminuite
del 5,6%). Il buon andamento delle immatricolazioni è proseguito nei mesi di
luglio e agosto (rispettivamente +3,8% e +1,8% rispetto allo stesso mese del
2000): complessivamente nei primi otto mesi dell’anno le vendite di
autoveicoli nell’area dell’euro hanno superato i buoni risultati ottenuti nel
51
2000 (+1,5%), soprattutto in Francia (+6,1%) e Spagna (+2,7%). Per quanto
riguarda gli investimenti, i dati di Eurostat evidenziano invece un
rallentamento della spesa, per effetto dell’incertezza che caratterizza il
quadro congiunturale internazionale e l’esistenza in alcuni paesi di eccessi
di capacità produttiva.
La crescita in Germania. Tra i paesi di cui si dispone dei dati del secondo
trimestre, il rallentamento è stato particolarmente accentuato in Germania,
Belgio e Italia. Per quanto concerne la Germania, in occasione del rilascio
dei dati relativi al secondo trimestre l’Ufficio statistico federale ha
sensibilmente rivisto le stime relative all’andamento della domanda interna
nei trimestri precedenti: nel primo trimestre è stato confermato l’aumento
del Pil dello 0,4%, ma la crescita non è più interamente attribuibile al forte
calo delle importazioni (-4%, tab. 5). I nuovi dati evidenziano in particolare
che, contrariamente a quanto precedentemente stimato, i consumi delle
famiglie sono cresciuti a un ritmo sostenuto (+1 rispetto al +0,1%
precedente). L’economia tedesca ha perciò sperimentato a cavallo tra il 2000
e il 2001 un “classico” ciclo delle scorte: alla fine dello scorso anno, il
ristagno di consumi e investimenti (-0,4 e -1% rispettivamente) e la
contemporanea forte crescita dell’import (+5,1%) hanno condotto ad un
accumulo indesiderato nei magazzini (+0,9% il contributo alla crescita). Di
conseguenza nel primo trimestre di quest’anno si è avuta una forte
contrazione delle scorte (-1,4% il contributo alla crescita del Pil).
Tab. 5 - Crescita del Pil e delle sue componenti in Germania
Variabili
Pil a prezzi costanti
Consumi delle famiglie
Consumi collettivi
Investimenti fissi lordi
Esportazioni
Importazioni
Contributi alla crescita
Consumi delle famiglie
Consumi collettivi
Investimenti fissi lordi
Variazione delle scorte
Esportazioni nette
1999 2000
1,7
3,0
1,6
3,7
5,2
8,1
3,2
1,6
1,2
2,9
13,9
10,6
I
1,1
2,1
0,8
2,8
1,3
3,2
1,7
0,3
0,8
-0,4
-0,7
0,9
0,2
0,6
0,3
1,1
1,2
0,2
0,6
-0,3
-0,5
1999
II III
-0,2 1,2
-1,0 0,9
-0,6 0,9
0,8 2,0
3,9 3,0
2,9 2,2
-0,6
-0,1
0,2
0,0
0,3
0,5
0,2
0,4
-0,2
0,3
IV
0,8
0,7
0,6
-0,1
2,7
2,1
0,4
0,1
0,0
0,2
0,2
I
1,0
0,3
0,5
1,3
4,4
1,8
2000
II III
1,2 0,1
1,1 -0,3
-0,1 -0,4
0,3 1,0
2,4 3,4
3,2 2,8
0,2 0,6
0,1 0,0
0,3 0,1
-0,4 0,7
0,8 -0,2
-0,2
-0,1
0,2
-0,1
0,2
IV
0,2
-0,4
0,9
-1,0
3,4
5,1
2001
I II
0,4 0,0
1,0 0,9
1,1 -0,3
-1,1 -1,3
-0,2 0,7
-4,0 1,1
-0,3 0,6 0,5
0,2 0,2 -0,1
-0,2 -0,3 -0,3
0,9 -1,4 -0,1
-0,5 1,2 -0,1
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.
Nel secondo trimestre, il Pil tedesco è risultato stazionario; i consumi hanno
continuato a crescere ad un ritmo sostenuto (+0,9%), ma sono caduti gli
investimenti (-1,3%), mentre le scorte hanno fornito un contributo
leggermente negativo alla crescita (-0,1%). La diminuzione degli
investimenti ha riguardato anche la spesa in macchinari e attrezzature
(-2,7%, rispetto al +0,4% del primo trimestre) oltre che quella per le
costruzioni (-0,7%), già diminuita del 2,4% dei primi tre mesi dell’anno. La
domanda estera netta ha fornito un contributo moderatamente negativo alla
52
crescita (-0,1%): la dinamica dell’import (+1,1%) ha sopravanzato quella
delle quantità esportate (+0,7%).
La crescita in Francia. Il rallentamento dell’economia ha riguardato
anche la Francia, anche se in misura più modesta rispetto alla media
dell’area (+0,3%, rispetto al +0,4% del primo trimestre). Gli investimenti
fissi lordi sono rimasti stazionari (+0,6% dei primi tre mesi dell’anno),
mentre i consumi delle famiglie hanno fortemente decelerato (+0,3% dopo
che nel primo trimestre erano cresciuti dell’1,2%); la domanda estera netta
ha fornito un contributo negativo alla crescita (-0,2%, contro il +0,4% del
primo trimestre), dato che la caduta delle esportazioni (-1,9%) è risultata
maggiore di quella delle quantità importate (-1,3%). Il miglior andamento
rispetto alla media dell’area è dovuto alla sostanziale tenuta degli
investimenti che hanno rallentato in misura inferiore rispetto agli altri
paesi (tab. 4 e 6 ).
Tab. 6 - Crescita del Pil e delle sue componenti in Francia
Variabili
Pil a prezzi costanti
Consumi delle famiglie
Consumi collettivi
Investimenti fissi lordi
Esportazioni
Importazioni
Contributi alla crescita
Consumi delle famiglie
Consumi collettivi
Investimenti fissi lordi
Variazione delle scorte
Esportazioni nette
1999 2000
3,0
3,2
2,0
6,2
3,9
4,2
3,4
2,7
2,3
6,2
13,4
15,2
1,7
0,5
1,2
-0,4
0,0
1,5
0,5
1,2
0,3
-0,1
I
0,9
0,4
1,0
2,2
1,1
0,1
1999
II III
0,8 0,9
0,9 1,2
0,4 0,4
1,7 0,7
2,4 3,6
2,0 2,0
0,2 0,5 0,6
0,2 0,1 0,1
0,4 0,3 0,1
-0,3 -0,3 -0,4
0,3 0,1 0,5
IV
1,1
0,9
0,8
1,2
1,0
3,1
I
0,7
0,5
0,4
1,8
4,3
5,0
0,5 0,3
0,2 0,1
0,2 0,4
0,7 0,1
-0,5 -0,1
2000
II III
0,7 0,8
0,4 0,8
0,7 0,6
2,1 1,2
4,7 2,2
4,2 3,8
0,2
0,2
0,4
-0,3
0,2
0,5
0,1
0,2
0,3
-0,4
IV
0,8
0,2
0,6
1,8
2,9
2,1
2001
I II
0,4 0,3
1,2 0,3
0,3 0,4
0,6 0,0
-0,1 -1,9
-1,7 -1,3
0,1
0,1
0,4
0,0
0,3
0,7
0,1
0,1
-0,9
0,4
0,2
0,1
0,0
0,2
-0,2
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.
L’attività produttiva nell’area dell’euro. Nel corso del secondo trimestre
è proseguito il rallentamento dell’attività industriale iniziato a partire da
gennaio. Secondo i dati Eurostat nel secondo trimestre il valore aggiunto
dell’industria nell’area dell’euro è diminuito dell’1,3%. In termini di
produzione industriale, il calo è stato molto forte in Germania (-1,6%); solo
la Francia (+0,2%), l’Olanda (+0,6%) e il Portogallo (1,3%) hanno visto
crescere la produzione industriale nel secondo trimestre. Fino a settembre
gli indicatori anticipatori del ciclo fornivano un quadro abbastanza incerto
circa le prospettive per i prossimi mesi (fig. 13). In Francia la fiducia delle
imprese non ha mostrato segni di miglioramento nel mese di giugno e sono
fortemente peggiorati i giudizi sul livello degli ordini sia interni che esterni.
L’andamento dell’attività industriale in Francia mostra quindi una fase
ritardata di circa un trimestre rispetto a quella di Germania e Italia: dopo
un secondo trimestre del 2001 sostanzialmente positivo, il rallentamento
sembra destinato a manifestarsi nel terzo. In Germania la fiducia delle
53
Fig. 13
PRODUZIONE INDUSTRIALE E SONDAGGIO SULL'ANDAMENTO
DEGLI ORDINI NELL'AREA DELL'EURO
(Dati destagionalizzati)
Saldi
10
1995=100
125
Ordini totali
Ordini esteri
Produzione industriale (scala destra)
120
0
115
-10
110
-20
-30
105
1997
1998
Fonte: Eurostat.
1999
2000
2001
100
imprese (indice Ifo), dopo il dato positivo di luglio, è tornata a scendere ad
agosto; a luglio, la produzione industriale è scesa dell’1,6%, soprattutto a
causa del calo dei macchinari e delle macchine per ufficio, dei beni intermedi
e dei beni di consumo durevole (il dato è tuttavia distorto dal minor numero
di giorni lavorativi presenti in alcune regioni tedesche nel mese di luglio).
Dal lato dei servizi, i dati Eurostat mostrano un buon andamento anche nel
secondo trimestre soprattutto per quanto riguarda i servizi finanziari
(+0,9% rispetto al +0,7% del primo trimestre). Hanno continuato a crescere,
anche se in decelerazione, i servizi legati al commercio, trasporto e
comunicazioni (+0,3%, rispetto al +0,7% dei primi tre mesi dell’anno).
La crescita in Italia. Dopo il buon andamento del periodo gennaio-marzo,
dovuto essenzialmente ad un forte e in parte indesiderato accumulo di
scorte, nel secondo trimestre il Pil dell’Italia è risultato stazionario (+2,1%
tendenziale), anche a causa della presenza di 2 giorni lavorativi in meno
rispetto al trimestre precedente (cfr. riquadro: L’influenza degli “effetti di
calendario” sui conti trimestrali).
La caduta del valore aggiunto industriale (-1,3% rispetto al precedente
trimestre; -1,6% per l’industria in senso stretto e +0,2% le costruzioni) e di
quello agricolo (-1,2%, influenzato dalle crisi della mucca pazza e dell’afta
epizootica) è stata solo parzialmente compensata dal proseguire della
54
crescita nei servizi (+0,7%). Sulla base dei dati sulla produzione, a livello
settoriale una flessione marcata si è registrata nella media del secondo
trimestre per i mezzi di trasporto (-8%), il legno e la gomma-plastica (-3%),
la carta, stampa e editoria (-2,6%); risultati positivi si sono avuti invece nel
comparto estrattivo (+3,5%) e nella chimica (+1,5%). Sulla base dei dati del
valore aggiunto, all’interno dei servizi, un andamento particolarmente
positivo si è riscontrato nel commercio, alberghi, trasporti e comunicazioni
(+0,9%) e nel credito e assicurazioni (+0,8), mentre più modesta è stata la
crescita degli altri servizi (+0,4%). Sulla base dei risultati delle indagini
Isae, tra i servizi alle imprese andamenti positivi si sono registrati per i
comparti dell’ingegneria e progettazione e nella pubblicità; andamenti meno
favorevoli si sono registrati per il settore della consulenza, mentre una
contrazione dell’attività si registra nell’informatica e nel marketing.
Tab. 7 - Crescita del Pil e delle sue componenti in Italia
Variabili
Pil a prezzi costanti
Consumi delle famiglie
Consumi collettivi
Investimenti fissi lordi
Esportazioni
Importazioni
Contributi alla crescita
Consumi delle famiglie
Consumi collettivi
Investimenti fissi lordi
Variazione delle scorte
Esportazioni nette
1999 2000
1,6
2,3
1,6
4,6
0,0
5,1
2,9
2,9
1,7
6,1
10,2
8,3
I
0,4
0,8
0,3
1,9
-0,6
2,9
1,4
0,3
0,9
0,4
-1,3
1,7
0,3
1,2
-1,0
0,6
0,5
0,1
0,4
0,4
-0,9
1999
II III
0,8 0,7
-0,1 0,6
0,4 0,6
1,2 1,9
1,7 2,1
-0,5 -0,5
-0,1
0,1
0,2
-0,1
0,6
IV
0,9
0,6
0,6
2,2
4,0
5,5
0,4 0,4
0,1 0,1
0,4 0,4
-0,9 0,3
0,7 -0,3
I
0,9
1,2
0,5
1,6
-0,7
-0,3
2000
II III
0,5 0,4
0,9 0,3
0,1 0,3
1,3 0,9
2,9 7,2
5,4 1,3
0,7 0,5
0,1 0,0
0,3 0,3
-0,1 0,3
-0,1 -0,6
0,2
0,1
0,2
-1,7
1,7
IV
0,8
0,5
0,3
-0,1
1,4
0,0
0,3
0,1
0,0
0,1
0,4
2001
I II
0,8 0,0
0,0 0,6
0,0 0,1
0,8 -0,3
1,4 -1,3
1,5 -0,2
0,0
0,0
0,2
0,6
0,0
0,4
0,0
-0,1
0,1
-0,3
Fonte: Istat.
La domanda interna. Dal lato della domanda, i consumi delle famiglie
sono tornati a crescere nel secondo trimestre (+0,6%, tab. 7) dopo la
sostanziale stazionarietà riscontrata nel periodo gennaio-marzo. Indicazioni
positive sono venute in particolare dal lato dei beni durevoli e delle spese
per l’abitazione. Secondo l’Anfia le immatricolazioni di nuove autovetture
considerate al netto di fattori stagionali sono aumentate dello 0,5% nel
secondo trimestre, recuperando completamente il calo registrato nel periodo
gennaio-marzo (fig. 14); quanto alle abitazioni, le richieste di agevolazione
fiscale per interventi di manutenzione straordinaria nella media del primo
semestre di quest’anno sono ulteriormente cresciute del 9,5% rispetto ad un
anno prima secondo i dati provvisori elaborati dall’Ance. Un qualche
rallentamento negli ultimi mesi hanno mostrato invece le produzioni dei
prodotti destinati all’edilizia. Le vendite al dettaglio hanno accelerato a
giugno, aumentando del 2,9% rispetto ad un anno prima, la crescita più
forte dall’autunno 1999.
55
Fig.14a
IMMATRICOLAZIONI DI AUTOVETTURE IN ITALIA
(Dati destagionalizzati, in migliaia)
240
220
200
180
160
140
120
1996
1997
1998
1999
2000
Fonte: Elaborazioni CSC su dati Anfia e Ministero dei trasporti
e della navigazione
2001
Fig. 14b
125
PRODUZIONE INDUSTRIALE - PRODOTTI PER L'EDILIZIA
(Dati destagionalizzati e perequati con medie mobili a 3 termini - 1995
=100)
120
115
110
105
100
95
90
1995
1996
1997
1998
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Istat.
1999
2000
2001
Dovrebbe essere proseguita anche la crescita dei consumi di servizi, che nel
2000 erano risultati la componente più dinamica della spesa delle famiglie.
Indicazioni favorevoli sono venute di recente dai gestori di telefonia
cellulare, che nel secondo trimestre di quest’anno hanno segnalato ulteriori,
forti incrementi del numero dei clienti, e dai dati sul trasporto autostradale
sia per i trasporti pesanti che per i veicoli leggeri.
56
L’INFLUENZA DEGLI “EFFETTI DI CALENDARIO”
SUI CONTI TRIMESTRALI
Il numero di giorni effettivamente lavorati in un dato arco di tempo influenza
l’andamento delle serie economiche: ad esempio, il valore aggiunto dell’industria e
la produzione industriale, a parità di altri fattori, aumentano al crescere dei giorni
lavorativi presenti nel mese o nel trimestre; i consumi delle famiglie o il valore
aggiunto di taluni servizi (commercio all’ingrosso e al dettaglio, alberghi e
ristoranti) sono influenzati dal numero di giorni specifici di una settimana presenti
in un mese o in un trimestre (ad esempio, il numero di sabati e di domeniche) o
dalla presenza in quel mese (o trimestre) di particolari festività (Natale, Pasqua). A
livello annuale invece gli effetti di calendario si attenuano fortemente; eventuali
differenze nel numero di giorni tra un anno e l’altro è probabile che vengano in gran
parte “assorbite” nel corso dell’anno e abbiano un’influenza modesta sull’output
complessivo.
I giorni lavorativi medi di un dato mese o trimestre seguono in generale un dato
pattern stagionale, ma è possibile che in un particolare mese o trimestre il numero
di giorni lavorativi si discosti dall’andamento medio. Ad esempio, in Italia, il primo
trimestre ha avuto nella media del periodo 1970-2001 62,81 giorni lavorati, il
secondo 62,03, il terzo 65 e il quarto 62,78. Quindi, l’effetto della presenza di 0,78
giorni in meno nel secondo trimestre rispetto al primo è un pattern stagionale e
come tale è catturato nella procedura di destagionalizzazione. Ciò che le tecniche di
destagionalizzazione non riescono a isolare è l’effetto di un comportamento
“anomalo” dei giorni lavorati in un dato trimestre: ad esempio, quest’anno nel primo
trimestre ci sono stati 64 giorni lavorativi, 3 in più rispetto al quarto trimestre
2000, mentre in media i giorni lavorativi del primo trimestre dell’anno sono 62,81 e
quelli del quarto 62,78. Ciò vuol dire che la differenza “stagionale” tra i due
trimestri è soltanto di 0,03 giorni, mentre la differenza “effettiva” riscontratasi
quest’anno è di 3 giorni. Dunque, quando quest’anno si confronta il livello del Pil del
primo trimestre con quello del quarto dello scorso anno bisognerebbe tenere conto
dell’effetto del dato “anomalo” nel numero dei giorni del primo trimestre.
Tutti i principali paesi europei correggono l’andamento della produzione industriale
per gli effetti di calendario. Lo stesso non avviene però per i dati di Contabilità
nazionale trimestrale: alcuni paesi (Germania, Francia, Spagna, Olanda e Gran
Bretagna) considerano esplicitamente gli “effetti di calendario”, altri (tra cui l’Italia
e il Belgio) non ne tengono invece conto. La mancata considerazione degli effetti di
calendario può condizionare l’analisi congiunturale a livello nazionale; inoltre, non
favorisce la confrontabilità dei dati tra paesi, né l’analisi aggregata a livello
europeo. Occorre infatti considerare che l’Eurostat stima il Pil dell’area dell’euro
sulla base dei dati di Contabilità nazionale “ufficiali” dei vari paesi, che non sono
computati in modo omogeneo per quanto riguarda il trattamento degli effetti di
calendario.
La considerazione (o la non considerazione) degli effetti di calendario può
influenzare, ed anche in modo notevole, la stima dei dati di Contabilità nazionale.
La Germania (ed in particolare la Statistisches Bundesamt Deutschland e la
Bundesbank) fornisce i dati del Pil in entrambe le versioni, anche se quella
“ufficiale” include la correzione per i giorni lavorati. Se guardiamo al primo
semestre di quest’anno le due stime divergono in modo notevole: il Pil al lordo degli
effetti di calendario è cresciuto dello 0,9% nel primo trimestre e diminuito dello
0,7% nel secondo. Al netto, il Pil tedesco è invece aumentato dello 0,4% nel primo
57
trimestre ed è rimasto stazionario nel secondo. L’Istat come detto al momento
ancora non effettua la correzione sui dati di Contabilità nazionale trimestrale (la
correzione è invece sempre effettuata per le serie della produzione industriale); la
pubblicazione dei dati corretti è prevista verosimilmente entro la fine del 2002.
Abbiamo provato a correggere per il calendario i dati del Pil del primo semestre di
quest’anno, considerando il solo valore aggiunto dell’industria; si tratta dunque di
una stima molto parziale, che non considera le rimanenti branche produttive, anche
se è soprattutto l’industria a risentire del diverso numero di giorni lavorati.
Utilizzando la procedura Tramo-Seats, abbiamo stimato che al netto dell’effetto dei
giorni il Pil italiano è aumentato dello 0,5/06% (invece dello 0,8% “ufficiale”) nel
primo trimestre, ed ha registrato un leggero aumento nel secondo trimestre (contro
lo 0,0% “ufficiale”). Risultati analoghi sono stati raggiunti dall’Isae nel rapporto
dello scorso luglio. La considerazione degli effetti di calendario influenza anche il
confronto dell’andamento ciclico del Pil tra i vari paesi: ad esempio, la crescita dello
0,4% e dello 0,0% del Pil tedesco rispettivamente nel primo e nel secondo trimestre
dell’anno dovrebbe essere confrontata con lo 0,5/0,6% e 0,1/0,2% dell’Italia (e non
con lo 0,8% e 0,0% “ufficiali”). Alternativamente, si dovrebbero confrontare le stime
che non considerano per entrambi i paesi gli effetti di calendario (+0,9% e –0,7% per
la Germania e +0,8% e 0,0% per l’Italia nei primi due trimestri). Se si guarda quindi
alla stima al netto del calendario, risulta come il ritmo di crescita nella prima parte
dell’anno sia simile nei due paesi; inoltre sia in Germania che in Italia il
rallentamento del ciclo è evidente già nel primo trimestre.
Gli investimenti fissi lordi nel secondo trimestre dell’anno sono scesi dello
0,3% rispetto al periodo gennaio-marzo; ancora positivo è risultato
l’andamento delle costruzioni (+0,2%), mentre la spesa per macchinari,
attrezzature e mezzi di trasporto ha risentito negativamente del clima di
incertezza ciclica, diminuendo dello 0,6%. L’inchiesta Isae relativa al
secondo trimestre ha inoltre evidenziato un lieve calo del grado di utilizzo
della capacità produttiva. I dati dell’Ucimu sugli ordini di macchine utensili
sono in effetti calati del 39,3% nel secondo trimestre rispetto agli elevati
livelli dell’anno precedente (-48,3% sull’estero e -30,5% sul mercato interno,
fig. 15).
Gli indicatori recenti. Il calo della produzione è proseguito anche
all’inizio del terzo trimestre; a luglio le quantità prodotte al netto di fattori
stagionali sono diminuite dello 0,7% rispetto a giugno (fig. 16).
Particolarmente negativo è stato l’andamento dei beni finali, sia di consumo
(-2,2% in un mese) che di investimento (-1,2%), mentre i beni intermedi
hanno registrato una crescita moderata (+1,2%). Il dato negativo di luglio
smentisce le indicazioni più favorevoli provenienti sia dall’indagine rapida
del Csc sia dai consumi elettrici. Secondo l’indagine Csc, la produzione
sarebbe tornata ad aumentare ad agosto (+1% al netto di fattori stagionali)
e, a ritmi meno sostenuti, a settembre (+0,6%). Va peraltro considerato che
gran parte delle risposte all’indagine sono pervenute prima dell’11
settembre.
58
Fig. 15
ORDINI DI MACCHINE UTENSILI
(Dati destagionalizzati a prezzi costanti)
160
140
Interni
Esteri
Totali
120
100
80
60
40
1995
1996
1997
1998
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Ucimu.
1999
2000
2001
Fig. 16
PRODUZIONE INDUSTRIALE MEDIA GIORNALIERA
(Indici: Base 1995 = 100)
112
110
108
Destagionalizzata
Destagionalizzata e perequata con medie mobili a 3 termini
106
104
102
100
98
96
1995
1996
1997
1998
1999
Per agosto e settembre previsioni Csc.
Fonte: Istat, Indagine congiunturale rapida Csc.
2000
2001
59
Indicazioni negative vengono anche dai dati Isae, che hanno mostrato a
partire dai primi mesi di quest’anno un continuo peggioramento del clima di
fiducia delle imprese. La tendenza al peggioramento della fiducia si è
arrestata nel mese di luglio (fig. 17a), grazie soprattutto ad un modesto
recupero dei giudizi sul livello della domanda. Continua invece la tendenza
al ridimensionamento del portafoglio ordini delle imprese (in particolare sui
mercati esteri) ed al peggioramento delle attese a breve termine sulla
propria produzione. A partire dai mesi primaverili sono invece migliorati i
giudizi degli imprenditori sulle prospettive a breve termine dell’economia
italiana (fig. 17b). Qualche segnale favorevole è venuto a giugno dai dati su
fatturato e ordinativi aumentati rispettivamente del 2,8 e 3,9% al netto di
fattori stagionali, grazie soprattutto al positivo andamento dei mercati
esteri (+4,2 il fatturato e +5,3% gli ordini, fig.18).
Dal lato della domanda, le indicazioni provenienti dell’inchiesta Isae presso i
consumatori sono risultate favorevoli fino al mese di luglio; una caduta della
fiducia si è registrata però ad agosto, imputabile probabilmente soprattutto
ai disordini di Genova in occasione del G8. Le attese sull’evoluzione della
situazione economica e di quella personale, particolarmente favorevoli sino a
luglio, si sono deteriorate bruscamente ed è diminuita anche la quota di
quanti si attendono una riduzione della disoccupazione nei prossimi 12
mesi. Il giudizio sulla convenienza all’acquisto di beni durevoli e abitazioni è
rimasto complessivamente favorevole, anche se meno positivo rispetto agli
ultimi mesi. Uno stimolo alla spesa per ristrutturazioni edilizie potrebbe
venire dai recenti provvedimenti varati dal governo nell’ambito del
programma dei 100 giorni (cosiddetto provvedimento dei “padroni in casa
propria”, cfr. anche più avanti il riquadro: I provvedimenti dei 100 giorni).
Indicazioni positive sono venute durante l’estate dai dati sul mercato
dell’auto: sulla base dei dati Anfia le immatricolazioni nel bimestre luglioagosto sono cresciute dello 0,2% rispetto agli elevati livelli del secondo
trimestre al netto di fattori stagionali.
60
Fig. 17
INDICATORI DEL CLIMA ECONOMICO
a) FIDUCIA DI FAMIGLIE E IMPRESE
(Dati destagionalizzati)
1980=100
126
1995=100
115
124
110
122
105
120
100
118
95
116
90
114
85
delle famiglie
delle imprese (scala destra)
80
2000
2001
112
1998
Fonte: Isae.
1999
b) PERCEZIONE SUL CLIMA ECONOMICO DELLE IMPRESE
1995=100
110
(Medie mobili a 3 termini dei dati destagionalizzati)
Saldi
30
20
105
10
100
0
95
-10
90
Clima di fiducia delle imprese
Tendenza dell'economia (scala destra)
85
1997
1998
1999
Fonte: elaborazioni Csc su dati Isae.
2000
2001
-20
-30
61
Fig. 18
ORDINATIVI NELL'INDUSTRIA (*)
(Indici: 1995=100)
140
130
120
110
100
90
80
1997
1998
1999
2000
(*) Medie mobili a 3 termini dei dati destagionalizzati.
Fonte: elaborazioni Csc su dati Istat.
2001
Quanto agli investimenti, l’andamento moderato della prima parte dell’anno
è essenzialmente spiegato oltre che dall’incertezza del quadro internazionale
dall’accumulo di scorte registrato nel periodo gennaio-marzo. E’ anche
possibile che l’attesa del varo dei provvedimenti di agevolazione fiscale sugli
utili reinvestiti abbia indotto nel primo semestre a ritardare l’attuazione dei
programmi di spesa previsti. L’ultima inchiesta Isae della primavera 2001
segnalava che le imprese industriali continuano ad attendersi un aumento
sostenuto degli investimenti nell’anno in corso, con una quota elevata della
spesa destinata all’ampliamento della capacità produttiva.
3.2
Il mercato del lavoro e le retribuzioni
Occupazione e disoccupazione nell’area dell’euro. Nei primi mesi del
2001 la dinamica dell’occupazione ha iniziato a mostrare segnali di
rallentamento in gran parte dell’area dell’euro. I dati di Contabilità
nazionale indicano per il primo trimestre una crescita dell’occupazione in
termini congiunturali dello 0,4% a fronte dello 0,6 registrato nell’ultimo
trimestre del 2000. Il minore tasso di crescita è dovuto principalmente al
rallentamento nei servizi (0,5% rispetto allo 0,7 del quarto trimestre 2000) e
ad una lieve flessione delle costruzioni (-0,1%). L’occupazione nel settore
62
dell’industria in senso stretto è invece cresciuta dello 0,4%, in leggero
aumento rispetto all’ultimo trimestre del 2000 (0,3%).
Negli ultimi mesi si è arrestata la discesa del tasso di disoccupazione. Tra
aprile e luglio il tasso di disoccupazione destagionalizzato, calcolato su base
mensile, è rimasto infatti fermo all’8,3% nell’area dell’euro. Il rallentamento
ha riguardato soprattutto la componente giovanile (15-24 anni). In
Germania il mercato del lavoro è entrato in una fase di stagnazione fin dai
primi mesi dell’anno, a seguito del rallentamento dell’attività economica.
Secondo le stime dell’Ufficio statistico federale, nei primi sei mesi dell’anno
il numero degli occupati, al netto dei fattori stagionali, ha cominciato a
ridursi lentamente passando dai 38,80 milioni di unità del dicembre 2000 ai
38,74 milioni del mese di giugno. Per i mesi più recenti non vi sono ancora
dati aggregati sull’occupazione, ma nella media dei mesi di luglio e agosto è
stata registrata una diminuzione dei posti vacanti del 6,1% (pari a circa
33.690 unità in meno) rispetto a dodici mesi prima. Al netto della
stagionalità, la riduzione congiunturale dei posti offerti dalle imprese
continua ininterrottamente dal mese di gennaio. Nei primi otto mesi del
2001 si sono cumulati circa 60.000 posti in meno rispetto a dicembre 2000.
Segnali negativi sono emersi anche sul fronte della disoccupazione fino a
luglio. Tra dicembre 2000 e luglio 2001 le persone in cerca di lavoro sono
aumentate, al netto dei fattori stagionali, di circa 88.000 unità. In agosto,
tale tendenza si è arrestata e si è avuta anzi una lieve riduzione del numero
delle persone in cerca di lavoro, scese di circa 2.000 unità. Il tasso di
disoccupazione destagionalizzato è rimasto invariato al 7,7% tra ottobre e
aprile, per poi salire al 7,8% nei due mesi successivi e al 7,9% nel mese di
luglio. In agosto, nonostante la lieve riduzione del numero dei disoccupati il
tasso di disoccupazione è rimasto invariato rispetto al mese precedente.
In Francia i dati sull’occupazione relativi al primo trimestre non riflettono
ancora gli effetti del rallentamento congiunturale in corso. Le stime di
Contabilità nazionale indicano una crescita del numero di occupati dello
0,6%, al netto della stagionalità, rispetto al trimestre precedente e del 3,4%
rispetto al primo trimestre del 2000. Tuttavia, secondo le prime indicazioni
dell’Insee nel secondo trimestre la dinamica occupazionale dovrebbe aver
subito una sensibile decelerazione. Per il 2001 l’Istituto statistico francese
prevede un tasso di crescita dell’occupazione totale non superiore all’1,3%
(circa 300.000 lavoratori in più), contro il 2,5% registrato nel 2000. A
giugno, per la prima volta dall’agosto del 1998, è stato registrato un
aumento del tasso di disoccupazione mensile di 0,1 punti percentuali (8,8%)
rispetto al mese precedente. Un incremento analogo si è verificato anche nel
successivo mese di luglio.
In Spagna è proseguita nel primo trimestre del 2001 la decelerazione della
crescita degli occupati iniziata nel terzo trimestre del 2000. Nei primi tre
mesi dell’anno, le unità di lavoro equivalenti – misurate dalla Contabilità
nazionale – sono cresciute del 2,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno
precedente, due decimi di punto in meno rispetto alla crescita conseguita
nell’ultimo trimestre 2000. Prosegue invece ininterrotta la caduta del tasso
63
di disoccupazione, passato dal 13,5% di fine 2000 al 12,8 dello scorso mese di
giugno.
L’occupazione in Italia. Segnali poco incoraggianti emergono dall’ultima
rilevazione delle forze di lavoro in Italia, relativa al primo trimestre del
2001. Per la prima volta dalla fine del 1997, la crescita dell’occupazione ha
subito una battuta d’arresto (fig. 19): dopo il rallentamento congiunturale
registrato nel trimestre precedente (0,2%, al netto della stagionalità, a
fronte dell’1,2% conseguito nell’ottobre 2000), tra gennaio ed aprile il
numero delle persone occupate, depurato dagli effetti stagionali, ha
registrato una flessione dello 0,1%, pari a circa 27.000 unità. Gli occupati
sono diminuiti nell’industria in senso stretto (-0,5%) e nel comparto dei
servizi (-0,1%), hanno continuato a crescere nell’agricoltura (+0,4%) e nelle
costruzioni (+0,5%; fig. 19). La riduzione dell’occupazione si è
concentrata nelle regioni settentrionali (-0,3%, pari a circa 32.000
occupati in meno); il numero di persone occupate è rimasto invariato nelle
regioni del Centro ed è cresciuto lievemente (+0,1%) nel Mezzogiorno.
Il rallentamento della dinamica dell’occupazione emerge anche nel confronto
con il corrispondente periodo dell’anno scorso. Rispetto ad aprile 2000, gli
occupati sono cresciuti del 2,1% (+443.000 unità), un valore ancora elevato
ma in decelerazione rispetto al 2,8% e al 3,2% registrati rispettivamente a
ottobre e gennaio scorsi. Come nei trimestri precedenti, l’incremento
avvenuto ha riguardato prevalentemente l’occupazione femminile, cresciuta
nei dodici mesi del 4,0% (+307.000 unità, pari a quasi il 70%
dell’occupazione complessivamente creata nel periodo). Il tasso di
occupazione femminile è così passato dal 39,3% di aprile 2000 al 40,9% di
aprile 2001, proseguendo nel lento processo di recupero rispetto al dato
medio dell’area dell’euro (51,4% nel 2000). Nel complesso il tasso di
occupazione della popolazione tra i 15 e i 64 anni è aumentato, rispetto
all’anno precedente, di 1,1 punti percentuali (dal 53,2 al 54,3%), grazie
anche alla leggera riduzione avvenuta nella popolazione in età da lavoro.
Resta forte il divario con la media dell’area dell’euro (61,3% nel 2000) e
soprattutto con l’obiettivo del 70% stabilito dal vertice di Lisbona per il
2010, per il raggiungimento del quale sarebbe necessaria, a parità di altre
condizioni, la creazione di oltre sei milioni di nuovi occupati (corrispondente
ad una crescita media annua dell’occupazione del 3,2%).
64
Fig. 19
OCCUPATI PER SETTORE DI ATTIVITA'
(Dati destagionalizzati; indici: Gennaio 1996=100)
115
Totale Italia
Costruzioni
Industria in senso stretto
Altre attività
110
105
100
95
1996
1997
1998
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Istat.
1999
2000
2001
Poco meno del 70% dei nuovi occupati (circa 297.000 unità; +2,3% rispetto
ad aprile 2000; tab. 8) è stato assunto con contratti di lavoro a tempo pieno
ed indeterminato (tale incidenza era pari al 13,7% nel 1999 e al 27,3% nel
2000). Consistente è stato inoltre il ricorso a rapporti di lavoro permanenti a
tempo parziale, che ha riguardato 132.000 lavoratori in più rispetto ad
aprile 2000 (+15,2%), in accelerazione rispetto al dato tendenziale dei
trimestri precedenti. Le agevolazioni fiscali temporanee previste dall’art. 7
dell’ultima legge finanziaria hanno incentivato il ricorso a forme
contrattuali a carattere permanente. I datori di lavoro che, tra ottobre 2000
e novembre 2003, incrementano la propria base occupazionale con
contratti a tempo indeterminato possono infatti beneficiare di un credito
di imposta di 800.000 lire per lavoratore (1.200.000 lire nel Mezzogiorno), a
condizione che il nuovo assunto abbia almeno 25 anni di età e non sia stato
titolare di un rapporto di lavoro permanente negli ultimi due anni. I dati
disponibili indicano che tra ottobre 2000 e aprile 2001 l’occupazione
dipendente a tempo indeterminato è aumentata di 196.000 unità, di cui
76.000 nel Mezzogiorno. Tra aprile 2000 e aprile 2001 è diminuito l’utilizzo
dei contratti a termine, la cui incidenza sul totale dell’occupazione
dipendente è passata dal 10,1% di aprile 2000 al 9,5% di aprile 2001. Il
ricorso a questa forma contrattuale, ancora molto inferiore alla media
europea (14,9% di lavoratori dipendenti con contratto temporaneo nel 2000),
65
Tab. 8 - Andamento dell'occupazione per tipologia di contratto, 1999-2001
Variazioni assolute (in migliaia) e percentuali rispetto all'anno precedente
1999
Variabili
2000
ottobre 2000
gennaio 2001
aprile 2001
var. ass. Var. % var. ass. var. % var. ass. Var. % var. ass. var. % var. ass.
256
1,3
388
1,9
589
2,8
656
3,2
443
Totale occupati
var. %
2,1
Dipendenti
di cui:
Permanenti a tempo
pieno
Permanenti part-time
Temporanei a tempo
pieno
Temporanei part-time
274
1,9
308
2,1
379
2,5
498
3,4
377
2,5
35
0,3
106
0,8
146
1,1
370
2,9
297
2,3
78
11,3
83
10,8
35
4,2
89
11,0
132
15,2
118
14,0
80
8,3
160
16,8
4
0,4
-3
-0,3
43
10,5
40
8,9
38
8,3
36
8,4
-49
-9,5
Autonomi
-18
-0,3
80
1,4
210
3,6
157
2,7
66
1,1
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Istat, Forze di lavoro.
dovrebbe risultare facilitato dal recepimento nell’ordinamento italiano della
direttiva europea 1999/70/Ue in materia, improntata ad una maggiore
flessibilità. In generale il nuovo provvedimento legislativo, approvato dal
governo lo scorso mese di agosto, supera il principio in base al quale, “salvo
eccezioni”, il “contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato” e,
pertanto, esclude che per l’apposizione del termine siano necessarie “causali
specifiche”. Con la nuova normativa si passa da una disciplina in cui il
datore di lavoro poteva assumere con contratto a tempo determinato solo in
presenza di ipotesi tassativamente previste dalla legge o dalla
contrattazione collettiva, ad una in cui l’apposizione del termine è
legittimata dall’esistenza di “ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo”. La garanzia per il lavoratore è assicurata dal
fatto che, contestualmente, il datore di lavoro deve specificare queste ragioni
per iscritto nell’atto di assunzione. Il superamento delle “causali specifiche”
fa sì che si sia invertita la logica della legislazione precedente, per cui ora il
decreto legislativo elenca tassativamente i casi nei quali è vietata la
stipulazione del contratto a termine. La nuova disciplina, poi, affida alla
contrattazione collettiva di settore l’individuazione di limiti quantitativi ma,
nel contempo, procede ad una elencazione tassativa delle ipotesi di contratti
a termine esenti da qualsiasi “tetto”. Nella elencazione dei casi esenti, oltre
al mantenimento delle ipotesi già precedentemente escluse da ogni limite
quantitativo, vengono individuate anche alcune fattispecie ritenute non
suscettibili di alcuna limitazione o per una valutazione di fatto (i contratti a
termine attivati nelle fasi di start-up) o perché si è inteso favorire particolari
fasce di lavoratori (giovani ed ultracinquantacinquenni) o infine perché si è
voluto liberalizzare le forme di contratto a termine di breve durata.
L’attuale fase di rallentamento congiunturale trova conferma nell’aumento
registrato, tra gennaio e giugno, nelle ore autorizzate di Cassa integrazione
ordinaria nell’industria in senso stretto (7,2%). Continuano invece a
66
diminuire le ore di Cig straordinaria (-13,2%, pari a circa 5.300 occupati
equivalenti in meno), in discesa ormai dal 1994 (fig. 20).
Per la prima volta dal 1997, in aprile si è verificata in Italia una
diminuzione congiunturale dell’offerta di lavoro (-0,4%, al netto dei fattori
stagionali). Rispetto ad aprile 2000 l’andamento dell’offerta di lavoro ha
continuato a registrare una variazione positiva pur se in forte rallentamento
(0,7%, pari a circa 169.000 persone, di cui 164.000 donne) rispetto agli
ultimi trimestri (1,4% nella media delle ultime tre rilevazioni). In
particolare si è ridotto il tasso di attività giovanile (15-24 anni), sceso tra
aprile 2000 e aprile 2001 dal 37,4% al 35,7%, anche per effetto dell’aumento
della quota di inattivi tra i 15 e i 24 anni dichiaratisi nella condizione di
studenti (salita nell’anno dal 51,4% al 52,7%). Più in generale va rilevato
l’aumento consistente (+2,8%, pari a circa 342.000 unità) del gruppo di
persone inattive, ma in età da lavoro (15-64 anni), che non hanno compiuto,
nel periodo di riferimento, alcuna azione di ricerca e non sono risultati
disponibili per alcun lavoro. Tale dato va tuttavia interpretato tenendo
presente che, con la rilevazione di aprile, è stata modificata la domanda
relativa alla disponibilità a lavorare delle persone inattive in età da lavoro
che ora è richiesta essere immediata, estendendo in tal modo la nozione di
indisponibilità al lavoro. In forte aumento sono risultati infine gli inattivi
non in età da lavoro con almeno 65 anni (+1,7%, pari a 169.000 persone).
Nonostante la battuta d’arresto nella crescita dell’occupazione, si è
accentuata ad aprile la riduzione delle persone in cerca di lavoro rispetto al
mese di gennaio, con un calo congiunturale, al netto della stagionalità, del
3,2% nel complesso dell’economia (pari a 76.000 unità in meno). Le regioni
centrali hanno registrato la riduzione più forte (-8,5%), seguite dal
Mezzogiorno (-2,5%) e dal Nord (-1,4%). Il tasso di disoccupazione
destagionalizzato per l’economia nel suo complesso è sceso dal 9,8% di
gennaio all’attuale 9,6%. Nelle regioni settentrionali è rimasto fermo al
livello di gennaio (4,1%) mentre è diminuito rispettivamente di 0,6 e 0,4
punti percentuali nel Centro (7,2%) e nel Mezzogiorno (19,4%).
Rispetto ad aprile 2000, il numero delle persone in cerca di occupazione si è
ridotto di 274.000 unità, pari al 10,8% in meno, in ulteriore accelerazione
rispetto al dato di gennaio (tab. 9). Sono diminuite soprattutto le persone in
cerca di prima occupazione (-103.000 unità), seguite dalle altre persone in
cerca (-98.000) e dai disoccupati in senso stretto (-73.000). Dato il
rallentamento occorso nella crescita degli occupati, le ragioni sottostanti
l’ulteriore calo della disoccupazione vanno ricercate nei flussi in uscita dalle
forze di lavoro e negli andamenti demografici. La discesa del tasso di
partecipazione giovanile potrebbe ad esempio rappresentare uno dei fattori
rilevanti. Tra aprile 2000 e aprile 2001 il numero di persone tra i 15 e i 24
anni in cerca di lavoro è diminuito di 148.000 unità (22,5%), oltre il 50% del
calo complessivo. Tale riduzione ha riguardato sia le persone in cerca di
prima occupazione (-75.000 unità; 17,3%), sia i disoccupati in senso stretto
(-30.000 unità; 23,8%), sia le altre persone in cerca (-43.000).
67
Fig. 20
CASSA INTEGRAZIONE GUADAGNI
(Migliaia di ore autorizzate)
30000
25000
Gestione ordinaria: dati destagionalizzati
Gestione ordinaria: dati destagionalizzati e perequati (*)
Gestione straordinaria: dati perequati (*)
20000
15000
10000
5000
0
1994
1995
1996
1997
1998
1999
(*) Medie mobili a 3 mesi terminanti nel mese indicato.
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Inps.
2000
2001
Accanto al fenomeno della denatalità (a cui va aggiunto, come già
evidenziato in precedenza, l’aumento della quota di studenti), un ulteriore
fattore che potrebbe aver contribuito alla riduzione delle persone in cerca di
lavoro è rappresentato dalla riforma in atto nei servizi pubblici per l’impiego
i quali, in attuazione del D.Lgs. 181/2000 in materia di agevolazione
dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro, hanno avviato un processo di
ripulitura delle liste di collocamento volto ad eliminare la presenza dei
soggetti non interessati veramente alla ricerca di un lavoro. Ciò ha portato
ad una sensibile riduzione del numero di iscritti che potrebbe aver
influenzato, in modo indiretto, la rilevazione Istat delle persone in cerca di
lavoro. Alcune delle pratiche amministrative richieste per l’iscrizione alle
liste sono infatti considerate, se eseguite nell’ultimo mese, azioni di ricerca
che qualificano una persona in cerca di occupazione (è il caso, ad esempio,
della vidimazione del libretto di lavoro, oggetto di una domanda specifica nel
questionario Istat).
68
Tab. 9 - Evoluzione della popolazione italiana all'interno e all'esterno del mercato del
lavoro
Variazioni assolute (in migliaia) e percentuali rispetto all'anno precedente
1999
2000
Ottobre 2000 Gennaio 2001
Aprile 2001
Variabili
var. ass. var. % var. var. % var. var. % var. ass. var. % var. ass. var. %
ass.
ass.
Popolazione residente
38
0,1
110
0,2
148
0,3
149
0,3
143
0,3
di cui:
15-24 anni
-253
-3,4
-254
-3,6
-251
-3,6
-246
-3,6
-234
-3,4
Forze di lavoro
di cui:
Occupati
Persone in cerca di lavoro
Inattivi in età da lavoro (1564 anni)
di cui:
Cercano lavoro non
attivamente, immediatamente
disponibili
Cercano lavoro e non
immediatamente disponibili
Non cercano ma disponibili*
Non cercano e non
disponibili*
181
0,8
213
0,9
373
1,6
389
1,7
170
0,7
256
-75
1,3
-2,7
388
-175
1,9
-6,6
589
-217
2,8
-8,3
656
-267
3,2
-10,1
443
-273
2,1
-10,7
-246
-1,5
-239
-1,5
-372
-2,4
-392
-2,5
-177
-1,1
-3
-0,2
8
0,7
52
4,4
57
5,0
-28
-2,2
11
9,4
2
1,2
13
10,9
-4
-3,6
-5
-3,2
56
2,8
-7
-0,3
50
2,5
29
1,4
-486
-24,3
-310
-2,4
-242
-1,9
-486
-3,9
-474
-3,8
342
2,8
0,8
152
0,8
150
0,8
Inattivi non in età da lavoro
102
0,6
136
0,8
di cui:
< 15 anni
-68
-0,8
-48
-0,6
> 64 anni
170
1,8
184
1,9
* Con la rilevazione di aprile 2001 è stata modificata la domanda
essere immediata.
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Istat, Forze di lavoro.
148
-29
-0,4
-21
-0,3
-18
-0,2
177
1,8
173
1,8
168
1,7
relativa alla disponibilità, che ora è richiesta
Costo del lavoro e retribuzioni nell’area euro. I dati di Contabilità
nazionale disponibili per il primo trimestre del 2001 indicano una crescita
tendenziale del costo del lavoro per dipendente all’interno dell’area dell’euro
di circa il 2,2%, sostanzialmente in linea con i trimestri più recenti. Francia
e Germania continuano a situarsi molto al di sotto della media dell’area. In
Francia il costo del lavoro per dipendente è cresciuto dell’1,3%, in
rallentamento rispetto ai mesi precedenti (1,7% nella media degli ultimi tre
trimestri). In aumento è risultata invece la dinamica del costo del lavoro in
Germania (1,8% a fronte dell’1,2% registrato nel quarto trimestre 2000). Sul
fronte dei rinnovi contrattuali, gli accordi stipulati in Germania nel corso
del 2001 hanno riguardato solamente una piccola frazione dei lavoratori
dipendenti (circa un decimo). Nei primi sei mesi dell’anno sono stati
rinnovati i contratti del settore bancario privato (470.000 dipendenti), di
quello assicurativo (240.000) e di quello del commercio al dettaglio (1,6
69
milioni). Gli aumenti stabiliti per il nuovo periodo contrattuale (12 o 13 mesi
a seconda del settore) si collocano tra il 2,7 e il 2,8%. Per il 2001 si prevede
una crescita media delle retribuzioni del totale economia di poco superiore al
2%. Nel 2002 si preannuncia invece una stagione di rinnovi molto intensa.
Particolarmente rilevanti saranno i rinnovi, a fine febbraio, del contratto dei
metalmeccanici (oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori) e di quello dei chimici
(circa 600.000 lavoratori), a cui si aggiungono diversi altri comparti
dell’industria in senso stretto. Nel corso del 2002 giungeranno inoltre a
scadenza il Ccnl del settore pubblico (oltre 5 milioni di lavoratori coinvolti) e
quelli del commercio e delle costruzioni (rispettivamente 1,6 e 1,1 milioni di
lavoratori). In media, gli incrementi previsti dagli analisti tedeschi si
collocano tra il 2,5 e il 3%.
Costo del lavoro e retribuzioni in Italia. In Italia, i dati di contabilità
nazionale relativi al primo trimestre del 2001 registrano una crescita
tendenziale delle retribuzioni lorde per dipendente relative all’intera
economia del 2,2%, pari a quella conseguita nel trimestre precedente ma in
decelerazione rispetto alla media dei primi tre trimestri del 2000 (3,4%; tab.
10). Nell’industria in senso stretto la dinamica delle retribuzioni di fatto è
tornata tuttavia a crescere (3,1%) dopo il raffreddamento registrato negli
ultimi due trimestri del 2000 (1,7% nella media del periodo); in riduzione è
risultata la dinamica salariale nel comparto delle costruzioni e in quello dei
servizi (rispettivamente 1,4 e 1,9%, contro il 2,8 e il 2,3% degli ultimi tre
mesi del 2000). Nel secondo trimestre la dinamica delle retribuzioni di fatto
potrebbe tuttavia tornare a salire, riflettendo l’accelerazione delle
retribuzioni contrattuali per dipendente che, secondo l’indice Istat, sono
aumentate tra aprile e giugno del 2,6% (rispetto all’1,9% del primo
trimestre). Tale tendenza dovrebbe proseguire anche nella restante parte
dell’anno a causa dei numerosi Ccnl siglati negli ultimi mesi (vedi oltre; tab.
11).
Il costo del lavoro per dipendente nell’economia nel suo complesso è
cresciuto nel primo trimestre del 2001 del 2%, compendiando una
variazione del 2,6% nell’industria e dell’1,7% nei servizi. Tale andamento
include l’effetto della riduzione di 0,8 punti percentuali dell’aliquota degli
oneri sociali a carico delle imprese stabilita dall’ultima legge finanziaria.
L’intensa stagione contrattuale (cfr. tabella 2.9 ultimo rapporto di
previsione) è proseguita anche negli ultimi mesi. Tra maggio e luglio 2001
sono stati infatti rinnovati numerosi Ccnl, riguardanti oltre 4 milioni e
mezzo di lavoratori (tab. 11). Nell’industria il rinnovo più importante è stato
quello del secondo biennio economico del contratto metalmeccanico (circa un
milione e mezzo di lavoratori interessati), avvenuto lo scorso mese di luglio.
Il nuovo accordo prevede un recupero del differenziale tra inflazione
programmata ed effettiva per il biennio appena trascorso, calcolato tenendo
conto, particolarmente per il 2000, degli effetti imputabili all’andamento
delle ragioni di scambio . Relativamente al biennio 2001-2002, gli aumenti
70
Tab. 10 - Andamento delle retribuzioni di fatto e contrattuali per dipendente
(Variazioni % annuali)
di fatto
contrattuali
di fatto
contrattuali
di fatto
contrattuali
5,2
4,2
5,2
3,4
4,4
3,0
3,4
4,3
3,3
3,8
2,5
2,5
2,9
2,4
3,0
2,7
4,9
3,2
2,4
1,8
2,9
2,1
3,3
2,9
3,1
1,9
2,4
1,9
3,2
2,8
2001
I
II
trim. trim.
2,2
n.d.
1,8
2,6
3,1
n.d.
2,0
1,2
1,4
n.d.
1,5
1,1
Commercio e riparazioni; alberghi e
ristoranti
di fatto
2,3
2,9
3,9
2,8
2,4
n.d.
n.d.
Trasporti, magazzini e comunicazioni
contrattuali
di fatto
contrattuali
3,8
3,2
2,1
3,8
2,3
2,2
4,1
3,7
4,1
2,1
0,7
1,2
2,0
1,5
0,3
1,6
n.d.
1,9
1,6
n.d.
2,0
di fatto
4,5
1,3
2,8
0,7
2,8
1,1
n.d.
contrattuali (1)
6,0 3,0 0,6 0,2
di fatto
6,5 4,8 1,5 2,5
contrattuali (2)
5,6 6,8 1,0 1,8
(1) Solo intermediazione monetaria e finanziaria; (2) Solo Pubblica Amministrazione.
Fonti: Istat, Contabilità nazionale per le retribuzioni di fatto.
1,6
4,3
2,4
1,2
2,2
2,1
1,2
n.d.
5,2
Settori
Retribuzioni
Totale attività economiche
Industria in senso stretto
Costruzioni
Intermediaz. monetaria e finanziaria;
attività immobiliari, noleggio, professionali
ed imprenditoriali
Altre attività di servizi
1996
1997 1998 1999 2000
stabiliti hanno già incorporato l’accelerazione inflazionistica realizzatasi nel
primo semestre del 2001. In particolare, l’aumento concordato è stato
definito a copertura dell’inflazione effettiva fino al 30 giugno 2001 ed a
quella programmata per il secondo semestre 2001 e per tutto il 2002.
Pertanto, l’eventuale recupero salariale relativo al biennio 2001-2002 da
discutere nel prossimo rinnovo contrattuale, considererà esclusivamente il
secondo semestre 2001 e l’anno 2002. Il disaccordo su questa soluzione ha
determinato la mancata firma di una delle organizzazioni sindacali (la
Fiom). Nell’insieme, l’incremento contrattuale per il biennio in corso è di 3,9
punti percentuali, a fronte di un’inflazione programmata che il Dpef del
2000 stabiliva al 2,9% (1,7% nel 2001 e 1,2% nel 2002). In base all’ultimo
Dpef, invece, l’inflazione prevista per il 2001 è stata portata al 2,8% e quella
programmata per il 2002 all’1,7%. Ipotizzando slittamenti salariali in linea
con quelli della media degli ultimi anni, l’incremento complessivo delle
retribuzioni di fatto dovrebbe attestarsi intorno al 6,4%. Altri importanti
rinnovi nel settore industriale sono stati siglati nel comparto alimentare
(maggio 2001) e in quella della carta e cartotecnica (luglio 2001). E’ stato
inoltre raggiunto, dopo ventidue mesi di trattativa, l’accordo per la creazione
del Ccnl unico del settore elettrico.
Nell’ambito dei servizi destinabili alla vendita di particolare rilievo è stato il
rinnovo del secondo biennio economico del Ccnl del settore del commercio.
Secondo le valutazioni della Confcommercio, nel biennio 2001-2002 l’impatto
sulle retribuzioni medie di fatto del settore dovrebbe collocarsi intorno al
6,3%.
71
Tab. 11 - Principali contratti dell'industria e dei servizi: situazione dei rinnovi a luglio 2001
Contratti
n. dipendenti
interessati
Scadenza
Situazione attuale
Contratti scaduti
Servizi vendibili
120.000
Scaduto il contratto (parti economica e normativa)
Dicembre 1999 trattative in corso per a definizione di un contratto per
le attività ferroviarie
110.000
190.000
600.000
150.000
210.000
500.000
Dicembre 2001
Dicembre 2001
Dicembre 2001
Dicembre 2001
Dicembre 2001
Dicembre 2001
Scade parte economica
Scade parte economica
Scade parte economica
Scade parte economica
Scade parte economica
Scade parte economica
350.000
210.000
110.000
100.000
Dicembre 2001
Dicembre 2001
Dicembre 2001
Dicembre 2002
Scade il contratto (parti economica e normativa)
Scade il contratto (parti economica e normativa)
Scade parte economica
Scade parte economica del nuovo contratto di settore
Industria
Alimentare
Carta e cartotecnici
270.000
n.d.
Maggio 2001
Giugno 2001
Elettrici
110.000
Ferrovie dello Stato
Contratti con scadenza successiva
Industria
Calzature
Chimico
Edili
Gomma, plastica
Legno
Tessili
Servizi vendibili
Turismo
Credito
Autotrasporto merci
Telecomunicazioni
Contratti conclusi fra novembre 2000 e
luglio 2001
Olearia-margariniera
Meccanico
Terme
n.d.
1.500.000
n.d.
Servizi vendibili
Autoferrotranvieri
Commercio
139.000
1.650.000
Poste
189.000
Pulizie
450.000
Pubblico impiego
Scuola
Rinnovato a giugno il secondo biennio economico
Rinnovata a luglio sia la parte economica che normativa
Rinnovata a luglio sia la parte economica che normativa
Dicembre 1998
con la definizione di un contratto unico di settore
Aprile 2001
Rinnovato ad aprile il secondo biennio economico
Rinnovato a luglio il secondo biennio economico 2001Dicembre 2000
2002
Rinnovato a luglio il secondo biennio economico 2001Giugno 2001
2002
Rinnovata a dicembre sia la parte economica che
normativa
Rinnovato a luglio il secondo biennio economico 2001Dicembre 2000
2002
Rinnovata a gennaio sia la parte economica che
Dicembre 1997
normativa
Rinnovata a maggio sia la parte economica che
Aprile 1999
normativa
Dicembre 1999
1.100.000
Dicembre 1999
Dirigenti pubblici
155.000
Dicembre 1997
Ministeri
270.000
Dicembre 1999
Enti locali
650.000
Dicembre 2000
Sanità
550.000
Dicembre 1999
62.000
Dicembre 1999
Enti pubblici non economici
72
Rinnovato a febbraio il secondo biennio economico 20002001
Rinnovata a marzo sia la parte economica che
normativa per il quadriennio 1998-2001
Rinnovato a marzo il secondo biennio economico 20002001
Rinnovato ad aprile il secondo biennio economico 20002001
Rinnovato a maggio il secondo biennio economico 20002001
Rinnovato a maggio il secondo biennio economico 20002001
3.3
Prezzi, costi e margini
I prezzi nell’area dell’euro. L’inflazione media nei 12 paesi dell’area
dell’euro è passata dal 2,3% del 2000 al 2,5 e 3,1% rispettivamente nel primo
e secondo trimestre di quest’anno, raggiungendo un massimo al 3,4% a
maggio. L’accelerazione è imputabile principalmente alle nuove tensioni sul
prezzo del petrolio e alla crisi che ha colpito il settore alimentare; hanno
pesato anche gli effetti di “secondo ordine” sull’inflazione core (calcolata cioè
al netto dei prodotti alimentari freschi e degli energetici) dei rincari dei beni
energetici registrati nel corso del 2000 (tab. 12).
Tab. 12 - Inflazione nell’area dell’euro
(Indice armonizzato; variazioni % tendenziali)
Prodotti
Indice generale
Indice generale esclusi alimentari freschi e
energia
Beni
Alimentari, alcool e tabacco
Alimentari conservati, alcool e tabacco
Alimentari freschi
Beni industriali
Beni industriali non energetici
Energia
Servizi
(1) Variazione media annua.
2000
(1)
2,3
2000
2001
III
IV
I
II Lugtrim. trim. trim. trim. Ago
2,5
2,7
2,5
3,1
2,8
1,3
1,3
1,4
1,8
2,1
2,2
2,7
1,4
1,1
1,7
3,4
0,7
13,3
1,7
2,9
1,9
1,2
3,1
3,4
0,7
13,7
1,8
3,2
2,2
1,3
3,5
3,7
1,0
13,7
1,9
2,8
3,3
1,9
5,3
2,5
1,2
7,2
2,2
3,6
5,0
2,8
8,5
2,8
1,5
7,3
2,5
2,9
5,2
3,3
8,2
1,7
1,5
2,5
2,6
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.
Le tensioni hanno iniziato gradualmente ad attenuarsi a partire da giugno,
quando l’inflazione è scesa al 3% e poi ulteriormente al 2,8% a luglio e al 2,7%
ad agosto. I prezzi dei beni energetici sono scesi dello 0,3% a giugno, dell’1,8%
a luglio e ancora dello 0,9% ad agosto, quelli dei prodotti alimentari non
trasformati dello 0,5% a luglio e dell’1,3% ad agosto. Anche la tendenza
all’aumento della core inflation mostra primi segnali di rallentamento:
l’indice è aumentato in media dello 0,2% nel bimestre luglio-agosto dopo
essere cresciuto mediamente dello 0,3% nei primi sei mesi dell’anno.
Sembrano dunque gradualmente esaurirsi gli effetti di “secondo ordine”
sull’inflazione core dei rincari dei prezzi internazionali registrati nel corso del
2000. Indicazioni in tal senso vengono anche dall’andamento dell’inflazione
alla produzione: dopo i massimi toccati nell’ultimo trimestre dello scorso
anno, i prezzi alla produzione hanno mostrato segnali di rallentamento nei
primi sette mesi dell’anno e la loro crescita tendenziale è passata dal +4,6% di
febbraio al +2,3% di luglio. La discesa dei prezzi industriali riflette
essenzialmente quella dei prezzi dei beni intermedi ed energetici il cui tasso
di crescita tendenziale è passato rispettivamente dal 4,1% e 11,2% di febbraio
allo 0,8% e 4,0% di luglio (tab. 13). Fino agli attacchi terroristici dell’11
settembre, e ai conseguenti timori di un’impennata dei prezzi delle materie
prime, anche le attese delle imprese erano volte a un rallentamento dei prezzi
industriali (fig. 21).
73
Fig. 21
ATTESE DI AUMENTO DEI PREZZI INDUSTRIALI
(Saldi delle risposte; dati destagionalizzati)
30
20
10
0
-10
Area dell'euro
Germania
Spagna
Francia
Italia
-20
-30
1999
2000
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.
2001
Tab. 13 - Prezzi alla produzione nell'area dell'euro
(variazioni % tendenziali)
Prodotti
Indice generale
Beni intermedi
Beni energetici
Beni di consumo durevole
Beni di consumo non durevole
Febbraio
4,6
4,1
11,2
2,1
3,3
Marzo
4,2
3,5
9,2
2,2
3,8
2001
Aprile Maggio Giugno Luglio
4,2
3,7
3,3
2,3
2,6
1,9
1,5
0,8
11,0
9,4
7,1
4,0
2,3
2,3
2,3
2,2
3,9
3,7
3,7
3,6
Fonte: Eurostat.
L’inflazione e i costi unitari in Italia. Nel primo semestre di quest’anno,
anche in Italia i rincari registrati nei prodotti alimentari (+3,4%; +5% per i
soli beni di origine animale) ed energetici (+8,7%) e gli effetti di “secondo
ordine” sull’inflazione di fondo dei rincari dei prezzi internazionali registrati
lo scorso anno hanno spinto al rialzo l’indice dei prezzi al consumo per l’intera
collettività nazionale2. L’inflazione è salita al 3% nella media dei primi sei
mesi dell’anno dal 2,5% medio del 2000. Analogamente a quanto visto per
L’indice per l’intera collettività nazionale (Nic) si differenzia da quello armonizzato
(Ipca) principalmente per la diversa definizione di prezzo adottata: nel caso in cui il
prezzo di vendita di alcune voci sia diverso da quello effettivamente pagato dal
consumatore (è il caso di alcuni medicinali, per i quali c’è un contributo da parte del
sistema sanitario nazionale) l’indice Nic considera il prezzo pieno di vendita, quello
Ipca il prezzo effettivamente pagato. Sussistono inoltre differenze di minore rilevanza
nella composizione dei panieri.
2
74
l’intera area dell’euro, le tensioni si sono gradualmente allentate all’inizio e
durante l’estate; ad agosto l’inflazione si è attestata al 2,8% e la variazione
mensile corretta per la stagionalità è scesa allo 0,1% dallo 0,3% di giugno. A
settembre l’inflazione è ulteriormente scesa al 2,6% sulla base delle
anticipazioni delle città campione.
Come per l’area dell’euro, la discesa dell’inflazione negli ultimi mesi è dovuta
all’andamento dei prezzi dei prodotti energetici e degli alimentari freschi, che
secondo l’indice armonizzato Eurostat sono diminuiti in media nel bimestre
luglio-agosto rispettivamente dell’1,5% e dello 0,1%. Anche l’inflazione core ha
mostrato segni di rallentamento aumentando mediamente dello 0,2% nel
bimestre luglio-agosto dopo essere cresciuta in media dello 0,3% nel primo
semestre (tab. 14).
Tab. 14 - Inflazione in Italia
(Indice armonizzato; variazioni % tendenziali)
Prodotti
2000
(1)
Indice generale
2,6
Indice generale esclusi alimentari freschi e
1,9
energia
Beni
2,7
Alimentari, alcool e tabacco
1,5
Alimentari conservati, alcool e tabacco
1,3
Alimentari freschi
1,8
Beni industriali
3,3
Beni industriali non energetici
1,7
Energia
11,6
Servizi
2,3
(1) Variazione media annua.
2000
III
IV
trim.
Trim.
2,6
2,8
I
trim.
2,7
2001
II
trim.
2,9
LugAgo
2,8
1,9
2,0
2,0
2,5
2,6
2,9
1,8
1,1
2,5
3,5
1,7
12,5
2,3
3,1
2,2
1,3
3,4
3,5
2,0
11,8
2,2
2,8
2,9
1,5
4,9
2,8
1,9
7,5
2,5
2,9
3,9
2,6
5,5
2,4
1,9
5,0
3,1
2,5
4,5
2,9
6,8
1,6
1,9
0,1
3,2
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.
Il differenziale tra Italia e area dell’euro in termini di core inflation, ridottosi
a soli 0,2 punti percentuali in marzo (nel 2000 la differenza è stata
mediamente dello 0,7%), è tornato ad ampliarsi a partire dai mesi
primaverili, principalmente a causa della crescita maggiore rispetto alla
media europea registrata dai prezzi dei servizi (fig. 22). Il differenziale a
sfavore dell’Italia nell’andamento dei prezzi dei servizi, ridottosi tra gennaio
e marzo, è aumentato di nuovo nel secondo trimestre; ciò sembra essere
essenzialmente l’effetto dei forti rincari registrati nelle assicurazioni a causa
del venire meno del blocco delle tariffe. Nel bimestre luglio-agosto in Italia la
discesa dei prezzi del capitolo comunicazioni è stata simile a quella registrata
nella media dell’area euro, dopo che il differenziale era stato costantemente
sfavorevole all’Italia a partire dal 1997 . Si è anche ridotto nel corso del 2001
il differenziale nei prezzi dei beni industriali non energetici: per questi ultimi,
l’inflazione ad agosto è stata pari all’1,9% contro l’1,5% dell’area euro (+1,7 e
+0,7% rispettivamente nella media del 2000).
75
Fig. 22
DIFFERENZIALI DEI TASSI DI INFLAZIONE
FRA ITALIA E AREA DELL'EURO
(Indice armonizzato dei prezzi al consumo)
1.4
1.0
0.6
0.2
Indice generale
Core inflation
-0.2
-0.6
1997
1998
1999
2000
2001
2.0
1.5
1.0
0.5
0.0
-0.5
-1.0
-1.5
76
Alimentari trasformati, alcool e tabacco
Beni industriali non energetici
Servizi
1997
1998
1999
Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat.
2000
2001
Fig. 23
PREZZI IN LIRE DELLE MATERIE PRIME
(Indici 1977=100)
700
600
Totale
Combustibili
Totale esclusi i combustibili
500
400
300
200
100
1995
1996
Fonte: Confindustria.
1997
1998
1999
2000
2001
L’andamento recente dei prezzi internazionali delle materie prime e, in Italia,
di quelli alla produzione ha mostrato un progressivo allentamento delle
tensioni inflazionistiche. Il prezzo del petrolio è sceso ad agosto a 25,8 dollari
al barile, circa il 9,1% in meno rispetto ai massimi dell’anno dello scorso
maggio, con un calo del 2,3% rispetto alla media del primo semestre; i prezzi
in lire delle materie prime ad agosto risultavano in calo del 2,9% rispetto ad
un anno prima e del 4,2% rispetto alla media del primo semestre di
quest’anno (fig. 23). La discesa dei prezzi delle materie prime in lire è favorita
anche dall’apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro (+5,6 ad agosto rispetto
ai minimi dello scorso giugno). I prezzi alla produzione a luglio sono calati per
il terzo mese consecutivo (-0,4%, dopo il -0,2 di giugno e il -0,4% di maggio),
portando la variazione tendenziale all’1,4%, la più bassa dal settembre 1999.
La discesa è guidata dai beni intermedi (-0,8 a luglio dopo il -0,5 e -0,4%
rispettivamente di maggio e giugno), che in genere anticipano l’andamento
dei prezzi dei beni finali. Le più recenti inchieste Isae mostrano attese di
decelerazione dei prezzi industriali nei prossimi mesi.
I costi e i margini. Nella media del 2000, i costi unitari variabili
nell’industria in senso stretto sono aumentati del 6,3%, a causa soprattutto
della forte crescita dei prezzi degli input (+8,6%, +4,5% sull’interno e +20,8%
all’importazione), solo in parte compensata dall’andamento moderato del
costo del lavoro per unità di prodotto (+0,4% nella media dell’anno). La
contemporanea crescita del 6,4% del deflatore dell’output industriale (+7% i
77
prezzi all’export e +5,7% quelli interni) ha determinato un leggero aumento
del markup unitario, salito in media d’anno a quota 99,4 (base 1995=100; era
a 99,3 nel 1999, fig. 24). Nel corso del 2000, la crescita del prezzo dell’output
industriale ha decelerato leggermente in termini congiunturali (+2,8% nel
secondo semestre contro il +3,3% del primo), mentre i costi unitari hanno
continuato ad accelerare (+3,2% nel secondo semestre contro il +3% del primo
semestre). Il markup è quindi salito a quota 99,6 nei primi sei mesi dell’anno,
per tornare poi nel secondo semestre sugli stessi livelli della fine del 1999, a
quota 99,2.
La tendenza all’accelerazione dei costi si è arrestata all’inizio del 2001: nel
primo trimestre, il deflatore dei prezzi degli input per l’industria in senso
stretto è diminuito dello 0,9% rispetto al periodo precedente e il costo del
lavoro per unità di prodotto è sceso dello 0,6%. Mediamente i costi unitari
variabili sono calati dello 0,8%. Anche i prezzi dell’output sono diminuiti, ma
a ritmi inferiori rispetto ai costi (-0,2%): il markup unitario è così tornato ad
aumentare, riportandosi in prossimità dei livelli del primo semestre dello
scorso anno, a quota 99,5.
Sulla base delle informazioni sull’andamento dei prezzi alla produzione (cfr.
sopra), è possibile ipotizzare che la discesa dei prezzi dell’output sia
proseguita anche nel secondo trimestre; in tale direzione puntano anche i
recenti andamenti dei valori medi unitari all’esportazione (cfr. oltre). Dal lato
dei costi, gli andamenti dei prezzi delle materie prime sui mercati
internazionali e del cambio dell’euro hanno favorito nei mesi estivi la discesa
dei prezzi degli input; è possibile però attendersi un’inversione di tendenza
per quanto riguarda il costo del lavoro per unità di prodotto. Sulla base delle
informazioni sinora disponibili, la caduta del valore aggiunto industriale nel
secondo trimestre si è accompagnata ad una sostanziale stazionarietà
dell’occupazione, determinando una diminuzione della produttività del lavoro;
l’andamento del costo del lavoro per dipendente dovrebbe avere d’altra parte
iniziato a risentire della stipula dei nuovi contratti in importanti settori
dell’economia (cfr. par. 3.2). Sulla base di tali considerazioni, è possibile
attendersi un calo del markup unitario nel secondo trimestre.
78
Fig. 24
COSTI UNITARI VARIABILI NELL'INDUSTRIA IN SENSO STRETTO
(Indici: Base 1995=100)
115
110
105
100
Prezzi input
95
1995
1996
Fonte: Istat.
1997
Clup
1998
Costi unitari variabili
1999
2000
2001
MARKUP NELL'INDUSTRIA IN SENSO STRETTO
(Indici: Base 1995=100)
100.4
100.2
100.0
99.8
99.6
99.4
99.2
99.0
98.8
1995
1996
Fonte: Istat.
1997
1998
1999
2000
2001
79
3.4
I conti con l’estero
Commercio mondiale e esportazioni nette reali. Nel secondo trimestre
del 2001 è proseguito il rallentamento degli scambi mondiali. Sulla base dei
primi dati di export e import dei principali paesi industriali, il tasso di
crescita del commercio sarebbe sceso al di sotto del 3% nel II trimestre di
quest’anno dal 5,5% stimato per il I trimestre (fig. 25). Nella prima parte
dell’anno l’espansione del commercio dell’area dell’euro è risultata di quasi
due punti percentuali superiore a quella del resto del mondo grazie agli
scambi interni all’area (3,9% nel primo semestre 2001 per gli scambi
mondiali contro il 5,8% dell’area euro). Il commercio attivato dall’area
dell’euro è stato di ben quattro volte superiore a quello prodotti dagli Stati
Uniti e dal Giappone.
Le informazioni ancora molto limitate relative al III trimestre
sembrerebbero suggerire il mantenimento di ritmi di crescita del commercio
sui bassi livelli del II trimestre. La ripresa della domanda mondiale,
originariamente attesa per la fine dell’anno, è ora divenuta più incerta dopo
gli attacchi terroristici dell’11 settembre.
Per l’Italia l’attuale andamento delle esportazioni indicherebbe un parziale
recupero delle quote di mercato nei primi tre trimestri del 2001 nei confronti
dei mercati extra-Ue. Sulla base di dati ancora parziali nella prima parte
del 2001 le esportazioni italiane sono cresciute rispetto al primo semestre
del 2000 del 10,7% contro il 4% del commercio mondiale. Il recupero di quote
è legato a fattori sia di tipo congiunturale che alla struttura delle
esportazioni italiane. Tra i fattori ciclici, l’indebolimento dell’euro per tutta
la prima metà dell’anno ha consentito agli esportatori italiani di aumentare
i prezzi all’export in misura inferiore al deprezzamento della valuta,
rendendo così più competitivi i prodotti nazionali. In più, il recupero delle
esportazioni italiane nei confronti del resto del mondo può essere in parte
spiegato dal fatto che il crollo della domanda mondiale e degli investimenti
si è concentrato nel settore hi-tech, in cui l’Italia ricopre un ruolo marginale.
Le esportazioni reali di beni e sevizi dell’area dell’euro sono cresciute nel I
trimestre dello 0,3% rispetto al IV trimestre del 2000 (+8,6% sul I trimestre
del 2000). Sulla base di stime ancora preliminari fornite da Eurostat sui dati
di Contabilità nazionale dell’area dell’euro, le esportazioni reali avrebbero
subito una flessione dell’1,2% nel II trimestre del 2001 rispetto al I
trimestre (+4,8% sul secondo trimestre del 2000). Per quello che riguarda
l’Italia, il profilo delle esportazioni reali di beni e servizi è risultato sin ora
migliore rispetto alle valutazioni effettuate lo scorso giugno. Esse sono
cresciute nel I trimestre del 2001 dell’1,4% rispetto al IV trimestre del 2000
(+12,6% sul I trimestre del 2000). Nel II trimestre è intervenuta una
consistente flessione delle esportazioni in quantità: le prime stime dell’Istat
indicano una caduta dell’1,3% sul trimestre precedente (+1,4% nel I
trimestre 2001).
80
Fig. 25
TOTALE SCAMBI DEI PRINCIPALI PAESI INDUSTRIALI
(Variazioni %)
15
10
5
0
-5
-10
Totale scambi
Stati Uniti
Giappone
Area euro
1996
1997
1998
1999
2000
2001
I paesi considerati nel calcolo del commercio sono: Stati Uniti, Giappone,
Euro 11, Regno Unito, Nics.
Fonte: elaborazioni Csc su dati Thomson Financial.
Le importazioni reali di beni e servizi dell’area dell’euro sono scese nel I
trimestre del 2001 dell’1,1% (+6,5% sul I trimestre del 2000). Le stime per il
II trimestre indicano una ulteriore flessione pari allo 0,6% (+3,1% sul II
trimestre del 2000). Nella prima parte dell’anno la brusca caduta delle
importazioni appare più legata al ciclo delle scorte, in forte decumulo, che
alla dinamica della domanda interna. Rispetto alle informazioni dello scorso
giugno, le recenti indagini sul clima di fiducia mostrano un maggiore grado
di incertezza in merito ad una rapida ripresa delle componenti della
domanda, soprattutto sul fronte dei beni di investimento: questo si riflette,
nelle nostre stime, in un ridimensionamento del tasso di crescita delle
importazioni dell’area che non supererà probabilmente il 5% quest’anno
(contro il 6,5% stimato a giugno).
In Italia le importazioni reali di beni e servizi sono cresciute dell’1,5% nel I
trimestre del 2001 rispetto al IV trimestre del 2000 (+7,6% sul I trimestre
del 2000), ad un ritmo leggermente superiore a quello della media europea.
Nel II trimestre esse sono diminuite dello 0,2% (+2,6% sul II trimestre del
2000).
Nel primo trimestre del 2001 le esportazioni nette reali hanno contribuito
per lo 0,5% alla crescita del Pil dell’area dell’euro. Su questo risultato hanno
influito l’andamento della Germania (con un contributo delle esportazioni
nette pari all’1,2%) e della Francia (con un contributo dello 0,4%); nei
restanti paesi dell’area il contributo è stato nullo o negativo. In Italia il
contributo delle esportazioni nette alla crescita del Pil del I trimestre è stato
81
Fig. 26
ESPORTAZIONI ITALIANE DI BENI
(Dati destagionalizzati; var. % congiunturali)
10
5
0
-5
verso UE
verso extra UE
-10
G
F
M
Fonte: Istat.
A M G L
2000
A
S
O
N
D
G
F
M A M
2001
G
nullo, mentre è stato negativo (-0,3%) nel II trimestre del 2001. Anche per
l’area dell’euro le stime Eurostat relative al II trimestre indicano un
contributo negativo pari allo 0,3%.
Il conto corrente. Nel primo semestre del 2001 l’avanzo commerciale
dell’area dell’euro, e in particolare dell’Italia è aumentato in maniera
considerevole. Nell’area dell’euro il saldo merci è stato positivo per 26,3
miliardi di euro (14,4 miliardi di euro in più rispetto al primo semestre
2000). In Italia esso è stato positivo per 7,5 miliardi di euro (4,4 miliardi in
più rispetto al primo semestre 2000). In Italia il miglioramento dei saldi
riflette gli effetti ritardati del deprezzamento dell’euro sulle quantità
scambiate e la discesa del prezzo del petrolio.
Nei confronti dei paesi extra Ue il saldo del primo semestre 2001 calcolato
dall’Istat sui dati doganali è stato pari a 1,2 miliardi di euro (682,7 milioni
di euro nel primo semestre del 2000): il miglioramento dell’avanzo è stato
più forte nei confronti dei paesi dell’Efta, del Mercosur e dell’Europa Centro
Orientale (fig. 26). Lo scorso luglio l’avanzo commerciale nei confronti dei
paesi extra Ue ha subito un lieve arretramento. Rispetto a giugno 2001, al
netto della stagionalità, le esportazioni sono diminuite del 4,4% e le
importazioni sono diminuite dello 0,7%.
82
Nel primo trimestre del 2001 le ragioni di scambio italiane sono migliorate
dell’1,3% rispetto al trimestre precedente: i valori medi unitari all’import
sono diminuiti dell’1,8% mentre quelli all’export hanno subito una flessione
dello 0,5%. Sulla base di dati ancora parziali il miglioramento delle ragioni
di scambio dovrebbe essere proseguito anche nel II trimestre del 2001. Le
nostre stime indicano un incremento del 2,3% sul primo trimestre ottenuto
da un incremento dei valori medi unitari all’export pari all’1,7% e da una
ulteriore flessione dei valori medi unitari all’import dello 0,6%. Questi
andamenti si legano alla flessione dei prezzi delle materie prime
intervenuta in modo considerevole nello scorso trimestre e a un cambio con
il dollaro che sino ad agosto ha continuato ad essere favorevole agli
esportatori italiani ed europei. Il miglioramento delle ragioni di scambio ha
consentito di ottenere un saldo merci in progressivo miglioramento nella
prima parte dell’anno, grazie soprattutto agli scambi esterni all’area
dell’euro.
Nel primo semestre dell’anno il saldo della bilancia commerciale della
Germania è stato positivo per 39,8 miliardi di euro con un miglioramento di
7,1 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il buon
andamento dei saldi in Germania non sembra però derivare tanto dal
miglioramento delle ragioni di scambio (contrariamente a ciò che sembra
avvenire in Italia dove il recupero delle ragioni di scambio continua a essere
maggiore che in Germania; cfr. fig. 27) quanto da una caduta delle
importazioni in quantità che supera notevolmente quella delle esportazioni.
Le informazioni più recenti relative al dettaglio dell’interscambio settoriale
e geografico dell’Italia si fermano al I trimestre del 2001. In questo arco di
tempo il surplus manifatturiero nei confronti dei paesi extra euro è stato di
9,6 miliardi di euro (8,9 nello stesso periodo del 2000): il maggior avanzo è
stato realizzato nei confronti di Brasile, Messico e Russia. Il miglioramento
dei saldi ha riguardato il settore delle macchine e degli apparecchi meccanici
(soprattutto nei confronti di Stati Uniti, Cina e Europa Centro Orientale), il
settore tessile e dell’abbigliamento e dei prodotti in cuoio e in pelle.
Il saldo del totale manifatturiero nei confronti dei paesi dell’area dell’euro è
risultato ancora negativo per 0,8 miliardi di euro (-1,5 miliardi nello stesso
periodo del 2000; cfr. tab. 15). Su questo risultato ha pesato soprattutto
l’interscambio dei prodotti chimici, delle macchine elettriche e di precisione,
dei mezzi di trasporto e dei prodotti alimentari. Nel primo trimestre del
2001 i saldi positivi che caratterizzano la manifattura tradizionale italiana
sono migliorati solo nel settore della lavorazione del cuoio e della pelle
rispetto al primo trimestre 2000. I prodotti del “made in Italy” sembrano
tenere in misura maggiore all’esterno piuttosto che all’interno dell’area
dell’euro. Tuttavia, la caduta della domanda e la svalutazione delle divise
nei paesi asiatici stanno influendo negativamente sui saldi commerciali di
alcuni settori, come il chimico e il siderurgico.
83
Tab. 15 - Saldi dell’attività manifatturiera
(Milioni di euro)
Classificazione Ateco
A-PRODOTTI DELL'AGRICOLTURA,
CACCIA E SILVICOLTURA
CA-MINERALI ENERGETICI
CB-MINERALI NON ENERGETICI
D-PRODOTTI TRASFORMATI E
MANUFATTI
DA-Prodotti alimentari, bevande e tabacco
DB-Prodotti dell'industria tessile e
abbigliamento
DC-Cuoio e prodotti in cuoio, pelli e
similari
DD-Legno e prodotti in legno
DE-Pasta da carta, carta e prodotti di
carta; prodotti di editoria e stampa
DF-Coke, Prodotti petroliferi raffinati e
combustibili nucleari
DG-Prodotti chimici e fibre sintetiche e
artificiali
DH-Articoli in gomma e materie plastiche
DI-Prodotti della lavorazione di minerali
non metalliferi
DJ-Metalli e prodotti in metallo
DK-Macchine ed apparecchi meccanici
DL-Macchine ed apparecchiature
elettriche, ottiche e di precisione
DM-Mezzi di trasporto
DN-Altri prodotti delle industrie
manifatturiere
E-ENERGIA ELETTRICA,GAS E ACQUA
ALTRI
TOTALE
Area euro
1999
2000
2000(*)
-1721,6 -1650,4
-223,1
2001(*)
-177,8
1999
-3194,4
Area extra euro
2000
2000(*)
-3626,6
-650,2
2001(*)
-552,2
-237,9
-796,3
-165,7
-189,9
-1861,5 -6144,6
-155,0
-21,6
2530,1
-194,8
-33,7
-544,6
-13270,2
-1139,0
36111,1
-26496,5
-1547,4
42835,9
-3668,8
-232,5
1431,9
-4551,5
-240,5
5561,3
-4537,1 -5273,2
7261,7 7530,7
-373,9
1452,6
-744,9
1241,7
943,1
5463,0
1273,6
6317,9
-55,9
406,9
38,4
858,5
3490,3
3544,1
555,8
684,6
3453,2
4126,9
484,9
635,5
-783,9
-683,2
-921,7
-645,5
-78,1
-4,6
-122,3
-116,8
-867,5
-509,4
-944,6
-653,9
-198,7
-215,1
-174,2
-124,9
284,6
535,4
89,3
106,3
-841,9
-752,8
-274,7
-96,2
-9516,0
-10352
-1249,9
-1314,6
891,0
1340,1
-198,0
81,6
1792,6
2322,1
1856,1
2259,1
396,0
323,2
318,6
340,6
1643,2
3501,4
2077,0
4080,6
78,4
449,9
320,4
554,2
236,3
-322,4
8635,9 8500,3
-7122,3 -9426,8
388,3
1827,1
-927,1
-1,5
1322,7
-1583,4
-3072,9
18860,0
-2241,6
-4771,3
21556,2
-2335,8
-1259,3
2032,1
-831,0
-957,9
3342,7
-89,5
-7487,2 -7680,3
4244,8 4251,4
-671,5
802,7
-1321,3
645,8
1761,8
7127,6
2736,8
8785,3
108,7
903,9
-38,0
1210,9
-471,4
-587,1
15
-415
-4442,9 -9782,9
-79,4
-46
2004,6
-118,2
-84
-1153,0
-928,9
890
18468,2
-890,0
903
11178,2
-153,9
121
-3152,0
-164,5
64
116,3
(*) Saldi cumulati 1° trimestre 2000-2001.
Fonte: Istat.
Nel primo semestre del 2001 il saldo di conto corrente dell’area dell’euro è
progressivamente migliorato: esso è stato pari a -11,2 miliardi di euro (-20,7
miliardi nella prima metà del 2000). Nello stesso periodo il saldo merci è
stato positivo per 26,3 miliari di euro (11,9 nei primi sei mesi del 2000),
quello dei servizi negativo per 2,3 miliardi di euro (-2,6 tra gennaio - giugno
2000). Il miglioramento del conto merci, che lo scorso giugno avevamo
stimato proseguire anche nella seconda metà dell’anno, risulta, nel nuovo
scenario, più incerto poiché legato ai corsi petroliferi, la cui domanda rimane
nel breve periodo rigida. Lo scorso 12 settembre il prezzo del petrolio ha
toccato i 30 dollari al barile per poi tornare ad oscillare tra i 27,5 e i 28
dollari. A compensazione di questi incrementi gli importatori italiani ed
europei potrebbero essere favoriti da un euro più forte nei confronti del
dollaro già a partire dai mesi autunnali.
Tra gennaio e giugno 2001 il saldo di conto corrente dell’Italia è stato pari a
-4 miliardi di euro (-5,8 miliardi di euro nel primo semestre del 2000): a
fronte di un consistente aumento del saldo del conto merci (7,5 miliardi di
84
Fig. 27
RAGIONI DI SCAMBIO IN ITALIA E GERMANIA
(Indici Base 1995=100, medie mobili a 3 termini)
110
105
100
95
Italia
Germania
90
1995
1996
1997
Fonte: Thomson Financial.
1998
1999
2000
2001
euro contro i 3,1 accumulati tra gennaio e giugno 2000), il saldo del conto
servizi è peggiorato di 1 miliardo di euro. Il disavanzo dei redditi da capitale
è peggiorato di 1,4 miliardi di euro.
Anche lo scorso luglio è proseguito il miglioramento del saldo di conto
corrente (+60 milioni di euro rispetto al luglio 2000). In modo difforme
rispetto alla dinamica dei mesi precedenti il miglioramento non è stato
determinato dal saldo merci ma dall’aumento del saldo servizi e dalla
riduzione dei saldi negativi dei redditi e dei trasferimenti unilaterali.
Il conto finanziario e gli investimenti diretti esteri. Nell’area dell’euro
l’avanzo del conto finanziario è stato pari a 4,5 miliardi di euro nei primi sei
mesi dell’anno (+49,6 nello stesso periodo del 2000). Le uscite nette hanno
principalmente riflesso maggiori deflussi netti di investimenti diretti (-91,1
miliardi di euro contro i +129,6 tra gennaio e giugno 2000). Questo deflusso
netto è da attribuire principalmente ad una singola acquisizione avvenuta
tramite uno scambio di azioni. Nella prima metà dell’anno gli investimenti
nell’area sono stati pari a 41,7 miliardi di euro, mentre gli europei hanno
investito all’estero per 132,8 miliardi di euro. Nel solo primo trimestre del
2001 dei 58,9 miliardi di euro investititi all’estero oltre due terzi si sono
rivolti agli Stati Uniti, prevalentemente da parte di Francia, Olanda e
Germania (fig. 28).
85
Fig. 28
FLUSSO DI INVESTIMENTI DIRETTI TRA STATI UNITI E AREA EURO
(Miliardi di dollari a prezzi correnti)
60
50
Area euro verso Usa
Usa verso area euro
40
30
20
10
0
-10
1995
1996
1997
1998
Fonte: US Bureau of Economic Analysis.
1999
2000
2001
Diversamente dall’andamento degli investimenti diretti i recenti dati sugli
investimenti di portafoglio suggerirebbero una progressiva diminuzione di
deflussi di fondi dall’area dell’euro. Inoltre, nella prima metà del 2001
sembra essersi modificato il profilo dei flussi di capitale. Infatti, gli
investimenti di portafoglio in titoli azionari hanno registrato un afflusso
netto di 63,8 miliardi di euro (-226 miliardi di euro nel primo semestre
2000). Per contro, gli strumenti di debito sono passati nello stesso periodo da
un afflusso netto nel 2000 ad un considerevole deflusso netto (di 70,3
miliardi di euro). Queste inversioni dei flussi di capitale sono in parte
riconducibili alle riduzioni effettuate e attese dei tassi negli Stati Uniti.
In Italia il saldo del conto finanziario è stato positivo per 3 miliardi di euro
nei primi sei mesi del 2001 (+9 nei primi sei mesi del 2000). In questo
periodo il flusso cumulato di investimenti diretti in entrata è stato pari a 7,7
miliardi di euro (4,26 tra gennaio e giugno 2000), quello in uscita pari a 16,2
miliardi di euro (2,5 tra gennaio e giugno 2000).
Nella prima metà del 2001 gli investimenti di portafoglio hanno evidenziato
afflussi netti per 5,8 miliardi di euro (-0,9 miliardi di euro bei primi sei mesi
del 2000). In particolare, gli operatori esteri hanno diminuito gli
investimenti su titoli di debito a medio/lungo termine ed hanno ridotto lo
smobilizzo di azioni italiane. Sui mercati esteri le operazioni dei residenti
86
hanno registrato una contrazione degli investimenti in azioni parzialmente
bilanciata da un aumento delle operazioni su titoli di debito a medio/lungo
termine.
Lo scorso luglio il conto finanziario ha presentato un saldo negativo di 3,1
miliardi di euro, rimanendo sostanzialmente invariato rispetto a quello
registrato nel corrispondente mese del 2000.
Il saldo degli investimenti di portafoglio potrebbe essere influenzato
all’inizio del 2002 da un provvedimento fiscale che sarà incluso nel
“pacchetto dei 100 giorni”. L’intento è di far rientrare i capitali italiani
esportati per motivi fiscali, in occasione del passaggio “fisico” all’euro. Il
provvedimento si configurerebbe come un’imposta sostitutiva, del tipo una
tantum, da applicare ai capitali non dichiarati al fisco al momento
dell’esportazione di cui sarebbe possibile avvalersi nei primi due mesi del
2002 (cfr. riquadro: I provvedimenti dei 100 giorni).
3.5 La politica monetaria
Nel corso del 2001, e prima dei fatti dell’11 settembre, il rapido
deterioramento del quadro economico aveva spinto la Banca Centrale
Europea a una modesta riduzione dei tassi di interesse ufficiali. Dopo il calo
di un quarto di punto intervenuto a metà maggio, che aveva portato il tasso
repo al 4,5%, la Bce era nuovamente intervenuta a fine agosto, abbassandolo
sempre di un quarto di punto, al 4,25%.
Il comunicato che accompagnava l’ultima riduzione dei tassi ufficiali
segnalava in qualche modo una svolta nell’atteggiamento di estrema cautela
con cui la Banca centrale procedeva nella riduzione dei tassi ufficiali. In un
momento in cui il quadro economico di riferimento si andava velocemente
deteriorando e in tutte le principali economie era stato intensificato il
processo di allentamento monetario (nello stesso arco di tempo la Federal
Reserve aveva ridotto il tasso sui Federal funds di 3 punti), la Bce, nel suo
comunicato, riconosceva implicitamente che i maggiori rischi per l’economia
dell’area dell’euro derivavano dal rallentamento congiunturale piuttosto che
dall’inflazione. Questo segnalava indirettamente la possibilità di nuove
riduzioni dei tassi ufficiali entro fine di questo anno a sostegno del ciclo
economico.
Nel nostro precedente scenario, che incorporava un apprezzamento del
cambio dell’euro, assumevamo un allentamento delle condizioni monetarie
in tempi stretti. A favore di un’ulteriore riduzione dei tassi ufficiali operava
la discesa dell’inflazione e l’aspettativa di un suo ritorno al di sotto del 2%
nel corso del 2002. Sul fronte dell’inflazione, infatti, le aspettative erano
radicalmente mutate, grazie al calo del prezzo del petrolio e al brusco
rallentamento dell’attività produttiva; inoltre, nella prima metà del
prossimo anno i consumi delle famiglie e gli investimenti avrebbero
continuato a risentire dell’effetto negativo della caduta dei corsi azionari
87
(che per l’area dell’euro il Fmi stima in circa due centesimi di riduzione sia
dei consumi sia degli investimenti per ogni dollaro di riduzione della
capitalizzazione di borsa).
L’accelerazione in corso della moneta M3, che dopo essere ritornata a
crescere a inizio anno attorno a tassi del 4,5% aveva ripreso ad accelerare,
non sembrava dover preoccupare più di tanto la Banca centrale. L’aumento
della crescita della moneta (che in parte riflette l’esistenza di distorsioni al
rialzo nel calcolo di M3 per circa tre quarti di punto) non sembrava infatti
preludere a futuri incrementi di inflazione: la rapida espansione monetaria
era infatti spiegata in larga parte da fattori finanziari piuttosto che reali; in
particolare essa segnalerebbe un aumento della preferenza per la liquidità
da parte degli investitori in presenza di condizioni di mercato più incerte.
I recenti avvenimenti negli Usa hanno spinto la Bce ad accelerare la
riduzione dei tassi. L’attacco terroristico ha infatti aumentato l’incertezza
sulle prospettive dell’economia globale, esercitando un’influenza negativa
sulla fiducia di imprese e famiglie anche nell’area dell’euro. Il 17 settembre,
come ricordato nel capitolo precedente, la Bce ha ridotto di mezzo punto, al
3,75%, il tasso repo, in evidente sintonia con la Federal Reserve; in
precedenza la Banca era intervenuta sul mercato mettendo a disposizione
degli istituti finanziari volumi più ingenti di liquidità.
Dopo la riduzione permangono sui mercati attese di ulteriori riduzioni dei
tassi di interesse. Nel giudizio dei mercati, l’effetto degli attacchi terroristici
sarà con ogni probabilità di condurre, nel breve periodo, a un’ulteriore
brusca caduta dell’attività produttiva negli Stati Uniti, le cui ripercussioni
si faranno sentire su tutta l’economia mondiale; queste ripercussioni
operano anche attraverso i mercati di borsa, che, come è stato descritto nel
capitolo precedente, hanno accusato in Europa delle flessioni addirittura
superiori a quelle registrate negli Stati Uniti. La stabilizzazione del prezzo
del petrolio, il proseguimento della moderazione salariale e la prevista
flessione anche nell’area dell’euro dell’attività produttiva, dovrebbe
condurre nel nostro nuovo scenario a una riduzione di almeno mezzo punto
dei tassi ufficiali; il tasso repo scenderebbe in questo modo al 3,25% entro
fine anno.
E’ evidente che sulle future decisioni di politica monetaria della Banca
centrale peseranno in misura ancor più rilevante del passato gli
orientamenti delle politiche di bilancio dei paesi membri. In un momento in
cui molti paesi dell’area dell’euro sono in difficoltà nel rispettare l’obiettivo
di bilancio del 2001, e alla luce dei mutamenti indotti al quadro economico
mondiale dagli eventi recenti, la Bce ha sottolineato (nel suo ultimo
bollettino economico) che il Patto di stabilità consente ai Paesi membri
margini di manovra e di flessibilità ancorché molto limitati. Fermo restando
che tutti i paesi devono proseguire sulla strada del risanamento fiscale
senza abbandonare le scadenze che si sono imposte per giungere al pareggio
di bilancio, la Bce ha chiarito in sostanza che la possibilità di usare
pienamente gli stabilizzatori automatici esiste solo per i paesi che hanno un
88
bilancio vicino al pareggio o in attivo; questo significa che gli altri paesi
dovranno limitare l’eventuale scostamento dai target di bilancio.
3.6
La finanza pubblica
Area euro. Nel 2001 il disavanzo pubblico dei paesi dell’area dell’euro
dovrebbe registrare un peggioramento più accentuato di quello che veniva
previsto qualche mese fa. Nell’aprile scorso la Commissione Ue stimava in
leggero aumento, da 0,7% del Pil nel 2000 a 0,8% nel 20013, l’indebitamento
netto della Pubblica Amministrazione (Pa) nel complesso dei paesi euro; la
media degli obiettivi dei programmi di stabilità stabiliva invece una discesa
a 0,6% del Pil. Il peggioramento era attribuito soprattutto al rallentamento
del ciclo economico e alle misure di riduzione della pressione fiscale adottate
in vari paesi e in gran parte rifletteva l’evoluzione negativa in cinque paesi:
Irlanda, Lussemburgo, Olanda e Finlandia, dove era prevista una riduzione
dell’avanzo, e Germania dove era previsto un aumento del disavanzo da 1 a
1,7% del Pil (anziché all’1,5% indicato dal programma tedesco di stabilità).
Per l’Italia la Commissione prevedeva una riduzione dell’indebitamento, da
1,5% del Pil nel 2000 a 1,3% nel 2001 (ma l’obiettivo indicato dal
programma italiano di stabilità era 0,8%).
Le analisi effettuate prima dell’11 settembre già convergevano nel prevedere
che nel 2001 il disavanzo pubblico dei paesi euro non avrebbe rispettato gli
obiettivi previsti. Secondo alcuni centri di analisi, il disavanzo dei medio
dell’area dell’euro potrebbe arrivare anche a 1,4% del Pil (tab. 16).
Particolarmente critica appare la posizione di Italia, Germania, Francia e
Portogallo, che presentano ancora un saldo di bilancio negativo e che molto
probabilmente non rispetteranno
gli obiettivi concordati con la
Commissione Ue. Riguardo la Germania, le previsioni governative indicano
che il rapporto deficit/Pil dovrebbe attestarsi intorno all’1,7%, un valore non
lontano dall’obiettivo; peraltro, il piano di stabilità della Germania già
incorporava il peggioramento del livello dell’indebitamento dovuto alla
riforma fiscale. Diversi centri di previsione stimano però che il disavanzo
tedesco potrebbe collocarsi intorno al 2% del Pil (tab. 16). Anche per la
Francia si prevede uno scarto di circa mezzo punto rispetto all’obiettivo
stabilito nel Patto di stabilità. Francia e Germania comunque confermano
l’obiettivo, di medio termine, di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2004.
La situazione dell’Italia si differenzia da quella tedesca e francese: allo
scostamento dall’obiettivo concordato, si aggiunge uno stock di debito di
gran lunga superiore a quello degli altri paesi.
Il peggioramento delle previsioni di finanza pubblica riflette, nella
maggioranza dei casi, la revisione al ribasso delle previsioni di crescita;
l’ulteriore deterioramento delle prospettive di crescita dell’economia
americana non potrà che peggiorare il quadro. I paesi europei dovranno far
fronte a incrementi nelle spese per la sicurezza e, data la fase ciclica,
3
Al netto dei proventi della vendita delle licenze Umts.
89
sarebbe controproducente aumentare la pressione fiscale. E’ quindi
probabile che nel 2002 il deficit di bilancio dei paesi euro non si ridurrà, ma
tenderà a rimanere sui livelli raggiunti nel 2001.
Il problema generale che si pone è legato all’operare degli stabilizzatori
automatici che, nelle fasi di rallentamento del ciclo economico, generano un
aumento del livello dell’indebitamento (o una diminuzione del surplus). La
situazione diventa particolarmente complessa proprio per i paesi che non
hanno ancora raggiunto una posizione di pareggio o di surplus di bilancio. In
questo caso infatti, per rispettare gli obiettivi stabiliti, dovrebbero essere
attuate politiche di bilancio pro-cicliche (es. tagliare la spesa, aumentare le
tasse o alternativamente sospendere eventuali sgravi fiscali già pianificati).
Così facendo, aumenterebbero le probabilità di raggiungere l’obiettivo
prefissato ma correrebbero il rischio che il rigore della politica fiscale generi
ulteriori effetti negativi sul ciclo economico.
Le regole poste dal Patto di stabilità non impediscono ai governi di lasciar
operare (nel breve termine) gli stabilizzatori automatici purché venga
rispettata la soglia del 3% del rapporto deficit/Pil4. Questa regola va letta
però contestualmente all’obiettivo di raggiungimento (nel medio termine)
del pareggio o surplus di bilancio: infatti nei paesi in cui le finanze
pubbliche sono già state risanate, la possibilità che l’operare degli
stabilizzatori automatici nei periodi di rallentamento economico possa
portare allo sfondamento del 3% è abbastanza limitata. Fatti, quindi, salvi
gli obiettivi di medio termine, rimane aperto il problema dell’ammissibilità
degli scostamenti dagli obiettivi di breve periodo (cioè dal sentiero di
aggiustamento), la cui valutazione rimane a discrezione della Commissione
e dell’Ecofin.
Un modo di affrontare il problema può essere di valutare le politiche di
bilancio utilizzando indicatori che depurino i livelli d’indebitamento dalle
fluttuazioni del ciclo. Tali indicatori, se usati con le dovute cautele, possono
contribuire a evidenziare la natura delle azioni poste in essere dai singoli
governi (se di tipo espansivo o di consolidamento) e possono pertanto essere
uno strumento utile per garantire che il meccanismo di sorveglianza
multilaterale funzioni in modo efficace. Il calcolo dei saldi strutturali di
bilancio (ovvero i saldi corretti per l’impatto congiunturale) comporta però
l’utilizzo di metodologie statistiche sulle quali vi sono ancora margini
incertezza.
Regole sono poste solo per il caso in cui il rapporto deficit/Pil superi il 3%: in tal
caso il paese in questione deve creare un deposito infruttifero da versare alla Ue.
Tale deposito è formato da una parte fissa, pari allo 0,2% del Pil e una variabile,
pari allo 0,1% del Pil per ogni punto percentuale o frazione di punto di sfondamento
rispetto al 3%. Fa eccezione il caso in cui il deficit eccessivo sia dovuto a cause
straordinarie: ovvero ad una calamità naturale o una recessione grave, definita
come una diminuzione del Pil di almeno il 2% reale annuo. Se la recessione è
compr esa fra lo 0,75% e il 2% del Pil, è l'Ecofin che decide se applicare o no le
sanzioni.
4
90
Tab. 16 – Programmi di stabilità e convergenza: obiettivi e previsioni a confronto
(saldi di bilancio in % del Pil)
Obiettivi
2002
0,3
-1
1,5
0,2
-0,6
3,8
-0,5
2,5
0,6
0,0
-0,7
4,4
-0,3
Ue1
(aprile 2001)
2001
0,5 (0,6)
-1,7
0,0
0,1
-1,1 (-0,6)
3,9
-1,3
4,0
0,8
-0,7
-1,5
5,3
-0,8 (-0,7)
2002
0,7
-1,2
0,6
0,2
-0,8
3,6
-1,0
3,0
1,4
0,0
-1,5
5,2
-0,4
Fmi2
(maggio 2001)
Belgio
Germania
Grecia
Spagna
Francia
Irlanda
Italia
Lussemburgo
Paesi Bassi
Austria
Portogallo
Finlandia
Area euro
2001
0,2
-1,5
0,5
0,0
-1,0
4,3
-0,8
2,6
0,7
-0,8
-1,1
4,7
-0,6
2001
0,3
-2,0
0,5
-0,6
3,7 (3,5)
-1,3 (-1,5)
4,2
0,7 (0,5)
-0,7
-1,5
5,5
-0,8
Danimarca
Svezia
Regno Unito
Eu-15
Fonte: 1. Previsioni
2,8
2,6
2,9 (3,2) 2,9
3,5
2.0
3,9
3,4
0,6
-0,1
1,0
0,9
-0,2
-0,1
-0,3 (0,2) 0,0
di primavera della Commissione Ue
2002
0,3
-1,5
1,2
0,2
-0,8
3,6
-1,2
4,6
1,0
-1,4
5,5
-0,6
Ocse3
(giugno 2001)
2001
0,7
-1,7
0,0
0,0
-0,5
4,5
-1,3
3,6
1,3
-0,6
-1,2
5,3
-0,6
2002
0,7
-1,2
0,7
0,1
-0,8
4,5
-1,2
3,4
1,6
0,0
-1,1
5,6
-0,4
GoldmanSachs
(luglio/agosto
2001)
2001
2002
-2,1
-1,8
0,0
0,2
-1,5
-1,7
-1,5
-1,0
1,0
1,3
-1,2
-0,9
JP Morgan
(agosto 2001)
2001
-2,1
0,8
-1,6
-2,3
-1,4
2,8
2,5
2,9
2,9
2,6
2,3
3,2
3,0
3,6
3,4
3,1
2,9
1,3
0,3
1,2
0,9
0,6
-0,2
-0,3
-0,3
-0,2
-0,1
(2001); i dati in parentesi sono gli aggiornamenti al 5
2002
-1,9
0,4
-1,6
-1,6
-1,2
luglio 2001; 2.
World Economic Outlook (Fmi); i dati in parentesi sono quelli relativi alla consultazioni effettuate dal Fmi in luglio e agosto
presso i rispettivi paesi; 3. Oecd Economic Outlook (Ocse).
Inoltre, il ricorso ai saldi strutturali non fornisce indicazioni su un altro
obiettivo importante: quello della stabilità nel tempo del risanamento dei
conti pubblici. Più in generale, quindi, nella valutazione delle politiche di
bilancio dei paesi membri da parte della Commissione, dovrebbe assumere
un maggior rilievo un’analisi della qualità del percorso di aggiustamento,
come è stato di recente sottolineato da esponenti politici di alcuni paesi
membri. A questo proposito l’evidenza empirica mostra che il ricorso a tagli
delle spese (basati su riforme strutturali) comporta un consolidamento più
duraturo delle finanze pubbliche rispetto ai casi in cui lo sforzo di
risanamento faccia leva sul lato delle entrate.
Italia: tendenziali 2001 e 2002. In Italia, il 2001 dovrebbe segnare una
battuta di arresto nel percorso di riduzione del disavanzo pubblico. Il non
favorevole andamento dei conti pubblici è segnalato dall’evoluzione del
fabbisogno del settore statale, che nei primi otto mesi dell'anno è risultato
pari a circa 41.000 miliardi, in riduzione rispetto ai 51.000 miliardi
registrati nel primo semestre, ma sempre superiore (+11.544 miliardi) al
fabbisogno del periodo gennaio-agosto 2000. Tra gennaio e luglio gli incassi
tributari dello Stato sono stati pari a 339.577 miliardi, con un incremento
del 6,1% rispetto ai primi sette mesi del 2000 (tab. 17). Sul confronto
temporale giocano però alcune discrepanze contabili: le entrate che a tutto
luglio risultavano giacenti in Tesoreria nei “Fondi della riscossione”, cioè
versate ma non ancora contabilizzate negli appropriati capitoli di Bilancio,
91
sono pari 8.967 miliardi contro i 21.887 dell’anno scorso. Al buon
andamento delle entrate si affianca un forte aumento delle uscite che,
sempre nei primi sette mesi, sono risultate pari a 419.734 miliardi, +10,9%
rispetto al corrispondente periodo del 2000.
Anche il fabbisogno del complesso delle Amministrazioni pubbliche risulta
in peggioramento. Nel primo semestre esso è risultato di 53.660 miliardi,
contro i circa 45.200 del corrispondente periodo dello scorso anno (tab.17).
Nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef) il
fabbisogno del settore pubblico per l’intero anno è previsto in 93.000
miliardi, 27.800 in più rispetto al 2000; se nei prossimi mesi risulteranno
però confermate le tendenze positive registrate nei mesi di estivi, il saldo
finale dell’anno potrebbe ridursi a 73-75.000 miliardi.
Tab. 17 – Italia, fabbisogno delle Amministrazione pubbliche
(miliardi di lire)
Voci
1999
2000
2001
gen-lug ago-dic. totale gen-lug ago-dic. totale gen-lug
(1) Entrate bilancio dello Stato
320.457 364.231 684.688 342.004 338.170 680.174 366.619
di cui: tributarie (*)
292.523 309.693 602.216 319.958 292.052 612.010 339.577
(2) Uscite bilancio dello Stato
383.639 366.764 750.403 378.375 324.612 702.987 419.734
correnti
349.837 301.373 651.210 342.123 293.541 635.664 365.658
in c/capitale
33.802 65.390
99.192 36.253 31.071 67.324 54.077
Saldo bilancio dello Stato (1-2)
-63.183
-2.532 -65.715 -36.373 13.560 -22.813 -53.116
Altre operazioni delle Amm. centrali
20.761 41.089
61.850
-8.732
-8.109 -16.841
di cui: Fondi speciali della riscossione (+)
44.423 -44.654
-231 21.887 -24.068
-2.181
8.967
I sem. II sem. Totale
I sem. II sem.
totale
I sem.
Fabbisogno Pa
-79.086 63.344 -15.742 -51.741
133 -51.609 -51.505
Dismissioni e altri proventi straordinari
786 43.053
43.839
120 29.831 29.951
8.365
Regolazione debiti pregressi
-4.518
-7.600 -12.118
-6.630
-2.275
-8.904
-6.221
Fabbisogno Pa netto
-75.354 27.891 -47.463 -45.231 -27.423 -72.656 -53.660
(*) Le entrate tributarie del bilancio dello Stato riportate in questa tavola non corrispondono all’ammontare dei
tributi erariali effettivamente versati. I flussi mensili sono, infatti, rilevati al momento della contabilizzazione in
bilancio che, dal maggio del 1998, non avviene più contestualmente al versamento. A partire da tale data, i
principali tributi erariali vengono versati in Tesoreria (nella contabilità speciale “Fondi della riscossione”) e solo
successivamente contabilizzati nei relativi capitoli del bilancio dello Stato.
(+) I flussi riportati in questa voce indicano le variazioni delle giacenze di entrate nella contabilità speciale. Un
flusso positivo indica un aumento delle giacenze (le entrate versate sono superiori a quelle contabilizzate in
bilancio). Un flusso negativo una riduzione delle giacenze (le contabilizzazioni superano i versamenti).
Fonte: elaborazione su dati Banca d’Italia.
Il Dpef per gli anni 2002-2006, presentato dal governo a metà luglio, stima
in 45.000 miliardi (1,9% del Pil) l’indebitamento tendenziale della Pa per
l´anno in corso, evidenziando un rilevante scostamento rispetto alle
previsioni formulate nella Relazione previsionale e programmatica (Rpp) del
settembre scorso (indebitamento pari a 19.500 miliardi, corrispondenti a
0,8% del Pil) e nella Relazione trimestrale (Rtc) di aprile 2001 (24.500
miliardi e 1% del Pil). Nelle previsioni del Dpef lo scostamento risulta in
gran parte determinato dalla revisione verso l’alto della crescita delle spese
(+23.500 rispetto alla Rpp, +19.500 rispetto alla Rtc, tab. 18), mentre le
entrate tendenziali complessive sarebbero solo marginalmente minori
rispetto a quelle inizialmente previste (-2.000 miliardi rispetto alla Rpp, 1.400 rispetto alla Rtc, tab.18).
92
Tab. 18 - Conto economico della Pa, previsioni e obiettivi per il 2001-2002
(in miliardi di lire)
2000
Consuntivo
2001
Rpp
Ott. 2000
ENTRATE
Correnti
Tributarie
- imposte dirette
- imposte indirette
Contributi sociali
Altre entrate correnti
In c/capitale
- non tributarie
- imposte in c/c
Entrate totali
di cui: fiscali
Pressione fiscale
USCITE
Correnti
Redditi lavoro dip.
Consumi intermedi,
pr. soc. in natura
Prestazioni sociali
Altre correnti
Interessi
In c/capitale
Uscite totali
Uscite corr. netto
interessi
Indebitamento netto
In % Pil
Saldo primario
In % Pil
1.024.095
668.067
326.883
341.184
287.344
68.684
8.585
1.066.800
703.710
347.100
356.610
290.390
72.700
18.300
16.100
1.032.680
955.411
42,3
1.085.100
994.100
984.353
235.874
Rtc
2002
Dpef lug. 2001
Apr. 2001 Tendenziale Programm.
Dpef lug. 2001
Tendenziale Programm.
1.068.500
696.500
336.000
360.500
300.000
72.000
16.000
13.800
2.200
1.084.500
998.700
42,0
1.071.600
696.900
345.000
351.900
300.200
74.500
11.500
17.000
1.083.100
998.800
42,0
998.600
42,0
1.010.400
243.100
1.022.000
246.000
1.036.400
247.300
1.074.700
250.300
161.346
377.115
63.892
146.126
82.637
1.066.990
156.500
398.900
68.100
143.800
94.200
1.104.600
166.500
394.000
67.000
148.500
87.000
1.109.000
173.700
394.300
67.700
153.400
91.700
1.128.100
184.300
414.700
74.000
151.400
92.100
1.166.800
838.227
866.600
873.500
883.000
-34.310
-1,5
111.816
5,0
-19.500
-0,8
124.300
5,3
-24.500
-1,0
124.000
5,2
-45.000
-1,9
108.400
4,6
148.500
90.700
1.112.300
726.700
357.000
369.700
310.000
75.600
12.300
10.700
1.600
1.124.600
1.038.300
41,7
17.300
1.053.500
42,0
150.800
96.100
923.300
-19.900
-0,8
128.600
5,4
-42.200
-1,7
109.200
4,4
-13.700
-0,5
137.100
5,5
Fonte: Dpef 2002-06, Relazione previsionale e Programmatica, settembre 2000; Relazione trimestrale di cassa, aprile
2001.
L’indebitamento netto sarebbe però molto inferiore al fabbisogno. Il Dpef
non scioglie il dubbio, sollevato dalla Banca d’Italia, se il crescente
sfasamento tra questi due saldi5 non rifletta solo una mera accelerazione dei
pagamenti e un rallentamento degli incassi, ma anche un peggioramento
strutturale dei conti, nel senso che la differenza possa essere in parte dovuta
a voci che non sono state ancora contabilizzate nella competenza. Il
Documento riporta una tavola che espone le poste contabili del raccordo fra
fabbisogno del settore pubblico e indebitamento della Pa, ma non fornisce
elementi di analisi che consentano una migliore comprensione di tale
raccordo e, soprattutto, che consentano di valutare il rischio che
l’indebitamento tendenziale per il 2001 risulti alla fine superiore all’1,9%
del Pil. Ci si limita a sottolineare che le voci del raccordo tra indebitamento
La differenza tra i due saldi era stata di 12-13.000 miliardi nel biennio 1998-99, è
salita a quasi 31.000 miliardi nel 2000 ed è prevista pari a 48.500 miliardi nel 2001.
5
93
netto di competenza e fabbisogno di cassa “contengono un elevato grado di
incertezza”.
Gran parte dello sfondamento degli obiettivi di spesa sarebbe dovuto alle
uscite per acquisti di beni e servizi della Pa e per prestazioni sociali in
natura,6 17.200 miliardi in più rispetto alle previsioni della Rpp (tab. 18);
questa voce di spesa era stata incrementata di 10.000 miliardi già con la
Relazione trimestrale di cassa di aprile. Non avrebbe finora dato i risultati
sperati la centralizzazione dei contratti per la fornitura di beni e servizi alla
Pubblica Amministrazione. Secondo dati del Ministero del Tesoro, il
risparmio ottenuto attraverso le convenzioni stipulate dalla Consip,
l’Agenzia istituita in attuazione delle disposizioni della Finanziaria 2000,
ammonterebbe a giugno 2001 a circa 400 miliardi per le amministrazioni
centrali e periferiche dello Stato, mentre risulterebbe trascurabile l’adesione
alle convenzioni da parte delle amministrazioni decentrate, che non hanno
un obbligo di legge in tal senso. I risparmi previsti dall’ultima legge
finanziaria per l’insieme delle amministrazioni pubbliche erano pari a 5.600
miliardi per il 2001.
Sulla crescita delle prestazioni sanitarie in natura hanno inciso l’aumento
della spesa per l’assistenza medico-specialistica e per l’assistenza
farmaceutica. La dinamica della spesa sanitaria complessiva è stata inoltre
accelerata dagli effetti economici dei rinnovi dei contratti di lavoro dei
dipendenti pubblici, che sono risultati particolarmente onerosi nel caso di
medici ed infermieri.7
L’aumento della spesa per prestazioni sanitarie in natura è in buona misura
riconducibile all’abolizione dei ticket farmaceutici: l’abolizione della
compartecipazione alla spesa ha direttamente incrementato la quota a
carico del Ssn e ha dato impulso ai consumi. Gli effetti finanziari erano
stati (dopo i rilievi della Camera ad una prima relazione tecnica al
provvedimento del governo) quantificati in 1.700 miliardi di maggiore spesa
per il 2001, ma tale stima teneva conto del solo effetto diretto dell’abolizione
del ticket e non anche degli effetti sui comportamenti degli utenti del
servizio. I dati relativi ai primi sei mesi di quest’anno indicano una crescita,
rispetto allo stesso periodo del 2000, del 36,5% (tab. 19). Se tale crescita si
confermasse per l’intero anno, si avrebbe una maggiore spesa (rispetto ai
1.700 miliardi previsti) di oltre 4.000 miliardi (il 3,2% del totale della spesa
sanitaria del 2000).
Queste ultime riguardano soprattutto l’assistenza sanitaria non ospedaliera:
assistenza farmaceutica, medicina generale e specialistica in convenzione,
assistenza ospedaliera in convenzione.
7 Si veda il rapporto di previsione del Csc di giugno scorso. Nel conto della Pa la
spesa per il personale dipendente del Ssn è già compresa nella voce ‘redditi da
lavoro’.
6
94
Tab. 19 – Spesa farmaceutica Ssn
1997
Spesa (miliardi di lire)
12.106
Var. %2
10,3
1998
13.166
8,8
1999
14.688
11,6
2000
16.949
15,4
20011
11.644
36,5
Numero ricette (milioni)
295,2
309,2
327,5
350,8
Var. %2
4,2
4,6
5,9
7,1
1) Primi sei mesi. 2) Rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
Fonte: elaborazione su dati Agenzia Servizi Sanitari Regionali.
216,1
19,1
Nel caso dell’assistenza medico-specialistica, agli effetti della graduale
abolizione di ogni forma di compartecipazione degli assistiti al costo delle
prestazioni specialistiche e di diagnostica strumentale, si è aggiunto il
rinnovo della convenzione. Una nuova accelerazione di questa tipologia di
spesa dovrebbe verificarsi nel 2002, come conseguenza dell’abbassamento da
70.000 a 23.000 lire del tetto massimo di compartecipazione a carico del
cittadino. Gli effetti finanziari del rinnovo della convenzione per la medicina
generale (medici generici e pediatri) si sono invece soprattutto esplicati nel
2000, con un aumento del 10,2% della spesa per l’assistenza medicogenerica.
L’accordo governo-regioni siglato l’8 agosto scorso ha deciso l’introduzione di
un tetto per la spesa farmaceutica pari al 13% del totale della spesa
sanitaria, un livello inferiore anche alla quota di 13,5% raggiunta dalla
spesa farmaceutica lo scorso anno, prima del provvedimento di abolizione
dei ticket. Misure analoghe furono sperimentate, senza successo, già nel
triennio 1998-2000. Il mancato rispetto del tetto, non incidendo
direttamente sul livello dei consumi, può essere sanzionato solo a posteriori
con provvedimenti di difficile attuazione pratica (come è stato il caso del
pay-back previsto con la Finanziaria 1998 e poi definitivamente accantonato
nel 2001) che penalizzano solo i produttori. I contenuti dell’accordo sono
stati recepiti dal decreto legge n. 347 del 18 settembre; in particolare, il
decreto stabilisce che il rispetto dei tetti di spesa sanitaria torna a costituire
uno dei vincoli del patto di stabilità interno.
E’ stato aumentato, portandolo a 138.000 miliardi, il livello di spesa
complessiva precedentemente stabilito per il 2001 fissando anche i nuovi
tetti per gli anni successivi (146.000 per il 2002, 152.000 per il 2003 e
157.000 per il 2004). Viene riaffermato il principio che le regioni dovranno
provvedere con mezzi e azioni proprie a eventuali sfondamenti dei tetti.
L’aumento della spesa a carico dello Stato per il finanziamento della sanità
sarà comunque subordinato al rispetto da parte delle regioni degli obblighi
informativi per il monitoraggio e a misure di contenimento della spesa, ivi
compresa l’adesione alle convenzioni per l’acquisto di beni e servizi.
Rilevante, sempre rispetto alle previsioni dell’ottobre scorso, è anche la
maggiore spesa per interessi, 9.600 miliardi, 4.900 in più rispetto alle
95
previsioni della Rtc di aprile (in cui già si stimava una maggior spesa per
interessi di 4.700 miliardi; cfr. tab. 18)8. Nei documenti ufficiali lo
scostamento viene attribuito alla dinamica del fabbisogno di cassa del
settore pubblico e alla conseguente maggior crescita dello stock di debito
pubblico. Alla crescita del debito avrebbero inoltre contribuito i minori
introiti per privatizzazioni e vendita degli immobili: lo scostamento è
valutato in 20-24.000 miliardi rispetto ai 65.000 stabiliti come obiettivo.
L’aumento complessivo dello stock del debito rispetto alle previsioni di
aprile si aggira quindi sui 40.000 miliardi, cifra che da sola non giustifica
l’aumento previsto della spesa per interessi.
La previsione relativa ai redditi da lavoro dipendente risulta incrementata
di 4.200 miliardi, soprattutto per effetto dei rinnovi contrattuali nel pubblico
impiego, risultati più onerosi del previsto. Anche tale risultato era stato in
parte anticipato nella Relazione trimestrale di aprile, che aveva elevato la
stima di spesa di 2.900 miliardi (tab. 18). L’ulteriore incremento stimato nel
Dpef è analogo a quello rilevato nella ricognizione sulla situazione dei conti
pubblici effettuata dalla Ragioneria dello Stato a fine maggio, che
prospettava i rischi connessi ai rinnovi contrattuali e alla applicazione di
alcune sentenze della Corte costituzionale e riteneva possibile una crescita
aggiuntiva (rispetto alle valutazioni della Rtc) pari a 1.500 miliardi del costo
del lavoro dei dipendenti pubblici. La crescita di tale voce di spesa che si è
registrata negli ultimi anni è dipesa sia dalla minore efficacia delle politiche
volte a ridurre il numero dei dipendenti, sia dalla crescita delle retribuzioni,
che nell’insieme hanno sistematicamente teso a debordare rispetto agli
obiettivi programmatici. In una prospettiva di controllo della spesa pubblica
? la spesa per il personale è una delle grandi voci di spesa e rappresenta il
20,5% della spesa totale ? ciò richiama l’opportunità di rivedere il sistema di
contrattazione del pubblico impiego (cfr. riquadro: Problemi del sistema di
contrattazione nel pubblico impiego).
Nel disegno di legge di legge di assestamento per il 2001 è previsto un incremento
per 4.800 miliardi delle spese per interessi iscritte nel bilancio dello Stato.
8
96
PROBLEMI DEL SISTEMA DI CONTRATTAZIONE
NEL PUBBLICO IMPIEGO
Il sistema di contrattazione introdotto dalla legge 29/1993 di riforma del rapporto di
lavoro dei dipendenti pubblici, che aveva certamente contribuito a ricondurre sotto
controllo la dinamica delle retribuzioni dei pubblici dipendenti nella prima tornata
contrattuale 1993-97, non è stato altrettanto efficace per i contratti relativi al
quadriennio 1998-2001. Un problema di fondo, da più parti sollevato, è quello
relativo al ruolo dell’Aran e alla reale autonomia della agenzia negoziale nei
confronti del governo. E’ apparso infatti problematico soprattutto il sistema di
determinazione delle risorse necessarie alla copertura dei costi dei rinnovi. Questi
vengono fissati in sede di Finanziaria, predeterminando così, almeno per gli aspetti
economici, gli esiti negoziali e finendo spesso per rappresentare solo una base
minima da cui partire per una trattativa al rialzo. In quest’ultima tornata
contrattuale poi, l’autonomia dell’Aran è stata ulteriormente messa in discussione
dalla decisione del governo di intervenire direttamente, concordando con il
sindacato ulteriori risorse rispetto a quelle stabilite nella Finanziaria per l’anno
2001, in particolare per la conclusione dei contratti del personale del servizio
sanitario e della scuola.
Altro elemento di preoccupazione sul versante del controllo della spesa viene da
alcune modifiche apportate (d.lgs. n. 396/1997, n. 80/1998, n. 387/1998) al sistema
contrattuale stabilito nella legge 29/1993. Mentre per le amministrazioni statali
l’ammontare delle risorse necessarie al rinnovo dei contratti resta affidata alla
Finanziaria, per le amministrazioni diverse da quelle statali, la Finanziaria si
limita a stabilire tetti massimi complessivi. Il rispetto dei vincoli e delle
compatibilità è sostanzialmente rimesso alla responsabilità delle singole
amministrazioni. Anche per questo aspetto, la maggiore autonomia che si è voluta
dare alle singole amministrazioni, in coerenza con la scelta di decentramento di
funzioni dallo Stato centrale, ove non trovi correttivi in una maggiore
responsabilizzazione finanziaria, potrebbe aprire la strada, soprattutto in sede di
contrattazione decentrata, a aumenti retributivi che non tengano conto delle reali
situazioni di bilancio degli enti decentrati. Questa preoccupazione è alla base anche
del parere negativo espresso a luglio dalla Corte dei Conti sul rinnovo del contratto
per il personale degli enti locali.
I rinnovi contrattuali recentemente stipulati dall’Aran, hanno inoltre modificato il
precedente sistema di inquadramento del personale stabilendo la possibilità di
passaggi tra posizioni economiche (in cui si articolano le tre nuove aree professionali
individuate) decisi da ciascuna amministrazione in sede di contrattazione
integrativa. Anche in questo caso si potrebbero determinare slittamenti
generalizzati verso livelli retributivi più elevati con effetti negativi sui costi,
peraltro difficilmente controllabili dato il ritardo con cui sono rese disponibili le
informazioni relative all’inquadramento del personale. Con le nuove disposizioni si è
inoltre di fatto accettata un’interferenza del sindacato, attraverso la contrattazione
integrativa, in materie, quale quella dell’inquadramento e degli organici, escluse
dalla legge 29/93 dall’ambito negoziale.
97
Le spese per prestazioni sociali sono invece stimate crescere meno di quanto
previsto. Se tale previsione verrà rispettata, il tasso di crescita di tale
aggregato risulterà minore di quello del Pil nominale. Si tratta di un
risultato positivo, ancorché circoscritto all’anno in corso, in considerazione
del fatto che la legge finanziaria per il 2001 aveva, in modo selettivo,
incrementato le pensioni minime e aveva anche aumentato la misura di
varie prestazioni non pensionistiche. In calo rispetto alle previsioni iniziali
risultano anche le uscite in conto capitale; al riguardo la Rtc prevedeva un
calo ancora più accentuato (tab. 18). Rispetto al 2000 la crescita prevista
rimane comunque notevole (+11%).
Le entrate fiscali e contributive tendenziali previste dal Dpef 2002-06 per il
2001 risultano di circa 2.500 miliardi più alte rispetto alle previsioni fatte a
ottobre scorso con la Relazione previsionale e programmatica: le minori
entrate tributarie sarebbero più che compensate da un gettito dei contributi
sociali di 9.800 miliardi migliore del previsto. Il totale delle entrate
tributarie tendenziali viene stimato di 6.800 miliardi inferiore alle
previsioni effettuate a ottobre scorso nella Rpp, -2.100 miliardi le imposte
dirette e -4.700 le indirette9. La variazione del gettito delle imposte indirette
dovrebbe derivare da una stima del gettito Iva più prudenziale e un po’ al di
sotto dell’andamento dei consumi nominali, mentre le stime della Rpp e
della Rtc sembrano basarsi sui forti aumenti del gettito Iva registrati negli
ultimi anni. In passato, la dinamica del gettito Iva assai superiore a quella
dei consumi era riconducibile a due fattori, l’emersione di base imponibile e
(in minor misura) l’effetto dell’aumento del prezzo del petrolio. All’emersione
di gettito hanno contribuito varie misure legislative e l’azione
dell’amministrazione 10, ma è evidente che nel lungo periodo questi fattori di
sostegno all’emersione del gettito Iva sono destinati ad esaurirsi.
Sull’andamento delle indirette ha inoltre influito la flessione degli introiti di
lotto e lotterie.
Il minor calo, rispetto alle previsioni di qualche mese fa, delle imposte
dirette sembra in larga misura ascrivibile ai buoni risultati dell’imposta
sostitutiva sulle rivalutazione dei cespiti aziendali. Secondo stime riportate
Il dato ora previsto è analogo a quello stimato dalla Rtc, ma con una composizione
molto diversa tra imposte dirette e indirette. Si prevedono per le imposte indirette
entrate per 351.900 miliardi, 8.600 in meno rispetto alla Rtc; il gettito delle dirette
viene stimato in 345.000 miliardi, 9.000 più che nella Rtc.
10 Ad esempio, contestualmente a ciascun versamento periodico è stata richiesta
(Dpr 23/03/1998 n. 100, art. 1) una dichiarazione in cui devono essere riportati i dati
contabili riepilogativi delle liquidazioni periodiche effettuate. Effetti positivi
avrebbe anche avuto l’introduzione della
possibilità di compensare
automaticamente, in sede di versamento, debiti e crediti d’imposta. In tal modo,
infatti, si evitano le situazioni in cui il contribuente
era tenuto a versare
immediatamente il debito d’imposta, ma otteneva i rimborsi di eventuali crediti con
ritardi di anni dal momento della dichiarazione. Per il contribuente in credito
diventa meno oneroso redigere dichiarazioni più fedeli, poiché non dovrà effettuare
materialmente il versamento. La compensazione dovrebbe essere stata
particolarmente incentivante soprattutto nei primi anni di applicazione, in quanto
consentiva di recuperare debiti d’imposta sorti in periodi d’imposta precedenti.
9
98
in una audizione parlamentare del Governatore della Banca d’Italia gli
incassi a questo titolo sono stati di circa 9.000 miliardi fino a luglio, a fronte
dei 1.800 messi a bilancio. Questo gettito potrebbe in parte ripetersi nei
prossimi due anni, essendo infatti prevista la facoltà di effettuare il
pagamento in 3 rate annuali. Un deterrente alla dilazione dei versamenti, e
quindi a un consistente gettito anche nei prossimi due anni, può però essere
costituito dal tasso di interesse fissato per la rateizzazione, 6% in ragione
annua11. Inoltre le imprese che hanno scelto di effettuare la rivalutazione
dei cespiti potranno effettuare maggiori ammortamenti per cui, a parità di
condizioni, agli esborsi iniziali dovrebbero corrispondere diminuzioni sia di
Irpeg che di Irap, già a partire dall’anno in corso ma soprattutto nei
prossimi anni.
Il Dpef conferma il maggior gettito contributivo, pari a circa 10.000 miliardi,
rispetto alla Relazione previsionale (tab. 18). Tale maggior gettito era stato
indicato nella Relazione trimestrale dell’aprile scorso e riflette l’aumento del
monte retributivo a seguito del buon andamento dell’occupazione e
dell’aumento delle retribuzioni pro-capite.
Per le entrate in conto capitale di natura non tributaria è prevista una
flessione di circa 6.300 miliardi rispetto agli introiti ipotizzati nella
Relazione revisionale. La correzione appare in gran parte dovuta alle
difficoltà e ai ritardi riscontrati nella realizzazione dei programmi di vendita
degli immobili pubblici, in particolare quelli degli enti previdenziali. La
Relazione trimestrale già aveva operato una revisione al ribasso di tali
introiti e la ricognizione sulla situazione dei conti pubblici effettuata a fine
maggio dalla Ragioneria dello Stato, segnalando i ritardi nell’attuazione del
programma di dismissioni immobiliari considerava possibili 5.500 miliardi
di incassi r ispetto ai 7.500 previsti dalla Rtc.
Il quadro programmatico per il 2002 e la manovra correttiva. Per il
2002, il Dpef prevedeva un indebitamento tendenziale di 1,7% del Pil, contro
un obiettivo di 0,5% (tab. 18). In assenza di interventi la pressione fiscale
tendenziale veniva prevista ridursi da 42% del 2001 a 41,7% e le uscite
correnti primarie erano stimate crescere allo stesso tasso del Pil nominale.
La lieve riduzione dell’indebitamento dipende pressoché interamente dal
fatto che le uscite in conto capitale vengono fissate all’incirca allo stesso
livello del 2001.
L’obiettivo di indebitamento fissato per il 2002 era lo stesso del Piano di
stabilità presentato a dicembre scorso, 0,5% del Pil, corrispondenti a 13.700
miliardi. Dato l’indebitamento tendenziale (42.200 miliardi), tale obiettivo
Va inoltre ricordato che il Sec95 prevede che, in applicazione del criterio generale
della competenza economica, le entrate fiscali siano contabilizzate al momento in
cui si forma l’obbligo a pagare. Ciò comporterebbe di contabilizzare nel 2001 il
totale del debito d´imposta e non solo la rata versata nell’anno; tuttavia, data la
mancanza di dati informativi (nella dichiarazione non si doveva indicare la scelta
della rateizzazione), l’Istat dovrà probabilmente contabilizzare il gettito in base al
principio di cassa.
11
99
implicava una manovra correttiva di 28-29.000 miliardi. Il Documento non
forniva molti dettagli sull’articolazione della manovra. Rispetto al
tendenziale, erano indicate maggiori entrate fiscali per 15.200 miliardi. A
parità di entrate non tributarie ciò implicherebbe una correzione delle spese
tendenziali di 13-14.000 miliardi. Il documento non specificava i settori di
interve nto, ma è evidente che i punti su cui intervenire riguardano in primo
luogo gli acquisti di beni e servizi, la sanità, il personale. Margini per
risparmi di spesa vi sono anche nei trasferimenti alle imprese, in particolare
nel settore dei trasporti pubblici; negli ultimi anni l’Italia ha peraltro
notevolmente ridotto l’entità complessiva dei trasferimenti alle imprese e
oggi si collocherebbe tra i paesi europei con la minor incidenza relativa di
tale tipo di spesa pubblica (cfr. riquadro: Lo scoreboard degli aiuti di Stato
nell’Unione europea).
100
LO SCOREBOARD DEGLI AIUTI DI STATO NELL’UNIONE EUROPEA
Negli ultimi anni la Commissione europea ha reso più stringente il controllo sugli
aiuti di Stato alle imprese, allo scopo di garantire la loro rispondenza a interessi
comuni. Data la persistenza di un ammontare complessivo di aiuti ancora assai
cospicuo (79 miliardi di euro nel 1999), si è ritenuto opportuno – su iniziativa del
Commissario Monti – introdurre uno strumento che consentisse di rendere più
trasparente a livello dei singoli paesi la situazione degli aiuti, sia con riferimento
alla loro entità che alla loro tipologia. A partire dall’istituzione di un Registro
europeo degli aiuti di Stato, dunque, è stato attivato uno scoreboard in grado di
fornire – sulla base delle informazioni raccolte nel Registro – un quadro sistematico
e pubblicamente accessibile della situazione corrente, con riferimento a diversi
specifici aspetti del problema. La prima versione (luglio 2001) dello scoreboard – che
la stessa Commissione invita a considerare del tutto provvisoria e suscettibile di
cambiamento – consiste di un documento nel quale vengono evidenziate le
differenze di comportamento osservabili a livello dei singoli Stati (senza fornire
interpretazioni in merito).
Il documento è articolato in diverse sezioni. La prima illustra, per ciascun paese
membro, l’evoluzione recente degli aiuti di Stato, espressi sia in valore assoluto che
in percentuale del Pil. Le indicazioni che ne emergono possono essere riassunte
come segue: i) a livello dell’intera area Ue, è osservabile a partire dal 1993 una
graduale flessione del volume complessivo degli aiuti in tutti i principali settori di
attività; ii) questo profilo è comune alla maggior parte dei paesi, con l’eccezione del
Lussemburgo, della Danimarca e soprattutto del’Irlanda, in cui la quota degli aiuti
sul Pil cresce apprezzabilmente; l’Italia è invece uno dei paesi in cui la flessione è
più pronunciata (cfr. tabella); iii) a livello Ue gli aiuti risultano diminuiti anche in
valore assoluto (milioni di euro 1998), ma soltanto per le industrie di trasformazione
e parte dei servizi; sia per l’agricoltura e la pesca che per i trasporti ferroviari
l’ammontare degli aiuti non mostra alcuna variazione di rilievo; iv) per quanto
riguarda in particolare la trasformazione e i servizi (ferrovie escluse), è possibile
rilevare, in quota, un ridimensionamento dei fondi destinati ad obiettivi specifici
(settoriali o regionali) e un parallelo aumento di quelli destinati a obiettivi
orizzontali (segnatamente ricerca, piccole imprese, ambiente e risparmio
energetico). Questo dato è considerato molto importante, dal momento che la
Commissione da sempre incoraggia il riorientamento degli aiuti verso obiettivi di
tipo orizzontale, consider ati meno distorsivi di quelli specifici. In particolare l’Italia
è uno dei paesi in cui la flessione è più pronunciata per quanto riguarda gli aiuti
destinati all’attività di trasformazione: tra il 1990 e il 1999 (i dati precedenti si
fermavano al 1988, sottostimando il fenomeno) il peso degli aiuti al settore
manifatturiero in percentuale del valore aggiunto industriale è passato dal 6,6
all’1,4% (per l’intera Ue i valori corrispondenti sono 2,6 e 1,3%).
101
Aiuti di stato alle imprese
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------Paesi
Aiuti totali
Aiuti al settore manifatturiero
in % del Pil
in % Va industriale
1990
1999
1990
1999
------------------------------------------------------------------------------------------------------------Grecia
1,5
1,0
7,4
3,3
Irlanda
1,0
1,6
2,7
2,3
Danimarca
1,0
1,3
1,6
2,3
Germania
1,5
1,2
1,3
1,7
Francia
1,6
1,2
2,2
1,6
Lussemburgo
1,0
1,4
2,7
1,6
Belgio
1,4
1,4
2,7
1,5
Finlandia
1,9
1,5
1,6
1,4
Italia
1,6
1,0
6,6
1,4
Austria
1,3
1,1
1,1
1,1
Spagna
1,3
1,1
1,2
1,0
Svezia
0,8
0,8
0,8
0,9
Portogallo
2,1
1,2
5,0
0,9
Olanda
0,9
1,0
1,0
0,8
Regno Unito
0,7
0,5
1,0
0,5
Ue
1,3
1,0
2,6
1,3
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------* Austria, Finlandia e Svezia, 1995.
Fonte: Scoreboard sugli aiuti di Stato alle imprese; Commissione europea, 2001.
Un’altra questione affrontata nel documento riguarda la misura in cui ciascuno dei
paesi membri mostra di adeguarsi effettivamente alle direttive della Commissione. A
questo proposito vengono forniti alcuni dati in merito alle procedure di infrazione
avviate. Questi dati indicano in primo luogo che esiste una percentuale non irrisoria
di casi in cui sono stati effettuati aiuti non notificati alla Commissione (più o meno
intorno al 20% del totale dei casi di aiuto). In secondo luogo, la quota dei casi di aiuto
in cui le decisioni della Commissione in merito alla loro ammissibilità sono prese in
seguito ai risultati di una procedura di indagine è crescente nel tempo (aumenta il
peso delle situazioni “da chiarire”). Da ultimo, risulta comunque in aumento la quota
delle decisioni negative, ovvero quelle che richiedono il reintegro della situazione di
partenza (spicca in questo caso il Lussemburgo, con una quota del 33% contro una
media Ue intorno al 10%).
Infine, il documento pone la questione dalla coerenza tra l’evoluzione degli interventi
agevolativi all’interno dei singoli paesi e l’allineamento delle politiche economiche
all’interno del mercato unico. Sotto questo profilo si osserva che l’obiettivo di
contrastare l’instaurarsi di meccanismi distorsivi della concorrenza non può essere
efficacemente raggiunto senza uno sforzo attivo di autodisciplina da parte dei singoli
Stati, e senza l’adozione di politiche di coordinamento degli interventi. A questo
riguardo si sottolinea la rilevanza delle raccomandazioni contenute, a partire dal
1999, nelle Broad Economic Policy Guidelines, il cui scopo è quello di favorire il
processo di controllo multilaterale delle politiche economiche nell’ambito Ue e di
incentivare la realizzazione di riforme strutturali all’interno degli Stati membri, in
particolare per quanto attiene all’apertura e alla concorrenza nei mercati (gli effetti
positivi di un minore peso degli aiuti potrebbe di fatto essere vanificato dalla
parallela adozione di altre politiche di tipo protezionistico, come ad esempio barriere
non tariffarie). In questa prospettiva, il documento mostra come – anche se nella
maggior parte dei paesi la contrazione degli aiuti di Stato è stata effettivamente
accompagnata da una progressiva apertura dei mercati – alla graduale flessione del
102
valore aggiunto manifatturiero in quota del Pil totale (che interessa tutti i paesi) non
abbia sempre corrisposto una parallela flessione della quota degli aiuti manifatturieri
rispetto al totale degli aiuti: per sei paesi membri (Austria, Belgio, Germania,
Finlandia, Francia e Svezia) gli aiuti al settore manifatturiero in percentuale degli
aiuti totali (escluse agricoltura, pesca e ferrovie) tra il 1995 e il 1999 sono risultati in
aumento.
La previsione del Csc. Nel 2001 l’indebitamento della Pa dovrebbe
risultare intorno a 1,5% del Pil, un risultato che si realizzerebbe con una
crescita del Pil nominale più bassa (4,3% contro +5,4%) di quella prevista a
luglio nel Dpef. Dal lato delle entrate le condizioni sottostanti sono la tenuta
delle entrate tributarie e una valutazione prudenziale dei ge ttiti
straordinari; la pressione fiscale risulta pari a 42,1. Va considerato che
molte delle misure già presentate o in via di presentazione al Parlamento
(cfr. riquadro: I principali provvedimenti di politica economica dei 100
giorni) avranno effetti finanziari già nel 2001. Si tratta in particolare della
legge Tremonti e del piano di emersione delle attività economiche in nero.
Le entrate programmatiche dovrebbero inoltre beneficiare del progetto di
cartolarizzazione degli immobili, con il conferimento del valore degli
immobili di proprietà pubblica ad una società veicolo. L’operazione dovrebbe
consentire di incassare circa 10.000 miliardi l’anno per i prossimi 4-5 anni;
una parte di tali cifre potrebbe essere incassata nel 2001.
Dal lato delle spese una differenza rilevante tra la nostra previsione e il
tendenziale del Dpef riguarda la spesa per interessi che, come si è detto
sopra, nel Dpef appare un po’ sopravvalutata. Nel nostro scenario abbiamo
inoltre ipotizzato che abbia successo l’impegno del governo di contenere una
serie di spese correnti di varia natura; rispetto al tendenziale esposto nel
Dpef, il taglio operato è di circa 2.500- 3.000 miliardi. Per quanto riguarda le
uscite in conto capitale, la nostra previsione riflette l’indicazione
programmatica di una accelerazione già da quest’anno; la crescita che
ipotizziamo è però leggermente inferiore a quella indicata nel Dpef (+8,3%
contro +9,7%).
Secondo il vecchio quadro programmatico, la manovra di bilancio per il 2002
dovrebbe tendere a portare l’indebitamento allo 0,5% del Pil, lasciando la
pressione fiscale complessiva allo stesso livello raggiunto nel 2001. Nel
nostro scenario riteniamo che, dati i risultati effettivi dei conti pubblici nel
2001 e le ripercussioni in Italia e in Europa delle mutate prospettive di
crescita dell’economia americana, questo obiettivo non sia più realistico. Il
problema che la politica di bilancio per il 2002 dovrà affrontare è ridurre
l’indebitamento, trovando le risorse per un ulteriore incremento delle spese
in conto capitale per infrastrutture economiche e civili e non contrastando la
riduzione di pressione fiscale indotta dalla minor crescita economica. Nel
nostro scenario l’azzeramento del deficit pubblico potrebbe essere raggiunto
nel 2004 e non nel 2003; l’indebitamento scenderebbe a 1% del Pil nel 2002 e
a 0,5 nel 2003. Anche per effetto della minor crescita, la pressione fiscale
scenderebbe da 42,1 nel 2001 a 41,8% nel 2002 e a 41,2% nel 2003.
103
I PRINCIPALI PROVVEDIMENTI DI POLITICA ECONOMICA
DEI 100 GIORNI
La ripresa dell'attività autunnale vede il Parlamento impegnato nella discussione di
numerosi provvedimenti che fanno parte degli impegni assunti dal governo con il
programma dei primi 100 giorni. In particolare, la Camera deve esaminare il
disegno di legge delega sulle grandi opere e il disegno di legge contenente primi
interventi per il rilancio dell'economia, che prevede la detassazione degli
investimenti (Tremonti bis), l'abolizione della tassa di successione e donazione, gli
incentivi per l'emersione dal sommerso. Entrambi i provvedimenti sono già stati
approvati dal Senato senza subire modifiche importanti rispetto ai testi originari.
Per il secondo dei due provvedimenti è, inoltre, allo studio l’introduzione di un
emendamento riguardante l’incentivazione del rientro dei capitali finanziari di
residenti italiani, oggi allocati all’estero. Al Senato dovrà essere discussa la legge
delega sulla riforma del diritto societario, già approvata alla Camera. Il governo ha
inoltre approvato il decreto delegato che recepisce l’accordo tra le parti sociali in
materia di contratti a termine.
Tremonti-bis. Uno dei principali provvedimenti di stimolo dell’economia adottati dal
nuovo governo è la riproposizione della legge Tremonti (il disegno di legge è stato
approvato dal Senato), che detassava gli utili reinvestiti. L’agevolazione consiste
nella possibilità di sottrarre dal reddito imponibile Irpeg il 50% degli investimenti
eccedenti la media degli investimenti realizzati nei cinque periodi d'imposta
precedenti quello di applicazione dell’agevolazione. Nel calcolo della media va tolto
l’anno in cui si sono realizzati gli investimenti più elevati. L’incentivo si applica
anche alle spese di formazione per i dipendenti nel limite del 20% del valore delle
retribuzioni complessive dei dipendenti stessi. A queste spese si sono aggiunte,
durante l'esame del Senato, quelle sostenute per gli asili nido destinati ai
dipendenti. A differenza della prima Tremonti, la detassazione degli utili reinvestiti
è utilizzabile anche da banche, assicurazioni e pr ofessionisti.
Alla misura si accompagna il “congelamento” della Dual Income Tax (Dit) e
l’alternatività di utilizzo con la Dit stessa e con la legge Visco. Allo scadere della
Tremonti dovrebbe essere attuata una riforma del prelievo sui redditi di impresa.
“Congelare” la Dit significa che ai fini del calcolo della quota di reddito soggetta
all’aliquota ridotta del 19% non verranno contabilizzati gli aumenti di capitale
realizzati dopo l’entrata in vigore della nuova legge. L'agevolazione è condizionata
alla permanenza degli utili nell'impresa: a differenza della cosiddetta legge Visco e
della Dit, non è previsto il trasferimento ai soci dell’agevolazione in caso di
distribuzione degli utili attraverso il credito d’imposta “virtuale”. L’agevolazione
non è cumulabile con il credito di imposta sugli investimenti nel Mezzogiorno; è
cumulabile con la legge 488 e con le altre leggi di incentivazione a finalità regionale.
Il provvedimento dovrebbe avere un sensibile effetto di stimolo dell’economia, anche
se probabilmente inferiore rispetto a quello ottenuto nel biennio 1994 - 95. Il
risparmio fiscale per le imprese è meno forte, perché l’aliquota legale sui redditi di
impresa è nel frattempo diminuita da 53,2% a 36% e perché la Tremonti bis
sostituisce altri incentivi preesistenti. L’incentivo viene inoltre dato dopo vari anni
caratterizzati da un notevole accumulo di capacità produttiva: ciò può attenuarne
l’efficacia, ma – va osservato – ne aumenta l’utilità come strumento di
stabilizzazione del ciclo economico. Va inoltre osservato che l’efficacia
macroeconomica del provvedimento può trarre giovamento dal fatto che esso si
applica ad una platea di contribuenti assai più ampia del prec edente.
104
Piano d’emersione dall’economia sommersa. La normativa per l’emersione del lavoro
irregolare (anch’essa approvata dal Senato) prevede ampie agevolazioni fiscali e
contributive che riguardano sia gli anni pregressi (concordato) che il triennio 20012003. A ciò si aggiunge una serie di altre agevolazioni sul piano delle responsabilità
civili e penali connesse con lo svolgimento di attività ec onomiche in nero. Le entrate
prodotte dall’emersione saranno destinate al riequilibrio dei conti pubblici e alla
riduzione della pressione fiscale secondo modalità da stabilire con decreto del
ministro dell'Economia.
Datori di lavoro e lavoratori devono presentare un programma di emersione e sul
maggior reddito imponibile dichiarato rispetto al 2000 (fino a concorrenza del triplo
del costo del lavoro fatto emergere) si applica un'imposta sostitutiva Irpeg, Irpef e
Irap del 10, 15 e 20% rispettivamente per il 2001, 2002 e 2003. Inoltre sul maggiore
imponibile si applicherà una contribuzione previdenziale e assistenziale sostitutiva
pari all'8%, al 10 e al 12 rispettivamente, per il primo, il secondo e il terzo periodo
d'imposta. Per i lavoratori che aderiscono al piano l'incentivo è dato dal fatto che,
per tre anni, sono esentati dal pagamento dei contributi sociali e vengono tassati
con una imposta sostitituva Irpef del 6, 8 e 10% rispettivamente per il 2001, 2002 e
2003.
La dichiarazione di emersione consente anche di fruire di un concordato tributario e
previdenziale1 per gli anni pregressi, mediante il pagamento di un'imposta
sostitutiva (di qualsiasi imposta diretta, indiretta e dei contributi previdenziali)
dell'8% della base imponibile, determinata dal costo del lavoro irreg olare utilizzato e
dichiarato per gli anni pregressi. Il concordato preclude inoltre accertamenti fiscali
e previdenziali fino a concorrenza del triplo del costo del lavoro irregolare utilizzato.
Al pagamento delle imposte sostitutive dovute corrisponde l’estinzione dei reati
tributari derivanti da dichiarazione infedele e/o da omessa dichiarazione
relativamente sia al costo del lavoro irregolare utilizzato (datore) sia alle somme
percepite e non dichiarate (lavoratore); sono inoltre estinti i reati contravvenzionali
e le violazioni amministrative e civili connesse a quelle fiscali e previdenziali del
datore di lavoro in relazione all'esistenza del lavoro sommerso. Infine si precludono
gli accertamenti fiscali sui redditi di lavoro per i periodi d'imposta interessati.
Il piano risponde all’esigenza fondamentale di indurre la regolarizzazione delle
attività produttive sommerse. Esso è molto più incisivo di analoghi provvedimenti
in passato diretti al medesimo scopo. Il suo successo dipenderà criticamente dalla
certezza di un quadro generale che riduca strutturalmente vincoli ed oneri in cui
operano le imprese e dall’efficacia dell’azione amministrativa riguardo alla
pubblicità delle opportunità offerte dal provvedimento e all’accompagnamento delle
imprese nella delicata fase dell’emersione. Richiede altresì un’efficace azione
repressiva. Riguardo quest’ultimo aspetto, va rilevato che il disegno di legge
prevede la verifica incrociata dei dati relativi alle bollette elettriche e telefoniche
con quelli dell'Inps e degli altri istituti previdenziali.
Legge obbiettivo. Il disegno di legge delega in materia di infrastrutture e
insediamenti produttivi strategici, interventi edilizi, già approvato dal Senato,
intende rimuovere gli ostacoli burocratici che hanno finora fortemente condizionato
le potenzialità di sviluppo in tre settori particolarmente importanti per lo sviluppo
-------------------------------La dichiarazione di emersione deve essere presentata prima dell’inizio di accessi, ispezioni o
verifiche o della notifica dell’avviso di accertamento o rettifica relativi al periodo d’imposta
che si intende regolarizzare.
1
105
del paese. L’individuazione delle infrastrutture e insediamenti produttivi strategici
viene affidato al governo che, sentite le regioni e i ministri com petenti, ovvero su
proposta degli stessi, definisce un programma da inserire nel Dpef indicando le
risorse finanziarie pubbliche comunitarie e private disponibili. Il governo è delegato
ad emanare decreti legislativi finalizzati ad accelerare la realizzazione delle opere
attraverso la riforma delle procedure per la valutazione di impatto ambientale e un
regime speciale per le altre procedure (concessioni e autorizzazioni, dichiarazione di
pubblica utilità, disciplina in materia di conferenza dei servizi). I decreti devono
attenersi a principi di valorizzazione di strumenti quali la finanza di progetto e
l’affidamento a contraente generale tramite gara ad evidenza pubblica. Il compito di
approvare i progetti e vigilare sull’esecuzione è attribuito al Cipe che adotta anche i
provvedimenti necessari. Per gli anni 2002 e 2003 il governo è delegato a emanare
decreti legislativi per l’approvazione definitiva di specifici progetti per
infrastrutture strategiche. Viene anche notevolmente esteso il campo di
applicazione della Denuncia di inizio di attività in alternativa a concessioni e
autorizzazioni, tranne che per gli im mobili sottoposti a tutela storico-artistica e
paesaggistica-ambientale o a particolare vincoli. Si introducono infine una serie di
modifiche volte a semplificare la normativa in materia di rifiuti.
L’efficacia delle nuove disposizioni, soprattutto nell’accelerare i tempi di
progettazione e realizzazione delle grandi opere infrastrutturali, dipenderà molto
dalla successiva formulazione decreti delegati. La radicalità con cui si intende
modificare l’attuale assetto legislativo e amministrativo in materia appare
opportuna alla luce della quasi paralisi che ha caratterizzato il nostro sistema sino
ad oggi; solleva problemi
tecnico-giuridico assai complessi che, se non
adeguatamente risolti, potrebbero dar luogo a paralizzanti contenziosi. Sarà inoltre
importante evitare che la focalizzazione sulle grandi infrastrutture penalizzi gli
interventi “minori”, che restano comunque indispensabili a garantire le potenzialità
di attrazione dei singoli territori.
Riforma del diritto societario. Il disegno di legge delega, approvato dalla Camera,
riprende in gran parte il progetto elaborato dalla Commissione Mirone. Tale
progetto rinviava agli accordi tra privati le modalità di costituzione e
funzionamento delle società di capitali, in definitiva, il contenuto dei rapporti del
dare e avere tra i soci. Nella versione approvata dalla Camera sono state introdotte
alcune restrizioni alla facoltà di autoregolarsi. In particolare, viene richiesto al
legislatore delegato di "individuare le indicazioni obbligatorie dell'atto costitutivo",
sono previste tre organizzazioni possibili per la struttura di controllo delle società
per azioni e si prevede l'applicazione automatica di una di esse in caso di mancata
previsione nello statuto. In generale, le limitazioni introdotte alla libertà
contrattuale dei soci appaiono opportune perché principalmente volte ad evitare,
soprattutto nei primi tempi di vigenza della nuova disciplina, frequenti occasioni di
controversie tra soci per carenze dell'atto costitutivo.
Il disegno di legge prevedeva inizialmente (art. 11) l'istituzione di sezioni
specializzate in materia commerciale presso i tribunali sede di Corte d'appello, che
avrebbero dovuto giudicare delle controversie secondo regole procedurali
semplificate e dunque in tempi brevi. La rilevanza di queste disposizioni stava nel
fatto che affinché la prevista contrattualizzazione della materia societaria pr evista
dalla riforma funzioni in modo 'virtuoso', l'enforcement deve essere rapido e deve
essere amministrato da magistrati con particolare competenza in tutto ciò che si
connette a questa particolare materia (quindi anche gestione di impresa, bilanci,
quantificazione del valore di beni immateriali ecc.). Peraltro, vari studi empirici
mostrano che l'ampiezza della dimensione e la specializzazione dei Tribunali hanno
106
un ruolo determinante per la produttività dei magistrati. Nel testo approvato dalla
Camera è invece fatto divieto di istituire le sezioni specializzate e le scelte sul rito
sono state radicalmente modificate (ad esempio il giudice deve essere collegiale e
non più monocratico salvo particolari casi). Il risultato non appare coerente con
l’esigenza di garantire una maggiore celerità dei processi, salvo il rinvio ad altre
forme di composizione delle controversie.
La riforma degli aspetti sostanziali della disciplina del falso in bilancio nel senso di
una più chiara ed esplicita delimitazione dei comportamenti penalmente rilevanti,
anche attraverso l’introduzione di un criterio di gravità, affronta un problema
sentito dalle imprese, che avevano spesso sottolineato la scarsa chiarezza della
norma e, soprattutto, la sua apertura a diverse, spesso tra loro incoerenti,
interpretazioni giudiziali.
Tassa sulle successione e donazioni. L'abolizione dell'imposta di successione e
donazione contenuta nel decreto dei 100 giorni conclude l’iter di cambiamento
radicale dell’imposizione sui trasferimenti gratuiti iniziata alla fine del 2000
(l.342/2000). Con l’entrata in vigore dell’attuale proposta sono abolite le imposte di
successione e donazione per le successioni aperte e le donazioni eseguite dopo
l’entrata in vigore delle nuove disposizioni. Per le donazioni si tratta di una
abrogazione parziale. Infatti, sulle donazioni tra soggetti che non abbiano rapporti
di parentela entro il quarto grado graverà l’imposta ordinaria di registro. Inoltre, si
continuerà a pagare l’imposta ipotecaria (2%) e catastale (1%) sui trasferimenti
immobiliari (sia per successione che per donazione). Rimane, pertanto, l'obbligo
della dichiarazione di successione per gli immobili.
Scudo fiscale. Tra i provvedimenti in preparazione vi è quello diretto a incentivare il
rientro dei capitali finanziari di residenti italiani, oggi allocati all’estero. Il principio
dello "scudo fiscale" è che ai capitali detenuti all'estero ma dichiarati per essere
riportati in Italia non si applicheranno le sanzioni e le multe previste dalla
normativa attuale2. Sul patrimonio rimpatriato graverà solo una multa, che
potrebbe oscillare tra l'1 e il 3%3. Il condono riguarderà solo le sanzioni fiscali e non
la persecuzione dei comportamenti illeciti e la lotta al riciclaggio dei capitali illegali.
Gli effetti del provvedimento sull’economia reale riguarderanno principalmente il
valore aggiunto, e forse l’occupazione, del settore finanziario, in quanto rientrerebbe
in Italia una parte dell’attività di intermediazione che oggi viene svolta all’estero.
Qualche effetto sugli altri settori potrebbe derivare dalla cosiddetta “home country
bias”, ossia dal fatto che gli intermediari residenti in un dato paese possono avere
una maggiore propensione a finanziare soggetti residenti con cui hanno rapporti più
consolidati.
Recepimento della direttiva 1999/70/Ue in materia di contratti a termine. A metà di
agosto il governo ha approvato definitivamente, dopo i pareri favorevoli delle
Commissioni parlamentari competenti, un importante decreto legislativo che
recepisce nell’ordinamento italiano la direttiva europea 1999/70/Ue sui contratti a
-----------------------------------------2 Si pensi a quelle collegate alla mancata dichiarazione sul modello 740.
3 Attualmente, invece, il monitoraggio fiscale trasforma automaticamente in redditi
imponibili tutti i capitali che non emergono nella dichiarazione dei redditi, ma che vengono
scoperti successivamente.
107
termine. Con la nuova normativa si passa da una disciplina in cui il datore di lavoro
poteva assumere con contratto a tempo determinato solo in presenza di ipotesi
tassativamente previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, ad una in cui
l’apposizione del termine è legittimata dall’esistenza di “ragioni di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo”. La garanzia per il lavoratore è assicurata dal
fatto che, contestualmente, il datore di lavoro deve specificare queste ragioni per
iscritto nell’atto di assunzione. Il superamento delle “causali specifiche” fa sì che si
sia invertita la logica della legislazione precedente, per cui ora il decreto legislativo
elenca tassativamente i casi nei quali è vietata la stipulazione del contratto a
termine. La nuova disciplina, poi, affida alla contrattazione collettiva di settore
l’individuazione di limiti quantitativi ma, nel contempo, procede ad una elencazione
tassativa delle ipotesi di contratti a termine esenti da qualsiasi “tetto” (cfr. par. 3.2
per ulteriori dettagli).
La spesa corrente primaria dovrebbe diminuire di circa 5 decimi di punto
rispetto al Pil nel 2002 e di 8 decimi nel 2003. Per il 2002 si tratterebbe di
una riduzione di circa 12.000 miliardi rispetto all’ incremento tendenziale
(riproporzionato alla nostra diversa base di partenza per il 2001) previsto
dal governo. Gli interventi riguarderebbero soprattutto gli acquisti di beni e
servizi e la spesa per il personale. Per quest’ultima abbiamo ipotizzato
incrementi retributivi non superiori all’inflazione programmata e una
diminuzione netta (-0,2% all’anno nel 2002 e 2003) del numero dei
dipendenti. Gli interventi sulle spese dovrebbero inoltre accomodare i
previsti incrementi delle pensioni al minimo. Rispetto al tendenziale del
governo risulta però più bassa la spesa per interessi. Nel nostro scenario i
tassi di interesse sui titoli pubblici scendono di circa mezzo punto tra il 2001
e il 2002; la spesa per interessi sul debito rimarrebbe sostanzialmente
invariata in termini nominali intorno al livello di quest’anno (147-148.000
miliardi) e quindi d iminuirebbe di circa 0,4 punti di Pil nel 2002 e di 0,3 nel
2003.
Al di là dei campi di intervento, andrà anche posta grande attenzione ai
soggetti istituzionali che dovranno effettuare gli interventi. Il problema
della spesa per il 2001, così come già nel 2000, sembra interessare
principalmente le regioni che, secondo le stime della Relazione trimestrale
di cassa di aprile 2001, raggiungerebbero un incremento complessivo di circa
l’8%, contro il 3,7 del Settore statale. Il volume complessivo di spesa delle
regioni è notevolmente cresciuto in questi ultimi dieci anni in funzione delle
nuove competenze, in particolare la sanità, trasferite dal centro; nel 2000
risultava pari a 202.000 miliardi, un importo che sommato alla spesa di
comuni e provincie (124.000 miliardi) rappresenta quasi la metà del totale
della spesa del settore pubblico al netto della previdenza. Il controllo della
spesa pubblica è quindi già per una parte rilevante un problema di controllo
della spesa decentrata e lo sarà ancor più nei prossimi anni con gli ulteriori
trasferimenti di funzioni attualmente in discussione.
Il processo in atto di transizione verso un maggiore decentramento
territoriale ha finora sofferto di una certa mancanza di chiarezza sugli
obiettivi. In generale sono state trasferite alle regioni soprattutto
108
competenze meramente gestionali lasciando al centro le decisioni sui
princ ipi organizzativi per l’esercizio delle funzioni trasferite. La sanità è un
esempio emblematico di questa situazione: lo scorso anno il governo è
intervenuto autonomamente su due aspetti di grande rilievo, l’esenzione dai
ticket sanitari e il regime di esclusività del rapporto medico ospedaliero (cui
è stato legato l’aumento di 1.500.000 lire mensili stabilito nell’ultimo
rinnovo del contratto collettivo). Una scelta che rende ovviamente ancora
più difficile la possibilità di pretendere il rispetto del vincolo di bilancio per
le regioni e attribuire la responsabilità di eventuali scostamenti rispetto agli
obiettivi (cfr. riquadro: Decentramento, federalismo e controllo della spesa
pubblica).
109
DECENTRAMENTO, FEDERALISMO
E CONTROLLO DELLA SPESA PUBBLICA
Nell’ultimo decennio sono gradualmente aumentate le responsabilità e l’autonomia
finanziaria degli enti decentrati di governo. Le risorse di cui possono
autonomamente disporre le amministrazioni locali si sono
sensibilmente
accresciute: secondo l’ultimo Rapporto annuale dell’Istat, nel 2000 la quota del
gettito fiscale di competenza delle amministrazioni locali era pari al 14,2 del totale e
garantiva un tasso di autofinanziamento (rapporto tra entrate fiscali e totale delle
uscite) del 44,6 %, il triplo del dato relativo al 1990 (tab. 1). Nel 2001, con la
conclusione del così detto ‘decentramento amministrativo’, sono state trasferite
dallo Stato altre 38.465 unità di personale e risorse finanziarie annue (escluse le
spese per il personale) per 26.330 miliardi e risorse una tantum per 31.186 miliardi
(tab. 2).
Ulteriore impulso al decentramento è previsto nella legge di riforma costituzionale
che sarà sottoposta a referendum confermativo il prossimo ottobre. Infine il progetto
di legge sul federalismo, in corso di elaborazione da parte del Ministro per le riforme
istituzionali e del governo, intende trasferire alle regioni la sicurezza pubblica
locale, istruzione e sanità. Secondo una stima effettuata dal Centro di ricerca
Econpubblica-Università Bocconi, per l'insieme delle regioni a statuto ordinario si
tratterebbe di trasferire risorse pari a circa 80.000 miliardi. Si tratta di un
incremento pari al 65% dell'attuale livello delle entrate regionali, che richiederebbe,
ad esempio, di aumentare di circa 10 punti l'addizionale regionale Irpef (ovviamente
con una corrispondente riduzione delle aliquote er ariali), oppure di portare a quasi
il 100% la quota di compartecipazione dell’Iva.
Tab. 1 – Decentramento fiscale in Italia (valori %)
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Quota del gettito fiscale di
competenza delle amm. locali
5,5
5,4
5,6
6,8
8,0
7,8
8,4
8,2 13,6 12,7 14,2
Rapporto tra entrate fiscali
proprie e uscite
14,5 14,7 16,9 21,4 24,3 25,7 27,3 27,1 43,7 40,0 44,6
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Fonte: Istat, 2001.
Tab. 2 – Risorse trasferite a regioni ed enti locali
(al 1° marzo 2001 ex lege 15 marzo 1997, n. 59)
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Aree
Materie
Risorse trasferite
---------------------------------------------Personale Risorse
Risorse
finanziarie finanziarie
annue una tantum
(unità) (miliardi)
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Attività
Uffici metrici provinciali, uffici provinciali, industria, commercio,
produttive
artigianato, agricoltura, energia e risorse minerarie, incentivi alle
imprese, ex Agensud, competenze soppresso intervento Mezzogiorno
5.732
2.128
6.796
e programmi regionali di sviluppo, enti fieristici, benefici all’industria
Territorio,
ambiente e
infrastrutture
Strade di interesse regionale – viabilità – edilizia residenziale pubblica – opere pubbliche – ambiente – demanio idrico – catasto – trasporti – protezione civile – trasporto pubblico locale
Servizi
collettivi e
personali
Mercato del lavoro – istituti professionali – sanità – invalidi civili istruzione scolastica – polizia amministrativa
9.861
7.482
8.797
22.872
16.719
15.593
Totale risorse trasferite
38.465
26.330
31.186
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Fonte: Ministero Funzione Pubblica.
110
Due sono i punti critici di questo processo di estensione dell’autonomia finanziaria
dei governi locali. In primo luogo risalteranno con maggiore evidenza le
differenziazioni nella distribuzione delle risorse, accrescendo le tensioni sul sistema
perequativo; il problema è quello di un corretto trade off tra redistribuzione
(perequazione delle risorse fiscali tra regioni) e efficienza (data da una maggiore
competizione fiscale fra regioni). L’altro grande problema è dato dal controllo della
spesa complessiva, in particolare ai fini della coerenza delle politiche di bilancio
degli enti territoriali con gli obiettivi di finanza pubblica fissati a livello europeo.
Attualmente il controllo della spesa è in parte affidato al Patto di stabilità interno
(introdotto per la prima volta con la Finanziaria 1998), strumento che si è però
finora dimostrato scarsamente incisivo. Il Patto, che riguarda regioni pr ovince e
comuni, prevede che ciascun ente concorra agli obiettivi fissati a livello centrale,
migliorando il proprio saldo finanziario (per il 1999 e il 2000 in misura pari allo
0,1% del Pil; per il 2001 è previsto un tetto massimo di aumento pari al 3% rispetto
al disavanzo del 1999). Gli enti che raggiungono gli obiettivi beneficiano di una
riduzione sul tasso di interesse dei mutui concessi dalla Cassa depositi e prestiti1. I
criteri per verificare il raggiungimento degli obiettivi stabiliti sono stati modificati
varie volte, soprattutto per quanto riguarda le entrate e le spese da considerare per
il calcolo del saldo di bilancio. Attualmente sono escluse dal calcolo numerose voci di
spesa e di entrata (in particolare quelle relative alla sanità), al punto che il calcolo
del saldo finanziario per le regioni si effettua su meno del 15% delle entrate e poco
più del 20% delle spese2.
Alcune prime valutazioni3 sull’efficacia del Patto di stabilità interno indicano
risultati migliori per province e comuni, maggiori difficoltà per le regioni. Il
Ministero del Tesoro, preposto dalla legge al monitoraggio dei bilanci degli enti
decentrati, ha comunicato (luglio 2000) che province, comuni e regioni risultano
avere rispettato gli obiettivi del Patto di stabilità interno relativamente agli anni
1999-2000, senza però fornire informazioni quantitative. Dagli studi citati,
l’ammontare dell’effettivo risparmio di spesa ottenuto risulta modesto.
-----------------------------------------------------------------
Secondo l’art. 3 del decreto 1° agosto 2000, ciascun ente che raggiunge gli obiettivi prefissati
ha diritto ad una riduzione di 50 punti base; la riduzione è estesa a tutti gli enti del comparto
se l’obiettivo di riduzione del disavanzo è conseguito a livello complessivo; il singolo ente che
ottenga un risultato superiore all’obiettivo, indipendentemente dal raggiungimento di tale
risultato a livello complessivo, ha diritto a una riduzione di 100 punti base. Il riferimento ad
un risultato collettivo dovrebbe incentivare un controllo reciproco degli enti sul rispetto del
Patto; il premio al comportamento individuale dovrebbe indurre ad un risultato superiore a
quello predefinito (Giarda e Goretti, 2001).
2 Secondo l’art. 1 del Decreto 1° agosto 2000 il saldo finanziario, utile per il Patto, si calcola
escludendo dalle entrate i trasferimenti, quelle derivanti da proventi delle dismissioni di beni
immobiliari e finanziari e dalla riscossione di crediti, l’Irap e l’addizionale Irpef, i
trasferimenti agli enti del Ssn; le uscite da considerare sono quelle di parte corrente, al netto
degli interessi passivi, escluse quelle sostenute sulla base dei trasferimenti con vincolo di
destinazione. Non devono inoltre essere considerate tra le entrate e le spese quelle di natura
eccezionale.
3 F. Balassone, D. Franco, S. Zotteri, Il primo anno di applicazione del Patto di stabilità
interno: una valutazione, in Economia Pubblica, 2001, XXXI, 2: P. Giarda, C. Goretti, Il Patto
di stabilità interno: l’esperienza del 1999-2000, in Temi di finanza pubblica, giugno 2001.
1
111
Tra i limiti intrinseci nella normativa (che nelle sue più recenti evoluzioni ha reso
ancora meno stringenti i vincoli alla gestione del bilancio) sono da segnalare:
l’assenza di sanzioni in caso di mancato rispetto del Patto, essendo state superate
anche quelle originariamente previste4; gli obiettivi finanziari sono stabiliti in
eguale misura per tutti gli enti, prescindendo quindi dagli sforzi compiuti e dagli
eventuali risultati conseguiti; viene enunciato anche l’obiettivo di una riduzione del
rapporto tra debito e Pil, ma non si indicano strumenti per la sua realizzazione.
Un problema non ancora risolto, che prescinde dal Patto di stabilità interno, è
comunque il monitoraggio costante della spesa anche degli enti decentrati. Al
riguardo, il D.Lgs. 76/2000 prevede che le regioni emanino entro il dicembre 2001
provvedimenti legislativi finalizzati a adeguare il proprio sistema contabile a quello
dello Stato. Si tratta di un notevole passo avanti nella direzione di creare
omogeneità nei sistemi di contabilità e bilancio tra Stato centrale e autonomie
territoriali per rendere così possibile analisi tempestive relative agli andamenti
dell’intero comparto della Pubblica Amministrazione. Resta il problema di una
maggiore trasparenza complessiva del sistema di contabilità pu bblica, soprattutto
con riferimento al raccordo tra dati di cassa e di competenza, per consentire anche
un efficace monitoraggio nel corso dell’esercizio finanziario e non solo a consuntivo.
Oltre al Patto di stabilità interno, nella direzione di una maggiore responsabilizzazione nella
gestione del bilancio si muove anche il decreto legislativo 56/2000 che prevede il superamento
definitivo del sistema dei trasferimenti per il finanziamento delle regioni5 . Il nuovo meccanismo
è piuttosto complesso ma, in estrema sintesi, due sono le osservazioni critiche riguardo la
possibilità che esso contribuisca ad un’effettiva maggiore responsabilizzazione finanziaria degli
amministratori locali. Innanzitutto prevale la compartecipazione a tributi erariali rispetto alla
gestione di tributi propri e in entrambe i casi è relativamente limitata la possibilità per gli enti
locali di intervenire sulle aliquote6 .
Unitamente alla tendenza a lasciare allo Stato la fissazione di standard minimi
uniformi per le prestazioni dei servizi pubblici, (ad esempio nella sanità), ciò lascia
ampia ampi margini per una contrattazione continua tra governo centrale e regioni
non, come normalmente avviene nei sistemi a struttura federale, sulla ripartizione
ex ante delle rispettive quote di entrate tributarie, ma sulla quantità di risorse da
trasferire per fronteggiare la spesa decentrata. Tale contrattazione rende anche
difficile l’attribuzione delle effettive responsabilità degli eventuali sfondamenti.
----------------------------------------4 Nelle disposizione originarie, il caso in cui l’indebitamento netto delle amministrazioni
pubbliche fosse stato tale da determinare una sanzione da parte della Ue, tale sanzione
avrebbe potuto essere posta a carico degli enti che non avessero conseguito i propri obiettivi
di bilancio.
5 A partire dal 2001, il sistema di trasferimenti di risorse finanziarie dallo Stato alle regioni a
statuto ordinario viene sostituito con un sistema fondato su tributi propri (Irap, addizionale
Irpef dello 0,9-1,4%, accisa sulla benzina, tassa auto), compartecipazione ai tributi erariali (il
25,7% del gettito complessivo dell’Iva). Viene anche stabilito un meccanismo di perequazione
parziale, al 90%, della capacità impositiva tra le regioni. Il fatto che la perequazione sia solo
parziale, dovrebbe incentivare comportamenti virtuosi dato che la copertura di eventuali
disavanzi potrebbe essere attuata solo attraverso il ricorso a maggiore pressione fiscale; una
parte di eventuali avanzi di bilancio resterebbe invece a beneficio della comunità.
6 Le regioni possono elevare la percentuale di gettito Irpef attribuita (0,9%) dello 0,5%,
maggiorare l’aliquota Irap fino ad un massimo di 1 punto percentuale, variare in una misura
compresa tra il 90 e il 110% gli importi vigenti nell’anno precedente relativamente alle tasse
automobilistiche. Le entrate relative all’eventuale ricorso a maggiorazioni impositive
resterebbe a esclusivo beneficio del bilancio regionale.
112
Una reale autonomia di entrata e di spesa dovrebbe comportare che siano le singole
regioni a decidere, per le materie di loro competenza, l’equilibrio tra pressione
fiscale e servizi resi, ripartendo le risorse disponibili in funzione delle priorità del
territorio. Tale scelta potrebbe determinare costi iniziali legati soprattutto
all’attuale inadeguatezza delle amministrazioni a gestire cambiamenti di questa
portata. Un sistema federale implica comunque un trade-off tra esigenze di
omogeneità nelle prestazioni (ad esempio quelle sociali) e le esigenze di una
autonomia sostanziale.
113
II) SINTESI DEL RAPPORTO CERP “LA RIFORMA DEL
SISTEMA PREVIDENZIALE: OPZIONI E PROPOSTE” (*)
A cura di Elsa Fornero e Onorato Castellino
1.
Le ragioni per completare la riforma
1.1
Gli squilibri finanziari
All’inizio del 1992, il sistema previdenziale italiano soffriva di tre
gravissime anomalie:
squilibrio finanziario, in atto e ancor più in prospettiva: per coprire la
spesa pensionistica, sarebbero state necessarie aliquote contributive
progressivamente crescenti sino a oltre il 50%, o concorsi sempre più
cospicui del bilancio pubblico, alternative ambedue inaccettabili;
iniquità redistributive derivanti sia dalle differenze normative tra i
diversi regimi (normalmente in favore delle categorie professionali più
ricche), sia dalla formula retributiva di calcolo dei benefici. Tale formula
implicitamente premia le carriere più dinamiche e (anche e soprattutto
grazie alla pensione di anzianità) le carriere più precoci e continue. Gli
effetti della previdenza sociale sulla distribuzione del reddito andavano
quindi molto spesso nella direzione perversa di una accentuazione delle
diseguaglianze, concorrendo, a mano a mano che se ne diffondeva la
consapevolezza, alla crescente insoddisfazione verso il sistema;
incentivi potenti all’abbandono precoce dell’attività lavorativa (almeno
di quella ufficiale), anche in questo caso per effetto della pensione di
anzianità e comunque di un rendimento – in termini di aumento della
pensione – molto basso, quando non addirittura nullo o negativo, della
prosecuzione dell'attività.
L'autunno del 1992, con la legge delega del 23 ottobre (n. 421), seguita tre
anni dopo dalla legge 8 agosto 1995, n. 335, rappresenta uno spartiacque
storico nella politica previdenziale italiana. L’insieme delle riforme Amato e
Dini, con le ulteriori revisioni operate dal governo Prodi, rappresenta infatti
un contributo radicale e coraggioso alla correzione delle preesistenti
anomalie. Nel disegno definitivo di queste riforme (prescindendo cioè dalla
fase di transizione, sulla quale si ritornerà fra breve), la correlazione tra
------------------------------------------(*) La ricerca è stata realizzata con il contributo finanziario dell’Assonime e di
Confindustria. I curatori e gli autori si assumono l’intera responsabilità delle
opinioni espresse. Le proposte non impegnano la responsabilità delle istituzioni
committenti.
115
pensione e retribuzione finale è stata sostituita da un più appropriato
riferimento alle retribuzioni (Amato) o alle contribuzioni (Dini) dell'intera
vita lavorativa. La pensione di anzianità è stata dapprima ricondotta, per i
dipendenti pubblici, alla meno generosa normativa prevista per i dipendenti
privati (Amato) e poi abolita per ambedue le categorie (Dini). Al minore
livello dell'aliquota versata dai lavoratori autonomi è stata associata una
promessa pensionistica analogamente più bassa. L'armonizzazione delle
normative dei diversi regimi è stata disciplinata come principio generale e
affidata all'esercizio di deleghe al governo. Su tutto ciò si inserisce
l'innovazione (già presente nella riforma Amato e da allora pienamente
operante) che deindicizza le pensioni dai salari reali, collegandole
unicamente all'indice dei prezzi, innovazione che da sola genera una parte
rilevante dei risparmi complessivi.
Le precedenti anomalie avevano però modellato le aspettative dei lavoratori
di ogni età, spingendo tanto il legislatore del 1992 quanto quello del 1995 a
tutelare queste aspettative con generose norme transitorie, le quali lasciano
aperti due ordini di problemi:
i forti squilibri finanziari, destinati a protrarsi per altri tre-quattro
decenni, tra contributi e prestazioni;
la sopravvivenza di rilevanti distorsioni microeconomiche proprie del
vecchio regime.
Per effetto delle ricordate norme transitorie, il nuovo regime diventerà
pienamente operativo soltanto dopo il 2030 per quanto riguarda i flussi delle
nuove pensioni e soltanto dopo il 2050 per quanto riguarda lo stock delle
pensioni in essere. Senza nuovi interventi, la transizione è perciò destinata
a essere molto lunga.
Così durante come al termine della transizione, l’aliquota contributiva sarà
pari al 32,35% per i dipendenti pubblici e al 32,70% per i dipendenti privati.
Per artigiani e commercianti, l’aliquota sta compiendo una lentissima
transizione dal 15 al 19%. Tutti e tre i livelli – i primi due molto alti rispetto
allo standard internazionale – sono però insufficienti, e sino al 2040
largamente insufficienti, a coprire la spesa. A legislazione invariata, il
disavanzo annuale complessivo è stimabile in un ordine di grandezza di 4 –
4,5 punti percentuali del Pil fino al 2030, e soltanto in seguito esso tenderà a
convergere lentamente verso il pareggio che dovrebbe caratterizzare
l’applicazione integrale della nuova formula (tab. 1).
116
Tab. 1 - Disavanzi del sistema previdenziale in percentuale del Pil
Anni
FPLD
Artigiani e
Commerc.
Coltivatori
Diretti
Pubblici
Dipendenti
Totale
2000
2,03
0,18
0,73
1,15
4,09
2010
2,46
0,42
0,54
1,13
4,55
2020
2,56
0,59
0,35
1,18
4,68
2030
2,56
0,60
0,20
1,24
4,60
2040
1,57
0,35
0,10
0,60
2,62
2050
0,29
0,15
0,05
0,20
0,69
Fonte: nostre elaborazioni sulla base di proiezioni Inps per le gestioni di sua
competenza e di nostre stime per il settore pubblico.
1.2
Le distorsioni microeconomiche: gli effetti sull’offerta di
lavoro
Tra le ragioni per completare la riforma del sistema pubblico a ripartizione
non può mancare una riflessione sugli effetti che l’ordinamento
previdenziale esercita sul costo del lavoro, sulla competitività delle imprese
e sull’occupazione, soprattutto in presenza di un livello di contributi sociali
comparativamente elevato nel quadro dei paesi europei. Va peraltro
sottolineato come l’intreccio delle relazioni in questo ambito sia molto
complesso, e ciò suggerisca cautela nel trarre implicazioni di policy sulla
base sia di una mera descrizione qualitativa, sia di un semplice confronto
fra carichi contributivi.
Non vi sono, infatti, ragioni cogenti – almeno non in linea di principio – che
inducano a equiparare necessariamente gli oneri sociali a un’imposta con
caratteristiche distorsive . Più specificamente, l’equiparazione non è lecita
allorché ai contributi versati corrisponda una controprestazione
attuarialmente equa. In tal caso, i soggetti sono consapevoli del fatto che i
contributi sociali rappresentano, in realtà, una forma di risparmio (sia pure
obbligatorio) al quale corrisponderanno benefici nell’età anziana. A tale
benchmark di neutralità – che richiede, peraltro, che il livello dei contributi
sia non superiore a quello che sarebbe liberamente scelto dai lavoratori –
sono, com’è noto, ispirate le riforme degli anni Novanta e in particolare la
riforma Dini, alla quale si deve l’adozione del metodo contributivo di calcolo
della pensione, basato, per l’appunto, su un criterio di equivalenza
attuariale.
Il nostro sistema previdenziale, tuttavia, è oggi ben lontano dalla neutralità,
e lo sarà ancora per alcuni decenni. Ciò dipende sia dal perdurare di
componenti retributive nel calcolo delle pensioni, sia dall’uso improprio che
la classe politica ha fatto del sistema previdenziale, con obbiettivi di
redistribuzione delle risorse, non sempre corrispondenti a criteri di equità, o
di sostegno alla ristrutturazione del sistema produttivo (prepensionamenti).
Soltanto con l’entrata a regime del metodo contributivo si potrà restituire
117
alla previdenza pubblica la sua funzione assicurativa, sottraendole gli
impropri compiti del passato.
Il metodo retributivo, in particolare quando abbinato al pensionamento
precoce, è causa di distorsioni perché in esso risulta blando (o del tutto
assente, al margine) il collegamento tra contributi e prestazioni e,
soprattutto, inesistente ogni nesso con la longevità attesa al momento del
pensionamento.
Nel nostro modello di simulazione si stimano, per diverse generazioni di
lavoratori dipendenti, le perdite causate dalla permanenza nell’attività
lavorativa una volta raggiunti i requisiti minimi per il pensionamento. I
calcoli (tab. 2) indicano come la “tassa implicita” possa arrivare, per le coorti
per le quali la pensione sarà ancora tutta o quasi tutta retributiva, anche al
60-70% del salario percepito. In queste condizioni, non vi è da stupirsi che i
tassi di attività scendano fortemente a partire da età relativamente giovani,
ossia intorno ai 55 anni. Sotto questo profilo, è facile rilevare (pur se “con il
senno di poi”) un’incoerenza nel disegno previdenziale basato su formule
retributive, nel senso che, paradossalmente, tali formule sembrano
congegnate proprio per “dissipare” la risorsa di cui il sistema ha
maggiormente bisogno, ossia il lavoro regolare. Anche in assenza di dati
rigorosi, infatti, è lecito affermare che le persone che escono in età così
giovane finiscono spesso per alimentare il lavoro irregolare e sommerso.
La “tassa” implicita nella prosecuzione dell’attività di lavoro coinvolge in
modo particolare le generazioni che si possono avvalere, con benefici
determinati interamente secondo il metodo retributivo, della normativa
sulle pensioni di anzianità. Per queste generazioni, lavorare dopo il
raggiungimento dei requisiti minimi è estremamente oneroso: per la
generazione del 1943, ad esempio, la “tassa” è pari al 43% del salario se il
pensionamento è posticipato da 35 a 36 anni di contribuzione; essa sale a
oltre il 70% nel caso in cui il pensionamento sia rinviato quando già si sono
raggiunti 40 anni di anzianità. La tassazione implicita sul proseguimento
del lavoro è ben superiore (in qualche caso anche vicina al doppio) ai
contributi versati.
118
Tab. 2 – FPLD – “Tassa” sul lavoro (in percentuale della retribuzione)
TR (valori %)
Anni di contribuzione
Regime
Coorti
35
37
40
Retributivo
1943
1948
1953
43
52
53
52
59
61
72
72
72
Pro rata
1958
1963
1968
1973
29
20
11
4
29
20
11
3
29
20
10
2
Contributivo
1978
4
3
1983
4
3
1988
4
3
Nota: calcoli riferiti a lavoratori maschi con ingresso nel mercato del
anni.
2
2
2
lavoro a 22
2.
Opzioni e proposte di riforma entro il sistema a ripartizione
2.1
Perché l’estensione del pro rata è una misura insufficiente
Per correggere gli squilibri e le distorsioni della transizione, la più naturale
– e anche meno controversa – ipotesi di riforma è rappresentata
dall’estensione del metodo di calcolo contributivo a tutti i lavoratori, a valere
sull’anzianità residua all’atto dell’entrata in vigore del provvedimento.
Questo tipo di riforma è conosciuto con il nome di estensione del pro rata ,
dove il termine “estensione” si riferisce all’applicazione del metodo anche ai
lavoratori che ne furono esclusi al momento dell’entrata in vigore della
riforma Dini, ossia ai lavoratori con 18 e più anni di anzianità contributiva
all’inizio del 1996. L’esclusione di un’ampia platea di lavoratori fu
probabilmente un prezzo da pagare per l’approvazione delle riforme (sia
quella del 1992, sia quella del 1995); è peraltro ovvio che anche l’estensione
del pro rata , trattandosi di un provvedimento che incide sulla transizione e
non sulla situazione di regime, produrrà effetti che saranno tanto meno
significativi quanto più se ne ritarda l’applicazione.
E’ stato così effettuato un esercizio di simulazione, ipotizzando di applicare
la riforma all’inizio del 2002. Il modello di simulazione CeRP consente di
valutare le conseguenze dell’estensione del pro rata, sia in termini di
riduzione delle distorsioni microeconomiche sulle quali ci si è soffermati nel
precedente paragrafo, sia – attraverso l’uso di una sua versione aggregata –
in termini di contenimento della spesa previdenziale. Sotto entrambi i profili
– correzione delle distorsioni e risparmi di spesa e, perciò, contenimento del
disavanzo – gli effetti di quest’ipotesi di riforma appaiano estremamente
esigui.
119
2.2
Perché e come intervenire sulle pensioni di anzianità
L’origine degli squilibri e delle distorsioni sta nella combinazione di una
formula generosa (quella retributiva) con la bassa età di pensionamento
resa possibile dalla normativa sulle pensioni di anzianità, in presenza di un
forte allungamento della speranza di vita nelle età anziane. Se in ciò sta il
problema, si comprende facilmente come il rimedio non possa che risiedere
nell’introduzione di un qualche meccanismo che aumenti sensibilmente l’età
di pensionamento – attraverso un inasprimento del requisito “età” negli
abbinamenti età/anzianità attualmente previsti per il periodo di transizione
– o corregga, sulla base di un criterio di equità attuariale, l’importo della
pensione (quanto più bassa è l’età, a parità di ogni altra condizione, tanto
più bassa deve essere la pensione).
Il primo rimedio (aumento per legge dell’età pensionabile), benché di sicura
e immediata efficacia nell’alleggerire i problemi finanziari, potrebbe però
imporre perdite di benessere per gli individui e oneri di efficienza al sistema
produttivo. Le situazioni personali e familiari, le possibili utilizzazioni del
tempo in alternativa all’attuale occupazione, e più generalmente le “curve di
indifferenza” fra lavoro e tempo libero per un verso; e il combinarsi degli
effetti dell’anzianità sull’esperienza, ma al tempo stesso sull’obsolescenza,
del lavoratore, per l’altro verso, sono estremamente variabili da caso a caso.
Per conseguenza, nella logica di un sistema previdenziale efficiente e
flessibile anche nella componente pubblica, la correzione attuariale,
ovviamente combinata con la libertà di scelta sull’età di pensionamento, è
decisamente da preferirsi all’innalzamento per legge di tale età o
all’introduzione di “blocchi” temporanei, poiché le soluzioni affidate agli
incentivi sono in genere superiori alle soluzioni dirigistiche, dati gli
inevitabili costi e distorsioni che queste comportano.
La correzione attuariale della componente retributiva della pensione incide
peraltro sui diritti già maturati ed è pertanto, come l’esperienza insegna,
una misura di difficile realizzazione. A sostegno dell’intervento sulle
pensioni di anzianità vi è tuttavia una argomentazione “forte”, e cioè il
notevole allungamento della speranza di vita all’età di pensionamento. Negli
ultimi quattro decenni, la vita attesa alle età 55 e 60 (ma anche 65) è
aumentata di circa un quarto per gli uomini e in misura anche maggiore per
le donne. Si può quindi sostenere che la promessa pensionistica formulata
negli anni Sessanta con l'introduzione della pensione di anzianità non
verrebbe ridotta, bensì “spalmata” sul maggior numero di anni di vecchiaia
che sono un portato del progresso. Non ci sarebbe, pertanto, rottura del
patto, ma un suo adeguamento alle mutate circostanze, a partire dalla
constatazione che il mantenimento delle promesse passate, data la natura
della ripartizione, imporrebbe gravi oneri alle generazioni giovani e future,
le quali si troverebbero a subire le conseguenze di scelte poco lungimiranti
alle quali non hanno concorso.
120
Nel nostro modello di simulazione, la correzione attuariale è consistita
nell’applicare alla quota retributiva delle pensioni un coefficiente dato dal
rapporto tra il coefficiente di trasformazione Dini per l’età considerata e
quello relativo ai 65 anni1. La misura della correzione è indubbiamente
forte, comportando un taglio di benefici pari a circa tre punti percentuali per
ogni anno di anticipazione del pensionamento rispetto all’età 65.
Per calcolare i conseguenti risparmi, si è partiti dalla distribuzione per età e
anzianità dei lavoratori dipendenti pubblici e privati; sotto le ipotesi di
carriere continue e di pensionamento alla maturazione dei requisiti minimi,
sono stati stimati i flussi pensionistici corrispondenti al taglio attuariale
delle quote retributive e si sono raffrontati tali flussi con quelli
corrispondenti alla normativa vigente. La tabella 3 riporta i risultati
principali, distinguendo tra un’ipotesi minima (che considera soltanto i
lavoratori dipendenti maschi) e un’ipotesi massima (che tiene conto, sia pure
con una metodologia più approssimata, dei lavoratori autonomi e delle
lavoratrici dipendenti).
Tab. 3 – Risparmi di spesa conseguenti alla correzione attuariale delle
pensioni di anzianità
Anni
Dipendenti privati
(miliardi di lire 2000)
Dipendenti pubblici
(miliardi di lire 2000)
minimo
massimo
minimo
2010
13.540
22.646
4.633
2015
18.410
30.791
2020
20.750
2025
massimo
Totale
(in percentuale del Pil)
minimo
massimo
9.085
0,72
1,26
6.572
12.887
0,92
1,62
34.705
7.219
14.155
0,96
1,68
21.142
35.359
7.159
14.037
0,90
1,58
2030
19.852
33.203
6.523
12.791
0,78
1,36
2035
16.718
27.261
5.366
10.521
0,61
1,06
2040
12.632
21.127
3.919
7.685
0,42
0,73
2045
8.482
14.186
2.466
4.836
0,26
0,45
2050
5.021
8.397
1.305
2.559
0,14
0,24
Non sorprendentemente, la riduzione di spesa è decisamente superiore a
quella ottenibile con la sola estensione del pro rata. In particolare, il flusso
annuo di risparmio raggiunge, intorno al 2020, un massimo compreso nella
forbice tra l’uno per cento circa del Pil e l’1,7%.
Per le età inferiori ai 57 anni è stato applicato il coefficiente relativo a tale età.
L’intervento da noi simulato riguarda soltanto le pensioni di nuova liquidazione.
Nulla vieta ovviamente (e anzi ragioni di equità lo sosterrebbero) che tale
intervento possa essere esteso anche ai pensionati che già godono di una pensione di
anzianità, nella forma di un contributo di solidarietà fatti salvi certi limiti di reddito
famigliare.
1
121
Una considerazione importante riguarda l’accettabilità sociale dell’ipotesi di
riforma sopra delineata. Mentre infatti l’estensione del pro rata non tocca i
“diritti acquisiti” a una certa data, stabilendosi che le nuove norme valgano
per tutti ma solo per il futuro, la correzione attuariale della componente
retributiva della pensione, come già ricordato, incide su diritti, o almeno su
precise aspettative, già maturati. E’ facile prevedere una forte opposizione a
tale provvedimento2.
Naturalmente, nulla vieta che in sede di discussione politica e operativa di
un provvedimento di correzione delle pensioni di anzianità si possa
attenuarne la severità, adottando un’età benchmark inferiore, ad esempio 62
anni, ossia alzando i coefficienti di correzione delle pensioni di anzianità. I
risparmi si ridurrebbero ma resterebbero significativamente superiori a
quelli ottenibili con l’estensione del pro rata .
Nulla vieta poi che siano previste eccezioni motivate dalla differente
mortalità di alcune categorie di lavoratori, impegnati in lavori
maggiormente usuranti, per le quali le riforme degli anni Novanta hanno
già previsto disposizioni particolari per le pensioni di vecchiaia per le quali
potrebbe mantenersi inalterata l’attuale normativa sul pensionamento di
anzianità.
2.3
Alcune considerazioni sulle gestioni dei lavoratori autonomi
Le gestioni dei lavoratori autonomi sono state caratterizzate, sin dalla loro
nascita (1957 per i coltivatori diretti, 1959 per gli artigiani, 1966 per i
commercianti), da norme di favore, ossia da un rapporto tra i contributi
versati e le prestazioni godute da ciascun assicurato assai più generoso di
quello dei lavoratori dipendenti.
Anche dopo l’aumento dell’aliquota (intervenuto tra il 1991 e il 1994) dal 12
al 15%, la riforma Dini e la successiva norma (legge 449/1997) che ha
disposto l’ulteriore aumento al 19% (peraltro con snervante gradualità: 0,8%
dal 1998 e 0,2% l’anno successivamente, così che sono necessari 16 anni per
percorrere la strada dal 15,8 al 19%!), la situazione permane privilegiata sia
per i titolari di anzianità superiori a 18 anni nel 1995, sia per i soggetti al
pro rata. Si considerino due esempi di carriere continue:
un nuovo iscritto del 1975, il quale consegua la pensione di anzianità
nel 2010, avrà corrisposto contributi modesti nel 1975-81, ancora moderati
nel 1982-1990, e crescenti dal 12 al 18,2% del reddito nel 1991-2010, e godrà
della piena pensione retributiva;
2 In effetti, in sedi politiche ed istituzionali si è “aggirato” il problema proponendo
una soluzione alternativa assai più blanda (ma ovviamente assai meno efficace)
consistente nel “premiare”, con un azzeramento dell’aliquota contributiva, la
permanenza al lavoro di chi abbia maturato i diritti per la pensione di anzianità.
122
un nuovo iscritto del 1980, il quale consegua la pensione di anzianità
nel 2015, avrà corrisposto contributi moderati nel 1981-1990 e crescenti dal
12 al 19 per cento nel 1991-2015, e godrà della pensione pro rata
determinata per 15/35 col metodo retributivo e per 20/35 col metodo
contributivo, riferito a un'aliquota di computo del 20%.
Ciò ricordato e premesso, tutte le proposte in precedenza avanzate possono
essere estese, in qualche caso a fortiori, ai lavoratori autonomi. In
particolare:
l'estensione del pro rata trova le medesime motivazioni già esposte,
oltre che, sul piano equitativo, anche rispetto al tenue livello contributivo
degli anni anteriori al 1990; al tempo stesso, però, tale misura è da
considerarsi assai poco efficace;
la correzione attuariale delle pensioni di anzianità è egualmente
motivata e assai più efficace.
2.4
Aspetti problematici del nuovo regime
Al di là dei problemi finanziari presenti durante la fase di transizione al
nuovo regime, è opportuno ricordare gli aspetti problematici che si
proporranno anche quando esso sarà pienamente operativo. Questi aspetti
vertono essenzialmente sui punti seguenti:
i. i coefficienti di trasformazione e il loro aggiornamento;
ii. la costanza della pensione, in termini reali, durante il periodo di
godimento;
iii. il limite inferiore all'età di pensionamento e il limite superiore all'età di
calcolo dei coefficienti di trasformazione;
iv. la redistribuzione insita nel nuovo sistema;
v. i divieti di cumulo.
Tutti questi aspetti vengono considerati nella versione integrale del
Rapporto. In questa sintesi, ci si soffermerà soltanto sul primo e sull’ultimo.
I coefficienti di trasformazione e il loro aggiornamento. Il montante
contributivo, come è noto, viene convertito in rendita moltiplicandolo per i
coefficienti di trasformazione contenuti nella tabella allegata alla legge di
riforma (n. 335 del 1995). La relazione al disegno di legge precisa che questi
coefficienti sono calcolati con riferimento alle tavole di mortalità Istat per il
1990 e a un tasso di interesse dell'1,5%. La legge (art. 1, comma 11) dispone
che il Ministro del lavoro, sulla base delle rilevazioni demografiche,
ridetermini ogni dieci anni il coefficiente di trasformazione.
123
La tabella 4 indica, per le età 57-65:
le speranze di vita secondo le tavole di mortalità Istat 1990;
le speranze di vita secondo le ultime tavole Istat disponibili (1996);
le speranze di vita secondo le proiezioni della Ragioneria generale dello
Stato (1995), ormai diffuse anche nell'uso delle compagnie private di
assicurazione e usualmente indicate come RG483.
Tab. 4. - Speranze di vita (anni) alle diverse età secondo il genere
Età
Istat 1990
Istat 1996
Rg48
M
F
M
F
M
F
57
20,76
25,64
21,84
26,63
25,04
30,55
58
19,97
24,76
21,02
25,73
24,17
29,61
59
19,19
23,88
20,22
24,84
23,32
28,67
60
18,42
23,00
19,42
23,96
22,46
27,73
61
17,68
22,13
18,65
23,08
21,62
26,79
62
16,94
21,27
17,89
22,21
20,78
25,86
63
16,22
20,42
17,14
21,35
19,94
24,93
64
15,52
19,57
16,41
20,49
19,12
24,00
65
14,83
18,74
15,69
19,65
18,30
23,07
La tabella mostra quanto rilevante sia l'effetto dell'aumento della longevità.
Già nell'arco di sei soli anni, quale intercorso fra il 1990 e il 1996, la vita
attesa aumenta, per tutte le età considerate (57-65) e per ambedue i generi,
di circa un anno. Le tavole Rg48 prevedono (rispetto al 1990) un
allungamento di circa quattro anni per i maschi e di quasi cinque per le
femmine.
Se ne conclude che:
l'adeguamento soltanto decennale alle tavole di mortalità effettive
(ossia già statisticamente rilevate) può creare, nell'ambito del decennio, un
gap crescente tra i coefficienti applicati e quelli che corrispondono alle tavole
più recenti; nel decennio 1990-2000 (essendo a oggi note soltanto le tavole
1996) è presumibile che questo divario raggiunga l’ordine di un decimo;
Si tratta di tavole che considerano un nato nel 1948 e stimano le sue probabilità di
sopravvivenza alle diverse età secondo le “proiezioni”, per gli anni successivi al
1994, delle tendenze in atto. Per i nati degli anni successivi bisognerebbe inoltre
tenere conto (ma non lo si è fatto nel presente studio) degli ulteriori aumenti della
longevità.
3
124
poiché non è pensabile (e comunque non si vuole pensare a) una
riduzione del valore reale delle pensioni una volta liquidate, se i coefficienti
sono commisurati a tavole di mortalità effettive (anche se aggiornate) ma
non proiettate, l'aumento di speranza di vita che si manifesta durante il
godimento della pensione (e quindi lungo periodi di alcuni decenni) si
traduce in aumenti di spesa che non possono non riversarsi in un rilevante
disavanzo del sistema. Volendo riportare il meccanismo alle condizioni
necessarie per l'equilibrio finanziario, sarebbe necessario determinare
periodicamente (meglio se addirittura annualmente) i coefficienti di
trasformazione in base alle speranze di vita proiettate secondo le più
attendibili previsioni demografiche di volta in volta disponibili.
I divieti di cumulo pensione-retribuzione. Questi divieti sono espressi,
nella legislazione vigente sino al dicembre 2000, da norme complesse e
intricate, che distinguono fra pensione di vecchiaia e di anzianità, fra
pensioni derivanti da lavoro dipendente e autonomo, fra prosecuzione nel
settore del lavoro dipendente e autonomo, e ancora si differenziano in base
all'entrata in vigore, e quindi al momento di decorrenza della pensione (o di
raggiungimento dei requisiti).
Il principio sembra trovare appoggio nell'una o nell'altra di due
argomentazioni, che si possono così approssimativamente sintetizzare:
a) il numero dei posti di lavoro è un dato fisso, e quindi un pensionato non
deve sottrarre lavoro a un giovane;
b) la pensione è in qualche misura un favore o un regalo, e chi la riceve deve
“pagarla” in termini di rinuncia ad altri redditi da lavoro.
La prima argomentazione è debole per una pluralità di motivi: i posti di
lavoro sono più o meno disponibili secondo la qualificazione, l'area
geografica, l'orario pieno o parziale, e vari altri elementi, e perciò per molti
di essi l'alternativa non è fra un lavoratore anziano e uno giovane, ma fra un
lavoratore anziano e nessun lavoratore.
La seconda argomentazione, quale che ne sia l'attuale fondamento, non ne
avrà alcuno a regime, ossia dopo che troverà piena applicazione il principio
di equità attuariale che ispira la riforma Dini.
Sotto ambedue i profili, è essenziale aggiungere che il pensionato lavoratore
è già soggetto a contribuzione previdenziale e a imposizione fiscale.
L'ulteriore penalizzazione derivante dalla rinuncia a una parte (o alla
totalità!) della pensione gli lascia un margine talmente piccolo che, ove gli si
presenti una possibilità di lavoro, l'incentivo all'occultamento totale e quindi
al lavoro nero diventa irresistibile. Sono quindi chiaramente frustrati sia
l’intento di lasciare libero un posto di lavoro, sia quello di decurtare il
reddito del pensionato-lavoratore.
125
Appropriatamente ha quindi operato la legge finanziaria 2001 (388/2000,
art. 72), lasciando piena libertà di cumulo alle pensioni di vecchiaia e a
quelle maturate dopo almeno 40 anni di contribuzione, e attenuando le
limitazioni per le pensioni maturate con anzianità inferiori a 40 anni. La
piena liberalizzazione anche per queste ultime può destare qualche
perplessità sotto il profilo equitativo, ma tenuto conto delle maggiori
probabilità di evasione (ossia di lavoro nero) per i pensionati più giovani è
probabilmente opportuno procedervi in nome del realismo. La piena libertà
di cumulo dovrà a fortiori accompagnarsi alle pensioni (anche di anzianità)
di futura liquidazione ove si adottassero i provvedimenti correttivi (nel
senso dell’equità attuariale) in precedenza proposti sub 2.2.
3.
Le ragioni a favore di un sistema misto
3.1 Il confronto fra steady states e i tassi di rendimento: l’evidenza
storica
Viene spesso proposta – in particolare negli Stati Uniti, ma anche in molti
altri paesi fra cui da qualche tempo il nostro – la tesi che l'unico rimedio agli
squilibri della ripartizione sia un deciso e integrale ritorno alla
capitalizzazione. Nella sua formulazione più elementare, il dibattito si
limita al confronto fra due situazioni di steady state, l’una rappresentata da
un sistema a ripartizione e l’altra da un sistema a capitalizzazione. Nel
primo, come è noto, il rendimento implicito dei contributi è pari al tasso di
sviluppo della massa salariale (in prima approssimazione fatto pari al tasso
di aumento del Pil: n+g), mentre nel secondo i contributi, accantonati a
riserva, fruttano il rendimento dei mercati finanziari r. Se il tasso r, pur
depurato dei costi di gestione, è superiore a n+g, la capitalizzazione
permette il medesimo livello di prestazioni con contributi inferiori, o un
maggiore livello di prestazioni a parità di contributi.
La stima dei rendimenti reali attesi per varie classi di attività finanziarie su
orizzonti futuri anche lunghi riveste dunque un'importanza cruciale nella
formulazione di ipotesi di riforma dei sistemi di previdenza sociale e nella
valutazione comparativa di proposte che assegnano pesi diversi alla
componente a capitalizzazione. Recentemente, numerosi studi hanno
analizzato l'andamento di lungo periodo dei rendimenti su azioni e titoli,
concentrandosi su quei paesi per cui vi è maggiore disponibilità di dati con
copertura temporale sufficientemente lunga, in primo luogo gli Usa.
Il testo integrale del Rapporto fornisce in materia, attraverso tabelle e
grafici, numerose indicazioni quantitative di tipo storico riferite a lunghi
periodi, indicazioni che si possono qui così riassumere:
il rendimento dei mercati azionari è mediamente (e sensibilmente)
superiore a quello del reddito fisso;
126
il rendimento dei mercati azionari è mediamente superiore al tasso di
variazione del Pil.
3.2
Dall’evidenza storica alle previsioni
Prima di concluderne che un sistema a capitalizzazione è più efficiente (nel
senso sopra indicato di permettere uguali prestazioni con contributi inferiori
o prestazioni maggiori con uguali contributi), ci si deve però domandare
quale fondamento si possa trovare nel passato per prevedere l’avvenire. I
rendimenti annui delle azioni assomigliano all’estrazione di palline da
un’urna – sempre dalla medesima urna ! – così da potere essere analizzati
con le stesse tecniche statistiche con cui si studiano le proprietà di un
campione casuale? Oppure (anche accettando l’ipotesi che le istituzioni
politico-economiche rimangano sostanzialmente immutate e rispettose della
proprietà privata e della libertà di iniziativa) la storia non si ripete mai, e
riserva continue sorprese?
Approfondite analisi condotte secondo la tecnica suggerita da Fama e
French (2001), e diffusamente illustrate nel Rapporto, mostrano come
l’utilizzo dei rendimenti realizzati come guida per previsioni su un orizzonte
futuro possano produrre gravi distorsioni dei risultati. Varie altre ragioni
possono spiegare perché i rendimenti oggi attesi per il futuro possano essere
anche sostanzialmente inferiori a quelli rilevati storicamente. Diamond
(1999) mette in evidenza alcuni aspetti dell'evoluzione recente sui mercati
finanziari che possono comportare la diminuzione dell'equity premium
atteso per il futuro, e in particolare: la presenza più massiccia sul mercato
dei fondi comuni di investimento; la riduzione dei costi di investimento
mediante fondi; la sempre maggiore diffusione dell'investimento azionario,
diretto o intermediato, fra il pubblico, ciò che, ripartendo il rischio su un
numero maggiore di individui, tende a ridurre il premio richiesto sulle
azioni.
E' plausibile ipotizzare che i fenomeni appena ricordati, interessando
maggiormente i mercati azionari, possano determinare una riduzione del
premio al rischio futuro soprattutto attraverso una diminuzione dei
rendimenti attesi sulle azioni. Questo insieme di fattori induce a guardare
con scetticismo ogni semplice estrapolazione al futuro degli elevati
rendimenti azionari realizzati negli ultimi decenni, a maggior ragione se tali
proiezioni sono basate unicamente sull'esperienza degli Usa, suggerendo
invece un più elevato grado di prudenza.
3.3
La variabilità dei rendimenti
Una diversa e ulteriore questione attiene al fatto che, pur se mediamente
più elevati, i rendimenti azionari sono anche più oscillanti, più incerti, più
rischiosi. Ad esempio, Siegel (1998, p. 27) mostra che le medie quinquennali
dei rendimenti annui del mercato Usa nel periodo 1802-1997 oscillano tra
127
26,7% e –11%; per periodi ventennali, l’intervallo si restringe a 12,6% e 1%.
Pur adottando la visione di Siegel, dunque, un orizzonte dell’ordine di
cinque anni non offrirebbe affatto garanzia di rendimenti azionari positivi.
Se pur pochi nella tranquilla ottica di uno studioso che osservi gli
avvenimenti ex post, cinque anni sono un’eternità per un gestore che debba
quotidianamente affrontare i commenti della stampa, le lettere degli iscritti,
il confronto con gli altri gestori. Come si sarebbe trovato, nel corso del
quinquennio che aveva registrato un rendimento annuo medio del –11%,
quel gestore che avesse impiegato in azioni la totalità delle sue riserve?
Come avrebbe potuto tranquillizzare i suoi iscritti e indurli a pazientare per
altri dieci-quindici anni?
L’investimento azionario sembrerebbe quindi problematico per un fondo
pensione, che per sua natura deve fornire garanzie di certezza a chi ne
attende una fonte di sostegno per la propria vecchiaia.
Le oscillazioni dei rendimenti possono essere attenuate investendo le riserve
non già interamente in azioni, ma almeno in parte (la letteratura suggerisce
spesso una frazione dell’ordine di un terzo o due quinti: cfr. ad es.
Modigliani et al. 2000, p.4) in obbligazioni, che, fatta eccezione dei periodi di
intensa e imprevista inflazione, si suppone fruttino tassi reali mediamente
inferiori ma più stabili.
Un altro e più sofisticato rimedio suggerisce che lo Stato garantisca un
rendimento predeterminato, assumendosi il rischio delle oscillazioni.
Modigliani et al. (2000, pp. 25-28) ritengono l’intervento statale non soltanto
possibile, ma anche vantaggioso per il bilancio pubblico ove il rendimento
garantito sia pari al 5,2%.
Tuttavia, per quanto si è detto nei paragrafi precedenti sull’evidenza storica,
sulle cautele necessarie per passare dall’esperienza alle previsioni e sulla
variabilità dei rendimenti, il ricorso alla garanzia statale appare denso di
rischi e di pericoli. Quando pure il tasso garantito fosse inferiore all’atteso,
se la deviazione standard della media secolare si colloca nell’ordine del 2%
anche un soggetto con orizzonti lunghissimi, come lo Stato, potrebbe trovarsi
in difficoltà nell’integrare i rendimenti, per periodi pluridecennali, a tale
minimo. Si correrebbe il rischio di addossare al bilancio pubblico, cioè alle
coorti attive, una parte non irrilevante del costo della previdenza sociale, e
quindi di reintrodurre una sostanziale (e surrettizia) dose di ripartizione in
un sistema che si era voluto portare alla capitalizzazione. Alternativamente,
ci si potrebbe limitare a garantire un tasso molto modesto, ma in tal caso
verrebbe meno lo scopo stesso della garanzia, quello di assicurare un
soddisfacente tenore di vita.
128
3.4
Perché un sistema misto
Una via d’uscita dal dilemma è offerta dallo schema analitico delle scelte di
portafoglio. Sotto le ipotesi, del tutto ragionevoli, che i rendimenti dell’uno e
dell’altro sistema siano, oltre che incerti, non perfettamente correlati, e che i
soggetti siano razionali e avversi al rischio, la scelta della combinazione
ottima
rischio-rendimento
dovrebbe
condurre
alla
simultanea
partecipazione nei due sistemi, ossia alla diversificazione del portafoglio
previdenziale. Così la ripartizione come la capitalizzazione appaiono non
immuni da rischi; poiché tali rischi sono almeno parzialmente indipendenti,
la partecipazione contemporanea ai due sistemi offre ai soggetti una certa
possibilità di compensarli.
Nelle parole di Lindbeck (2000, p. 22), “ In a world of uncertainty, we also
have to look at the risk-return combination of alternative pension systems.
The returns on PAYGO pension claims are not fully correlated with the
return on the claims in the context of actuarially fair pension systems. First,
the growth rate of the tax base of a PAYG system (i. e., aggregate earnings)
and the return on financial markets are not fully correlated, in particular,
when pension funds have foreign assets. The political risk is also likely to
differ because claims on funded systems with individual accounts probably
provide stronger property rights than do pension claims in PAYGO
systems…What all these points boil down to is that a combination of
PAYGO and a fully funded system provides a richer portfolio of “assets”
than either of these pension systems in isolation. This seems to be the main
rationale for a partial shift to a fully funded system”.
3.5
I problemi della transizione
Quando pure, peraltro, si potesse dimostrare la dominanza della
capitalizzazione rispetto alla ripartizione, ambedue considerate
astrattamente e in vacuo, questa dimostrazione non permetterebbe di
ignorare i problemi della transizione dal sistema a ripartizione di fatto
esistente a quello della capitalizzazione.
Non si possono infatti disattendere le aspettative che le generazioni adulte e
anziane sono venute formandosi sulla base della legislazione anteriore. In
altre parole, è ben vero che, se r > n+g, la transizione dalla ripartizione alla
capitalizzazione offrirebbe alle generazioni che si affacceranno sul mercato
del lavoro a transizione compiuta un rendimento superiore del loro
risparmio previdenziale (o un minore costo per il medesimo livello di
prestazioni); ma questo vantaggio sarebbe stato pagato dalle generazioni
che, nel corso della transizione, hanno sostenuto il doppio onere del rispetto
delle promesse del vecchio sistema e dell’accumulazione delle riserve del
nuovo.
Le proposte di transizione completa, se pure lenta e graduale, dalla
ripartizione alla capitalizzazione (propugnate da autorevoli studiosi fra i
129
quali, per gli Usa, Martin Feldstein, e per l’Italia Franco Modigliani) non
ignorano il problema del trasferimento intergenerazionale, ma lo presentano
come facilmente superabile grazie all’eccedenza di r su n+g. In una delle
numerose versioni delle loro proposte, Feldstein e Samwick (1997)
ipotizzano che il sistema a capitalizzazione possa investire le sue riserve al
tasso annuo reale del 9%. Con rendimenti inferiori la transizione è
ovviamente più onerosa e/o più lunga. E’ in ogni caso importante
sottolineare e ribadire che essa non può offrire (a meno di fare conto su
effetti indiretti quali una riduzione delle distorsioni e un aumento del
reddito da essa indotto) un free meal di cui tutti possano beneficiare, ma
soltanto un trasferimento tra generazioni, esattamente analogo, ma opposto
di segno (perché favorisce le generazioni future con onere delle presenti), a
quello che si accompagna all’introduzione di un sistema a ripartizione
(Kotlikoff, 1987).
Anche la proposta avanzata per l'Italia da Modigliani e Ceprini (illustrata
nel box 3.1 del Rapporto) non sfugge a questo trade off. Essa infatti:
a)
lascia a carico della finanza pubblica, anche a regime, un onere pari al
10% del monte retributivo (oltre a un 2-6% nella fase transitoria);
b)
sottrae alle imprese la disponibilità di oltre i due terzi del Tfr,
imponendo loro il maggiore costo di un equivalente finanziamento sul
mercato;
c)
ipotizza un rendimento reale delle riserve pari al 5%, che per le ragioni
illustrate in precedenza pare a noi troppo ottimistico, e
d)
ritiene implicitamente “gratuita” la garanzia statale di questo
rendimento4, mentre – per le stesse ragioni - noi temiamo che ciò possa
rappresentare un surrettizio ritorno ad un almeno parziale finanziamento a
ripartizione. (Senza dire del timore, da molti avanzato, che nelle mani dello
Stato una massa di attività finanziarie pari a oltre tre volte il monte
retributivo possa soggiacere, per pressioni politiche, a usi impropri).
Dalle considerazioni di questo paragrafo discende dunque la duplice
conclusione che il passaggio integrale dalla ripartizione alla capitalizzazione
imporrebbe alle coorti attive nel corso del processo sacrifici molto onerosi,
che esse difficilmente accetterebbero; e che anche sotto questo profilo appare
più appropriato proporsi una transizione soltanto parziale dall’uno all’altro
sistema, mirando a un sistema misto.
“Il rischio è assorbito tutto dallo Stato che, con la sua vita infinita, e con il potere
di transazione, è in grado di sopportare quel rischio più di quanto non lo sia un
povero disgraziato. Inoltre, lo Stato ha la possibilità di distribuirlo su molte
generazioni; diversamente si concentrerebbe solo su quel povero disgraziato”
(Modigliani 2000, p. 146).
4
130
4. Verso il sistema misto
Nel nostro paese, la componente a capitalizzazione può essere costruita
secondo due scenari:
a) in uno scenario “conservativo”, il sistema pubblico rimane immutato, e
l'alimentazione della componente a capitalizzazione ha luogo attraverso
flussi di nuovo risparmio e/o attraverso il dirottamento di risparmi da altri
impieghi (e segnatamente, per i lavoratori dipendenti, dal trattamento di
fine rapporto);
b) in uno scenario “innovativo”, viene offerta ai lavoratori dipendenti la
possibilità di opting out dal sistema pubblico, con riduzione dell’aliquota e
corrispondente capitalizzazione delle quote di costo del lavoro così liberatesi.
4.1
La grande illusione del Tfr
Quanto allo scenario conservativo, fin dalla riforma Amato la normativa
italiana prevede e incoraggia il finanziamento mediante l’utilizzazione
(limitatamente ai flussi di futura maturazione) del Tfr, con l’aggiunta di
contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro (i lavoratori autonomi,
ovviamente, possono contribuire soltanto in proprio).
Il Tfr come passività delle imprese e come attività dei lavoratori. Il
dibattito sulle possibili utilizzazioni del Tfr a fini previdenziali guarda
solitamente alla sua natura di passività delle imprese (in quanto quota
differita del costo di acquisizione del lavoro) e ai costi che a queste
deriverebbero ove ne fosse disposta un’erogazione immediata.
L'usuale dibattito trascura l'altro aspetto altrettanto importante del Tfr,
quello di attività nel portafoglio dei lavoratori. Trattandosi di un’attività
remunerata a un tasso relativamente basso (1,50% + 75% del tasso di
inflazione), se ne potrebbe dedurre un loro evidente interesse a trasferirlo ai
fondi pensione. Non si può però trascurare il fatto che, per i lavoratori, il Tfr
svolge tre funzioni: di buffer stock per l’eventualità di perdita del lavoro; di
importo che può essere destinato, quando siano trascorsi almeno otto anni di
servizio presso lo stesso datore di lavoro, a spese mediche rilevanti o
all’acquisto della casa; di somma da incassare all’atto del pensionamento per
deciderne soltanto allora la destinazione.
Il dirottamento del Tfr a fondi pensione può quindi provocare un
aggravamento dei vincoli di liquidità il cui peso non deve essere
sottovalutato. Se ciò è vero, la “preferenza per la liquidità” dei lavoratori
spiega la riluttanza ad aderire ai Fondi pensione pur in presenza di
facilitazioni fiscali. Per la stessa ragione appare giustificato il fatto, spesso
invece sottolineato come abnorme e inspiegabile, che nelle adesioni ai Fondi
pensione le classi di età giovani appaiano più esitanti di quelle intermedie.
131
Non ci si deve sorprendere se, nell’ultima ricerca Bnl-Centro Einaudi, alla
domanda “verso quale forma di finanziamento dei fondi pensione Lei è più
favorevole" ben pochi (il 3,2%) abbiano risposto “con l’accantonamento totale
futuro del Tfr” e soltanto il 13,6% “con l’accantonamento parziale futuro del
Tfr”. I lavoratori mostrano dunque di non gradire la rete di illiquidità che il
legislatore ha tessuto attorno alle somme dirottate dal Tfr ai fondi pensione.
Ove volesse insistere nelle sue pressioni per la utilizzazione del Tfr, il
legislatore potrebbe inserirle nell'ottica dell'opting out, offrendo la riduzione
dell'aliquota pubblica soltanto a chi si impegni a devolvere alla previdenza
complementare, in tutto o in parte, il Tfr (cfr. infra), e al tempo stesso
prevedendo una qualche forma di compensazione a favore dei datori di
lavoro.
4.2
L’opting out: una soluzione di efficienza e di libertà
Questa misura consiste nella possibilità offerta ai lavoratori di uscire dal
sistema pensionistico pubblico dirottando l’aliquota, o parte di essa, a uno
schema privato. L’ipotesi che qui si considera può essere così formulata: se il
lavoratore sceglie di destinare i flussi di Tfr a fondo pensione, l'aliquota
contributiva pubblica è ridotta dall'attuale 32,7% (per semplicità: 33%) al
25%, ossia di 8 punti, di cui 3 a favore dell’impresa (in termini di riduzione
del contributo a suo carico) e 5 da destinare al fondo pensione 5.
I costi e i benefici per la finanza pubblica. Questi elementi sono esposti
nella tabella 5, la quale riguarda il solo FPLD e assume che l’opzione sia
offerta ai soli nuovi entranti nel mercato del lavoro e che tutti gli aventi
diritto se ne avvalgano.6
Tab. 5 – Costo (in percentuale del Pil) della riduzione da 33% a 25%
dell’aliquota del FPLD
5
Anno
%
Anno
%
2005
2010
2015
2020
2025
2030
2035
0,16%
0,33%
0,49%
0,65%
0,82%
0,98%
1,14%
2040
2045
2050
2055
2060
2065
2070
1,30%
0,93%
0,62%
0,28%
-0,06%
-0,06%
-0,06%
Allo scopo di offrire un cuscinetto utilizzabile dal lavoratore in caso di scioglimento del
rapporto, si potrebbe in alternativa disporre che il TFR continui a essere accumulato presso
l'impresa per i primi due o tre anni di anzianità.
6
I (modesti) valori negativi degli ultimi anni simulati indicano i risparmi di spesa pensionistica
in percentuale del Pil che si avrebbero una volta che tutte le pensioni fossero pagate secondo la
nuova aliquota ridotta.
132
Per i pubblici dipendenti, la cui normativa, in seguito ai processi di
armonizzazione posti in atto dalle riforme Amato e Dini, tende verso la
convergenza col FPLD, si può ipotizzare un'analoga transizione:
abbassamento dal 32% al 25% dell'aliquota applicata alle nuove coorti.
Poiché l’occupazione dipendente nel settore pubblico ammonta a circa il 30%
di quella del settore privato, le cifre della tabella possono – in primissima e
grossolana approssimazione – essere aumentate di analoga percentuale.
Si può quindi concludere che, per ridurre di un quarto (dalle aliquote del
33% o 32% al 25%) il livello di copertura del sistema a ripartizione per i
lavoratori dipendenti pubblici e privati, è necessaria una fase di transizione
lunga oltre mezzo secolo, nel corso della quale, per rispettare senza
decurtazioni le attese delle coorti precedenti, si deve sostenere un maggiore
onere che dapprima cresce sino a un ordine di grandezza del 2 per cento del
Pil e poi, sempre gradualmente, ritorna a zero.
I benefici per gli individui. La tabella 6 considera un profilo retributivo
crescente del 2% l'anno mentre il Pil aumenta all'1,5%. L'attività lavorativa
inizia all'età 25 e termina, nei tre casi considerati, alle età 57, 60 e 65. La
tabella indica il trattamento pensionistico, in termini di tasso di sostituzione
tra pensione e ultima retribuzione, nello status quo e per un lavoratore che
abbia esercitato l’opzione (la quota di Tfr è arrotondata dal 6,91 al 7%)7. Si
considerano due differenti tassi di rendimento della capitalizzazione (2,5 e
4%): per le ragioni dette nel capitolo precedente, il secondo tasso si può
ritenere un limite superiore oltre il quale si peccherebbe di ottimismo.
Tab. 6 - Tassi di sostituzione (TS) con Tfr (7%) e opting out (5%)
TS dal
TS dal
TS da
TS da
TS da
PAYG
PAYG
con
capital.ne
pensione
capital.ne
Età di
attuale
opting out (7%+5%)
mista
(7%+5%)
pensiona(33%)
(25%)
r=2.5%
r=4%
mento
TS da
pensione
mista
57
I
0,398
ii
0,302
iii
0,196
iv = ii + iii
0,498
v
0,306
vi= ii + v
0,608
60
0,464
0,352
0,230
0,582
0,363
0,715
65
0,604
0,458
0,301
0,759
0,485
0,943
Le colonne iv e vi mostrano, nelle due ipotesi di tasso di rendimento, il
tasso di sostituzione complessivo. La differenza fra l’una o l’altra di queste
due colonne (che includono il frutto della rinuncia al Tfr) e la colonna i (che
lascia intatto il Tfr) è ovviamente crescente, grazie all’azione degli interessi
composti, al crescere sia dell’età di pensionamento, sia del tasso di interesse.
La differenza sale quindi da dieci punti percentuali nel caso più povero (età
57, tasso 2,5%) a 34 nel caso più ricco (età 65, tasso 4%). Anche se nella
tabella 4.1 si è supposto che tutti gli aventi diritto scelgano l’opting out,
nulla dunque assicura che questo comportamento sia seguito anche da
Si sono utilizzate le tavole di mortalità RG48 sia per il calcolo (senza caricamento
di spese) delle rendite da capitalizzazione, sia per le pensioni da PAYG.
7
133
coloro che prevedono o temono carriere discontinue e/o relativamente brevi,
e ai quali la differenza tra i tassi attesi di sostituzione potrebbe apparire
insufficiente a compensare la rinuncia al Tfr.
Quanto alle imprese, la riduzione dell’aliquota a loro carico costituisce in
parte la compensazione per la rinuncia al finanziamento sinora
rappresentato dal Tfr, e in parte una riduzione del costo del lavoro. L’onere
della rinuncia dipende per ogni impresa dall'anzianità media dei lavoratori,
ed è tanto maggiore quanto più alta è l'anzianità.
Perché dunque l’opting out? Per esprimere una valutazione conclusiva, è
opportuno confrontare l’opting out con altre due possibili strategie: il
mantenimento dello status quo e il passaggio alla capitalizzazione pura.
La prima strategia, quando pure accompagnata dalle misure necessarie per
riportare più prontamente in equilibrio le entrate e le uscite del sistema a
ripartizione, implica per i lavoratori dipendenti la perpetuazione di un
sovraccarico contributivo (quale quello corrispondente all’aliquota del 33%),
di un rendimento implicito compresso dalla stagnazione della popolazione
lavorativa e di un portafoglio previdenziale palesemente subottimale.
Nemmeno il passaggio alla capitalizzazione pura, come si è visto nel capitolo
terzo, appare peraltro proponibile, sia perché anche questo portafoglio non si
configura come ottimale, sia per la concreta insopportabilità dei sacrifici che
sarebbero necessari durante la fase di transizione.
L’opting out è dunque la media virtus tra questi due estremi ugualmente
inaccettabili8. Non è una soluzione miracolistica; non è un free meal; non è
un ottimo paretiano al quale si possa giungere con beneficio dei più e senza
costi per alcuno. E’, a noi pare, l’unica scelta realistica tra l’immobilismo e
l’utopia.
I parametri qui suggeriti per l’opting out (riduzione dell’aliquota da 33% a 25%,
con risparmio di 3 punti percentuali per le imprese e devoluzione di 5 punti alla
capitalizzazione) non hanno alcunché di necessario o di predeterminato, e possono
essere modificati. Una riduzione complessiva maggiore permetterebbe di
raggiungere, nella configurazione finale, una più bassa aliquota pubblica (per
esempio, 22 o 20%) e, presumibilmente, un più equilibrato portafoglio previdenziale;
ma al tempo stesso implicherebbe un più elevato costo di transizione. A parità di
riduzione dell’aliquota, più punti percentuali destinati alle imprese potrebbero
avere effetti benefici sulla domanda di lavoro, ma verrebbero pagati dai lavoratori
in termini di minore trasferimento ai fondi pensione. I parametri qui proposti, sia
pure con ampio margine di arbitrio, sono sembrati un accettabile compromesso fra
queste diverse e contrapposte esigenze.
8
134
5.
Il ruolo dei fondi pensione
5.1
Premessa
Il quadro del sistema previdenziale, nella sua configurazione presente e
futura, non sarebbe completo se non includesse qualche considerazione sugli
scenari evolutivi per la previdenza complementare.
L’attività del legislatore in questo ambito è stata, in parallelo con gli
interventi sul sistema obbligatorio degli anni Novanta, particolarmente
intensa ma anche, almeno finora, assai poco efficace. La ragione principale
del mancato decollo è imputabile alla carenza di risorse immediatamente
destinabili al pilastro complementare, oltre che all’elevatezza della
contribuzione obbligatoria, almeno per quanto concerne i lavoratori
dipendenti privati e pubblici. Una seconda ragione sta nel tardivo, e in molti
casi ancora insufficiente, riconoscimento, da parte del legislatore,
dell’opportunità di offrire incentivi fiscali “veri” – e non soltanto “sulla
carta” – al risparmio previdenziale.
Sembra oggi potersi affermare che la disciplina “civilistica” sulla previdenza
complementare sia in sé adeguata agli obiettivi che si propone, anche perché
fortemente ancorata ai principi di portabilità pensionistica e di mobilità dei
capitali su cui si fonda la libera circolazione dei fattori produttivi a livello
europeo.
5.2
La convenienza indotta dai benefici fiscali
Quanto agli aspetti fiscali, soltanto di recente il legislatore è giunto a una
disciplina uniforme per tutte le tipologie di risparmio previdenziale. Il
Rapporto fornisce una prima indicazione degli effetti del decreto 47/2000
seguendo il metodo applicato in Fornero (1996). Il parametro utilizzato per
confrontare la convenienza ad aderire a un fondo pensione è il “beneficio
netto”, ottenuto a) calcolando la differenza tra il montante netto maturato
nel fondo e il montante netto dell’alternativa e b) dividendola per
quest’ultimo.
I calcoli riguardano ogni singola fonte di finanziamento che può essere
devoluta al fondo pensione. Dapprima si calcolano i benefici netti relativi a
ciascuna fonte di contribuzione e poi, per valutare il beneficio globale, si
considera la devoluzione contemporanea al fondo pensione di tutti e tre i
contributi (datore, lavoratore e Tfr).
Le alternative alla devoluzione al fondo dei tre contributi sono:
per il contributo del datore di lavoro, l’ottenimento di una maggiore
retribuzione;
per il contributo del lavoratore,
un investimento in titoli
obbligazionari;
per il Tfr, il mantenimento di tale grandezza presso l’impresa.
135
Si adottano le ipotesi seguenti:
il rendimento medio del fondo (al netto dei costi di gestione) è pari a
quello dei titoli obbligazionari;
le imprese non sono disposte a rinunciare, unilateralmente e senza
contropartite, al Tfr. Un’analisi metodologicamente corretta non può infatti
attribuire al trasferimento del Tfr a fondo pensione soltanto i benefici
risultati di questa rinuncia, ma deve procedere da un’ipotesi di neutralità
per l’impresa, ossia di compensazione del relativo costo sotto altre forme (nei
nostri calcoli abbiamo supposto in termini di riduzione, ceteris paribus , della
retribuzione)9.
Nella tabella 7, si è considerato un versamento complessivo a Fondo
pensione pari al 6,91% della retribuzione per il Tfr e all’1% per ciascuna
delle altre due quote (lavoratore e datore di lavoro).
Tab. 7 – Beneficio netto globale (ponderazione 6,91;1;1)
Tassazione Bassa
Anni/tassi di interesse
5%
6%
10
-0,087
-0,115
20
-0,043
-0,059
30
0,008
-0,005
40
0,062
0,050
Tassazione Media
Anni/tassi di interesse
5%
6%
10
-0,080
-0,107
20
-0,030
-0,044
30
0,027
0,018
40
0,087
0,078
Tassazione alta
Anni/tassi di interesse
5%
6%
10
-0,057
-0,086
20
-0,006
-0,020
30
0,054
0,047
40
0,119
0,110
7%
-0,124
-0,074
-0,017
0,041
7%
-0,116
-0,057
0,008
0,072
7%
-0,094
-0,033
0,038
0,105
Nella tabella 8, si considera invece una combinazione paritetica tra le varie
forme di finanziamento, quale è possibile per le anzianità anteriori al 1993.
Dall’esame dei risultati è possibile trarre le seguenti conclusioni:
Ciò vale, beninteso, a priori, ossia quando il lavoratore (o meglio le organizzazioni
sindacali che lo rappresentano) debbano negoziare con le imprese. A negoziazione
avvenuta, nell’ipotesi che l’accordo collettivo abbia previsto la possibilità per il
singolo di optare per il trasferimento del Tfr a fondo pensione, le conseguenze attese
dell’insieme delle scelte hanno già trovato nell’accordo una qualche forma di
compensazione, la quale rappresenta per il singolo un costo sommerso che non deve
più influire sulla sua scelta.
9
136
quando il finanziamento da Tfr si ipotizzi prevalente sulle altre due
quote, le agevolazioni fiscali, anche dopo le ripetute correzioni via via
apportate alla originaria normativa del 1992, non hanno effetti di rilievo. La
tabella 5.1 mostra benefici in ogni caso negativi per durate inferiori a 20
anni, aggirantisi attorno allo zero per durate trentennali, e appena
percepibili per durate quarantennali;
quando il finanziamento da Tfr sia pari a quello di ciascuna delle altre
quote, il beneficio è positivo in tutti i casi, e, per effetto della correlazione
con la tassazione e con la durata, diviene rilevante per tassazioni e durate
medio-alte;
per i lavoratori autonomi, infine, per i quali vale soltanto il contributo
del lavoratore (cfr. la tabella 5.6 nella versione integrale del Rapporto), il
beneficio è sempre positivo e sensibile, soprattutto per tassazioni e durate
medio-alte.
Tab. 8 – Beneficio netto globale (ponderazione 1%, 1%, 1%)
Tassazione Bassa
Anni/tassi di interesse
5%
6%
10
0,174
0,174
20
0,189
0,192
30
0,207
0,212
40
0,227
0,229
Tassazione Media
Anni/tassi di interesse
5%
6%
10
0,231
0,234
20
0,256
0,262
30
0,284
0,294
40
0,312
0,320
Tassazione alta
Anni/tassi di interesse
5%
6%
10
0,294
0,299
20
0,329
0,340
30
0,368
0,385
40
0,407
0,420
7%
0,176
0,195
0,216
0,235
7%
0,237
0,268
0,302
0,330
7%
0,304
0,350
0,398
0,436
Se ne può dedurre, ancora una volta, che le speranze riposte in un rapido e
vigoroso decollo della previdenza complementare grazie all’utilizzazione del
Tfr erano e restano infondate. Le agevolazioni fiscali non sono a tal fine
efficaci, né sembra opportuno sforzarsi di renderle ancora più generose (con
rilevanti costi per la finanza pubblica) perché, come si è argomentato sub
4.1, il Tfr svolge, nei portafogli dei lavoratori, funzioni la cui importanza non
deve essere sottovalutata.
137
La convenienza fiscale è invece più operativa per i lavoratori autonomi, e
per una combinazione paritetica tra le varie forme di finanziamento, quale è
possibile per le anzianità anteriori al 199310.
In ogni caso, data la presenza di altre motivazioni, oltre a quella
previdenziale, per il risparmio delle famiglie, è difficile che la sola leva dei
benefici fiscali abbia successo, se non accompagnata – come si è suggerito
sub 4.2 – da un coraggioso ancorché graduale disegno di riduzione del peso
della componente obbligatoria a ripartizione.
In linea di principio anche per le anzianità successive, ma ciò implicherebbe
contributi del lavoratore e del datore dell’ordine del 7%, poco probabili di per sé
oltre che tali da violare i “tetti” del 12% della retribuzione e di 10 milioni di lire.
10
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