PREVISIONI MACROECONOMICHE E TENDENZE DELL’INDUSTRIA La politica economica alla ripresa autunnale Settembre 2001 INDICE I) Previsioni macroeconomiche e tendenze dell’industria dopo i fatti dell’11 settembre…………………………………………………………………… Pag. 5 1. Relazione introduttiva, di Giampaolo Galli…………………………………… “ 5 2. 2.1 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6 L’economia internazionale Il quadro a settembre……………………………………………………………….… Stati Uniti………………………………………………………………………………. Giappone………………………………………………………………………………… Regno Unito…………………………………………………………………………….. Economie emergenti…………………………………………………………………… Tassi di interesse, cambi e borse…………………………………………………….. “ “ “ “ “ “ 25 26 35 37 39 46 3. 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5 3.6 L’economia dell’area dell’euro e dell’Italia L’attività produttiva………………………………………………………………….. Il mercato del lavoro e le retribuzioni……………………………………………… Prezzi, costi e margini……………………………………….……………………….. I conti con l’estero……………………….………………………..…………………. La politica monetaria………………………………...………………………………. La finanza pubblica…………………………………………………………………… “ “ “ “ “ “ 51 62 73 80 87 89 II) Sintesi del Rapporto CeRP “La riforma del sistema previdenziale: opzioni e proposte” a cura di Elsa Fornero e Onorato Castellino……………………………………… “ 115 Riquadri Conseguenze economiche di shock politico-militari……………………………… “ La revisione delle serie di contabilità nazionale negli Stati Uniti…………….. “ La crisi argentina……………………………………………………………………… “ Le dispute commerciali Usa-Ue e le prospettive di ripresa del Millenium Round……………………………………………………………………………………. “ L’influenza degli “effetti di calendario” sui conti trimestrali.............………….. “ Problemi del sistema di contrattazione nel pubblico impiego…………………... “ Lo scoreboard degli aiuti di Stato nell’Unione europea………………………… “ I principali provvedimenti di politica economica dei 100 giorni…………….…… “ Decentramento, federalismo e controllo della spesa pubblica………………….. “ 16 34 40 44 57 97 101 104 110 La parte I di questo Rapporto è stata realizzata da un gruppo di lavoro del Centro Studi Confindustria, composto da Pasquale Capretta, Giulio de Caprariis, Paolo De Luca, Giovanni Foresti, Giampaolo Galli, Andrea Gavosto, Anita Guelfi, Ugo Inzerillo, Marco Malgarini, Stefano Manzocchi (Università di Perugia), Beatrice Pierluigi, Anna Ruocco, Fabrizio Traù. Hanno collaborato Gianna Bargagli, Stefania Bianchini, Simona Caputi, Simona Giannini, Alessandro Terzulli e Giuliana Timpani. Il Rapporto è stato chiuso con le informazioni disponibili al 21 settembre 2001. La parte II del presente Rapporto è la sintesi di una ricerca effettuata da un gruppo di lavoro del Center for Research on Pensions and Welfare Policies (CeRP) di Torino, coordinato da Elsa Fornero e Onorato Castellino e composto da: Michele Belloni, Margherita Borella, Pier Marco Ferraresi, Michela Scatigna e Giovanna Segre. Hanno inoltre collaborato Fabio Cesare Bagliano (Università di Torino e CeRP) e Giovanna Nicodano (Università di Torino e CeRP). Hanno partecipato a discussioni di lavoro: Michelangelo Filippi (R&P – Ricerche e Progetti), Laura Piatti (Società Reale Mutua di Assicurazioni) e Claudia Villosio (R&P – Ricerche e Progetti). La ricerca è stata realizzata con il contributo finanziario dell’Assonime e di Confindustria. I curatori e gli autori si assumono l’intera responsabilità delle opinioni espresse. Le proposte ivi contenute non impegnano la responsabilità delle istituzioni committenti. I. PREVISIONI MACROECONOMICHE E TENDENZE DELL’INDUSTRIA DOPO I FATTI DELL’11 SETTEMBRE 1. Relazione introduttiva, di Giampaolo Galli I tragici eventi dell’11 settembre non potranno non avere conseguenze di rilievo sui mercati finanziari e sull’economia mondiale. Le analisi che si possono fare, sulla scorta di episodi in qualche modo paragonabili del passato, suggeriscono che, anche nella migliore delle ipotesi circa gli sviluppi politico-militari, sarà difficile evitare ripercussioni negative, sia pure forse solo temporanee, sull’economia, per via degli effetti sulle borse e sugli indici di fiducia di imprese e famiglie. Vi sarà verosimilmente un cospicuo aumento in tutti i paesi delle spese civili e militari, pubbliche e private, per la sicurezza delle persone, delle cose, dei sistemi informatici e di telecomunicazione. Questa mobilitazione di risorse, in parte già annunciata dall’amministrazione Bush, non potrà compensare – a differenza di quanto accadde ad esempio, in tutt’altre condizioni, negli Stati Uniti all’inizio degli anni quaranta - la probabile contrazione della propensione al consumo e agli investimenti generata dalla condizione di insicurezza che segna, drammaticamente, il nuovo scenario mondiale. I fattori critici. L’entità degli effetti dipenderà criticamente da tre fattori. (i) Gli sviluppi sul piano politico-militare. (ii) Le reazione dell’Opec riguardo al prezzo del petrolio. (iii) Il clima di fiducia, a sua volta fortemente condizionato dagli sviluppi politici e dalle reazioni della politica economica. Dopo il discorso di Bush del 13 settembre, sembra probabile che vi siano sviluppi rilevanti anche sul piano militare. E’ peraltro difficile che la guerra al terrorismo e agli Stati che eventualmente si fossero dimostrati conniventi possa risolversi nel giro di pochi giorni, come accadde nel gennaio del 1991 per la liberazione del Kuwait, in seguito alla quale vi fu un’immediata ripresa delle borse e degli indici di fiducia. Il prezzo del petrolio. Le conseguenze di eventuali azioni militari, soprattutto sulla già tesissima situazione in Medio Oriente e sul prezzo del petrolio, sono al momento del tutto imponderabili. Uno spiraglio di ottimismo può però derivare dalla considerazione che la situazione sembra oggi diversa da quella che si registrò nei tre principali episodi di impennata dei prezzi. Oggi non sembrano prospettarsi né un fronte unito dei produttori medio orientali in chiave anti occidentale, come avvenne dopo la guerra del Kippur nel 1973, né un’interruzione fisica dei rifornimenti, come avvenne a seguito della rivoluzione in Iran nel 1979 e dell’invasione del Kuwait nell’agosto 1990. Nella previsione che proponiamo in questo rapporto ipotizziamo perciò, in attesa di conferme o smentite, uno scenario ottimistico in cui il petrolio torna rapidamente attorno ai 25 dollari, dopo l’aumento sino a oltre 30 dollari registratosi dopo gli attentati. 5 La fiducia. La questione forse decisiva è valutare l’impatto possibile sugli indici di fiducia, anche attraverso i valori di borsa, e per questa via sull’economia reale nei diversi paesi. In questo rapporto presentiamo una breve rassegna delle conseguenze economiche dei principali episodi di tensione politico - militare degli ultimi sessant’anni, da Pearl Harbour alla guerra del Golfo. L’impressione che se ne ricava è che gli episodi che hanno avuto le conseguenze più gravi siano stati quelli in cui, oltre alle tensioni politiche, vi furono forti aumenti dei prezzi delle materie prime (guerra del Kippur nel 1973, rivoluzione in Iran e guerra con l’Iraq nel 1979, Guerra del Golfo nel 1990-91). Negli altri episodi, le conseguenze negative furono molto limitate (in particolare guerra di Corea nel 1950-1953 e i momenti di massima tensione nel corso della lunga guerra del Vietnam), o addirittura positive, qualche mese dopo lo shock iniziale, per via della mobilitazione di risorse generate dalla guerra (Pearl Harbour). La guerra di Corea è forse l’episodio più pertinente in questo contesto perché non determinò rilevanti tensioni sulle materie prime, avvenne in un periodo di pace (a differenza di Pearl Harbour), iniziò con uno shock di grandissima emotività (il superamento del 38° parallelo da parte delle truppe nordcoreane, appoggiate dall’Urss, il 25 giugno del 1950, cui Truman rispose immediatamente autorizzando il generale MacArthur a compiere missioni aree sulla Corea del Nord), ed infine perché generò un clima di paura, quello di un conflitto nucleare con l’Urss, non dissimile e verosimilmente maggiore di quello di oggi. Le conseguenze negative sulla borsa e sull’economia reale americana furono limitatissime e rapidamente sopravanzate dagli effetti espansivi dell’aumento della spesa militare. Va però osservato che la guerra di Corea si inserì nella fase in cui si stava avviando lo straordinario ciclo espansivo del dopoguerra, mentre oggi siamo piuttosto al termine di un ciclo espansivo. Inoltre le reazioni psicologiche, che costituiscono parte rilevante della cosiddetta “fiducia”, sembrano essere fortemente influenzate dai ricordi recenti. Nel caso della guerra di Corea il ricordo recentissimo era quello della seconda guerra mondiale, talché l’effetto iniziale fu un boom di acquisti per l’accaparramento di beni durevoli e di prima necessità. Oggi i ricordi recenti, nella memoria degli operatori finanziari, dei consumatori e delle imprese, sono quelli degli shock petroliferi e in particolare di quello che seguì l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq il 2 agosto del 1990. In quell’occasione, gli indici di fiducia crollarono immediatamente. Negli Stati Uniti, la caduta dell’indice proseguì sino a gennaio, raggiungendo il 47%. I consumi si contrassero e il Pil statunitense scese del 3,3% in ragione d’anno nel quarto trimestre del 1990 e del 2% nel primo trimestre del 1991. Anche in Europa si ebbe un fortissimo calo della fiducia ed un rallentamento dell’attività economica: nel quarto trimestre del 1990 il Pil diminuì nel Regno Unito (-2% in ragione d’anno), in Francia (-0,4%) e in Italia (-4%). Solo la Germania evitò la recessione per via degli effetti, inizialmente 6 espansivi, dell’unificazione. E’ difficile distinguere quanto della caduta del Pil e della stessa prolungata flessione della fiducia sia stata dovuta alla maggiore incertezza del quadro mondiale e quanto alle conseguenze sul potere d’acquisto dell’aumento del prezzo del petrolio; il confronto con gli altri episodi di cui si è detto suggerisce che il petrolio abbia svolto un ruolo importante. Rimane tuttavia il fatto che quell’episodio è ben vivo nella memoria collettiva e che le prime reazioni dei mercati finanziari dopo l’11 settembre sono state molto più simili a quelle del 1990 che a quelle di episodi forse più pertinenti, ma assai più lontani nel tempo. Queste considerazioni inducono da un lato a ritenere che sarà difficile evitare qualche ripercussione negativa, anche qualora non vi fossero tensioni sulle materie prime, e dall’altro ad attribuire grande importanza alla capacità di ricreare un clima di fiducia da parte dei leader politici e delle autorità di politica economica. Le politiche economiche. La Fed e la Bce hanno prima fornito liquidità, in quantità ingente, al mercato e poi ridotto, di mezzo punto, i tassi di intervento. Ciò ha contribuito ad evitare effetti a catena sul sistema dei pagamenti internazionali derivanti dalle perdite sui valori azionari, nonché dal rischio che alcuni importanti operatori, coinvolti nei crolli di Manhattan, non fossero in grado di dar seguito ai propri impegni di pagamento. Ulteriori cali di tassi d’interesse sono probabili nelle prossime settimane. Quanto alle politiche di bilancio, sembra probabile una riduzione dell’avanzo americano per finanziare lo sforzo bellico e anche per sostenere la domanda interna. In Europa assumerà nuovi connotati il dibattito già in corso sull’applicazione del Patto di Stabilità. A nostro avviso, il Patto di Stabilità rimane essenziale. I paesi europei, e in particolare quelli ad alto debito, devono continuare a perseguire una politica di rigore volta a perseguire il pareggio di bilancio nel medio termine. Ciò non contrasta, come ha riconosciuto la Bce, con la possibilità di lasciar operare gli stabilizzatori automatici, né con l’opinione, espressa in un recente lavoro della Direzione Generale per gli Affari Economici e Finanziari della Commissione, secondo cui il dibattito sulle politiche di bilancio nella Ue deve “allargarsi rispetto all’attuale focalizzazione sul tema del rigore a favore di un’analoga enfasi sulla qualità e sostenibilità delle finanze pubbliche”; in quest’ottica il giudizio sugli andamenti congiunturali dei disavanzi va contemperato con un’analisi della politiche di medio termine circa la sostenibilità delle pubbliche finanze (“Public Finances in Emu”, luglio 2001). Questo approccio, ancorché problematico sotto il profilo del monitoraggio, comporta in sostanza di dare più enfasi alle riforme strutturali della spesa pubblica, quali la riforma delle pensioni e gli interventi volti a snellire e restituire efficienza all’amministrazione. Queste riforme tipicamente producono risultati finanziari che sono relativamente modesti nell’immediato - e dunque non deprimono eccessivamente la domanda interna -, ma sono fortemente crescenti nel corso del tempo. Esse garantiscono quindi gli equilibri di bilancio nel tempo assai meglio degli 7 interventi di breve respiro o, peggio, degli artifici contabili che spesso costituiscono la parte più rilevante delle manovre annuali di bilancio. Il quadro prima dell’11 settembre. Un calo della fiducia si inserirebbe in un quadro internazionale già segnato da grande fragilità dell’economia reale e delle borse. Nel secondo trimestre la crescita si è pressoché azzerata negli Stati Uniti e nell’area dell’euro, in particolare in Italia e Germania; è stata negativa in Giappone, la cui economia è ormai in recessione, e in molti paesi dell’Estremo Oriente. Rimangono gravi le situazioni di crisi in Argentina, Indonesia e Turchia (cfr. par. 2.5). Come sempre avviene nelle fasi di rallentamento della congiuntura, erano diventate più acute le tensioni commerciali fra paesi, il che rendeva assai incerta la prospettiva di ripresa del negoziato Wto in vista della conferenza di Doha (cfr. riquadro: Le dispute commerciali Usa-Ue e le prospettive di ripresa del Millenium Round nel par. 2.5). La situazione potrebbe oggi capovolgersi, perché gli Stati Uniti non possono permettersi di apparire protezionisti. E’ estremamente significativo che pochi giorni dopo gli attentati sia stato dato il via libera definitivo all’ingresso della Cina nel Wto. Le borse. Grazie alla rapidità di reazione della Federal Reserve, le borse non erano crollate, ma già prima dell’11 settembre le perdite erano state ingenti su quasi tutti i mercati, soprattutto per il titoli Ict. La caduta si era accentuata nella seconda metà di agosto. Rispetto ai massimi raggiunti nei primi mesi del 2000, le perdite oscillavano fra il 30 e il 50% nella generalità dei mercati. Milano, Parigi e Francoforte avevano perso circa il 30%. La previsione. Le considerazioni di cui si è detto sopra avevano già indotto la generalità degli analisti a rivedere verso il basso le previsioni di crescita per il 2001-2002. Secondo il Csc, la crescita americana si sarebbe collocata all’1,5% nel 2001 e al 2,6% nel 2002; quella dell’area dell’euro all’1,9% nel 2001 e al 2,5% nel 2001. L’Italia sarebbe probabilmente cresciuta allo stesso ritmo dell’area dell’euro. L’assunto sotteso a quello scenario era che, sia negli Stati Uniti sia in Europa, i successivi trimestri dell’anno sarebbero stati meno sfavorevoli del secondo e che qualche segno di accelerazione iniziasse a manifestarsi a cavallo del nuovo anno. Questa valutazione era sorretta dalla considerazione dell’esaurirsi del drenaggio di potere d’acquisto determinato l’anno scorso dagli alti costi del petrolio; dal tono più espansivo, o comunque meno restrittivo, delle politiche monetarie e fiscali negli Stati Uniti e in Europa; dall’andamento ancora positivo dei consumi e di numerosi indicatori anticipatori. 8 Tab. 1 – Le previsioni del Csc: variabili internazionali e area dell’euro (variazioni % salvo diversa indicazione) 1999 2000 2001 2002 2003 1,07 114,0 122,0 2,9 5,4 5,3 3,4 4,1 0,8 17,9 0,92 108,0 100,0 4,4 6,5 12,4 4,5 4,1 1,5 28,6 0,91 120,0 109,0 4,3 3,9 3,9 1,7 1,2 -0,3 26,0 0,98 125,0 123,0 3,2 2,3 4,0 2,5 1,8 0,6 25,0 1,02 125,0 128,0 4,1 4,0 7,1 3,3 3,5 2,0 24,0 Variabili internazionali Dollaro/euro (1) Yen/dollaro (1) Yen/euro (1) Tasso a 3 mesi euro (1) Tasso a 3 mesi dollaro (1) Commercio mondiale Pil mondiale Pil Stati Uniti Pil Giappone Prezzo del petrolio (2) Euro-12 Prodotto interno lordo 2,5 3,4 1,7 1,8 2,9 Prezzi al consumo 1,2 2,3 2,8 1,8 1,3 Occupazione 1,6 2,0 1,2 0,8 1,1 Tasso di disoccupazione (1) 9,9 8,8 8,4 8,3 7,9 Partite correnti (3) -0,1 -0,5 -0,1 0,2 0,2 Indebitamento netto della P.A. (3) (*) 1,2 0,8 1,1 1,1 0,7 Debito pubblico (3) 72,0 69,7 68,4 68,2 67,1 (1) Livelli. (2) Dollari a barile. (3) Rapporti percentuali con il Pil. (*) Al netto dei proventi Umts. Oggi questo quadro deve essere rivisto verso il basso. Per gli Stati Uniti, ipotizziamo che nel quarto trimestre del 2001 e nel primo del 2002 i tassi di crescita si abbassino rispetto alla precedente previsione (2% in ragione d’anno in entrambi i trimestri), ma non sino al punto da diventare negativi. Portando questa previsione a 0,1 e 0,4% rispettivamente nei due trimestri – ossia a valori ancora positivi e comunque in linea con quelli del secondo trimestre – l’effetto aritmetico sarebbe di ridurre il tasso di crescita medio annuo a 1,2 % nel 2001 e a 1% nel 2002. Una parte del calo sarebbe però verosimilmente dovuta a decisioni di rinvio, anziché di cancellazione, delle spese di consumo o investimento. Per tenere conto di questa circostanza, e sempre mantenendo le ipotesi dette sul quadro strategico - militare e sul prezzo del petrolio, sembra ragionevole rialzare il tasso di crescita dei successivi tre trimestri dell’anno. La crescita del 2002 si attesterebbe così a 1,8% (tab. 1). La stessa operazione, con variazioni trimestrali più contenute, per l’area dell’euro porterebbe il tasso di crescita a 1,7% nel 2001 e a 1,8% nel 2002. Per l’Italia la crescita sarebbe dell’1,9% sia nel 2001 che nel 2002 (tab. 2). Sia nell’area dell’euro sia in Italia, i tassi di crescita trimestrali rimarrebbero sempre positivi e superiori al dato del secondo trimestre. In Italia il tasso di crescita si ridurrebbe nel quarto trimestre da 0,8% a 0,4%; nel primo del 2002 da 0,7% a 0,5%. L’ipotizzata accelerazione dalla 9 primavera prossima porterebbe la crescita tendenziale al 3% alla fine del 2002. E’ del tutto evidente che queste valutazioni debbono essere considerate, più che come previsioni in senso tradizionale, come punti di riferimento per iniziare a ragionare con qualche concretezza numerica sugli scenari possibili. Ed è opportuno ribadire che esse si fondano su uno scenario ancora ottimistico circa gli sviluppi politico-militari e il prezzo del petrolio. In ogni caso ci sembra che ad una conclusione si possa giungere: al momento sarebbe poco prudente, in Europa come in Italia, fondare un budget previsivo, di un’azienda o del settore pubblico, su tassi di crescita del Pil 2002 di molto superiori al 2%; questo valore appare oggi come il limite superiore di un ragionevole intervallo di confidenza della previsione. Tab. 2 – Le previsioni del Csc: Italia (variazioni % salvo diversa indicazione) 1999 2000 2001 2002 2003 Prodotto interno lordo Consumi delle famiglie residenti Investimenti fissi lordi Macchinari e mezzi di trasporto Esportazioni di beni e servizi Importazioni di beni e servizi 1,6 2,3 4,6 6,0 0,0 5,1 2,9 2,9 6,1 7,8 10,2 8,3 1,9 1,7 1,6 0,8 6,0 3,9 1,9 2,1 3,7 4,7 2,6 3,2 2,9 2,8 7,3 11,0 5,5 8,2 Saldo conto corrente e c/capitale (1) 0,9 -0,2 0,1 0,2 0,4 Occupazione totale (unita' standard) Tasso di disoccupazione (2) 0,8 11,4 1,5 10,6 1,1 9,8 0,8 9,7 1,2 9,2 1,7 2,4 2,9 2,5 3,1 2,4 2,8 3,4 3,1 1,8 2,4 2,6 1,3 2,5 2,6 1,8 5,0 37,8 6,7 3,9 46,7 1,5 5,0 37,1 6,5 3,7 45,8 1,5 4,8 37,3 6,3 3,8 45,9 1,0 4,9 36,8 5,9 3,9 45,6 0,5 5,1 36,0 5,6 3,9 45,0 Debito della P.A. (1) 114,6 110,5 108,7 (1) Rapporti percentuali con il Pil. (2) Livelli. (*) Al netto dei proventi Umts. 105,4 103,1 Prezzi al consumo Retribuzioni: totale economia industria in s.s. Indebitamento netto della P.A. (1) (*) Avanzo primario P.A. (1) Spesa corrente al netto interessi (1) Spesa per interessi (1) Spesa in conto capitale (1) Entrate della P.A. (1) L’inflazione. Prima dell’11 settembre, la caduta della domanda mondiale aveva contribuito a ridurre i prezzi del petrolio. Nel complesso erano in calo anche i prezzi delle altre materie prime. Le tensioni inflazionistiche, che si erano accentuate nei primi mesi dell’anno soprattutto in Europa, stavano rapidamente rientrando. A fine agosto la Banca Centrale Europea aveva 10 preso atto che i rischi non riguardavano più l’inflazione, ma il livello di attività. Nelle ipotesi di cui si è detto sopra, è possibile che questo scenario non subisca sostanziali modifiche nel medio termine; il rallentamento dell’economia e il probabile apprezzamento dell’euro potrebbero infatti compensare gli effetti sull’inflazione di un temporaneo aumento del prezzo del petrolio. E’ tuttavia probabile che la discesa dell’inflazione sia meno rapida di quella che era precedentemente prevista (tab. 1 e tab. 2). Sia nell’area dell’euro sia in Italia valutiamo che l’inflazione si attesti attorno al 2,8% nel 2001 e al 1,8% nel 2002. Il rientro al di sotto della soglia critica del 2% sarebbe rinviato di qualche mese rispetto alle precedenti previsioni della Bce e potrebbe avvenire nella primavera del 2002. La previsione per l’Italia assume che prosegua il clima di sostanziale moderazione salariale che ha improntato il gran numero di contratti di lavoro conclusi negli ultimi mesi. La crescita dell’Italia. Nei nostri scenari, pre e post 11 settembre, la crescita dell’Italia risulta sostanzialmente allineata a quella europea, un risultato di rilievo date le performance deludenti degli anni precedenti, ma anche in parte determinato da demeriti altrui, ossia dalle forti difficoltà dell’economia tedesca. La questione di fondo che si pone alla politica economica è se sia possibile raggiungere rapidamente ritmi di sviluppo notevolmente più elevati. A questa domanda non si può che rispondere positivamente sol che si guardino i risultati ottenuti in molti paesi europei tradizionalmente non molto dissimili dal nostro, per quanto riguarda gli istituti della protezione sociale e il ruolo dello Stato. Nella seconda metà degli anni Novanta, Olanda, Spagna, Irlanda, Svezia e Finlandia sono cresciuti a ritmi vicini o superiori al 4%. Le politiche per la crescita. Le misure utili ad irrobustire la crescita dell’Italia ed in particolare del Mezzogiorno sono moltissime. Le idee che siamo riusciti ad elaborare in proposito sono ampiamente esposte nel volume “Azioni per la competitività” (Sipi Ed., Roma, 2001). Fornire un elenco delle priorità ci pare poco costruttivo, dato che quasi tutto è importante e nulla è di per sé risolutivo: è cruciale migliorare la scuola e la ricerca scientifica, ma non è meno importante restituire efficienza all’amministrazione pubblica, attuare un federalismo responsabile, semplificare le norme, realizzare le infrastrutture, modernizzare il mercato finanziario, privatizzare e liberalizzare, rendere più flessibile il mercato del lavoro, diffondere internet, utilizzare meglio i fondi per le aree depresse e quant’altro. Alcune riforme importanti, o deleghe per riformare, sono già contenute nel cosiddetto pacchetto dei 100 giorni presentato dal governo, riguardo in particolare a questioni cruciali quali l’economia sommersa e le infrastrutture (cfr. riquadro: I provvedimenti dei 100 giorni nel par. 3.6). Molti suggerimenti utili sono contenuti nel Dpef, riguardo alle nuove tecnologie, alle riforme del mercato del lavoro, alle liberalizzazioni e allo sviluppo del Mezzogiorno. In questa sede ci sembra utile concentrare 11 l’attenzione sui temi centrali in vista della presentazione della legge finanziaria. Il contenimento della spesa. In quest’ottica, il punto cruciale ci sembra l’avvio di una politica di contenimento delle spese correnti che renda credibili nel medio termine le promesse elettorali in materia di riduzioni fiscali, tenuto conto degli impegni europei riguardo al disavanzo pubblico. Il peggioramento del quadro internazionale rende questa politica forse più difficile da realizzare sotto il profilo politico immediato, ma certamente più necessaria sotto il profilo economico. Potrebbe essere il fattore decisivo capace di trasformare un rischio di stagnazione in un’opportunità di crescita. Occorre attuare quelle riforme strutturali che garantiscono risparmi di spesa crescenti nel tempo, più che nell’immediato, e dunque un solido equilibrio del bilancio pubblico nel medio termine. Come si è detto, questa argomentazione, specialmente nell’attuale situazione congiunturale, può essere fatta valere anche a Bruxelles, nell’ambito della riflessione in corso sull’applicazione del Patto di Stabilità. I conti pubblici. In questo rapporto confermiamo la valutazione che facemmo a giugno e che, dopo qualche polemica, ha trovato conferma a fine luglio nelle stime del Fmi. Dicemmo allora che il disavanzo tendenziale dell’anno si situava attorno all’1,8%, riconducibile entro l’1,5%, senza una manovra aggiuntiva, ma con una gestione rigorosa dei flussi di spesa nella seconda parte dell’anno. Alla luce delle prime misure attuate o in corso di attuazione nonché dei miglioramenti dei saldi registrati negli ultimi mesi, ci pare che il punto di partenza per ragionare sulla finanziaria sia un disavanzo 2001 all’1,5% (cfr. par. 3.6). Il Dpef prevede tagli alla spesa corrente prima degli interessi pari all’1% del Pil ogni anno. All’incirca ciò è quanto si richiede oggi per riportare l’Italia in linea con l’obiettivo previsto per il 2002 dal programma di stabilità (0,5%); lo spazio residuo per riduzioni fiscali, nonché per rilanciare gli investimenti in infrastrutture, sarebbe pressoché nullo. Il governo intende inoltre mantenere fede all’impegno di aumentare le pensioni minime, il che comporta che le altre spese correnti dovrebbero essere ridotte in misura anche maggiore. Riduzioni della spesa di questa entità fra un anno e l’altro - non rispetto ad una qualche più o meno arbitraria stima del tendenziale - non si sono verificate nemmeno a seguito delle maxi finanziarie del governo Amato (1992) e del governo Prodi (1996) e appaiono difficilmente proponibili nell’attuale situazione congiunturale. Formuliamo dunque una previsione cauta per il 2002 che comprende una più modesta riduzione delle spese correnti primarie (-0,5%). Per conseguire questo risultato occorre in ogni caso più rigore di quello messo in atto nella precedente legislatura nel controllare le spese per gli acquisti e soprattutto quelle per il personale. Ipotizziamo una riduzione di 0,3 punti della pressione fiscale e un leggero aumento della spesa per opere pubbliche. In 12 queste condizioni, tenuto conto da un lato del prevedibile miglioramento della spesa per interessi e dall’altra della minor crescita rispetto al previsto, il disavanzo non scenderebbe allo 0,5%, bensì al 1%. Date le condizioni iniziali, la variazione del disavanzo fra il 2001 e il 2002 (-0,5%, ossia da 1,5% a 1%) sarebbe superiore a quella prevista dal Programma di Stabilità dell’anno scorso (-0,3%, ossia da 0,8% a 0,5%). La riforma delle pensioni. Una riforma del sistema pensionistico che possa essere considerata definitiva, ossia tale da rendere sostenibile ed equo il sistema nel medio - lungo termine, è ben più importante di qualche decimale in più o in meno di disavanzo in un dato anno. Data l’importanza che attribuiamo a questo tema, a margine di questo rapporto presentiamo i risultati di un ampio lavoro analitico svolto, in piena indipendenza, dal CeRP, sotto la supervisione di Onorato Castellino ed Elsa Fornero. Non condividiamo per intero le loro proposte. Abbiamo però ritenuto utile dare spazio a un lavoro che ci sembra contenga tutti gli elementi analitici necessari per formarsi un’opinione circostanziata su questo delicatissimo tema. In questa sede richiamiamo l’attenzione su alcuni punti cruciali. La demografia. Secondo le più recenti proiezioni dell’Eurostat, in Italia il rapporto fra la popolazione anziana (al di sopra di 64 anni) e quella in età di lavoro (fra 15 e 64 anni) è destinato a salire dal 25% del 2000 al 40% nel 2025 e al 60% nel 2050. Si passerebbe dunque da un rapporto di 1 a 4 ad un rapporto di 1 a 1,6. E’ evidente che, a parità di altre condizioni, in un sistema a ripartizione, è destinata a salire drammaticamente la quota di salario che ogni lavoratore deve devolvere al mantenimento dei pensionati. Le prospettive demografiche dell’Italia sono peggiori che nel resto d’Europa (dove in media si passerebbe dall’attuale 24% al 49% nel 2050) perché è più forte la caduta in atto dei tassi di natalità. E’ peraltro molto difficile ipotizzare una politica dell’immigrazione che possa modificare significativamente queste proiezioni. ? Le aliquote dei contributi pensionistici. In Italia l’attuale aliquota sul lavoro dipendente è al 32,7%, 10 punti al di sopra di quelle della generalità degli altri paesi europei. Malgrado aliquote tanto elevate, il disavanzo del sistema pensionistico nel suo complesso è di ben 90 mila miliardi, a carico della fiscalità generale. Per portare in equilibrio la gestione dei lavoratori dipendenti, occorrerebbe un aliquota del 45%, destinata a salire al 48 già nel 2010. Il grande divario che si registra in Italia fra il costo del lavoro per l’azienda e il reddito netto del lavoratore è per lo più dovuto alle aliquote pensionistiche, che rappresentano una tassa straordinariamente elevata sull’occupazione. ? Le iniquità dell’attuale sistema. La riforma Dini ha determinato una cesura fra coloro che avevano più di 18 anni di anzianità nel 1995 (ai quali si applica l’attuale sistema retributivo) e coloro che avevano meno di 18 anni (ai quali si applica, pro rata, il sistema contributivo). Ciò fa sì che, 13 per una carriera tipo, fra una coorte e la successiva (ad es. fra i nati nel 1955 e i nati nel 1956), si verifica, a parità di anzianità di servizio, un calo molto consistente (nell’ordine di 13 punti) del rapporto fra il valore attuale dei benefici pensionistici e il valore attuale dei contributi versati (par. 2.2 del rapporto CeRP). ? L’inefficacia degli incentivi per scoraggiare il pensionamento anticipato. Incentivi di questo tipo sono stati introdotti nella finanziaria dell’anno scorso. Non funzionano perché l’attuale sistema di calcolo dei benefici pensionistici comporta una tassa estremamente elevata sul prolungamento di un anno dell’attività lavorativa: tassa che sale da valori pari a 40- 50% della retribuzione per anzianità brevi (35 anni) sino a oltre il 70 % per anzianità attorno ai 40 anni (par. 2.3 del rapporto CeRP). Oggi il sistema premia dunque chi va in pensione anticipatamente, il che è palesemente ingiusto e socialmente inefficiente. ? I risparmi possibili. Per abolire questa tassa, o quantomeno ridurla drasticamente, l’opzione suggerita dal Rapporto CeRP è di applicare coefficienti attuarialmente equi ai pensionamenti di anzianità, in base ai quali chi va in pensione a 57 anni percepisce una rata annuale più bassa di una persona che lavora sino a 65 anni, perché mediamente fruisce della pensione per un maggior numero di anni. I risparmi derivanti dall’applicazione di tali coefficienti potrebbero raggiungere, a seconda delle ipotesi, quasi 40.000 miliardi in cinque anni e oltre 50.000 in dieci (par. 2.3 del rapporto CeRP). ? Le potenzialità della capitalizzazione. Anche con ipotesi molto caute sui rendimenti di mercato, si dimostra che un riequilibrio del sistema a favore dei fondi pensioni a capitalizzazione non comporta pensioni più basse per il lavoratore. Il passaggio alla capitalizzazione, con una graduale riduzione del ruolo del sistema pubblico a ripartizione nonché del costo del lavoro per le imprese, è dunque conveniente, oltreché necessario per motivi di sostenibilità finanziaria. Costituirebbe in ogni caso un contributo essenziale alla modernizzazione del nostro mercato finanziario (par. 4.2). Welfare e mercato del lavoro. I due istituti delle pensioni di anzianità e del Tfr costituiscono oggi importanti ammortizzatori sociali. Svolgono, più o meno impropriamente, la funzione che in altri paesi svolge il sussidio di disoccupazione. Inoltre il Tfr può essere utilizzato dal lavoratore a fronte di esigenze diverse ed importanti, quali le spese sanitarie e per la casa, e, come argomenta il rapporto CeRP, la possibilità di questi utilizzi ne compensa in larga misura la modesta redditività. E’ dunque evidente che non esiste un “free lunch” e che qualora si mettesse mano a questi due istituti si porrebbero due ordini di problemi, per i lavoratori e per le imprese. Per i lavoratori si porrebbe un problema di ammortizzatori sociali, sostituivi rispetto agli attuali. Per le imprese si aggraverebbe il problema della mancanza di flessibilità perché verrebbero meno, o comunque si restringerebbero, anche quei modesti margini che sono oggi offerti dai pensionamenti di anzianità e dal fatto che il lavoratore, in caso di 14 interruzione del rapporto di lavoro, ha comunque diritto al trattamento di fine rapporto. Sussistono dunque nessi assai stretti fra i diversi aspetti del sistema di welfare e delle regole del mercato del lavoro - nessi cui in diversi paesi sono state trovate soluzioni diverse, ma generalmente più efficienti che in Italia. Quello che è certo che le soluzioni esistono e che la riforma delle pensioni è anche un occasione da non perdere per avviare un più ampio progetto di riforma volto a modernizzare il nostro mercato del lavoro. 15 CONSEGUENZE ECONOMICHE DI SHOCK POLITICO-MILITARI Questo riquadro illustra l’andamento di alcune variabili economiche a seguito di shock di natura extraeconomica (prevalentemente politici o militari). Il principale paese di riferimento sono gli Stati Uniti. Gli eventi considerati sono l’attacco giapponese a Pearl Harbour (1941), la guerra di Corea (1950-53), il conflitto UsaUrss sull’installazione dei missili sovietici a Cuba (1962), l’intervento militare americano in Vietnam (che assume connotati di guerra aperta negli anni 1964-73), la guerra del Kippur (1973), la guerra del Golfo (1990-91); a questi episodi viene aggiunto il terremoto giapponese di Kobe (1995), i cui effetti sul piano delle perdite umane ed economiche possono essere paragonati a quelli delle recenti vicende statunitensi. Complessivamente, la breve ricognizione qui effettuata suggerisce che l’andamento delle variabili economiche nella fase successiva agli shock subisca le oscillazioni maggiori (quale che sia la gravità degli eventi sul piano politico) quando lo shock comporta conseguenze sul prezzo o sulla quantità delle materie prime. 1) Pearl Harbour (fig. 1). L’8 dicembre 1941 forze aeree giapponesi attaccano la base militare americana di Pearl Harbour (Hawaii); la flotta Usa resterà fuori combattimento per mesi. Il Congresso americano dichiara lo stato di guerra con il Giappone lo stesso giorno. L’attacco giapponese si inscrive in un contesto economico che è naturalmente già segnato pesantemente dalla guerra. L’indice Standard&Poor è caduto pesantemente all’inizio del 1937, e nonostante una parziale ripresa nel biennio 1938-39 a partire dalla fine del 1939 si verifica una nuova fase di flessione. L’evento di Pearl Harbour coglie dunque l’economia americana in un momento di caduta dei listini, e coincide con una ulteriore caduta dell’indice (dal 9,37 di novembre all’8,76 di dicembre); fin dai primi mesi del 1942 si assiste tuttavia a una nuova ripresa, che segna l’avvio di un periodo di forte aumento. L’attività produttiva negli Usa era d’altra parte in espansione fin dalla fine del 1938, ed era entrata in una fase di crescita accelerata dalla metà del 1940. Con l’ingresso in guerra il deficit di bilancio passa tra il 1941 e il 1942 da 6 miliardi di dollari a 21 miliardi, per raggiungere un picco di 57 miliardi nel 1943. La produzione industriale, trainata dalla spesa per armamenti, si impenna. 2) Corea (fig. 2). Il 25 giugno del 1950 forze armate nord-coreane (appoggiate dall’Urss) oltrepassano il 38° parallelo, entrando nella Corea del Sud senza preavviso. Il 29 giugno il presidente Truman, avvalendosi di una risoluzione del Consiglio di sicurezza che invita i paesi membri dell’Onu a fornire assistenza alla Corea per respingere l’attacco, autorizza il generale MacArthur a compiere missioni aeree su obiettivi militari specifici in Nord Corea, dando avvio a un intervento diretto nell’area. Il conflitto, che apre una stagione di forte tensione tra Usa e Urss, evocando per la prima volta lo spettro di un conflitto nucleare, durerà tre anni. L’armistizio è firmato il 27 luglio del 1953. Nel mese di luglio 1950 lo Standard&Poor subisce una flessione, che viene però riassorbita già tra agosto e settembre; nel triennio successivo seguita a salire senza contraccolpi di rilievo. L’indice non subisce oscillazioni di rilievo anche in coincidenza della dichiarazione di emergenza rilasciata da Truman il 15 dicembre del 1950, in cui si riconosce ufficialmente la pericolosità della situazione, e si annuncia una politica di riconversione della spesa dai consumi civili alla produzione per usi militari. Lo S&P manifesterà una flessione soltanto nei primi mesi del 1953, lasciando poi il terreno a una fase di forte espansione a partire dalla fine dell’anno. In questo contesto l’Economic Report del Presidente del luglio 1950 contiene espressioni singolarmente consonanti con quelle che stanno affollando i canali di informazione negli ultimi 16 Fig. 1 STATI UNITI: PIL DEL SETTORE PRIVATO E INDICE DI BORSA STANDARD & POOR'S 20 180 Indice di borsa (Gennaio 1928=100) Pil (1940-41=100;scala destra) 18 160 16 140 14 120 12 100 10 80 8 60 6 40 1935 1936 1937 Fonte: Bloomberg. 1938 1939 1940 1941 1942 1943 1944 1945 giorni: “The world responsibilities of the United States have become heavy. (…) The American people know how much is at stake. They are prepared to shoulder their tasks without flinching. (…)” E più avanti: “This is not the time for business as usual. We are not now living under peaceful world conditions. But neither are we engaged in a general or widespread war. We are in a situation between these opposite extremes, and economic policy should be guided accordingly” (p. 1). Fig. 2 STATI UNITI: PRODUZIONE INDUSTRIALE, PIL E INDICE DI BORSA STANDARD & POOR'S 180 160 130 Indice di borsa (gennaio 1949=100) Produzione industriale (1947-49=100) Pil (1 trim. 1949=100; scala destra) 125 120 140 115 110 120 105 100 100 80 95 1949 Fonte: Bloomberg. 1950 1951 1952 1953 Le serie trimestrali del Gnp mostrano una crescita regolare lungo tutto l’arco del conflitto (1950-53), con un leggero innalzamento del trend rispetto al quadriennio precedente; nello stesso periodo tuttavia le serie mensili dell’indice di produzione industriale (in forte crescita dalla fine del 1949) rivelano un appiattimento del profilo di crescita dopo il mese di agosto. Il profilo dell’indice di produzione trova una spiegazione sia nel rallentamento, osservabile a partire dall’ultimo trimestre del 1950, della domanda (e in particolare di quella di beni durevoli, che sconta anche il boom degli acquisti avvenuto nei giorni successivi alla dichiarazione dello 17 Fig. 2bis INDICE DOW JONES (Dati giornalieri, 20 giugno-31 luglio 1950) 250 240 230 220 210 200 190 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 Luglio Giugno Fonte: Bloomberg. stato di guerra), sia nel fatto che il sistema industriale si trova nei mesi che precedono la crisi in condizioni prossime alla piena utilizzazione della capacità produttiva. In questo quadro le esigenze della produzione militare si risolvono, almeno in una prima fase, in una compressione della produzione destinata ad usi civili, implicando anche forti pressioni sui prezzi (alimentate anche dalle difficoltà incontrate nel realizzare la riconversione). L’indice di produzione, influenzato nei mesi centrali del 1952 anche da uno sciopero nell’industria dell’acciaio, che si risolve nel luglio, mostrerà di nuovo un profilo ascendente solo nella seconda metà del 1952. Il forte aumento delle spese militari spinge il deficit a 4 miliardi di dollari nel 1952 e a 9,5 miliardi nel 1953, corrispondenti al 2,6% del Gnp (nel 1951 il bilancio era ancora attivo per 3,5 miliardi di dollari). 3) Cuba (fig. 3). In seguito a informazioni che documentano l’installazione a Cuba di missili sovietici a medio raggio il Presidente Kennedy diffonde il 22 ottobre 1962 un messaggio in cui annuncia alla nazione di avere decretato il blocco navale intorno a Cuba per tutte le navi che trasportino armamenti, e invita a smantellare i missili già installati. Di fronte all’effettivo passaggio al blocco navale da parte degli Usa (24 ottobre), il primo ministro sovietico Khruscev richiede un incontro “ad alto livello”, che non riceve risposta. La crisi si scioglie soltanto il 28 ottobre, quando Khruscev accetta lo smantellamento dei missili, in seguito al quale gli Usa rimuovono il blocco. La rapidità con la quale si risolve la crisi fa sì che gli effetti sull’attività produttiva siano di fatto inesistenti. Il livello del Dow Jones mostra una flessione tra il 22 e il 23 ottobre (da 569 a 558), ma risale già il giorno successivo (577), e dopo un’altra breve flessione torna in salita appena la crisi si esaurisce. L’indice di produzione industriale di ottobre resta sostanzialmente allo stesso livello di settembre (ma la stagnazione è osservabile lungo l’intera seconda metà del 1962, e sembra dunque largamente indipendente dagli eventi in questione). 18 4) Vietnam (fig. 4). Di fronte alla crescente intensità degli scontri tra le forze insurrezionali dei Viet-cong e quelle governative del Vietnam del Sud, che raggiungono una particolare intensità nella seconda metà del 1961, il presidente Fig. 3 INDICE DOW JONES (Dati giornalieri, 19-30 ottobre 1962) 590 585 580 575 570 565 560 555 19 20 21 22 Fonte: Bloomberg. 23 24 25 26 27 28 29 30 Kennedy decide – nonostante il parere contrario dei servizi di informazione – di impegnarsi direttamente nel conflitto, attraverso l’invio di un numero via via crescente di consiglieri militari e la sperimentazione di tecniche anti-guerriglia. L’intervento americano assume però l’aspetto di guerra aperta solo a partire dal 1964, quando (in seguito all’affondamento in acque internazionali di un incrociatore americano da parte di forze nord-vietnamite) il presidente Johnson il 6 agosto ordina per rappresaglia un bombardamento di postazioni nel Golfo del Tonchino. Negli anni che seguono le forze americane impegnate nel conflitto passeranno da 25.000 a 550.000 unità. L’ascesa alla presidenza di Nixon nel 1969 segnerà successivamente il passaggio a una politica di graduale disimpegno degli Usa; il 27 gennaio 1973 viene firmato a Parigi l’accordo che prevede il ritiro delle basi americane. Fig. 4 STATI UNITI: PRODUZIONE INDUSTRIALE E DOW JONES 1955=100 240 220 1100 1000 200 900 180 800 160 700 140 120 100 Produzione industriale Dow Jones (scala destra) 60 61 62 63 64 65 66 67 68 Fonte: Federal Reserve, Thomson Financial. 69 70 71 72 600 73 500 19 Fig. 5 PREZZO SPOT DEL PETROLIO (Dollari per barile) 14.0 12.0 10.0 8.0 6.0 4.0 2.0 1973 Fonte: Fmi. 1974 1975 1976 1977 Rispetto ai casi precedenti la vicenda del Vietnam presenta naturalmente differenze marcate, sia perché non trae origine da uno shock improvviso, sia per la sua durata (nel complesso oltre un decennio). Gli effetti sull’economia sono quelli dovuti a una escalation progressiva dell’onere (e del rischio) implicato dal crescente impegno militare. Il Dow Jones subisce una flessione nei primi mesi del 1962, per poi riprendersi nella seconda parte dell’anno e salire costantemente fino alla fine del 1965 (da un livello di 90 a quasi 160); nel 1966 l’indice torna a scendere, ma già alla fine dell’anno è in ripresa, e alla fine del 1968 è ancora sui livelli di fine 1965. Nel quinquennio successivo (1969-73) l’andamento è altalenante, con un picco oltre quota 160 alla fine del 1972. Nello stesso periodo l’indice di produzione industriale è in costante crescita, con cadute nei primi mesi del 1967 e lungo l’intero arco del 1970. L’Economic Report del Presidente Usa del gennaio 1966 affronta la questione Vietnam esplicitamente, sottolineando tuttavia che “the economic cost of Vietnam imposes no unbearable burden upon our [U.S.] resources” (p. 4). Il peso della produzione destinata a sostenere l’intervento è stimato nell’ordine di un punto percentuale e mezzo di Gnp; mentre ciò implica comunque una riallocazione della domanda, la convinzione espressa è che in ogni caso “our prosperity does not depend on our military effort” (p. 5). Il Report del febbraio 1968 sottolinea con grande enfasi come il 1967 costituisca, nonostante il rallentamento dei primi mesi, il settimo anno “of the longest and strongest economic espansion of our history” (p. 6); l’espansione si manterrà sostenuta ancora per un biennio. Alla fine del decennio il problema diventa piuttosto quello dell’inflazione: la crescita dei deficit di bilancio e l’espansione monetaria in atto dal 1965 esercitano, nonostante una politica monetaria più restrittiva a partire dai mesi finali del 1968, una crescente pressione sul livello dei prezzi. La parallela espansione del deficit estero e le conseguenti pressioni sul dollaro porteranno nell’agosto 1971 alla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro e al crollo del sistema di Bretton Woods. 5) La guerra del Kippur (fig. 5). La guerra iniziò il 5 ottobre 1973 con un attacco di Siria ed Egitto ad Israele teso a riconquistare i territori arabi occupati nella guerra 20 dei sei giorni (5/10 giugno 1967). Finì ufficialmente il 22 ottobre con l’approvazione da parte delle Nazioni Unite di una Risoluzione che imponeva un negoziato tra le parti belligeranti. Gli Stati Uniti e la gran parte dei paesi occidentali si schierarono a sostegno di Israele, provocando la reazione dei paesi arabi produttori di petrolio (con in testa l’Arabia Saudita) e l’imposizione dell’embargo nei confronti degli Stati Uniti e altri paesi occidentali fino al marzo del 1974. Nonostante l’aumento di un milione di barili al giorno della produzione da parte di paesi non Opec, la produzione giornaliera di petrolio si ridusse di 4 milioni di barili (il 7% della produzione mondiale). Tra il 1972 e il 1974 i prezzi del petrolio quadruplicarono passando dai circa 3 dollari al barile del 1972 ai 12 dollari del 1974. Il rapido aumento dei prezzi portò, tra la seconda metà del 1974 e la prima metà del 1975 ad una forte recessione negli Stati Uniti e negli altri paesi occidentali, accompagnata da significativi aumenti dell’inflazione e del tasso di disoccupazione, dando inizio al fenomeno della stagflazione. 6) La guerra del Golfo (figg. 6-10). La guerra inizia il 2 agosto 1990 con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, e interrompe una lunga fase di espansione dell’economia statunitense (4,3% il tasso di crescita medio del Pil tra il 1983 e il 1989) e di quella mondiale (3,9% la crescita media nello stesso arco di tempo). Nel gennaio 1991 le forze Nato, sotto la leadership degli Stati Uniti, lanciano i primi bombardamenti sull’Iraq. Il rallentamento americano, già iniziato nel II trimestre del 1990 (+0,9% in ragione d’anno contro il +5,1% nel I trimestre 1990), si tramutò in recessione durante i sette mesi di guerra. La fase di recessione che caratterizzò l’economia americana ed i principali paesi industrializzati durante la guerra del Golfo fu il prodotto di una crisi globale di fiducia che portò al crollo dei consumi privati e dunque del prodotto. Il calo della fiducia all’indomani dell’invasione del Kuwait dipese non solo dalla prospettiva (poi realizzatasi) della guerra , ma anche dallo shock petrolifero causato dalla sospensione di produzione di greggio in Iraq e Kuwait. Dai 16 dollari a barile di luglio 1990 il prezzo del Brent passò a oltre 40 tra agosto e settembre: tra il secondo e il quarto trimestre del 1990 il prezzo del petrolio aumentò di oltre 15 dollari a barile. Una volta avviate le operazioni militari l’aggiustamento al ribasso dei corsi petroliferi fu molto veloce: nel febbraio 1991, con il ritiro dell’Iraq dal Kuwait, il Brent tornava ad essere quotato a 20 dollari a barile. Fu dunque la somma di questi due shock esogeni – guerra e petrolio – ad innescare il crollo delle borse e della fiducia. Sul fronte dei mercati azionari, tra l’agosto 1990 e gennaio 1991 l’indice Dow Jones cadde di oltre il 20%. La caduta dell’indice, interrotta solo nell’ultimo trimestre del 2000, si esaurì con la fine della guerra del Golfo. In poco più di un mese (metà gennaio – fine febbraio 1991) i mercati recuperarono tutte le perdite, benché nello stesso tempo gli Stati Uniti e la gran parte dei paesi industrializzati stessero entrando in una fase di recessione. Sul fronte della fiducia dei consumatori, tra agosto e dicembre 1990 l’indice statunitense (Conference board index) subì un crollo del 35%. La caduta della fiducia si estese a tutti i paesi industrializzati (con l’eccezione della Germania, condizionata dall’euforia della riunificazione); in Italia essa fu del 12%. La crisi di fiducia condusse a minori consumi: nel IV trimestre del 1990 i consumi degli Stati Uniti subirono un crollo del 3,3% in ragione d’anno sul trimestre precedente. La caduta proseguì nel I trimestre del 1991 (-1,8% in ragione d’anno). I minori consumi determinarono un calo del Pil statunitense del 3,3% in ragione annua nel IV trimestre del 1990 e del 2% nel I trimestre del 1991. Anche in Europa il rallentamento dell’attività economica fu molto forte: nel quarto trimestre del 1990 il Pil calò del 2% nel Regno Unito, dello 0,4% in Francia e del 4% in Italia. Solo in Germania, impegnata nel processo di riunificazione, la recessione venne evitata: il Pil nel quarto trimestre del 1990 aumentò del 5,6% in ragione d’anno. Durante la 21 Fig.6 PREZZO DEL SPOT DEL PETROLIO (Dollari per barile) 45.0 40.0 35.0 30.0 25.0 20.0 15.0 10.0 1990 Fonte: Thomson Financial. 1991 Fig.7 INDICE DOW JONES (Gennaio 1990=100) 110 105 100 95 90 85 22 1990 Fonte: Thomson Financial 1991 Fig.8 FIDUCIA DEI CONSUMATORI IN ITALIA E STATI UNITI 1980=100 1995=100 140 130 120 120 100 110 80 Stati Uniti Italia (scala destra) 100 60 40 1988 1989 1990 Fonte: Isae,Thomson Financial. 1991 1992 1993 1994 90 Fig. 9 CONSUMI NEGLI STATI UNITI (Var. % tendenziali) 5.0 4.0 3.0 2.0 1.0 0.0 -1.0 1989 1990 Fonte: Thomson Financial. 1991 1992 1993 1994 23 Fig.10 PRODOTTO INTERNO LORDO (Var. % congiunturali annualizzate) 7.0 8.0 5.2 6.0 4.0 3.3 2.0 1.5 0.0 -0.3 -2.0 -2.2 -4.0 Stati Uniti Italia (scala destra) 1989 1990 1991 Fonte: Thomson Financial. 1992 1993 -4.0 1994 -6.0 guerra del Golfo gli americani ridussero i loro viaggi oltreoceano del 9,2%, i viaggi verso l’Europa si ridussero del 22% e non tornarono ai livelli del 1990 sino al 1994. 7) Il terremoto di Kobe (fig. 11). Il 17 gennaio 1995 la regione del Kansai in Giappone fu colpita da un fortissimo terremoto con epicentro a Kobe (7,2 gradi della scala Richter). L’area colpita, che produceva poco meno del 5% dell’output industriale giapponese, contò una perdita di oltre 5000 vite umane e danni fisici per circa 60 miliardi di dollari (l’1,3% del Pil). Si tratta di cifre non distanti da quelle stimate a seguito del crollo delle Torri del World Trade Center di New York. Immediatamente dopo il terremoto il mercato azionario giapponese cadde del 6,5%. Tra gennaio e agosto 1995 la fiducia dei consumatori continuò a cedere: l’indice costruito dall’Epa registrò una flessione del 10%. Nello stesso arco temporale la fiducia delle imprese crollò di quasi il 60%. La flessione della produzione industriale si concentrò nel solo mese di gennaio (-2,6%). La distruzione dello stock di capitale da una parte e la crisi di fiducia dall’altra determinarono una caduta del Pil giapponese dell’1,2% annuo nel I trimestre del 1995: i consumi privati caddero del 2,4% e gli investimenti del 5,4% in ragione d’anno. Il ritorno a tassi di crescita positivi fu però veloce: nel II trimestre del 1995 il Pil crebbe del 2,7% in ragione d’anno e nei due trimestri successivi del 4,5%. L’accelerazione fu determinata da una forte crescita degli investimenti privati e della spesa pubblica, anche a seguito dell’attività di ricostruzione. Fig. 11 GIAPPONE: PRODUZIONE INDUSTRIALE (Indici: 1995=100) 106 104 102 100 98 96 94 92 90 1994 Fonte: Thomson Financial 24 1995 1996 2. L’economia internazionale 2.1 Il quadro a settembre Nel corso dei mesi estivi è proseguito il rallentamento dell’economia mondiale. Sino a qualche settimana fa gli indicatori anticipatori di Stati Uniti ed Europa sembravano suffragare l’ipotesi di un recupero dell’attività mondiale verso la fine dell’anno. Dopo gli attentati dell’11 settembre lo scenario globale è divenuto molto più incerto (cfr. cap. 1). Nel seguito verrà esposto lo stato dell’economia internazionale desumibile dai dati disponibili a settembre, quindi antecedenti gli attentati; solo per borsa, tassi di interesse e cambi verranno incluse le informazioni successive all’11 settembre. Alla chiusura del terzo trimestre 2001 la congiuntura economica mondiale si presenta in questo modo: ? negli Stati Uniti al crollo nella prima parte di quest’anno della produzione industriale e degli investimenti, in particolare nel settore dell’hitech, ha corrisposto una brusca caduta degli utili di impresa, un’ulteriore flessione delle quotazioni di borsa e l’avvio di una campagna di riduzione del personale. Nel secondo trimestre l’economia è rimasta praticamente ferma; le indicazioni congiunturali emerse nel corso dei mesi estivi disegnano un quadro di stallo anche per il terzo trimestre; ? l’area dell’euro ha accusato il rallentamento americano ben più di quanto lasciassero intuire i rapporti commerciali tra le due aree; l’occupazione ha cessato di aumentare a ritmi elevati; la flessione dell’attività produttiva è risultata particolarmente ampia nelle maggiori economie dell’area. La crescita del Pil è stata pari allo 0,1% nel secondo trimestre; segnali di stagnazione dell’attività produttiva sembrano prevalere anche per il trimestre in corso; ? in Giappone la brusca caduta del commercio internazionale ha acuito la crisi economica e finanziaria del paese; non accenna a fermarsi il processo di deflazione mentre la caduta dei corsi azionari aumenta i rischi di default del sistema bancario. L’economia giapponese è in recessione. Nel primo semestre del 2001 il tasso di espansione dell’economia mondiale è stato pari al 2%, in netta flessione rispetto al 4,6% del 2000. Il perdurare della fase di stagnazione dei paesi industriali durante tutto il terzo trimestre del 2001, la debolezza delle nuove economie emergenti dell’Asia orientale e dell’America latina e il contraccolpo sulla fiducia dei consumatori degli attentati dell’11 settembre rendono improbabile una ripresa del Pil mondiale nel corso dell’anno. La brusca frenata della domanda mondiale nel 2001 si è riflessa nel rallentamento del commercio mondiale (calcolato sulla base degli scambi di beni e servizi dei paesi industriali e dei Nics): nel secondo trimestre di 25 quest’anno la crescita del commercio è scesa al 3%, dal 5,9% del primo trimestre 2001 e dal 10,3% del quarto trimestre del 2000. La frenata della domanda mondiale aveva favorito una flessione dei prezzi del petrolio fino a 25 dollari. Dopo l’11 settembre la quotazione del Brent è inizialmente salita verso i 30 dollari, per poi ridiscendere verso i 26-27 dollari al barile, anche alla luce dei timori di recessione negli Stati Uniti. Nei prossimi mesi i corsi del greggio dipenderanno dagli sviluppi politici e militari conseguenti agli attentati terroristici. I paesi produttori hanno dichiarato di voler garantire la stabilità dell’offerta: questo impegno dovrebbe evitare il ripetersi dell’impennata del prezzo del petrolio che caratterizzò il periodo della guerra del Golfo (cfr. cap. 1). 2.2 Stati Uniti Sulla base dei nuovi dati di contabilità nazionale (cfr. riquadro: La revisione delle serie di contabilità nazionale negli Stati Uniti), negli Stati Uniti nel secondo trimestre di quest’anno l’economia è rimasta sostanzialmente ferma; il Pil è infatti cresciuto al tasso annualizzato dello 0,2%, in progressivo calo rispetto al dato del quarto trimestre del 2000 (+1,9%) e del primo trimestre di quest’anno (+1,3%). I consumi privati, cresciuti al tasso annualizzato del 2,5% (3% nel I trimestre e 3,2% nel IV trimestre del 2000) hanno continuato a fornire il contributo maggiore alla crescita del Pil. Consumi pubblici, investimenti residenziali (che hanno beneficiato del taglio dei tassi di interesse) ed esportazioni nette hanno sostenuto la crescita per lo 0,7% complessivamente, mentre gli investimenti non residenziali le hanno sottratto ben il 2%. Il crollo degli investimenti produttivi non residenziali (-3,6% e -0,04% nel I trimestre del 2001) è dipeso soprattutto dalla componente relativa alle attrezzature e software (-3,8% e -1,1% nel I trimestre del 2001; cfr. fig. 1). Il decumulo delle scorte infine ha sottratto uno 0,1% alla crescita; questa tendenza appare proseguire nel terzo trimestre. Il rallentamento economico si è tramutato in vera e propria recessione per l’industria manifatturiera. Nel primo semestre del 2001 la produzione industriale è diminuita del 2,6% rispetto al seconda metà del 2000; la contrazione iniziata ad ottobre 2000 si è prevalentemente concentrata nei settori hi-tech (-4,9% nel II trimestre 2001 rispetto al primo e -1,5% nel I trimestre 2000) ed è stata la più lunga degli ultimi 40 anni. Contemporaneamente il grado di utilizzo della capacità produttiva è sceso ai livelli più bassi dal 1980. Nello stesso periodo gli ordini del settore manifatturiero sono diminuiti del 5%, mostrando però una ripresa negli ultimi mesi. In agosto, gli ordini sono saliti dello 0,1%, mostrando segnali positivi soprattutto nei settori dei beni intermedi. Sia a luglio che ad agosto la produzione industriale ha continuato a cedere. Lo scorso agosto la flessione dell’attività produttiva è stata dello 0,8% su luglio. Dopo essere caduta per undici mesi consecutivi la produzione di agosto è stata del 4,8% inferiore al livello dell’agosto 2000. 26 Fig.1 STATI UNITI: INVESTIMENTI FISSI LORDI (Variazioni % tendenziali) 20 15 10 5 0 -5 -10 Totali Software e apparecchiature 1997 1998 Fonte: Thomson Financial. 1999 2000 2001 Nel primo semestre dell’anno il tasso di disoccupazione è stato pari al 4,4% (4% nel 2000); ad agosto esso è balzato al 4,9%, dopo essere stato pari al 4,5% nei due precedenti mesi estivi. Nel solo mese di agosto il numero totale di occupati è diminuito di circa un milione di unità, mentre i payrolls della trasformazione industriale sono diminuiti di 136.000 unità. La contrazione dell’attività produttiva e l’incremento del tasso di disoccupazione hanno contribuito a contenere il costo del lavoro. L’employment cost index del settore manifatturiero è cresciuto dello 0,9% nel II trimestre del 2001 rispetto al primo trimestre (1,1% nel I trimestre 2001; cfr. fig. 2). Nello stesso periodo la produttività del lavoro ha accelerato al 2,1% dopo la stasi del primo trimestre. L’inflazione al consumo nella prima metà dell’anno è stata pari al 3,4% ed uguale al valore medio del 2000. La caduta dei prezzi dei prodotti energetici (il prezzo del gasolio è sceso del 14% nel mese di luglio) si è riflessa a luglio in una forte flessione dell’inflazione (passata al 2,7% dal 3,3% di giugno). Ad agosto l’inflazione al consumo è risultata invariata al 2,7%. 27 Fig. 2 STATI UNITI: COSTO DEL LAVORO E TASSO DI DISOCCUPAZIONE (Variazioni % tendenziali) 5 15 4 10 3 5 2 0 1 -5 0 -10 Costo del lavoro -1 1997 1998 Fonte: Thomson Financial. Tasso di disoccupazione (scala destra) 1999 2000 2001 -15 Fig. 3 STATI UNITI: INDICE NAPM E PRODUZIONE INDUSTRIALE Indice NAPM (*) Variazioni % 65 8.0 6.0 60 4.0 55 2.0 50 0.0 45 40 35 28 -2.0 Indice NAPM Produzione industriale (scala destra) -4.0 -6.0 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 (*) Indice NAPM dei nuovi ordini; valori superiori a 50 indicano espansione, valori inferiori recessione. Fonte: National Association of Purchasing Management. Prima dell’attacco terroristico dell’11 settembre gli indicatori anticipatori del ciclo sembravano puntare a un arresto della fase di declino dell’attività produttiva. In particolare l’indice Napm dei responsabili degli acquisti del settore manifatturiero, pur rimanendo ancora al di sotto della soglia (dei 50 punti) che separa la fase di espansione da quella di contrazione, lo scorso agosto risultava in forte recupero, salendo a quota 47,9 dal 41,2 del gennaio 2001. Segnali incoraggianti erano pervenuti dalla componente dei nuovi ordini dello stesso indice, balzata nello stesso periodo da quota 37,8 a quota 53,1. Allargando l’analisi agli ultimi dieci anni, sino a includere la recessione di inizio anni novanta, si può notare che la ripresa dell’indice Napm si è sempre accompagnata in passato a un’analoga ripresa della produzione industriale (fig. 3). Questa considerazione è rafforzata dall’esistenza di un’analoga correlazione positiva tra la produzione industriale e l’indice di fiducia dei consumatori; nel corso del 2001, anche in questo caso con un andamento contrastante, l’indice di fiducia ha recuperato rispetto ai livelli minimi di fine dell’anno precedente (fig. 4). Negli ultimi due mesi tuttavia i timori legati all’andamento dell’occupazione sembrano aver avuto nelle aspettative dei consumatori maggiore peso dei rimborsi fiscali (iniziati nella seconda metà di luglio), frenando la ripresa dell’indice. L’aumento, ad agosto, del tasso di disoccupazione, dovrebbe aver ulteriormente influenzato in maniera negativa la fiducia delle famiglie americane; indicazioni in tal senso provengono dai risultati preliminari della survey dell’Università del Michigan, relativa al mese di settembre ma chiusa il giorno prima dell’attacco terroristico. Malgrado ciò, e malgrado la brusca caduta registrata nel corso dell’anno precedente, la fiducia delle famiglie rimane sui livelli elevati del 1997, ben al di sopra dei livelli minimi raggiunti dieci anni fa, durante la guerra del Golfo. Vi è infine evidenza che la riduzione dei tassi di interesse ha prodotto effetti positivi per il mercato di nuove case; le vendite sono aumentate a luglio del 6% rispetto alla media del II trimestre del 2000. L’insieme di questi segnali, in gran parte antecedenti ai fatti dell’11 settembre, potevano ancora indurre, seppur con grande cautela, a un moderato ottimismo sulle prospettive di ripresa dell’economia americana; questa considerazione si basava soprattutto sul mix di politica economica attuato dalle autorità americana, fatto di sgravi fiscali alle famiglie e di forte riduzione dei tassi di interesse. Dopo aver ridotto il tasso interbancario di 2,5 punti nei primi sei mesi di quest’anno, dal 6,5 al 4%, la Federal Reserve aveva infatti abbassato di un altro mezzo punto i tassi ufficiali nel corso dei mesi estivi, al 3,5%. 29 Fig. 4 STATI UNITI: PRODUZIONE INDUSTRIALE E FIDUCIA DELLE FAMIGLIE Var. % 1995=100 160 8.0 6.0 140 4.0 120 2.0 100 0.0 80 -2.0 60 40 Indice di fiducia delle famiglie Produzione industriale (scala destra) 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 Fonte: Thomson Financial. -4.0 -6.0 Complessivamente da inizio anno i tassi ufficiali erano stati ridotti di 3 punti, il che equivale al più forte allentamento dal dopoguerra in un così ristretto arco di tempo. I tassi di mercato monetario, vicini al 7% alla fine dello scorso anno, si erano addirittura dimezzati (fig. 5). Malgrado la riduzione dei tassi di interesse ufficiali l’allentamento delle condizioni monetarie è risultato più contenuto per effetto dell’ulteriore apprezzamento del tasso di cambio effettivo (fig. 6) e della modesta riduzione dei tassi sui corporate bonds, scesi nella media di quest’anno di solo mezzo punto rispetto al 2000 (al 7,8% quelli sui titoli BAA e al 7% quelli sui titoli a tripla A). In questo quadro di rilevante incertezza sulle prospettive di crescita del Pil nel breve e medio termine, l’attacco terroristico dell’11 settembre ha rappresentato uno shock in grado di far precipitare la fiducia delle famiglie e quindi, in ultima analisi, di trascinare con sé l’intera economia, alla luce della prolungata flessione degli investimenti e delle esportazioni. La Federal Reserve è intervenuta con la massima tempestività, di concerto con le altre principali banche centrali, nel tentativo di contrastare un prevedibile crollo delle quotazioni di borsa e, indirettamente, della fiducia delle famiglie e per garantire, nei limiti del possibile, l’ordinato svolgimento delle transazioni finanziarie. 30 Fig. 5 TASSI DI INTERESSE A BREVE TERMINE 7.0 6.0 5.0 4.0 3.0 Area dell'euro (*) Stati Uniti 2.0 1996 1997 1998 (*) Prima del 1999 dati relativi all'ecu. Fonte: Thomson Financial. 1999 2000 2001 Fig. 6 TASSI DI CAMBIO EFFETTIVI NOMINALI (Indici: 1 gennaio 1998=100) 140.0 130.0 Stati Uniti Giappone Area dell'euro 120.0 110.0 100.0 90.0 80.0 1998 1999 2000 Fonte: Elaborazioni CSC su dati Thomson Financial. 2001 31 In maniera in gran parte analoga a quanto attuato subito dopo la crisi di borsa del 1987, la Banca Centrale americana ha in primo luogo aumentato immediatamente e in misura rilevante la liquidità a disposizione del mercato monetario, per contenere le tensioni sui tassi di interesse; questo anche in considerazione del fatto che nell’attacco terroristico sono rimaste coinvolte alcune grandi istituzioni finanziarie che potevano e in parte hanno incontrato difficoltà nel mantenere gli impegni di pagamento con le rispettive controparti finanziarie. La contemporanea chiusura della borsa per i restanti giorni della settimana è risultata particolarmente opportuna perché ha permesso di contenere i riflessi emotivi dello shock sulle quotazioni azionarie. Per garantire alle banche commerciali europee un’adeguata disponibilità di dollari in un momento di chiusura o di parziale funzionamento dei mercati finanziari, la Federal Reserve ha inoltre messo a disposizione della Banca Centrale Europea 50 milioni di dollari per un periodo di 30 giorni; disponibilità cui la Bce può attingere depositando l’equivalente in euro. La rete di protezione dei mercati predisposta dalla Federal Reserve è stata completata, alla riapertura del mercato di borsa degli Stati Uniti, dal taglio di mezzo punto del tasso sui federal funds , sceso così al 3%, come nel 1992. E’ probabile che la Banca centrale americana riduca nuovamente al ribasso i tassi ufficiali nei prossimi mesi. Una riduzione dei tassi (di almeno un quarto di punto) era attesa dai mercati già prima dell’11 settembre; la possibilità di una brusca caduta dei consumi delle famiglie e quindi della stessa crescita dell’economia americana, dovrebbe spingere nuovamente all’azione la Banca centrale. Nelle attese dei mercati il tasso sull’eurodollaro a 3 mesi dovrebbe scendere di almeno mezzo punto entro il primo trimestre del prossimo anno; la Federal Reserve potrebbe però decidere, come accaduto nel corso di tutto il 2001 e alla luce soprattutto della drammaticità della situazione interna e internazionale, di agire in tempi più stretti e anche in modo più deciso. Questo servirebbe a dare un’iniezione di fiducia ai mercati e opererebbe a sostegno anche della fiducia delle famiglie; i tassi a breve termine dovrebbero quindi scendere attorno al 2,5% già a fine anno, ma non è da escludere una discesa fino al 2% se l’impatto sull’economia degli eventi più recenti dovesse rivelarsi particolarmente negativo. Assumendo un’inflazione in modesto calo, attorno al 2,5% nei prossimi dodici mesi, in termini reali i tassi di mercato monetario diventerebbero addirittura negativi, scendendo a -0,25/-0,5%, come accaduto a cavallo tra il 1992 e il 1993. All’intervento della Federal Reserve ha fatto immediatamente seguito nello stesso giorno quello delle banche centrali di quasi tutte le maggiori economie, nel tentativo evidente di rassicurare i mercati anche attraverso un coordinamento operativo che non ha precedenti nella storia più recente; sia nel 1998, in occasione della crisi di uno tra i maggiori operatori di mercato americani, sia nel 1987, in occasione del crollo del mercato di borsa, l’intervento della Federal Reserve infatti fu seguito da quello delle altre principali banche centrali solo dopo alcuni mesi. In Europa, al ribasso di mezzo punto operato dalla Federal Reserve, ha fatto seguito – a distanza di 32 poche ore - un’analoga riduzione dei tassi ufficiali di riferimento nell’area dell’euro (al 3,75%), in Canada (al 3,5%), in Svezia (al 3,75%) e in Svizzera, dove la banda di oscillazione dei tassi è stata abbassata al 2,25-3,25%; nella giornata successiva, sono intervenute al ribasso anche la banche centrali della Danimarca, che ha ridotto di mezzo punto il suo tasso base, al 4,15%, la Banca d’Inghilterra, che ha operato una riduzione di solo un quarto di punto, al 4,75%, e, in misura simbolica, anche la Banca del Giappone, che ha ridotto di un decimo di punto il tasso di riferimento, allo 0,15%. In molti casi i tassi ufficiali – che erano già stati abbassati nella prima parte dell’anno – sono scesi sui livelli minimi degli ultimi 30-40 anni. Nel caso in particolare delle banche centrali delle due maggiori economie – Stati Uniti e area dell’euro – gli interventi sono stati decisi al di fuori delle periodiche riunioni dei rispettivi comitati monetari; ciò sottolinea la drammaticità del momento condivisa dalle due banche centrali che si sono mantenute sin dall’inizio della crisi in continuo contatto. All’orientamento fortemente espansivo della politica monetaria si somma quello altrettanto espansivo - specialmente in prospettiva - della politica di bilancio. Prima dei fatti dell’11 settembre infatti l’Amministrazione americana aveva avviato un programma di sgravi fiscali alle famiglie nell’arco dei prossimi dieci anni (pari al 13% del Pil); già a luglio scorso le famiglie americane avevano ricevuto un rimborso di imposte pari a 100 miliardi dollari. Dopo l’attacco terroristico il governo ha stanziato un primo pacchetto di aiuti straordinari pari a 40 miliardi di dollari (0,4% del Pil), di cui 10 miliardi già attivati, mentre i 30 restanti saranno inseriti nella legge di bilancio per l’anno fiscale 2000 che avrà inizio il prossimo mese di ottobre. Altri interventi più mirati a sostegno dell’economia sono in discussione e dovrebbero essere varati in tempi assai rapidi; si discute in particolare di ampliare le spese per la sicurezza militare (il Pentagono ha chiesto 20 miliardi di dollari per far fronte alle necessità più immediate), di aiuti alle compagnie aeree (circa 10 miliardi), tra i settori più colpiti da quanto accaduto, dei fondi necessari alla ricostruzione (oltre 5 miliardi di dollari), ma è chiaro che a lievitare in misura assai significativa saranno soprattutto le spese legate alle operazioni militari in programma. Come mostra l’esperienza di situazioni analoghe del passato, gli effetti sulla crescita di medio termine dell’economia americana dovrebbero essere positivi, mentre nel breve periodo dovrebbero prevalere gli effetti negativi legati in primo luogo al calo della fiducia dei consumatori. 33 LA REVISIONE DELLE SERIE DI CONTABILITÀ’ NAZIONALE NEGLI STATI UNITI Ogni anno a luglio il Bureau of Economic Analysis (Bea) degli Stati Uniti rivede le serie storiche di contabilità nazionale, secondo una prassi comune a tutti gli istituti nazionali di statistica. La revisione relativa al periodo 1998 – 2000, recentemente pubblicata, ha determinato una correzione al ribasso della crescita del Pil di 1,1 punti percentuali cumulati nel triennio, di cui lo 0,9% nel solo 2000. L’anno scorso il tasso di espansione del prodotto americano è stato quindi pari al 4,1% anziché al 5% precedentemente reso noto. La forte correzione intervenuta nei dati del 2000 è dipesa essenzialmente da nuove, più aggiornate informazioni resesi disponibili 1 nei primi mesi del 2001 per la misurazione della variazione delle scorte, degli investimenti in attrezzature e software, della spesa personale per servizi e per i beni non durevoli. Per quel che riguarda l’andamento dei singoli trimestri la revisione maggiore ha riguardato il primo trimestre del 2000: anziché dell’1,2% rispetto al trimestre precedente il Pil è cresciuto della metà, lo 0,6%. Fra marzo e maggio 2000 (l’arco temporale in cui si sono avute le prime anticipazioni e poi le stime dei dati di contabilità nazionale del I trimestre 2000) la Federal Reserve aveva alzato i tassi ufficiali di un punto percentuale: alla luce dei dati rivisti ci si può domandare se la Fed non abbia reagito eccessivamente a quelli che all’epoca sembravano chiari segni di “surriscaldamento” dell’economia americana. In effetti la sovrastima dell’output gap nel primo trimestre del 2000 sembrerebbe essere stata pari a circa un punto percentuale: questo implica, interpretando l’azione della Fed con la regola di Taylor, che lega il livello dei tassi di interesse all’output gap e all’inflazione attesa, una risposta del tasso di interesse dello 0,5% superiore a quella necessaria (fig. 1). Ovviamente questo non implica necessariamente che la Fed abbia commesso un errore di valutazione, basandosi sulle informazioni allora disponibili: altri indicatori, inclusi gli indici di fiducia e gli andamenti di borsa, segnalavano allora concreti rischi di una crescita eccessiva dell’economia. La revisione dei dati di contabilità nazionale ha ridimensionato il peso di altri squilibri dell’economia emersi nel corso del 2000. In particolare, il reddito personale è stato rivisto al rialzo dello 0,5% e quello disponibile è stato rivisto al rialzo di 41,2 miliardi di dollari. Le spese personali - spese di consumo, interessi pagati, trasferimenti personali al resto del mondo - sono state riviste al ribasso. Tutto ciò ha comportato una revisione verso l’alto del tasso di risparmio: nel 2000 esso non è stato negativo, come si riteneva fino a oggi (-0,1% nella precedente serie), ma pari all’1%. ______________________________________ 1 La revisione di queste poste è in parte dipesa anche da alcuni cambiamenti di metodologia, tra cui il più rilevante è stato il passaggio dalla classificazione Sic (Standard Industrial Classification) a quella Naics (North American Industry Classification System). I nuovi dati basati su Naics sono stati utilizzati per la stima della spesa personale per il consumo di beni, degli investimenti privati in attrezzature e della variazione delle scorte. 34 Fig. 1 OUTPUT GAP DEGLI STATI UNITI E FEDERAL FUND RATE 3 2,5 2 1,5 1 0,5 7 0 -0,5 -1 -1,5 -2 3 6 5 4 post revisione ante revisione federal fund rate 1 0 1995 2.3 2 1996 1997 1998 1999 2000 2001 Giappone La congiuntura economica giapponese è andata ulteriormente deteriorandosi nel corso degli ultimi mesi: dopo essere cresciuta nel primo trimestre del 2001 al tasso annualizzato dello 0,5% essa potrebbe essere entrata in una fase “tecnicamente” recessiva (due trimestri consecutivi di crescita negativa): nel secondo trimestre il Pil del Giappone ha subìto una caduta del 3,2% in ragione d’anno. E’ prevedibile una ulteriore flessione dell’1% nel terzo trimestre. Il quadro macroeconomico continua ad essere caratterizzato dal processo di deflazione, con una diminuzione sia dei prezzi al consumo (-0,8% su base annua nel secondo trimestre dell’anno) sia di quelli all’ingrosso. Per le prospettive di breve – medio termine l’indagine trimestrale Tankan effettuata presso le imprese manifatturiere ha confermato il giudizio negativo sullo stato dell’economia anche per la seconda metà dell’anno (fig. 7). 35 Fig. 7 GIAPPONE: PRODUZIONE INDUSTRIALE E FIDUCIA DELLE IMPRESE (Variazioni % e saldi delle risposte) Var. % Saldi 10 20 10 5 0 0 -10 -20 -5 -30 Produzione industriale Fiducia delle imprese (scala destra) -10 1993 1994 1995 1996 Fonte: Thomson Financial. 1997 1998 1999 2000 2001 -40 Segnali di indebolimento della domanda aggregata provengono sia dall’interno (forte aumento delle scorte) sia dal settore estero (con il surplus commerciale che a maggio 2001 era di 95 miliardi di dollari su base annua, ovvero il 25% in meno rispetto a maggio 2000). I forti rapporti commerciali del Giappone con gli Stati Uniti contribuiscono a spiegare la tendenza alla riduzione del surplus commerciale, mentre i rapporti con i paesi emergenti dell’Asia costituiscono un forte canale di propagazione e retroazione degli impulsi negativi. Sul fronte interno, permane insoluto il problema delle insolvenze bancarie, che stime ufficiali collocano a circa 100 miliardi di dollari ma che potrebbero rivelarsi assai maggiori; dopo le elezioni di fine luglio il governo sembra intenzionato ad avviare al riguardo un’azione politica più incisiva, ricapitalizzando le banche con migliori prospettive ed avviando processi di fusione o di liquidazione per le banche nelle condizioni peggiori. Il nuovo governo ha inoltre annunciato l’intenzione di risanare i conti pubblici dopo che quasi dieci anni di crescenti disavanzi hanno portato il debito pubblico al 130% in rapporto al Pil. La riduzione prevista delle spese per il bilancio del 2002-2003 (oltre 3000 miliardi di yen, pari allo 0,6% del Pil del 2000), sommati al rallentamento della congiuntura internazionale, rischiano tuttavia secondo gli analisti di far precipitare ulteriormente la crisi economica e finanziaria del Giappone; non a caso il governo sembra ora 36 intenzionato a ridurre l’entità dei tagli previsti alle spese di bilancio. Il governo ha anche anticipato all’anno fiscale in corso il tetto di 30 mila miliardi di yen per l’emissione di nuovi titoli pubblici: le maggiori spese dovrebbero riguardare la formazione professionale e la sicurezza sociale. E’ allo studio infine un provvedimento che dovrebbe abbassare la tassazione dei capital gains dal 26 al 10% nel tentativo evidente di dare sostegno alle quotazioni di borsa, precipitate ai livelli minimi degli ultimi 17 anni. Gli spazi di manovra della politica monetaria sono anch’essi limitati, dal momento che i tassi di interesse oscillano su livelli vicini a zero da diversi anni. A metà aprile, nel tentativo di contrastare il perdurare del processo deflattivo, la Banca Centrale ha annunciato un’espansione dell’offerta di moneta, con misure tecniche che allargano la platea dei titoli pubblici che la Banca Centrale è disposta a comprare. A metà agosto l’orientamento della politica monetaria è diventato ancora più espansivo attraverso un cambiamento del target di breve termine: dai tassi di interesse alla quantità di moneta, con l’obiettivo esplicito di creare inflazione. M1 è cresciuta a luglio dell’8% su base annua, mentre la massa monetaria è cresciuta del 3,2%, il ritmo più alto dalla fine del 1999. A seguito dell’attacco terroristico negli Stati Uniti, la Banca del Giappone ha ridotto anche i tassi ufficiali. La riduzione, come detto in precedenza, è stata largamente simbolica; i tassi ufficiali, praticamente pari a zero, sono infatti stati ridotti di un decimo di punto, allo 0,15%. Ben più rilevanti sono stati gli interventi della Banca Centrale sul mercato valutario per contrastare l’apprezzamento dello yen nei confronti del dollaro; questi interventi non sono stati sterilizzati e si sono quindi tradotti in un’immissione di liquidità nel sistema. L’interpretazione fornita dagli analisti è che la Banca del Giappone abbia in sostanza accettato l’idea di creare inflazione aumentando l’offerta di liquidità sul mercato. 2.4 Regno Unito Nel Regno Unito nel secondo trimestre del 2001 l’economia è cresciuta al tasso annualizzato dell’1,2%, in netta decelerazione rispetto all’1,8% del primo trimestre. Durante il secondo trimestre del 2001 i dati per l’economia britannica hanno continuato a mostrare una crescita a due velocità. Dal lato della domanda interna le indicazioni congiunturali segnalano ritmi di crescita elevati: sia le vendite al dettaglio (cresciute a luglio dello 0,6% rispetto a giugno) che le importazioni (+3% nei primi sei mesi dell’anno) sono aumentate. Tra maggio e giugno si sono accentuate le pressioni inflazionistiche. Il tasso di inflazione depurato della componente dei mutui ipotecari (definizione rilevante per l’obiettivo della Banca d’Inghilterra) è salito al 2,4% in entrambi i mesi, avvicinandosi alla soglia obiettivo del 2,5%. A luglio, grazie al ribasso delle quotazioni energetiche e dei prodotti alimentari, i prezzi al consumo hanno subito una forte flessione (-0,7%) riportando l’inflazione al 2,2%. 37 Dal lato dell’offerta la produzione industriale, dopo essere caduta a maggio dello 0,9% (–0,3% a marzo ed aprile), è tornata a crescere dello 0,1% a giugno (la variazione sull’anno precedente rimane negativa e pari a –2,2%). La fiducia delle imprese continua ad essere debole. I risultati dell’ultima survey trimestrale della Cbi indicano che la fase di contrazione dell’attività produttiva non è ancora terminata (fig. 8); gli ordini continuano a calare. Gli indicatori anticipatori del ciclo risultano soprattutto condizionati dal deterioramento delle aspettative di esportazione sia verso gli Stati Uniti che verso i 12 paesi dell’euro. Il disavanzo commerciale del Regno Unito ha continuato ad ampliarsi: tra gennaio e giugno esso ha raggiunto 16 miliardi di sterline. La contrazione della produzione industriale ha indotto la Banca centrale a ridurre di un punto nei primi sei mesi dell’anno il tasso base, dal 6,25 al 5,25%; ad agosto, a fronte di un peggioramento della congiuntura interna, la Banca di Inghilterra è intervenuta nuovamente portando il tasso ufficiale al 5%. Nelle attese dei mercati i tassi dovrebbero scendere di circa un quarto di punto entro fine anno; spingono in questa direzione da un lato, il deteriorarsi delle prospettive di ripresa, dall’altro, il rientro dell’inflazione e delle attese di inflazione, che apre nuovi spazi di intervento alla Banca Centrale. Sulla scia dei ribassi operati dalle altre banche centrali anche la Banca d’Inghilterra, come detto in precedenza, ha ridotto ulteriormente il tasso di riferimento. Il taglio è stato di un quarto di punto, al 4,75%, quindi di dimensioni inferiori rispetto a quelli operati da tutte le altre banche centrali. Questo comportamento, in parte spiegato nel comunicato diffuso subito dopo la riduzione, riflette i timori della Banca d’Inghilterra per l’inflazione, risalita ad agosto al 2,6%, al di sopra dunque dell’obiettivo del 2,5%. L’inflazione riflette a sua volta, in parte, l’aumento dei prezzi petroliferi intervenuto nell’ultimo anno, e in parte una crescita che, seppure in sensibile rallentamento, rimane più sostenuta di quella delle altre maggiori economie. Con ogni probabilità, prima di procedere a nuove riduzioni dei tassi - il mercato sconta una riduzione di almeno un quarto di punto entro fine anno, al 4,5% - la Banca centrale attenderà ulteriori informazioni per valutare appieno l’impatto sulla crescita degli eventi recenti e la prospettiva di centrare l’obiettivo di inflazione nel medio termine. 38 Fig. 8 REGNO UNITO: ASPETTATIVE DELLE IMPRESE SU PRODUZIONE E ESPORTAZIONI Saldi delle risposte 40 20 0 -20 -40 Esportazioni Produzione -60 -80 2.5 1995 1996 1997 Fonte: Thomson Financial. 1998 1999 2000 2001 Economie emergenti Le prospettive delle economie emergenti sembrano dipendere, in questa fase, sia dagli sviluppi macroeconomici dei paesi industrializzati sia dalla eventualità di un contagio finanziario connesso ad alcune situazioni di crisi. Le maggiori tensioni politico-finanziarie si registrano in particolare in Argentina (cfr. riquadro: La crisi argentina), in Turchia ed Indonesia; esse hanno cause e sintomi molto diversi tra loro: in estrema sintesi, eccesso di debito estero e perdita di competitività in Argentina, eccesso di debito estero a breve e deficit fiscale insostenibile in Turchia, eccesso di debito estero a breve, insolvenza bancarie e collasso del sistema politico in Indonesia. Rispetto alla crisi finanziaria del 1997 i rischi di contagio sembrano tuttavia più contenuti, a riflesso di un minor indebitamento verso l’estero, di bilanci pubblici sostanzialmente in ordine e dell’adozione di un sistema di cambi flessibili. Le previsioni di crescita per il 2001-02 sono tuttavia condizionate dal rallentamento nelle diverse economie industriali, che avrà conseguenze differenziate nelle principali regioni emergenti a seconda dell’intensità relativa delle interdipendenze dei flussi commerciali. L’Europa Centro-orientale non sembra ad oggi aver risentito troppo delle tensioni finanziarie sui mercati emergenti, anche se lo zloty polacco si è sensibilmente svalutato, del 6,9% da giugno ad agosto rispetto al dollaro. 39 LA CRISI ARGENTINA I pericoli di una crisi finanziaria in Argentina, analizzati nel Rapporto dello scorso giugno, si sono accresciuti nel corso dei mesi estivi. Il rischio paese implicito nei tassi di interesse, misurato dall’indice Embi+, si è portato dai 990 punti base di inizio giugno agli oltre 1600 attuali, dopo aver toccato i 1700 nel mese di luglio, ponendo l’Argentina in cima alla lista dei paesi maggiormente a rischio di default sul debito. In seguito all’intervento del Fmi, che alla fine di agosto ha promesso un ulteriore prestito di 8 miliardi di dollari (di cui 3 legati a una ristrutturazione del debito su scadenze più lunghe), dopo il finanziamento per complessivi 40 miliardi concesso lo scorso dicembre, le tensioni erano leggermente calate all’inizio di settembre. Le conseguenze degli attentati negli Stati Uniti e i timori di una riduzione dei flussi di capitale diretti ai paesi emergenti hanno determinato un nuovo rialzo del premio al rischio. A partire da giugno il governo ha adottato misure di emergenza per fronteggiare la perdurante debolezza dell’economia – il paese è in recessione da tre anni – e per limitare il ricorso al finanziamento esterno. Dal 18 giugno scorso, per le sole transazioni commerciali, il peso non è più legato con una parità di uno a uno al solo dollaro ma a un paniere composto in modo paritetico da dollaro ed euro; per le transazioni finanziare rimane invece invariata la parità con il dollaro. L’adozione di un sistema di cambio duale ha l’obiettivo di rendere più competitivi i prodotti argentini sui mercati internazionali (il legame con il paniere ha comportato una svalutazione del peso fra il 5 e l’8% nei confronti della divisa americana), mantenendo nel contempo invariato il valore in dollari delle attività argentine in mano agli investitori internazionali. Il guadagno di competitività è stato però in gran parte annullato dalla riduzione dal 12 al 4% dei rimborsi all’export e dal 35 al 27% della tariffa massima sulle importazioni extra Mercosur, oltre che dalla continua svalutazione del real brasiliano. La modifica del regime di convertibilità è stata accolta con preoccupazione dai mercati finanziari che temono che essa costituisca il preludio a un definitivo abbandono del currency board. Le preoccupazioni sono aumentate in seguito all’annuncio del peggioramento del deficit pubblico argentino, che nei primi sei mesi dell’anno, ha già pressoché eguagliato l’obiettivo per il 2001 originariamente concordato con il Fmi, in conseguenza della debolezza delle entrate e dell’aumento della spesa per interessi. Il governo ha reagito con misure draconiane: il decreto sul “deficit zero”, approvato in luglio dal Congresso, ha imposto alle amministrazioni centrali e locali di pareggiare immediatamente entrate e uscite, in modo da evitare il ricorso al mercato a tassi di interesse penalizzanti. Gli stipendi pubblici e le pensioni sono state ridotte del 13% in termini nominali: tagli ulteriori potranno aver luogo nei prossimi mesi se non verranno ridotte altre voci di spesa. In questo modo il governo prevede una riduzione della spesa primaria di oltre 3 miliardi di dollari nel prosieguo dell’anno e di oltre 6 il prossimo. In agosto è stato in effetti raggiunto il pareggio nel bilancio del settore pubblico. Naturalmente si tratta di misure altamente impopolari e di difficile realizzazione, soprattutto in vista delle prossime elezioni parlamentari di ottobre. Il decreto del “deficit zero”, insieme al recente intervento di sostegno del Fondo monetario, dovrebbe consentire al governo argentino di non ricorrere all’emissione di nuovi titoli, per un ammontare originariamente previsto in circa 4 miliardi di dollari, di qui alla fine dell’anno. La scommessa delle autorità è di riuscire a ripristinare la fiducia degli investitori internazionali e interni, abbassando il premio al rischio sui tassi di interesse ed arginando la fuga di capitali (da giugno ad agosto si è registrato un calo di oltre il 10% dei depositi bancari): solo a questa condizione è possibile evitare la combinazione default sui titoli pubblici e svalutazione del peso, che avrebbe ulteriori pesanti conseguenze sul reddito delle famiglie e i profitti delle imprese. 40 Le stime per la crescita del Pil nel 2001 erano fino ad oggi condizionate favorevolmente dalle prospettive macroeconomiche dell’Unione europea, e l’area del Centro Europa sembrava ben posizionata per consolidare i buoni risultati del 2000. Tuttavia, il deterioramento del ciclo nell’area dell’euro inducono a rivedere al ribasso le previsioni. Se si considera che Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia esportano verso la Ue rispettivamente il 37, il 27 ed il 15% del loro prodotto interno, si comprende come il rallentamento dell’area dell’euro condizioni queste economie. L’inflazione è scesa al 5,2% in Polonia, mentre si mantiene attorno al 9% in Ungheria (5,5% nella Repubblica Ceca). In Russia il Pil è cresciuto del 5,4% nel primo semestre del 2001 (7,7% in media nel 2000). Nei mesi estivi l’attività produttiva ha subito un forte calo (la variazione congiunturale della produzione industriale è stata pari al -3,2% a giugno e a +0,8% a luglio) a riflesso di una domanda sia interna che estera più debole. Su questo risultato influiscono le misure di austerità fiscale che hanno accompagnano la recente riforma del sistema di tassazione, gli effetti ritardati sulla bilancia commerciale dell’apprezzamento nominale e reale del rublo (6% da inizio anno) e della riduzione dei prezzi dei prodotti energetici di cui la Russia è esportatore netto. Numerose economie emergenti dell’Asia hanno mostrato di recente segnali di peggioramento delle prospettive congiunturali. Le valute dell’Asia orientale si sono deprezzate dall’inizio dell’anno di circa il 25-30% rispetto al dollaro, e del 15% rispetto all’euro. La contrazione dei mercati azionari è stata particolarmente forte ad Hong Kong e in Tailandia (-25%) a Singapore e nelle Filippine (-15%). In India l’indice di borsa è sceso da inizio 2001 del 17%. La crisi delle economie del Sud Est asiatico continua ad essere influenzata dal protrarsi della flessione della domanda (fig. 9) e dell’attività produttiva di Stati Uniti e Giappone: questi due paesi rappresentano quasi il 40% del commercio totale delle economie Nics e Asean (le sole Filippine scambiano il 53% dei propri beni con Stati Uniti e Giappone). Tra i Nics il Pil di Singapore si è contratto nel primo semestre dell’anno del 2,8% rispetto al secondo semestre del 2000, entrando così in una fase di recessione molto più forte di quella sperimentata nel 1998. Il Pil di Taiwan è caduto del 2,1% nella prima metà del 2001 rispetto al secondo semestre del 2000, mentre quello della Corea del sud è cresciuto del 2,3% nello stesso periodo. Alla luce di queste statistiche le nostre previsioni per il 2001 sono state riviste al ribasso di oltre un punto percentuale per i Nics: il tasso di espansione di questi paesi non supererà quest’anno il 2% (3,5% la previsione di giugno) valore che corrisponde ad un quarto del tasso di crescita raggiunto nel 2000 (tab. 3). 41 Tab. 3 : Crescita del Pil nelle economie emergenti (variazioni % tendenziali) ________________________________________________________________________ 2000 1° trim. 2001 2° trim. 2001 ________________________________________________________________________ Cina 7,9 8,1 7,8 Hong Kong 10,5 2,5 0,5 India 6,1 3,8 3,8 Indonesia 5,2 4,0 3,5 Malaysia 8,3 3,2 0,5 Filippine 4,0 2,5 3,3 Singapore 9,9 4,7 -0,9 Corea del Sud 8,8 3,7 2,7 Taiwan 6,0 1,1 -2,4 Tailandia 4,4 1,8 Argentina Brasile Messico -0,6 4,4 6,9 -2,1 3,8 1,9 -0,5 0,8 0,0 Turchia 7,1 -1,8 -9,3 Repubblica Ceca 3,0 3,7 Ungheria 3,9 4,4 4,0 Polonia 4,0 2,3 Russia 8,3 4,9 _______________________________________________________________________ Fonte: Oef. Prosegue invece, secondo le statistiche ufficiali, il ritmo della crescita cinese (7,8% nel secondo trimestre del 2001) in assenza di inflazione, ma dati ufficiosi sull’accumulazione di non-performing loans nel sistema bancario (stimati a 400 miliardi di dollari, il 40% del Pil) lasciano intravedere un panorama meno ottimistico. L’attenzione degli analisti dell’America latina è focalizzata sul caso Argentina (cfr. riquadro: La crisi argentina), ma la debolezza della congiuntura Usa ha anche notevolmente compromesso le prospettive di crescita nel 2001 del Messico e del Brasile. Il Messico è in recessione: a partire dal quarto trimestre del 2000 il Pil ha subito tre variazioni negative consecutive; nei primi sei mesi del 2001 la caduta del Pil è stata pari all’1% rispetto al secondo semestre 2000. In Brasile, oltre al rallentamento globale, incide negativamente sulla crescita il problema delle carenze nel potenziale di forniture elettriche e l’orientamento restrittivo della politica monetaria (da inizio anno il tasso overnight è aumentato di circa 5 punti, al 20%), volta a contrastare la svalutazione del real (36,9% da inizio anno). Permane, in America latina più che altrove, un rischio di contagio finanziario dall’Argentina: il premio di rischio sui titoli del debito pubblico nelle due principali economie si è mosso finora in modo differente in Brasile (dove ha raggiunto i 12 punti rispetto agli equivalenti titoli Usa) ed in Messico (dove è rimasto attorno a 5 punti). Questo indica che gli investitori stanno tuttora 42 adottando strategie differenziate per paese, e al tempo stesso che i fondamentali dei due paesi sono chiaramente diversi (il debito estero brasiliano è pari a tre volte il suo export, mentre quello messicano è pari al 93% delle esportazioni). Fig. 9 STATI UNITI: IMPORTAZIONI DAI NICS (Variazioni %) 30 20 Hong Kong Taiwan Singapore 10 0 -10 -20 1997 1998 Fonte: Thomson Financial. 1999 2000 2001 43 LE DISPUTE COMMERCIALI USA-UE E LE PROSPETTIVE DI RIPRESA DEL MILLENIUM ROUND Le tensioni commerciali tra Europa e Stati Uniti si erano intensificate a pochi mesi dall’appuntamento della Conferenza ministeriale del Wto in novembre a Doha (Qatar), che dovrebbe rilanciare il Millenium Round arenatosi a Seattle nel 1999. Le dichiarazioni del rappresentante Usa per le trattative commerciali, Robert Zoellick, appena insediato, erano state improntate al rilancio del nuovo Round di negoziati, anche erano emerse alcune differenze di prospettiva con l’Unione europea. In particolare, gli Stati Uniti vogliono condizionare l’avvio ufficiale del negoziato all’adozione da parte dei paesi in via di sviluppo di alcune misure di liberalizzazione nell’ambito degli investimenti diretti (le cosiddette Trim’s) già decise nell’Uruguay Round, mentre la posizione dell’Unione europea è quella di rinegoziare tali misure nell’ambito del nuovo Round. Tuttavia, sia Zoellick sia il Commissario europeo Lamy avevano annunciato la volontà comune di cooperare per la riuscita della Conferenza di Doha. La recente sentenza del Wto, che boccia nuovamente il regime fiscale statunitense che concede riduzioni d’imposta agli esportatori, dopo la analoga decisione negativa del panel Wto del gennaio 2000, rischia invece di innescare un conflitto tra Usa e Ue sulle legislazioni di sostegno fiscale all’export. Nel 1998 l’Unione europea aveva sottoposto al giudizio del Wto la questione delle cosiddette Fsc (Foreign Sales Corporations), ovvero di società americane costituite all’estero (soprattutto nelle Isole Vergini ed alle Barbados) dagli esportatori Usa per usufruire di riduzioni d’imposta comprese tra il 15 ed il 30% del reddito netto. Le riduzioni fiscali per gli esportatori attraverso il meccanismo delle Fsc furono introdotte nella legislazione fiscale americana con il Tax Reform Act del 1984; da allora oltre 7.000 imprese esportatrici hanno costituito una Fsc, per un risparmio fiscale complessivo di circa 2,5 miliardi di dollari (tra i principali beneficiari, Microsoft, Ford, ed Exxon). La prima sentenza di condanna del Wto (gennaio 2000) si fondava su un’interpretazione del regime fiscale statunitense come di un sussidio occulto agli esportatori americani. A seguito di quella sentenza, il Congresso americano aveva trasformato la legislazione decretando che dal 30 settembre 2000 non si potessero più costituire nuove Fsc; tuttavia, aveva esteso la possibilità per le imprese di escludere dalla base imponibile una parte (il 15% appunto) dei loro profitti da esportazioni senza bisogno di ricorrere alle Fsc: in sostanza, pur decretando la fine delle Fsc, il sussidio fiscale all’export veniva ribadito. La nuova sentenza del Wto rigetta anche la modifica legislativa; a questo punto, l’Unione europea avrebbe titolo per imporre dazi punitivi contro gli Usa per 4 miliardi dollari (ovvero, dieci volte i dazi richiesti nelle dispute sulla carne agli ormoni o sulle banane). Le reazioni americane sono state molto negative, e mentre da un lato l’Amministrazione intende verificare la possibilità di modificare nuovamente la legislazione per adeguarla alle richieste del Wto, alcuni esponenti del Congresso sembrano intenzionati a mettere sotto inchiesta le normative fiscali europee. Il contrasto sulle Fsc ha acuito le tensioni commerciali già esistenti fra Usa e Ue, con riguardo ai sussidi all’agricoltura e gli organismi modificati geneticamente, su cui le posizioni rimangono distanti. Si è invece risolta la questione dell’importazione delle banane dai paesi caraibici da parte della Ue. In questo contesto, la decisione del Presidente Bush di aprire un’inchiesta federale sulle importazioni di acciaio negli Stati Uniti, secondo quanto previsto dalla “Sezione 201” del Trade Act del 1974, rischia di innalzare ulteriormente la tensione commerciale Usa-Ue. Il capitolo dell’acciaio è infatti tra i più spinosi del contenzioso commerciale, e la mossa statunitense rischia di innescare una reazione a catena nell’Unione europea e nei principali paesi produttori dell’Asia Orientale (Giappone, Corea e Taiwan). 44 Inoltre, essa potrebbe complicare il clima già difficile dei negoziati conclusivi per l’allargamento ad Est della Ue, dal momento che il comparto siderurgico europeo è tra quelli che si ritengono più minacciati dall’ingresso dei produttori dell’Europa CentroOrientale, che beneficiano di consistenti aiuti di stato e la cui capacità produttiva si aggiungerà ad uno stock di impianti in eccesso rispetto alle esigenze della domanda mondiale. L’iniziativa di Bush di avviare un’inchiesta ex-articolo 201 del Trade Act non giunge del tutto inattesa. Si pensi che circa un terzo di tutte le misure anti-dumping richieste negli Usa tra il 1980 ed il 1995 sono da attribuire al settore siderurgico: ad oggi, ben 159 azioni promosse dall’industria siderurgica sono risultate in misure anti-dumping o in “countervailing duties”. L’industria statunitense ha da tempo avanzato nuove richieste di protezione, anche a fronte di un’altra sentenza controversa del Wto (il caso “Uk Bar”) che ha sostanzialmente decretato che i sussidi ottenuti dalle imprese produttrici non sono più sanzionabili una volta che le imprese siano state privatizzate, con la conseguenza che le imprese pubbliche cinesi o dell’Europa Orientale che sono state sovvenzionate non possono più essere soggette a procedure di infrazione in ambito Wto una volta che siano state privatizzate. A fronte delle richieste degli industriali siderurgici Usa, un gruppo bipartisan del Congresso ha elaborato quest’anno lo Steel Revitalization Act che, se approvato, condurrebbe al risultato di limitare le importazioni Usa di acciaio grezzo nei prossimi cinque anni al livello medio mensile del periodo luglio 1994-giugno 1997, ovvero il livello precedente l’aumento di importazioni connesso con la crisi asiatica del 1997-98. Si tratta, com’è ovvio, di un provvedimento in palese violazione del Trattato Wto, come rimarcato dalla stessa Amministrazione Bush. L’avvio di un’inchiesta ex-articolo 201 da parte dell’Amministrazione Bush si può quindi interpretare come un tentativo di sottrarre al Congresso l’iniziativa in questo campo, ed al tempo stesso di ottenere il sostegno della lobby dell’acciaio per sostenere la richiesta di Bush di ricevere la cosiddetta “trade promotion authority” (un tempo denominata “fast track authority”) che consente al Presidente di negoziare in ambito Wto senza chiedere l’approvazione successiva del Parlamento sui singoli aspetti del negoziato, ma solo sull’eventuale Trattato finale nel suo complesso. La procedura ex-articolo 201 richiede che una commissione federale (la Us International Trade Commission) valuti se le importazioni di acciaio “danneggino o minaccino di danneggiare” l’industria statunitense, nel qual caso l’Amministrazione ha il potere di intervenire. Sotto alcune condizioni, le clausole di salvaguardia negoziate con l’Uruguay Round consentono di imporre alcune barriere (ad esempio, quote all’import) che devono col tempo essere smantellate; tali clausole impongono tuttavia anche di pagare un indennizzo ai paesi esportatori per i primi tre anni di validità delle misure protezionistiche. Alcune stime conducono tuttavia a ritenere che i costi diretti per il bilancio Usa di tali misure sarebbero molto elevati (circa 3,5 miliardi di dollari all’anno), Inoltre un intervento in tale direzione peggiorerebbe notevolmente lo stato dei negoziati Wto in vista di Doha. In quella sede, infatti, occorrerà mettere mano anche al complesso dossier dell’ingresso simultaneo della Cina e di Taiwan nel Wto. Nel caso dell’acciaio, ma non solo, si assiste inoltre alla tendenza da parte del Congresso Usa e della Commissione Europea di inserire nelle trattative Wto alcuni temi collaterali quali il rispetto dell’ambiente e gli standard salariali minimi, che possono sovraccaricare il negoziato e renderlo di difficile soluzione, creando tensioni con i paesi in via di sviluppo. Una iniziativa di Bush per risolvere la questione siderurgica statunitense senza imporre barriere commerciali, e al contempo per promuovere regole condivise ed eque sul commercio internazionale (ad esempio, superando i principi della sentenza “Uk Bar”), potrebbe invece favorire un clima costruttivo a Doha. 45 2.6 Tassi di interesse, cambi e borse Sui mercati valutari i primi sei mesi dell’anno sono stati contraddistinti dalla perdurante forza del dollaro nei confronti dell’euro e, in misura inferiore, dello yen. La moneta europea si è indebolita rispetto alle altre principali valute; tra fine maggio e inizio giugno, con il diffondersi di dati negativi sull’andamento della produzione industriale nell’area dell’euro, in particolare in Germania, l’euro è scivolato vicino ai minimi rispetto al dollaro, attorno agli 85 centesimi di dollaro e a quota 103,6 sullo yen, in calo rispettivamente del 9,4 e del 3,2% da inizio anno e del 5,6 e del 7% nei dodici mesi. Ancora nella prima metà di quest’anno la moneta americana ha continuato a trarre forza dalla convinzione dei mercati che nel medio periodo l’economia degli Stati Uniti, sospinta da una maggiore crescita della produttività grazie ai cospicui investimenti attuati nel decennio precedente, avrebbe continuato ad espandersi a ritmi più sostenuti rispetto agli altri principali paesi. Il fatto che il dollaro sia rimasto forte nonostante la comparsa già a inizio anno di segnali di un brusco ridimensionamento dell’attività produttiva americana indica che a giudizio dei mercati si trattava solo di una temporanea interruzione. E’ prevalsa in sostanza la tesi secondo cui il rallentamento dell’economia sarebbe stato di breve periodo; questo spiega come mai, malgrado il notevole restringimento (e in seguito inversione) dei differenziali sui tassi di interesse a breve termine tra l’euro e il dollaro (fig. 10), la moneta americana abbia continuato ad apprezzarsi. Proprio perché, assumendo che l’inflazione sia sotto controllo, la riduzione dei tassi ufficiali (e quindi il restringimento del differenziale con l’area dell’euro) segnalava un miglioramento delle prospettive di crescita. Nel terzo trimestre dell’anno una nuova batteria di indicatori è sopraggiunta a segnalare che il recupero dell’attività produttiva sarebbe stato meno rapido e soprattutto assai più graduale rispetto a quanto inizialmente ipotizzato; il dollaro ha iniziato a deprezzarsi, oscillando attorno ai 90 centesimi di dollaro per euro, pur con notevole volatilità legata al fluire dei dati sull’economia americana. Il cambio dello yen, che nel corso dei primi dieci mesi del 2000 aveva oscillato attorno a quota 105 rispetto al dollaro, a partire da ottobre si è progressivamente deprezzato, stabilizzandosi attorno ai 120 yen per dollaro nei primi otto mesi di quest’anno (-14% rispetto a ottobre 2000). Il deprezzamento è stato favorito dalla Banca Centrale giapponese per sostenere le esportazioni. Nello stesso periodo lo yen si è deprezzato in misura ben superiore nei confronti dell’euro. La moneta giapponese è scivolata dai 92 yen per euro di fine ottobre ai 111 yen di inizio 2001 (-20%), 46 Fig. 10 CAMBIO EURO-DOLLARO E DIFFERENZIALE SUI TASSI 1.3 2.0 1.0 1.2 0.0 1.1 -1.0 1.0 -2.0 0.9 -3.0 Dollaro-euro Differenziale tassi a breve (scala destra) 0.8 1997 1998 Fonte: Thomson Financial. 1999 2000 2001 -4.0 per rimbalzare a quota 103 yen per euro nei mesi successivi (-12% da ottobre). L’attacco terroristico dell’11 settembre ha rafforzato la tendenza al deprezzamento (contenuto) della moneta americana; nel giudizio dei mercati infatti l’effetto immediato dell’attacco è di azzerare le prospettive di crescita dell’economia americana nel breve periodo. Nei dieci giorni successivi all’attacco, il dollaro si è di conseguenza deprezzato nei confronti dell’euro, scendendo oltre i 92,5 centesimi, non lontano dai livelli di inizio anno, e in calo del 10% dai livelli di metà anno. Il dollaro si è indebolito anche nei confronti dello yen; la moneta giapponese è risalita a quota 117 yen per dollaro, in aumento di oltre il 7% rispetto ai livelli di metà anno. Sin qui, il calo del dollaro intervenuto nei giorni successivi ai fatti dell’11 settembre è risultato abbastanza modesto, sicuramente inferiore rispetto ai forti timori di una fuga degli operatori dalla moneta americana che avrebbe avuto, sommandosi allo shock dell’attacco terroristico, conseguenze potenzialmente dirompenti sui mercati finanziari. La possibilità di un consistente deprezzamento del dollaro è da almeno un paio di anni un rischio concreto che grava non solo sui mercati finanziari ma in generale sulle prospettive di crescita dell’economia mondiale: esso è legato alla questione della sostenibilità di un cambio troppo sopravvalutato se si fa, in particolare, riferimento al disavanzo corrente degli Stati Uniti (che negli 47 ultimi cinque anni è aumentato, in rapporto al Pil, dall’1,1 al 4,5%). Di fronte a uno shock come quello dello scorso 11 settembre, che ha – almeno nel breve termine - l’effetto di indebolire i flussi di capitale cross border che hanno sostenuto nel recente passato la moneta americana, diventa assai probabile un aumento del grado di avversione al rischio degli operatori; questo si traduce in una tendenza al ritorno dei capitali nei paesi di origine e in una maggiore attenzione ai fondamentali dell’economia, a partire dagli squilibri commerciali. Questo probabilmente contribuisce a spiegare i movimenti intervenuti sui mercati valutari negli ultimi giorni (in particolare l’apprezzamento del franco svizzero su tutte le principali valute, a riflesso di un avanzo delle partite correnti del 12% in rapporto al Pil che ne accentua il ruolo di moneta rifugio); spiega poco invece il contenuto deprezzamento del dollaro nei confronti dello yen e dell'euro, che hanno alle spalle paesi con partite correnti in considerevole avanzo o in pareggio. Diversi fattori possono contribuire a spiegare il contenuto deprezzamento della moneta americana successivo all’attacco terroristico. In primo luogo il fatto che nel breve termine le prospettive di crescita delle altre due principali economie sono anch’esse alquanto modeste, anche se – limitatamente all’area dell’euro - superiori a quelle degli Stati Uniti; in secondo luogo il fatto che la pronta e diffusa riduzione dei tassi di interesse operata dalle banche centrali, insieme alla massiccia immissione di liquidità sui mercati, ha avuto l’effetto sperato di contrastare il diffondersi dell’avversione al rischio nei confronti della moneta americana, mostrando la comune determinazione delle banche centrali a sostegno del dollaro. In terzo luogo il fatto, collegato a quello precedente, che nei giorni immediatamente successivi all’attacco terroristico le principali banche centrali hanno esercitato una costante opera di “moral suasion” sugli operatori proprio al fine di prevenire un brusco deprezzamento della moneta americana. Anche i ripetuti interventi sui mercati valutari della Banca del Giappone, volti a contrastare l’apprezzamento dello yen nei confronti del dollaro, hanno probabilmente giocato un loro ruolo, se non altro nel senso di limitare la volatilità delle quotazioni. Sui mercati di borsa, prima dell’attacco terroristico dell’11 settembre, gli indici delle principali piazze finanziarie, salvo temporanei inversioni di tendenza, erano risultati in costante calo; rispetto ai livelli di inizio anno, la flessione era di circa il 25% nell’area dell’euro e in Giappone, del 18% nel Regno Unito e negli Stati Uniti. In entrambe le aree la flessione delle quotazioni di borsa rifletteva il perdurare della fase di stagnazione del ciclo economico e la prospettiva di utili modesti o in calo. 48 Fig. 11 INDICI DI BORSA: TITOLI TECNOLOGICI (Indici: 1 gennaio 1997=100) 700.0 600.0 500.0 Stati Uniti Area dell'euro Giappone 400.0 300.0 200.0 100.0 0.0 1997 1998 Fonte: Thomson Financial. 1999 2000 2001 In tutti i paesi – in particolare nell’area dell’euro - la flessione ha riguardato principalmente i titoli tecnologici (fig. 11); escludendo i titoli di questo settore tutti gli indici evidenziano una performance ancora negativa ma più contenuta; la performance negativa si riduce ulteriormente sino ad annullarsi negli Stati Uniti se il confronto viene effettuato a partire dal gennaio dell’anno 2000 (fig. 12). In Giappone, dove la flessione dell’indice complessivo di borsa era risultata da inizio anno particolarmente significativa, le quotazioni sono influenzate negativamente anche dalla crisi del sistema bancario e dalla prosecuzione del processo deflativo. Malgrado il crollo delle quotazioni intervenuto dal picco storico dello scorso anno, negli Stati Uniti l’indice Standard&Poor restava ben al di sopra dei livelli di metà anni novanta (tra la metà del 1995 e la metà del 1999 l’indice di borsa è cresciuto in media d’anno del 30%); il rapporto prezzo utili inoltre, seppure sceso in misura significativa nel corso dell’ultimo anno, rimaneva su livelli storicamente elevati. L’attacco terroristico dell’11 settembre ha inevitabilmente prodotto una nuova ondata di vendite che ha guidato al ribasso gli indici di tutte le borse mondiali; a determinare il calo delle quotazioni è stato il panico che ha fatto seguito allo shock dell’attacco e il timore di una contrazione della crescita a livello mondiale. La rete di protezione predisposta dalle Autorità monetarie dei principali paesi, la chiusura straordinaria per quattro giorni della borsa di New York e il via libero concesso a numerose società di procedere al 49 riacquisto di azioni proprie, hanno evitato un tracollo iniziale delle quotazioni di borsa, che avrebbe potuto determinare un avvitamento della crisi a livello mondiale. Nella giornata di riapertura della borsa, l’indice Standard&Poor ha perso immediatamente oltre il 5% (il 7% il Dow Jones e il 6,8 % il Nasdaq); la flessione delle quotazioni è proseguita senza interruzioni nei giorni successivi, accentuandosi dopo l’annuncio da parte degli Stati Uniti di un imminente avvio delle operazioni militari. Complessivamente nei 9 giorni successivi all’attacco la borsa americana ha perso quasi il 10% (indice Standard&Poor). Le flessioni più pronunciate non si sono tuttavia registrate negli Stati Uniti ma in diversi paesi asiatici (tra il 12 e il 15%) e nei principali paesi europei (attorno al 13%), in Italia (-16%) in particolare. In tutti i paesi le vendite sono state molto selettive; i titoli più penalizzati sono stati quelli delle compagnie aeree, che hanno accusato consistenti ribassi in tutte le piazze finanziarie, fino a superare il 30% a Wall Street nei primi tre giorni di contrattazione successivi all’attacco terroristico. Fig. 12 INDICI DI BORSA (ESCLUSI I TITOLI TECNOLOGICI) (Indici: 1 gennaio 2000=100) 120.0 110.0 100.0 90.0 80.0 70.0 Stati Uniti Area dell'euro Giappone 60.0 G F M A M G L A S O N D G F M A M G L A S 2000 2001 Fonte: Thomson Financial. 50 3. L’economia dell’area dell’euro e dell’Italia 3.1 L’attività produttiva La crescita nell’area dell’euro. Nei mesi centrali del 2001 la crescita nell’area dell’euro ha risentito, in misura superiore alle attese, del rallentamento della domanda mondiale e dell’incertezza sulle prospettive di ripresa. L’incertezza è destinata ad accentuarsi nella parte finale dell’anno a seguito degli attentati terroristici che hanno colpito gli Stati Uniti l’11 settembre. Nel secondo trimestre, secondo i dati di Eurostat, il Pil dell’area dell’euro è aumentato dello 0,1%, in forte decelerazione rispetto allo 0,5% registrato nei primi tre mesi dell’anno (tab. 4). Sulla base dei dati di Eurostat per il complesso del primo semestre, emerge che l’andamento ancora favorevole dei consumi delle famiglie (+1,1%) è stato controbilanciato dall’indebolimento degli investimenti (-0,4%) e da un accentuato processo di decumulo delle scorte (-0,4% il contributo alla crescita del Pil nel primo semestre). Il marcato rallentamento dell’economia mondiale e la conseguente situazione di incertezza sulle prospettive della domanda estera hanno quindi indotto le imprese europee a rivedere i piani di investimento e a ridurre i propri magazzini, pur in presenza di un andamento dei consumi ancora soddisfacente nella prima parte dell’anno. Tab. 4 - Crescita del Pil e delle sue componenti nell’area dell’euro Variabili Pil a prezzi costanti Consumi delle famiglie Consumi collettivi Investimenti fissi lordi Esportazioni Importazioni Contributi alla crescita Consumi delle famiglie Consumi collettivi Investimenti fissi lordi Variazione delle scorte Esportazioni nette 1999 2000 2,6 3,2 2,1 5,5 5,1 7,0 3,4 2,6 1,9 4,4 11,9 10,7 1,8 0,4 1,2 -0,2 -0,5 1,5 0,4 1,0 0,0 0,6 I 1,0 1,2 0,8 1,9 1,1 2,2 1999 II III 0,5 1,1 0,1 1,0 0,2 0,6 1,5 1,7 2,8 2,9 2,0 2,5 0,7 0,0 0,6 0,2 0,0 0,1 0,4 0,3 0,4 0,0 -0,2 -0,1 -0,3 0,3 0,2 IV 1,0 0,8 0,7 0,7 3,1 3,0 I 1,0 0,7 0,5 1,5 2,9 2,4 2000 II III 0,8 0,5 0,8 0,2 0,4 0,2 0,9 1,0 2,4 3,1 2,8 2,4 0,5 0,4 0,4 0,1 0,1 0,1 0,1 0,3 0,2 0,1 -0,1 0,2 0,1 0,2 -0,1 0,1 0,0 0,2 -0,1 0,3 IV 0,6 0,1 0,6 -0,1 2,6 2,3 0,1 0,1 0,0 0,3 0,1 2001 I II 0,5 0,1 0,8 0,6 0,6 0,1 0,1 -0,8 0,3 -1,2 -1,1 -0,6 0,4 0,1 0,0 -0,6 0,5 0,3 0,0 -0,2 0,1 -0,3 Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat. Nel complesso dell’area dell’euro, l’andamento dei consumi delle famiglie nei mesi primaverili è stato favorevole (+0,6% nel secondo trimestre, in lieve rallentamento rispetto al +0,8% dei primi tre mesi dell’anno). Le vendite al dettaglio sono aumentate in termini reali dello 0,2% rispetto ai tre mesi precedenti e le immatricolazioni di nuove autovetture sono aumentate dell’1,2% rispetto ad un anno prima (nel primo trimestre erano diminuite del 5,6%). Il buon andamento delle immatricolazioni è proseguito nei mesi di luglio e agosto (rispettivamente +3,8% e +1,8% rispetto allo stesso mese del 2000): complessivamente nei primi otto mesi dell’anno le vendite di autoveicoli nell’area dell’euro hanno superato i buoni risultati ottenuti nel 51 2000 (+1,5%), soprattutto in Francia (+6,1%) e Spagna (+2,7%). Per quanto riguarda gli investimenti, i dati di Eurostat evidenziano invece un rallentamento della spesa, per effetto dell’incertezza che caratterizza il quadro congiunturale internazionale e l’esistenza in alcuni paesi di eccessi di capacità produttiva. La crescita in Germania. Tra i paesi di cui si dispone dei dati del secondo trimestre, il rallentamento è stato particolarmente accentuato in Germania, Belgio e Italia. Per quanto concerne la Germania, in occasione del rilascio dei dati relativi al secondo trimestre l’Ufficio statistico federale ha sensibilmente rivisto le stime relative all’andamento della domanda interna nei trimestri precedenti: nel primo trimestre è stato confermato l’aumento del Pil dello 0,4%, ma la crescita non è più interamente attribuibile al forte calo delle importazioni (-4%, tab. 5). I nuovi dati evidenziano in particolare che, contrariamente a quanto precedentemente stimato, i consumi delle famiglie sono cresciuti a un ritmo sostenuto (+1 rispetto al +0,1% precedente). L’economia tedesca ha perciò sperimentato a cavallo tra il 2000 e il 2001 un “classico” ciclo delle scorte: alla fine dello scorso anno, il ristagno di consumi e investimenti (-0,4 e -1% rispettivamente) e la contemporanea forte crescita dell’import (+5,1%) hanno condotto ad un accumulo indesiderato nei magazzini (+0,9% il contributo alla crescita). Di conseguenza nel primo trimestre di quest’anno si è avuta una forte contrazione delle scorte (-1,4% il contributo alla crescita del Pil). Tab. 5 - Crescita del Pil e delle sue componenti in Germania Variabili Pil a prezzi costanti Consumi delle famiglie Consumi collettivi Investimenti fissi lordi Esportazioni Importazioni Contributi alla crescita Consumi delle famiglie Consumi collettivi Investimenti fissi lordi Variazione delle scorte Esportazioni nette 1999 2000 1,7 3,0 1,6 3,7 5,2 8,1 3,2 1,6 1,2 2,9 13,9 10,6 I 1,1 2,1 0,8 2,8 1,3 3,2 1,7 0,3 0,8 -0,4 -0,7 0,9 0,2 0,6 0,3 1,1 1,2 0,2 0,6 -0,3 -0,5 1999 II III -0,2 1,2 -1,0 0,9 -0,6 0,9 0,8 2,0 3,9 3,0 2,9 2,2 -0,6 -0,1 0,2 0,0 0,3 0,5 0,2 0,4 -0,2 0,3 IV 0,8 0,7 0,6 -0,1 2,7 2,1 0,4 0,1 0,0 0,2 0,2 I 1,0 0,3 0,5 1,3 4,4 1,8 2000 II III 1,2 0,1 1,1 -0,3 -0,1 -0,4 0,3 1,0 2,4 3,4 3,2 2,8 0,2 0,6 0,1 0,0 0,3 0,1 -0,4 0,7 0,8 -0,2 -0,2 -0,1 0,2 -0,1 0,2 IV 0,2 -0,4 0,9 -1,0 3,4 5,1 2001 I II 0,4 0,0 1,0 0,9 1,1 -0,3 -1,1 -1,3 -0,2 0,7 -4,0 1,1 -0,3 0,6 0,5 0,2 0,2 -0,1 -0,2 -0,3 -0,3 0,9 -1,4 -0,1 -0,5 1,2 -0,1 Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat. Nel secondo trimestre, il Pil tedesco è risultato stazionario; i consumi hanno continuato a crescere ad un ritmo sostenuto (+0,9%), ma sono caduti gli investimenti (-1,3%), mentre le scorte hanno fornito un contributo leggermente negativo alla crescita (-0,1%). La diminuzione degli investimenti ha riguardato anche la spesa in macchinari e attrezzature (-2,7%, rispetto al +0,4% del primo trimestre) oltre che quella per le costruzioni (-0,7%), già diminuita del 2,4% dei primi tre mesi dell’anno. La domanda estera netta ha fornito un contributo moderatamente negativo alla 52 crescita (-0,1%): la dinamica dell’import (+1,1%) ha sopravanzato quella delle quantità esportate (+0,7%). La crescita in Francia. Il rallentamento dell’economia ha riguardato anche la Francia, anche se in misura più modesta rispetto alla media dell’area (+0,3%, rispetto al +0,4% del primo trimestre). Gli investimenti fissi lordi sono rimasti stazionari (+0,6% dei primi tre mesi dell’anno), mentre i consumi delle famiglie hanno fortemente decelerato (+0,3% dopo che nel primo trimestre erano cresciuti dell’1,2%); la domanda estera netta ha fornito un contributo negativo alla crescita (-0,2%, contro il +0,4% del primo trimestre), dato che la caduta delle esportazioni (-1,9%) è risultata maggiore di quella delle quantità importate (-1,3%). Il miglior andamento rispetto alla media dell’area è dovuto alla sostanziale tenuta degli investimenti che hanno rallentato in misura inferiore rispetto agli altri paesi (tab. 4 e 6 ). Tab. 6 - Crescita del Pil e delle sue componenti in Francia Variabili Pil a prezzi costanti Consumi delle famiglie Consumi collettivi Investimenti fissi lordi Esportazioni Importazioni Contributi alla crescita Consumi delle famiglie Consumi collettivi Investimenti fissi lordi Variazione delle scorte Esportazioni nette 1999 2000 3,0 3,2 2,0 6,2 3,9 4,2 3,4 2,7 2,3 6,2 13,4 15,2 1,7 0,5 1,2 -0,4 0,0 1,5 0,5 1,2 0,3 -0,1 I 0,9 0,4 1,0 2,2 1,1 0,1 1999 II III 0,8 0,9 0,9 1,2 0,4 0,4 1,7 0,7 2,4 3,6 2,0 2,0 0,2 0,5 0,6 0,2 0,1 0,1 0,4 0,3 0,1 -0,3 -0,3 -0,4 0,3 0,1 0,5 IV 1,1 0,9 0,8 1,2 1,0 3,1 I 0,7 0,5 0,4 1,8 4,3 5,0 0,5 0,3 0,2 0,1 0,2 0,4 0,7 0,1 -0,5 -0,1 2000 II III 0,7 0,8 0,4 0,8 0,7 0,6 2,1 1,2 4,7 2,2 4,2 3,8 0,2 0,2 0,4 -0,3 0,2 0,5 0,1 0,2 0,3 -0,4 IV 0,8 0,2 0,6 1,8 2,9 2,1 2001 I II 0,4 0,3 1,2 0,3 0,3 0,4 0,6 0,0 -0,1 -1,9 -1,7 -1,3 0,1 0,1 0,4 0,0 0,3 0,7 0,1 0,1 -0,9 0,4 0,2 0,1 0,0 0,2 -0,2 Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat. L’attività produttiva nell’area dell’euro. Nel corso del secondo trimestre è proseguito il rallentamento dell’attività industriale iniziato a partire da gennaio. Secondo i dati Eurostat nel secondo trimestre il valore aggiunto dell’industria nell’area dell’euro è diminuito dell’1,3%. In termini di produzione industriale, il calo è stato molto forte in Germania (-1,6%); solo la Francia (+0,2%), l’Olanda (+0,6%) e il Portogallo (1,3%) hanno visto crescere la produzione industriale nel secondo trimestre. Fino a settembre gli indicatori anticipatori del ciclo fornivano un quadro abbastanza incerto circa le prospettive per i prossimi mesi (fig. 13). In Francia la fiducia delle imprese non ha mostrato segni di miglioramento nel mese di giugno e sono fortemente peggiorati i giudizi sul livello degli ordini sia interni che esterni. L’andamento dell’attività industriale in Francia mostra quindi una fase ritardata di circa un trimestre rispetto a quella di Germania e Italia: dopo un secondo trimestre del 2001 sostanzialmente positivo, il rallentamento sembra destinato a manifestarsi nel terzo. In Germania la fiducia delle 53 Fig. 13 PRODUZIONE INDUSTRIALE E SONDAGGIO SULL'ANDAMENTO DEGLI ORDINI NELL'AREA DELL'EURO (Dati destagionalizzati) Saldi 10 1995=100 125 Ordini totali Ordini esteri Produzione industriale (scala destra) 120 0 115 -10 110 -20 -30 105 1997 1998 Fonte: Eurostat. 1999 2000 2001 100 imprese (indice Ifo), dopo il dato positivo di luglio, è tornata a scendere ad agosto; a luglio, la produzione industriale è scesa dell’1,6%, soprattutto a causa del calo dei macchinari e delle macchine per ufficio, dei beni intermedi e dei beni di consumo durevole (il dato è tuttavia distorto dal minor numero di giorni lavorativi presenti in alcune regioni tedesche nel mese di luglio). Dal lato dei servizi, i dati Eurostat mostrano un buon andamento anche nel secondo trimestre soprattutto per quanto riguarda i servizi finanziari (+0,9% rispetto al +0,7% del primo trimestre). Hanno continuato a crescere, anche se in decelerazione, i servizi legati al commercio, trasporto e comunicazioni (+0,3%, rispetto al +0,7% dei primi tre mesi dell’anno). La crescita in Italia. Dopo il buon andamento del periodo gennaio-marzo, dovuto essenzialmente ad un forte e in parte indesiderato accumulo di scorte, nel secondo trimestre il Pil dell’Italia è risultato stazionario (+2,1% tendenziale), anche a causa della presenza di 2 giorni lavorativi in meno rispetto al trimestre precedente (cfr. riquadro: L’influenza degli “effetti di calendario” sui conti trimestrali). La caduta del valore aggiunto industriale (-1,3% rispetto al precedente trimestre; -1,6% per l’industria in senso stretto e +0,2% le costruzioni) e di quello agricolo (-1,2%, influenzato dalle crisi della mucca pazza e dell’afta epizootica) è stata solo parzialmente compensata dal proseguire della 54 crescita nei servizi (+0,7%). Sulla base dei dati sulla produzione, a livello settoriale una flessione marcata si è registrata nella media del secondo trimestre per i mezzi di trasporto (-8%), il legno e la gomma-plastica (-3%), la carta, stampa e editoria (-2,6%); risultati positivi si sono avuti invece nel comparto estrattivo (+3,5%) e nella chimica (+1,5%). Sulla base dei dati del valore aggiunto, all’interno dei servizi, un andamento particolarmente positivo si è riscontrato nel commercio, alberghi, trasporti e comunicazioni (+0,9%) e nel credito e assicurazioni (+0,8), mentre più modesta è stata la crescita degli altri servizi (+0,4%). Sulla base dei risultati delle indagini Isae, tra i servizi alle imprese andamenti positivi si sono registrati per i comparti dell’ingegneria e progettazione e nella pubblicità; andamenti meno favorevoli si sono registrati per il settore della consulenza, mentre una contrazione dell’attività si registra nell’informatica e nel marketing. Tab. 7 - Crescita del Pil e delle sue componenti in Italia Variabili Pil a prezzi costanti Consumi delle famiglie Consumi collettivi Investimenti fissi lordi Esportazioni Importazioni Contributi alla crescita Consumi delle famiglie Consumi collettivi Investimenti fissi lordi Variazione delle scorte Esportazioni nette 1999 2000 1,6 2,3 1,6 4,6 0,0 5,1 2,9 2,9 1,7 6,1 10,2 8,3 I 0,4 0,8 0,3 1,9 -0,6 2,9 1,4 0,3 0,9 0,4 -1,3 1,7 0,3 1,2 -1,0 0,6 0,5 0,1 0,4 0,4 -0,9 1999 II III 0,8 0,7 -0,1 0,6 0,4 0,6 1,2 1,9 1,7 2,1 -0,5 -0,5 -0,1 0,1 0,2 -0,1 0,6 IV 0,9 0,6 0,6 2,2 4,0 5,5 0,4 0,4 0,1 0,1 0,4 0,4 -0,9 0,3 0,7 -0,3 I 0,9 1,2 0,5 1,6 -0,7 -0,3 2000 II III 0,5 0,4 0,9 0,3 0,1 0,3 1,3 0,9 2,9 7,2 5,4 1,3 0,7 0,5 0,1 0,0 0,3 0,3 -0,1 0,3 -0,1 -0,6 0,2 0,1 0,2 -1,7 1,7 IV 0,8 0,5 0,3 -0,1 1,4 0,0 0,3 0,1 0,0 0,1 0,4 2001 I II 0,8 0,0 0,0 0,6 0,0 0,1 0,8 -0,3 1,4 -1,3 1,5 -0,2 0,0 0,0 0,2 0,6 0,0 0,4 0,0 -0,1 0,1 -0,3 Fonte: Istat. La domanda interna. Dal lato della domanda, i consumi delle famiglie sono tornati a crescere nel secondo trimestre (+0,6%, tab. 7) dopo la sostanziale stazionarietà riscontrata nel periodo gennaio-marzo. Indicazioni positive sono venute in particolare dal lato dei beni durevoli e delle spese per l’abitazione. Secondo l’Anfia le immatricolazioni di nuove autovetture considerate al netto di fattori stagionali sono aumentate dello 0,5% nel secondo trimestre, recuperando completamente il calo registrato nel periodo gennaio-marzo (fig. 14); quanto alle abitazioni, le richieste di agevolazione fiscale per interventi di manutenzione straordinaria nella media del primo semestre di quest’anno sono ulteriormente cresciute del 9,5% rispetto ad un anno prima secondo i dati provvisori elaborati dall’Ance. Un qualche rallentamento negli ultimi mesi hanno mostrato invece le produzioni dei prodotti destinati all’edilizia. Le vendite al dettaglio hanno accelerato a giugno, aumentando del 2,9% rispetto ad un anno prima, la crescita più forte dall’autunno 1999. 55 Fig.14a IMMATRICOLAZIONI DI AUTOVETTURE IN ITALIA (Dati destagionalizzati, in migliaia) 240 220 200 180 160 140 120 1996 1997 1998 1999 2000 Fonte: Elaborazioni CSC su dati Anfia e Ministero dei trasporti e della navigazione 2001 Fig. 14b 125 PRODUZIONE INDUSTRIALE - PRODOTTI PER L'EDILIZIA (Dati destagionalizzati e perequati con medie mobili a 3 termini - 1995 =100) 120 115 110 105 100 95 90 1995 1996 1997 1998 Fonte: Elaborazioni Csc su dati Istat. 1999 2000 2001 Dovrebbe essere proseguita anche la crescita dei consumi di servizi, che nel 2000 erano risultati la componente più dinamica della spesa delle famiglie. Indicazioni favorevoli sono venute di recente dai gestori di telefonia cellulare, che nel secondo trimestre di quest’anno hanno segnalato ulteriori, forti incrementi del numero dei clienti, e dai dati sul trasporto autostradale sia per i trasporti pesanti che per i veicoli leggeri. 56 L’INFLUENZA DEGLI “EFFETTI DI CALENDARIO” SUI CONTI TRIMESTRALI Il numero di giorni effettivamente lavorati in un dato arco di tempo influenza l’andamento delle serie economiche: ad esempio, il valore aggiunto dell’industria e la produzione industriale, a parità di altri fattori, aumentano al crescere dei giorni lavorativi presenti nel mese o nel trimestre; i consumi delle famiglie o il valore aggiunto di taluni servizi (commercio all’ingrosso e al dettaglio, alberghi e ristoranti) sono influenzati dal numero di giorni specifici di una settimana presenti in un mese o in un trimestre (ad esempio, il numero di sabati e di domeniche) o dalla presenza in quel mese (o trimestre) di particolari festività (Natale, Pasqua). A livello annuale invece gli effetti di calendario si attenuano fortemente; eventuali differenze nel numero di giorni tra un anno e l’altro è probabile che vengano in gran parte “assorbite” nel corso dell’anno e abbiano un’influenza modesta sull’output complessivo. I giorni lavorativi medi di un dato mese o trimestre seguono in generale un dato pattern stagionale, ma è possibile che in un particolare mese o trimestre il numero di giorni lavorativi si discosti dall’andamento medio. Ad esempio, in Italia, il primo trimestre ha avuto nella media del periodo 1970-2001 62,81 giorni lavorati, il secondo 62,03, il terzo 65 e il quarto 62,78. Quindi, l’effetto della presenza di 0,78 giorni in meno nel secondo trimestre rispetto al primo è un pattern stagionale e come tale è catturato nella procedura di destagionalizzazione. Ciò che le tecniche di destagionalizzazione non riescono a isolare è l’effetto di un comportamento “anomalo” dei giorni lavorati in un dato trimestre: ad esempio, quest’anno nel primo trimestre ci sono stati 64 giorni lavorativi, 3 in più rispetto al quarto trimestre 2000, mentre in media i giorni lavorativi del primo trimestre dell’anno sono 62,81 e quelli del quarto 62,78. Ciò vuol dire che la differenza “stagionale” tra i due trimestri è soltanto di 0,03 giorni, mentre la differenza “effettiva” riscontratasi quest’anno è di 3 giorni. Dunque, quando quest’anno si confronta il livello del Pil del primo trimestre con quello del quarto dello scorso anno bisognerebbe tenere conto dell’effetto del dato “anomalo” nel numero dei giorni del primo trimestre. Tutti i principali paesi europei correggono l’andamento della produzione industriale per gli effetti di calendario. Lo stesso non avviene però per i dati di Contabilità nazionale trimestrale: alcuni paesi (Germania, Francia, Spagna, Olanda e Gran Bretagna) considerano esplicitamente gli “effetti di calendario”, altri (tra cui l’Italia e il Belgio) non ne tengono invece conto. La mancata considerazione degli effetti di calendario può condizionare l’analisi congiunturale a livello nazionale; inoltre, non favorisce la confrontabilità dei dati tra paesi, né l’analisi aggregata a livello europeo. Occorre infatti considerare che l’Eurostat stima il Pil dell’area dell’euro sulla base dei dati di Contabilità nazionale “ufficiali” dei vari paesi, che non sono computati in modo omogeneo per quanto riguarda il trattamento degli effetti di calendario. La considerazione (o la non considerazione) degli effetti di calendario può influenzare, ed anche in modo notevole, la stima dei dati di Contabilità nazionale. La Germania (ed in particolare la Statistisches Bundesamt Deutschland e la Bundesbank) fornisce i dati del Pil in entrambe le versioni, anche se quella “ufficiale” include la correzione per i giorni lavorati. Se guardiamo al primo semestre di quest’anno le due stime divergono in modo notevole: il Pil al lordo degli effetti di calendario è cresciuto dello 0,9% nel primo trimestre e diminuito dello 0,7% nel secondo. Al netto, il Pil tedesco è invece aumentato dello 0,4% nel primo 57 trimestre ed è rimasto stazionario nel secondo. L’Istat come detto al momento ancora non effettua la correzione sui dati di Contabilità nazionale trimestrale (la correzione è invece sempre effettuata per le serie della produzione industriale); la pubblicazione dei dati corretti è prevista verosimilmente entro la fine del 2002. Abbiamo provato a correggere per il calendario i dati del Pil del primo semestre di quest’anno, considerando il solo valore aggiunto dell’industria; si tratta dunque di una stima molto parziale, che non considera le rimanenti branche produttive, anche se è soprattutto l’industria a risentire del diverso numero di giorni lavorati. Utilizzando la procedura Tramo-Seats, abbiamo stimato che al netto dell’effetto dei giorni il Pil italiano è aumentato dello 0,5/06% (invece dello 0,8% “ufficiale”) nel primo trimestre, ed ha registrato un leggero aumento nel secondo trimestre (contro lo 0,0% “ufficiale”). Risultati analoghi sono stati raggiunti dall’Isae nel rapporto dello scorso luglio. La considerazione degli effetti di calendario influenza anche il confronto dell’andamento ciclico del Pil tra i vari paesi: ad esempio, la crescita dello 0,4% e dello 0,0% del Pil tedesco rispettivamente nel primo e nel secondo trimestre dell’anno dovrebbe essere confrontata con lo 0,5/0,6% e 0,1/0,2% dell’Italia (e non con lo 0,8% e 0,0% “ufficiali”). Alternativamente, si dovrebbero confrontare le stime che non considerano per entrambi i paesi gli effetti di calendario (+0,9% e –0,7% per la Germania e +0,8% e 0,0% per l’Italia nei primi due trimestri). Se si guarda quindi alla stima al netto del calendario, risulta come il ritmo di crescita nella prima parte dell’anno sia simile nei due paesi; inoltre sia in Germania che in Italia il rallentamento del ciclo è evidente già nel primo trimestre. Gli investimenti fissi lordi nel secondo trimestre dell’anno sono scesi dello 0,3% rispetto al periodo gennaio-marzo; ancora positivo è risultato l’andamento delle costruzioni (+0,2%), mentre la spesa per macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto ha risentito negativamente del clima di incertezza ciclica, diminuendo dello 0,6%. L’inchiesta Isae relativa al secondo trimestre ha inoltre evidenziato un lieve calo del grado di utilizzo della capacità produttiva. I dati dell’Ucimu sugli ordini di macchine utensili sono in effetti calati del 39,3% nel secondo trimestre rispetto agli elevati livelli dell’anno precedente (-48,3% sull’estero e -30,5% sul mercato interno, fig. 15). Gli indicatori recenti. Il calo della produzione è proseguito anche all’inizio del terzo trimestre; a luglio le quantità prodotte al netto di fattori stagionali sono diminuite dello 0,7% rispetto a giugno (fig. 16). Particolarmente negativo è stato l’andamento dei beni finali, sia di consumo (-2,2% in un mese) che di investimento (-1,2%), mentre i beni intermedi hanno registrato una crescita moderata (+1,2%). Il dato negativo di luglio smentisce le indicazioni più favorevoli provenienti sia dall’indagine rapida del Csc sia dai consumi elettrici. Secondo l’indagine Csc, la produzione sarebbe tornata ad aumentare ad agosto (+1% al netto di fattori stagionali) e, a ritmi meno sostenuti, a settembre (+0,6%). Va peraltro considerato che gran parte delle risposte all’indagine sono pervenute prima dell’11 settembre. 58 Fig. 15 ORDINI DI MACCHINE UTENSILI (Dati destagionalizzati a prezzi costanti) 160 140 Interni Esteri Totali 120 100 80 60 40 1995 1996 1997 1998 Fonte: Elaborazioni Csc su dati Ucimu. 1999 2000 2001 Fig. 16 PRODUZIONE INDUSTRIALE MEDIA GIORNALIERA (Indici: Base 1995 = 100) 112 110 108 Destagionalizzata Destagionalizzata e perequata con medie mobili a 3 termini 106 104 102 100 98 96 1995 1996 1997 1998 1999 Per agosto e settembre previsioni Csc. Fonte: Istat, Indagine congiunturale rapida Csc. 2000 2001 59 Indicazioni negative vengono anche dai dati Isae, che hanno mostrato a partire dai primi mesi di quest’anno un continuo peggioramento del clima di fiducia delle imprese. La tendenza al peggioramento della fiducia si è arrestata nel mese di luglio (fig. 17a), grazie soprattutto ad un modesto recupero dei giudizi sul livello della domanda. Continua invece la tendenza al ridimensionamento del portafoglio ordini delle imprese (in particolare sui mercati esteri) ed al peggioramento delle attese a breve termine sulla propria produzione. A partire dai mesi primaverili sono invece migliorati i giudizi degli imprenditori sulle prospettive a breve termine dell’economia italiana (fig. 17b). Qualche segnale favorevole è venuto a giugno dai dati su fatturato e ordinativi aumentati rispettivamente del 2,8 e 3,9% al netto di fattori stagionali, grazie soprattutto al positivo andamento dei mercati esteri (+4,2 il fatturato e +5,3% gli ordini, fig.18). Dal lato della domanda, le indicazioni provenienti dell’inchiesta Isae presso i consumatori sono risultate favorevoli fino al mese di luglio; una caduta della fiducia si è registrata però ad agosto, imputabile probabilmente soprattutto ai disordini di Genova in occasione del G8. Le attese sull’evoluzione della situazione economica e di quella personale, particolarmente favorevoli sino a luglio, si sono deteriorate bruscamente ed è diminuita anche la quota di quanti si attendono una riduzione della disoccupazione nei prossimi 12 mesi. Il giudizio sulla convenienza all’acquisto di beni durevoli e abitazioni è rimasto complessivamente favorevole, anche se meno positivo rispetto agli ultimi mesi. Uno stimolo alla spesa per ristrutturazioni edilizie potrebbe venire dai recenti provvedimenti varati dal governo nell’ambito del programma dei 100 giorni (cosiddetto provvedimento dei “padroni in casa propria”, cfr. anche più avanti il riquadro: I provvedimenti dei 100 giorni). Indicazioni positive sono venute durante l’estate dai dati sul mercato dell’auto: sulla base dei dati Anfia le immatricolazioni nel bimestre luglioagosto sono cresciute dello 0,2% rispetto agli elevati livelli del secondo trimestre al netto di fattori stagionali. 60 Fig. 17 INDICATORI DEL CLIMA ECONOMICO a) FIDUCIA DI FAMIGLIE E IMPRESE (Dati destagionalizzati) 1980=100 126 1995=100 115 124 110 122 105 120 100 118 95 116 90 114 85 delle famiglie delle imprese (scala destra) 80 2000 2001 112 1998 Fonte: Isae. 1999 b) PERCEZIONE SUL CLIMA ECONOMICO DELLE IMPRESE 1995=100 110 (Medie mobili a 3 termini dei dati destagionalizzati) Saldi 30 20 105 10 100 0 95 -10 90 Clima di fiducia delle imprese Tendenza dell'economia (scala destra) 85 1997 1998 1999 Fonte: elaborazioni Csc su dati Isae. 2000 2001 -20 -30 61 Fig. 18 ORDINATIVI NELL'INDUSTRIA (*) (Indici: 1995=100) 140 130 120 110 100 90 80 1997 1998 1999 2000 (*) Medie mobili a 3 termini dei dati destagionalizzati. Fonte: elaborazioni Csc su dati Istat. 2001 Quanto agli investimenti, l’andamento moderato della prima parte dell’anno è essenzialmente spiegato oltre che dall’incertezza del quadro internazionale dall’accumulo di scorte registrato nel periodo gennaio-marzo. E’ anche possibile che l’attesa del varo dei provvedimenti di agevolazione fiscale sugli utili reinvestiti abbia indotto nel primo semestre a ritardare l’attuazione dei programmi di spesa previsti. L’ultima inchiesta Isae della primavera 2001 segnalava che le imprese industriali continuano ad attendersi un aumento sostenuto degli investimenti nell’anno in corso, con una quota elevata della spesa destinata all’ampliamento della capacità produttiva. 3.2 Il mercato del lavoro e le retribuzioni Occupazione e disoccupazione nell’area dell’euro. Nei primi mesi del 2001 la dinamica dell’occupazione ha iniziato a mostrare segnali di rallentamento in gran parte dell’area dell’euro. I dati di Contabilità nazionale indicano per il primo trimestre una crescita dell’occupazione in termini congiunturali dello 0,4% a fronte dello 0,6 registrato nell’ultimo trimestre del 2000. Il minore tasso di crescita è dovuto principalmente al rallentamento nei servizi (0,5% rispetto allo 0,7 del quarto trimestre 2000) e ad una lieve flessione delle costruzioni (-0,1%). L’occupazione nel settore 62 dell’industria in senso stretto è invece cresciuta dello 0,4%, in leggero aumento rispetto all’ultimo trimestre del 2000 (0,3%). Negli ultimi mesi si è arrestata la discesa del tasso di disoccupazione. Tra aprile e luglio il tasso di disoccupazione destagionalizzato, calcolato su base mensile, è rimasto infatti fermo all’8,3% nell’area dell’euro. Il rallentamento ha riguardato soprattutto la componente giovanile (15-24 anni). In Germania il mercato del lavoro è entrato in una fase di stagnazione fin dai primi mesi dell’anno, a seguito del rallentamento dell’attività economica. Secondo le stime dell’Ufficio statistico federale, nei primi sei mesi dell’anno il numero degli occupati, al netto dei fattori stagionali, ha cominciato a ridursi lentamente passando dai 38,80 milioni di unità del dicembre 2000 ai 38,74 milioni del mese di giugno. Per i mesi più recenti non vi sono ancora dati aggregati sull’occupazione, ma nella media dei mesi di luglio e agosto è stata registrata una diminuzione dei posti vacanti del 6,1% (pari a circa 33.690 unità in meno) rispetto a dodici mesi prima. Al netto della stagionalità, la riduzione congiunturale dei posti offerti dalle imprese continua ininterrottamente dal mese di gennaio. Nei primi otto mesi del 2001 si sono cumulati circa 60.000 posti in meno rispetto a dicembre 2000. Segnali negativi sono emersi anche sul fronte della disoccupazione fino a luglio. Tra dicembre 2000 e luglio 2001 le persone in cerca di lavoro sono aumentate, al netto dei fattori stagionali, di circa 88.000 unità. In agosto, tale tendenza si è arrestata e si è avuta anzi una lieve riduzione del numero delle persone in cerca di lavoro, scese di circa 2.000 unità. Il tasso di disoccupazione destagionalizzato è rimasto invariato al 7,7% tra ottobre e aprile, per poi salire al 7,8% nei due mesi successivi e al 7,9% nel mese di luglio. In agosto, nonostante la lieve riduzione del numero dei disoccupati il tasso di disoccupazione è rimasto invariato rispetto al mese precedente. In Francia i dati sull’occupazione relativi al primo trimestre non riflettono ancora gli effetti del rallentamento congiunturale in corso. Le stime di Contabilità nazionale indicano una crescita del numero di occupati dello 0,6%, al netto della stagionalità, rispetto al trimestre precedente e del 3,4% rispetto al primo trimestre del 2000. Tuttavia, secondo le prime indicazioni dell’Insee nel secondo trimestre la dinamica occupazionale dovrebbe aver subito una sensibile decelerazione. Per il 2001 l’Istituto statistico francese prevede un tasso di crescita dell’occupazione totale non superiore all’1,3% (circa 300.000 lavoratori in più), contro il 2,5% registrato nel 2000. A giugno, per la prima volta dall’agosto del 1998, è stato registrato un aumento del tasso di disoccupazione mensile di 0,1 punti percentuali (8,8%) rispetto al mese precedente. Un incremento analogo si è verificato anche nel successivo mese di luglio. In Spagna è proseguita nel primo trimestre del 2001 la decelerazione della crescita degli occupati iniziata nel terzo trimestre del 2000. Nei primi tre mesi dell’anno, le unità di lavoro equivalenti – misurate dalla Contabilità nazionale – sono cresciute del 2,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, due decimi di punto in meno rispetto alla crescita conseguita nell’ultimo trimestre 2000. Prosegue invece ininterrotta la caduta del tasso 63 di disoccupazione, passato dal 13,5% di fine 2000 al 12,8 dello scorso mese di giugno. L’occupazione in Italia. Segnali poco incoraggianti emergono dall’ultima rilevazione delle forze di lavoro in Italia, relativa al primo trimestre del 2001. Per la prima volta dalla fine del 1997, la crescita dell’occupazione ha subito una battuta d’arresto (fig. 19): dopo il rallentamento congiunturale registrato nel trimestre precedente (0,2%, al netto della stagionalità, a fronte dell’1,2% conseguito nell’ottobre 2000), tra gennaio ed aprile il numero delle persone occupate, depurato dagli effetti stagionali, ha registrato una flessione dello 0,1%, pari a circa 27.000 unità. Gli occupati sono diminuiti nell’industria in senso stretto (-0,5%) e nel comparto dei servizi (-0,1%), hanno continuato a crescere nell’agricoltura (+0,4%) e nelle costruzioni (+0,5%; fig. 19). La riduzione dell’occupazione si è concentrata nelle regioni settentrionali (-0,3%, pari a circa 32.000 occupati in meno); il numero di persone occupate è rimasto invariato nelle regioni del Centro ed è cresciuto lievemente (+0,1%) nel Mezzogiorno. Il rallentamento della dinamica dell’occupazione emerge anche nel confronto con il corrispondente periodo dell’anno scorso. Rispetto ad aprile 2000, gli occupati sono cresciuti del 2,1% (+443.000 unità), un valore ancora elevato ma in decelerazione rispetto al 2,8% e al 3,2% registrati rispettivamente a ottobre e gennaio scorsi. Come nei trimestri precedenti, l’incremento avvenuto ha riguardato prevalentemente l’occupazione femminile, cresciuta nei dodici mesi del 4,0% (+307.000 unità, pari a quasi il 70% dell’occupazione complessivamente creata nel periodo). Il tasso di occupazione femminile è così passato dal 39,3% di aprile 2000 al 40,9% di aprile 2001, proseguendo nel lento processo di recupero rispetto al dato medio dell’area dell’euro (51,4% nel 2000). Nel complesso il tasso di occupazione della popolazione tra i 15 e i 64 anni è aumentato, rispetto all’anno precedente, di 1,1 punti percentuali (dal 53,2 al 54,3%), grazie anche alla leggera riduzione avvenuta nella popolazione in età da lavoro. Resta forte il divario con la media dell’area dell’euro (61,3% nel 2000) e soprattutto con l’obiettivo del 70% stabilito dal vertice di Lisbona per il 2010, per il raggiungimento del quale sarebbe necessaria, a parità di altre condizioni, la creazione di oltre sei milioni di nuovi occupati (corrispondente ad una crescita media annua dell’occupazione del 3,2%). 64 Fig. 19 OCCUPATI PER SETTORE DI ATTIVITA' (Dati destagionalizzati; indici: Gennaio 1996=100) 115 Totale Italia Costruzioni Industria in senso stretto Altre attività 110 105 100 95 1996 1997 1998 Fonte: Elaborazioni Csc su dati Istat. 1999 2000 2001 Poco meno del 70% dei nuovi occupati (circa 297.000 unità; +2,3% rispetto ad aprile 2000; tab. 8) è stato assunto con contratti di lavoro a tempo pieno ed indeterminato (tale incidenza era pari al 13,7% nel 1999 e al 27,3% nel 2000). Consistente è stato inoltre il ricorso a rapporti di lavoro permanenti a tempo parziale, che ha riguardato 132.000 lavoratori in più rispetto ad aprile 2000 (+15,2%), in accelerazione rispetto al dato tendenziale dei trimestri precedenti. Le agevolazioni fiscali temporanee previste dall’art. 7 dell’ultima legge finanziaria hanno incentivato il ricorso a forme contrattuali a carattere permanente. I datori di lavoro che, tra ottobre 2000 e novembre 2003, incrementano la propria base occupazionale con contratti a tempo indeterminato possono infatti beneficiare di un credito di imposta di 800.000 lire per lavoratore (1.200.000 lire nel Mezzogiorno), a condizione che il nuovo assunto abbia almeno 25 anni di età e non sia stato titolare di un rapporto di lavoro permanente negli ultimi due anni. I dati disponibili indicano che tra ottobre 2000 e aprile 2001 l’occupazione dipendente a tempo indeterminato è aumentata di 196.000 unità, di cui 76.000 nel Mezzogiorno. Tra aprile 2000 e aprile 2001 è diminuito l’utilizzo dei contratti a termine, la cui incidenza sul totale dell’occupazione dipendente è passata dal 10,1% di aprile 2000 al 9,5% di aprile 2001. Il ricorso a questa forma contrattuale, ancora molto inferiore alla media europea (14,9% di lavoratori dipendenti con contratto temporaneo nel 2000), 65 Tab. 8 - Andamento dell'occupazione per tipologia di contratto, 1999-2001 Variazioni assolute (in migliaia) e percentuali rispetto all'anno precedente 1999 Variabili 2000 ottobre 2000 gennaio 2001 aprile 2001 var. ass. Var. % var. ass. var. % var. ass. Var. % var. ass. var. % var. ass. 256 1,3 388 1,9 589 2,8 656 3,2 443 Totale occupati var. % 2,1 Dipendenti di cui: Permanenti a tempo pieno Permanenti part-time Temporanei a tempo pieno Temporanei part-time 274 1,9 308 2,1 379 2,5 498 3,4 377 2,5 35 0,3 106 0,8 146 1,1 370 2,9 297 2,3 78 11,3 83 10,8 35 4,2 89 11,0 132 15,2 118 14,0 80 8,3 160 16,8 4 0,4 -3 -0,3 43 10,5 40 8,9 38 8,3 36 8,4 -49 -9,5 Autonomi -18 -0,3 80 1,4 210 3,6 157 2,7 66 1,1 Fonte: Elaborazioni Csc su dati Istat, Forze di lavoro. dovrebbe risultare facilitato dal recepimento nell’ordinamento italiano della direttiva europea 1999/70/Ue in materia, improntata ad una maggiore flessibilità. In generale il nuovo provvedimento legislativo, approvato dal governo lo scorso mese di agosto, supera il principio in base al quale, “salvo eccezioni”, il “contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato” e, pertanto, esclude che per l’apposizione del termine siano necessarie “causali specifiche”. Con la nuova normativa si passa da una disciplina in cui il datore di lavoro poteva assumere con contratto a tempo determinato solo in presenza di ipotesi tassativamente previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, ad una in cui l’apposizione del termine è legittimata dall’esistenza di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. La garanzia per il lavoratore è assicurata dal fatto che, contestualmente, il datore di lavoro deve specificare queste ragioni per iscritto nell’atto di assunzione. Il superamento delle “causali specifiche” fa sì che si sia invertita la logica della legislazione precedente, per cui ora il decreto legislativo elenca tassativamente i casi nei quali è vietata la stipulazione del contratto a termine. La nuova disciplina, poi, affida alla contrattazione collettiva di settore l’individuazione di limiti quantitativi ma, nel contempo, procede ad una elencazione tassativa delle ipotesi di contratti a termine esenti da qualsiasi “tetto”. Nella elencazione dei casi esenti, oltre al mantenimento delle ipotesi già precedentemente escluse da ogni limite quantitativo, vengono individuate anche alcune fattispecie ritenute non suscettibili di alcuna limitazione o per una valutazione di fatto (i contratti a termine attivati nelle fasi di start-up) o perché si è inteso favorire particolari fasce di lavoratori (giovani ed ultracinquantacinquenni) o infine perché si è voluto liberalizzare le forme di contratto a termine di breve durata. L’attuale fase di rallentamento congiunturale trova conferma nell’aumento registrato, tra gennaio e giugno, nelle ore autorizzate di Cassa integrazione ordinaria nell’industria in senso stretto (7,2%). Continuano invece a 66 diminuire le ore di Cig straordinaria (-13,2%, pari a circa 5.300 occupati equivalenti in meno), in discesa ormai dal 1994 (fig. 20). Per la prima volta dal 1997, in aprile si è verificata in Italia una diminuzione congiunturale dell’offerta di lavoro (-0,4%, al netto dei fattori stagionali). Rispetto ad aprile 2000 l’andamento dell’offerta di lavoro ha continuato a registrare una variazione positiva pur se in forte rallentamento (0,7%, pari a circa 169.000 persone, di cui 164.000 donne) rispetto agli ultimi trimestri (1,4% nella media delle ultime tre rilevazioni). In particolare si è ridotto il tasso di attività giovanile (15-24 anni), sceso tra aprile 2000 e aprile 2001 dal 37,4% al 35,7%, anche per effetto dell’aumento della quota di inattivi tra i 15 e i 24 anni dichiaratisi nella condizione di studenti (salita nell’anno dal 51,4% al 52,7%). Più in generale va rilevato l’aumento consistente (+2,8%, pari a circa 342.000 unità) del gruppo di persone inattive, ma in età da lavoro (15-64 anni), che non hanno compiuto, nel periodo di riferimento, alcuna azione di ricerca e non sono risultati disponibili per alcun lavoro. Tale dato va tuttavia interpretato tenendo presente che, con la rilevazione di aprile, è stata modificata la domanda relativa alla disponibilità a lavorare delle persone inattive in età da lavoro che ora è richiesta essere immediata, estendendo in tal modo la nozione di indisponibilità al lavoro. In forte aumento sono risultati infine gli inattivi non in età da lavoro con almeno 65 anni (+1,7%, pari a 169.000 persone). Nonostante la battuta d’arresto nella crescita dell’occupazione, si è accentuata ad aprile la riduzione delle persone in cerca di lavoro rispetto al mese di gennaio, con un calo congiunturale, al netto della stagionalità, del 3,2% nel complesso dell’economia (pari a 76.000 unità in meno). Le regioni centrali hanno registrato la riduzione più forte (-8,5%), seguite dal Mezzogiorno (-2,5%) e dal Nord (-1,4%). Il tasso di disoccupazione destagionalizzato per l’economia nel suo complesso è sceso dal 9,8% di gennaio all’attuale 9,6%. Nelle regioni settentrionali è rimasto fermo al livello di gennaio (4,1%) mentre è diminuito rispettivamente di 0,6 e 0,4 punti percentuali nel Centro (7,2%) e nel Mezzogiorno (19,4%). Rispetto ad aprile 2000, il numero delle persone in cerca di occupazione si è ridotto di 274.000 unità, pari al 10,8% in meno, in ulteriore accelerazione rispetto al dato di gennaio (tab. 9). Sono diminuite soprattutto le persone in cerca di prima occupazione (-103.000 unità), seguite dalle altre persone in cerca (-98.000) e dai disoccupati in senso stretto (-73.000). Dato il rallentamento occorso nella crescita degli occupati, le ragioni sottostanti l’ulteriore calo della disoccupazione vanno ricercate nei flussi in uscita dalle forze di lavoro e negli andamenti demografici. La discesa del tasso di partecipazione giovanile potrebbe ad esempio rappresentare uno dei fattori rilevanti. Tra aprile 2000 e aprile 2001 il numero di persone tra i 15 e i 24 anni in cerca di lavoro è diminuito di 148.000 unità (22,5%), oltre il 50% del calo complessivo. Tale riduzione ha riguardato sia le persone in cerca di prima occupazione (-75.000 unità; 17,3%), sia i disoccupati in senso stretto (-30.000 unità; 23,8%), sia le altre persone in cerca (-43.000). 67 Fig. 20 CASSA INTEGRAZIONE GUADAGNI (Migliaia di ore autorizzate) 30000 25000 Gestione ordinaria: dati destagionalizzati Gestione ordinaria: dati destagionalizzati e perequati (*) Gestione straordinaria: dati perequati (*) 20000 15000 10000 5000 0 1994 1995 1996 1997 1998 1999 (*) Medie mobili a 3 mesi terminanti nel mese indicato. Fonte: Elaborazioni Csc su dati Inps. 2000 2001 Accanto al fenomeno della denatalità (a cui va aggiunto, come già evidenziato in precedenza, l’aumento della quota di studenti), un ulteriore fattore che potrebbe aver contribuito alla riduzione delle persone in cerca di lavoro è rappresentato dalla riforma in atto nei servizi pubblici per l’impiego i quali, in attuazione del D.Lgs. 181/2000 in materia di agevolazione dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro, hanno avviato un processo di ripulitura delle liste di collocamento volto ad eliminare la presenza dei soggetti non interessati veramente alla ricerca di un lavoro. Ciò ha portato ad una sensibile riduzione del numero di iscritti che potrebbe aver influenzato, in modo indiretto, la rilevazione Istat delle persone in cerca di lavoro. Alcune delle pratiche amministrative richieste per l’iscrizione alle liste sono infatti considerate, se eseguite nell’ultimo mese, azioni di ricerca che qualificano una persona in cerca di occupazione (è il caso, ad esempio, della vidimazione del libretto di lavoro, oggetto di una domanda specifica nel questionario Istat). 68 Tab. 9 - Evoluzione della popolazione italiana all'interno e all'esterno del mercato del lavoro Variazioni assolute (in migliaia) e percentuali rispetto all'anno precedente 1999 2000 Ottobre 2000 Gennaio 2001 Aprile 2001 Variabili var. ass. var. % var. var. % var. var. % var. ass. var. % var. ass. var. % ass. ass. Popolazione residente 38 0,1 110 0,2 148 0,3 149 0,3 143 0,3 di cui: 15-24 anni -253 -3,4 -254 -3,6 -251 -3,6 -246 -3,6 -234 -3,4 Forze di lavoro di cui: Occupati Persone in cerca di lavoro Inattivi in età da lavoro (1564 anni) di cui: Cercano lavoro non attivamente, immediatamente disponibili Cercano lavoro e non immediatamente disponibili Non cercano ma disponibili* Non cercano e non disponibili* 181 0,8 213 0,9 373 1,6 389 1,7 170 0,7 256 -75 1,3 -2,7 388 -175 1,9 -6,6 589 -217 2,8 -8,3 656 -267 3,2 -10,1 443 -273 2,1 -10,7 -246 -1,5 -239 -1,5 -372 -2,4 -392 -2,5 -177 -1,1 -3 -0,2 8 0,7 52 4,4 57 5,0 -28 -2,2 11 9,4 2 1,2 13 10,9 -4 -3,6 -5 -3,2 56 2,8 -7 -0,3 50 2,5 29 1,4 -486 -24,3 -310 -2,4 -242 -1,9 -486 -3,9 -474 -3,8 342 2,8 0,8 152 0,8 150 0,8 Inattivi non in età da lavoro 102 0,6 136 0,8 di cui: < 15 anni -68 -0,8 -48 -0,6 > 64 anni 170 1,8 184 1,9 * Con la rilevazione di aprile 2001 è stata modificata la domanda essere immediata. Fonte: Elaborazioni Csc su dati Istat, Forze di lavoro. 148 -29 -0,4 -21 -0,3 -18 -0,2 177 1,8 173 1,8 168 1,7 relativa alla disponibilità, che ora è richiesta Costo del lavoro e retribuzioni nell’area euro. I dati di Contabilità nazionale disponibili per il primo trimestre del 2001 indicano una crescita tendenziale del costo del lavoro per dipendente all’interno dell’area dell’euro di circa il 2,2%, sostanzialmente in linea con i trimestri più recenti. Francia e Germania continuano a situarsi molto al di sotto della media dell’area. In Francia il costo del lavoro per dipendente è cresciuto dell’1,3%, in rallentamento rispetto ai mesi precedenti (1,7% nella media degli ultimi tre trimestri). In aumento è risultata invece la dinamica del costo del lavoro in Germania (1,8% a fronte dell’1,2% registrato nel quarto trimestre 2000). Sul fronte dei rinnovi contrattuali, gli accordi stipulati in Germania nel corso del 2001 hanno riguardato solamente una piccola frazione dei lavoratori dipendenti (circa un decimo). Nei primi sei mesi dell’anno sono stati rinnovati i contratti del settore bancario privato (470.000 dipendenti), di quello assicurativo (240.000) e di quello del commercio al dettaglio (1,6 69 milioni). Gli aumenti stabiliti per il nuovo periodo contrattuale (12 o 13 mesi a seconda del settore) si collocano tra il 2,7 e il 2,8%. Per il 2001 si prevede una crescita media delle retribuzioni del totale economia di poco superiore al 2%. Nel 2002 si preannuncia invece una stagione di rinnovi molto intensa. Particolarmente rilevanti saranno i rinnovi, a fine febbraio, del contratto dei metalmeccanici (oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori) e di quello dei chimici (circa 600.000 lavoratori), a cui si aggiungono diversi altri comparti dell’industria in senso stretto. Nel corso del 2002 giungeranno inoltre a scadenza il Ccnl del settore pubblico (oltre 5 milioni di lavoratori coinvolti) e quelli del commercio e delle costruzioni (rispettivamente 1,6 e 1,1 milioni di lavoratori). In media, gli incrementi previsti dagli analisti tedeschi si collocano tra il 2,5 e il 3%. Costo del lavoro e retribuzioni in Italia. In Italia, i dati di contabilità nazionale relativi al primo trimestre del 2001 registrano una crescita tendenziale delle retribuzioni lorde per dipendente relative all’intera economia del 2,2%, pari a quella conseguita nel trimestre precedente ma in decelerazione rispetto alla media dei primi tre trimestri del 2000 (3,4%; tab. 10). Nell’industria in senso stretto la dinamica delle retribuzioni di fatto è tornata tuttavia a crescere (3,1%) dopo il raffreddamento registrato negli ultimi due trimestri del 2000 (1,7% nella media del periodo); in riduzione è risultata la dinamica salariale nel comparto delle costruzioni e in quello dei servizi (rispettivamente 1,4 e 1,9%, contro il 2,8 e il 2,3% degli ultimi tre mesi del 2000). Nel secondo trimestre la dinamica delle retribuzioni di fatto potrebbe tuttavia tornare a salire, riflettendo l’accelerazione delle retribuzioni contrattuali per dipendente che, secondo l’indice Istat, sono aumentate tra aprile e giugno del 2,6% (rispetto all’1,9% del primo trimestre). Tale tendenza dovrebbe proseguire anche nella restante parte dell’anno a causa dei numerosi Ccnl siglati negli ultimi mesi (vedi oltre; tab. 11). Il costo del lavoro per dipendente nell’economia nel suo complesso è cresciuto nel primo trimestre del 2001 del 2%, compendiando una variazione del 2,6% nell’industria e dell’1,7% nei servizi. Tale andamento include l’effetto della riduzione di 0,8 punti percentuali dell’aliquota degli oneri sociali a carico delle imprese stabilita dall’ultima legge finanziaria. L’intensa stagione contrattuale (cfr. tabella 2.9 ultimo rapporto di previsione) è proseguita anche negli ultimi mesi. Tra maggio e luglio 2001 sono stati infatti rinnovati numerosi Ccnl, riguardanti oltre 4 milioni e mezzo di lavoratori (tab. 11). Nell’industria il rinnovo più importante è stato quello del secondo biennio economico del contratto metalmeccanico (circa un milione e mezzo di lavoratori interessati), avvenuto lo scorso mese di luglio. Il nuovo accordo prevede un recupero del differenziale tra inflazione programmata ed effettiva per il biennio appena trascorso, calcolato tenendo conto, particolarmente per il 2000, degli effetti imputabili all’andamento delle ragioni di scambio . Relativamente al biennio 2001-2002, gli aumenti 70 Tab. 10 - Andamento delle retribuzioni di fatto e contrattuali per dipendente (Variazioni % annuali) di fatto contrattuali di fatto contrattuali di fatto contrattuali 5,2 4,2 5,2 3,4 4,4 3,0 3,4 4,3 3,3 3,8 2,5 2,5 2,9 2,4 3,0 2,7 4,9 3,2 2,4 1,8 2,9 2,1 3,3 2,9 3,1 1,9 2,4 1,9 3,2 2,8 2001 I II trim. trim. 2,2 n.d. 1,8 2,6 3,1 n.d. 2,0 1,2 1,4 n.d. 1,5 1,1 Commercio e riparazioni; alberghi e ristoranti di fatto 2,3 2,9 3,9 2,8 2,4 n.d. n.d. Trasporti, magazzini e comunicazioni contrattuali di fatto contrattuali 3,8 3,2 2,1 3,8 2,3 2,2 4,1 3,7 4,1 2,1 0,7 1,2 2,0 1,5 0,3 1,6 n.d. 1,9 1,6 n.d. 2,0 di fatto 4,5 1,3 2,8 0,7 2,8 1,1 n.d. contrattuali (1) 6,0 3,0 0,6 0,2 di fatto 6,5 4,8 1,5 2,5 contrattuali (2) 5,6 6,8 1,0 1,8 (1) Solo intermediazione monetaria e finanziaria; (2) Solo Pubblica Amministrazione. Fonti: Istat, Contabilità nazionale per le retribuzioni di fatto. 1,6 4,3 2,4 1,2 2,2 2,1 1,2 n.d. 5,2 Settori Retribuzioni Totale attività economiche Industria in senso stretto Costruzioni Intermediaz. monetaria e finanziaria; attività immobiliari, noleggio, professionali ed imprenditoriali Altre attività di servizi 1996 1997 1998 1999 2000 stabiliti hanno già incorporato l’accelerazione inflazionistica realizzatasi nel primo semestre del 2001. In particolare, l’aumento concordato è stato definito a copertura dell’inflazione effettiva fino al 30 giugno 2001 ed a quella programmata per il secondo semestre 2001 e per tutto il 2002. Pertanto, l’eventuale recupero salariale relativo al biennio 2001-2002 da discutere nel prossimo rinnovo contrattuale, considererà esclusivamente il secondo semestre 2001 e l’anno 2002. Il disaccordo su questa soluzione ha determinato la mancata firma di una delle organizzazioni sindacali (la Fiom). Nell’insieme, l’incremento contrattuale per il biennio in corso è di 3,9 punti percentuali, a fronte di un’inflazione programmata che il Dpef del 2000 stabiliva al 2,9% (1,7% nel 2001 e 1,2% nel 2002). In base all’ultimo Dpef, invece, l’inflazione prevista per il 2001 è stata portata al 2,8% e quella programmata per il 2002 all’1,7%. Ipotizzando slittamenti salariali in linea con quelli della media degli ultimi anni, l’incremento complessivo delle retribuzioni di fatto dovrebbe attestarsi intorno al 6,4%. Altri importanti rinnovi nel settore industriale sono stati siglati nel comparto alimentare (maggio 2001) e in quella della carta e cartotecnica (luglio 2001). E’ stato inoltre raggiunto, dopo ventidue mesi di trattativa, l’accordo per la creazione del Ccnl unico del settore elettrico. Nell’ambito dei servizi destinabili alla vendita di particolare rilievo è stato il rinnovo del secondo biennio economico del Ccnl del settore del commercio. Secondo le valutazioni della Confcommercio, nel biennio 2001-2002 l’impatto sulle retribuzioni medie di fatto del settore dovrebbe collocarsi intorno al 6,3%. 71 Tab. 11 - Principali contratti dell'industria e dei servizi: situazione dei rinnovi a luglio 2001 Contratti n. dipendenti interessati Scadenza Situazione attuale Contratti scaduti Servizi vendibili 120.000 Scaduto il contratto (parti economica e normativa) Dicembre 1999 trattative in corso per a definizione di un contratto per le attività ferroviarie 110.000 190.000 600.000 150.000 210.000 500.000 Dicembre 2001 Dicembre 2001 Dicembre 2001 Dicembre 2001 Dicembre 2001 Dicembre 2001 Scade parte economica Scade parte economica Scade parte economica Scade parte economica Scade parte economica Scade parte economica 350.000 210.000 110.000 100.000 Dicembre 2001 Dicembre 2001 Dicembre 2001 Dicembre 2002 Scade il contratto (parti economica e normativa) Scade il contratto (parti economica e normativa) Scade parte economica Scade parte economica del nuovo contratto di settore Industria Alimentare Carta e cartotecnici 270.000 n.d. Maggio 2001 Giugno 2001 Elettrici 110.000 Ferrovie dello Stato Contratti con scadenza successiva Industria Calzature Chimico Edili Gomma, plastica Legno Tessili Servizi vendibili Turismo Credito Autotrasporto merci Telecomunicazioni Contratti conclusi fra novembre 2000 e luglio 2001 Olearia-margariniera Meccanico Terme n.d. 1.500.000 n.d. Servizi vendibili Autoferrotranvieri Commercio 139.000 1.650.000 Poste 189.000 Pulizie 450.000 Pubblico impiego Scuola Rinnovato a giugno il secondo biennio economico Rinnovata a luglio sia la parte economica che normativa Rinnovata a luglio sia la parte economica che normativa Dicembre 1998 con la definizione di un contratto unico di settore Aprile 2001 Rinnovato ad aprile il secondo biennio economico Rinnovato a luglio il secondo biennio economico 2001Dicembre 2000 2002 Rinnovato a luglio il secondo biennio economico 2001Giugno 2001 2002 Rinnovata a dicembre sia la parte economica che normativa Rinnovato a luglio il secondo biennio economico 2001Dicembre 2000 2002 Rinnovata a gennaio sia la parte economica che Dicembre 1997 normativa Rinnovata a maggio sia la parte economica che Aprile 1999 normativa Dicembre 1999 1.100.000 Dicembre 1999 Dirigenti pubblici 155.000 Dicembre 1997 Ministeri 270.000 Dicembre 1999 Enti locali 650.000 Dicembre 2000 Sanità 550.000 Dicembre 1999 62.000 Dicembre 1999 Enti pubblici non economici 72 Rinnovato a febbraio il secondo biennio economico 20002001 Rinnovata a marzo sia la parte economica che normativa per il quadriennio 1998-2001 Rinnovato a marzo il secondo biennio economico 20002001 Rinnovato ad aprile il secondo biennio economico 20002001 Rinnovato a maggio il secondo biennio economico 20002001 Rinnovato a maggio il secondo biennio economico 20002001 3.3 Prezzi, costi e margini I prezzi nell’area dell’euro. L’inflazione media nei 12 paesi dell’area dell’euro è passata dal 2,3% del 2000 al 2,5 e 3,1% rispettivamente nel primo e secondo trimestre di quest’anno, raggiungendo un massimo al 3,4% a maggio. L’accelerazione è imputabile principalmente alle nuove tensioni sul prezzo del petrolio e alla crisi che ha colpito il settore alimentare; hanno pesato anche gli effetti di “secondo ordine” sull’inflazione core (calcolata cioè al netto dei prodotti alimentari freschi e degli energetici) dei rincari dei beni energetici registrati nel corso del 2000 (tab. 12). Tab. 12 - Inflazione nell’area dell’euro (Indice armonizzato; variazioni % tendenziali) Prodotti Indice generale Indice generale esclusi alimentari freschi e energia Beni Alimentari, alcool e tabacco Alimentari conservati, alcool e tabacco Alimentari freschi Beni industriali Beni industriali non energetici Energia Servizi (1) Variazione media annua. 2000 (1) 2,3 2000 2001 III IV I II Lugtrim. trim. trim. trim. Ago 2,5 2,7 2,5 3,1 2,8 1,3 1,3 1,4 1,8 2,1 2,2 2,7 1,4 1,1 1,7 3,4 0,7 13,3 1,7 2,9 1,9 1,2 3,1 3,4 0,7 13,7 1,8 3,2 2,2 1,3 3,5 3,7 1,0 13,7 1,9 2,8 3,3 1,9 5,3 2,5 1,2 7,2 2,2 3,6 5,0 2,8 8,5 2,8 1,5 7,3 2,5 2,9 5,2 3,3 8,2 1,7 1,5 2,5 2,6 Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat. Le tensioni hanno iniziato gradualmente ad attenuarsi a partire da giugno, quando l’inflazione è scesa al 3% e poi ulteriormente al 2,8% a luglio e al 2,7% ad agosto. I prezzi dei beni energetici sono scesi dello 0,3% a giugno, dell’1,8% a luglio e ancora dello 0,9% ad agosto, quelli dei prodotti alimentari non trasformati dello 0,5% a luglio e dell’1,3% ad agosto. Anche la tendenza all’aumento della core inflation mostra primi segnali di rallentamento: l’indice è aumentato in media dello 0,2% nel bimestre luglio-agosto dopo essere cresciuto mediamente dello 0,3% nei primi sei mesi dell’anno. Sembrano dunque gradualmente esaurirsi gli effetti di “secondo ordine” sull’inflazione core dei rincari dei prezzi internazionali registrati nel corso del 2000. Indicazioni in tal senso vengono anche dall’andamento dell’inflazione alla produzione: dopo i massimi toccati nell’ultimo trimestre dello scorso anno, i prezzi alla produzione hanno mostrato segnali di rallentamento nei primi sette mesi dell’anno e la loro crescita tendenziale è passata dal +4,6% di febbraio al +2,3% di luglio. La discesa dei prezzi industriali riflette essenzialmente quella dei prezzi dei beni intermedi ed energetici il cui tasso di crescita tendenziale è passato rispettivamente dal 4,1% e 11,2% di febbraio allo 0,8% e 4,0% di luglio (tab. 13). Fino agli attacchi terroristici dell’11 settembre, e ai conseguenti timori di un’impennata dei prezzi delle materie prime, anche le attese delle imprese erano volte a un rallentamento dei prezzi industriali (fig. 21). 73 Fig. 21 ATTESE DI AUMENTO DEI PREZZI INDUSTRIALI (Saldi delle risposte; dati destagionalizzati) 30 20 10 0 -10 Area dell'euro Germania Spagna Francia Italia -20 -30 1999 2000 Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat. 2001 Tab. 13 - Prezzi alla produzione nell'area dell'euro (variazioni % tendenziali) Prodotti Indice generale Beni intermedi Beni energetici Beni di consumo durevole Beni di consumo non durevole Febbraio 4,6 4,1 11,2 2,1 3,3 Marzo 4,2 3,5 9,2 2,2 3,8 2001 Aprile Maggio Giugno Luglio 4,2 3,7 3,3 2,3 2,6 1,9 1,5 0,8 11,0 9,4 7,1 4,0 2,3 2,3 2,3 2,2 3,9 3,7 3,7 3,6 Fonte: Eurostat. L’inflazione e i costi unitari in Italia. Nel primo semestre di quest’anno, anche in Italia i rincari registrati nei prodotti alimentari (+3,4%; +5% per i soli beni di origine animale) ed energetici (+8,7%) e gli effetti di “secondo ordine” sull’inflazione di fondo dei rincari dei prezzi internazionali registrati lo scorso anno hanno spinto al rialzo l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale2. L’inflazione è salita al 3% nella media dei primi sei mesi dell’anno dal 2,5% medio del 2000. Analogamente a quanto visto per L’indice per l’intera collettività nazionale (Nic) si differenzia da quello armonizzato (Ipca) principalmente per la diversa definizione di prezzo adottata: nel caso in cui il prezzo di vendita di alcune voci sia diverso da quello effettivamente pagato dal consumatore (è il caso di alcuni medicinali, per i quali c’è un contributo da parte del sistema sanitario nazionale) l’indice Nic considera il prezzo pieno di vendita, quello Ipca il prezzo effettivamente pagato. Sussistono inoltre differenze di minore rilevanza nella composizione dei panieri. 2 74 l’intera area dell’euro, le tensioni si sono gradualmente allentate all’inizio e durante l’estate; ad agosto l’inflazione si è attestata al 2,8% e la variazione mensile corretta per la stagionalità è scesa allo 0,1% dallo 0,3% di giugno. A settembre l’inflazione è ulteriormente scesa al 2,6% sulla base delle anticipazioni delle città campione. Come per l’area dell’euro, la discesa dell’inflazione negli ultimi mesi è dovuta all’andamento dei prezzi dei prodotti energetici e degli alimentari freschi, che secondo l’indice armonizzato Eurostat sono diminuiti in media nel bimestre luglio-agosto rispettivamente dell’1,5% e dello 0,1%. Anche l’inflazione core ha mostrato segni di rallentamento aumentando mediamente dello 0,2% nel bimestre luglio-agosto dopo essere cresciuta in media dello 0,3% nel primo semestre (tab. 14). Tab. 14 - Inflazione in Italia (Indice armonizzato; variazioni % tendenziali) Prodotti 2000 (1) Indice generale 2,6 Indice generale esclusi alimentari freschi e 1,9 energia Beni 2,7 Alimentari, alcool e tabacco 1,5 Alimentari conservati, alcool e tabacco 1,3 Alimentari freschi 1,8 Beni industriali 3,3 Beni industriali non energetici 1,7 Energia 11,6 Servizi 2,3 (1) Variazione media annua. 2000 III IV trim. Trim. 2,6 2,8 I trim. 2,7 2001 II trim. 2,9 LugAgo 2,8 1,9 2,0 2,0 2,5 2,6 2,9 1,8 1,1 2,5 3,5 1,7 12,5 2,3 3,1 2,2 1,3 3,4 3,5 2,0 11,8 2,2 2,8 2,9 1,5 4,9 2,8 1,9 7,5 2,5 2,9 3,9 2,6 5,5 2,4 1,9 5,0 3,1 2,5 4,5 2,9 6,8 1,6 1,9 0,1 3,2 Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat. Il differenziale tra Italia e area dell’euro in termini di core inflation, ridottosi a soli 0,2 punti percentuali in marzo (nel 2000 la differenza è stata mediamente dello 0,7%), è tornato ad ampliarsi a partire dai mesi primaverili, principalmente a causa della crescita maggiore rispetto alla media europea registrata dai prezzi dei servizi (fig. 22). Il differenziale a sfavore dell’Italia nell’andamento dei prezzi dei servizi, ridottosi tra gennaio e marzo, è aumentato di nuovo nel secondo trimestre; ciò sembra essere essenzialmente l’effetto dei forti rincari registrati nelle assicurazioni a causa del venire meno del blocco delle tariffe. Nel bimestre luglio-agosto in Italia la discesa dei prezzi del capitolo comunicazioni è stata simile a quella registrata nella media dell’area euro, dopo che il differenziale era stato costantemente sfavorevole all’Italia a partire dal 1997 . Si è anche ridotto nel corso del 2001 il differenziale nei prezzi dei beni industriali non energetici: per questi ultimi, l’inflazione ad agosto è stata pari all’1,9% contro l’1,5% dell’area euro (+1,7 e +0,7% rispettivamente nella media del 2000). 75 Fig. 22 DIFFERENZIALI DEI TASSI DI INFLAZIONE FRA ITALIA E AREA DELL'EURO (Indice armonizzato dei prezzi al consumo) 1.4 1.0 0.6 0.2 Indice generale Core inflation -0.2 -0.6 1997 1998 1999 2000 2001 2.0 1.5 1.0 0.5 0.0 -0.5 -1.0 -1.5 76 Alimentari trasformati, alcool e tabacco Beni industriali non energetici Servizi 1997 1998 1999 Fonte: Elaborazioni Csc su dati Eurostat. 2000 2001 Fig. 23 PREZZI IN LIRE DELLE MATERIE PRIME (Indici 1977=100) 700 600 Totale Combustibili Totale esclusi i combustibili 500 400 300 200 100 1995 1996 Fonte: Confindustria. 1997 1998 1999 2000 2001 L’andamento recente dei prezzi internazionali delle materie prime e, in Italia, di quelli alla produzione ha mostrato un progressivo allentamento delle tensioni inflazionistiche. Il prezzo del petrolio è sceso ad agosto a 25,8 dollari al barile, circa il 9,1% in meno rispetto ai massimi dell’anno dello scorso maggio, con un calo del 2,3% rispetto alla media del primo semestre; i prezzi in lire delle materie prime ad agosto risultavano in calo del 2,9% rispetto ad un anno prima e del 4,2% rispetto alla media del primo semestre di quest’anno (fig. 23). La discesa dei prezzi delle materie prime in lire è favorita anche dall’apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro (+5,6 ad agosto rispetto ai minimi dello scorso giugno). I prezzi alla produzione a luglio sono calati per il terzo mese consecutivo (-0,4%, dopo il -0,2 di giugno e il -0,4% di maggio), portando la variazione tendenziale all’1,4%, la più bassa dal settembre 1999. La discesa è guidata dai beni intermedi (-0,8 a luglio dopo il -0,5 e -0,4% rispettivamente di maggio e giugno), che in genere anticipano l’andamento dei prezzi dei beni finali. Le più recenti inchieste Isae mostrano attese di decelerazione dei prezzi industriali nei prossimi mesi. I costi e i margini. Nella media del 2000, i costi unitari variabili nell’industria in senso stretto sono aumentati del 6,3%, a causa soprattutto della forte crescita dei prezzi degli input (+8,6%, +4,5% sull’interno e +20,8% all’importazione), solo in parte compensata dall’andamento moderato del costo del lavoro per unità di prodotto (+0,4% nella media dell’anno). La contemporanea crescita del 6,4% del deflatore dell’output industriale (+7% i 77 prezzi all’export e +5,7% quelli interni) ha determinato un leggero aumento del markup unitario, salito in media d’anno a quota 99,4 (base 1995=100; era a 99,3 nel 1999, fig. 24). Nel corso del 2000, la crescita del prezzo dell’output industriale ha decelerato leggermente in termini congiunturali (+2,8% nel secondo semestre contro il +3,3% del primo), mentre i costi unitari hanno continuato ad accelerare (+3,2% nel secondo semestre contro il +3% del primo semestre). Il markup è quindi salito a quota 99,6 nei primi sei mesi dell’anno, per tornare poi nel secondo semestre sugli stessi livelli della fine del 1999, a quota 99,2. La tendenza all’accelerazione dei costi si è arrestata all’inizio del 2001: nel primo trimestre, il deflatore dei prezzi degli input per l’industria in senso stretto è diminuito dello 0,9% rispetto al periodo precedente e il costo del lavoro per unità di prodotto è sceso dello 0,6%. Mediamente i costi unitari variabili sono calati dello 0,8%. Anche i prezzi dell’output sono diminuiti, ma a ritmi inferiori rispetto ai costi (-0,2%): il markup unitario è così tornato ad aumentare, riportandosi in prossimità dei livelli del primo semestre dello scorso anno, a quota 99,5. Sulla base delle informazioni sull’andamento dei prezzi alla produzione (cfr. sopra), è possibile ipotizzare che la discesa dei prezzi dell’output sia proseguita anche nel secondo trimestre; in tale direzione puntano anche i recenti andamenti dei valori medi unitari all’esportazione (cfr. oltre). Dal lato dei costi, gli andamenti dei prezzi delle materie prime sui mercati internazionali e del cambio dell’euro hanno favorito nei mesi estivi la discesa dei prezzi degli input; è possibile però attendersi un’inversione di tendenza per quanto riguarda il costo del lavoro per unità di prodotto. Sulla base delle informazioni sinora disponibili, la caduta del valore aggiunto industriale nel secondo trimestre si è accompagnata ad una sostanziale stazionarietà dell’occupazione, determinando una diminuzione della produttività del lavoro; l’andamento del costo del lavoro per dipendente dovrebbe avere d’altra parte iniziato a risentire della stipula dei nuovi contratti in importanti settori dell’economia (cfr. par. 3.2). Sulla base di tali considerazioni, è possibile attendersi un calo del markup unitario nel secondo trimestre. 78 Fig. 24 COSTI UNITARI VARIABILI NELL'INDUSTRIA IN SENSO STRETTO (Indici: Base 1995=100) 115 110 105 100 Prezzi input 95 1995 1996 Fonte: Istat. 1997 Clup 1998 Costi unitari variabili 1999 2000 2001 MARKUP NELL'INDUSTRIA IN SENSO STRETTO (Indici: Base 1995=100) 100.4 100.2 100.0 99.8 99.6 99.4 99.2 99.0 98.8 1995 1996 Fonte: Istat. 1997 1998 1999 2000 2001 79 3.4 I conti con l’estero Commercio mondiale e esportazioni nette reali. Nel secondo trimestre del 2001 è proseguito il rallentamento degli scambi mondiali. Sulla base dei primi dati di export e import dei principali paesi industriali, il tasso di crescita del commercio sarebbe sceso al di sotto del 3% nel II trimestre di quest’anno dal 5,5% stimato per il I trimestre (fig. 25). Nella prima parte dell’anno l’espansione del commercio dell’area dell’euro è risultata di quasi due punti percentuali superiore a quella del resto del mondo grazie agli scambi interni all’area (3,9% nel primo semestre 2001 per gli scambi mondiali contro il 5,8% dell’area euro). Il commercio attivato dall’area dell’euro è stato di ben quattro volte superiore a quello prodotti dagli Stati Uniti e dal Giappone. Le informazioni ancora molto limitate relative al III trimestre sembrerebbero suggerire il mantenimento di ritmi di crescita del commercio sui bassi livelli del II trimestre. La ripresa della domanda mondiale, originariamente attesa per la fine dell’anno, è ora divenuta più incerta dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre. Per l’Italia l’attuale andamento delle esportazioni indicherebbe un parziale recupero delle quote di mercato nei primi tre trimestri del 2001 nei confronti dei mercati extra-Ue. Sulla base di dati ancora parziali nella prima parte del 2001 le esportazioni italiane sono cresciute rispetto al primo semestre del 2000 del 10,7% contro il 4% del commercio mondiale. Il recupero di quote è legato a fattori sia di tipo congiunturale che alla struttura delle esportazioni italiane. Tra i fattori ciclici, l’indebolimento dell’euro per tutta la prima metà dell’anno ha consentito agli esportatori italiani di aumentare i prezzi all’export in misura inferiore al deprezzamento della valuta, rendendo così più competitivi i prodotti nazionali. In più, il recupero delle esportazioni italiane nei confronti del resto del mondo può essere in parte spiegato dal fatto che il crollo della domanda mondiale e degli investimenti si è concentrato nel settore hi-tech, in cui l’Italia ricopre un ruolo marginale. Le esportazioni reali di beni e sevizi dell’area dell’euro sono cresciute nel I trimestre dello 0,3% rispetto al IV trimestre del 2000 (+8,6% sul I trimestre del 2000). Sulla base di stime ancora preliminari fornite da Eurostat sui dati di Contabilità nazionale dell’area dell’euro, le esportazioni reali avrebbero subito una flessione dell’1,2% nel II trimestre del 2001 rispetto al I trimestre (+4,8% sul secondo trimestre del 2000). Per quello che riguarda l’Italia, il profilo delle esportazioni reali di beni e servizi è risultato sin ora migliore rispetto alle valutazioni effettuate lo scorso giugno. Esse sono cresciute nel I trimestre del 2001 dell’1,4% rispetto al IV trimestre del 2000 (+12,6% sul I trimestre del 2000). Nel II trimestre è intervenuta una consistente flessione delle esportazioni in quantità: le prime stime dell’Istat indicano una caduta dell’1,3% sul trimestre precedente (+1,4% nel I trimestre 2001). 80 Fig. 25 TOTALE SCAMBI DEI PRINCIPALI PAESI INDUSTRIALI (Variazioni %) 15 10 5 0 -5 -10 Totale scambi Stati Uniti Giappone Area euro 1996 1997 1998 1999 2000 2001 I paesi considerati nel calcolo del commercio sono: Stati Uniti, Giappone, Euro 11, Regno Unito, Nics. Fonte: elaborazioni Csc su dati Thomson Financial. Le importazioni reali di beni e servizi dell’area dell’euro sono scese nel I trimestre del 2001 dell’1,1% (+6,5% sul I trimestre del 2000). Le stime per il II trimestre indicano una ulteriore flessione pari allo 0,6% (+3,1% sul II trimestre del 2000). Nella prima parte dell’anno la brusca caduta delle importazioni appare più legata al ciclo delle scorte, in forte decumulo, che alla dinamica della domanda interna. Rispetto alle informazioni dello scorso giugno, le recenti indagini sul clima di fiducia mostrano un maggiore grado di incertezza in merito ad una rapida ripresa delle componenti della domanda, soprattutto sul fronte dei beni di investimento: questo si riflette, nelle nostre stime, in un ridimensionamento del tasso di crescita delle importazioni dell’area che non supererà probabilmente il 5% quest’anno (contro il 6,5% stimato a giugno). In Italia le importazioni reali di beni e servizi sono cresciute dell’1,5% nel I trimestre del 2001 rispetto al IV trimestre del 2000 (+7,6% sul I trimestre del 2000), ad un ritmo leggermente superiore a quello della media europea. Nel II trimestre esse sono diminuite dello 0,2% (+2,6% sul II trimestre del 2000). Nel primo trimestre del 2001 le esportazioni nette reali hanno contribuito per lo 0,5% alla crescita del Pil dell’area dell’euro. Su questo risultato hanno influito l’andamento della Germania (con un contributo delle esportazioni nette pari all’1,2%) e della Francia (con un contributo dello 0,4%); nei restanti paesi dell’area il contributo è stato nullo o negativo. In Italia il contributo delle esportazioni nette alla crescita del Pil del I trimestre è stato 81 Fig. 26 ESPORTAZIONI ITALIANE DI BENI (Dati destagionalizzati; var. % congiunturali) 10 5 0 -5 verso UE verso extra UE -10 G F M Fonte: Istat. A M G L 2000 A S O N D G F M A M 2001 G nullo, mentre è stato negativo (-0,3%) nel II trimestre del 2001. Anche per l’area dell’euro le stime Eurostat relative al II trimestre indicano un contributo negativo pari allo 0,3%. Il conto corrente. Nel primo semestre del 2001 l’avanzo commerciale dell’area dell’euro, e in particolare dell’Italia è aumentato in maniera considerevole. Nell’area dell’euro il saldo merci è stato positivo per 26,3 miliardi di euro (14,4 miliardi di euro in più rispetto al primo semestre 2000). In Italia esso è stato positivo per 7,5 miliardi di euro (4,4 miliardi in più rispetto al primo semestre 2000). In Italia il miglioramento dei saldi riflette gli effetti ritardati del deprezzamento dell’euro sulle quantità scambiate e la discesa del prezzo del petrolio. Nei confronti dei paesi extra Ue il saldo del primo semestre 2001 calcolato dall’Istat sui dati doganali è stato pari a 1,2 miliardi di euro (682,7 milioni di euro nel primo semestre del 2000): il miglioramento dell’avanzo è stato più forte nei confronti dei paesi dell’Efta, del Mercosur e dell’Europa Centro Orientale (fig. 26). Lo scorso luglio l’avanzo commerciale nei confronti dei paesi extra Ue ha subito un lieve arretramento. Rispetto a giugno 2001, al netto della stagionalità, le esportazioni sono diminuite del 4,4% e le importazioni sono diminuite dello 0,7%. 82 Nel primo trimestre del 2001 le ragioni di scambio italiane sono migliorate dell’1,3% rispetto al trimestre precedente: i valori medi unitari all’import sono diminuiti dell’1,8% mentre quelli all’export hanno subito una flessione dello 0,5%. Sulla base di dati ancora parziali il miglioramento delle ragioni di scambio dovrebbe essere proseguito anche nel II trimestre del 2001. Le nostre stime indicano un incremento del 2,3% sul primo trimestre ottenuto da un incremento dei valori medi unitari all’export pari all’1,7% e da una ulteriore flessione dei valori medi unitari all’import dello 0,6%. Questi andamenti si legano alla flessione dei prezzi delle materie prime intervenuta in modo considerevole nello scorso trimestre e a un cambio con il dollaro che sino ad agosto ha continuato ad essere favorevole agli esportatori italiani ed europei. Il miglioramento delle ragioni di scambio ha consentito di ottenere un saldo merci in progressivo miglioramento nella prima parte dell’anno, grazie soprattutto agli scambi esterni all’area dell’euro. Nel primo semestre dell’anno il saldo della bilancia commerciale della Germania è stato positivo per 39,8 miliardi di euro con un miglioramento di 7,1 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il buon andamento dei saldi in Germania non sembra però derivare tanto dal miglioramento delle ragioni di scambio (contrariamente a ciò che sembra avvenire in Italia dove il recupero delle ragioni di scambio continua a essere maggiore che in Germania; cfr. fig. 27) quanto da una caduta delle importazioni in quantità che supera notevolmente quella delle esportazioni. Le informazioni più recenti relative al dettaglio dell’interscambio settoriale e geografico dell’Italia si fermano al I trimestre del 2001. In questo arco di tempo il surplus manifatturiero nei confronti dei paesi extra euro è stato di 9,6 miliardi di euro (8,9 nello stesso periodo del 2000): il maggior avanzo è stato realizzato nei confronti di Brasile, Messico e Russia. Il miglioramento dei saldi ha riguardato il settore delle macchine e degli apparecchi meccanici (soprattutto nei confronti di Stati Uniti, Cina e Europa Centro Orientale), il settore tessile e dell’abbigliamento e dei prodotti in cuoio e in pelle. Il saldo del totale manifatturiero nei confronti dei paesi dell’area dell’euro è risultato ancora negativo per 0,8 miliardi di euro (-1,5 miliardi nello stesso periodo del 2000; cfr. tab. 15). Su questo risultato ha pesato soprattutto l’interscambio dei prodotti chimici, delle macchine elettriche e di precisione, dei mezzi di trasporto e dei prodotti alimentari. Nel primo trimestre del 2001 i saldi positivi che caratterizzano la manifattura tradizionale italiana sono migliorati solo nel settore della lavorazione del cuoio e della pelle rispetto al primo trimestre 2000. I prodotti del “made in Italy” sembrano tenere in misura maggiore all’esterno piuttosto che all’interno dell’area dell’euro. Tuttavia, la caduta della domanda e la svalutazione delle divise nei paesi asiatici stanno influendo negativamente sui saldi commerciali di alcuni settori, come il chimico e il siderurgico. 83 Tab. 15 - Saldi dell’attività manifatturiera (Milioni di euro) Classificazione Ateco A-PRODOTTI DELL'AGRICOLTURA, CACCIA E SILVICOLTURA CA-MINERALI ENERGETICI CB-MINERALI NON ENERGETICI D-PRODOTTI TRASFORMATI E MANUFATTI DA-Prodotti alimentari, bevande e tabacco DB-Prodotti dell'industria tessile e abbigliamento DC-Cuoio e prodotti in cuoio, pelli e similari DD-Legno e prodotti in legno DE-Pasta da carta, carta e prodotti di carta; prodotti di editoria e stampa DF-Coke, Prodotti petroliferi raffinati e combustibili nucleari DG-Prodotti chimici e fibre sintetiche e artificiali DH-Articoli in gomma e materie plastiche DI-Prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi DJ-Metalli e prodotti in metallo DK-Macchine ed apparecchi meccanici DL-Macchine ed apparecchiature elettriche, ottiche e di precisione DM-Mezzi di trasporto DN-Altri prodotti delle industrie manifatturiere E-ENERGIA ELETTRICA,GAS E ACQUA ALTRI TOTALE Area euro 1999 2000 2000(*) -1721,6 -1650,4 -223,1 2001(*) -177,8 1999 -3194,4 Area extra euro 2000 2000(*) -3626,6 -650,2 2001(*) -552,2 -237,9 -796,3 -165,7 -189,9 -1861,5 -6144,6 -155,0 -21,6 2530,1 -194,8 -33,7 -544,6 -13270,2 -1139,0 36111,1 -26496,5 -1547,4 42835,9 -3668,8 -232,5 1431,9 -4551,5 -240,5 5561,3 -4537,1 -5273,2 7261,7 7530,7 -373,9 1452,6 -744,9 1241,7 943,1 5463,0 1273,6 6317,9 -55,9 406,9 38,4 858,5 3490,3 3544,1 555,8 684,6 3453,2 4126,9 484,9 635,5 -783,9 -683,2 -921,7 -645,5 -78,1 -4,6 -122,3 -116,8 -867,5 -509,4 -944,6 -653,9 -198,7 -215,1 -174,2 -124,9 284,6 535,4 89,3 106,3 -841,9 -752,8 -274,7 -96,2 -9516,0 -10352 -1249,9 -1314,6 891,0 1340,1 -198,0 81,6 1792,6 2322,1 1856,1 2259,1 396,0 323,2 318,6 340,6 1643,2 3501,4 2077,0 4080,6 78,4 449,9 320,4 554,2 236,3 -322,4 8635,9 8500,3 -7122,3 -9426,8 388,3 1827,1 -927,1 -1,5 1322,7 -1583,4 -3072,9 18860,0 -2241,6 -4771,3 21556,2 -2335,8 -1259,3 2032,1 -831,0 -957,9 3342,7 -89,5 -7487,2 -7680,3 4244,8 4251,4 -671,5 802,7 -1321,3 645,8 1761,8 7127,6 2736,8 8785,3 108,7 903,9 -38,0 1210,9 -471,4 -587,1 15 -415 -4442,9 -9782,9 -79,4 -46 2004,6 -118,2 -84 -1153,0 -928,9 890 18468,2 -890,0 903 11178,2 -153,9 121 -3152,0 -164,5 64 116,3 (*) Saldi cumulati 1° trimestre 2000-2001. Fonte: Istat. Nel primo semestre del 2001 il saldo di conto corrente dell’area dell’euro è progressivamente migliorato: esso è stato pari a -11,2 miliardi di euro (-20,7 miliardi nella prima metà del 2000). Nello stesso periodo il saldo merci è stato positivo per 26,3 miliari di euro (11,9 nei primi sei mesi del 2000), quello dei servizi negativo per 2,3 miliardi di euro (-2,6 tra gennaio - giugno 2000). Il miglioramento del conto merci, che lo scorso giugno avevamo stimato proseguire anche nella seconda metà dell’anno, risulta, nel nuovo scenario, più incerto poiché legato ai corsi petroliferi, la cui domanda rimane nel breve periodo rigida. Lo scorso 12 settembre il prezzo del petrolio ha toccato i 30 dollari al barile per poi tornare ad oscillare tra i 27,5 e i 28 dollari. A compensazione di questi incrementi gli importatori italiani ed europei potrebbero essere favoriti da un euro più forte nei confronti del dollaro già a partire dai mesi autunnali. Tra gennaio e giugno 2001 il saldo di conto corrente dell’Italia è stato pari a -4 miliardi di euro (-5,8 miliardi di euro nel primo semestre del 2000): a fronte di un consistente aumento del saldo del conto merci (7,5 miliardi di 84 Fig. 27 RAGIONI DI SCAMBIO IN ITALIA E GERMANIA (Indici Base 1995=100, medie mobili a 3 termini) 110 105 100 95 Italia Germania 90 1995 1996 1997 Fonte: Thomson Financial. 1998 1999 2000 2001 euro contro i 3,1 accumulati tra gennaio e giugno 2000), il saldo del conto servizi è peggiorato di 1 miliardo di euro. Il disavanzo dei redditi da capitale è peggiorato di 1,4 miliardi di euro. Anche lo scorso luglio è proseguito il miglioramento del saldo di conto corrente (+60 milioni di euro rispetto al luglio 2000). In modo difforme rispetto alla dinamica dei mesi precedenti il miglioramento non è stato determinato dal saldo merci ma dall’aumento del saldo servizi e dalla riduzione dei saldi negativi dei redditi e dei trasferimenti unilaterali. Il conto finanziario e gli investimenti diretti esteri. Nell’area dell’euro l’avanzo del conto finanziario è stato pari a 4,5 miliardi di euro nei primi sei mesi dell’anno (+49,6 nello stesso periodo del 2000). Le uscite nette hanno principalmente riflesso maggiori deflussi netti di investimenti diretti (-91,1 miliardi di euro contro i +129,6 tra gennaio e giugno 2000). Questo deflusso netto è da attribuire principalmente ad una singola acquisizione avvenuta tramite uno scambio di azioni. Nella prima metà dell’anno gli investimenti nell’area sono stati pari a 41,7 miliardi di euro, mentre gli europei hanno investito all’estero per 132,8 miliardi di euro. Nel solo primo trimestre del 2001 dei 58,9 miliardi di euro investititi all’estero oltre due terzi si sono rivolti agli Stati Uniti, prevalentemente da parte di Francia, Olanda e Germania (fig. 28). 85 Fig. 28 FLUSSO DI INVESTIMENTI DIRETTI TRA STATI UNITI E AREA EURO (Miliardi di dollari a prezzi correnti) 60 50 Area euro verso Usa Usa verso area euro 40 30 20 10 0 -10 1995 1996 1997 1998 Fonte: US Bureau of Economic Analysis. 1999 2000 2001 Diversamente dall’andamento degli investimenti diretti i recenti dati sugli investimenti di portafoglio suggerirebbero una progressiva diminuzione di deflussi di fondi dall’area dell’euro. Inoltre, nella prima metà del 2001 sembra essersi modificato il profilo dei flussi di capitale. Infatti, gli investimenti di portafoglio in titoli azionari hanno registrato un afflusso netto di 63,8 miliardi di euro (-226 miliardi di euro nel primo semestre 2000). Per contro, gli strumenti di debito sono passati nello stesso periodo da un afflusso netto nel 2000 ad un considerevole deflusso netto (di 70,3 miliardi di euro). Queste inversioni dei flussi di capitale sono in parte riconducibili alle riduzioni effettuate e attese dei tassi negli Stati Uniti. In Italia il saldo del conto finanziario è stato positivo per 3 miliardi di euro nei primi sei mesi del 2001 (+9 nei primi sei mesi del 2000). In questo periodo il flusso cumulato di investimenti diretti in entrata è stato pari a 7,7 miliardi di euro (4,26 tra gennaio e giugno 2000), quello in uscita pari a 16,2 miliardi di euro (2,5 tra gennaio e giugno 2000). Nella prima metà del 2001 gli investimenti di portafoglio hanno evidenziato afflussi netti per 5,8 miliardi di euro (-0,9 miliardi di euro bei primi sei mesi del 2000). In particolare, gli operatori esteri hanno diminuito gli investimenti su titoli di debito a medio/lungo termine ed hanno ridotto lo smobilizzo di azioni italiane. Sui mercati esteri le operazioni dei residenti 86 hanno registrato una contrazione degli investimenti in azioni parzialmente bilanciata da un aumento delle operazioni su titoli di debito a medio/lungo termine. Lo scorso luglio il conto finanziario ha presentato un saldo negativo di 3,1 miliardi di euro, rimanendo sostanzialmente invariato rispetto a quello registrato nel corrispondente mese del 2000. Il saldo degli investimenti di portafoglio potrebbe essere influenzato all’inizio del 2002 da un provvedimento fiscale che sarà incluso nel “pacchetto dei 100 giorni”. L’intento è di far rientrare i capitali italiani esportati per motivi fiscali, in occasione del passaggio “fisico” all’euro. Il provvedimento si configurerebbe come un’imposta sostitutiva, del tipo una tantum, da applicare ai capitali non dichiarati al fisco al momento dell’esportazione di cui sarebbe possibile avvalersi nei primi due mesi del 2002 (cfr. riquadro: I provvedimenti dei 100 giorni). 3.5 La politica monetaria Nel corso del 2001, e prima dei fatti dell’11 settembre, il rapido deterioramento del quadro economico aveva spinto la Banca Centrale Europea a una modesta riduzione dei tassi di interesse ufficiali. Dopo il calo di un quarto di punto intervenuto a metà maggio, che aveva portato il tasso repo al 4,5%, la Bce era nuovamente intervenuta a fine agosto, abbassandolo sempre di un quarto di punto, al 4,25%. Il comunicato che accompagnava l’ultima riduzione dei tassi ufficiali segnalava in qualche modo una svolta nell’atteggiamento di estrema cautela con cui la Banca centrale procedeva nella riduzione dei tassi ufficiali. In un momento in cui il quadro economico di riferimento si andava velocemente deteriorando e in tutte le principali economie era stato intensificato il processo di allentamento monetario (nello stesso arco di tempo la Federal Reserve aveva ridotto il tasso sui Federal funds di 3 punti), la Bce, nel suo comunicato, riconosceva implicitamente che i maggiori rischi per l’economia dell’area dell’euro derivavano dal rallentamento congiunturale piuttosto che dall’inflazione. Questo segnalava indirettamente la possibilità di nuove riduzioni dei tassi ufficiali entro fine di questo anno a sostegno del ciclo economico. Nel nostro precedente scenario, che incorporava un apprezzamento del cambio dell’euro, assumevamo un allentamento delle condizioni monetarie in tempi stretti. A favore di un’ulteriore riduzione dei tassi ufficiali operava la discesa dell’inflazione e l’aspettativa di un suo ritorno al di sotto del 2% nel corso del 2002. Sul fronte dell’inflazione, infatti, le aspettative erano radicalmente mutate, grazie al calo del prezzo del petrolio e al brusco rallentamento dell’attività produttiva; inoltre, nella prima metà del prossimo anno i consumi delle famiglie e gli investimenti avrebbero continuato a risentire dell’effetto negativo della caduta dei corsi azionari 87 (che per l’area dell’euro il Fmi stima in circa due centesimi di riduzione sia dei consumi sia degli investimenti per ogni dollaro di riduzione della capitalizzazione di borsa). L’accelerazione in corso della moneta M3, che dopo essere ritornata a crescere a inizio anno attorno a tassi del 4,5% aveva ripreso ad accelerare, non sembrava dover preoccupare più di tanto la Banca centrale. L’aumento della crescita della moneta (che in parte riflette l’esistenza di distorsioni al rialzo nel calcolo di M3 per circa tre quarti di punto) non sembrava infatti preludere a futuri incrementi di inflazione: la rapida espansione monetaria era infatti spiegata in larga parte da fattori finanziari piuttosto che reali; in particolare essa segnalerebbe un aumento della preferenza per la liquidità da parte degli investitori in presenza di condizioni di mercato più incerte. I recenti avvenimenti negli Usa hanno spinto la Bce ad accelerare la riduzione dei tassi. L’attacco terroristico ha infatti aumentato l’incertezza sulle prospettive dell’economia globale, esercitando un’influenza negativa sulla fiducia di imprese e famiglie anche nell’area dell’euro. Il 17 settembre, come ricordato nel capitolo precedente, la Bce ha ridotto di mezzo punto, al 3,75%, il tasso repo, in evidente sintonia con la Federal Reserve; in precedenza la Banca era intervenuta sul mercato mettendo a disposizione degli istituti finanziari volumi più ingenti di liquidità. Dopo la riduzione permangono sui mercati attese di ulteriori riduzioni dei tassi di interesse. Nel giudizio dei mercati, l’effetto degli attacchi terroristici sarà con ogni probabilità di condurre, nel breve periodo, a un’ulteriore brusca caduta dell’attività produttiva negli Stati Uniti, le cui ripercussioni si faranno sentire su tutta l’economia mondiale; queste ripercussioni operano anche attraverso i mercati di borsa, che, come è stato descritto nel capitolo precedente, hanno accusato in Europa delle flessioni addirittura superiori a quelle registrate negli Stati Uniti. La stabilizzazione del prezzo del petrolio, il proseguimento della moderazione salariale e la prevista flessione anche nell’area dell’euro dell’attività produttiva, dovrebbe condurre nel nostro nuovo scenario a una riduzione di almeno mezzo punto dei tassi ufficiali; il tasso repo scenderebbe in questo modo al 3,25% entro fine anno. E’ evidente che sulle future decisioni di politica monetaria della Banca centrale peseranno in misura ancor più rilevante del passato gli orientamenti delle politiche di bilancio dei paesi membri. In un momento in cui molti paesi dell’area dell’euro sono in difficoltà nel rispettare l’obiettivo di bilancio del 2001, e alla luce dei mutamenti indotti al quadro economico mondiale dagli eventi recenti, la Bce ha sottolineato (nel suo ultimo bollettino economico) che il Patto di stabilità consente ai Paesi membri margini di manovra e di flessibilità ancorché molto limitati. Fermo restando che tutti i paesi devono proseguire sulla strada del risanamento fiscale senza abbandonare le scadenze che si sono imposte per giungere al pareggio di bilancio, la Bce ha chiarito in sostanza che la possibilità di usare pienamente gli stabilizzatori automatici esiste solo per i paesi che hanno un 88 bilancio vicino al pareggio o in attivo; questo significa che gli altri paesi dovranno limitare l’eventuale scostamento dai target di bilancio. 3.6 La finanza pubblica Area euro. Nel 2001 il disavanzo pubblico dei paesi dell’area dell’euro dovrebbe registrare un peggioramento più accentuato di quello che veniva previsto qualche mese fa. Nell’aprile scorso la Commissione Ue stimava in leggero aumento, da 0,7% del Pil nel 2000 a 0,8% nel 20013, l’indebitamento netto della Pubblica Amministrazione (Pa) nel complesso dei paesi euro; la media degli obiettivi dei programmi di stabilità stabiliva invece una discesa a 0,6% del Pil. Il peggioramento era attribuito soprattutto al rallentamento del ciclo economico e alle misure di riduzione della pressione fiscale adottate in vari paesi e in gran parte rifletteva l’evoluzione negativa in cinque paesi: Irlanda, Lussemburgo, Olanda e Finlandia, dove era prevista una riduzione dell’avanzo, e Germania dove era previsto un aumento del disavanzo da 1 a 1,7% del Pil (anziché all’1,5% indicato dal programma tedesco di stabilità). Per l’Italia la Commissione prevedeva una riduzione dell’indebitamento, da 1,5% del Pil nel 2000 a 1,3% nel 2001 (ma l’obiettivo indicato dal programma italiano di stabilità era 0,8%). Le analisi effettuate prima dell’11 settembre già convergevano nel prevedere che nel 2001 il disavanzo pubblico dei paesi euro non avrebbe rispettato gli obiettivi previsti. Secondo alcuni centri di analisi, il disavanzo dei medio dell’area dell’euro potrebbe arrivare anche a 1,4% del Pil (tab. 16). Particolarmente critica appare la posizione di Italia, Germania, Francia e Portogallo, che presentano ancora un saldo di bilancio negativo e che molto probabilmente non rispetteranno gli obiettivi concordati con la Commissione Ue. Riguardo la Germania, le previsioni governative indicano che il rapporto deficit/Pil dovrebbe attestarsi intorno all’1,7%, un valore non lontano dall’obiettivo; peraltro, il piano di stabilità della Germania già incorporava il peggioramento del livello dell’indebitamento dovuto alla riforma fiscale. Diversi centri di previsione stimano però che il disavanzo tedesco potrebbe collocarsi intorno al 2% del Pil (tab. 16). Anche per la Francia si prevede uno scarto di circa mezzo punto rispetto all’obiettivo stabilito nel Patto di stabilità. Francia e Germania comunque confermano l’obiettivo, di medio termine, di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2004. La situazione dell’Italia si differenzia da quella tedesca e francese: allo scostamento dall’obiettivo concordato, si aggiunge uno stock di debito di gran lunga superiore a quello degli altri paesi. Il peggioramento delle previsioni di finanza pubblica riflette, nella maggioranza dei casi, la revisione al ribasso delle previsioni di crescita; l’ulteriore deterioramento delle prospettive di crescita dell’economia americana non potrà che peggiorare il quadro. I paesi europei dovranno far fronte a incrementi nelle spese per la sicurezza e, data la fase ciclica, 3 Al netto dei proventi della vendita delle licenze Umts. 89 sarebbe controproducente aumentare la pressione fiscale. E’ quindi probabile che nel 2002 il deficit di bilancio dei paesi euro non si ridurrà, ma tenderà a rimanere sui livelli raggiunti nel 2001. Il problema generale che si pone è legato all’operare degli stabilizzatori automatici che, nelle fasi di rallentamento del ciclo economico, generano un aumento del livello dell’indebitamento (o una diminuzione del surplus). La situazione diventa particolarmente complessa proprio per i paesi che non hanno ancora raggiunto una posizione di pareggio o di surplus di bilancio. In questo caso infatti, per rispettare gli obiettivi stabiliti, dovrebbero essere attuate politiche di bilancio pro-cicliche (es. tagliare la spesa, aumentare le tasse o alternativamente sospendere eventuali sgravi fiscali già pianificati). Così facendo, aumenterebbero le probabilità di raggiungere l’obiettivo prefissato ma correrebbero il rischio che il rigore della politica fiscale generi ulteriori effetti negativi sul ciclo economico. Le regole poste dal Patto di stabilità non impediscono ai governi di lasciar operare (nel breve termine) gli stabilizzatori automatici purché venga rispettata la soglia del 3% del rapporto deficit/Pil4. Questa regola va letta però contestualmente all’obiettivo di raggiungimento (nel medio termine) del pareggio o surplus di bilancio: infatti nei paesi in cui le finanze pubbliche sono già state risanate, la possibilità che l’operare degli stabilizzatori automatici nei periodi di rallentamento economico possa portare allo sfondamento del 3% è abbastanza limitata. Fatti, quindi, salvi gli obiettivi di medio termine, rimane aperto il problema dell’ammissibilità degli scostamenti dagli obiettivi di breve periodo (cioè dal sentiero di aggiustamento), la cui valutazione rimane a discrezione della Commissione e dell’Ecofin. Un modo di affrontare il problema può essere di valutare le politiche di bilancio utilizzando indicatori che depurino i livelli d’indebitamento dalle fluttuazioni del ciclo. Tali indicatori, se usati con le dovute cautele, possono contribuire a evidenziare la natura delle azioni poste in essere dai singoli governi (se di tipo espansivo o di consolidamento) e possono pertanto essere uno strumento utile per garantire che il meccanismo di sorveglianza multilaterale funzioni in modo efficace. Il calcolo dei saldi strutturali di bilancio (ovvero i saldi corretti per l’impatto congiunturale) comporta però l’utilizzo di metodologie statistiche sulle quali vi sono ancora margini incertezza. Regole sono poste solo per il caso in cui il rapporto deficit/Pil superi il 3%: in tal caso il paese in questione deve creare un deposito infruttifero da versare alla Ue. Tale deposito è formato da una parte fissa, pari allo 0,2% del Pil e una variabile, pari allo 0,1% del Pil per ogni punto percentuale o frazione di punto di sfondamento rispetto al 3%. Fa eccezione il caso in cui il deficit eccessivo sia dovuto a cause straordinarie: ovvero ad una calamità naturale o una recessione grave, definita come una diminuzione del Pil di almeno il 2% reale annuo. Se la recessione è compr esa fra lo 0,75% e il 2% del Pil, è l'Ecofin che decide se applicare o no le sanzioni. 4 90 Tab. 16 – Programmi di stabilità e convergenza: obiettivi e previsioni a confronto (saldi di bilancio in % del Pil) Obiettivi 2002 0,3 -1 1,5 0,2 -0,6 3,8 -0,5 2,5 0,6 0,0 -0,7 4,4 -0,3 Ue1 (aprile 2001) 2001 0,5 (0,6) -1,7 0,0 0,1 -1,1 (-0,6) 3,9 -1,3 4,0 0,8 -0,7 -1,5 5,3 -0,8 (-0,7) 2002 0,7 -1,2 0,6 0,2 -0,8 3,6 -1,0 3,0 1,4 0,0 -1,5 5,2 -0,4 Fmi2 (maggio 2001) Belgio Germania Grecia Spagna Francia Irlanda Italia Lussemburgo Paesi Bassi Austria Portogallo Finlandia Area euro 2001 0,2 -1,5 0,5 0,0 -1,0 4,3 -0,8 2,6 0,7 -0,8 -1,1 4,7 -0,6 2001 0,3 -2,0 0,5 -0,6 3,7 (3,5) -1,3 (-1,5) 4,2 0,7 (0,5) -0,7 -1,5 5,5 -0,8 Danimarca Svezia Regno Unito Eu-15 Fonte: 1. Previsioni 2,8 2,6 2,9 (3,2) 2,9 3,5 2.0 3,9 3,4 0,6 -0,1 1,0 0,9 -0,2 -0,1 -0,3 (0,2) 0,0 di primavera della Commissione Ue 2002 0,3 -1,5 1,2 0,2 -0,8 3,6 -1,2 4,6 1,0 -1,4 5,5 -0,6 Ocse3 (giugno 2001) 2001 0,7 -1,7 0,0 0,0 -0,5 4,5 -1,3 3,6 1,3 -0,6 -1,2 5,3 -0,6 2002 0,7 -1,2 0,7 0,1 -0,8 4,5 -1,2 3,4 1,6 0,0 -1,1 5,6 -0,4 GoldmanSachs (luglio/agosto 2001) 2001 2002 -2,1 -1,8 0,0 0,2 -1,5 -1,7 -1,5 -1,0 1,0 1,3 -1,2 -0,9 JP Morgan (agosto 2001) 2001 -2,1 0,8 -1,6 -2,3 -1,4 2,8 2,5 2,9 2,9 2,6 2,3 3,2 3,0 3,6 3,4 3,1 2,9 1,3 0,3 1,2 0,9 0,6 -0,2 -0,3 -0,3 -0,2 -0,1 (2001); i dati in parentesi sono gli aggiornamenti al 5 2002 -1,9 0,4 -1,6 -1,6 -1,2 luglio 2001; 2. World Economic Outlook (Fmi); i dati in parentesi sono quelli relativi alla consultazioni effettuate dal Fmi in luglio e agosto presso i rispettivi paesi; 3. Oecd Economic Outlook (Ocse). Inoltre, il ricorso ai saldi strutturali non fornisce indicazioni su un altro obiettivo importante: quello della stabilità nel tempo del risanamento dei conti pubblici. Più in generale, quindi, nella valutazione delle politiche di bilancio dei paesi membri da parte della Commissione, dovrebbe assumere un maggior rilievo un’analisi della qualità del percorso di aggiustamento, come è stato di recente sottolineato da esponenti politici di alcuni paesi membri. A questo proposito l’evidenza empirica mostra che il ricorso a tagli delle spese (basati su riforme strutturali) comporta un consolidamento più duraturo delle finanze pubbliche rispetto ai casi in cui lo sforzo di risanamento faccia leva sul lato delle entrate. Italia: tendenziali 2001 e 2002. In Italia, il 2001 dovrebbe segnare una battuta di arresto nel percorso di riduzione del disavanzo pubblico. Il non favorevole andamento dei conti pubblici è segnalato dall’evoluzione del fabbisogno del settore statale, che nei primi otto mesi dell'anno è risultato pari a circa 41.000 miliardi, in riduzione rispetto ai 51.000 miliardi registrati nel primo semestre, ma sempre superiore (+11.544 miliardi) al fabbisogno del periodo gennaio-agosto 2000. Tra gennaio e luglio gli incassi tributari dello Stato sono stati pari a 339.577 miliardi, con un incremento del 6,1% rispetto ai primi sette mesi del 2000 (tab. 17). Sul confronto temporale giocano però alcune discrepanze contabili: le entrate che a tutto luglio risultavano giacenti in Tesoreria nei “Fondi della riscossione”, cioè versate ma non ancora contabilizzate negli appropriati capitoli di Bilancio, 91 sono pari 8.967 miliardi contro i 21.887 dell’anno scorso. Al buon andamento delle entrate si affianca un forte aumento delle uscite che, sempre nei primi sette mesi, sono risultate pari a 419.734 miliardi, +10,9% rispetto al corrispondente periodo del 2000. Anche il fabbisogno del complesso delle Amministrazioni pubbliche risulta in peggioramento. Nel primo semestre esso è risultato di 53.660 miliardi, contro i circa 45.200 del corrispondente periodo dello scorso anno (tab.17). Nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef) il fabbisogno del settore pubblico per l’intero anno è previsto in 93.000 miliardi, 27.800 in più rispetto al 2000; se nei prossimi mesi risulteranno però confermate le tendenze positive registrate nei mesi di estivi, il saldo finale dell’anno potrebbe ridursi a 73-75.000 miliardi. Tab. 17 – Italia, fabbisogno delle Amministrazione pubbliche (miliardi di lire) Voci 1999 2000 2001 gen-lug ago-dic. totale gen-lug ago-dic. totale gen-lug (1) Entrate bilancio dello Stato 320.457 364.231 684.688 342.004 338.170 680.174 366.619 di cui: tributarie (*) 292.523 309.693 602.216 319.958 292.052 612.010 339.577 (2) Uscite bilancio dello Stato 383.639 366.764 750.403 378.375 324.612 702.987 419.734 correnti 349.837 301.373 651.210 342.123 293.541 635.664 365.658 in c/capitale 33.802 65.390 99.192 36.253 31.071 67.324 54.077 Saldo bilancio dello Stato (1-2) -63.183 -2.532 -65.715 -36.373 13.560 -22.813 -53.116 Altre operazioni delle Amm. centrali 20.761 41.089 61.850 -8.732 -8.109 -16.841 di cui: Fondi speciali della riscossione (+) 44.423 -44.654 -231 21.887 -24.068 -2.181 8.967 I sem. II sem. Totale I sem. II sem. totale I sem. Fabbisogno Pa -79.086 63.344 -15.742 -51.741 133 -51.609 -51.505 Dismissioni e altri proventi straordinari 786 43.053 43.839 120 29.831 29.951 8.365 Regolazione debiti pregressi -4.518 -7.600 -12.118 -6.630 -2.275 -8.904 -6.221 Fabbisogno Pa netto -75.354 27.891 -47.463 -45.231 -27.423 -72.656 -53.660 (*) Le entrate tributarie del bilancio dello Stato riportate in questa tavola non corrispondono all’ammontare dei tributi erariali effettivamente versati. I flussi mensili sono, infatti, rilevati al momento della contabilizzazione in bilancio che, dal maggio del 1998, non avviene più contestualmente al versamento. A partire da tale data, i principali tributi erariali vengono versati in Tesoreria (nella contabilità speciale “Fondi della riscossione”) e solo successivamente contabilizzati nei relativi capitoli del bilancio dello Stato. (+) I flussi riportati in questa voce indicano le variazioni delle giacenze di entrate nella contabilità speciale. Un flusso positivo indica un aumento delle giacenze (le entrate versate sono superiori a quelle contabilizzate in bilancio). Un flusso negativo una riduzione delle giacenze (le contabilizzazioni superano i versamenti). Fonte: elaborazione su dati Banca d’Italia. Il Dpef per gli anni 2002-2006, presentato dal governo a metà luglio, stima in 45.000 miliardi (1,9% del Pil) l’indebitamento tendenziale della Pa per l´anno in corso, evidenziando un rilevante scostamento rispetto alle previsioni formulate nella Relazione previsionale e programmatica (Rpp) del settembre scorso (indebitamento pari a 19.500 miliardi, corrispondenti a 0,8% del Pil) e nella Relazione trimestrale (Rtc) di aprile 2001 (24.500 miliardi e 1% del Pil). Nelle previsioni del Dpef lo scostamento risulta in gran parte determinato dalla revisione verso l’alto della crescita delle spese (+23.500 rispetto alla Rpp, +19.500 rispetto alla Rtc, tab. 18), mentre le entrate tendenziali complessive sarebbero solo marginalmente minori rispetto a quelle inizialmente previste (-2.000 miliardi rispetto alla Rpp, 1.400 rispetto alla Rtc, tab.18). 92 Tab. 18 - Conto economico della Pa, previsioni e obiettivi per il 2001-2002 (in miliardi di lire) 2000 Consuntivo 2001 Rpp Ott. 2000 ENTRATE Correnti Tributarie - imposte dirette - imposte indirette Contributi sociali Altre entrate correnti In c/capitale - non tributarie - imposte in c/c Entrate totali di cui: fiscali Pressione fiscale USCITE Correnti Redditi lavoro dip. Consumi intermedi, pr. soc. in natura Prestazioni sociali Altre correnti Interessi In c/capitale Uscite totali Uscite corr. netto interessi Indebitamento netto In % Pil Saldo primario In % Pil 1.024.095 668.067 326.883 341.184 287.344 68.684 8.585 1.066.800 703.710 347.100 356.610 290.390 72.700 18.300 16.100 1.032.680 955.411 42,3 1.085.100 994.100 984.353 235.874 Rtc 2002 Dpef lug. 2001 Apr. 2001 Tendenziale Programm. Dpef lug. 2001 Tendenziale Programm. 1.068.500 696.500 336.000 360.500 300.000 72.000 16.000 13.800 2.200 1.084.500 998.700 42,0 1.071.600 696.900 345.000 351.900 300.200 74.500 11.500 17.000 1.083.100 998.800 42,0 998.600 42,0 1.010.400 243.100 1.022.000 246.000 1.036.400 247.300 1.074.700 250.300 161.346 377.115 63.892 146.126 82.637 1.066.990 156.500 398.900 68.100 143.800 94.200 1.104.600 166.500 394.000 67.000 148.500 87.000 1.109.000 173.700 394.300 67.700 153.400 91.700 1.128.100 184.300 414.700 74.000 151.400 92.100 1.166.800 838.227 866.600 873.500 883.000 -34.310 -1,5 111.816 5,0 -19.500 -0,8 124.300 5,3 -24.500 -1,0 124.000 5,2 -45.000 -1,9 108.400 4,6 148.500 90.700 1.112.300 726.700 357.000 369.700 310.000 75.600 12.300 10.700 1.600 1.124.600 1.038.300 41,7 17.300 1.053.500 42,0 150.800 96.100 923.300 -19.900 -0,8 128.600 5,4 -42.200 -1,7 109.200 4,4 -13.700 -0,5 137.100 5,5 Fonte: Dpef 2002-06, Relazione previsionale e Programmatica, settembre 2000; Relazione trimestrale di cassa, aprile 2001. L’indebitamento netto sarebbe però molto inferiore al fabbisogno. Il Dpef non scioglie il dubbio, sollevato dalla Banca d’Italia, se il crescente sfasamento tra questi due saldi5 non rifletta solo una mera accelerazione dei pagamenti e un rallentamento degli incassi, ma anche un peggioramento strutturale dei conti, nel senso che la differenza possa essere in parte dovuta a voci che non sono state ancora contabilizzate nella competenza. Il Documento riporta una tavola che espone le poste contabili del raccordo fra fabbisogno del settore pubblico e indebitamento della Pa, ma non fornisce elementi di analisi che consentano una migliore comprensione di tale raccordo e, soprattutto, che consentano di valutare il rischio che l’indebitamento tendenziale per il 2001 risulti alla fine superiore all’1,9% del Pil. Ci si limita a sottolineare che le voci del raccordo tra indebitamento La differenza tra i due saldi era stata di 12-13.000 miliardi nel biennio 1998-99, è salita a quasi 31.000 miliardi nel 2000 ed è prevista pari a 48.500 miliardi nel 2001. 5 93 netto di competenza e fabbisogno di cassa “contengono un elevato grado di incertezza”. Gran parte dello sfondamento degli obiettivi di spesa sarebbe dovuto alle uscite per acquisti di beni e servizi della Pa e per prestazioni sociali in natura,6 17.200 miliardi in più rispetto alle previsioni della Rpp (tab. 18); questa voce di spesa era stata incrementata di 10.000 miliardi già con la Relazione trimestrale di cassa di aprile. Non avrebbe finora dato i risultati sperati la centralizzazione dei contratti per la fornitura di beni e servizi alla Pubblica Amministrazione. Secondo dati del Ministero del Tesoro, il risparmio ottenuto attraverso le convenzioni stipulate dalla Consip, l’Agenzia istituita in attuazione delle disposizioni della Finanziaria 2000, ammonterebbe a giugno 2001 a circa 400 miliardi per le amministrazioni centrali e periferiche dello Stato, mentre risulterebbe trascurabile l’adesione alle convenzioni da parte delle amministrazioni decentrate, che non hanno un obbligo di legge in tal senso. I risparmi previsti dall’ultima legge finanziaria per l’insieme delle amministrazioni pubbliche erano pari a 5.600 miliardi per il 2001. Sulla crescita delle prestazioni sanitarie in natura hanno inciso l’aumento della spesa per l’assistenza medico-specialistica e per l’assistenza farmaceutica. La dinamica della spesa sanitaria complessiva è stata inoltre accelerata dagli effetti economici dei rinnovi dei contratti di lavoro dei dipendenti pubblici, che sono risultati particolarmente onerosi nel caso di medici ed infermieri.7 L’aumento della spesa per prestazioni sanitarie in natura è in buona misura riconducibile all’abolizione dei ticket farmaceutici: l’abolizione della compartecipazione alla spesa ha direttamente incrementato la quota a carico del Ssn e ha dato impulso ai consumi. Gli effetti finanziari erano stati (dopo i rilievi della Camera ad una prima relazione tecnica al provvedimento del governo) quantificati in 1.700 miliardi di maggiore spesa per il 2001, ma tale stima teneva conto del solo effetto diretto dell’abolizione del ticket e non anche degli effetti sui comportamenti degli utenti del servizio. I dati relativi ai primi sei mesi di quest’anno indicano una crescita, rispetto allo stesso periodo del 2000, del 36,5% (tab. 19). Se tale crescita si confermasse per l’intero anno, si avrebbe una maggiore spesa (rispetto ai 1.700 miliardi previsti) di oltre 4.000 miliardi (il 3,2% del totale della spesa sanitaria del 2000). Queste ultime riguardano soprattutto l’assistenza sanitaria non ospedaliera: assistenza farmaceutica, medicina generale e specialistica in convenzione, assistenza ospedaliera in convenzione. 7 Si veda il rapporto di previsione del Csc di giugno scorso. Nel conto della Pa la spesa per il personale dipendente del Ssn è già compresa nella voce ‘redditi da lavoro’. 6 94 Tab. 19 – Spesa farmaceutica Ssn 1997 Spesa (miliardi di lire) 12.106 Var. %2 10,3 1998 13.166 8,8 1999 14.688 11,6 2000 16.949 15,4 20011 11.644 36,5 Numero ricette (milioni) 295,2 309,2 327,5 350,8 Var. %2 4,2 4,6 5,9 7,1 1) Primi sei mesi. 2) Rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Fonte: elaborazione su dati Agenzia Servizi Sanitari Regionali. 216,1 19,1 Nel caso dell’assistenza medico-specialistica, agli effetti della graduale abolizione di ogni forma di compartecipazione degli assistiti al costo delle prestazioni specialistiche e di diagnostica strumentale, si è aggiunto il rinnovo della convenzione. Una nuova accelerazione di questa tipologia di spesa dovrebbe verificarsi nel 2002, come conseguenza dell’abbassamento da 70.000 a 23.000 lire del tetto massimo di compartecipazione a carico del cittadino. Gli effetti finanziari del rinnovo della convenzione per la medicina generale (medici generici e pediatri) si sono invece soprattutto esplicati nel 2000, con un aumento del 10,2% della spesa per l’assistenza medicogenerica. L’accordo governo-regioni siglato l’8 agosto scorso ha deciso l’introduzione di un tetto per la spesa farmaceutica pari al 13% del totale della spesa sanitaria, un livello inferiore anche alla quota di 13,5% raggiunta dalla spesa farmaceutica lo scorso anno, prima del provvedimento di abolizione dei ticket. Misure analoghe furono sperimentate, senza successo, già nel triennio 1998-2000. Il mancato rispetto del tetto, non incidendo direttamente sul livello dei consumi, può essere sanzionato solo a posteriori con provvedimenti di difficile attuazione pratica (come è stato il caso del pay-back previsto con la Finanziaria 1998 e poi definitivamente accantonato nel 2001) che penalizzano solo i produttori. I contenuti dell’accordo sono stati recepiti dal decreto legge n. 347 del 18 settembre; in particolare, il decreto stabilisce che il rispetto dei tetti di spesa sanitaria torna a costituire uno dei vincoli del patto di stabilità interno. E’ stato aumentato, portandolo a 138.000 miliardi, il livello di spesa complessiva precedentemente stabilito per il 2001 fissando anche i nuovi tetti per gli anni successivi (146.000 per il 2002, 152.000 per il 2003 e 157.000 per il 2004). Viene riaffermato il principio che le regioni dovranno provvedere con mezzi e azioni proprie a eventuali sfondamenti dei tetti. L’aumento della spesa a carico dello Stato per il finanziamento della sanità sarà comunque subordinato al rispetto da parte delle regioni degli obblighi informativi per il monitoraggio e a misure di contenimento della spesa, ivi compresa l’adesione alle convenzioni per l’acquisto di beni e servizi. Rilevante, sempre rispetto alle previsioni dell’ottobre scorso, è anche la maggiore spesa per interessi, 9.600 miliardi, 4.900 in più rispetto alle 95 previsioni della Rtc di aprile (in cui già si stimava una maggior spesa per interessi di 4.700 miliardi; cfr. tab. 18)8. Nei documenti ufficiali lo scostamento viene attribuito alla dinamica del fabbisogno di cassa del settore pubblico e alla conseguente maggior crescita dello stock di debito pubblico. Alla crescita del debito avrebbero inoltre contribuito i minori introiti per privatizzazioni e vendita degli immobili: lo scostamento è valutato in 20-24.000 miliardi rispetto ai 65.000 stabiliti come obiettivo. L’aumento complessivo dello stock del debito rispetto alle previsioni di aprile si aggira quindi sui 40.000 miliardi, cifra che da sola non giustifica l’aumento previsto della spesa per interessi. La previsione relativa ai redditi da lavoro dipendente risulta incrementata di 4.200 miliardi, soprattutto per effetto dei rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, risultati più onerosi del previsto. Anche tale risultato era stato in parte anticipato nella Relazione trimestrale di aprile, che aveva elevato la stima di spesa di 2.900 miliardi (tab. 18). L’ulteriore incremento stimato nel Dpef è analogo a quello rilevato nella ricognizione sulla situazione dei conti pubblici effettuata dalla Ragioneria dello Stato a fine maggio, che prospettava i rischi connessi ai rinnovi contrattuali e alla applicazione di alcune sentenze della Corte costituzionale e riteneva possibile una crescita aggiuntiva (rispetto alle valutazioni della Rtc) pari a 1.500 miliardi del costo del lavoro dei dipendenti pubblici. La crescita di tale voce di spesa che si è registrata negli ultimi anni è dipesa sia dalla minore efficacia delle politiche volte a ridurre il numero dei dipendenti, sia dalla crescita delle retribuzioni, che nell’insieme hanno sistematicamente teso a debordare rispetto agli obiettivi programmatici. In una prospettiva di controllo della spesa pubblica ? la spesa per il personale è una delle grandi voci di spesa e rappresenta il 20,5% della spesa totale ? ciò richiama l’opportunità di rivedere il sistema di contrattazione del pubblico impiego (cfr. riquadro: Problemi del sistema di contrattazione nel pubblico impiego). Nel disegno di legge di legge di assestamento per il 2001 è previsto un incremento per 4.800 miliardi delle spese per interessi iscritte nel bilancio dello Stato. 8 96 PROBLEMI DEL SISTEMA DI CONTRATTAZIONE NEL PUBBLICO IMPIEGO Il sistema di contrattazione introdotto dalla legge 29/1993 di riforma del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, che aveva certamente contribuito a ricondurre sotto controllo la dinamica delle retribuzioni dei pubblici dipendenti nella prima tornata contrattuale 1993-97, non è stato altrettanto efficace per i contratti relativi al quadriennio 1998-2001. Un problema di fondo, da più parti sollevato, è quello relativo al ruolo dell’Aran e alla reale autonomia della agenzia negoziale nei confronti del governo. E’ apparso infatti problematico soprattutto il sistema di determinazione delle risorse necessarie alla copertura dei costi dei rinnovi. Questi vengono fissati in sede di Finanziaria, predeterminando così, almeno per gli aspetti economici, gli esiti negoziali e finendo spesso per rappresentare solo una base minima da cui partire per una trattativa al rialzo. In quest’ultima tornata contrattuale poi, l’autonomia dell’Aran è stata ulteriormente messa in discussione dalla decisione del governo di intervenire direttamente, concordando con il sindacato ulteriori risorse rispetto a quelle stabilite nella Finanziaria per l’anno 2001, in particolare per la conclusione dei contratti del personale del servizio sanitario e della scuola. Altro elemento di preoccupazione sul versante del controllo della spesa viene da alcune modifiche apportate (d.lgs. n. 396/1997, n. 80/1998, n. 387/1998) al sistema contrattuale stabilito nella legge 29/1993. Mentre per le amministrazioni statali l’ammontare delle risorse necessarie al rinnovo dei contratti resta affidata alla Finanziaria, per le amministrazioni diverse da quelle statali, la Finanziaria si limita a stabilire tetti massimi complessivi. Il rispetto dei vincoli e delle compatibilità è sostanzialmente rimesso alla responsabilità delle singole amministrazioni. Anche per questo aspetto, la maggiore autonomia che si è voluta dare alle singole amministrazioni, in coerenza con la scelta di decentramento di funzioni dallo Stato centrale, ove non trovi correttivi in una maggiore responsabilizzazione finanziaria, potrebbe aprire la strada, soprattutto in sede di contrattazione decentrata, a aumenti retributivi che non tengano conto delle reali situazioni di bilancio degli enti decentrati. Questa preoccupazione è alla base anche del parere negativo espresso a luglio dalla Corte dei Conti sul rinnovo del contratto per il personale degli enti locali. I rinnovi contrattuali recentemente stipulati dall’Aran, hanno inoltre modificato il precedente sistema di inquadramento del personale stabilendo la possibilità di passaggi tra posizioni economiche (in cui si articolano le tre nuove aree professionali individuate) decisi da ciascuna amministrazione in sede di contrattazione integrativa. Anche in questo caso si potrebbero determinare slittamenti generalizzati verso livelli retributivi più elevati con effetti negativi sui costi, peraltro difficilmente controllabili dato il ritardo con cui sono rese disponibili le informazioni relative all’inquadramento del personale. Con le nuove disposizioni si è inoltre di fatto accettata un’interferenza del sindacato, attraverso la contrattazione integrativa, in materie, quale quella dell’inquadramento e degli organici, escluse dalla legge 29/93 dall’ambito negoziale. 97 Le spese per prestazioni sociali sono invece stimate crescere meno di quanto previsto. Se tale previsione verrà rispettata, il tasso di crescita di tale aggregato risulterà minore di quello del Pil nominale. Si tratta di un risultato positivo, ancorché circoscritto all’anno in corso, in considerazione del fatto che la legge finanziaria per il 2001 aveva, in modo selettivo, incrementato le pensioni minime e aveva anche aumentato la misura di varie prestazioni non pensionistiche. In calo rispetto alle previsioni iniziali risultano anche le uscite in conto capitale; al riguardo la Rtc prevedeva un calo ancora più accentuato (tab. 18). Rispetto al 2000 la crescita prevista rimane comunque notevole (+11%). Le entrate fiscali e contributive tendenziali previste dal Dpef 2002-06 per il 2001 risultano di circa 2.500 miliardi più alte rispetto alle previsioni fatte a ottobre scorso con la Relazione previsionale e programmatica: le minori entrate tributarie sarebbero più che compensate da un gettito dei contributi sociali di 9.800 miliardi migliore del previsto. Il totale delle entrate tributarie tendenziali viene stimato di 6.800 miliardi inferiore alle previsioni effettuate a ottobre scorso nella Rpp, -2.100 miliardi le imposte dirette e -4.700 le indirette9. La variazione del gettito delle imposte indirette dovrebbe derivare da una stima del gettito Iva più prudenziale e un po’ al di sotto dell’andamento dei consumi nominali, mentre le stime della Rpp e della Rtc sembrano basarsi sui forti aumenti del gettito Iva registrati negli ultimi anni. In passato, la dinamica del gettito Iva assai superiore a quella dei consumi era riconducibile a due fattori, l’emersione di base imponibile e (in minor misura) l’effetto dell’aumento del prezzo del petrolio. All’emersione di gettito hanno contribuito varie misure legislative e l’azione dell’amministrazione 10, ma è evidente che nel lungo periodo questi fattori di sostegno all’emersione del gettito Iva sono destinati ad esaurirsi. Sull’andamento delle indirette ha inoltre influito la flessione degli introiti di lotto e lotterie. Il minor calo, rispetto alle previsioni di qualche mese fa, delle imposte dirette sembra in larga misura ascrivibile ai buoni risultati dell’imposta sostitutiva sulle rivalutazione dei cespiti aziendali. Secondo stime riportate Il dato ora previsto è analogo a quello stimato dalla Rtc, ma con una composizione molto diversa tra imposte dirette e indirette. Si prevedono per le imposte indirette entrate per 351.900 miliardi, 8.600 in meno rispetto alla Rtc; il gettito delle dirette viene stimato in 345.000 miliardi, 9.000 più che nella Rtc. 10 Ad esempio, contestualmente a ciascun versamento periodico è stata richiesta (Dpr 23/03/1998 n. 100, art. 1) una dichiarazione in cui devono essere riportati i dati contabili riepilogativi delle liquidazioni periodiche effettuate. Effetti positivi avrebbe anche avuto l’introduzione della possibilità di compensare automaticamente, in sede di versamento, debiti e crediti d’imposta. In tal modo, infatti, si evitano le situazioni in cui il contribuente era tenuto a versare immediatamente il debito d’imposta, ma otteneva i rimborsi di eventuali crediti con ritardi di anni dal momento della dichiarazione. Per il contribuente in credito diventa meno oneroso redigere dichiarazioni più fedeli, poiché non dovrà effettuare materialmente il versamento. La compensazione dovrebbe essere stata particolarmente incentivante soprattutto nei primi anni di applicazione, in quanto consentiva di recuperare debiti d’imposta sorti in periodi d’imposta precedenti. 9 98 in una audizione parlamentare del Governatore della Banca d’Italia gli incassi a questo titolo sono stati di circa 9.000 miliardi fino a luglio, a fronte dei 1.800 messi a bilancio. Questo gettito potrebbe in parte ripetersi nei prossimi due anni, essendo infatti prevista la facoltà di effettuare il pagamento in 3 rate annuali. Un deterrente alla dilazione dei versamenti, e quindi a un consistente gettito anche nei prossimi due anni, può però essere costituito dal tasso di interesse fissato per la rateizzazione, 6% in ragione annua11. Inoltre le imprese che hanno scelto di effettuare la rivalutazione dei cespiti potranno effettuare maggiori ammortamenti per cui, a parità di condizioni, agli esborsi iniziali dovrebbero corrispondere diminuzioni sia di Irpeg che di Irap, già a partire dall’anno in corso ma soprattutto nei prossimi anni. Il Dpef conferma il maggior gettito contributivo, pari a circa 10.000 miliardi, rispetto alla Relazione previsionale (tab. 18). Tale maggior gettito era stato indicato nella Relazione trimestrale dell’aprile scorso e riflette l’aumento del monte retributivo a seguito del buon andamento dell’occupazione e dell’aumento delle retribuzioni pro-capite. Per le entrate in conto capitale di natura non tributaria è prevista una flessione di circa 6.300 miliardi rispetto agli introiti ipotizzati nella Relazione revisionale. La correzione appare in gran parte dovuta alle difficoltà e ai ritardi riscontrati nella realizzazione dei programmi di vendita degli immobili pubblici, in particolare quelli degli enti previdenziali. La Relazione trimestrale già aveva operato una revisione al ribasso di tali introiti e la ricognizione sulla situazione dei conti pubblici effettuata a fine maggio dalla Ragioneria dello Stato, segnalando i ritardi nell’attuazione del programma di dismissioni immobiliari considerava possibili 5.500 miliardi di incassi r ispetto ai 7.500 previsti dalla Rtc. Il quadro programmatico per il 2002 e la manovra correttiva. Per il 2002, il Dpef prevedeva un indebitamento tendenziale di 1,7% del Pil, contro un obiettivo di 0,5% (tab. 18). In assenza di interventi la pressione fiscale tendenziale veniva prevista ridursi da 42% del 2001 a 41,7% e le uscite correnti primarie erano stimate crescere allo stesso tasso del Pil nominale. La lieve riduzione dell’indebitamento dipende pressoché interamente dal fatto che le uscite in conto capitale vengono fissate all’incirca allo stesso livello del 2001. L’obiettivo di indebitamento fissato per il 2002 era lo stesso del Piano di stabilità presentato a dicembre scorso, 0,5% del Pil, corrispondenti a 13.700 miliardi. Dato l’indebitamento tendenziale (42.200 miliardi), tale obiettivo Va inoltre ricordato che il Sec95 prevede che, in applicazione del criterio generale della competenza economica, le entrate fiscali siano contabilizzate al momento in cui si forma l’obbligo a pagare. Ciò comporterebbe di contabilizzare nel 2001 il totale del debito d´imposta e non solo la rata versata nell’anno; tuttavia, data la mancanza di dati informativi (nella dichiarazione non si doveva indicare la scelta della rateizzazione), l’Istat dovrà probabilmente contabilizzare il gettito in base al principio di cassa. 11 99 implicava una manovra correttiva di 28-29.000 miliardi. Il Documento non forniva molti dettagli sull’articolazione della manovra. Rispetto al tendenziale, erano indicate maggiori entrate fiscali per 15.200 miliardi. A parità di entrate non tributarie ciò implicherebbe una correzione delle spese tendenziali di 13-14.000 miliardi. Il documento non specificava i settori di interve nto, ma è evidente che i punti su cui intervenire riguardano in primo luogo gli acquisti di beni e servizi, la sanità, il personale. Margini per risparmi di spesa vi sono anche nei trasferimenti alle imprese, in particolare nel settore dei trasporti pubblici; negli ultimi anni l’Italia ha peraltro notevolmente ridotto l’entità complessiva dei trasferimenti alle imprese e oggi si collocherebbe tra i paesi europei con la minor incidenza relativa di tale tipo di spesa pubblica (cfr. riquadro: Lo scoreboard degli aiuti di Stato nell’Unione europea). 100 LO SCOREBOARD DEGLI AIUTI DI STATO NELL’UNIONE EUROPEA Negli ultimi anni la Commissione europea ha reso più stringente il controllo sugli aiuti di Stato alle imprese, allo scopo di garantire la loro rispondenza a interessi comuni. Data la persistenza di un ammontare complessivo di aiuti ancora assai cospicuo (79 miliardi di euro nel 1999), si è ritenuto opportuno – su iniziativa del Commissario Monti – introdurre uno strumento che consentisse di rendere più trasparente a livello dei singoli paesi la situazione degli aiuti, sia con riferimento alla loro entità che alla loro tipologia. A partire dall’istituzione di un Registro europeo degli aiuti di Stato, dunque, è stato attivato uno scoreboard in grado di fornire – sulla base delle informazioni raccolte nel Registro – un quadro sistematico e pubblicamente accessibile della situazione corrente, con riferimento a diversi specifici aspetti del problema. La prima versione (luglio 2001) dello scoreboard – che la stessa Commissione invita a considerare del tutto provvisoria e suscettibile di cambiamento – consiste di un documento nel quale vengono evidenziate le differenze di comportamento osservabili a livello dei singoli Stati (senza fornire interpretazioni in merito). Il documento è articolato in diverse sezioni. La prima illustra, per ciascun paese membro, l’evoluzione recente degli aiuti di Stato, espressi sia in valore assoluto che in percentuale del Pil. Le indicazioni che ne emergono possono essere riassunte come segue: i) a livello dell’intera area Ue, è osservabile a partire dal 1993 una graduale flessione del volume complessivo degli aiuti in tutti i principali settori di attività; ii) questo profilo è comune alla maggior parte dei paesi, con l’eccezione del Lussemburgo, della Danimarca e soprattutto del’Irlanda, in cui la quota degli aiuti sul Pil cresce apprezzabilmente; l’Italia è invece uno dei paesi in cui la flessione è più pronunciata (cfr. tabella); iii) a livello Ue gli aiuti risultano diminuiti anche in valore assoluto (milioni di euro 1998), ma soltanto per le industrie di trasformazione e parte dei servizi; sia per l’agricoltura e la pesca che per i trasporti ferroviari l’ammontare degli aiuti non mostra alcuna variazione di rilievo; iv) per quanto riguarda in particolare la trasformazione e i servizi (ferrovie escluse), è possibile rilevare, in quota, un ridimensionamento dei fondi destinati ad obiettivi specifici (settoriali o regionali) e un parallelo aumento di quelli destinati a obiettivi orizzontali (segnatamente ricerca, piccole imprese, ambiente e risparmio energetico). Questo dato è considerato molto importante, dal momento che la Commissione da sempre incoraggia il riorientamento degli aiuti verso obiettivi di tipo orizzontale, consider ati meno distorsivi di quelli specifici. In particolare l’Italia è uno dei paesi in cui la flessione è più pronunciata per quanto riguarda gli aiuti destinati all’attività di trasformazione: tra il 1990 e il 1999 (i dati precedenti si fermavano al 1988, sottostimando il fenomeno) il peso degli aiuti al settore manifatturiero in percentuale del valore aggiunto industriale è passato dal 6,6 all’1,4% (per l’intera Ue i valori corrispondenti sono 2,6 e 1,3%). 101 Aiuti di stato alle imprese --------------------------------------------------------------------------------------------------------------Paesi Aiuti totali Aiuti al settore manifatturiero in % del Pil in % Va industriale 1990 1999 1990 1999 ------------------------------------------------------------------------------------------------------------Grecia 1,5 1,0 7,4 3,3 Irlanda 1,0 1,6 2,7 2,3 Danimarca 1,0 1,3 1,6 2,3 Germania 1,5 1,2 1,3 1,7 Francia 1,6 1,2 2,2 1,6 Lussemburgo 1,0 1,4 2,7 1,6 Belgio 1,4 1,4 2,7 1,5 Finlandia 1,9 1,5 1,6 1,4 Italia 1,6 1,0 6,6 1,4 Austria 1,3 1,1 1,1 1,1 Spagna 1,3 1,1 1,2 1,0 Svezia 0,8 0,8 0,8 0,9 Portogallo 2,1 1,2 5,0 0,9 Olanda 0,9 1,0 1,0 0,8 Regno Unito 0,7 0,5 1,0 0,5 Ue 1,3 1,0 2,6 1,3 -------------------------------------------------------------------------------------------------------------* Austria, Finlandia e Svezia, 1995. Fonte: Scoreboard sugli aiuti di Stato alle imprese; Commissione europea, 2001. Un’altra questione affrontata nel documento riguarda la misura in cui ciascuno dei paesi membri mostra di adeguarsi effettivamente alle direttive della Commissione. A questo proposito vengono forniti alcuni dati in merito alle procedure di infrazione avviate. Questi dati indicano in primo luogo che esiste una percentuale non irrisoria di casi in cui sono stati effettuati aiuti non notificati alla Commissione (più o meno intorno al 20% del totale dei casi di aiuto). In secondo luogo, la quota dei casi di aiuto in cui le decisioni della Commissione in merito alla loro ammissibilità sono prese in seguito ai risultati di una procedura di indagine è crescente nel tempo (aumenta il peso delle situazioni “da chiarire”). Da ultimo, risulta comunque in aumento la quota delle decisioni negative, ovvero quelle che richiedono il reintegro della situazione di partenza (spicca in questo caso il Lussemburgo, con una quota del 33% contro una media Ue intorno al 10%). Infine, il documento pone la questione dalla coerenza tra l’evoluzione degli interventi agevolativi all’interno dei singoli paesi e l’allineamento delle politiche economiche all’interno del mercato unico. Sotto questo profilo si osserva che l’obiettivo di contrastare l’instaurarsi di meccanismi distorsivi della concorrenza non può essere efficacemente raggiunto senza uno sforzo attivo di autodisciplina da parte dei singoli Stati, e senza l’adozione di politiche di coordinamento degli interventi. A questo riguardo si sottolinea la rilevanza delle raccomandazioni contenute, a partire dal 1999, nelle Broad Economic Policy Guidelines, il cui scopo è quello di favorire il processo di controllo multilaterale delle politiche economiche nell’ambito Ue e di incentivare la realizzazione di riforme strutturali all’interno degli Stati membri, in particolare per quanto attiene all’apertura e alla concorrenza nei mercati (gli effetti positivi di un minore peso degli aiuti potrebbe di fatto essere vanificato dalla parallela adozione di altre politiche di tipo protezionistico, come ad esempio barriere non tariffarie). In questa prospettiva, il documento mostra come – anche se nella maggior parte dei paesi la contrazione degli aiuti di Stato è stata effettivamente accompagnata da una progressiva apertura dei mercati – alla graduale flessione del 102 valore aggiunto manifatturiero in quota del Pil totale (che interessa tutti i paesi) non abbia sempre corrisposto una parallela flessione della quota degli aiuti manifatturieri rispetto al totale degli aiuti: per sei paesi membri (Austria, Belgio, Germania, Finlandia, Francia e Svezia) gli aiuti al settore manifatturiero in percentuale degli aiuti totali (escluse agricoltura, pesca e ferrovie) tra il 1995 e il 1999 sono risultati in aumento. La previsione del Csc. Nel 2001 l’indebitamento della Pa dovrebbe risultare intorno a 1,5% del Pil, un risultato che si realizzerebbe con una crescita del Pil nominale più bassa (4,3% contro +5,4%) di quella prevista a luglio nel Dpef. Dal lato delle entrate le condizioni sottostanti sono la tenuta delle entrate tributarie e una valutazione prudenziale dei ge ttiti straordinari; la pressione fiscale risulta pari a 42,1. Va considerato che molte delle misure già presentate o in via di presentazione al Parlamento (cfr. riquadro: I principali provvedimenti di politica economica dei 100 giorni) avranno effetti finanziari già nel 2001. Si tratta in particolare della legge Tremonti e del piano di emersione delle attività economiche in nero. Le entrate programmatiche dovrebbero inoltre beneficiare del progetto di cartolarizzazione degli immobili, con il conferimento del valore degli immobili di proprietà pubblica ad una società veicolo. L’operazione dovrebbe consentire di incassare circa 10.000 miliardi l’anno per i prossimi 4-5 anni; una parte di tali cifre potrebbe essere incassata nel 2001. Dal lato delle spese una differenza rilevante tra la nostra previsione e il tendenziale del Dpef riguarda la spesa per interessi che, come si è detto sopra, nel Dpef appare un po’ sopravvalutata. Nel nostro scenario abbiamo inoltre ipotizzato che abbia successo l’impegno del governo di contenere una serie di spese correnti di varia natura; rispetto al tendenziale esposto nel Dpef, il taglio operato è di circa 2.500- 3.000 miliardi. Per quanto riguarda le uscite in conto capitale, la nostra previsione riflette l’indicazione programmatica di una accelerazione già da quest’anno; la crescita che ipotizziamo è però leggermente inferiore a quella indicata nel Dpef (+8,3% contro +9,7%). Secondo il vecchio quadro programmatico, la manovra di bilancio per il 2002 dovrebbe tendere a portare l’indebitamento allo 0,5% del Pil, lasciando la pressione fiscale complessiva allo stesso livello raggiunto nel 2001. Nel nostro scenario riteniamo che, dati i risultati effettivi dei conti pubblici nel 2001 e le ripercussioni in Italia e in Europa delle mutate prospettive di crescita dell’economia americana, questo obiettivo non sia più realistico. Il problema che la politica di bilancio per il 2002 dovrà affrontare è ridurre l’indebitamento, trovando le risorse per un ulteriore incremento delle spese in conto capitale per infrastrutture economiche e civili e non contrastando la riduzione di pressione fiscale indotta dalla minor crescita economica. Nel nostro scenario l’azzeramento del deficit pubblico potrebbe essere raggiunto nel 2004 e non nel 2003; l’indebitamento scenderebbe a 1% del Pil nel 2002 e a 0,5 nel 2003. Anche per effetto della minor crescita, la pressione fiscale scenderebbe da 42,1 nel 2001 a 41,8% nel 2002 e a 41,2% nel 2003. 103 I PRINCIPALI PROVVEDIMENTI DI POLITICA ECONOMICA DEI 100 GIORNI La ripresa dell'attività autunnale vede il Parlamento impegnato nella discussione di numerosi provvedimenti che fanno parte degli impegni assunti dal governo con il programma dei primi 100 giorni. In particolare, la Camera deve esaminare il disegno di legge delega sulle grandi opere e il disegno di legge contenente primi interventi per il rilancio dell'economia, che prevede la detassazione degli investimenti (Tremonti bis), l'abolizione della tassa di successione e donazione, gli incentivi per l'emersione dal sommerso. Entrambi i provvedimenti sono già stati approvati dal Senato senza subire modifiche importanti rispetto ai testi originari. Per il secondo dei due provvedimenti è, inoltre, allo studio l’introduzione di un emendamento riguardante l’incentivazione del rientro dei capitali finanziari di residenti italiani, oggi allocati all’estero. Al Senato dovrà essere discussa la legge delega sulla riforma del diritto societario, già approvata alla Camera. Il governo ha inoltre approvato il decreto delegato che recepisce l’accordo tra le parti sociali in materia di contratti a termine. Tremonti-bis. Uno dei principali provvedimenti di stimolo dell’economia adottati dal nuovo governo è la riproposizione della legge Tremonti (il disegno di legge è stato approvato dal Senato), che detassava gli utili reinvestiti. L’agevolazione consiste nella possibilità di sottrarre dal reddito imponibile Irpeg il 50% degli investimenti eccedenti la media degli investimenti realizzati nei cinque periodi d'imposta precedenti quello di applicazione dell’agevolazione. Nel calcolo della media va tolto l’anno in cui si sono realizzati gli investimenti più elevati. L’incentivo si applica anche alle spese di formazione per i dipendenti nel limite del 20% del valore delle retribuzioni complessive dei dipendenti stessi. A queste spese si sono aggiunte, durante l'esame del Senato, quelle sostenute per gli asili nido destinati ai dipendenti. A differenza della prima Tremonti, la detassazione degli utili reinvestiti è utilizzabile anche da banche, assicurazioni e pr ofessionisti. Alla misura si accompagna il “congelamento” della Dual Income Tax (Dit) e l’alternatività di utilizzo con la Dit stessa e con la legge Visco. Allo scadere della Tremonti dovrebbe essere attuata una riforma del prelievo sui redditi di impresa. “Congelare” la Dit significa che ai fini del calcolo della quota di reddito soggetta all’aliquota ridotta del 19% non verranno contabilizzati gli aumenti di capitale realizzati dopo l’entrata in vigore della nuova legge. L'agevolazione è condizionata alla permanenza degli utili nell'impresa: a differenza della cosiddetta legge Visco e della Dit, non è previsto il trasferimento ai soci dell’agevolazione in caso di distribuzione degli utili attraverso il credito d’imposta “virtuale”. L’agevolazione non è cumulabile con il credito di imposta sugli investimenti nel Mezzogiorno; è cumulabile con la legge 488 e con le altre leggi di incentivazione a finalità regionale. Il provvedimento dovrebbe avere un sensibile effetto di stimolo dell’economia, anche se probabilmente inferiore rispetto a quello ottenuto nel biennio 1994 - 95. Il risparmio fiscale per le imprese è meno forte, perché l’aliquota legale sui redditi di impresa è nel frattempo diminuita da 53,2% a 36% e perché la Tremonti bis sostituisce altri incentivi preesistenti. L’incentivo viene inoltre dato dopo vari anni caratterizzati da un notevole accumulo di capacità produttiva: ciò può attenuarne l’efficacia, ma – va osservato – ne aumenta l’utilità come strumento di stabilizzazione del ciclo economico. Va inoltre osservato che l’efficacia macroeconomica del provvedimento può trarre giovamento dal fatto che esso si applica ad una platea di contribuenti assai più ampia del prec edente. 104 Piano d’emersione dall’economia sommersa. La normativa per l’emersione del lavoro irregolare (anch’essa approvata dal Senato) prevede ampie agevolazioni fiscali e contributive che riguardano sia gli anni pregressi (concordato) che il triennio 20012003. A ciò si aggiunge una serie di altre agevolazioni sul piano delle responsabilità civili e penali connesse con lo svolgimento di attività ec onomiche in nero. Le entrate prodotte dall’emersione saranno destinate al riequilibrio dei conti pubblici e alla riduzione della pressione fiscale secondo modalità da stabilire con decreto del ministro dell'Economia. Datori di lavoro e lavoratori devono presentare un programma di emersione e sul maggior reddito imponibile dichiarato rispetto al 2000 (fino a concorrenza del triplo del costo del lavoro fatto emergere) si applica un'imposta sostitutiva Irpeg, Irpef e Irap del 10, 15 e 20% rispettivamente per il 2001, 2002 e 2003. Inoltre sul maggiore imponibile si applicherà una contribuzione previdenziale e assistenziale sostitutiva pari all'8%, al 10 e al 12 rispettivamente, per il primo, il secondo e il terzo periodo d'imposta. Per i lavoratori che aderiscono al piano l'incentivo è dato dal fatto che, per tre anni, sono esentati dal pagamento dei contributi sociali e vengono tassati con una imposta sostitituva Irpef del 6, 8 e 10% rispettivamente per il 2001, 2002 e 2003. La dichiarazione di emersione consente anche di fruire di un concordato tributario e previdenziale1 per gli anni pregressi, mediante il pagamento di un'imposta sostitutiva (di qualsiasi imposta diretta, indiretta e dei contributi previdenziali) dell'8% della base imponibile, determinata dal costo del lavoro irreg olare utilizzato e dichiarato per gli anni pregressi. Il concordato preclude inoltre accertamenti fiscali e previdenziali fino a concorrenza del triplo del costo del lavoro irregolare utilizzato. Al pagamento delle imposte sostitutive dovute corrisponde l’estinzione dei reati tributari derivanti da dichiarazione infedele e/o da omessa dichiarazione relativamente sia al costo del lavoro irregolare utilizzato (datore) sia alle somme percepite e non dichiarate (lavoratore); sono inoltre estinti i reati contravvenzionali e le violazioni amministrative e civili connesse a quelle fiscali e previdenziali del datore di lavoro in relazione all'esistenza del lavoro sommerso. Infine si precludono gli accertamenti fiscali sui redditi di lavoro per i periodi d'imposta interessati. Il piano risponde all’esigenza fondamentale di indurre la regolarizzazione delle attività produttive sommerse. Esso è molto più incisivo di analoghi provvedimenti in passato diretti al medesimo scopo. Il suo successo dipenderà criticamente dalla certezza di un quadro generale che riduca strutturalmente vincoli ed oneri in cui operano le imprese e dall’efficacia dell’azione amministrativa riguardo alla pubblicità delle opportunità offerte dal provvedimento e all’accompagnamento delle imprese nella delicata fase dell’emersione. Richiede altresì un’efficace azione repressiva. Riguardo quest’ultimo aspetto, va rilevato che il disegno di legge prevede la verifica incrociata dei dati relativi alle bollette elettriche e telefoniche con quelli dell'Inps e degli altri istituti previdenziali. Legge obbiettivo. Il disegno di legge delega in materia di infrastrutture e insediamenti produttivi strategici, interventi edilizi, già approvato dal Senato, intende rimuovere gli ostacoli burocratici che hanno finora fortemente condizionato le potenzialità di sviluppo in tre settori particolarmente importanti per lo sviluppo -------------------------------La dichiarazione di emersione deve essere presentata prima dell’inizio di accessi, ispezioni o verifiche o della notifica dell’avviso di accertamento o rettifica relativi al periodo d’imposta che si intende regolarizzare. 1 105 del paese. L’individuazione delle infrastrutture e insediamenti produttivi strategici viene affidato al governo che, sentite le regioni e i ministri com petenti, ovvero su proposta degli stessi, definisce un programma da inserire nel Dpef indicando le risorse finanziarie pubbliche comunitarie e private disponibili. Il governo è delegato ad emanare decreti legislativi finalizzati ad accelerare la realizzazione delle opere attraverso la riforma delle procedure per la valutazione di impatto ambientale e un regime speciale per le altre procedure (concessioni e autorizzazioni, dichiarazione di pubblica utilità, disciplina in materia di conferenza dei servizi). I decreti devono attenersi a principi di valorizzazione di strumenti quali la finanza di progetto e l’affidamento a contraente generale tramite gara ad evidenza pubblica. Il compito di approvare i progetti e vigilare sull’esecuzione è attribuito al Cipe che adotta anche i provvedimenti necessari. Per gli anni 2002 e 2003 il governo è delegato a emanare decreti legislativi per l’approvazione definitiva di specifici progetti per infrastrutture strategiche. Viene anche notevolmente esteso il campo di applicazione della Denuncia di inizio di attività in alternativa a concessioni e autorizzazioni, tranne che per gli im mobili sottoposti a tutela storico-artistica e paesaggistica-ambientale o a particolare vincoli. Si introducono infine una serie di modifiche volte a semplificare la normativa in materia di rifiuti. L’efficacia delle nuove disposizioni, soprattutto nell’accelerare i tempi di progettazione e realizzazione delle grandi opere infrastrutturali, dipenderà molto dalla successiva formulazione decreti delegati. La radicalità con cui si intende modificare l’attuale assetto legislativo e amministrativo in materia appare opportuna alla luce della quasi paralisi che ha caratterizzato il nostro sistema sino ad oggi; solleva problemi tecnico-giuridico assai complessi che, se non adeguatamente risolti, potrebbero dar luogo a paralizzanti contenziosi. Sarà inoltre importante evitare che la focalizzazione sulle grandi infrastrutture penalizzi gli interventi “minori”, che restano comunque indispensabili a garantire le potenzialità di attrazione dei singoli territori. Riforma del diritto societario. Il disegno di legge delega, approvato dalla Camera, riprende in gran parte il progetto elaborato dalla Commissione Mirone. Tale progetto rinviava agli accordi tra privati le modalità di costituzione e funzionamento delle società di capitali, in definitiva, il contenuto dei rapporti del dare e avere tra i soci. Nella versione approvata dalla Camera sono state introdotte alcune restrizioni alla facoltà di autoregolarsi. In particolare, viene richiesto al legislatore delegato di "individuare le indicazioni obbligatorie dell'atto costitutivo", sono previste tre organizzazioni possibili per la struttura di controllo delle società per azioni e si prevede l'applicazione automatica di una di esse in caso di mancata previsione nello statuto. In generale, le limitazioni introdotte alla libertà contrattuale dei soci appaiono opportune perché principalmente volte ad evitare, soprattutto nei primi tempi di vigenza della nuova disciplina, frequenti occasioni di controversie tra soci per carenze dell'atto costitutivo. Il disegno di legge prevedeva inizialmente (art. 11) l'istituzione di sezioni specializzate in materia commerciale presso i tribunali sede di Corte d'appello, che avrebbero dovuto giudicare delle controversie secondo regole procedurali semplificate e dunque in tempi brevi. La rilevanza di queste disposizioni stava nel fatto che affinché la prevista contrattualizzazione della materia societaria pr evista dalla riforma funzioni in modo 'virtuoso', l'enforcement deve essere rapido e deve essere amministrato da magistrati con particolare competenza in tutto ciò che si connette a questa particolare materia (quindi anche gestione di impresa, bilanci, quantificazione del valore di beni immateriali ecc.). Peraltro, vari studi empirici mostrano che l'ampiezza della dimensione e la specializzazione dei Tribunali hanno 106 un ruolo determinante per la produttività dei magistrati. Nel testo approvato dalla Camera è invece fatto divieto di istituire le sezioni specializzate e le scelte sul rito sono state radicalmente modificate (ad esempio il giudice deve essere collegiale e non più monocratico salvo particolari casi). Il risultato non appare coerente con l’esigenza di garantire una maggiore celerità dei processi, salvo il rinvio ad altre forme di composizione delle controversie. La riforma degli aspetti sostanziali della disciplina del falso in bilancio nel senso di una più chiara ed esplicita delimitazione dei comportamenti penalmente rilevanti, anche attraverso l’introduzione di un criterio di gravità, affronta un problema sentito dalle imprese, che avevano spesso sottolineato la scarsa chiarezza della norma e, soprattutto, la sua apertura a diverse, spesso tra loro incoerenti, interpretazioni giudiziali. Tassa sulle successione e donazioni. L'abolizione dell'imposta di successione e donazione contenuta nel decreto dei 100 giorni conclude l’iter di cambiamento radicale dell’imposizione sui trasferimenti gratuiti iniziata alla fine del 2000 (l.342/2000). Con l’entrata in vigore dell’attuale proposta sono abolite le imposte di successione e donazione per le successioni aperte e le donazioni eseguite dopo l’entrata in vigore delle nuove disposizioni. Per le donazioni si tratta di una abrogazione parziale. Infatti, sulle donazioni tra soggetti che non abbiano rapporti di parentela entro il quarto grado graverà l’imposta ordinaria di registro. Inoltre, si continuerà a pagare l’imposta ipotecaria (2%) e catastale (1%) sui trasferimenti immobiliari (sia per successione che per donazione). Rimane, pertanto, l'obbligo della dichiarazione di successione per gli immobili. Scudo fiscale. Tra i provvedimenti in preparazione vi è quello diretto a incentivare il rientro dei capitali finanziari di residenti italiani, oggi allocati all’estero. Il principio dello "scudo fiscale" è che ai capitali detenuti all'estero ma dichiarati per essere riportati in Italia non si applicheranno le sanzioni e le multe previste dalla normativa attuale2. Sul patrimonio rimpatriato graverà solo una multa, che potrebbe oscillare tra l'1 e il 3%3. Il condono riguarderà solo le sanzioni fiscali e non la persecuzione dei comportamenti illeciti e la lotta al riciclaggio dei capitali illegali. Gli effetti del provvedimento sull’economia reale riguarderanno principalmente il valore aggiunto, e forse l’occupazione, del settore finanziario, in quanto rientrerebbe in Italia una parte dell’attività di intermediazione che oggi viene svolta all’estero. Qualche effetto sugli altri settori potrebbe derivare dalla cosiddetta “home country bias”, ossia dal fatto che gli intermediari residenti in un dato paese possono avere una maggiore propensione a finanziare soggetti residenti con cui hanno rapporti più consolidati. Recepimento della direttiva 1999/70/Ue in materia di contratti a termine. A metà di agosto il governo ha approvato definitivamente, dopo i pareri favorevoli delle Commissioni parlamentari competenti, un importante decreto legislativo che recepisce nell’ordinamento italiano la direttiva europea 1999/70/Ue sui contratti a -----------------------------------------2 Si pensi a quelle collegate alla mancata dichiarazione sul modello 740. 3 Attualmente, invece, il monitoraggio fiscale trasforma automaticamente in redditi imponibili tutti i capitali che non emergono nella dichiarazione dei redditi, ma che vengono scoperti successivamente. 107 termine. Con la nuova normativa si passa da una disciplina in cui il datore di lavoro poteva assumere con contratto a tempo determinato solo in presenza di ipotesi tassativamente previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, ad una in cui l’apposizione del termine è legittimata dall’esistenza di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. La garanzia per il lavoratore è assicurata dal fatto che, contestualmente, il datore di lavoro deve specificare queste ragioni per iscritto nell’atto di assunzione. Il superamento delle “causali specifiche” fa sì che si sia invertita la logica della legislazione precedente, per cui ora il decreto legislativo elenca tassativamente i casi nei quali è vietata la stipulazione del contratto a termine. La nuova disciplina, poi, affida alla contrattazione collettiva di settore l’individuazione di limiti quantitativi ma, nel contempo, procede ad una elencazione tassativa delle ipotesi di contratti a termine esenti da qualsiasi “tetto” (cfr. par. 3.2 per ulteriori dettagli). La spesa corrente primaria dovrebbe diminuire di circa 5 decimi di punto rispetto al Pil nel 2002 e di 8 decimi nel 2003. Per il 2002 si tratterebbe di una riduzione di circa 12.000 miliardi rispetto all’ incremento tendenziale (riproporzionato alla nostra diversa base di partenza per il 2001) previsto dal governo. Gli interventi riguarderebbero soprattutto gli acquisti di beni e servizi e la spesa per il personale. Per quest’ultima abbiamo ipotizzato incrementi retributivi non superiori all’inflazione programmata e una diminuzione netta (-0,2% all’anno nel 2002 e 2003) del numero dei dipendenti. Gli interventi sulle spese dovrebbero inoltre accomodare i previsti incrementi delle pensioni al minimo. Rispetto al tendenziale del governo risulta però più bassa la spesa per interessi. Nel nostro scenario i tassi di interesse sui titoli pubblici scendono di circa mezzo punto tra il 2001 e il 2002; la spesa per interessi sul debito rimarrebbe sostanzialmente invariata in termini nominali intorno al livello di quest’anno (147-148.000 miliardi) e quindi d iminuirebbe di circa 0,4 punti di Pil nel 2002 e di 0,3 nel 2003. Al di là dei campi di intervento, andrà anche posta grande attenzione ai soggetti istituzionali che dovranno effettuare gli interventi. Il problema della spesa per il 2001, così come già nel 2000, sembra interessare principalmente le regioni che, secondo le stime della Relazione trimestrale di cassa di aprile 2001, raggiungerebbero un incremento complessivo di circa l’8%, contro il 3,7 del Settore statale. Il volume complessivo di spesa delle regioni è notevolmente cresciuto in questi ultimi dieci anni in funzione delle nuove competenze, in particolare la sanità, trasferite dal centro; nel 2000 risultava pari a 202.000 miliardi, un importo che sommato alla spesa di comuni e provincie (124.000 miliardi) rappresenta quasi la metà del totale della spesa del settore pubblico al netto della previdenza. Il controllo della spesa pubblica è quindi già per una parte rilevante un problema di controllo della spesa decentrata e lo sarà ancor più nei prossimi anni con gli ulteriori trasferimenti di funzioni attualmente in discussione. Il processo in atto di transizione verso un maggiore decentramento territoriale ha finora sofferto di una certa mancanza di chiarezza sugli obiettivi. In generale sono state trasferite alle regioni soprattutto 108 competenze meramente gestionali lasciando al centro le decisioni sui princ ipi organizzativi per l’esercizio delle funzioni trasferite. La sanità è un esempio emblematico di questa situazione: lo scorso anno il governo è intervenuto autonomamente su due aspetti di grande rilievo, l’esenzione dai ticket sanitari e il regime di esclusività del rapporto medico ospedaliero (cui è stato legato l’aumento di 1.500.000 lire mensili stabilito nell’ultimo rinnovo del contratto collettivo). Una scelta che rende ovviamente ancora più difficile la possibilità di pretendere il rispetto del vincolo di bilancio per le regioni e attribuire la responsabilità di eventuali scostamenti rispetto agli obiettivi (cfr. riquadro: Decentramento, federalismo e controllo della spesa pubblica). 109 DECENTRAMENTO, FEDERALISMO E CONTROLLO DELLA SPESA PUBBLICA Nell’ultimo decennio sono gradualmente aumentate le responsabilità e l’autonomia finanziaria degli enti decentrati di governo. Le risorse di cui possono autonomamente disporre le amministrazioni locali si sono sensibilmente accresciute: secondo l’ultimo Rapporto annuale dell’Istat, nel 2000 la quota del gettito fiscale di competenza delle amministrazioni locali era pari al 14,2 del totale e garantiva un tasso di autofinanziamento (rapporto tra entrate fiscali e totale delle uscite) del 44,6 %, il triplo del dato relativo al 1990 (tab. 1). Nel 2001, con la conclusione del così detto ‘decentramento amministrativo’, sono state trasferite dallo Stato altre 38.465 unità di personale e risorse finanziarie annue (escluse le spese per il personale) per 26.330 miliardi e risorse una tantum per 31.186 miliardi (tab. 2). Ulteriore impulso al decentramento è previsto nella legge di riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum confermativo il prossimo ottobre. Infine il progetto di legge sul federalismo, in corso di elaborazione da parte del Ministro per le riforme istituzionali e del governo, intende trasferire alle regioni la sicurezza pubblica locale, istruzione e sanità. Secondo una stima effettuata dal Centro di ricerca Econpubblica-Università Bocconi, per l'insieme delle regioni a statuto ordinario si tratterebbe di trasferire risorse pari a circa 80.000 miliardi. Si tratta di un incremento pari al 65% dell'attuale livello delle entrate regionali, che richiederebbe, ad esempio, di aumentare di circa 10 punti l'addizionale regionale Irpef (ovviamente con una corrispondente riduzione delle aliquote er ariali), oppure di portare a quasi il 100% la quota di compartecipazione dell’Iva. Tab. 1 – Decentramento fiscale in Italia (valori %) -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Quota del gettito fiscale di competenza delle amm. locali 5,5 5,4 5,6 6,8 8,0 7,8 8,4 8,2 13,6 12,7 14,2 Rapporto tra entrate fiscali proprie e uscite 14,5 14,7 16,9 21,4 24,3 25,7 27,3 27,1 43,7 40,0 44,6 ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Fonte: Istat, 2001. Tab. 2 – Risorse trasferite a regioni ed enti locali (al 1° marzo 2001 ex lege 15 marzo 1997, n. 59) -----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Aree Materie Risorse trasferite ---------------------------------------------Personale Risorse Risorse finanziarie finanziarie annue una tantum (unità) (miliardi) -----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Attività Uffici metrici provinciali, uffici provinciali, industria, commercio, produttive artigianato, agricoltura, energia e risorse minerarie, incentivi alle imprese, ex Agensud, competenze soppresso intervento Mezzogiorno 5.732 2.128 6.796 e programmi regionali di sviluppo, enti fieristici, benefici all’industria Territorio, ambiente e infrastrutture Strade di interesse regionale – viabilità – edilizia residenziale pubblica – opere pubbliche – ambiente – demanio idrico – catasto – trasporti – protezione civile – trasporto pubblico locale Servizi collettivi e personali Mercato del lavoro – istituti professionali – sanità – invalidi civili istruzione scolastica – polizia amministrativa 9.861 7.482 8.797 22.872 16.719 15.593 Totale risorse trasferite 38.465 26.330 31.186 ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Fonte: Ministero Funzione Pubblica. 110 Due sono i punti critici di questo processo di estensione dell’autonomia finanziaria dei governi locali. In primo luogo risalteranno con maggiore evidenza le differenziazioni nella distribuzione delle risorse, accrescendo le tensioni sul sistema perequativo; il problema è quello di un corretto trade off tra redistribuzione (perequazione delle risorse fiscali tra regioni) e efficienza (data da una maggiore competizione fiscale fra regioni). L’altro grande problema è dato dal controllo della spesa complessiva, in particolare ai fini della coerenza delle politiche di bilancio degli enti territoriali con gli obiettivi di finanza pubblica fissati a livello europeo. Attualmente il controllo della spesa è in parte affidato al Patto di stabilità interno (introdotto per la prima volta con la Finanziaria 1998), strumento che si è però finora dimostrato scarsamente incisivo. Il Patto, che riguarda regioni pr ovince e comuni, prevede che ciascun ente concorra agli obiettivi fissati a livello centrale, migliorando il proprio saldo finanziario (per il 1999 e il 2000 in misura pari allo 0,1% del Pil; per il 2001 è previsto un tetto massimo di aumento pari al 3% rispetto al disavanzo del 1999). Gli enti che raggiungono gli obiettivi beneficiano di una riduzione sul tasso di interesse dei mutui concessi dalla Cassa depositi e prestiti1. I criteri per verificare il raggiungimento degli obiettivi stabiliti sono stati modificati varie volte, soprattutto per quanto riguarda le entrate e le spese da considerare per il calcolo del saldo di bilancio. Attualmente sono escluse dal calcolo numerose voci di spesa e di entrata (in particolare quelle relative alla sanità), al punto che il calcolo del saldo finanziario per le regioni si effettua su meno del 15% delle entrate e poco più del 20% delle spese2. Alcune prime valutazioni3 sull’efficacia del Patto di stabilità interno indicano risultati migliori per province e comuni, maggiori difficoltà per le regioni. Il Ministero del Tesoro, preposto dalla legge al monitoraggio dei bilanci degli enti decentrati, ha comunicato (luglio 2000) che province, comuni e regioni risultano avere rispettato gli obiettivi del Patto di stabilità interno relativamente agli anni 1999-2000, senza però fornire informazioni quantitative. Dagli studi citati, l’ammontare dell’effettivo risparmio di spesa ottenuto risulta modesto. ----------------------------------------------------------------- Secondo l’art. 3 del decreto 1° agosto 2000, ciascun ente che raggiunge gli obiettivi prefissati ha diritto ad una riduzione di 50 punti base; la riduzione è estesa a tutti gli enti del comparto se l’obiettivo di riduzione del disavanzo è conseguito a livello complessivo; il singolo ente che ottenga un risultato superiore all’obiettivo, indipendentemente dal raggiungimento di tale risultato a livello complessivo, ha diritto a una riduzione di 100 punti base. Il riferimento ad un risultato collettivo dovrebbe incentivare un controllo reciproco degli enti sul rispetto del Patto; il premio al comportamento individuale dovrebbe indurre ad un risultato superiore a quello predefinito (Giarda e Goretti, 2001). 2 Secondo l’art. 1 del Decreto 1° agosto 2000 il saldo finanziario, utile per il Patto, si calcola escludendo dalle entrate i trasferimenti, quelle derivanti da proventi delle dismissioni di beni immobiliari e finanziari e dalla riscossione di crediti, l’Irap e l’addizionale Irpef, i trasferimenti agli enti del Ssn; le uscite da considerare sono quelle di parte corrente, al netto degli interessi passivi, escluse quelle sostenute sulla base dei trasferimenti con vincolo di destinazione. Non devono inoltre essere considerate tra le entrate e le spese quelle di natura eccezionale. 3 F. Balassone, D. Franco, S. Zotteri, Il primo anno di applicazione del Patto di stabilità interno: una valutazione, in Economia Pubblica, 2001, XXXI, 2: P. Giarda, C. Goretti, Il Patto di stabilità interno: l’esperienza del 1999-2000, in Temi di finanza pubblica, giugno 2001. 1 111 Tra i limiti intrinseci nella normativa (che nelle sue più recenti evoluzioni ha reso ancora meno stringenti i vincoli alla gestione del bilancio) sono da segnalare: l’assenza di sanzioni in caso di mancato rispetto del Patto, essendo state superate anche quelle originariamente previste4; gli obiettivi finanziari sono stabiliti in eguale misura per tutti gli enti, prescindendo quindi dagli sforzi compiuti e dagli eventuali risultati conseguiti; viene enunciato anche l’obiettivo di una riduzione del rapporto tra debito e Pil, ma non si indicano strumenti per la sua realizzazione. Un problema non ancora risolto, che prescinde dal Patto di stabilità interno, è comunque il monitoraggio costante della spesa anche degli enti decentrati. Al riguardo, il D.Lgs. 76/2000 prevede che le regioni emanino entro il dicembre 2001 provvedimenti legislativi finalizzati a adeguare il proprio sistema contabile a quello dello Stato. Si tratta di un notevole passo avanti nella direzione di creare omogeneità nei sistemi di contabilità e bilancio tra Stato centrale e autonomie territoriali per rendere così possibile analisi tempestive relative agli andamenti dell’intero comparto della Pubblica Amministrazione. Resta il problema di una maggiore trasparenza complessiva del sistema di contabilità pu bblica, soprattutto con riferimento al raccordo tra dati di cassa e di competenza, per consentire anche un efficace monitoraggio nel corso dell’esercizio finanziario e non solo a consuntivo. Oltre al Patto di stabilità interno, nella direzione di una maggiore responsabilizzazione nella gestione del bilancio si muove anche il decreto legislativo 56/2000 che prevede il superamento definitivo del sistema dei trasferimenti per il finanziamento delle regioni5 . Il nuovo meccanismo è piuttosto complesso ma, in estrema sintesi, due sono le osservazioni critiche riguardo la possibilità che esso contribuisca ad un’effettiva maggiore responsabilizzazione finanziaria degli amministratori locali. Innanzitutto prevale la compartecipazione a tributi erariali rispetto alla gestione di tributi propri e in entrambe i casi è relativamente limitata la possibilità per gli enti locali di intervenire sulle aliquote6 . Unitamente alla tendenza a lasciare allo Stato la fissazione di standard minimi uniformi per le prestazioni dei servizi pubblici, (ad esempio nella sanità), ciò lascia ampia ampi margini per una contrattazione continua tra governo centrale e regioni non, come normalmente avviene nei sistemi a struttura federale, sulla ripartizione ex ante delle rispettive quote di entrate tributarie, ma sulla quantità di risorse da trasferire per fronteggiare la spesa decentrata. Tale contrattazione rende anche difficile l’attribuzione delle effettive responsabilità degli eventuali sfondamenti. ----------------------------------------4 Nelle disposizione originarie, il caso in cui l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche fosse stato tale da determinare una sanzione da parte della Ue, tale sanzione avrebbe potuto essere posta a carico degli enti che non avessero conseguito i propri obiettivi di bilancio. 5 A partire dal 2001, il sistema di trasferimenti di risorse finanziarie dallo Stato alle regioni a statuto ordinario viene sostituito con un sistema fondato su tributi propri (Irap, addizionale Irpef dello 0,9-1,4%, accisa sulla benzina, tassa auto), compartecipazione ai tributi erariali (il 25,7% del gettito complessivo dell’Iva). Viene anche stabilito un meccanismo di perequazione parziale, al 90%, della capacità impositiva tra le regioni. Il fatto che la perequazione sia solo parziale, dovrebbe incentivare comportamenti virtuosi dato che la copertura di eventuali disavanzi potrebbe essere attuata solo attraverso il ricorso a maggiore pressione fiscale; una parte di eventuali avanzi di bilancio resterebbe invece a beneficio della comunità. 6 Le regioni possono elevare la percentuale di gettito Irpef attribuita (0,9%) dello 0,5%, maggiorare l’aliquota Irap fino ad un massimo di 1 punto percentuale, variare in una misura compresa tra il 90 e il 110% gli importi vigenti nell’anno precedente relativamente alle tasse automobilistiche. Le entrate relative all’eventuale ricorso a maggiorazioni impositive resterebbe a esclusivo beneficio del bilancio regionale. 112 Una reale autonomia di entrata e di spesa dovrebbe comportare che siano le singole regioni a decidere, per le materie di loro competenza, l’equilibrio tra pressione fiscale e servizi resi, ripartendo le risorse disponibili in funzione delle priorità del territorio. Tale scelta potrebbe determinare costi iniziali legati soprattutto all’attuale inadeguatezza delle amministrazioni a gestire cambiamenti di questa portata. Un sistema federale implica comunque un trade-off tra esigenze di omogeneità nelle prestazioni (ad esempio quelle sociali) e le esigenze di una autonomia sostanziale. 113 II) SINTESI DEL RAPPORTO CERP “LA RIFORMA DEL SISTEMA PREVIDENZIALE: OPZIONI E PROPOSTE” (*) A cura di Elsa Fornero e Onorato Castellino 1. Le ragioni per completare la riforma 1.1 Gli squilibri finanziari All’inizio del 1992, il sistema previdenziale italiano soffriva di tre gravissime anomalie: squilibrio finanziario, in atto e ancor più in prospettiva: per coprire la spesa pensionistica, sarebbero state necessarie aliquote contributive progressivamente crescenti sino a oltre il 50%, o concorsi sempre più cospicui del bilancio pubblico, alternative ambedue inaccettabili; iniquità redistributive derivanti sia dalle differenze normative tra i diversi regimi (normalmente in favore delle categorie professionali più ricche), sia dalla formula retributiva di calcolo dei benefici. Tale formula implicitamente premia le carriere più dinamiche e (anche e soprattutto grazie alla pensione di anzianità) le carriere più precoci e continue. Gli effetti della previdenza sociale sulla distribuzione del reddito andavano quindi molto spesso nella direzione perversa di una accentuazione delle diseguaglianze, concorrendo, a mano a mano che se ne diffondeva la consapevolezza, alla crescente insoddisfazione verso il sistema; incentivi potenti all’abbandono precoce dell’attività lavorativa (almeno di quella ufficiale), anche in questo caso per effetto della pensione di anzianità e comunque di un rendimento – in termini di aumento della pensione – molto basso, quando non addirittura nullo o negativo, della prosecuzione dell'attività. L'autunno del 1992, con la legge delega del 23 ottobre (n. 421), seguita tre anni dopo dalla legge 8 agosto 1995, n. 335, rappresenta uno spartiacque storico nella politica previdenziale italiana. L’insieme delle riforme Amato e Dini, con le ulteriori revisioni operate dal governo Prodi, rappresenta infatti un contributo radicale e coraggioso alla correzione delle preesistenti anomalie. Nel disegno definitivo di queste riforme (prescindendo cioè dalla fase di transizione, sulla quale si ritornerà fra breve), la correlazione tra ------------------------------------------(*) La ricerca è stata realizzata con il contributo finanziario dell’Assonime e di Confindustria. I curatori e gli autori si assumono l’intera responsabilità delle opinioni espresse. Le proposte non impegnano la responsabilità delle istituzioni committenti. 115 pensione e retribuzione finale è stata sostituita da un più appropriato riferimento alle retribuzioni (Amato) o alle contribuzioni (Dini) dell'intera vita lavorativa. La pensione di anzianità è stata dapprima ricondotta, per i dipendenti pubblici, alla meno generosa normativa prevista per i dipendenti privati (Amato) e poi abolita per ambedue le categorie (Dini). Al minore livello dell'aliquota versata dai lavoratori autonomi è stata associata una promessa pensionistica analogamente più bassa. L'armonizzazione delle normative dei diversi regimi è stata disciplinata come principio generale e affidata all'esercizio di deleghe al governo. Su tutto ciò si inserisce l'innovazione (già presente nella riforma Amato e da allora pienamente operante) che deindicizza le pensioni dai salari reali, collegandole unicamente all'indice dei prezzi, innovazione che da sola genera una parte rilevante dei risparmi complessivi. Le precedenti anomalie avevano però modellato le aspettative dei lavoratori di ogni età, spingendo tanto il legislatore del 1992 quanto quello del 1995 a tutelare queste aspettative con generose norme transitorie, le quali lasciano aperti due ordini di problemi: i forti squilibri finanziari, destinati a protrarsi per altri tre-quattro decenni, tra contributi e prestazioni; la sopravvivenza di rilevanti distorsioni microeconomiche proprie del vecchio regime. Per effetto delle ricordate norme transitorie, il nuovo regime diventerà pienamente operativo soltanto dopo il 2030 per quanto riguarda i flussi delle nuove pensioni e soltanto dopo il 2050 per quanto riguarda lo stock delle pensioni in essere. Senza nuovi interventi, la transizione è perciò destinata a essere molto lunga. Così durante come al termine della transizione, l’aliquota contributiva sarà pari al 32,35% per i dipendenti pubblici e al 32,70% per i dipendenti privati. Per artigiani e commercianti, l’aliquota sta compiendo una lentissima transizione dal 15 al 19%. Tutti e tre i livelli – i primi due molto alti rispetto allo standard internazionale – sono però insufficienti, e sino al 2040 largamente insufficienti, a coprire la spesa. A legislazione invariata, il disavanzo annuale complessivo è stimabile in un ordine di grandezza di 4 – 4,5 punti percentuali del Pil fino al 2030, e soltanto in seguito esso tenderà a convergere lentamente verso il pareggio che dovrebbe caratterizzare l’applicazione integrale della nuova formula (tab. 1). 116 Tab. 1 - Disavanzi del sistema previdenziale in percentuale del Pil Anni FPLD Artigiani e Commerc. Coltivatori Diretti Pubblici Dipendenti Totale 2000 2,03 0,18 0,73 1,15 4,09 2010 2,46 0,42 0,54 1,13 4,55 2020 2,56 0,59 0,35 1,18 4,68 2030 2,56 0,60 0,20 1,24 4,60 2040 1,57 0,35 0,10 0,60 2,62 2050 0,29 0,15 0,05 0,20 0,69 Fonte: nostre elaborazioni sulla base di proiezioni Inps per le gestioni di sua competenza e di nostre stime per il settore pubblico. 1.2 Le distorsioni microeconomiche: gli effetti sull’offerta di lavoro Tra le ragioni per completare la riforma del sistema pubblico a ripartizione non può mancare una riflessione sugli effetti che l’ordinamento previdenziale esercita sul costo del lavoro, sulla competitività delle imprese e sull’occupazione, soprattutto in presenza di un livello di contributi sociali comparativamente elevato nel quadro dei paesi europei. Va peraltro sottolineato come l’intreccio delle relazioni in questo ambito sia molto complesso, e ciò suggerisca cautela nel trarre implicazioni di policy sulla base sia di una mera descrizione qualitativa, sia di un semplice confronto fra carichi contributivi. Non vi sono, infatti, ragioni cogenti – almeno non in linea di principio – che inducano a equiparare necessariamente gli oneri sociali a un’imposta con caratteristiche distorsive . Più specificamente, l’equiparazione non è lecita allorché ai contributi versati corrisponda una controprestazione attuarialmente equa. In tal caso, i soggetti sono consapevoli del fatto che i contributi sociali rappresentano, in realtà, una forma di risparmio (sia pure obbligatorio) al quale corrisponderanno benefici nell’età anziana. A tale benchmark di neutralità – che richiede, peraltro, che il livello dei contributi sia non superiore a quello che sarebbe liberamente scelto dai lavoratori – sono, com’è noto, ispirate le riforme degli anni Novanta e in particolare la riforma Dini, alla quale si deve l’adozione del metodo contributivo di calcolo della pensione, basato, per l’appunto, su un criterio di equivalenza attuariale. Il nostro sistema previdenziale, tuttavia, è oggi ben lontano dalla neutralità, e lo sarà ancora per alcuni decenni. Ciò dipende sia dal perdurare di componenti retributive nel calcolo delle pensioni, sia dall’uso improprio che la classe politica ha fatto del sistema previdenziale, con obbiettivi di redistribuzione delle risorse, non sempre corrispondenti a criteri di equità, o di sostegno alla ristrutturazione del sistema produttivo (prepensionamenti). Soltanto con l’entrata a regime del metodo contributivo si potrà restituire 117 alla previdenza pubblica la sua funzione assicurativa, sottraendole gli impropri compiti del passato. Il metodo retributivo, in particolare quando abbinato al pensionamento precoce, è causa di distorsioni perché in esso risulta blando (o del tutto assente, al margine) il collegamento tra contributi e prestazioni e, soprattutto, inesistente ogni nesso con la longevità attesa al momento del pensionamento. Nel nostro modello di simulazione si stimano, per diverse generazioni di lavoratori dipendenti, le perdite causate dalla permanenza nell’attività lavorativa una volta raggiunti i requisiti minimi per il pensionamento. I calcoli (tab. 2) indicano come la “tassa implicita” possa arrivare, per le coorti per le quali la pensione sarà ancora tutta o quasi tutta retributiva, anche al 60-70% del salario percepito. In queste condizioni, non vi è da stupirsi che i tassi di attività scendano fortemente a partire da età relativamente giovani, ossia intorno ai 55 anni. Sotto questo profilo, è facile rilevare (pur se “con il senno di poi”) un’incoerenza nel disegno previdenziale basato su formule retributive, nel senso che, paradossalmente, tali formule sembrano congegnate proprio per “dissipare” la risorsa di cui il sistema ha maggiormente bisogno, ossia il lavoro regolare. Anche in assenza di dati rigorosi, infatti, è lecito affermare che le persone che escono in età così giovane finiscono spesso per alimentare il lavoro irregolare e sommerso. La “tassa” implicita nella prosecuzione dell’attività di lavoro coinvolge in modo particolare le generazioni che si possono avvalere, con benefici determinati interamente secondo il metodo retributivo, della normativa sulle pensioni di anzianità. Per queste generazioni, lavorare dopo il raggiungimento dei requisiti minimi è estremamente oneroso: per la generazione del 1943, ad esempio, la “tassa” è pari al 43% del salario se il pensionamento è posticipato da 35 a 36 anni di contribuzione; essa sale a oltre il 70% nel caso in cui il pensionamento sia rinviato quando già si sono raggiunti 40 anni di anzianità. La tassazione implicita sul proseguimento del lavoro è ben superiore (in qualche caso anche vicina al doppio) ai contributi versati. 118 Tab. 2 – FPLD – “Tassa” sul lavoro (in percentuale della retribuzione) TR (valori %) Anni di contribuzione Regime Coorti 35 37 40 Retributivo 1943 1948 1953 43 52 53 52 59 61 72 72 72 Pro rata 1958 1963 1968 1973 29 20 11 4 29 20 11 3 29 20 10 2 Contributivo 1978 4 3 1983 4 3 1988 4 3 Nota: calcoli riferiti a lavoratori maschi con ingresso nel mercato del anni. 2 2 2 lavoro a 22 2. Opzioni e proposte di riforma entro il sistema a ripartizione 2.1 Perché l’estensione del pro rata è una misura insufficiente Per correggere gli squilibri e le distorsioni della transizione, la più naturale – e anche meno controversa – ipotesi di riforma è rappresentata dall’estensione del metodo di calcolo contributivo a tutti i lavoratori, a valere sull’anzianità residua all’atto dell’entrata in vigore del provvedimento. Questo tipo di riforma è conosciuto con il nome di estensione del pro rata , dove il termine “estensione” si riferisce all’applicazione del metodo anche ai lavoratori che ne furono esclusi al momento dell’entrata in vigore della riforma Dini, ossia ai lavoratori con 18 e più anni di anzianità contributiva all’inizio del 1996. L’esclusione di un’ampia platea di lavoratori fu probabilmente un prezzo da pagare per l’approvazione delle riforme (sia quella del 1992, sia quella del 1995); è peraltro ovvio che anche l’estensione del pro rata , trattandosi di un provvedimento che incide sulla transizione e non sulla situazione di regime, produrrà effetti che saranno tanto meno significativi quanto più se ne ritarda l’applicazione. E’ stato così effettuato un esercizio di simulazione, ipotizzando di applicare la riforma all’inizio del 2002. Il modello di simulazione CeRP consente di valutare le conseguenze dell’estensione del pro rata, sia in termini di riduzione delle distorsioni microeconomiche sulle quali ci si è soffermati nel precedente paragrafo, sia – attraverso l’uso di una sua versione aggregata – in termini di contenimento della spesa previdenziale. Sotto entrambi i profili – correzione delle distorsioni e risparmi di spesa e, perciò, contenimento del disavanzo – gli effetti di quest’ipotesi di riforma appaiano estremamente esigui. 119 2.2 Perché e come intervenire sulle pensioni di anzianità L’origine degli squilibri e delle distorsioni sta nella combinazione di una formula generosa (quella retributiva) con la bassa età di pensionamento resa possibile dalla normativa sulle pensioni di anzianità, in presenza di un forte allungamento della speranza di vita nelle età anziane. Se in ciò sta il problema, si comprende facilmente come il rimedio non possa che risiedere nell’introduzione di un qualche meccanismo che aumenti sensibilmente l’età di pensionamento – attraverso un inasprimento del requisito “età” negli abbinamenti età/anzianità attualmente previsti per il periodo di transizione – o corregga, sulla base di un criterio di equità attuariale, l’importo della pensione (quanto più bassa è l’età, a parità di ogni altra condizione, tanto più bassa deve essere la pensione). Il primo rimedio (aumento per legge dell’età pensionabile), benché di sicura e immediata efficacia nell’alleggerire i problemi finanziari, potrebbe però imporre perdite di benessere per gli individui e oneri di efficienza al sistema produttivo. Le situazioni personali e familiari, le possibili utilizzazioni del tempo in alternativa all’attuale occupazione, e più generalmente le “curve di indifferenza” fra lavoro e tempo libero per un verso; e il combinarsi degli effetti dell’anzianità sull’esperienza, ma al tempo stesso sull’obsolescenza, del lavoratore, per l’altro verso, sono estremamente variabili da caso a caso. Per conseguenza, nella logica di un sistema previdenziale efficiente e flessibile anche nella componente pubblica, la correzione attuariale, ovviamente combinata con la libertà di scelta sull’età di pensionamento, è decisamente da preferirsi all’innalzamento per legge di tale età o all’introduzione di “blocchi” temporanei, poiché le soluzioni affidate agli incentivi sono in genere superiori alle soluzioni dirigistiche, dati gli inevitabili costi e distorsioni che queste comportano. La correzione attuariale della componente retributiva della pensione incide peraltro sui diritti già maturati ed è pertanto, come l’esperienza insegna, una misura di difficile realizzazione. A sostegno dell’intervento sulle pensioni di anzianità vi è tuttavia una argomentazione “forte”, e cioè il notevole allungamento della speranza di vita all’età di pensionamento. Negli ultimi quattro decenni, la vita attesa alle età 55 e 60 (ma anche 65) è aumentata di circa un quarto per gli uomini e in misura anche maggiore per le donne. Si può quindi sostenere che la promessa pensionistica formulata negli anni Sessanta con l'introduzione della pensione di anzianità non verrebbe ridotta, bensì “spalmata” sul maggior numero di anni di vecchiaia che sono un portato del progresso. Non ci sarebbe, pertanto, rottura del patto, ma un suo adeguamento alle mutate circostanze, a partire dalla constatazione che il mantenimento delle promesse passate, data la natura della ripartizione, imporrebbe gravi oneri alle generazioni giovani e future, le quali si troverebbero a subire le conseguenze di scelte poco lungimiranti alle quali non hanno concorso. 120 Nel nostro modello di simulazione, la correzione attuariale è consistita nell’applicare alla quota retributiva delle pensioni un coefficiente dato dal rapporto tra il coefficiente di trasformazione Dini per l’età considerata e quello relativo ai 65 anni1. La misura della correzione è indubbiamente forte, comportando un taglio di benefici pari a circa tre punti percentuali per ogni anno di anticipazione del pensionamento rispetto all’età 65. Per calcolare i conseguenti risparmi, si è partiti dalla distribuzione per età e anzianità dei lavoratori dipendenti pubblici e privati; sotto le ipotesi di carriere continue e di pensionamento alla maturazione dei requisiti minimi, sono stati stimati i flussi pensionistici corrispondenti al taglio attuariale delle quote retributive e si sono raffrontati tali flussi con quelli corrispondenti alla normativa vigente. La tabella 3 riporta i risultati principali, distinguendo tra un’ipotesi minima (che considera soltanto i lavoratori dipendenti maschi) e un’ipotesi massima (che tiene conto, sia pure con una metodologia più approssimata, dei lavoratori autonomi e delle lavoratrici dipendenti). Tab. 3 – Risparmi di spesa conseguenti alla correzione attuariale delle pensioni di anzianità Anni Dipendenti privati (miliardi di lire 2000) Dipendenti pubblici (miliardi di lire 2000) minimo massimo minimo 2010 13.540 22.646 4.633 2015 18.410 30.791 2020 20.750 2025 massimo Totale (in percentuale del Pil) minimo massimo 9.085 0,72 1,26 6.572 12.887 0,92 1,62 34.705 7.219 14.155 0,96 1,68 21.142 35.359 7.159 14.037 0,90 1,58 2030 19.852 33.203 6.523 12.791 0,78 1,36 2035 16.718 27.261 5.366 10.521 0,61 1,06 2040 12.632 21.127 3.919 7.685 0,42 0,73 2045 8.482 14.186 2.466 4.836 0,26 0,45 2050 5.021 8.397 1.305 2.559 0,14 0,24 Non sorprendentemente, la riduzione di spesa è decisamente superiore a quella ottenibile con la sola estensione del pro rata. In particolare, il flusso annuo di risparmio raggiunge, intorno al 2020, un massimo compreso nella forbice tra l’uno per cento circa del Pil e l’1,7%. Per le età inferiori ai 57 anni è stato applicato il coefficiente relativo a tale età. L’intervento da noi simulato riguarda soltanto le pensioni di nuova liquidazione. Nulla vieta ovviamente (e anzi ragioni di equità lo sosterrebbero) che tale intervento possa essere esteso anche ai pensionati che già godono di una pensione di anzianità, nella forma di un contributo di solidarietà fatti salvi certi limiti di reddito famigliare. 1 121 Una considerazione importante riguarda l’accettabilità sociale dell’ipotesi di riforma sopra delineata. Mentre infatti l’estensione del pro rata non tocca i “diritti acquisiti” a una certa data, stabilendosi che le nuove norme valgano per tutti ma solo per il futuro, la correzione attuariale della componente retributiva della pensione, come già ricordato, incide su diritti, o almeno su precise aspettative, già maturati. E’ facile prevedere una forte opposizione a tale provvedimento2. Naturalmente, nulla vieta che in sede di discussione politica e operativa di un provvedimento di correzione delle pensioni di anzianità si possa attenuarne la severità, adottando un’età benchmark inferiore, ad esempio 62 anni, ossia alzando i coefficienti di correzione delle pensioni di anzianità. I risparmi si ridurrebbero ma resterebbero significativamente superiori a quelli ottenibili con l’estensione del pro rata . Nulla vieta poi che siano previste eccezioni motivate dalla differente mortalità di alcune categorie di lavoratori, impegnati in lavori maggiormente usuranti, per le quali le riforme degli anni Novanta hanno già previsto disposizioni particolari per le pensioni di vecchiaia per le quali potrebbe mantenersi inalterata l’attuale normativa sul pensionamento di anzianità. 2.3 Alcune considerazioni sulle gestioni dei lavoratori autonomi Le gestioni dei lavoratori autonomi sono state caratterizzate, sin dalla loro nascita (1957 per i coltivatori diretti, 1959 per gli artigiani, 1966 per i commercianti), da norme di favore, ossia da un rapporto tra i contributi versati e le prestazioni godute da ciascun assicurato assai più generoso di quello dei lavoratori dipendenti. Anche dopo l’aumento dell’aliquota (intervenuto tra il 1991 e il 1994) dal 12 al 15%, la riforma Dini e la successiva norma (legge 449/1997) che ha disposto l’ulteriore aumento al 19% (peraltro con snervante gradualità: 0,8% dal 1998 e 0,2% l’anno successivamente, così che sono necessari 16 anni per percorrere la strada dal 15,8 al 19%!), la situazione permane privilegiata sia per i titolari di anzianità superiori a 18 anni nel 1995, sia per i soggetti al pro rata. Si considerino due esempi di carriere continue: un nuovo iscritto del 1975, il quale consegua la pensione di anzianità nel 2010, avrà corrisposto contributi modesti nel 1975-81, ancora moderati nel 1982-1990, e crescenti dal 12 al 18,2% del reddito nel 1991-2010, e godrà della piena pensione retributiva; 2 In effetti, in sedi politiche ed istituzionali si è “aggirato” il problema proponendo una soluzione alternativa assai più blanda (ma ovviamente assai meno efficace) consistente nel “premiare”, con un azzeramento dell’aliquota contributiva, la permanenza al lavoro di chi abbia maturato i diritti per la pensione di anzianità. 122 un nuovo iscritto del 1980, il quale consegua la pensione di anzianità nel 2015, avrà corrisposto contributi moderati nel 1981-1990 e crescenti dal 12 al 19 per cento nel 1991-2015, e godrà della pensione pro rata determinata per 15/35 col metodo retributivo e per 20/35 col metodo contributivo, riferito a un'aliquota di computo del 20%. Ciò ricordato e premesso, tutte le proposte in precedenza avanzate possono essere estese, in qualche caso a fortiori, ai lavoratori autonomi. In particolare: l'estensione del pro rata trova le medesime motivazioni già esposte, oltre che, sul piano equitativo, anche rispetto al tenue livello contributivo degli anni anteriori al 1990; al tempo stesso, però, tale misura è da considerarsi assai poco efficace; la correzione attuariale delle pensioni di anzianità è egualmente motivata e assai più efficace. 2.4 Aspetti problematici del nuovo regime Al di là dei problemi finanziari presenti durante la fase di transizione al nuovo regime, è opportuno ricordare gli aspetti problematici che si proporranno anche quando esso sarà pienamente operativo. Questi aspetti vertono essenzialmente sui punti seguenti: i. i coefficienti di trasformazione e il loro aggiornamento; ii. la costanza della pensione, in termini reali, durante il periodo di godimento; iii. il limite inferiore all'età di pensionamento e il limite superiore all'età di calcolo dei coefficienti di trasformazione; iv. la redistribuzione insita nel nuovo sistema; v. i divieti di cumulo. Tutti questi aspetti vengono considerati nella versione integrale del Rapporto. In questa sintesi, ci si soffermerà soltanto sul primo e sull’ultimo. I coefficienti di trasformazione e il loro aggiornamento. Il montante contributivo, come è noto, viene convertito in rendita moltiplicandolo per i coefficienti di trasformazione contenuti nella tabella allegata alla legge di riforma (n. 335 del 1995). La relazione al disegno di legge precisa che questi coefficienti sono calcolati con riferimento alle tavole di mortalità Istat per il 1990 e a un tasso di interesse dell'1,5%. La legge (art. 1, comma 11) dispone che il Ministro del lavoro, sulla base delle rilevazioni demografiche, ridetermini ogni dieci anni il coefficiente di trasformazione. 123 La tabella 4 indica, per le età 57-65: le speranze di vita secondo le tavole di mortalità Istat 1990; le speranze di vita secondo le ultime tavole Istat disponibili (1996); le speranze di vita secondo le proiezioni della Ragioneria generale dello Stato (1995), ormai diffuse anche nell'uso delle compagnie private di assicurazione e usualmente indicate come RG483. Tab. 4. - Speranze di vita (anni) alle diverse età secondo il genere Età Istat 1990 Istat 1996 Rg48 M F M F M F 57 20,76 25,64 21,84 26,63 25,04 30,55 58 19,97 24,76 21,02 25,73 24,17 29,61 59 19,19 23,88 20,22 24,84 23,32 28,67 60 18,42 23,00 19,42 23,96 22,46 27,73 61 17,68 22,13 18,65 23,08 21,62 26,79 62 16,94 21,27 17,89 22,21 20,78 25,86 63 16,22 20,42 17,14 21,35 19,94 24,93 64 15,52 19,57 16,41 20,49 19,12 24,00 65 14,83 18,74 15,69 19,65 18,30 23,07 La tabella mostra quanto rilevante sia l'effetto dell'aumento della longevità. Già nell'arco di sei soli anni, quale intercorso fra il 1990 e il 1996, la vita attesa aumenta, per tutte le età considerate (57-65) e per ambedue i generi, di circa un anno. Le tavole Rg48 prevedono (rispetto al 1990) un allungamento di circa quattro anni per i maschi e di quasi cinque per le femmine. Se ne conclude che: l'adeguamento soltanto decennale alle tavole di mortalità effettive (ossia già statisticamente rilevate) può creare, nell'ambito del decennio, un gap crescente tra i coefficienti applicati e quelli che corrispondono alle tavole più recenti; nel decennio 1990-2000 (essendo a oggi note soltanto le tavole 1996) è presumibile che questo divario raggiunga l’ordine di un decimo; Si tratta di tavole che considerano un nato nel 1948 e stimano le sue probabilità di sopravvivenza alle diverse età secondo le “proiezioni”, per gli anni successivi al 1994, delle tendenze in atto. Per i nati degli anni successivi bisognerebbe inoltre tenere conto (ma non lo si è fatto nel presente studio) degli ulteriori aumenti della longevità. 3 124 poiché non è pensabile (e comunque non si vuole pensare a) una riduzione del valore reale delle pensioni una volta liquidate, se i coefficienti sono commisurati a tavole di mortalità effettive (anche se aggiornate) ma non proiettate, l'aumento di speranza di vita che si manifesta durante il godimento della pensione (e quindi lungo periodi di alcuni decenni) si traduce in aumenti di spesa che non possono non riversarsi in un rilevante disavanzo del sistema. Volendo riportare il meccanismo alle condizioni necessarie per l'equilibrio finanziario, sarebbe necessario determinare periodicamente (meglio se addirittura annualmente) i coefficienti di trasformazione in base alle speranze di vita proiettate secondo le più attendibili previsioni demografiche di volta in volta disponibili. I divieti di cumulo pensione-retribuzione. Questi divieti sono espressi, nella legislazione vigente sino al dicembre 2000, da norme complesse e intricate, che distinguono fra pensione di vecchiaia e di anzianità, fra pensioni derivanti da lavoro dipendente e autonomo, fra prosecuzione nel settore del lavoro dipendente e autonomo, e ancora si differenziano in base all'entrata in vigore, e quindi al momento di decorrenza della pensione (o di raggiungimento dei requisiti). Il principio sembra trovare appoggio nell'una o nell'altra di due argomentazioni, che si possono così approssimativamente sintetizzare: a) il numero dei posti di lavoro è un dato fisso, e quindi un pensionato non deve sottrarre lavoro a un giovane; b) la pensione è in qualche misura un favore o un regalo, e chi la riceve deve “pagarla” in termini di rinuncia ad altri redditi da lavoro. La prima argomentazione è debole per una pluralità di motivi: i posti di lavoro sono più o meno disponibili secondo la qualificazione, l'area geografica, l'orario pieno o parziale, e vari altri elementi, e perciò per molti di essi l'alternativa non è fra un lavoratore anziano e uno giovane, ma fra un lavoratore anziano e nessun lavoratore. La seconda argomentazione, quale che ne sia l'attuale fondamento, non ne avrà alcuno a regime, ossia dopo che troverà piena applicazione il principio di equità attuariale che ispira la riforma Dini. Sotto ambedue i profili, è essenziale aggiungere che il pensionato lavoratore è già soggetto a contribuzione previdenziale e a imposizione fiscale. L'ulteriore penalizzazione derivante dalla rinuncia a una parte (o alla totalità!) della pensione gli lascia un margine talmente piccolo che, ove gli si presenti una possibilità di lavoro, l'incentivo all'occultamento totale e quindi al lavoro nero diventa irresistibile. Sono quindi chiaramente frustrati sia l’intento di lasciare libero un posto di lavoro, sia quello di decurtare il reddito del pensionato-lavoratore. 125 Appropriatamente ha quindi operato la legge finanziaria 2001 (388/2000, art. 72), lasciando piena libertà di cumulo alle pensioni di vecchiaia e a quelle maturate dopo almeno 40 anni di contribuzione, e attenuando le limitazioni per le pensioni maturate con anzianità inferiori a 40 anni. La piena liberalizzazione anche per queste ultime può destare qualche perplessità sotto il profilo equitativo, ma tenuto conto delle maggiori probabilità di evasione (ossia di lavoro nero) per i pensionati più giovani è probabilmente opportuno procedervi in nome del realismo. La piena libertà di cumulo dovrà a fortiori accompagnarsi alle pensioni (anche di anzianità) di futura liquidazione ove si adottassero i provvedimenti correttivi (nel senso dell’equità attuariale) in precedenza proposti sub 2.2. 3. Le ragioni a favore di un sistema misto 3.1 Il confronto fra steady states e i tassi di rendimento: l’evidenza storica Viene spesso proposta – in particolare negli Stati Uniti, ma anche in molti altri paesi fra cui da qualche tempo il nostro – la tesi che l'unico rimedio agli squilibri della ripartizione sia un deciso e integrale ritorno alla capitalizzazione. Nella sua formulazione più elementare, il dibattito si limita al confronto fra due situazioni di steady state, l’una rappresentata da un sistema a ripartizione e l’altra da un sistema a capitalizzazione. Nel primo, come è noto, il rendimento implicito dei contributi è pari al tasso di sviluppo della massa salariale (in prima approssimazione fatto pari al tasso di aumento del Pil: n+g), mentre nel secondo i contributi, accantonati a riserva, fruttano il rendimento dei mercati finanziari r. Se il tasso r, pur depurato dei costi di gestione, è superiore a n+g, la capitalizzazione permette il medesimo livello di prestazioni con contributi inferiori, o un maggiore livello di prestazioni a parità di contributi. La stima dei rendimenti reali attesi per varie classi di attività finanziarie su orizzonti futuri anche lunghi riveste dunque un'importanza cruciale nella formulazione di ipotesi di riforma dei sistemi di previdenza sociale e nella valutazione comparativa di proposte che assegnano pesi diversi alla componente a capitalizzazione. Recentemente, numerosi studi hanno analizzato l'andamento di lungo periodo dei rendimenti su azioni e titoli, concentrandosi su quei paesi per cui vi è maggiore disponibilità di dati con copertura temporale sufficientemente lunga, in primo luogo gli Usa. Il testo integrale del Rapporto fornisce in materia, attraverso tabelle e grafici, numerose indicazioni quantitative di tipo storico riferite a lunghi periodi, indicazioni che si possono qui così riassumere: il rendimento dei mercati azionari è mediamente (e sensibilmente) superiore a quello del reddito fisso; 126 il rendimento dei mercati azionari è mediamente superiore al tasso di variazione del Pil. 3.2 Dall’evidenza storica alle previsioni Prima di concluderne che un sistema a capitalizzazione è più efficiente (nel senso sopra indicato di permettere uguali prestazioni con contributi inferiori o prestazioni maggiori con uguali contributi), ci si deve però domandare quale fondamento si possa trovare nel passato per prevedere l’avvenire. I rendimenti annui delle azioni assomigliano all’estrazione di palline da un’urna – sempre dalla medesima urna ! – così da potere essere analizzati con le stesse tecniche statistiche con cui si studiano le proprietà di un campione casuale? Oppure (anche accettando l’ipotesi che le istituzioni politico-economiche rimangano sostanzialmente immutate e rispettose della proprietà privata e della libertà di iniziativa) la storia non si ripete mai, e riserva continue sorprese? Approfondite analisi condotte secondo la tecnica suggerita da Fama e French (2001), e diffusamente illustrate nel Rapporto, mostrano come l’utilizzo dei rendimenti realizzati come guida per previsioni su un orizzonte futuro possano produrre gravi distorsioni dei risultati. Varie altre ragioni possono spiegare perché i rendimenti oggi attesi per il futuro possano essere anche sostanzialmente inferiori a quelli rilevati storicamente. Diamond (1999) mette in evidenza alcuni aspetti dell'evoluzione recente sui mercati finanziari che possono comportare la diminuzione dell'equity premium atteso per il futuro, e in particolare: la presenza più massiccia sul mercato dei fondi comuni di investimento; la riduzione dei costi di investimento mediante fondi; la sempre maggiore diffusione dell'investimento azionario, diretto o intermediato, fra il pubblico, ciò che, ripartendo il rischio su un numero maggiore di individui, tende a ridurre il premio richiesto sulle azioni. E' plausibile ipotizzare che i fenomeni appena ricordati, interessando maggiormente i mercati azionari, possano determinare una riduzione del premio al rischio futuro soprattutto attraverso una diminuzione dei rendimenti attesi sulle azioni. Questo insieme di fattori induce a guardare con scetticismo ogni semplice estrapolazione al futuro degli elevati rendimenti azionari realizzati negli ultimi decenni, a maggior ragione se tali proiezioni sono basate unicamente sull'esperienza degli Usa, suggerendo invece un più elevato grado di prudenza. 3.3 La variabilità dei rendimenti Una diversa e ulteriore questione attiene al fatto che, pur se mediamente più elevati, i rendimenti azionari sono anche più oscillanti, più incerti, più rischiosi. Ad esempio, Siegel (1998, p. 27) mostra che le medie quinquennali dei rendimenti annui del mercato Usa nel periodo 1802-1997 oscillano tra 127 26,7% e –11%; per periodi ventennali, l’intervallo si restringe a 12,6% e 1%. Pur adottando la visione di Siegel, dunque, un orizzonte dell’ordine di cinque anni non offrirebbe affatto garanzia di rendimenti azionari positivi. Se pur pochi nella tranquilla ottica di uno studioso che osservi gli avvenimenti ex post, cinque anni sono un’eternità per un gestore che debba quotidianamente affrontare i commenti della stampa, le lettere degli iscritti, il confronto con gli altri gestori. Come si sarebbe trovato, nel corso del quinquennio che aveva registrato un rendimento annuo medio del –11%, quel gestore che avesse impiegato in azioni la totalità delle sue riserve? Come avrebbe potuto tranquillizzare i suoi iscritti e indurli a pazientare per altri dieci-quindici anni? L’investimento azionario sembrerebbe quindi problematico per un fondo pensione, che per sua natura deve fornire garanzie di certezza a chi ne attende una fonte di sostegno per la propria vecchiaia. Le oscillazioni dei rendimenti possono essere attenuate investendo le riserve non già interamente in azioni, ma almeno in parte (la letteratura suggerisce spesso una frazione dell’ordine di un terzo o due quinti: cfr. ad es. Modigliani et al. 2000, p.4) in obbligazioni, che, fatta eccezione dei periodi di intensa e imprevista inflazione, si suppone fruttino tassi reali mediamente inferiori ma più stabili. Un altro e più sofisticato rimedio suggerisce che lo Stato garantisca un rendimento predeterminato, assumendosi il rischio delle oscillazioni. Modigliani et al. (2000, pp. 25-28) ritengono l’intervento statale non soltanto possibile, ma anche vantaggioso per il bilancio pubblico ove il rendimento garantito sia pari al 5,2%. Tuttavia, per quanto si è detto nei paragrafi precedenti sull’evidenza storica, sulle cautele necessarie per passare dall’esperienza alle previsioni e sulla variabilità dei rendimenti, il ricorso alla garanzia statale appare denso di rischi e di pericoli. Quando pure il tasso garantito fosse inferiore all’atteso, se la deviazione standard della media secolare si colloca nell’ordine del 2% anche un soggetto con orizzonti lunghissimi, come lo Stato, potrebbe trovarsi in difficoltà nell’integrare i rendimenti, per periodi pluridecennali, a tale minimo. Si correrebbe il rischio di addossare al bilancio pubblico, cioè alle coorti attive, una parte non irrilevante del costo della previdenza sociale, e quindi di reintrodurre una sostanziale (e surrettizia) dose di ripartizione in un sistema che si era voluto portare alla capitalizzazione. Alternativamente, ci si potrebbe limitare a garantire un tasso molto modesto, ma in tal caso verrebbe meno lo scopo stesso della garanzia, quello di assicurare un soddisfacente tenore di vita. 128 3.4 Perché un sistema misto Una via d’uscita dal dilemma è offerta dallo schema analitico delle scelte di portafoglio. Sotto le ipotesi, del tutto ragionevoli, che i rendimenti dell’uno e dell’altro sistema siano, oltre che incerti, non perfettamente correlati, e che i soggetti siano razionali e avversi al rischio, la scelta della combinazione ottima rischio-rendimento dovrebbe condurre alla simultanea partecipazione nei due sistemi, ossia alla diversificazione del portafoglio previdenziale. Così la ripartizione come la capitalizzazione appaiono non immuni da rischi; poiché tali rischi sono almeno parzialmente indipendenti, la partecipazione contemporanea ai due sistemi offre ai soggetti una certa possibilità di compensarli. Nelle parole di Lindbeck (2000, p. 22), “ In a world of uncertainty, we also have to look at the risk-return combination of alternative pension systems. The returns on PAYGO pension claims are not fully correlated with the return on the claims in the context of actuarially fair pension systems. First, the growth rate of the tax base of a PAYG system (i. e., aggregate earnings) and the return on financial markets are not fully correlated, in particular, when pension funds have foreign assets. The political risk is also likely to differ because claims on funded systems with individual accounts probably provide stronger property rights than do pension claims in PAYGO systems…What all these points boil down to is that a combination of PAYGO and a fully funded system provides a richer portfolio of “assets” than either of these pension systems in isolation. This seems to be the main rationale for a partial shift to a fully funded system”. 3.5 I problemi della transizione Quando pure, peraltro, si potesse dimostrare la dominanza della capitalizzazione rispetto alla ripartizione, ambedue considerate astrattamente e in vacuo, questa dimostrazione non permetterebbe di ignorare i problemi della transizione dal sistema a ripartizione di fatto esistente a quello della capitalizzazione. Non si possono infatti disattendere le aspettative che le generazioni adulte e anziane sono venute formandosi sulla base della legislazione anteriore. In altre parole, è ben vero che, se r > n+g, la transizione dalla ripartizione alla capitalizzazione offrirebbe alle generazioni che si affacceranno sul mercato del lavoro a transizione compiuta un rendimento superiore del loro risparmio previdenziale (o un minore costo per il medesimo livello di prestazioni); ma questo vantaggio sarebbe stato pagato dalle generazioni che, nel corso della transizione, hanno sostenuto il doppio onere del rispetto delle promesse del vecchio sistema e dell’accumulazione delle riserve del nuovo. Le proposte di transizione completa, se pure lenta e graduale, dalla ripartizione alla capitalizzazione (propugnate da autorevoli studiosi fra i 129 quali, per gli Usa, Martin Feldstein, e per l’Italia Franco Modigliani) non ignorano il problema del trasferimento intergenerazionale, ma lo presentano come facilmente superabile grazie all’eccedenza di r su n+g. In una delle numerose versioni delle loro proposte, Feldstein e Samwick (1997) ipotizzano che il sistema a capitalizzazione possa investire le sue riserve al tasso annuo reale del 9%. Con rendimenti inferiori la transizione è ovviamente più onerosa e/o più lunga. E’ in ogni caso importante sottolineare e ribadire che essa non può offrire (a meno di fare conto su effetti indiretti quali una riduzione delle distorsioni e un aumento del reddito da essa indotto) un free meal di cui tutti possano beneficiare, ma soltanto un trasferimento tra generazioni, esattamente analogo, ma opposto di segno (perché favorisce le generazioni future con onere delle presenti), a quello che si accompagna all’introduzione di un sistema a ripartizione (Kotlikoff, 1987). Anche la proposta avanzata per l'Italia da Modigliani e Ceprini (illustrata nel box 3.1 del Rapporto) non sfugge a questo trade off. Essa infatti: a) lascia a carico della finanza pubblica, anche a regime, un onere pari al 10% del monte retributivo (oltre a un 2-6% nella fase transitoria); b) sottrae alle imprese la disponibilità di oltre i due terzi del Tfr, imponendo loro il maggiore costo di un equivalente finanziamento sul mercato; c) ipotizza un rendimento reale delle riserve pari al 5%, che per le ragioni illustrate in precedenza pare a noi troppo ottimistico, e d) ritiene implicitamente “gratuita” la garanzia statale di questo rendimento4, mentre – per le stesse ragioni - noi temiamo che ciò possa rappresentare un surrettizio ritorno ad un almeno parziale finanziamento a ripartizione. (Senza dire del timore, da molti avanzato, che nelle mani dello Stato una massa di attività finanziarie pari a oltre tre volte il monte retributivo possa soggiacere, per pressioni politiche, a usi impropri). Dalle considerazioni di questo paragrafo discende dunque la duplice conclusione che il passaggio integrale dalla ripartizione alla capitalizzazione imporrebbe alle coorti attive nel corso del processo sacrifici molto onerosi, che esse difficilmente accetterebbero; e che anche sotto questo profilo appare più appropriato proporsi una transizione soltanto parziale dall’uno all’altro sistema, mirando a un sistema misto. “Il rischio è assorbito tutto dallo Stato che, con la sua vita infinita, e con il potere di transazione, è in grado di sopportare quel rischio più di quanto non lo sia un povero disgraziato. Inoltre, lo Stato ha la possibilità di distribuirlo su molte generazioni; diversamente si concentrerebbe solo su quel povero disgraziato” (Modigliani 2000, p. 146). 4 130 4. Verso il sistema misto Nel nostro paese, la componente a capitalizzazione può essere costruita secondo due scenari: a) in uno scenario “conservativo”, il sistema pubblico rimane immutato, e l'alimentazione della componente a capitalizzazione ha luogo attraverso flussi di nuovo risparmio e/o attraverso il dirottamento di risparmi da altri impieghi (e segnatamente, per i lavoratori dipendenti, dal trattamento di fine rapporto); b) in uno scenario “innovativo”, viene offerta ai lavoratori dipendenti la possibilità di opting out dal sistema pubblico, con riduzione dell’aliquota e corrispondente capitalizzazione delle quote di costo del lavoro così liberatesi. 4.1 La grande illusione del Tfr Quanto allo scenario conservativo, fin dalla riforma Amato la normativa italiana prevede e incoraggia il finanziamento mediante l’utilizzazione (limitatamente ai flussi di futura maturazione) del Tfr, con l’aggiunta di contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro (i lavoratori autonomi, ovviamente, possono contribuire soltanto in proprio). Il Tfr come passività delle imprese e come attività dei lavoratori. Il dibattito sulle possibili utilizzazioni del Tfr a fini previdenziali guarda solitamente alla sua natura di passività delle imprese (in quanto quota differita del costo di acquisizione del lavoro) e ai costi che a queste deriverebbero ove ne fosse disposta un’erogazione immediata. L'usuale dibattito trascura l'altro aspetto altrettanto importante del Tfr, quello di attività nel portafoglio dei lavoratori. Trattandosi di un’attività remunerata a un tasso relativamente basso (1,50% + 75% del tasso di inflazione), se ne potrebbe dedurre un loro evidente interesse a trasferirlo ai fondi pensione. Non si può però trascurare il fatto che, per i lavoratori, il Tfr svolge tre funzioni: di buffer stock per l’eventualità di perdita del lavoro; di importo che può essere destinato, quando siano trascorsi almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro, a spese mediche rilevanti o all’acquisto della casa; di somma da incassare all’atto del pensionamento per deciderne soltanto allora la destinazione. Il dirottamento del Tfr a fondi pensione può quindi provocare un aggravamento dei vincoli di liquidità il cui peso non deve essere sottovalutato. Se ciò è vero, la “preferenza per la liquidità” dei lavoratori spiega la riluttanza ad aderire ai Fondi pensione pur in presenza di facilitazioni fiscali. Per la stessa ragione appare giustificato il fatto, spesso invece sottolineato come abnorme e inspiegabile, che nelle adesioni ai Fondi pensione le classi di età giovani appaiano più esitanti di quelle intermedie. 131 Non ci si deve sorprendere se, nell’ultima ricerca Bnl-Centro Einaudi, alla domanda “verso quale forma di finanziamento dei fondi pensione Lei è più favorevole" ben pochi (il 3,2%) abbiano risposto “con l’accantonamento totale futuro del Tfr” e soltanto il 13,6% “con l’accantonamento parziale futuro del Tfr”. I lavoratori mostrano dunque di non gradire la rete di illiquidità che il legislatore ha tessuto attorno alle somme dirottate dal Tfr ai fondi pensione. Ove volesse insistere nelle sue pressioni per la utilizzazione del Tfr, il legislatore potrebbe inserirle nell'ottica dell'opting out, offrendo la riduzione dell'aliquota pubblica soltanto a chi si impegni a devolvere alla previdenza complementare, in tutto o in parte, il Tfr (cfr. infra), e al tempo stesso prevedendo una qualche forma di compensazione a favore dei datori di lavoro. 4.2 L’opting out: una soluzione di efficienza e di libertà Questa misura consiste nella possibilità offerta ai lavoratori di uscire dal sistema pensionistico pubblico dirottando l’aliquota, o parte di essa, a uno schema privato. L’ipotesi che qui si considera può essere così formulata: se il lavoratore sceglie di destinare i flussi di Tfr a fondo pensione, l'aliquota contributiva pubblica è ridotta dall'attuale 32,7% (per semplicità: 33%) al 25%, ossia di 8 punti, di cui 3 a favore dell’impresa (in termini di riduzione del contributo a suo carico) e 5 da destinare al fondo pensione 5. I costi e i benefici per la finanza pubblica. Questi elementi sono esposti nella tabella 5, la quale riguarda il solo FPLD e assume che l’opzione sia offerta ai soli nuovi entranti nel mercato del lavoro e che tutti gli aventi diritto se ne avvalgano.6 Tab. 5 – Costo (in percentuale del Pil) della riduzione da 33% a 25% dell’aliquota del FPLD 5 Anno % Anno % 2005 2010 2015 2020 2025 2030 2035 0,16% 0,33% 0,49% 0,65% 0,82% 0,98% 1,14% 2040 2045 2050 2055 2060 2065 2070 1,30% 0,93% 0,62% 0,28% -0,06% -0,06% -0,06% Allo scopo di offrire un cuscinetto utilizzabile dal lavoratore in caso di scioglimento del rapporto, si potrebbe in alternativa disporre che il TFR continui a essere accumulato presso l'impresa per i primi due o tre anni di anzianità. 6 I (modesti) valori negativi degli ultimi anni simulati indicano i risparmi di spesa pensionistica in percentuale del Pil che si avrebbero una volta che tutte le pensioni fossero pagate secondo la nuova aliquota ridotta. 132 Per i pubblici dipendenti, la cui normativa, in seguito ai processi di armonizzazione posti in atto dalle riforme Amato e Dini, tende verso la convergenza col FPLD, si può ipotizzare un'analoga transizione: abbassamento dal 32% al 25% dell'aliquota applicata alle nuove coorti. Poiché l’occupazione dipendente nel settore pubblico ammonta a circa il 30% di quella del settore privato, le cifre della tabella possono – in primissima e grossolana approssimazione – essere aumentate di analoga percentuale. Si può quindi concludere che, per ridurre di un quarto (dalle aliquote del 33% o 32% al 25%) il livello di copertura del sistema a ripartizione per i lavoratori dipendenti pubblici e privati, è necessaria una fase di transizione lunga oltre mezzo secolo, nel corso della quale, per rispettare senza decurtazioni le attese delle coorti precedenti, si deve sostenere un maggiore onere che dapprima cresce sino a un ordine di grandezza del 2 per cento del Pil e poi, sempre gradualmente, ritorna a zero. I benefici per gli individui. La tabella 6 considera un profilo retributivo crescente del 2% l'anno mentre il Pil aumenta all'1,5%. L'attività lavorativa inizia all'età 25 e termina, nei tre casi considerati, alle età 57, 60 e 65. La tabella indica il trattamento pensionistico, in termini di tasso di sostituzione tra pensione e ultima retribuzione, nello status quo e per un lavoratore che abbia esercitato l’opzione (la quota di Tfr è arrotondata dal 6,91 al 7%)7. Si considerano due differenti tassi di rendimento della capitalizzazione (2,5 e 4%): per le ragioni dette nel capitolo precedente, il secondo tasso si può ritenere un limite superiore oltre il quale si peccherebbe di ottimismo. Tab. 6 - Tassi di sostituzione (TS) con Tfr (7%) e opting out (5%) TS dal TS dal TS da TS da TS da PAYG PAYG con capital.ne pensione capital.ne Età di attuale opting out (7%+5%) mista (7%+5%) pensiona(33%) (25%) r=2.5% r=4% mento TS da pensione mista 57 I 0,398 ii 0,302 iii 0,196 iv = ii + iii 0,498 v 0,306 vi= ii + v 0,608 60 0,464 0,352 0,230 0,582 0,363 0,715 65 0,604 0,458 0,301 0,759 0,485 0,943 Le colonne iv e vi mostrano, nelle due ipotesi di tasso di rendimento, il tasso di sostituzione complessivo. La differenza fra l’una o l’altra di queste due colonne (che includono il frutto della rinuncia al Tfr) e la colonna i (che lascia intatto il Tfr) è ovviamente crescente, grazie all’azione degli interessi composti, al crescere sia dell’età di pensionamento, sia del tasso di interesse. La differenza sale quindi da dieci punti percentuali nel caso più povero (età 57, tasso 2,5%) a 34 nel caso più ricco (età 65, tasso 4%). Anche se nella tabella 4.1 si è supposto che tutti gli aventi diritto scelgano l’opting out, nulla dunque assicura che questo comportamento sia seguito anche da Si sono utilizzate le tavole di mortalità RG48 sia per il calcolo (senza caricamento di spese) delle rendite da capitalizzazione, sia per le pensioni da PAYG. 7 133 coloro che prevedono o temono carriere discontinue e/o relativamente brevi, e ai quali la differenza tra i tassi attesi di sostituzione potrebbe apparire insufficiente a compensare la rinuncia al Tfr. Quanto alle imprese, la riduzione dell’aliquota a loro carico costituisce in parte la compensazione per la rinuncia al finanziamento sinora rappresentato dal Tfr, e in parte una riduzione del costo del lavoro. L’onere della rinuncia dipende per ogni impresa dall'anzianità media dei lavoratori, ed è tanto maggiore quanto più alta è l'anzianità. Perché dunque l’opting out? Per esprimere una valutazione conclusiva, è opportuno confrontare l’opting out con altre due possibili strategie: il mantenimento dello status quo e il passaggio alla capitalizzazione pura. La prima strategia, quando pure accompagnata dalle misure necessarie per riportare più prontamente in equilibrio le entrate e le uscite del sistema a ripartizione, implica per i lavoratori dipendenti la perpetuazione di un sovraccarico contributivo (quale quello corrispondente all’aliquota del 33%), di un rendimento implicito compresso dalla stagnazione della popolazione lavorativa e di un portafoglio previdenziale palesemente subottimale. Nemmeno il passaggio alla capitalizzazione pura, come si è visto nel capitolo terzo, appare peraltro proponibile, sia perché anche questo portafoglio non si configura come ottimale, sia per la concreta insopportabilità dei sacrifici che sarebbero necessari durante la fase di transizione. L’opting out è dunque la media virtus tra questi due estremi ugualmente inaccettabili8. Non è una soluzione miracolistica; non è un free meal; non è un ottimo paretiano al quale si possa giungere con beneficio dei più e senza costi per alcuno. E’, a noi pare, l’unica scelta realistica tra l’immobilismo e l’utopia. I parametri qui suggeriti per l’opting out (riduzione dell’aliquota da 33% a 25%, con risparmio di 3 punti percentuali per le imprese e devoluzione di 5 punti alla capitalizzazione) non hanno alcunché di necessario o di predeterminato, e possono essere modificati. Una riduzione complessiva maggiore permetterebbe di raggiungere, nella configurazione finale, una più bassa aliquota pubblica (per esempio, 22 o 20%) e, presumibilmente, un più equilibrato portafoglio previdenziale; ma al tempo stesso implicherebbe un più elevato costo di transizione. A parità di riduzione dell’aliquota, più punti percentuali destinati alle imprese potrebbero avere effetti benefici sulla domanda di lavoro, ma verrebbero pagati dai lavoratori in termini di minore trasferimento ai fondi pensione. I parametri qui proposti, sia pure con ampio margine di arbitrio, sono sembrati un accettabile compromesso fra queste diverse e contrapposte esigenze. 8 134 5. Il ruolo dei fondi pensione 5.1 Premessa Il quadro del sistema previdenziale, nella sua configurazione presente e futura, non sarebbe completo se non includesse qualche considerazione sugli scenari evolutivi per la previdenza complementare. L’attività del legislatore in questo ambito è stata, in parallelo con gli interventi sul sistema obbligatorio degli anni Novanta, particolarmente intensa ma anche, almeno finora, assai poco efficace. La ragione principale del mancato decollo è imputabile alla carenza di risorse immediatamente destinabili al pilastro complementare, oltre che all’elevatezza della contribuzione obbligatoria, almeno per quanto concerne i lavoratori dipendenti privati e pubblici. Una seconda ragione sta nel tardivo, e in molti casi ancora insufficiente, riconoscimento, da parte del legislatore, dell’opportunità di offrire incentivi fiscali “veri” – e non soltanto “sulla carta” – al risparmio previdenziale. Sembra oggi potersi affermare che la disciplina “civilistica” sulla previdenza complementare sia in sé adeguata agli obiettivi che si propone, anche perché fortemente ancorata ai principi di portabilità pensionistica e di mobilità dei capitali su cui si fonda la libera circolazione dei fattori produttivi a livello europeo. 5.2 La convenienza indotta dai benefici fiscali Quanto agli aspetti fiscali, soltanto di recente il legislatore è giunto a una disciplina uniforme per tutte le tipologie di risparmio previdenziale. Il Rapporto fornisce una prima indicazione degli effetti del decreto 47/2000 seguendo il metodo applicato in Fornero (1996). Il parametro utilizzato per confrontare la convenienza ad aderire a un fondo pensione è il “beneficio netto”, ottenuto a) calcolando la differenza tra il montante netto maturato nel fondo e il montante netto dell’alternativa e b) dividendola per quest’ultimo. I calcoli riguardano ogni singola fonte di finanziamento che può essere devoluta al fondo pensione. Dapprima si calcolano i benefici netti relativi a ciascuna fonte di contribuzione e poi, per valutare il beneficio globale, si considera la devoluzione contemporanea al fondo pensione di tutti e tre i contributi (datore, lavoratore e Tfr). Le alternative alla devoluzione al fondo dei tre contributi sono: per il contributo del datore di lavoro, l’ottenimento di una maggiore retribuzione; per il contributo del lavoratore, un investimento in titoli obbligazionari; per il Tfr, il mantenimento di tale grandezza presso l’impresa. 135 Si adottano le ipotesi seguenti: il rendimento medio del fondo (al netto dei costi di gestione) è pari a quello dei titoli obbligazionari; le imprese non sono disposte a rinunciare, unilateralmente e senza contropartite, al Tfr. Un’analisi metodologicamente corretta non può infatti attribuire al trasferimento del Tfr a fondo pensione soltanto i benefici risultati di questa rinuncia, ma deve procedere da un’ipotesi di neutralità per l’impresa, ossia di compensazione del relativo costo sotto altre forme (nei nostri calcoli abbiamo supposto in termini di riduzione, ceteris paribus , della retribuzione)9. Nella tabella 7, si è considerato un versamento complessivo a Fondo pensione pari al 6,91% della retribuzione per il Tfr e all’1% per ciascuna delle altre due quote (lavoratore e datore di lavoro). Tab. 7 – Beneficio netto globale (ponderazione 6,91;1;1) Tassazione Bassa Anni/tassi di interesse 5% 6% 10 -0,087 -0,115 20 -0,043 -0,059 30 0,008 -0,005 40 0,062 0,050 Tassazione Media Anni/tassi di interesse 5% 6% 10 -0,080 -0,107 20 -0,030 -0,044 30 0,027 0,018 40 0,087 0,078 Tassazione alta Anni/tassi di interesse 5% 6% 10 -0,057 -0,086 20 -0,006 -0,020 30 0,054 0,047 40 0,119 0,110 7% -0,124 -0,074 -0,017 0,041 7% -0,116 -0,057 0,008 0,072 7% -0,094 -0,033 0,038 0,105 Nella tabella 8, si considera invece una combinazione paritetica tra le varie forme di finanziamento, quale è possibile per le anzianità anteriori al 1993. Dall’esame dei risultati è possibile trarre le seguenti conclusioni: Ciò vale, beninteso, a priori, ossia quando il lavoratore (o meglio le organizzazioni sindacali che lo rappresentano) debbano negoziare con le imprese. A negoziazione avvenuta, nell’ipotesi che l’accordo collettivo abbia previsto la possibilità per il singolo di optare per il trasferimento del Tfr a fondo pensione, le conseguenze attese dell’insieme delle scelte hanno già trovato nell’accordo una qualche forma di compensazione, la quale rappresenta per il singolo un costo sommerso che non deve più influire sulla sua scelta. 9 136 quando il finanziamento da Tfr si ipotizzi prevalente sulle altre due quote, le agevolazioni fiscali, anche dopo le ripetute correzioni via via apportate alla originaria normativa del 1992, non hanno effetti di rilievo. La tabella 5.1 mostra benefici in ogni caso negativi per durate inferiori a 20 anni, aggirantisi attorno allo zero per durate trentennali, e appena percepibili per durate quarantennali; quando il finanziamento da Tfr sia pari a quello di ciascuna delle altre quote, il beneficio è positivo in tutti i casi, e, per effetto della correlazione con la tassazione e con la durata, diviene rilevante per tassazioni e durate medio-alte; per i lavoratori autonomi, infine, per i quali vale soltanto il contributo del lavoratore (cfr. la tabella 5.6 nella versione integrale del Rapporto), il beneficio è sempre positivo e sensibile, soprattutto per tassazioni e durate medio-alte. Tab. 8 – Beneficio netto globale (ponderazione 1%, 1%, 1%) Tassazione Bassa Anni/tassi di interesse 5% 6% 10 0,174 0,174 20 0,189 0,192 30 0,207 0,212 40 0,227 0,229 Tassazione Media Anni/tassi di interesse 5% 6% 10 0,231 0,234 20 0,256 0,262 30 0,284 0,294 40 0,312 0,320 Tassazione alta Anni/tassi di interesse 5% 6% 10 0,294 0,299 20 0,329 0,340 30 0,368 0,385 40 0,407 0,420 7% 0,176 0,195 0,216 0,235 7% 0,237 0,268 0,302 0,330 7% 0,304 0,350 0,398 0,436 Se ne può dedurre, ancora una volta, che le speranze riposte in un rapido e vigoroso decollo della previdenza complementare grazie all’utilizzazione del Tfr erano e restano infondate. Le agevolazioni fiscali non sono a tal fine efficaci, né sembra opportuno sforzarsi di renderle ancora più generose (con rilevanti costi per la finanza pubblica) perché, come si è argomentato sub 4.1, il Tfr svolge, nei portafogli dei lavoratori, funzioni la cui importanza non deve essere sottovalutata. 137 La convenienza fiscale è invece più operativa per i lavoratori autonomi, e per una combinazione paritetica tra le varie forme di finanziamento, quale è possibile per le anzianità anteriori al 199310. In ogni caso, data la presenza di altre motivazioni, oltre a quella previdenziale, per il risparmio delle famiglie, è difficile che la sola leva dei benefici fiscali abbia successo, se non accompagnata – come si è suggerito sub 4.2 – da un coraggioso ancorché graduale disegno di riduzione del peso della componente obbligatoria a ripartizione. In linea di principio anche per le anzianità successive, ma ciò implicherebbe contributi del lavoratore e del datore dell’ordine del 7%, poco probabili di per sé oltre che tali da violare i “tetti” del 12% della retribuzione e di 10 milioni di lire. 10 138