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L’anno prima della guerra
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Roberto Mengoni
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L’ANNO PRIMA DELLA GUERRA
L’Italia dall’aprile 1914 al maggio 1915
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Dalla fine dell’era Giolitti all’inizio della Grande Guerra
Raccolta degli articoli pubblicati sulla rivista on-line L’Undici
www.lundici.it
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L’anno prima della guerra
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L’anno prima della guerra
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I protagonisti della politica italiana di inizio secolo: il re e Giovanni Giolitti.
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L’anno prima della guerra
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L’anno prima della guerra
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PRESENTAZIONE
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Il ritrovamento della Gioconda. Il furto di un sommergibile. Il
maxicampionato di calcio a 36 squadre. L’incendio di un dirigibile. Una
mostruosa macchina per produrre rumori. Una guerra che nessuno voleva ma
che adesso c’è. E con cui l’Italietta di Vittorio Emanuele deve fare i conti.
Per tredici mesi mi sono divertito a raccontare sull’Undici gli avvenimenti
dall’aprile 1914 al maggio 1915, per cercare di capire cosa fosse l’Italia cento
anni fa, prima dell’inizio della Grande Guerra. Politica ed economia, ma anche
arte, costume, sport. Ho letto libri, sfogliato giornali (la collezione online de La
Stampa) e provato ad entrare nella mentalità dell’epoca. Non pretendo di aver
fatto un lavoro storico ma un tentativo di capire dal basso, senza conoscenze
specialistiche, con onestà e passione. A qualcuno non piaceranno le sferzate
volutamente polemiche contro il re complessato, i nostri politici opportunisti e i
poeti che seminavano di rumore la penisola. Molte scelte erano obbligate. Altre,
come quella di andare in guerra, evitabili, almeno entro certi limiti. La mentalità
dell’epoca era quella. Nel 1914 l’Europa, e anche l’Italia, era formata da stati
nazionalisti e con giusto le forme della democrazia rappresentativa. Dominavano
le aristocrazie di sangue, del denaro e delle armi. Dominava la volontà di
potenza e l’ossessione per l’espansione. Se un bene ha fatto la Grande Guerra è
stato quello di spazzare la diplomazia segreta, realizzata senza mai consultare i
rappresentanti eletti. Ma parliamo di una sensibilità che è nata dopo il 1918 non
prima.
L’Italia non sfuggiva alla norma. Era un paese abbastanza liberale, dove vi
era una relativa libertà di opinione, almeno per le classi istruite, ma dove si
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L’anno prima della guerra
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moriva per uno sciopero. La forza pubblica era brutale contro le manifestazioni
popolari. Il governo manipolava le elezioni ma ciò nonostante una folta pattuglia
di socialisti era presente alla Camera. E si faceva sentire.
Anche cento anni fa l’Italia era un paese di nani che si credevano giganti, di
demagoghi in camicie di vari colori, in una salsa che ha il gusto della farsa e lo
spessore della tragedia. Facevamo i furbi anche allora, alleati degli Imperi ma
ammiccando alla Gran Bretagna e alla Francia, stringendo patti per poi, il
giorno dopo, pensare al modo per svicolare. A ritornare sugli avvenimenti tra
l’agosto 1914 e il maggio 1915 c’è da restare sbigottiti per la superficialità e
l’incompetenza dei nostri governanti.
Qualche progresso, in fondo, l’abbiamo fatto con la nostra tanto vituperata
Repubblica. Eppure a tornare indietro di cento anni, c’è sempre un amara
sensazione di “deja vu”.
Anche allora c’era un governo che riuscì ad imporre la decisione della guerra
a un parlamento che solo una settimana prima era compattamente contrario.
Anche allora c’era un’opposizione intransigente, i socialisti, grillini di inizio
secolo, che non seppero guidare quella stragrande maggioranza del popolo
italiano che proprio non voleva saperne della guerra. Anche allora ce lo chiedeva
l’Europa. Di partecipare alla guerra perché l’Italia non poteva essere assente al
più grande cimento della storia. L’Europa ci chiese il sacrificio supremo e le
nostre classi dirigenti furono felici di scaricare i sacrifici sui cittadini italiani, poco
più di sudditi di un regno che stentava a decollare.
Gli avvenimenti del maggio 1915 furono in apparenza, almeno secondo la
retorica nazionalista, il momento del grande risveglio dell’Italia. In realtà, nei
radiosi giorni di maggio accadde qualcosa di molto simile ad un colpo di stato,
in cui se pure furono rispettate tutte le formalità costituzionali, il re e il
presidente del consiglio Salandra riuscirono spudoratamente ad imporre la loro
volontà militarista ad un parlamento refrattario ma debole.
Utili idioti in questo scenario furono i nazionalisti alimentati dalla gonfia
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L’anno prima della guerra
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retorica da ranocchie gracidanti di D’Annunzio (“è tempo di azioni romane!”),
dai dinamitardi editoriali dell’ex socialista Mussolini (“o guerra o rivoluzione!”) e
dai più borghesi ma sempre bellici proclami dei conservatori moderati riuniti
intorno alla figura di Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, già allora
il più influente quotidiano italiano.
Popolo, classi dirigenti, parlamentari, scrittori, nessuna di queste persone
ebbe alcuna influenza nella decisione che portò l’Italia in guerra.
A decidere furono due uomini, Salandra e il suo ministro degli esteri
Sonnino, con l’attiva complicità del re Vittorio Emanuele III.
Fu una tragedia immane. Per prendere il Trentino (che non voleva diventare
parte del regno d’Italia) e Trieste, morirono più di seicentomila soldati e un altro
mezzo milione di civili. Più di quattrocentomila persone morirono a causa
dell’influenza spagnola, che andò a colpire una popolazione debilitata.
Non solo. La decisione del maggio 1915, presa con tanta leggerezza, innescò
una serie di fenomeni da cui sarebbero uscite le tragedie del fascismo e della
seconda guerra mondiale.
I mesi prima della dichiarazione di guerra costituirono le prove generali dei
successivi trent’anni di storia patria. I protagonisti si fecero le ossa in questo
periodo. Mussolini ed il re emersero per la prima volta dalle quinte per recitare
un ruolo da protagonisti. D’Annunzio inventò parole e slogan attinte ai più
beceri miti degli antichi romani, di cui ci consideravamo i discendenti diretti,
pronti a rinverdirne i fasti imperiali e littori. Tra gli interventisti troviamo i futuri
quadri del partito fascista. Apparvero le prime squadracce di picchiatori, che
nelle settimane di maggio seminarono il caos per Roma. La polizia li tenne a
bada, quando serviva, incoraggiandone tacitamente le attività. Un gruppo di
interventisti giunse anche a violare la sacralità di Montecitorio, un episodio
inspiegabile, considerata la quantità di polizia, carabinieri e soldati che
presidiava il centro.
Siamo giusti con i nostri politici. Nessuno avrebbe potuto immaginare gli
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L’anno prima della guerra
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sconquassi del futuro. Ma chiunque conosceva le condizioni dell’Italia del 1915
avrebbe capito che una guerra avrebbe inflitto, in ogni caso, delle ferite terribili
al corpo di una nazione povera e fragile. Che aveva bisogno di pane e lavoro in
casa, invece di andare a strapparlo con le baionette agli altri.
A disonore dei nostri dirigenti c’era l’illusione della guerra breve, che già era
stata chiaramente e tragicamente spazzata via dalle trincee delle Fiandre.
L’illusione, questa tipica italiana, che sarebbe bastato l’entusiasmo dei soldati per
superare i reticolati degli austriaci che da mesi ci aspettavano sulla cima delle
montagne che dovevamo scalare. A piedi, con pochi mezzi, senza artiglieria né
mitragliatrici. Salandra sapeva: il capo di stato maggiore Cadorna lo aveva
avvertito per mesi che l’esercito non era pronto.
Nessuno era pronto.
Tranne gli esagitati nutriti a retorica nazionalista e sciocco idealismo.
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Il 23 marzo 1914 finisce l’epoca giolittiana. Appare un nuovo presidente del
consiglio, Antonio Salandra. Una nuova creatura uscita dal cilindro del
cappellaio piemontese che ha manipolato per quasi quindici anni la politica
romana. Giolitti va in vacanza, in attesa di riprendersi il potere quando vorrà. Il
parlamento è suo. Ad un suo comando i deputati voteranno per lui. Del resto, è
stato Giolitti a metterli lì, con le buone, spesso, con le cattive, con l’aiuto dei
prefetti, con minacce, brogli e qualche occasionale violenza.
Ma così non sarà. L’Europa si incaricherà di far saltare il piacevole tran-tran.
Nel 1914 l’Italia ha poco più di 36 milioni di abitanti. Quasi tre in più
rispetto al censimento del 1901. Sarebbero molti di più se a milioni non fossero
emigrati verso l’America del nord e l’Argentina, la nuova terra promessa. Nel
1913, l’anno del maggiore deflusso, sono partiti in 872.000. Record storico, che
non verrà più eguagliato. È come se una Napoli e mezza fosse partita di colpo. Napoli, con 668mila abitanti, è ancora la maggiore città dell’inquieto regno
d’Italia. Seguono Milano con quasi 600.000 abitanti e poi la capitale con
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522.000 persone, in forte crescita rispetto al secolo precedente. Roma attira per
le possibilità d’impiego nella burocrazia ministeriale ma è ancora una città
provinciale ed arretrata, senza industrie né servizi degni di una capitale europea.
I primi anni del secolo sono stati di sviluppo. Con fatica e parecchi aiuti
statali, sono cresciute l’industria e l’agricoltura, sono state fatte alcune importanti
riforme (le pensioni obbligatorie e il suffragio universale maschile), lo stato si è
astenuto dall’intervenire a favore dei padroni nei conflitti sindacali, portando
così a qualche miglioramento della condizione operaia.
Il reddito medio annuale è di 532 lire (oggi 2.015 euro) ma le differenze sono
enormi. Un operaio può guadagnare in media 2,84 lire al giorno (poco meno di
11 euro), un inserviente può arrivare a 1.450 lire l’anno, un impiegato a 2.350
lire e un direttore generale raggiungere le 10.000 lire, che oggi sarebbero 37.884
euro.
Gli italiani continuano ad essere in ritardo sugli altri paesi europei, anche se
qualcosa si è mosso. Al censimento del 1911 si registrano meno analfabeti
(37,9% contro il 48,7% di dieci anni prima), pur con divari spaventosi: 11% in
Piemonte e 69,6% in Calabria. Anche alla leva i ragazzi hanno guadagnato
qualcosa in altezza. Gli italiani sono arrivati a 166,19 cm, due centimetri di più
in trent’anni.
A governare i cambiamenti politici e sociali ci sono il re Vittorio Emanuele
III, che liberale non è, ma neppure ha molta voglia di immischiarsi troppo nella
politica romana. Persona rispettosa delle regole e delle forme, lascia fare a
Giolitti. A lui interessa solo la politica estera, dove però deve ingoiare parecchi
rospi, molti dal vulcanico Kaiser Guglielmo II e altrettanti dal senescente ma
non troppo imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe.
Il padrone d’Italia è Giolitti, che sa che per realizzare un minimo di riforme
in Italia che allontani lo spettro socialista occorre una solida maggioranza e
qualche ricatto piazzato al momento giusto. Il “mestatore di Dronero”, come lo
chiamerà D’Annunzio, dura per quasi 14 anni. Giolitti cerca di allargare le basi
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L’anno prima della guerra
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dello stato verso i cattolici (il Patto Gentiloni è del 1913 e segna l’ingresso dei
cattolici in politica) e verso sinistra, dove i socialisti riformisti di Bonomi e
Bissolati sono disposti ad accettare il riformismo giolittiano anche se non
avranno mai il coraggio di entrare nel governo. L’apice della politica giolittiana è
il 1912 poi il PSI viene conquistato dagli estremisti rivoluzionari, i riformisti
buttati fuori, mentre direttore de L’Avanti! diventa un feroce romagnolo dalla
penna infuocata.
La guerra libica del 1911-12 è stata un successo politico e diplomatico con
costi notevolmente superiori ai possibili guadagni. Soldi che si sarebbe potuto
investire altrove. L’Italia è un pelo più considerata a livello europeo. Non che i
nostri alleati da trent’anni, Germania e Austria, ci apprezzino. Quasi mai ci
raccontano in anticipo cosa hanno in mente di fare. L’Austria si prende la Bosnia
nel 1908 senza dirci nulla. A norma del trattato della Triplice Alleanza, all’Italia
sarebbero dovute scuse e compensazioni territoriali. Non otteniamo nulla. Con i
tedeschi non abbiamo motivo di conflitto e neppure con l’Inghilterra. La
situazione di instabile equilibrio ci sta bene. Cerchiamo di tenerci buoni anche i
francesi, nostri scomodi vicini, con cui abbiamo molti motivi di attrito, nel
Mediterraneo e in Africa. Rinnoviamo senza entusiasmo l’alleanza con gli
Imperi centrali nel 1912, la nostra assicurazione sulla vita in un mondo
pericoloso.
Nel 1913, però, facciamo la voce grossa con Vienna che vorrebbe sopprimere
la Serbia. Un segno dell’intelligenza di Giolitti e del suo ministro degli esteri
Antonino di San Giuliano. Un successo che rimanda la resa dei conti di un
anno.
Calcio e ciclismo attraggono masse crescenti di persone. È ancora un’epoca
pionieristica in cui emergono i primi grandi campioni. Domina la Pro Vercelli
composta solo da italiani. La nazionale di calcio vestita di azzurro in onore di
Casa Savoia gioca la sua prima partita nel 1910 e per il momento si accontenta
di partite con i vicini, Francia, Svizzera e Austria. Nel 1914 si corre il sesto Giro
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L’anno prima della guerra
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d’Italia. Girardengo esordisce professionista nel 1913.
Il cinema si diffonde ovunque. Non c’è comune senza almeno una sala. Gli
italiani accorrono, come faranno poi con la radio, la televisione e facebook. Il
cinema è il primo vero mezzo di comunicazione che raggiunge le masse, anche
quelle analfabete, che scoprono che esiste un mondo fuori dei loro paesini. Non
solo spettatori: l’Italia produce un numero enorme di film. Nel 1913 sono ben
643, superiori in numero agli Stati Uniti e secondi solo alla Francia. Torino,
Roma e Milano sono le capitali della nuova arte. I film tricolori sono esportati in
tutto il mondo e riscuotono un grande successo. Melodrammi e romanzoni
storici, basati sul culto della romanità. Anche così si crea un linguaggio comune e
un’immagine dell’Italia all’estero. Nascono dive come Francesca Bertini, Lyda
Borelli e Pina Menichelli. Al di là del cinema e della musica lirica, non c’è molto.
L’Italia non è all’avanguardia dell’arte, figurative e letterarie europee, con la
fondamentale eccezione dei futuristi, che pure sono dovuti partire da Parigi con
un manifesto pubblicato in francese. E quindi abbiamo Boccioni, Balla,
Morandi. E l’affamato Modigliani, che abita e si affermerà troppo tardi a Parigi.
La nostra letteratura, nonostante qualche scossone realista, è ancora avvolta
nella bambagia dell’intimismo, mentre si fanno largo più robusti soffiatori di
squilli di tromboni nazionalisti. D’Annunzio è il nostro scrittore più noto. Pochi
capiscono i suoi deliqui immaginifici ma è popolare, forse più per il suo stile di
vita. Dà scandalo, vive di debiti e quando non può più sottrarsi, scappa in
Francia. Ma non c’è solo il Vate, per fortuna. Abbiamo dei bei nomi, noti a
livello internazionale, come Grazia Deledda, Luigi Pirandello e Guido Gozzano.
Fervono anche attività culturali di rottura, come la rivista La Voce di Prezzolini e
Lacerba di Soffici e Papini.
All’inizio del 1914 la situazione generale è tutto sommato promettente. Dopo
le elezioni dell’ottobre 1913, in parlamento c’è una solida anche se amorfa
maggioranza liberale sotto il controllo di Giolitti. I socialisti riformisti sono una
discreta pattuglia, molto più piccola dei socialisti rivoluzionari che sono cresciuti
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L’anno prima della guerra
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in voti e seggi senza sfondare. Anche questo dimostra che la politica giolittiana
della graduale inclusione dei cattolici in funzione antisocialista è efficace. Ci sono
tutti i presupposti per un altro decennio di lento ma costante progresso.
Ma i giovani, i socialisti, i nazionalisti, non possono aspettare: chi vuole la
rivoluzione, chi vuole la guerra per ingrandire la patria, chi vuole la guerra per
distruggere il passato e rinvigorire il paese con il sangue. I cattolici entrati in
politica sono conservatori che diffidano dell’ordine liberale mentre i grandi
industriali legati allo stato, di fronte all’avanzata socialista, preparano una
controffensiva. Una cosa è certa: di Giolitti sono stufi tutti.
La grave crisi economica nel 1913 sembra in via di superamento, grazie
all’azione governativa, all’emigrazione e alla ripresa dell’agricoltura, ma i limiti
strutturali dell’economia italiana sono tutti lì: una debole industria protetta dallo
stato, un’agricoltura arretrata e latifondista nel sud, la dipendenza tecnologica
dall’estero, una finanza debole e condizionata dai tedeschi.
La situazione internazionale è sempre tesa. I due grandi blocchi che si
dividono l’Europa e il mondo sono armati fino ai denti. La polveriera d’Europa
sono i Balcani, dove due guerre in due anni hanno smembrato i resti dell’Impero
ottomano tra Serbia, Grecia e Bulgaria. Nessuno però crede ad una guerra tra le
grandi potenze. I monarchi europei sono tutti imparentati tra di loro. Le
economie sono integrate in un sistema globale di grande libertà commerciale e
finanziaria. C’è anche chi pensa che una guerra moderna non potrebbe durare a
lungo. E i partiti socialisti, almeno a parole, sono ferocemente opposti al
militarismo e al nazionalismo in nome della solidarietà proletaria.
Questo è lo scenario in cui si apre l’anno prima della guerra in Italia. Il 1915
è il nodo della nostra storia. L’Italia aveva davanti la possibilità di proseguire nel
cammino intrapreso da Giolitti di una graduale crescita economica, politica e
sociale e di allargamento delle basi della gracile democrazia. La guerra
sconvolgerà qualsiasi progetto, mostrando la fragilità strutturale dello stato
liberale di cui approfitterà il fascismo. Mostrerà il conformismo delle classi
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L’anno prima della guerra
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dirigenti, l’idealismo nutrito a retorica ottocentesca, e il disprezzo delle élite per
le classi popolari, su cui verranno addossati solo i sacrifici della guerra.
Tutti i personaggi dei successivi drammi sono già in scena o stanno preparandosi ad entrare: Vittorio Emanuele. Benito Mussolini. Gabriele D’Annunzio.
Pietro Badoglio. Alcide De Gasperi. Antonio Gramsci. Palmiro Togliatti. Uno di
questi uomini riuscirà a dominare tutti gli altri per un ventennio, riunendo nella
sua egocentrica maschera le idee, le persone, le aspirazioni, la retorica, le
speranze e le paure che per prime vennero alla luce negli anni precedenti alla
guerra e che la Grande Guerra avrebbe messo tragicamente in moto accelerato.
Un secondo uomo avrebbe potuto rendere un grande servizio al suo paese, il re
Vittorio Emanuele III, come aveva fatto diligentemente nei suoi primi
quattordici anni di regno, ma nel 1915 il monarca sabaudo fa uso astuto dei suoi
poteri costituzionali per costringere il suo popolo alla guerra. Non sarà l’ultima
volta. Lo rivedremo all’opera il 28 ottobre 1922 e il 25 luglio 1943. Tempestivo e
preoccupato di una sola cosa: salvare se stesso e la dinastia.
Nel gorgo immane generato da Vittorio Emanuele e Mussolini finiranno la
monarchia, lo stato centralista, il liberalismo, la dignità e l’onore di questo paese
venduto alla follia nazista.
Tutto ciò inizia nel 1914.
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Il più grande successo del cinema italiano d’anteguerra.
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RINGRAZIAMENTI
La rete, che altrimenti non si potrebbe fare niente. Immagini, testi,
cronologie, biografie. Si trova di tutto. Anche troppo. Al cervello il compito di
fare gli hyperlink tra una cosa e l’altra.
La biblioteca pubblica del quartiere Flaminio a Roma. Tanti libri ed
enciclopedie, un po’ vecchie, ma utilissime.
L’archivio on line de La Stampa.
Le sintetiche ma non troppo biografie on line della Treccani.
I libri di storia che hanno accumulato polvere per anni. Siete il motivo per cui
vi ho tenuto tanto tempo in attesa. Il vostro momento è giunto, finalmente.
All’Undici che ha pubblicato tutti gli articoli, ai suoi lettori che hanno fatto
commenti.
Ai lettori e lettrici che non volevano leggere gli articoli un pezzo alla volta.
Eccoli qui, tutti insieme. Se per caso trovate qualcosa che vi sembra
pericolosamente simile all’Italia di oggi, sappiate che non è colpa mia.
È colpa dell’Italia.
A cui non può che andare un affettuoso grazie. Senza di te, la vita sarebbe
perfetta come in Svizzera. Ma infinitamente noiosa.
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L’anno prima della guerra
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Gli italiani di inizio XX secolo, in campagna e in città.
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APRILE 1914
Ecco la scena
Un parlamento informe e tumultuoso, dove si discute tanto e si conclude
poco, fatto di notabili meridionali e di deputati settentrionali a libro paga delle
grandi imprese che vivono di commesse pubbliche. All’opposizione un
movimento rivoluzionario che rifiuta ogni collaborazione. Un paese che ha
bisogno di riforme, povero, diviso, analfabeta, che emigra in massa. Sembra
l’Italia di oggi, ma è l’Italia nell’aprile 1914, alla fine dell’epoca giolittiana.
Breve riassunto della situazione. Nell’ottobre 1913 ci sono state le elezioni
politiche, la prima volta con il suffragio universale maschile. Ha stravinto
Giolitti, portandosi a casa una solida maggioranza liberale. Ma ha vinto
davvero? Nella sua informe coalizione ci sono cattolici conservatori, liberali di
varie sfumature, e radicali, laici e vagamente di sinistra. E infatti a marzo lo
statista piemontese cade. Invece di ricostruire la sua maggioranza facendo le
opportune concessioni, decide che è tempo di prendersi un periodo di vacanza,
in attesa di riprendere il potere. Qualche mese in Piemonte e poi di nuovo a
Roma a reclamare la poltrona più alta. Lo ha fatto anche in passato.
Stavolta Giolitti ha qualche ragione in più per scaricare ad un altro la patata
bollente di governare gli italiani. Le finanze sono in crisi a causa delle spese
militari per l’avventura libica che ha sì innalzato il prestigio dell’Italia, ma del
prestigio non si nutrono né i bilanci né le pance vuote degli italiani. Che infatti
nel 1913 sono emigrati in 872.000, il record storico, mai più superato. Siciliani,
calabresi e veneti se ne vanno. Hanno votato con i piedi. Via dalla
disoccupazione, dalla fame, dai padroni esosi ed incapaci, dalla mafia, che esiste
ed uccide. Nessuno è andato in Libia, l’inutile scatolone di sabbia in cui cresce
solo la voglia di ribellarsi degli arabi.
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L’anno prima della guerra
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Così, dopo Giolitti, tocca ad Antonio Salandra, sessant’anni, pugliese. Il 23
marzo è stato nominato dal re. Il 5 aprile Montecitorio gli vota la fiducia con
302 voti contro 122. Del governo fanno parte soprattutto uomini di destra,
nessuno che si può definire giolittiano. L’interno lo detiene tradizionalmente il
presidente del consiglio. Al tesoro c’è Giulio Rubini. Alle finanze Luigi Rava, che
eredita la sgradevole necessità di aumentare le tasse per far fronte al disavanzo
statale. Agli esteri resta Antonino di San Giuliano, una scelta prudente di
continuità nel solco della Triplice Alleanza.
Salandra è un conservatore meridionale che non ha alcuna intenzione di
reggere il cappello in attesa del ritorno del grande manipolatore Giolitti. I
conservatori vedono in lui l’uomo che potrebbe rimettere in riga i socialisti e
tranquillizzare i buoni cittadini benpensanti. I socialisti, infatti, fanno molto
chiasso, danno fastidio con i proclami, le agitazioni e soprattutto gli scioperi.
Vogliono la rivoluzione ma non sanno come farla. Il paese è attraversato da mille
tensioni, nessuna delle quali è in grado di degenerare in una vera crisi del
sistema ma si sa, il buon borghese non ha paura della rivoluzione, è scocciato
che i treni non funzionino. Ha bisogno di ordine e regolarità per i suoi pasti e la
sua posta.
Gli scioperi. In aprile ci si mettono tutti gli impiegati pubblici: postini, operai
dei tabacchi, impiegati dei ministeri. I più accesi sono i ferrovieri. Le trattative
per evitare lo sciopero generale vanno avanti per l’intero mese di aprile. Il
governo è disposto a qualche concessione. I sindacalisti accettano, poi ritrattano,
infine si dividono tra intransigenti e riformisti. Alla fine i lavoratori escono
sconfitti. Il 20 aprile i sindacati rinunciano allo sciopero. Salandra ha vinto,
dando minime concessioni e mostrando anche qualche muscoletto. Si prenda
nota a sinistra che il tempo della tolleranza giolittiana è finito.
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Anche l’immobile penisola cambia.
Il primo aprile si inaugura la linea telefonica diretta tra Roma e Berlino.
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L’anno prima della guerra
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Immaginiamo il profluvio di parole sull’amicizia inossidabile tra Italia e
Germania. Ma quella era un’epoca in cui ci si parlava civilmente, pur
preparandosi a darsele di santa ragione. Come infatti accadde.
A metà aprile escono, a poca distanza l’uno dall’altro, due film che segnano la
stagione e che rappresentano le due anime della cinematografia nazionale.
Il 14 aprile esce “La donna nuda” di Carmine Gallone. Già il titolo richiama
le folle. Storia ambientata nella bohème parigina, tra pittori squattrinati, modelle
ingenue e la scalata al successo. Gli spettatori vengono ripagati dalla prestazione
di Lyda Borelli, la prima grande diva del cinema italiano. L’anno prima aveva
esordito con il melodrammone “Ma l’amor mio non muore!”, uno straordinario
successo. La Borelli è sensualità allo stato puro. Un corpo che ammalia. Come
scrisse un giovane socialista qualche tempo dopo, Antonio Gramsci,“In principio
era il verbo… No, in principio era il sesso.”
Sappiamo come a va a finire con i bacchettoni di ogni epoca. Il pubblico se
ne frega allegramente e a frotte ingroppa le file davanti ai botteghini. Del resto,
come biasimarli?
Gli anni prima della grande guerra sono l’apice del cinema italiano. Decine
di case cinematografiche soddisfano la fame insaziabile di storie del pubblico.
Nel 1913 l’industria nazionale ha prodotto 643 film, moltissimi sono esportati
per il mondo, fino agli Stati Uniti dove sono ben apprezzati. Con i film muti non
c’è problema di lingua. Si ragiona in grande: melò borghesi ambientati nel
mondo delle classi alte, drammoni storici, molta romanità, patriottismo. Si usa il
cinema anche per educare le masse. Il popolo apprezza. Si diverte. Magari
impara qualcosa. Per la prima volta i contadini che popolano l’Italia hanno la
possibilità di vedere qualcosa di diverso dal loro microcosmo di miseria. I registi
danno un volto a Marcantonio e Giulio Cesare. La forza delle immagini cambia
i sentimenti e le menti. Sul grande schermo compaiono scene di storie
fantastiche, di case annegate nel lusso, di mondi lontanissimi. Gli italiani possono
emozionarsi davanti alle stesse scene, quasi nello stesso momento.
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L’anno prima della guerra
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Pochi giorni dopo, il 18 aprile, esce a Torino e a Milano “Cabiria”, un peplum
senza eguali ambientato durante le guerre puniche. Lo firma Giovanni Pastrone,
che aveva già all’attivo il primo kolossal storico, “La caduta di Troia”. Il pubblico
rimane incantato. Non si risparmiano i mezzi. Se un film si faceva allora con
50.000 lire, Cabiria ne costa un milione (3,7 milioni di euro oggi). Ogni cosa è
curata: trucchi, costumi, scenografie. È una follia di immaginazione in 12 colori,
muto ma con la musica. Patrone utilizza il carrello alla grande, andando oltre le
inquadrature fisse del primo cinema. Anche la durata è colossale, oltre tre ore di
spettacolo. Cabiria farà il giro del mondo. A New York verrà proiettato per un
anno intero.
Con Cabiria, interpretato da Bartolomeo Pagano, cammello del porto di
Genova, nasce il personaggio di Maciste, eroe del III secolo avanti Cristo di
grande forza e bontà che darà vita ad una lunga serie di peplum fino agli anni
sessanta, ambientati nelle terre più strane. Pagano interpreterà Maciste fino al
1926.
Il successo di Cabiria avviene anche grazie ad una geniale trovata
pubblicitaria. La film (all’epoca film era di genere femminile) viene spacciata
come opera di Gabriele D’Annunzio. In realtà il poeta abruzzese scrisse
semplicemente le didascalie. Come sempre, enfatiche ed incomprensibili. E lui si
prese 50.000 lire buone per calmare i creditori.
A proposito di D’Annunzio, da qualche anno vive a Parigi dove continua a
finanziare il suo stile di vita esagerato con altri debiti. Ha un appartamento al
quarto piano di una zona centrale di Parigi, con vista sugli Champs-Elysée. A
fine aprile sparisce dalla circolazione. Cosa succede all’instancabile poeta?
Circolano voci che è ammalato ma non si sa di cosa. Solo un’indisposizione? Ha
preso freddo? È qualcosa di più serio? Pochi giorni dopo arriva un suo
messaggio. Ha avuto l’influenza.
Beh, c’è poco da ridere. A quell’epoca si poteva morire.
Ma non si tratta d’influenza, come vedremo più avanti.
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L’anno prima della guerra
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Tirana, bel suol d’amor.
D’Annunzio era già il cantore del becero nazionalismo dell’Italietta che
voleva fare il gioco delle grandi potenze ma che, come il re, è corta di mezzi e di
statura. L’Italia segue la moda europea di inizio secolo: vuole espandersi. Giolitti
ha sempre consigliato prudenza. Si è imbarcato nell’avventura libica perché era
praticamente impossibile sottrarvicisi ma con grande riluttanza, sapendo che la
guerra avrebbe creato più problemi di quanti ne avrebbe risolto. La guerra libica
ha infatti acceso i nazionalisti di ogni risma che ora si aspettano altre iniziative.
Vogliamo Trento, vogliamo Trieste e l’Istria, la Dalmazia è lì ad un passo con
tante città italiane. Piccola nota di cautela. A parte alcune città costiere nell’Istria
occidentale, le terre “irredente” sono a grande maggioranza slava.
E comunque, per il momento, saldamente sotto la duplice monarchia
asburgica.
Nell’Adriatico la giovane Albania sembra la preda ideale. Un paese debole,
arretrato e poverissimo, appena uscita dal giogo ottomano con sommo stupore
delle sue popolazioni.
A marzo le potenze europee hanno creato un trono albanese e ci hanno
messo un principe tedesco, certo Guglielmo di Wied. Intorno al paese delle
aquile cospirano Grecia, Serbia, Montenegro e Austria, che è il nostro alleato
ma in realtà ci tiene in poca considerazione. Già nel 1913 si è rischiata la guerra
tra Austria e Serbia. In entrambi i casi Giolitti e il ministro degli esteri San
Giuliano avevano avvertito l’Austria di non contare sull’aiuto dell’Italia. Questo
fu sufficiente per calmare i bellicosi spiriti della duplice monarchia. Vienna non
ci riserverà la stessa cortesia di avvertirci in futuro.
A metà aprile, per risolvere varie questioni e parlare di Albania, i due ministri
degli esteri di Italia e Austria, il marchese di San Giuliano e il conte Berchtold si
incontrano ad Abbazia, un piacevole resort sulla costa croata, vicino a Fiume, già
molto rinomato come località mondana internazionale. All’epoca i vertici erano
cose serie. Mica ci si vedeva tutti i giorni. I due ministri parlano per quattro
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L’anno prima della guerra
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giorni e alla fine si mettono d’accordo. Non si capisce bene su cosa.
Probabilmente a non pestarsi troppo i piedi nell’Adriatico, a rimettere in riga le
piccole potenze balcaniche, a tenere in vita l’Albania. Il ragionamento e
semplice: se i Balcani sono calmi, lo sono anche i russi. Se Pietroburgo è
tranquilla, Berlino è di ottimo umore. La pace in Europa è garantita.
Certo, non si capisce bene come fanno Italia ed Austria a stare nella stessa
alleanza da quasi trent’anni. La Triplice Alleanza è stata rinnovata nel 1912 tra
scarsi entusiasmi. Siamo buoni amici con la Germania, che funge da punto di
equilibrio tra le due rivali adriatiche, e ci garantiamo senza troppo sforzo da
avere altri problemi con i francesi.
Negli ultimi anni, però, siamo diventati anche amici con la Triplice Intesa,
che riunisce Francia, Gran Bretagna e Russia. Abbiamo ottimi rapporti con
l’Inghilterra, siamo rivali con la Francia nel Mediterraneo con cui però è in
corso da un po’ di tempo la distensione. Tanto per non farci mancare nulla, nel
1902 abbiamo firmato un trattato di non aggressione con la Francia. Agli
avvocati il compito di conciliare la contraddizione con gli impegni della Triplice
Alleanza. Ai politici, era un’ulteriore dimostrazione che se sei piccolo e di
costituzione fragile è meglio non avere nemici.
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Una terra di santi, poeti e adesso anche aviatori.
A dieci anni dal primo volo dei fratelli Wright, anche nella penisola si
svolazza di qua e di là. Oltre agli aerei, che sono dei fragili accrocchi di legno, si
continuano gli esperimenti con i dirigibili. Che però sono pericolosi a causa
dell’idrogeno. Il 9 aprile il dirigibile Città di Milano è costretto ad un atterraggio
di emergenza a Cantù. A causa del forte vento e degli alberi che ne lacerano la
superficie, il dirigibile viene messo a terra. Si procede a svuotare l’involucro tra
una folla di curiosi. Quando si è quasi alla fine dell'operazione qualcuno si
accende una sigaretta. Potete immaginare il resto. Cinquanta ustionati. Un
morto.
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L’anno prima della guerra
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Nel campo artistico, a parte letteratura e l’opera (il cinema non era ancora
considerata arte), l’Italia non è in prima linea. In Europa l’arte è a Parigi,
Berlino, Vienna. I futuristi sono l’unica avanguardia italiana che valica i confini,
anche se il manifesto del 1909 di Marinetti venne pubblicato su Le Figaro in
francese.
Il 23 aprile si apre l’undicesima edizione della Mostra d’arte di Venezia (la
Biennale), l’ultima prima della guerra. Nelle passate occasioni erano apparse le
prime presenze di rilievo, gente come Klimt e Renoir, ma in generale
l’impressione è quella di uno scarsa attenzione alle correnti più feconde dell’arte
europea. Nel 1910 Marinetti aveva distribuito volantini anti-biennale per piazza
San Marco. Poco prima un’opera di Picasso era stata rimossa perché giudicata
troppo scandalosamente nuova per il pubblico. Picasso dovrà aspettare il 1948
per farsi ammettere a Venezia. In compenso c'è Merardo Rosso, esponente
dell’impressionismo italiano, amato anche dai futuristi.
Le donne italiane appaiono solo per opere di beneficenza e come spose
accompagnatrici, qualche volta come vittime di efferati atti di violenza, non di
rado come complici di delitti passionali. Nel 1912-13 Giolitti si è baloccato per
un po’ con l’idea del suffragio femminile ma i tempi non sono per niente maturi.
Manco i socialisti sono concordi. Alcune donne si fanno conoscere. A parte le
dive del cinema, Grazia Deledda nella letteratura, Matilde Serao nel
giornalismo, Sibilla Aleramo nella passione. Nell’inverno 1913-14 la
trentottenne scrittrice e giornalista passa da un amore all’altro con le principali
figure dell’arte italiana. Nella primavera del 1914 è a Parigi, dove scrive tutti i
giorni a Boccioni, con cui ha avuto una fugace storia d’amore in settembre. In
aprile si rivedono. Sibilla vuole fargli conoscere D’Annunzio. Boccioni è scettico;
giovane, futurista, iconoclasta, vorrebbe prendersi gioco del dinosauro. Il poeta
arriva “elegantissimo, con il suo sorriso di folletto shakespeariano” e li invita in
un posto rinomato. Boccioni mette da parte Sibilla, rimane affascinato da
D’Annunzio. La Aleramo colmerà la mancanza di Boccioni amando il pittore
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Michele Cascella e Clemente Rebora, prima di lasciarli entrambi per un terzo,
Giovanni Boine.
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Lo sport cambia il paese.
Calcio e ciclismo sono gli sport delle masse. Domenica 5 aprile ci sono due
avvenimenti in Liguria. Si corre la Milano-Sanremo, 298km, sul percorso che
fondamentalmente è lo stesso ancora oggi con in più l’asfalto. I 72 corridori si
ritrovano all’alba a Milano dopo una giornata di acquazzoni. Per fortuna il
tempo nella giornata sarà clemente. Alla partenza alle 6.15 ci sono italiani,
francesi, belgi e il campione australiano Ivor Munro, capitato chissà come in
Italia. C’è anche il tricolore Costante Girardengo, il favorito della vigilia. La
gara dura dieci ore. Le biciclette sono pesantissime e l’asfalto è ancora un
materiale sconosciuto. Alle 4.30 del pomeriggio sono in due a contendersi la
vittoria in volata: il triplice vincitore del Giro d’Italia Carlo Galetti e il ben più
giovane Ugo Agostoni, che stacca Galetti di mezza macchina, come dicono le
cronache. La folla enorme valica le transenne e va a festeggiare i corridori.
Lo stesso giorno, l’Italia gioca nello stadio del Genoa a Marassi. Lo stadio, il
più antico d’Italia, può ospitare 25.000 persone, il che la dice lunga sulla
popolarità di uno sport che non ha vent’anni di storia. La nazionale italiana in
casacca azzurra gioca la sua diciassettesima partita ufficiale, con la vicina
Svizzera. Alle 10 di mattina il ricevimento in municipio, con tanto di sindaco e
console svizzero. Immaginiamo i discorsi con vari gradi di pompa e di alcool nei
calici di champagne. Alle 15 la partita davanti ad un pubblico foltissimo e
disciplinato, che applaude italiani e svizzeri ugualmente. Finisce 1-1. Segna
Mattea del Casale al 26’ del primo tempo. Sei minuti dopo pareggia Wyss II.
L’Italia è costantemente in attacco, con verve latina, mentre gli svizzeri
amministrano con freddezza ed ordine.
E per chiudere col calcio, al termine della quarta giornata del girone finale
nazionale, che riunisce le sei squadri più forti del nord Italia, il Casale è in testa a
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punteggio pieno, inseguito da Genoa e Inter con 5 punti. Segue la Juventus con
4 punti, il Vicenza con 2 e il Verona, ultimo, a 0.
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I grillini di un secolo fa.
A fine mese Ancona ospita il congresso del Partito socialista italiano. La
gestione rivoluzionaria di Lazzari, dopo due anni, conferma il successo del PSI.
Sono in crescita sezioni ed iscritti. Nonostante i mugugni, la linea di fuoco del
direttore dell’Avanti! Benito Mussolini ha avuto successo. Mussolini ha triplicato
le vendite e ridotto i debiti. I riformisti sono zittiti. L’intransigenza resta l’unica
politica del PSI per i prossimi anni. Che non si parli di trattative con il governo
borghese. A giugno ci sono le elezioni amministrative da cui ci si attendono
grandi soddisfazioni. Ma cosa vogliono i socialisti? Il PSI è per la libertà
economica, contro la guerra, per il voto alle donne, ma vuole fare la rivoluzione
o no? Vuole migliorare la condizione della classe operaia oppure chiudere ogni
confronto con i padroni? In tutti i trionfali discorsi della dirigenza, alla fine, la
domanda chiave resta la stessa: che fare adesso? L’unica certezza è che i massoni
vadano espulsi. Su questo tema ci sarà un grosso dibattito. Gli estremisti
vogliono l’espulsione, i più moderati propongono una semplice incompatibilità.
Tra quest’ultimi c’è anche un giovane Giacomo Matteotti. Vincono i radicali e i
socialisti massoni vengono cacciati.
Tra i giovani socialisti di Torino compaiono Palmiro Togliatti (nato nel 1893)
e Antonio Gramsci (nato nel 1891). Togliatti e Gramsci non sono proprio amici,
Gramsci ha un carattere difficilissimo ma passano lungo tempo a camminare e
discutere per le vie e i portici di Torino. Togliatti, stimolato da Gramsci, molto
più maturo politicamente, ha fatto una ricerca sulle ragioni dell’arretratezza
della Sardegna e sta ancora elaborando le sue idee. A Torino si discute delle
elezioni suppletive per un seggio vacante alla Camera. Pare che Togliatti,
insieme a Gramsci, Tasca e Pastore, sia tra i giovani socialisti di Torino che
caldeggiano la candidatura di Salvemini e poi di Mussolini. Difficile però che
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Gramsci e Togliatti fossero già allora poco più di membri ordinari.
A fine aprile è ormai chiaro che l’Italia si avvia verso un periodo di grandi
tensioni politiche. Il progetto giolittiano è contestato sia a destra che a sinistra
che al centro. Troppo esiguo il liberalismo laico in Italia. Da destra vengono i
nazionalisti: la guerra in Libia ha infettato l’Italia del virus dello sciovinismo e
della guerra fine a se stessa. Monta l’isteria contro l’Austria. Da sinistra i
socialisti intransigenti rifiutano ogni collaborazione con il governo scatenando
scioperi ma senza una strategia politica, mentre i cattolici cercano sponda nei
liberali più conservatori preoccupati della crescita socialista. E la trovano in
Salandra.
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Il nuovo presidente del consiglio Antonio Salandra.
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MAGGIO 1914
Che noia il maggio italiano
Le rondini sotto i tetti. Le calde e lunghe giornate, buone a movimentare
l’animo degli infiniti poeti che amano la natura ma non fanno i contadini. Che
noia il marechiaro, i grilli che fanno cri-cri e le jurnate ‘e sole che si accoppiano alla
buona digestione e alla pennica. Via tutto.
A svegliare l’Italia ci pensano i futuristi. Basta con la natura e la melodia.
Evviva la fabbrica e il chiasso. A costo di rischiare l’insurrezione. Dopo il
“fortunato” esordio al teatro Dal Verme di Milano, finito a pugni e schiaffi, il
musicista futurista Luigi Russolo s’imbarca in una trionfale tournée in Italia e in
Europa. La sera del 20 maggio si presenta al Politeama di Genova con la sua
geniale invenzione: l’Intonarumori. È un accrocco formato da diciotto scatole
meccaniche che possono riprodurre ogni genere di suono sgradevole: ululatori,
rombatori, stropicciatori, scoppiatori e gorgogliatori. Pare che Russolo abbia
avuto una grande influenza sul restante secolo di musica contemporanea.
Provate a sentire “risveglio di una città” qui. Sembra un attacco dei Pink Floyd.
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Mese primaverile e mese poltrone.
La politica latita e non è una novità. Il presidente del consiglio Salandra è
impegnato, soprattutto, ad evitare il ritorno di Giolitti dal Piemonte e a
distribuire qualche lira alle varie categorie di impiegati pubblici che minacciano
e, più spesso, scioperano. Le sigaraie delle manifatture nazionali di Roma non
sono per niente contente dei risultati dell’azione sindacale, scaricano i loro leader
e si mettono in sciopero. Salandra concede qualche miglioramento ai ferrovieri
scaricando i costi sui viaggiatori, cioè aumentando le tariffe. Prova a dare un
contentino anche ai professori delle medie. Del resto le finanze pubbliche sono in
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L’anno prima della guerra
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condizioni critiche. Giolitti non ha detto a Salandra che la guerra di Libia è
stata, ed è, costosissima e che “non c’è trippa per gatti”, come diceva il sindaco
di Roma della prima decade del secolo, Ernesto Nathan, uno dei pochi che ha
provato a mettere ordine al caos vivente della capitale del Regno.
Insomma, politica in attesa. Il governo fa finta di governare in attesa delle
elezioni amministrative di giugno. Medita su quali tasse inventarsi per coprire i
buchi di bilancio. I socialisti preparano la rivoluzione partendo dalla conquista
dei comuni. Nel frattempo festeggiano il primo maggio che nel 1914 cade di
venerdì. Dubito che gli operai abbiano fatto ponte. In attesa della rivoluzione
nelle fabbriche si lavora dieci ore al giorno, dal lunedì al sabato, straordinari
esclusi. Ed è già un gran progresso. Alla fine dell’ottocento la giornata lavorativa
era di dodici ore. Come al solito la sinistra italiana è divisa tra chi vuole qualche
miglioramento concreto senza attendere il sol dell’avvenire (come i socialisti
riformisti di Bissolati e la Confederazione generale del lavoro, il principale
sindacato) e i rivoluzionari che vogliono tutto e subito e nel frattempo riempiono
le piazze di parole tonanti.
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A proposito, che fa il socialista Mussolini?
Da due anni è il direttore dell’Avanti! Ha solo trentuno anni. Visti gli
standard italici e salvo imprevisti, ha davanti a sé cinquanta anni di carriera
politica. Insomma, potrebbe arrivare agli anni settanta invece di fermarsi a
Dongo. Nessuno dubita che in caso di rivoluzione sarà il primo a comandare i
plotoni di esecuzione contro la borghesia. Impulsivo, passionale, vive di letture
disordinate e di appetiti carnali veloci e sbrigativi; smania di possesso maschia.
La sua amante è la politica. Il resto sono bisogni elementari. Che Rachele, la sua
convivente, si rassegni. All’epoca si sussurra di una storia con Angelica
Balabanoff, membro della direzione del PSI, una delle poche donne ad avere un
ruolo politico in Italia. Tra i due c’è sicuramente un rapporto professionale, se
vogliamo. Angelica lo guida nella conduzione dell’Avanti! e cerca di mettere
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ordine in quella testa di romagnolo geniale e astuta, per quel che può.
Il partito cerca di farlo entrare in Parlamento dove da un paio d’anni è stata
introdotta anche l’indennità. C’è un seggio vacante a Torino. I giovani vogliono
Salvemini poi Mussolini, ma la maggioranza ha altre idee e alla fine vota il 19
maggio per l’operaio Mario Bonetto. Mussolini si ritira in buon ordine.
A Mantova si svolge, dal 5 al 9 maggio, il congresso della CGdL, il maggiore
sindacato dell’epoca e l’antenato dell’attuale triplice. Fondata nel 1906, continua
ad essere dominata dai riformisti intorno al segretario Rinaldo Rigola che cerca
di ottenere conquiste concrete per i lavoratori distinguendosi dal massimalismo
di Lazzari e Mussolini. Rigola, operaio da 16 anni in un’industria tessile di
Biella, cieco per un incidente sul lavoro, fu anche il primo deputato di estrazione
operaia, eletto nel 1900. La sua organizzazione è incalzata da sinistra
dall’Unione Sindacale Italia, (USI) di Alceste De Ambris e Filippo Corridoni,
che rifiuta ogni negoziato con lo stato, alleanze con partiti politici, propugnando
azioni di rivendicazione non disgiunte da violenza. La divisione tra rivoluzionari
sindacalisti, massimalisti socialisti e riformisti CGdL non è salutare per il
movimento operaio.
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Agitazioni.
I vari agitati della penisola vanno a congresso in maggio. Tra i nazionalisti di
Corrado Federzoni, incubatori dei futuri fascisti, si fa largo Alfredo Rocco,
professore universitario e destinato al ministero della giustizia in orbace nero e
manganello, che fa approvare un ordine del giorno contro l’individualismo
liberale e socialista, ma a favore del protezionismo e della proprietà privata.
Come dire, chi possiede vuole tenersi tutto con la protezione dello stato. I
socialisti sono avvertiti.
Altrettanto agitate sono le donne. Come succede spesso in Italia, tutti sono
d’accordo in teoria per dare il voto alle donne ma in pratica nessuno fa niente
per realizzarlo. Nel 1913 si è persa un’occasione e, come succede sempre in
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Italia, i riformisti si erano divisi. Turati, padre del socialismo italico, era contro il
suffragio femminile e litigava con la moglie Anna Kuliscioff. Curioso che sarà
Mussolini a riproporre il voto femminile per le amministrative nel 1924, quando
sarà troppo tardi.
Il 16 maggio si apre a Roma, in Campidoglio, il primo congresso
internazionale femminile. Presenti varie personalità italiane e straniere, tra cui il
ministro della pubblica istruzione che nell’apprezzare le donne per il loro
contributo economico e sociale, non ne dimentica l’importanza per la famiglia.
Come dire, restate dove siete!
Altro che influenza! La malattia che ha tenuto a casa il supremo agitato
d’Italia non ha niente a che fare con i bronchi. Il vate ha una malattia venerea.
Mentre il mondo bolle e ribolle, D’Annunzio è tappato nel suo appartamento di
Parigi! Orrore! Il vate scrive all’amico Luigi Albertini, direttore del Corriere
della Sera che “una cosa del genere non mi era mai capitata!” Lo va a trovare
devotamente e chissà quanto castamente la sua principale amante, la nobildonna
russa Nathalie de Goloubeff (che D’Annunzio, come suo solito, ha ribattezzato
in Donatella). Altrimenti c’è la giovane cameriera Amélie. Fermo in casa,
D’Annunzio scrive varia roba in francese e italiano ma soprattutto spende. Luigi
Albertini stacca assegni ma il vate è un pozzo senza fondo.
Un altro agitato è invece per il momento tranquillo. Dopo aver attraversato
mezza Europa con due pedali e una gamba sola, e dopo aver provato ad
attraversare l’Africa nel 1913 prima di essere bloccato dagli inglesi in Sudan per
motivi di sicurezza, Enrico Toti è a Roma. Si dedica a lavori di falegnameria che
gli danno un buon reddito. In attesa di nuove avventure.
Anche i futuristi sono agitati. A Napoli si apre il 14 maggio la “Prima
esposizione di pittura futurista con Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini,
Soffici”. A Roma, nella Galleria futurista, è in corso dal 13 aprile l’“Esposizione
libera futurista internazionale. Pittori e scultori italiani, russi, inglesi, belgi,
nordamericani”. A Milano, il 20 maggio si apre “La prima mostra d’arte del
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gruppo Nuove tendenze”, definito la destra del movimento, con opere di
Sant’Elia, Chiattone, Dudreville, Funi, Erba, Possamai, Adriana Bisi Fabbri, e
Alma Fidora, forse l’unica futurista o, almeno, una delle poche. La giovane
artista coniuga la tradizione femminile dell’ago e cucito con i motivi del
futurismo. Nel catalogo viene pubblicata la prima versione del manifesto
dell’architettura futurista di Sant’Elia, che poi apparirà su Lacerba di luglio.
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L’Italia arranca. E ogni tanto sussulta.
L’8 maggio un terremoto devasta il circondario di Acireale. Muoiono in 150.
Le autorità si mobilitano. Il re offre 150.000 lire di aiuti. Stavolta i soccorsi
arrivano rapidamente dopo l’insegnamento della catastrofe di Reggio e Messina
del 1908.
Siamo agli sgoccioli della “Belle Epoque” anche se nessuno lo può
immaginare. Si sa solo che la prossima guerra d’Europa sarà nei Balcani. Italia
ed Austria, dietro le rassicuranti intese diplomatiche, hanno interessi che
cozzano. La Serbia cerca uno sbocco nell’Adriatico e l’Austria è il suo nemico
mortale. La pace corre sempre su un filo che i diplomatici europei hanno saputo
sempre riannodare con pazienza.
Almeno fino ad adesso.
I problemi adesso sono in Albania, ultima debole creatura delle potenze con
pochi mesi di indipendenza sulle spalle e nessuna esperienza di autogoverno. I
greci dell’Epiro non vogliono essere inclusi nell’Albania. Italia ed Austria
tramano entrambe per acquistare influenza. Il 18 maggio ribelli guidati da Essad
Pascià, ministro della guerra e dell’interno, minacciano la capitale Durazzo.
Vogliono il ritorno del sultano ottomano.
Il neoprincipe d’Albania, Guglielmo, tedesco e cristiano in una terra
mussulmana, chiede aiuto alle potenze. Impossibile tenere il paese. Arrivano
marinai italiani ed austriaci, Essad viene arrestato e portato a Brindisi, ma la
crisi non si risolve. Gli insorti entrano a Durazzo e il 24 costringono il re a
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scappare protetto dagli italiani. Seguono giorni convulsi, in cui le truppe
straniere cercano di ristabilire una parvenza d’ordine.
Italia ed Austria sono divise anche nell’Alto Adriatico, il “polmone sinistro”
d’Italia, come lo descrive l’immaginifico trombettiere dei fasti nazionali,
D’Annunzio. A Trieste la convivenza tra italiani e slavi si va complicando. Il
censimento del 1910 aveva mostrato una progressiva crescita degli sloveni, giunti
a rappresentare un quarto della popolazione cittadina, che minacciano sempre
più l’elemento borghese cittadino ed italiano. Nel 1913 un provvedimento ha
provocato il licenziamento dei cittadini stranieri, soprattutto italiani,
dall’amministrazione pubblica. In più da tempo si discute senza esito di istituire
un’università italiana. I motivi di tensione non mancano e questi hanno eco in
tutta Italia, alimentando la propaganda nazionalista e antiaustriaca.
La festa del primo maggio finisce in scontri violenti tra italiani e sloveni. La
polizia carica gli italiani ferendone a decine. Gli agitati di mezza Italia chiedono
a Salandra di attaccare pubblicamente l’Austria e nel paese si svolgono
manifestazioni di protesta contro l’“eccidio” di italiani. Ma il governo tiene
botta. È impensabile mandare all’aria trent’anni di alleanza con l’Austria che
politici, militari e pensatore considerano ancora il perno della difesa italiana.
Guerra seria in Libia. A maggio, dopo tre mesi di decisa campagna militare
in Cirenaica, il generale Ameglio è riuscito ad allargare la fascia di controllo
italiano dalla zona costiera verso l’interno. Ma la situazione è tutt’altro che
tranquilla. La resistenza dei Senussi continua, nonostante le rappresaglie e le
condanne a morte dei tribunali militari. Di tutto quello che avviene in Libia gli
italiani sanno quello che serve al governo. Cioè poco.
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Cronaca nera.
Del resto gli italiani che leggono si appassionano ad altro. Allora come oggi la
combinazione sesso, delitto e alta società è irresistibile.
Sanremo, 8 novembre 1913. La contessa Maria Oggioni nata Tiepolo, moglie
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di un ufficiale dei bersaglieri, Ferruccio Oggioni, uccide con un colpo di pistola
Quintilio Polimanti, attendente del marito, presenza abituale in casa. La Tiepolo
viene arrestata. La penisola si divide immediatamente tra innocentisti e
colpevolisti. La contessa (che è tale solo per i giornali) ha ucciso Oggioni
freddamente per liberarsi di un amante importuno oppure si è difesa dall’assalto
dell’uomo? Di chi è il bambino che la Tiepolo abortisce in cattività? Come dice
Sciascia in un libretto pubblicato sul caso, “che tra una bella donna e un
bell’uomo, per mesi sotto lo stesso tetto e spessissimo soli, (...) non è passato che
un colpo di rivoltella, esploso dalla donna per difendersi dall’uomo, è (...) una
contraddizione di termini.”
Il 29 aprile inizia il processo. La contessa è difesa dall’avvocato Orazio
Raimondo, ex sindaco di Sanremo e deputato socialista. Un medaglione donato
da Maria a Ferruccio sarebbe la prova della relazione. Ma il medaglione
sparisce. Il processo è una specie di teatro dell’assurdo, tipico dell’epoca. Si
allude delicatamente. Si nominano cose senza il loro nome. È in gioco l’onore di
una signora e di un ufficiale dell’esercito. In fondo, il Polimanti è solo un
falegname del Piceno. Il 2 giugno, dopo otto ore di camera di consiglio, i giurati
dichiarano 5 a 4 l’innocenza della Tiepolo. Il marito l’abbraccia. Dimenticate le
corna. L’onore è salvo.
La vittima, del resto, non può lamentarsi.
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Maggio è mese di grande sport.
Costante Girardengo vince la Milano-Torino il 10 maggio. Ventun anni, al
secondo anno da professionista, ha inventato il ciclismo moderno. Fa
allenamenti sistematici, cura la preparazione invernale, mette un mattone sulla
ruota in allenamento per andare più veloce in gara. Inventa la tattica. Ottimo
come passista, buono come scalatore, la sua arma decisiva è la volata. Avrebbe
vinto molto di più se non fosse arrivata la guerra.
Il 24 maggio parte il sesto Giro d’Italia. Oltre a Girardengo ci sono il
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fortissimo francese Lucien Petit-Breton, già due volte vincitore del Tour. Ganna e
Gaietti hanno delle buone squadre. Gerbi, il diavolo rosso di Paolo Conte, corre
da solo. Sono previste otto massacranti tappe, tutte oltre i 300 chilometri.
Cinque superano i 400 chilometri. Sarà il Giro d'Italia più lungo della storia, il
primo che utilizzerà la classifica a tempo e l’ultimo prima della guerra. Vanta
ancora la tappa più lunga (la Lucca-Roma di 430 chilometri) e la media più
bassa del vincitore (23,3 km orari) che, se immaginiamo le condizioni delle
strade, l’assistenza inesistente e il peso delle bici mostrano quale forza avessero
questi ciclisti primordiali.
Partono in 81. La prima tappa è la Milano-Cuneo con salita al Sestrière
(420km). Partenza a mezzanotte sotto il maltempo. Sulle montagne si sprofonda
nel fango. Ganna s’impicca sulla salita. Il gregario Gremo è il primo ad arrivare
in cima spingendo la bici a mano. È l’una di pomeriggio e mancano ancora 118
chilometri! La discesa è ancora peggio per via del freddo che congela le braccia e
le dita dei ciclisti. Ganna è allo stremo delle forze e decide di fermarsi in
un’osteria per rinfrancarsi ma quando vede passare Girardengo non ci pensa
due volte e riparte. A Cuneo arrivano in 37, metà del plotone iniziale,
un’autentica strage. Vince Gremo. Petit Breton e Galetti si ritirano.
La seconda tappa, il 26 maggio, è la Cuneo-Lucca (340,5 km). Quattordici
ore sotto la pioggia. Gremo e Ganna crollano. Vince Alfonso Calzolari che diventa il leader della corsa. Due giorni dopo la Lucca-Roma (430km) in cui
Bordin è protagonista della fuga più lunga della storia del Giro, 350 chilometri
in 14 ore. Bordin aveva già vinto tre tappe al Giro, ma non riuscirà nel quarto
centro. Viene battuto in volata da Girardengo per “mezza macchina”. Nella
tappa successiva, Roma-Avellino (356,7km), partono in 27. Vince Giuseppe
Azzini con grandi distacchi. Ma la testa della corsa resta a Calzolari.
Nel calcio, il 17 maggio si gioca a Berna una nuova sfida amichevole tra Italia
e Svizzera. Si gioca alle 15 davanti a seimila spettatori. Partita aperta tra due
squadre che attaccano furiosamente. Al 29° del primo tempo l’azione del gol. Su
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calcio d’angolo tirato da Varese (Casale), nasce una mischia furiosa da cui
emerge Barbesino (Casale) che infila la rete svizzera. Al 38° il portiere della Pro
Vercelli Innocenti para un calcio di rigore. Finisce 1-0 per gli azzurri.
Nel campionato di calcio i nerostellati del Casale sono ormai vincitori del
girone finale del campionato del nord. A due giornate dal termine, hanno 4
punti di vantaggio sul Genoa. A nessuno interessa sapere che la Lazio ha
strapazzato l’Internazionale di Napoli nella finale dell’Italia centro-meridionale,
conquistando il diritto a farsi asfaltare dal Casale a luglio.
Per concludere, i motori. Il 24 e 25 maggio si tiene in Sicilia la nona edizione
della Targa Florio, 1.050 chilometri in due tappe. Vince Ernesto Ceirano su una
SCAT in poco meno di 17 ore alla media di 62,3 km/h. La SCAT (Società
Ceirano Automobili Torino) era un’azienda automobilistica fondata nel 1906 da
Giovanni Ceirano. Aveva già vinto la Targa Florio nel 1911 e 1912. L’azienda
durerà fino alla crisi economica del 1929 quando sarà assorbita dalla FIAT.
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Il coraggio di Mariano Barbato
La mafia non esiste. Di tanto in tanto arrivano notizie dalla Sicilia di strani
omicidi, che vengono classificati come regolamenti di conti paesani, delitti di
onore, faide familiari. Eppure nel passato ci sono già state morti eccellenti. Il
sindaco di Palermo, Emanuele Notarbartolo, era stato assassinato a coltellate nel
1893. Il primo maxiprocesso del maggio 1901 contro il racket mafioso nel
palermitano fu istruito dal questore Sangiorgi ma si concluse con un nulla di
fatto, per la forza dei legami tra mafia e politica. Omicidi ed intimidazioni si
ripeterono nel novecento a misura che cresceva la forza dei socialisti nelle
campagne sicule.
In maggio, a Piana degli Albanesi ci si prepara alle elezioni amministrative.
Al potere ci sono i soliti notabili capitanati dal sindaco Paolo Sirchia, prestanome
del capomafia Francesco Ciuccia. I socialisti sono in grande ascesa. Li guida
Nicolò Barbato, storico leader dei fasci siciliani, più volte imprigionato per la sua
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L’anno prima della guerra
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militanza politica, “istigatore dell’odio sociale” secondo i rapporti dei regi
carabinieri. Suo principale collaboratore, Mariano Barbato, anche lui noto
“pregiudicato” per motivi politici.
Il 17 maggio Mariano Barbato, nel corso di un comizio a San Giuseppe Jato,
aveva detto “Chi non è con noi è un vigliacco! Abbasso la mafia! Abbasso la
camorra!”
Tre giorni dopo, alle sette e trenta del mattino, Mariano Barbato si trova in
campagna a lavorare insieme a Giorgio Pecoraro e Vito Ciulla. Tre uomini
sconosciuti si avvicinano, li salutano, probabilmente per identificarli, poi
estraggono i fucili. Un’esecuzione perfetta. Barbaro e Pecoraro cadono. Si salva
solo Ciulla, che non c’entra nulla e di cui è facile immaginare il terrore a rivelare
alcunché.
Il duplice assassinio scuote gli ambienti socialisti anche fuori dell’isola. Per il
partito è evidentemente la matrice politica. Nicola Barbato dichiara al giudice
“È notorio che io sono a capo al movimento di questo locale partito socialista (...)
e quei pochi che hanno fin’ora avuto il potere non vedono di buon occhio la loro
prossima probabile caduta.” Barbato indica nel sindaco Sirchia il mandante
morale dell’omicidio, ma nessuno lo ascolterà e l’inchiesta verrà rapidamente
archiviata senza alcun indiziato. Successivamente in giugno i socialisti
vinceranno le elezioni comunali.
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Lyda Borrelli, la prima diva del cinema italiano, una carriera brevissima di
appena cinque anni
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GIUGNO 1914
Quando c’erano le vere stagioni
A giugno inizia a far caldo. Gli italiani partono per la villeggiatura.
Niente esodi. Niente file ai caselli. Siamo nel 1914 e solo in pochi possono
permettersi una vacanza. Operai ed impiegati non sanno cosa siano le ferie
pagate (appariranno solo nel 1927) e comunque con i miseri salari non si
potrebbero permettersi neppure una pensione senza stelle. E i contadini, ovvero
la gran parte degli italiani, se lasciano la terra muoiono di fame. L’unico viaggio
che fanno è quello per emigrare in America.
La Sardegna è ancora terra incognita. Ostia è una zona appena sottratta alle
paludi malariche. Il Salento, il Cilento, nomi altrettanto esotici come l’Amba
Alagi e il golfo di Sirte. Chi può andare in vacanza, oltre alla tradizionale
campagna, si dirige verso la costa settentrionale adriatica, sul Lido di Venezia,
dove vanno anche parecchi scrittori ed artisti stranieri, in Versilia, a Viareggio,
dove sorgono i primi stabilimenti con tanto di ombrelloni. Chi va in montagna
sceglie Courmayeur, Madonna di Campiglio oppure Cortina d’Ampezzo.
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Villa Ada
Nel frattempo il re Vittorio Emanuele III si è trasferito a Villa Ada,
praticamente in campagna, visto che la capitale del regno va poco oltre le mura
aureliane. Il re non sopporta il Quirinale, non certo perché pensi che sia un
errore vivere nella ex residenza papale, ma perché è in fondo un uomo semplice,
a disagio con la pompa e gli eventi ufficiali. Del resto 153 centimetri di re
sollevano facilmente il ridicolo. Vittorio Emanuele vivrebbe molto più
felicemente dedicandosi alle monete e all’adorata moglie montenegrina Elena. È
una persona su cui si potrebbe stendere un trattato psichiatrico sui guasti di certa
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L’anno prima della guerra
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educazione. Cresciuto in un ambiente rigido, senza affetti, ha sviluppato un
carattere schivo, sospettoso, abbastanza arido, piuttosto formalista. A Villa Ada
Vittorio Emanuele realizza la casa dei suoi desideri, fa dei cambiamenti, installa i
termosifoni. Non ama lo sfarzo, i giardini e la natura pettinata. Lascia la
proprietà semiselvatica. Va a raccogliere personalmente la frutta dai suoi alberi e
fiori per Elena. Ogni mattina parte per il Quirinale come fosse un impiegato.
Torna a pranzo, fa un riposo pomeridiano, riparte nel pomeriggio. È metodico e
burocratico, cosciente dei suoi doveri. Lavora il giusto, per il resto si dedica alle
sue attività, le monete e i libri. Non sarebbe un cattivo re e rispetto ad Umberto
I abbiamo fatto grandi passi avanti. Vittorio Emanuele, diversamente dal padre,
è attentissimo al rispetto delle forme costituzionali, anche se non cede i poteri
che lo Statuto Albertino gli conferisce, il comando dell’esercito e la politica
estera, armi e diplomatici, nel solco della tradizione dello Stato-nazione. Per ora,
Vittorio Emanuele non si immischia molto negli affari correnti. Ama
semplicemente restare informato e per questo ogni mattina legge i rapporti dei
regi ambasciatori, con cui comunica direttamente.
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Il furto della Gioconda
Il 5 giugno termina presso il tribunale di Firenze il processo contro Vincenzo
Peruggia, il ladro della Gioconda. Due giorni di dibattimento e pochissimo
pubblico in aula, nonostante si tratti della conclusione di un avvenimento che
ha tenuto il mondo col fiato sorpreso per quasi tre anni. Il capolavoro di
Leonardo era scomparso nel nulla nell’agosto 1911. In mancanza di migliori
indizi, la polizia francese aveva accusato del furto anche Picasso ed Apollinaire.
Invece il responsabile del furto era stato un umile operaio italiano incaricato di
sistemare i vetri al Louvre.
Il dibattimento non offre grandi sorprese. Nell’attesa della sentenza, Peruggia
chiacchiera con i giornalisti. Racconta di essere stato suggestionato da un libro
in cui si parlava delle spoliazioni fatte da Napoleone e di aver voluto restituire il
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quadro all’Italia (in realtà la Gioconda fu portata in Francia da Leonardo stesso).
Peruggia scelse la Gioconda non per il suo valore intrinseco ma perché era facile
da portar via. Resta convinto di aver fatto una buona azione. Ricorda
gongolando di come riuscì ad ingannare la polizia francese durante la
perquisizione in casa sua, nascondendo l’opera sotto il tappeto. Racconta di aver
mangiato i pasti per due anni in compagnia della Gioconda. Peruggia non
doveva essere del tutto insensibile alla bellezza e all’arte, anche se si trattava di
un semplice imbianchino figlio di un muratore. Il ladro restò in compagnia della
Gioconda per due anni, finché nel dicembre 1913 non tentò di venderla ad un
antiquario fiorentino che allertò la polizia.
Il pubblico ministero ha chiesto tre anni. Il giudice gli infligge 1 anno e 15
giorni con le attenuanti. Alla fine Peruggia sconterà solo sette mesi. Questa
vicenda consacra definitivamente la leggenda della Gioconda nella coscienza
collettiva. Quanto al ladro, verrà arruolato durante la prima guerra mondiale,
fatto prigioniero durante la rotta di Caporetto, salvò la pelle e riuscì a ritornare
in Francia sotto falso nome dove si sistemò.
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Giovani artisti.
Un simpaticissimo sedicenne frequenta le case del popolarissimo rione Sanità,
nel cuore di Napoli. È figlio illegittimo del marchese De Curtis. Poco studioso, la
madre lo voleva sacerdote. In quel periodo ricchi e plebei usavano riunirsi
periodicamente in casa per mangiare in compagnia ed assistere ad uno
spettacolo artistico di musica, poesia o commedia (le cosiddette “periodiche”).
Antonio De Curtis si esibisce con lo pseudonimo di Clerment imitando la mimica
e le mosse di Gustavo De Marco, un attore napoletano all’epoca in gran voga,
che usava il corpo come arma comica. Ecco come Totò ricorda quegli
anni. “Sono nato in rione Sanità, il più famoso di Napoli, Quel rione ha nome,
in verità, Stella, e sta intorno alla stazione, ma per le buone arie lo chiamano
tutti Sanità. La domenica pomeriggio le famiglie napoletane usavano riunirsi
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nelle case dell’una o dell’altra, e là chi suonava la chitarra, chi diceva la poesia, e
chi cantava. Erano riunioni per bene, niente pomiciamenti. I giovanotti
guardavano le ragazze, gli tenevano la mano, si innamoravano. Non le schifezze
di oggi. E così si passava il tempo, divagandosi. Io facevo scenette comiche, per
gioco. Fu in quel modo che cominciai.”
Probabile che già in quel periodo Totò abbia conosciuto Eduardo De Filippo,
che stava muovendo anche lui i primi passi nella compagnia di Vincenzo
Scarpetta, suo fratellastro, figlio legittimo di Eduardo Scarpetta, che seminò di
figli vari, oltre che di commedie, mezza Napoli.
Tra i giovani artisti che si stanno conquistando uno spazio importante a
Parigi c’è Giorgio De Chirico. Da tre anni vive nella capitale francese col fratello
Alberto e ha già dipinto alcuni classici come “La torre rossa” e “La melanconia
di una bella giornata”. In giugno finisce di dipingere “Canto d’amore”,
considerato uno dei suoi capolavori: enigmatico, metafisico, comunica
sconcerto e solitudine: una piazza italiana deserta, una grande testa di Apollo,
un guanto rosso inchiodato al muro, una sfera verde. Il titolo riprende una poesia
di Apollinaire.
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Il pedale e la pedata.
Finalmente finisce. Il 7 giugno si chiude un Giro d’Italia da incubo. I
sopravvissuti possono stare tutti sul podio: otto su ottantuno partenti. Ha
vinto Pierino Albini ma l’albo d’oro registra un altro nome, quello di Alfonso
Calzolari. Cos’è capitato?
Ci eravamo lasciati in maggio con le prime quattro tappe e Calzolari in testa
alla classifica, incalzato da uno scatenato Azzini. Nella quinta frazione (AvellinoBari di appena 328km) Azzini vince ed infligge più di un’ora di distacco al rivale.
La tappa si corre su strade devastate dalle buche e dalla pioggia. I ciclisti
sbandano da una parte all’altra in cerca di una striscia pianeggiante,
accumulando altre tossine sui loro fisici già provati. Ed ecco un’altra vittima
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L’anno prima della guerra
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illustre. Poco prima di Salerno Girardengo si accascia su un mucchio di ghiaia e
si ritira. Il “campionissimo” dovrà aspettare il dopoguerra per vincere il suo
primo Giro d’Italia.
Due giorni dopo, la carovana, sempre più sottile, trasmigra da Bari all’Aquila (428km). Partono a mezzanotte attraversando i paesi della Puglia sotto il
cielo stellato. L’andatura è da passeggio, intorno ai 22km orari, ma su strade
infernali e di notte cosa si può pretendere? Gerbi, il diavolo rosso della canzone
di Paolo Conte, si ritira a Lucera per problemi al ginocchio. Continua il duello
tra Azzini e Calzolari tra buche e rotture. Ogni ciclista è meccanico di se stesso.
C’è chi ripara la pedivella a sassate. C’è chi all’ennesima foratura lascia perdere
e sale sull’auto dei giornalisti. La tappa la vince Luccotti, mentre Calzolari viene
beccato a farsi trainare in salita da un’auto. L’UVI (Unione Velocipedista
Italiana) ne chiede la cacciata. La giuria della Gazzetta gli infligge
semplicemente tre ore di penalizzazione, per cui Calzolari può continuare a
pedalare fino a Milano. Il giro di Calzolari sembra finito ma alle undici di sera
non vi è ancora traccia di Azzini. Lo troveranno il mattino dopo, disteso sulla
paglia di un granaio con la bici al fianco, distrutto dalla salita del Macerone, un
colle che sovrasta Isernia e punto classico di passaggio dei primi eroici Giri.
Calzolari si prende il comando.
Nelle ultime due tappe, L’Aquila-Lugo (429,1km) e Lugo-Milano (420,3km)
vince Pierino Albini che non riesce però a recuperare l’abissale distacco da
Calzolari, quasi due ore, un altro record mai più ripetuto. Per l’UVI invece il
legittimo vincitore del Giro è Albini. Per decidere chi sia il vincitore, nasce
l’abituale commissione d’inchiesta all’italiana che delibererà solo nel 1915.
Calzolari viene riconosciuto vincitore ma intanto è scoppiata la guerra e fino al
1919 nessuno penserà più al Giro.
Il 14 giugno termina il campionato di calcio del Norditalia, vinto dal Casale.
Resta solo la formalità della finale con la Lazio, vincitrice della finale centro-sud.
Il Casale si conferma squadra solida. Del resto l’anno prima fu la prima squadra
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italiana a sconfiggere una squadra professionistica inglese, battendo il Reading
col punteggio di 2-1.
Pochi giorni prima a Roma viene fondato il CONI, che sostituisce le
precedenti organizzazioni. In quell’anno delle 16 federazioni sportive nazionali,
12 hanno la loro sede nelle regioni settentrionali e solo 4 a Roma, specchio della
preminenza del nord nello sport tricolore. Primo presidente è il marchese Carlo
Compans de Brichanteau, deputato. Sport, politica ed aristocrazia. Ci vorrà il
fascismo per aprire lo sport alle masse.
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Italiani alla guerra.
Mentre ci si prepara alle future guerre, in Libia gli italiani continuano la loro
faticosissima impresa di dissodare il deserto dai beduini e stabilire la pax romana.
Le cronache dell’epoca sono abbastanza scarne. Gli italiani devono leggere tra le
righe per capire cosa accade veramente. La Stampa racconta che in giugno
l’esercito non ha esitato a dare una dura lezione ai ribelli, sequestrando i greggi
di pecore e distruggendo i campi di grano e orzo, poco prima del raccolto, così
da gettare le popolazioni nella fame. Una tattica atroce ma efficace. Alcune tribù
si sottomettono ma altre continuano la resistenza alimentata dai turchi.
Altra crisi vicina è in Albania. La posizione del principe Guglielmo di Wied si
regge sulle potenze. Gli intrighi continuano: Austria, Italia, Grecia e Serbia,
ciascuno ha le sue mire. I ribelli mussulmani non vogliono un re cristiano che
comunque non regna oltre le mura del suo palazzo. Il paese è nelle mani dei
signorotti locali, molti dei quali rimpiangono l’Impero ottomano. Parte un
contrattacco lealista che si risolve solo in decine di morti senza concludere nulla.
Gli italiani hanno un drappello di marinai a Durazzo, la capitale albanese, ma
non hanno troppa voglia di farsi risucchiare in questo conflitto incomprensibile.
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La settimana rossa.
Mentre Giolitti se ne sta buono buono in Piemonte, il governicchio Salandra
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affronta le prime serie prove. Il 5 giugno inizia la battaglia alla Camera su alcune
modeste proposte di riforma della scuola media e sull’aumento delle tasse per
finanziare il disavanzo statale. Repubblicani e socialisti fanno ostruzionismo, per
evitare che le nuove imposte ricadano unicamente sui ceti più poveri. I socialisti
in particolare chiedono una riforma tributaria che riequilibri il peso fiscale verso
le classi alte. La battaglia andrà avanti nella Camera per tutto il mese di giugno e
si concluderà solo quando verranno minacciate le meritate vacanze dei deputati.
I giornali commentano che la XXIV legislatura si sta distinguendo per
l’inattività, l’assenza del governo, le sedute con pochi deputati che si
preoccupano solo di far approvare leggine di loro interesse e per il linguaggio da
mercati. Del resto, se la maggioranza parlamentare si regge sui duecento
deputati meridionali eletti a suon di brogli prefettizi, è impossibile pretendere un
comportamento da signori. Il caos parlamentare non è invenzione
recente. Maggioranza e opposizione si scambiano insulti pesanti. “L’on. Chiesa
abbatte le urne e dopo una zuffa è portato via dall’aula”. Alla fine, i partiti
stanno solo facendo campagna elettorale in vista delle amministrative del 14
giugno.
L’apparente pacifico tran-tran della vita nazionale viene spazzato via dalla
Settimana Rossa, una delle più sconvolgenti jacquerie di prima della guerra,
destinata a lasciare una memoria profonda, sia in chi la fomentò che in chi ne
venne spaventato. Sono alcuni giorni in cui ampie zone dell’Emilia e delle
Marche scivolano nell’anarchia.
Le tensioni covano in Italia. Le masse non si identificano con lo stato unitario,
hanno solo una vaga coscienza nazionale, e quasi nessun rapporto con le classi
dirigenti che, sorde alle istanze che provengono dal basso, presentano alle
legittime richieste popolari la faccia del carabiniere e del soldato. Troppi i
capipopolo che agitano le braci ardenti della disuguaglianza, della
disoccupazione e delle ingiustizie in cui vive la maggior parte degli italiani. E alla
fine basta poco per accendere l’incendio che però sarà solo una fiammata
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rabbiosa e senza alcuna possibilità. Spaventosa per le classi privilegiate ma
disorganizzata e priva di un progetto politico.
Breve quadro dell’Estrema Sinistra: l’opposizione più articolata è quella del
partito socialista di Lazzari e Mussolini, controbilanciati dal più moderato
gruppo parlamentare socialista; vengono poi i repubblicani eredi della tradizione
mazziniana, con Pietro Nenni tra i suoi leader, forti soprattutto in Romagna e
nelle Marche. Infine, gli anarchici di Enrico Malatesta, il cui capoluogo è
Ancona, città portuale molto calda. Questi gruppi hanno in comune tre cose: le
teste calde, l’ostilità alla monarchia e l’antimilitarismo. Manca solo l’occasione
per accendere le micce.
Domenica 7 giugno, festa dello Statuto Albertino. I repubblicani organizzano
un comizio antimilitarista a Villa Rossa ad Ancona. Dopo aver ascoltato i
discorsi di Nenni e Malatesta, seicento manifestanti si dirigono verso Piazza
Roma, dove è in corso il concerto ufficiale della banda militare. Forza pubblica e
anarchici si scontrano violentemente, mentre la gente lancia pietre e mattoni
dalle finestre. Partono le rivoltellate dei carabinieri: muoiono in tre, ventidue
restano feriti. Ecco la miccia che accende il combustile della rabbia popolare.
Nelle Marche, in Romagna, in Toscana le notizie degli scontri scatenano la
rivolta delle masse, vengono proclamati scioperi spontanei, mentre
manifestazioni di minore gravità dilagano un po’ ovunque, nelle grandi città
industriali del nord come a Firenze, Roma, Bari e Napoli. Gli insorti disarmano
carabinieri e truppa, occupano le città, bloccano i treni, devastano i simboli
dell’autorità reale. In poche ore la turba ha preso il controllo di ampie zone
dell’Italia centrale.
La rivolta prende di sorpresa i socialisti, che da anni predicano la rivoluzione
ma non sono mai pronti quando è il momento. La sera di domenica 7 la
direzione del PSI è deserta. Mussolini è isolato a Milano. Le comunicazioni con
le zone in rivolta sono interrotte dal ministero dell’interno. Nella riunione dell’8
la direzione del PSI chiede al sindacato di proclamare uno sciopero generale di
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protesta in tutta Italia. Quella era la risposta tipica ai cosiddetti “eccidi proletari”
che accadevano un po’ troppo spesso in Italia. La CGdL è dubbiosa ma accoglie
la proposta del partito. Lo sciopero inizia il 9 mentre le violenze aumentano
mentre il governo fa affluire centomila militari per riportare l’ordine. I rivoltosi si
muovono in bicicletta, ci sono anche i cosiddetti “ciclisti rossi” già attivi da un
paio d’anni nel nord Italia. Tra i rivoltosi si distingue il futuro ras fascista Italo
Balbo che “fu visto lasciare Ferrara alla testa di una banda armata di ciclisti per
fomentare quanto più disordine possibile, con indosso la camicia rossa
garibaldina.”
Il 10 i ferrovieri incrociano le braccia ma già il giorno dopo la CGdL
proclama la fine dello sciopero, in contrasto con il PSI che vorrebbe continuare
l’azione rivoluzionaria sulla quale, però, non ha alcun controllo. Salandra
respinge una mozione di sfiducia del deputato socialista Calda con 254 voti
contrari, 112 favorevoli e 1 astenuto. Anche se i voti raccolti dal governo sono
appena la metà dei 508 deputati, ai fini pratici è un successo di Salandra.
Anche Nenni si rende conto che la rivolta non ha alcuna speranza, priva di
leader e di una meta politica chiara. Dopo una settimana di scontri, la situazione
torna alla normalità. Alla fine si contano 14 morti, di cui solo uno tra la forza
pubblica, e decine di feriti. Rispetto alle premesse, un numero limitato di vittime.
Nenni viene arrestato il 23 giugno. Malatesta fugge di nuovo a
Londra. Vestito da ricco signore in vacanza, prende un treno da Ancona e ripara
in Svizzera. Poi trasmette a Mussolini un biglietto col suo nuovo indirizzo
londinese, beffeggiando le autorità. La Settimana Rossa scatena la resa dei conti in
casa socialista. Dalle colonne de L’Avanti! Mussolini accusa il leader sindacale
Rigola di codardia. Rigola viene difeso unanimemente dalla CGdL e dal gruppo
parlamentare del PSI. La direzione del partito difende Mussolini. Il contrasto tra
riformisti e rivoluzionari si conclude con un nulla di fatto ed ognuno resta sulle
sue posizioni, ma nel frattempo il fallimento della Settimana Rossa dimostra che
la rivoluzione non è matura e che lo stato sabaudo è nettamente più forte.
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Le elezioni amministrative.
Non si è ancora spenta la rivolta che si tengono le amministrative in tutta
Italia, per il rinnovo dei consigli comunali e provinciali, a seguito della riforma
elettorale del 1913 che aveva stabilito il (quasi) suffragio universale maschile.
Tutto sommato vanno bene, senza gravi incidenti. Il connubio liberali e cattolici,
ovvero il Patto Gentiloni, tiene molto bene, mantenendo il controllo delle
amministrative locali in quasi tutta Italia. Con alcune significative eccezioni.
I socialisti vincono infatti a Bologna e a Milano con solo 3000 voti di scarto
sui liberali. I socialisti issano la bandiera rossa su Palazzo Marino. Milano si
conferma capitale del movimento socialista. Il nuovo sindaco è Emilio Caldara
che resterà in carica fino al 1920 con una politica pragmatica che gli attirerà
parecchia ostilità dai compagni di partito massimalisti. Mussolini, eletto in
consiglio comunale, rivendica il carattere progressista e repubblicano della nuova
amministrazione affermando che se “Sua Maestà Vittorio di Savoia (sic) avesse
l’idea di venire a Milano troverà il portone di Palazzo Marino solidamente
sprangato.”
A Roma il blocco democratico nathaniano si scontra con quello cattolicoliberale, guidato dal principe Prospero di Colonna, già sindaco di Roma fino al
1904, quando si dimise per aver prima accettato di organizzare le Olimpiadi nel
1908, salvo scoprire di non aver un centesimo in cassa. Squadre di ciclisti delle
due parti (e qualche automobile) vanno in giro per la capitale a incoraggiare gli
elettori. Si vedono parecchi preti ai seggi. Forte affluenza nei quartieri popolari e
periferici dove il blocco democratico ha organizzato concerti per attirare gli
elettori. Alla fine vincono i conservatori con circa il 50,3% dei voti contro il 44%
dei democratici. I socialisti prendono il 5,7%. I romani si ritrovano di nuovo
sindaco il principe Colonna. È la fine dell’esperimento della giunta progressista
di Nathan, ebreo, mazziniano, radicale, che era riuscito a portare una serie di
cambiamenti significativi nella caotica Roma di inizio secolo, tra cui il primo
piano regolatore municipale. Per rivedere un sindaco di sinistra a Roma
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L’anno prima della guerra
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bisognerà aspettare il 1976.
Un’altra battaglia politica infuria per il seggio suppletivo di deputato a
Torino, per la morte del socialista Gay. Come avevamo già visto nei mesi
precedenti, i socialisti torinesi avevano prima pensato a Salvemini, Salvemini
aveva proposto Mussolini e alla fine Mussolini aveva rinunciato non avendo
l’appoggio convinto del partito. Si sfidano il candidato dell’ordine (Bevione) e
quello socialista (Bonetto). Il 17 giugno Mussolini è a Torino per sostenere un
contraddittorio con Bevione. Mussolini dichiara che l’internazionale non è una
chimera ma sarà presto la realtà. “La democrazia non ha le nostre tenerezze.
Noi siamo antidemocratici. La democrazia è oggi una ditta commerciale, con cui
la borghesia, aiutata dalla massoneria, cerca di fare i suoi buoni affari. È un
equivoco, che noi socialisti rivoluzionari, combattiamo con tutte le nostre forse,
perché non fa che intorbidire le situazioni nette, ed allontanare il giorno della
chiara resa dei conti”. Bevione perderà col candidato liberale per 67 voti.
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Intanto a Sarajevo…
Un’altra resa dei conti sta per cominciare, quella tra Austria e Serbia. Il 28
giugno Gavrilo Princip, studente serbo di 19 anni, uccide a Sarajevo l’arciduca
ereditario d’Austria, Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia di Hohenberg.
L’emozione in Europa è fortissima. Tutti si rendono conto che nella delicatissima
situazione dei Balcani, quei colpi di pistola potrebbero avere echi molto più vasti.
Ma in fondo nessuno pensa che la nuova crisi sarà diversa dalle altre che hanno
infestato l’Europa negli ultimi anni e che sono state tutte brillantemente
superate.
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Costantino Lazzari, segretario del PSI dal 1912
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LUGLIO 1914
Tutto comincia a Sarajevo
I colpi di Sarajevo hanno avuto un’eco lunga decenni. La crisi dell’Europa
inizia in questo momento. Niente sarà più come prima. La Grande Guerra
distruggerà quattro imperi secolari, frantumerà l’Europa orientale in piccoli ed
instabili stati, innalzerà la potenza economica degli Stati Uniti e del Giappone,
farà emergere la forza del comunismo. Dopo vent’anni un’altra ancora più
distruttiva guerra mondiale, nata per le tensioni irrisolte della prima, seppellirà
definitivamente gli stati europei come soggetti autonomi, distruggendo il
nazionalismo, l’imperialismo, il colonialismo ed il razzismo. Ci vorranno altri
quarant’anni di guerra fredda per giungere alla conclusione del ciclo storico che
lo storico inglese Eric Hobsbawm ha battezzato, in un’opera famosa, il “secolo
breve”.
Ma all’inizio di luglio, passata l’emozione, seppelliti solennemente i due reali
austriaci, sembra che la razionalità debba tornare. L’Europa ha già vissuto gravi
crisi in questo tumultuoso inizio del ventesimo secolo. Chi non ricorda le due
crisi marocchine del 1905 e del 1911? I Balcani avevano appena terminato due
guerre che ne avevano ridisegnato completamente i confini e un nuovo equilibrio
era stato raggiunto. Precario, come i fatti di Sarajevo dimostreranno. Ma una
guerra generale non interessa a nessuno. I monarchi europei sono tutti
imparentati tra loro. La diplomazia e gli eserciti sono retti da aristocratici che
formano un’unica famiglia. Potrebbe esserci una guerra in famiglia? I russi
potrebbero morire per i serbi? Ma la Serbia, il panslavismo, sono solo pretesti.
La realtà è che nessuno sa come accomodare la crescita politica, economica e
militare della Germania di fronte al relativo declino dell’Inghilterra. Nessuno sa
come riconciliare Francia e Germania finché Alsazia e Lorena resteranno
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possesso del Reich. Nessuno ha un’idea su come armonizzare le richieste di
autodeterminazione dei piccoli popoli con la sopravvivenza dei decrepiti imperi
austriaco e russo.
Insomma, non si può pretendere troppo dai diplomatici in questa situazione.
Ciò nonostante, le cancellerie lavorano per ricucire la terribile ferita aperta a
Sarajevo. Sul Danubio, sull’asse Vienna-Belgrado, si consumano i destini del
continente. Le trattative e i complotti vanno avanti di nascosto, com’era costume
in quell’epoca. La superficie è increspata dagli strilli dei nazionalisti slavi ed
austriaci. Che strillino, sembrano dire gli aristocratici che governano le capitali
europee. Ma sotto la superficie cova il desiderio di Vienna di chiudere una volta
per tutte la pratica serba, che minaccia l’esistenza dell’Impero austroungarico.
Le altre potenze sono disponibili a comprendere le esigenze austriache, almeno
entro certi limiti. La Serbia collabora alle indagini, consapevole dei rischi.
Berlino incoraggia Vienna con il famoso “assegno in bianco”, il più
clamoroso errore di valutazione della storia (6 luglio). E non il primo di
Guglielmo II e della sua allegra combriccola con chiodo in testa. La Germania
dice all’Austria ‘fa quello che vuoi, cancella la Serbia dalla faccia della terra
purché sia presto’, in modo da mettere l’Europa davanti al fatto compiuto. La
guerra contro la Serbia deve restare localizzata, come se fosse possibile tenere
buona la Russia. Silenzio con tutti, anche con l’Italia, il triplice alleato, di cui i
tedeschi un po’ non si fidano, e un po’ non hanno voglia di spartire con lei le
spoglie dei Balcani. Era davvero un’altra epoca. I diritti dei popoli sarebbero nati
nelle trincee della guerra.
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I tedeschi ci conoscono.
L’Italia, la più piccola delle grandi potenze, è governata da una dinastia,
quella dei Savoia, che si è barcamenata per secoli tra vicini più forti, tradendoli a
turno tutti. Un’eccellente strategia di sopravvivenza. Il presidente del consiglio
Salandra e l’abile ministro degli esteri, San Giuliano, sono conservatori, triplicisti
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L’anno prima della guerra
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convinti e realisti. Di una guerra nei Balcani non ne abbiamo bisogno, non
abbiamo alcuna voglia di morire per Vienna e Berlino, ma se dovessimo essere
trascinati nel conflitto siamo pronti a reclamare la nostra parte.
Quello che sembra un bieco mercanteggiare sulla pelle dei popoli è, da un
altro punto di vista, un esempio di quella realpolitik che tutti praticavano e che in
qualche modo aveva però mantenuto l’equilibrio in Europa. Che l’Italia non
ignora. Prima di tutto, va considerata la forza dell’esercito. Si usa la forza
quando si è sicuri di vincere. E l’Italia non è sicura di avere un esercito pronto.
La guerra in Libia ci ha logorato, mancano ufficiali, artiglieria e munizioni, il
bilancio dello stato è in rosso. I nostri interessi sono inoltre molto limitati,
vogliamo guadagnare posizioni nei Balcani, attendiamo pazientemente
l’inevitabile dissoluzione dell’Austria che per il momento è ancora militarmente
temibile. A metà luglio, l’ambasciatore a Berlino Riccardo Bollati e San Giuliano
si scambiano idee. Il nostro ministro afferma che “Io non escludo affatto la
probabilità dell’uscita nostra dalla Triplice Alleanza tra qualche anno, per unirci
ad altro aggruppamento o restare neutrali. Ma oggi considererei grave e
pericoloso indebolire senza assoluta necessità i vincoli reciproci tra noi e i nostri
alleati.”
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Tutti al mare!
Non possiamo seguire tutte le contorsioni diplomatiche che dall’attentato di
Sarajevo porteranno alla prima guerra mondiale. Anche in Italia, passata
l’emozione, torniamo ad occuparci del nostro ombelico.
La camera dei deputati continua nella sua scabrosa attività fino alle vacanze.
A giugno il governo ha tentato di far approvare un aumento delle tasse facendola
passare come riforma tributaria, i socialisti hanno fiutato la trappola e scatenato
un ostruzionismo feroce. Si teme che il parlamento dovrà restare aperto in luglio
inoltrato. Per fortuna un oscuro deputato ha una trovata geniale che salva il
governo e le vacanze dei deputati. Articolo unico: delega fiscale al governo.
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L’anno prima della guerra
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Salandra è autorizzato ad alzare le tasse fino a giugno 1915 in cambio di una
vaga promessa di realizzare una riforma tributaria. La camera abdica al suo
ruolo e il 5 luglio chiude. C’è il tempo per qualche provvedimento per i ferrovieri
ma non per discutere una legge contro le sofisticazioni dei vini, nonostante le
proteste dei deputati meridionali. Se ne riparlerà fra mesi. La camera non
riaprirà infatti che a dicembre.
Subito dopo riprendono voce i corifei del sindacato ferrovieri. All’epoca la
vita del macchinista era dura, dentro una locomotiva a vapore, esposto alle
intemperie, pagato poco. Il sindacato non è contento delle concessioni strappate,
tenta di proclamare lo sciopero ma si scontra con la stanchezza dei suoi iscritti. Il
governo ne approfitta per mettere la sordina al sindacato e punire i lavoratori
che avevano scioperato in passato.
Qualche giorno dopo Alfredo Rocco, futuro fascistissimo ministro della
giustizia, commentando i fatti della Settimana Rossa, scrive l’epitaffio della
democrazia. “Il parlamentarismo è morto e il giolittismo, che gli è successo,
prova che è morto ben definitivamente. E con lui è finito tutto quel piccolo
mondo arcadico e sentimentale, a cui non è possibile pensare senza rimpianti,
perché aveva la sua bellezza e la sua poesia: il culto della ragione, il rispetto della
libertà, la fede nella giustizia (…) Noi riteniamo che il parlamentarismo abbia
ormai assolto il suo compito; che cosa verrà dopo di esso? Nessuno può dirlo. Il
giolittismo non è che un momento della grande evoluzione, da cui uscirà il
nuovo regime politico di domani.”
Parole di una profezia che si autoavvererà entro pochi anni.
Per molti versi il 5 luglio 1914 il parlamento liberale prende l’ultima vera
decisione prima del buio della guerra e del fascismo.
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Cronaca nera e rosa.
Il primo luglio muore a Torino per una crisi cardiaca il capo di stato
maggiore Alberto Pollio, triplicista convinto. Si è parlato di un complotto per
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L’anno prima della guerra
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sostituirlo con un generale meno filotedesco. In Italia nessuno muore perché ha
un infarto. Al suo posto viene nominato il 10 luglio il generale Luigi Cadorna.
Cadorna è diventato generale senza mai vedere un campo di battaglia. Il che,
viste le catastrofi belliche subite dall’Italia, è quasi un merito. È stimato ma forse
è rimasto un po’ indietro. Cadorna ha una concezione della guerra di tipo
tradizionale, “Avanti Savoia!” Tutti all’assalto e vinca il migliore. Non conosce
flessibilità tattica né l’importanza dell’artiglieria nella guerra moderna. Ma viene
considerato un onesto e discreto organizzatore.
Il 5 luglio il Casale batte la Lazio 7 a 1 in casa nella finalissima di
campionato. La Lazio è coraggiosa ma manca di tecnica, astuzia e abilità. Ha un
gioco molto semplice e scoperto, ‘bambino’ secondo La Stampa. I giocatori sono
individualisti, manca la squadra. Bravissimo il portiere laziale Serventi che
resiste per 26 minuti agli attacchi piemontesi. Il primo tempo finisce 1-0 ed è un
gran successo per i romani. Nel secondo tempo il Casale dilaga. Il 12 la partita
di ritorno a Roma. Pur schierando una squadra incompleta, il Casale vince 2 a
0 e si prende il suo primo ed unico tricolore.
Il 22 luglio la squadra del Torino, guidata dall’allenatore Vittorio Pozzo,
arriva a Genova da dove parte in nave alla volta del Brasile per una tournée
calcistica di due mesi.
Può una donna essere iscritta all’albo dei ragionieri? Il collegio dei ragioneri
romani aveva iscritto all’albo Pierina Pavoni in Marconi, considerandola
qualificata. Inoltre, essendo sposata, Pierina aveva ricevuto dal marito “un’ampia
e generica autorizzazione” a svolgere le sue attività. Il Procuratore generale si
oppone. Ne nasce un caso giudiziario che approda alla Corte d’Appello di
Roma. L’11 luglio la sentenza, a favore di Pierina, la prima ragioniera italiana.
Vale la pena leggere le motivazioni della sentenza. La Corte afferma che
i ragionieri non svolgono funzioni afferenti alla sovranità dello stato, che sono
precluse alle donne. Insomma, per alzare le donne al livello dei ragionieri, si
abbassano i ragionieri al livello di piccoli funzionari. È comunque un’altra
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L’anno prima della guerra
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piccola vittoria per le sparute file delle femministe italiane. Poi ci penserà la
guerra a riportare le donne al loro ruolo abituale. Per vedere la prima avvocata,
notaia e magistrato dovremmo aspettare la Repubblica.
Il 12 luglio avviene il richiamo alle armi della classe 1891. La motivazione
ufficiale è molto vaga. Il governo afferma di aver bisogno di truppe già
addestrate, per lasciare alla truppa il tempo di terminare l’istruzione militare.
Molti pensano che si tratti di un preludio per un intervento italiano in Albania,
dove continua l’insurrezione contro il derelitto principe Guglielmo, che le grandi
potenze meditano di sostituire. Altri sostengono invece che il governo si prepara
a nuove insurrezioni anarco-sindacal-socialista, in stile Settimana Rossa.
Nessuno pensa che l’Italia si stia preparando a muovere con l’Austria contro la
Serbia.
Il 13 luglio Simone Pianetti uccide sette persone a Camerata Cornello, Val
Brembana, provincia di Bergamo. Nel nord profondo, gretto e bigotto. Pianetti
non era un poco di buono. Era un uomo di principi, destinato a trovare poco
spazio nella realtà di un piccolo villaggio. La sua storia è tipica di molti altri
italiani. Aveva trascorso lunghi anni in America dove si era trovato a combattere
contro la mafia. Rientrato in patria per sfuggire alle minacce dei mafiosi che
aveva denunciato, si ritrovò in una situazione asfissiante. A causa delle sue idee
libertarie, incontra l’ostilità del parroco che lancia un’anatema sulla sua taverna,
fino a farla chiudere. Il povero Pianetti impianta un mulino in un paese vicino
ma non ha migliore fortuna. Il suo prodotto viene chiamato “la farina del
diavolo”.
La mattina del 13 Pianetti scatena la furia omicida contro i suoi nemici. Non
è follia, è una strage premeditata. In poche ore uccide il medico condotto, il
segretario comunale e la figlia, il calzolaio, il messo comunale, l’odiato parroco e
una donna che l’aveva trascinato in tribunale. Solo il sindaco riesce a salvarsi per
caso. Terminata l’opera, Pianetti fugge tra le montagne. Parte una massiccia
caccia all’uomo ma l’assassino non verrà mai più trovato. Né verrà mai trovato il
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L’anno prima della guerra
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suo corpo. Alcuni ritengono che Pianetti fosse fuggito all’estero per poi rientrare
in Italia dopo la guerra. La sua leggenda continua a vivere nella regione e un
lungo articolo su wikipedia ne racconta la vita.
Qualche giorno più avanti scoppia lo scandalo dell’ingegner Ulivi di Firenze.
Nei mesi precedenti questo curioso personaggio, degno rappresentante della mai
perduta abilità italica per la truffa, si era esibito in varie parti d’Italia con un
apparecchio radio-balistico, un astuto congegno in grado di far esplodere ordigni
esplosivi a distanza. Un’arma fenomenale, su cui aveva messo gli occhi l’esercito
che la vuole testare. Il giorno prima dell’esperimento finale, rinviato più volte
con molte scuse, l’Ulivi scompare, portandosi dietro 80.000 lire raccolte in
sottoscrizioni e la figlia diciannovenne di un ammiraglio.
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Il Vate d’Italia
Mentre i diplomatici tessono trame di pergamena e polvere da sparo, il
grande debitore d’Italia, il sommo poeta esagitato, sogna la guerra. Il 16 luglio
Gabriele D’Annunzio scrive all’ambasciatore francese a Pietroburgo, Maurice
Paléologue “viviamo in un’epoca infame, sotto il dominio della moltitudine e la
tirannia della plebe (…) Mai prima d’ora il genio latino era caduto così in basso;
esso ha totalmente perduto il senso delle energie altere e delle virtù eroiche; si
trascina nel fango, si compiace nell’umiliazione (…) La guerra, una grande
guerra nazionale, è l’ultima speranza di salvezza che gli resta. È solo attraverso la
guerra che i popoli imbastarditi si arrestano nel loro declino, poiché essa dona
loro infallibilmente o la gloria o la morte (…) Perciò questa prossima guerra che
voi sembrate temere, io l’invoco con tutte le forze dell’anima!”
Verrà accontentato. E nel frattempo D’Annunzio verrà anche liberato dai
suoi debiti. Il suo grande amico Luigi Albertini lo informa in questi giorni che la
sua situazione finanziaria è definitivamente sistemata. Albertini non aveva
lesinato sforzi per tappare le falle della follia spendacciona dell’esteta abruzzese.
La bella notizia significa che D’Annunzio è libero di tornare in Italia quando
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L’anno prima della guerra
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vuole. Ma il ritorno deve essere coreograficamente sublime, spettacolare,
altrimenti a che serve vivere?
Nel frattempo l’arte italiana passa attraverso le pagine de ‘Lacerba’ che da
Firenze, con gusto polemico e futurista, cerca di svecchiare il paese delle belle
lettere e della noia accademica. Il primo luglio la rivista fiorentina racconta dei
due fratelli De Chirico, soprattutto di Giorgio, facendo presente la sua capacità
di agire individualmente in una città convulsa e piena di fermenti come Parigi.
“Giorgio De Chirico esprime come nessuno l’ha mai fatto la malinconia patetica
di una fine di bella giornata in qualche antica città italiana, dove in fondo c’è
una piazza solitaria. Oltre lo scenario delle logge, dei porticati e dei monumenti
del passato, si muove sbuffando un treno, staziona un camion di un gran
magazzino o fuma una ciminiera altissima nel cielo senza nuvole.”
L’11 luglio viene pubblicato il manifesto dell’architettura futurista scritto da
Boccioni e Sant’Elia, uno degli ultimi geniali spin-off di un movimento la cui
forza innovativa sta per naufragare sugli scogli del militarismo.
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Verso la guerra.
E arriviamo al 23 luglio. Pomeriggio. Il governo austroungarico consegna
l’ultimatum a quello serbo. Quarantotto ore per rispondere. È stato scritto con
l’intenzione di suscitare due sentimenti: o la capitolazione incondizionata oppure
uno scatto di dignità. Ne provoca un terzo: i serbi cercano di placare l’Austria
senza perdere troppo la faccia e intanto chiedono aiuto ai russi.
L’Italia viene informata dell’ultimatum solo la mattina del 24, come tutte le
altre potenze europee. Un bello sgarbo all’alleata mediterranea. San Giuliano è
a Fiuggi per curarsi la gotta, di cui è già da tempo parecchio malato. Viene
immediatamente raggiunto da Salandra e dall’ambasciatore tedesco Flotow. I tre
uomini hanno uno scontro furibondo, almeno per gli standard dell’epoca,
immaginiamo abbiamo fatto cozzare con violenza le coppe di champagne. San
Giuliano conferma che l’Italia non parteciperà ad azioni offensive insieme
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L’anno prima della guerra
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all’Austria. Ricorda che il trattato della Triplice Alleanza è solo difensivo. Lancia
i suoi ambasciatori per cercare di mediare, appoggiando anche gli sforzi inglesi
per una conferenza di pace, incoraggia i serbi a mostrarsi accondiscendenti con
l’Austria. Potrebbe denunciare la Triplice ma non lo fa. Del resto, San Giuliano
è filotedesco e non ama la Francia, né è pensabile gettare a mare un’alleanza
trentennale senza un progetto alternativo.
Il giorno dopo San Giuliano riferisce al re con una nota con cui delinea la
nostra strategia. L’Italia non sosterrà l’Austria a difendersi dalla Russia, se la
Russia accorrerà in soccorso della Serbia. Il trattato non ci obbliga in questo
caso. L’opinione pubblica non accetterà una guerra a favore dell’Austria ma non
escludiamo di partecipare, purché ci siano riconosciuti adeguati compensi, alias
il Trentino. In ogni caso, ci riserviamo il diritto di scegliere cosa fare, sulla base
dei nostri interessi. È una dichiarazione programmatica che ci porterà fino al
maggio 1915. Realpolitik pura che però sembra un po’ miope. L’Italia avrebbe
potuto esercitare una maggiore e convinta influenza moderatrice sull’Austria,
come aveva già fatto due volte nel 1913. All’epoca, oltre a San Giuliano, c’era il
buon Giolitti.
Il 25 luglio L’Avanti! di Mussolini strilla “Abbasso la guerra!” Neutralità
assoluta di fronte ad ogni guerra, strappiamo l’alleanza con la Triplice “Non un
uomo! Né un soldo!” Ma i socialisti vengono scavalcati dall’incalzare degli
eventi, non solo in Italia. L’unica iniziativa è quella del gruppo parlamentare che
il 27 luglio chiede una convocazione straordinaria della Camera, senza ottenerla.
Anche i repubblicani, pur vicini agli irredentisti e fedeli al principio di
nazionalità, non vogliono la guerra, qualunque guerra, tantomeno insieme
all’Austria.
L’infernale macchina delle mobilitazioni si è già messa in moto. Ogni stato
cerca di battere in velocità l’altro creando un effetto valanga che nessuno saprà
più controllare. Ovunque i partiti socialisti abbandonano l’internazionalismo e la
solidarietà operaia per votare i crediti di guerra ai rispettivi governi. La sera
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L’anno prima della guerra
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del 28, ritenendo la risposta serba all’ultimatum non soddisfacente, Vienna
dichiara guerra alla Serbia. Il giorno dopo la Russia avvia una parziale
mobilitazione sulle frontiere austriache. La Germania mobilita le sue truppe e
invita la Russia e la Francia a non intervenire. Il 29 luglio Cadorna consegna al
ministro Grandi un piano operativo legato agli impegni italiani nella Triplice
Alleanza e propone di inviare in Germania fino a 9 corpi d’armata, più di
quanto previsto dai patti. Il 30 la Russia avvia la mobilitazione generale a cui
segue un ultimatum tedesco che viene consegnato la sera del 31 a San
Pietroburgo e contemporaneamente a Parigi. I tedeschi non intendono trattare.
Per evitare la morsa della Francia da occidente e della Russia da oriente
devono attaccare per primi sul fronte occidentale. Il giorno dopo l’Europa intera
è in fiamme.
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L’anno prima della guerra
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La città futurista dell’architetto Antonio San’Elia (1888-1916).
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AGOSTO 1914
La guerra è bella anche se fa male
Dopo anni di schermaglie, di scontri indiretti e di rivalità mascherate sotto la
patina della cortesia diplomatica, l’Europa è in guerra. Gli storici discuteranno
in futuro di chi sia stata la responsabilità. Diciamo di un po’ di tutti. E in questi
primi giorni di agosto del 1914 l’entusiasmo generale è alle stelle. È la resa dei
conti finale. Qualche settimana di guerra per sconvolgere il continente. Sopra e
sotto. La Francia non può permettersi di perdere di nuovo. La Gran Bretagna
deve bloccare l’ascesa della Germania. L’impero tedesco ha bisogno di spazio
vitale. L’Austria-Ungheria deve espandersi nei Balcani per nascondere il suo
irreparabile declino. La Russia cerca i mari caldi. La Serbia aspira ad unire i
popoli slavi dei Balcani. L’impero ottomano cerca il riscatto. Il
vincitore dominerà il continente, e quindi il mondo, per decenni. Peccato che
alla fine i vincitori saranno esausti quanto i vinti. E alla fine della guerra civile
europea, nel 1945, dell’Europa non resteranno che cumuli di macerie.
Ma in quell’inizio di agosto sono tutti convinti che finirà presto. Gli scontri di
agosto vedono gli austriaci prenderle dai serbi. I russi, contrariamente alle
aspettative, si muovono rapidamente mettendo in fuga tedeschi ed austriaci,
mentre sul fronte occidentale le truppe di Guglielmo II devono faticare non poco
per vincere l’accanita resistenza dei belgi e solo fine agosto si presentano alle
porte di Parigi.
Italo Svevo, cittadino austriaco, in quelle settimane lascia Trieste per un
viaggio d’affari. Da tempo ha abbandonato la letteratura, dopo l’insuccesso dei
suoi primi due romanzi (“Una vita” e “Senilità”). Sposato con Livia, vive una
tranquilla vita di commerciante nella fabbrica di vernici sottomarine del suocero.
“Per impedirsi di pensare alla letteratura, dedicava le ore libere al violino.” È
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L’anno prima della guerra
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spesso in viaggio. In agosto parte per Mulheim nella Ruhr dove resterà per più di
un mese. Osserva i tedeschi, ne apprezza la calma e la disciplina nonostante
emergano le prime difficoltà nella vita quotidiana. Svevo non ha dubbi sulla
vittoria finale dei tedeschi.
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La giovine Italia
In mezzo a questo trambusto c’è l'Italia. Voglia di guerra non ce n’è.
Nonostante la retorica risorgimentale che nutre le scuole patrie, non siamo un
popolo guerriero. Non lo eravamo nel 1861 e non lo siamo diventati. L’invasione
della Libia, dove rischiamo di rimanere impantanati, non ha cancellato Adua. I
socialisti sono contrari per principio a prendere le armi contro altri proletari in
favore della borghesia imperialista. Saranno gli unici in Europa a mantenere
questa impostazione. Nel resto del continente i partiti socialisti votano
disciplinatamente i crediti di guerra senza eccezioni. I cattolici soffrono. Il papa
Pio X è preoccupato per la sua amata Austria, l’ultima potenza cattolica rimasta
in Europa. Il pontefice romano non benedice le armi. I cappellani militari sì.
Non ci sono scomuniche per l’empia commistione tra eserciti e religione.
Quanto ai liberali, la maggioranza del parlamento, si aspettano gli ordini del
capo, Giovanni Giolitti.
Il nuovo capo di stato maggiore, generale Cadorna, ricorda al governo che
l’esercito manca di tutto: equipaggiamenti invernali, bombe a mano, mezzi di
trasporto, mitragliatrici, cesoie. Servono almeno altri 14 mila ufficiali.
Aggiungiamo che l’esercito è esausto dall’interminabile campagna libica, il paese
non ha grano a sufficienza, non possiede carbone (il 90% viene dall’Inghilterra),
ferro, gomma, materie prime. Come si fa ad andare in guerra? Il governo esita
ma non può confessare apertamente la verità: non solo il paese non vuole la
guerra, ma non avrebbe i mezzi per farla.
Il re, rientrato rapidamente dalle vacanze, il presidente del consiglio Salandra
e il ministro degli esteri San Giuliano sono d’accordo sulla classica italica
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L’anno prima della guerra
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posizione: aspettiamo gli eventi. A norma di diritto internazionale, non siamo
tenuti a seguire Austria e Germania in una guerra offensiva sulla quale non
siamo mai stati nemmeno consultati. Questa è la loro guerra. Se fossimo in
tempo meno educati potremmo dire ai nostri alleati “fottetevi e lasciateci in
pace”.
Purtroppo l’Italia non può restarsene tranquilla. Non siamo la Spagna,
potenza periferica e addormentata. Siamo una penisola in mezzo al
Mediterraneo, tra la Francia, l’Austria, in faccia ai Balcani. Siamo una piccola
potenza con grande appetito che ama stare al tavolo dei grandi. Abbiamo
qualche interesse da difendere nell’Adriatico e nei Balcani e l’inazione è
pericolosa quanto l’entrare in un conflitto senza sapere cosa potremmo ottenere.
O con chi sia meglio schierarci. Una cosa è certa. Questa guerra non ci voleva.
L’equilibrio esistente ci andava bene. La guerra cambierà i rapporti di forza in
Europa e noi rischiamo grosso, chiunque vinca. Con la Germania abbiamo
meno motivi di conflitto anzi, la nostra classe dirigente, poco liberale e
democratica, è risolutamente guglielmina. Il Resto del Carlino, il Mattino sono a
favore della Germania, come lo è anche un influente intellettuale come
Benedetto Croce. Ma difficilmente l’Italia può schierarsi a favore degli imperi
centrali. Con l’Austria siamo divisi da interessi geopolitici conflittuali. Non solo a
causa delle regioni italiane degli Asburgo ma anche per la rivalità sull’Adriatico.
Non possiamo permettere che l’Austria si espanda nei Balcani senza avere delle
contropartite ma neppure siamo del tutto felici che la Serbia cresca e raggiunga
il mare, prendendosi la Dalmazia, dove vive una consistente minoranza italiana.
C'è poi il problema dell’Albania, che chiude le porte dell’Adriatico, che continua
ad essere devastata dalla guerra civile.
Per tutti questi motivi il 2 agosto il governo Salandra proclama la
neutralità, anche se in realtà non ci piacerebbe restare lontani dall’arena, magari
arrivare per ultimi, quando è troppo tardi per prendersi qualcosa. Avviamo
subito contatti con le potenze per vedere chi è disposto ad offrirci i migliori
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L’anno prima della guerra
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compensi. In tutto ciò i nostri dirigenti non si preoccupano affatto né
dell’opinione pubblica né del parlamento. Il re, Salandra, il ministro degli esteri
San Giuliano ragionano con una mentalità ottocentesca. La politica estera è
prerogativa di pochi. Morti, feriti e mutilati sono danni collaterali. I deputati
provati dalle vacanze estive tacciono. Solo i socialisti chiedono la convocazione
del parlamento. Invano. La Camera riaprirà solo a dicembre. In pratica
Salandra assume i pieni poteri. Il paese approva. In un editoriale La Stampa,
che pure sarà neutralista fino all’ultimo, dice che il governo deve essere lasciato
libero di prendere le decisioni più razionali senza le influenze nefaste
dell’opinione pubblica.
Il 2 agosto Vittorio Emanuele III manda un telegramma di cordiale amicizia
a Francesco Giuseppe. Un secondo parte per Berlino, diretto al vulcanico Kaiser.
È un piccolo capolavoro di doppiezza e di perfidia, una piccola vendetta del re
sciaboletta che per anni ha sfigurato di fronte all’imperatore all’acido prussico.
In sostanza Vittorio Emanuele racconta che lui è dalla parte della Germania ma
che non può scendere in campo senza promesse di compensi, altrimenti sarebbe
scoppiata la rivoluzione. In più confessa di non avere abbastanza potere.
Guglielmo II scriverà a margine del telegramma una serie di insulti “menzogna,
furfante, impudente.” Come non dargli torto. La storiella del pericolo
rivoluzionario non ha alcun fondamento e sarà ricorrente da qui a maggio
1915. La Settimana Rossa ha dimostrato che nessuno è in grado di fare la
rivoluzione in Italia.
Nella migliore tradizione della penisola, tra fine luglio e inizio agosto regna la
confusione tra monarchia, governo ed esercito. Cadorna, prudentemente e
attenendosi alla lettera del trattato della Triplice Alleanza, invia truppe al
confine francese e si prepara ad inviare nove corpi d’armata sul Reno, come
previsto dai protocolli militari firmati pochi mesi con la Germania. Salandra, di
tutto questo, non sa nulla. Cadorna, a sua volta, non sa dell’esistenza di un patto
segreto di non aggressione con la Francia siglato nel 1902. Gira voce che il
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L’anno prima della guerra
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ministro degli esteri voglia comunque attaccare l’Austria. Londra gli avrebbe
promesso in cambio Trieste.
La Germania, che conosce bene la storica doppiezza dei Savoia, prova a
trascinarci in guerra. L’Austria però non vuole mollare il Trentino. Allora il re si
rivolge all’altra parte. Il 12 agosto l’ambasciatore a Londra Guglielmo Imperali
di Francavilla sonda delicatamente il Foreign Office e comunica le preoccupazioni
italiane su possibili sviluppi a suo svantaggio della guerra. In caso di passaggio di
campo, però, la nostra richiesta comprende non solo Trento ma anche Trieste.
Per il momento non se ne fa nulla. L’offensiva tedesca è in grande sviluppo e si
crede che la Francia non riuscirà a resistere. Qui appare una costante della
nostra politica estera fino alla successiva primavera. Ad ogni offensiva tedesca, ci
riavviciniamo alle nostre due antiche alleate. Ad ogni sconfitta della Triplice,
andiamo a sondare il campo avverso.
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La nascita delle ideologie.
Fino a luglio era l’ottocento, la cavalleria, le grandi decisioni prese
sorseggiando champagne nei palazzi della nobiltà europea. Da agosto è il
novecento, la guerra, la meccanizzazione della violenza, lo scontro delle
ideologie. Un cozzo di civiltà, di razze, di sistemi politici e sociali. Le differenze
tra i due campi sono minime. La repubblicana Francia è imperialista quanto
l’autocratica Russia. Il parlamento tedesco, dominato dal partito
socialdemocratico, è più rappresentativo di quello inglese dove i laburisti sono
una minoranza. Ma la brutale invasione del Belgio scuote le coscienze. L’Intesa,
né migliore né peggiore degli imperi centrali, può rivendicare di combattere per
difendere i diritti dei popoli contro l’imperialismo. Perfino l’autocrate zar Nicola
II promette ai polacchi la restituzione della loro autonomia alla fine della guerra.
Si vedrà a Versailles cosa resterà di tutte queste promesse.
In Italia alcune minoranze molto rumorose iniziano ad agitarsi in favore della
Francia repubblicana. Già la sera del primo agosto, a Parigi, gli italiani si
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L’anno prima della guerra
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riuniscono in assemblea per creare una legione italiana. L’11 agosto Peppino
Garibaldi inizia a raccogliere volontari italiani in favore della Francia. “O sui
campi di Borgogna per la sorella latina o a Trento e Trieste”. Il giorno dopo,
Cesare Battisti, deputato socialista moderato a Vienna, si trasferisce in Italia con
il progetto di convincere la sinistra italiana a lanciare la guerra in favore delle
terre irridenti. Pagherà con la vita.
I socialisti, riunita tardivamente la direzione il 3 agosto, segno della loro
futura incapacità di governare gli eventi, annunciano una politica di neutralità
assoluta. Niente guerra tra proletari, neppure se si tratta di difendere la libertà e
la democrazia dei popoli. È una lettura delle cose ideologicamente forse corretta
ma anche molto limitata. Mussolini, direttore dell’Avanti!, sostiene la linea
intransigente del partito, sebbene simpatizzi apertamente per i belgi, con strali
feroci contro il militarismo tedesco. Mussolini difende Hervé, l’antimilitarista
francese arruolatosi volontario nell’esercito francese. “Non è un guerrafondaio...
così come non è un delinquente il pacifico cittadino che deve d’un tratto
ricorrere alla browning per difendersi dall’attacco del bandito”. Non
dimentichiamo che Mussolini non è un pacifista. Ama la forza, l’ira, è un
futurista romagnolo che vorrebbe risolvere i problemi a fucilate.
A sinistra nasce il filone dell’interventismo democratico, in polemica con
l’imperialismo e il nazionalismo e l’inattività dei socialisti. Salvemini, sul suo
settimanale L’Unità del 7 agosto, proclama che “la neutralità assoluta... non è in
alcun modo sostenibile, né dal punto di vista teorico, né da quello pratico.” Ma
Salvemini ne ha anche con i nazionalisti che vogliono l’espansione dell’Italia,
affermando che l’obiettivo nazionale sono solo le terre austriache a grande
maggioranza italiana e non quelle altrui, Trento ma non l’Alto Adige, il Friuli
ma non Trieste e l’Istria, dove vivono molti slavi. Qualche giorno dopo il partito
repubblicano, richiamandosi al patriottismo risorgimentale e antiaustriaco, si
dichiara favorevole all’ingresso in guerra al fianco della Francia. È il primo
smottamento del fronte antimilitarista. Pure Nenni si schiera per l’intervento.
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L’anno prima della guerra
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“Fra tutte le possibili soluzioni la neutralità era quella che mi faceva più
orrore.” Più prevedibile l’atteggiamento dei socialisti riformisti di Bissolati (che si
arruola volontariamente a 50 anni come alpino semplice) che sono da subito per
preparare il proletariato alla guerra contro l’Austria, per distruggere la “grande
gabbia dei popoli”.
La guerra costringe a fare scelte. Il 18 agosto il sindacalista rivoluzionario
Alceste De Ambris, durante un discorso tenuto a Milano si schiera con la
Francia. “Se domani la grande lotta richiedesse il nostro intervento per impedire
il trionfo della reazione feudale, militarista, pangermanica, potremo noi
rifiutarlo? (…) Compagni! Io pongo la domanda: Che faremo qualora la civiltà
occidentale fosse minacciata d’esser soffocata dall’imperialismo tedesco e solo il
nostro intervento potesse salvarla? A voi la risposta!”
I futuristi Marinetti e Russolo si arruolano nel Battaglione lombardo volontari
ciclisti ed automobilisti. Nazionalisti e futuristi vogliono la guerra per la guerra,
contro chiunque, purché si sparga sangue. Occorre risanare l’Italia dalla muffa
della sua storia e costruire una grande potenza. Non vogliono un paese che viva
di turismo e di musei. Dalla loro parte artisti, giovani maschi pieni di
testosterone, studenti, figli della borghesia. Contadini ed operai restano refrattari
a qualsiasi discorso di potenza. Hanno troppo daffare per mettere insieme il
pranzo e la cena.
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La guerra divide le persone.
Toscanini, reduce da vari trionfi a New York, si trova nell’agosto del 1914 a
Viareggio insieme alla famiglia Puccini. La figlia Wally Toscanini racconta che
“Puccini era un germanofilo, mentre papà odiava i tedeschi (…) Un giorno
Puccini si lamentava dicendo che tutto andava male in Italia, che non c’era
ordine, che tutti imbrogliavano, che le autorità facevano i propri interessi, che i
poveri avevano sempre la peggio. Puccini terminò il suo discorso dicendo
‘speriamo che vengano i tedeschi a mettere le cose a posto.’ Papà diventò una
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L’anno prima della guerra
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belva. Scattò in piedi e si chiuse in casa. Disse che non sarebbe più uscito perché
se avesse incontrato Puccini lo avrebbe preso a schiaffi (…) Dopo una settimana
però si riconciliarono.”
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Anche la neutralità costa.
Giolitti approva la scelta di neutralità. È l’unico a conoscere bene la
debolezza dell’esercito, della burocrazia e del paese. In una lettera a San
Giuliano del 5 agosto scrive “Ritengo che ora più che mai dobbiamo coltivare i
nostri buoni rapporti con l’Inghilterra, e far quanto ci è possibile per limitare o
abbreviare le conseguenze del conflitto. Come ritengo pure che dobbiamo
tenerci militarmente pronti.” Sarebbe una politica di grande saggezza. Gettare il
peso dell’Italia come onesto mediatore tra le parti forse ci avrebbe dato qualche
significativo beneficio. Il nostro governo non tentò mai di esplorare questa
strada, schiavo della politica di potenza e di prestigio.
Dall’inizio di agosto migliaia di italiani sono costretti a rimpatriare da Francia
e Germania. Hanno perso tutto. Giungono su treni stracarichi. Alcuni bambini
muoiono nella calca. A migliaia si rifugiano a Basilea dove sono assistiti dalle
organizzazioni umanitarie svizzere. Molti si mettono in cammino a piedi per
superare il Piccolo San Bernardo portando a mano i pochi averi. La pioggia
insistente e il freddo mietono vittime. Il governo italiano si mobilita per alleviare
la situazione. Allestisce treni speciali per trasportare i migranti ai loro paesi di
provenienza dove li aspetta un gramo destino di miseria e disoccupazione,
distribuisce sussidi, generi di conforto. Poca cosa di fronte a questa tragedia
collettiva. Alla fine saranno quasi quattrocentomila i rimpatriati, che si portano
dietro vite spezzate.
La grande battaglia chiude i mercati internazionali. I prezzi degli alimenti
schizzano in alto. L’economia, che aveva appena ripreso vita dopo la recessione
del 1913, rischia di ripiombare in una nuova crisi. L’Italia non ha sufficiente
grano per sfamarsi, carbone per le industrie, risorse pubbliche per stabilizzare la
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L’anno prima della guerra
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produzione. L’Inghilterra promette di mantenere i rifornimenti di carbone,
nonostante le difficoltà di navigazione. Il governo emana dei modesti
provvedimenti per scongiurare la crisi: vengono bloccate le esportazioni di beni
alimentari, sperando nel frattempo nell’arrivo del grano americano, e di prodotti
destinati alla difesa. Le industrie protestano. Il governo cede, permettendo
l’esportazione dei prodotti non indispensabili alla difesa e al mercato interno. La
FIAT potrà quindi esportare le automobili di lusso ma non i camion necessari
all’esercito.
La guerra si fa sentire da vicino. Nell’Adriatico le squadre navali francoinglesi ricacciano gli austriaci nei porti e sostengono con vigore il Montenegro
dal mare. L’Albania, ostaggio delle mire delle grandi potenze, è in crisi
terminale. Gli insorti mussulmani dilagano. Si moltiplicano gli arresti di presunte
spie, soprattutto austriache e tedesche. Circolano voci incontrollate di
mobilitazione in Veneto e in Trentino e i governi italiano e austriaco ribadiscono
fermamente i loro intenti non ostili, ma i sospetti dall’una e dall’altra parte
aumentano.
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La guerra fa la prima vittima illustre
Il 17 agosto si ammala il papa Pio X che ha tentato di fermare la follia della
guerra, senza ricevere alcuna considerazione. L’imperatore Francesco Giuseppe
aveva chiesto addirittura una benedizione speciale per le sue armi. Pio X si era
rifiutato. L’agonia del papa è breve. A mezzogiorno del 19 riceve l’estrema
unzione mentre una folla enorme si raduna in Piazza San Pietro. Muore all’1.35
del 20 agosto di pericardite, di dolore se vogliamo usare un altro termine. Viene
ricordato soprattutto per aver aperto ai cattolici la possibilità di partecipare alla
politica nazionale in funzione antisocialista. Il conclave inizia il 31 agosto non
senza preoccupazioni per la situazione bellica. Il governo italiano si premura di
assicurare ai cardinali libero passaggio verso Roma.
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L’anno prima della guerra
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La vita è bella.
Mentre le armi si incrociano in tutta Europa, alcuni cercano di continuare la
loro vita. Sibilla Aleramo, la maggiore personalità femminile dell'epoca,
continua con i suoi amori disperati. Stavolta si è invaghita del giovane pittore
pescarese Michele Cascella con cui convive ad Ischia. Lei 38 anni, lui 22 e una
lunga carriera davanti. Il 29 agosto si trovano al foro di Pompei. Sibilla scrive.
“Michele dipinge. Un guardiano, seduto sui gradini, legge da solo ad alta voce,
gestendo ampio, il giornale coi resoconti delle disfatte francesi. Sulle lastre di
marmo corrono formiche. Cielo grave d’acqua. Vesuvio turchino con enorme
pennacchio sfumante. Farfalline bianche. Neppure un visitatore. Pino di
smeraldo sopra le arcate rossicce.”
Un ultimo momento di serenità prima dell’arrivo dell’autunno.
Il fratello Tommaso, invece, è sul fronte occidentale per riprendere dal vero le
scene della grande battaglia per la rivista di famiglia “L’illustrazione abruzzese”.
Subirà più avanti una brutta avventura, venendo scambiato per spia da francese,
portato in carcere e minacciato di fucilazione. Non si sa come e perché, una
notte viene prelevato dalle guardie e portato nell’appartamento di Gabriele
D’Annunzio per un riconoscimento. Il poeta gli parla in dialetto, salvandolo.
Tommaso Cascella avrà una lunga e fortunata carriera artistica.
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L’anno prima della guerra
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La guerra dilaniò le coscienze e le amicizie, come accadde a Puccini e Toscanini
qui ritratti alla prima della Fanciulla del West a New York nel 1910.
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L’anno prima della guerra
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SETTEMBRE 1914
Quanto durerà la guerra?
Forse finirà prima dell’inverno. I tedeschi sono stati fermati sulla Marna e si
sono ritirati. Il mito dell’invincibilità prussiana è spezzata. Gli austriaci le stanno
prendendo sonoramente dai russi in Galizia e dai serbo-montenegrini in Bosnia.
Per gli imperi centrali l’unica nota positiva è la vittoria contro i russi in Prussia
orientale. Nel frattempo gli inglesi stanno spazzando via le colonie tedesche in
Africa e, con un piccolo aiuto dei giapponesi, in Oceania. Francia, Gran
Bretagna e Russia si impegnano a non firmare una pace separata. È una
dichiarazione di guerra ad oltranza, fino all’esaurimento. La guerra è feroce e
nutrita da ideologie contrapposte. A zero le speranze di pace. Nel corso della
battaglia di settembre, i tedeschi distruggono la cattedrale gotica di Reims,
dando così una grande arma propagandistica in favore dell’Intesa. Un gruppo di
intellettuali europei, tra cui il nostro Leoncavallo e l’immancabile D’Annunzio,
firmano un manifesto antitedesco.
Dopo la morte di Pio X, il nuovo papa è Giacomo Della Chiesa, arcivescovo
di Bologna, divenuto cardinale solo in maggio. Non è mai avvenuto che un
cardinale di fresca nomina fosse eletto al soglio di Pietro. A giocare per la sua
elezione contribuisce sicuramente la situazione internazionale. Benedetto XV si
pone come primo ed unico obiettivo quello di riportare la pace in Europa. La
sua prima enciclica contro la guerra viene pubblicata pochissimi giorni dopo la
sua elezione. Resterà inascoltata.
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La neutralità non fa bene all’Italia. I serbi avanzano contro gli austriaci in Bosnia e ciò ci rende inquieti. Non
rischiamo di lasciare agli slavi Trieste e la Dalmazia? Nel frattempo lo stato
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L’anno prima della guerra
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albanese si disintegra. Il 3 settembre il principe di Albania, Guglielmo di Wied,
abbandona il trono su una nave italiana. Il suo regno è durato pochissimi
mesi: ritorna nell’anonimato da dove era venuto. A Roma Salandra si preoccupa
che la Turchia, sempre più vicina alla Triplice, possa riprendersi il Paese delle
aquile. Siamo pronti ad occupare Valona, dove abbiamo grossi interessi. Gli
inglesi ci incoraggiano.
L’Adriatico sta diventando un mare pericoloso. Le squadre anglofrancesi
hanno rinchiuso la marina austriaca nelle sue basi. Gli austriaci, dal canto loro,
seminano le coste di mine e qualcuna arriva fino in Italia, facendo strage. A fine
settembre il peschereccio Alfredo P. di Fano, mentre si trova in prossimità della
costa, viene distrutto da una mina. Muoiono diversi pescatori. Il governo ferma
la navigazione civile e manda una protesta ufficiale a Vienna. La marina va a
ripulire l’Adriatico. Il giorno dopo un trabaccolo di Cattolica salta su una mina.
Muoiono in nove, nessun superstite. Nel frattempo, come se non bastasse, si
notano febbrili movimenti al confine austriaco. Ufficialmente siamo ancora
alleati con Berlino e Vienna ma, tanto per evitare sorprese, gli austriaci si
fortificano e scavano trincee in montagna. Preveggenza.
Con i mercati stranieri chiusi o quasi, le esportazioni autorizzate dal governo
sono troppo limitate per sostenere la produzione industriale. Si cercano nuovi
mercati di sbocco ma, in un mondo dove tre quarti delle terre sono colonie
europee, a chi ci si può rivolgere? A settembre è tempo di vendemmia. Il vino
costituisce una componente essenziale dell’agricoltura e quindi dell’economia
nazionale. Si promette un’annata generosa in quantità e qualità; manca però il
credito e contadini e produttori rischiano il fallimento. Tra i lamentosi, ci sono
anche i produttori cinematografici che chiedono l’autorizzazione a produrre film
riguardanti la guerra, molto richiesti dal pubblico. Il governo si oppone,
temendo che questo possa generare manifestazioni nazionalistiche contro
l’Austria. I produttori propongono di proiettare questi film solo nelle sale più
care, dove la clientela è selezionata.
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L’anno prima della guerra
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La guerra continua anche in Libia. Le azioni militari proseguono per tenere
sotto controllo le tribù arabe in rivolta. Il 9-10 settembre l’esercito infligge una
dura sconfitta agli insorti trincerati nel campo di Kaulan. Nonostante le perdite,
gli arabi continuano a colpire le carovane civili e militari ovunque se ne presenti
l’occasione.
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Insomma, chi decide la guerra o la pace?
Tre persone: il re, il presidente del consiglio Salandra e il ministro degli esteri
San Giuliano. Il parlamento è chiuso. Giolitti, che guida la delegazione liberale
che sostiene il governo, è in ritiro in Piemonte e si fa sentire poco. San Giuliano
sta sempre peggio: gli attacchi di gotta si ripetono con frequenza preoccupante,
costringendo il ministro a restare chiuso nel suo appartamento alla Consulta,
l’allora sede del ministero degli esteri. Filtrano finte notizie tranquillizzanti: il
ministro continua a lavorare febbrilmente e a vedere gli ambasciatori stranieri
ma non partecipa ai consigli dei ministri e non può vedere Vittorio Emanuele III
quando i ministri vanno al Quirinale a portargli alla firma i decreti. La malattia
del ministro scatena le consuete chiacchiere romane su possibili cambiamenti
della squadra governativa. Si sussurra anche di una possibile sostituzione di
Salandra.
Il 19 settembre si tiene il primo Consiglio dei ministri dopo le vacanze. Dura
ben tre ore e lo scarno comunicato finale afferma che si è parlato della situazione
internazionale, confermando la neutralità dell’Italia e la necessità di continuare
la preparazione militare. In più il governo emana qualche provvedimento per
favorire l’imminente vendemmia e per finanziare opere pubbliche per
combattere la disoccupazione. Ben poca cosa rispetto alla gravità della crisi.
E, tanto per fugare ogni dubbio che Salandra non mollerà la poltrona, il 30
settembre un gruppo di deputati liberali conservatori vota all’unanimità una
dichiarazione di fiducia nel governo. Salandra, dal canto suo, si commuove e
chiede libertà di azione perché il governo non può dire tutto e quindi chi è fuori
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L’anno prima della guerra
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del governo non può avere tutte le informazioni per fare una scelta consapevole.
Il governo farà parlare i fatti, evitando dichiarazioni inutili. “Parlare poco
insomma ed agire, se necessario. L’esercito è pronto.” Parlamento, stampa ed
opinione pubblica discutano se vogliono ma siccome non sanno nulla, è meglio
che non si impiccino. Così si ragiona all’epoca e per tutti è la normalità.
L’esercito non è affatto pronto. Il generale Cadorna comunica nuovamente a
Salandra l’impreparazione delle forze armate ad affrontare un conflitto. Il re è
sovraffaticato e soffre di una grave forma di depressione nervosa dovuta alla crisi
e, soprattutto, alla preoccupazione per le sorti della dinastia. Sa che l’esercito è
in pessimo stato e ha timore di essere considerato un Savoia che manca alla
parola data. San Giuliano suggerisce a Salandra, in una lettera del 24 settembre,
di rinviare la decisione sull’entrata in guerra alla primavera. Le decisioni
irrevocabili sono rinviate. Del resto, ancora nessuno ci ha offerto qualcosa di
tangibile.
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Repubblicani, nazionalisti, futuristi alla guerra.
Mentre gli Amleti d’Italia esitano, aspettano e tramano, le piazze cominciano
ad agitarsi per l’intervento. Comincia D’Annunzio dalla Francia. Storico
capobanda delle fanfaronate nazionaliste, lancia a fine settembre un appello agli
italiani a scendere in guerra contro l’Austria, il nemico senz’anima, per la
rinascita delle “razze latine”, una sua fissazione. “Siamo in piena invasione dei
Barbari”. Fuori della grecità e della romanità “non c’è che barbarie.” Il poeta
insulta un impero tra i cui cittadini troviamo Freud, Kafka, Klimt, Schnitzler,
Musil, Kokoshcka, tanto per fare qualche nome. Da Parigi D’Annunzio manda
esaltate corrispondenze di guerra. A metà settembre, dopo molte insistenze, i
comandi francesi si rassegnano a fargli visitare il fronte della Marna. Racconta il
bombardamento della cattedrale di Reims come se ci fosse stato. Non vede
sofferenze, distruzioni, orrori. Vede solo lettere maiuscole, Idee, Eroi, Razze, non
persone. I suoi articoli rimbombano di descrizioni liriche e sonanti, descrive una
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L’anno prima della guerra
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messa solenne in una chiesa di campagna con i militari che cantano in perfetta
unità con le donne e i bambini, ma la realtà non è la sua realtà.
Gli interventisti si dividono in esaltati nazionalisti come D’Annunzio e
Federzoni e in democratici come Salvemini. I primi amano la guerra come
strumento di virile affermazione della nazione. I secondi vogliono la guerra per
finire tutte le guerre. In una cartolina alla moglie di Cesare Battisti, Ernesta,
Salvemini dice “Certo, se usciamo dalla neutralità, usciremo contro l’Austria.
Ma ne usciremo? I formaggiai e i socialisti di Milano non vogliono saperne di
guerra. Non capiscono che la guerra è oggi il solo modo per fare la pace e per
diminuire in seguito le spese militari.”
Illusioni.
Il 5 settembre il sindacalista rivoluzionario Filippo Corridoni viene rilasciato.
“La guerra era un dovere nazionale e rivoluzionario” dice. Il suo sindacato,
l’USI, si spacca. Il 13 la corrente maggioritaria approva una mozione
antimilitarista. Per reazione gli interventisti, capitanati da Amilcare e Alceste De
Ambris e da Filippo Corridoni, abbandonano l’organizzazione e fondano
l’Unione italiana del lavoro. I socialisti riformisti di Bissolati assumono posizione
in favore dell’intervento in guerra al fianco della Francia con un ordine del
giorno della direzione e del gruppo parlamentare.
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Vestiti antineutrali.
L’11 settembre l’artista futurista Balla pubblica il manifesto “Il vestito
antineutrale”. Vuole sostituire il vecchio, cupo e soffocante abbigliamento
maschile con uno più dinamico e colorato, asimmetrico e colorato, che rompa
con la tradizione e si adegui al concetto futurista di modernità e progresso, e
renda l’uomo più aggressivo e bellicoso.
Lo stesso giorno, domenica, avvengono le prime manifestazioni a Roma
contro la neutralità, a cui partecipano socialisti riformisti, repubblicani e
nazionalisti. Una bella congrega. Le dimostrazioni cominciano al Quirinale al
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L’anno prima della guerra
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momento del cambio della guardia e proseguono, controllate a fatica dalla
polizia, per il centro. I manifestanti gridano “Viva l’esercito! Viva Trento! Viva
Trieste!” Il governo ricorda ai prefetti di impedire ogni tipo di manifestazione,
anche patriottica.
I socialisti si rifugiano nell’intransigenza. Il giovane sindacalista rivoluzionario
Sergio Panunzio scrive un articolo per il quindicinale di Mussolini “Utopia” dal
titolo “Guerra e socialismo”: “Chi sostiene la causa della pace sostiene
inconsciamente la causa della conservazione del capitalismo”. Panunzio ha
intuito il carattere rivoluzionario della guerra, che indebolirà la borghesia e gli
stati liberali. Panunzio, amico di Mussolini, diventerà uno dei massimi sostenitori
del fascismo. Mussolini è pieno di dubbi. Si rende conto che in molti ambienti, soprattutto
tra i giovani, la posizione di neutralità assoluta è scarsamente compresa. “Sono
triste e scoraggiato” scrive all’amica anarchica futurista Leda Rafanelli, con cui il
futuro duce ci sta provando da tempo senza esito. “Gli ubriachi aumentano. Ne
incontro di quelli che non bevevano, eppure… Ancora qualche giorno e
diffiderò di voi, di me stesso…” Mussolini si rifugia nell’intransigenza assoluta. Il
13 Mussolini risponde a Panunzio sull’Avanti! con un articolo intitolato “Contro
le inversioni e le manifestazioni del sovversivismo guerrafondaio – Proletari
italiani, chi vi spinge alla guerra vi tradisce.”
Passano un paio di giorni e i futuristi organizzano clamorose chiassate
antiaustriache a Milano. Il 15 settembre appaiono nel Teatro Del Verme
rigurgitante di pubblico durante la rappresentazione della Fanciulla del West di
Puccini. “Palchi gallerie loggione scatenano 6000 mani applaudenti che
sembrano 3000 becchi agitatissimi di oche selvagge. Forbiciano la musica di
Puccini: straschichi arpeggiati, lasagne scodinzolanti nervi isterici violinati e
zuccherifilati rosa.” Dopo il primo atto Marinetti urla “Abbasso l’Austria!”.
Boccioni estrae una bandiera austriaca. Un altro futurista gli dà fuoco. “Un
lembo vampante cade sulla crema dei décolletés in poltrona.” !
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Il giorno dopo i futuristi si ripetono nella Galleria e in Piazza Duomo. “La
sera dopo dovevamo trovarci in 30. Eravamo soltanto 11. La Galleria gonfia di
folla. Tepore autunnale. Tutti i tavolini fuori. Gioia pacifica di grasse famiglie
intorno ai gelati centellinati.” Bruciano altre bandiere austriache, mentre la
polizia cerca di acchiapparli. “Fendiamo come torpediniere il mare di tavolini e
rovesciamo a destra e sinistra ondate di madri di padri impazziti, schiuma di
bambini calpestati.” Alla fine sono tutti arrestati: Marinetti, Carrà, Piatti,
Russolo e Boccioni, passeranno cinque giorni a San Vittore. Dal carcere
produrranno il manifesto “Sintesi futurista della guerra”.
Altre sceneggiate a Roma in occasione delle celebrazioni per il XX
Settembre. Secondo La Stampa sono almeno 50.000 persone tra cui nazionalisti,
repubblicani, garibaldini in giubbe rosse, studenti con berretti goliardico e molte
signore e popolane. Il corteo sfila per la città tra canti patriottici e grida di Viva
Trento e Viva la guerra. Il corteo prova ad avvicinarsi al consolato austriaco ma
viene respinto duramente dalla celere dell’epoca. Poi si reca dai consoli belga,
inglese e russo. Federzoni appende una corona triestina su Porta Pia, sfidando la
questura.
I socialisti provano a riprendere l’iniziativa. Il 22 sull’Avanti! viene pubblicato
un manifesto unitario dei socialisti contro la guerra, firmato da Turati, Mussolini
e Prampolini. Ideologicamente perfetto, riflette l’isolamento internazionale del
partito ed è privo di una strategia di lotta. Riconosce però la differenza tra i due
schieramenti, con l’accenno iniziale al “Belgio eroico e pacifico che ha dovuto
subire l’invasione vandalica degli eserciti tedeschi.”
Turati e Mussolini sono per l’ultima volta dalla stessa parte. Anche la
compagna di Turati, Anna Kuliscioff, ha dubbi e gli scrive lucidamente “Che
rabbia che fa in questo momento l’impotenza dei socialisti. Eppure forse ancora
sarebbe più onesto e leale di confessare questa debolezza, anziché lanciare
minacce in forma di ordini del giorno che annunziano la resistenza alla
mobilitazione “con tutti i mezzi” per non fare poi nulla, o peggio ancora
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spingere in qualche luogo ad azioni che aggiungeranno nuove vittime a tanta
gioventù già consacrata al macello?”
Pochi giorni dopo, sollecitato da Mussolini sull’Avanti!, si svolge un
referendum popolare indetto dai socialisti, che approva la linea neutralista
intransigente. Anche i cattolici lombardi, riuniti a Milano, si dichiarano a favore
della neutralità.
Ma le voci di saggezza sono sommerse già in settembre da altre più
appassionate personalità. Cesare Battisti, ex deputato socialista austriaco, gira
l’Italia per promuovere la liberazione delle terre irredente. Il 27 settembre
appare sulla Stampa una sua lettera al deputato socialista Morgari. Invoca la
distruzione definitiva dell’Austria, feudale, militarista e clericale, per far rinascere
le nazioni oppresse e liberare gli italiani di Trento e Trieste. La distruzione
dell’Austria “rappresenta la sconfitta di un covo d’infezione nel cuore d’Europa.”
Lo stesso giorno la squadra di calcio del Torino ritorna dalla sua tournée
sudamericana durante la quale ha battuto 2-0 la nazionale argentina. Il calcio è
già saldamente nel cuore degli italiani. Fra pochi giorni comincerà il
campionato. Una salutare distrazione dai tristi pensieri della guerra.
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Il bellicoso manifesto dei futuristi scritto in carcere.
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OTTOBRE 1914
Cupe vampe e ladri di sottomarino
Le cupe vampe della guerra si allungano sul continente ma l’Italia cerca
ancora di vivere la sua bella estate. Questo mese comincia con qualche nota
allegra. Il 5 ottobre il Quirinale annuncia che la regina Elena è incinta del suo
quinto figlio. La nascita è prevista per gennaio.
Domenica 4 riprende finalmente il campionato di calcio. Edizione
maggiorenne, la diciottesima. Edizione maggiorata, con ben 36 squadre divise in
sei giorni eliminatori nel torneo maggiore della Pianura padana, l’unico che
conti. Favorite le solite piemontesi, la Juventus, il Torino reduce da una bella
tournée in America Latina, il Casale scudettato, il Pro Vercelli, poi Genoa,
Milan e Internazionale. Non c’è altro. Emilia e Veneto hanno poca roba. A sud
del Po è il deserto pallonaro, 15 squadrette toscane, romane e napoletane si
affronteranno per il titolo di campione centro-sud, da cui uscirà la contendente
al titolo finale con la vincitrice del torneo settentrionale. La prima fase è
scontata. Passano il turno le prime due di ogni girone e le quattro migliori terze.
Le grandi sono seccate di questa fase inutile in cui si giocano partite senza storia
in cui i campioni rischiano un infortunio. All’esordio il Genoa travolge l’Acqui
16-0, la Juventus batte il Valenzana 9-0, il Milan fa a pezzi l’Audax Modena
13-0 e così via. Fino a Natale ci sarà poco da divertirsi. Il 25 ottobre si tiene il
derby di Torino, già all’epoca caratterizzato da grande animosità. L’ultima volta,
nel febbraio 1913, era finita 8-6 per il Torino. Stavolta è un pareggio con un gol
per parte.
I grandi campioni del ciclismo sono tutti al fronte: Trousselier, Lapize,
Faber. Nell’ultima prova dell’anno, il Giro di Lombardia, che si tiene domenica
25, ci sono solo corridori italiani. La scarsità di campioni non convince le masse
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ad affollarsi alle cinque di una mattina fredda e nebbiosa per assistere alla
punzonatura davanti al ristorante “Sempioncino” di Milano. Alla partenza alle
7.15 ci sono solo 48 ciclisti, tra cui Costante Girardengo con la maglia tricolore
conquistata la settimana prima. Vince in volata, al termine di più di 7 ore di
corsa, il rovighese Lauro Bordin davanti a Giuseppe Azzini, per tre quarti di
ruota. Girardengo arriva solo sesto.
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È impossibile sfuggire alla guerra.
Siamo circondati e chiunque può rendersi conto che sarà impossibile per
l’Italia tenersi fuori dal conflitto. Posto che i nostri capi lo vogliano davvero. In
ottobre i tedeschi occupano Anversa. Il Belgio saluta il novero delle nazioni
indipendenti. Il fronte occidentale si va stabilizzando dal Canale della Manica
alla frontiera svizzera ma resta ancora alta l’illusione che la guerra non durerà a
lungo. Ad est c’è più movimento ma l’offensiva tedesca si ferma sulla Vistola. I
russi tengono meglio del previsto. Gli austro-ungarici sono indeboliti dalle
divisioni nazionali ed etniche. La guerra si avvicina all’Italia. Si moltiplicano gli
arresti di presunte spie austriache, colte con appunti su caserme, fortificazioni,
porti. I russi cercano di coinvolgerci proponendo di spedire in Italia i prigionieri
di guerra austriaci di origine italiana. Una bella proposta avvelenata che ci
metterebbe in una pessima posizione nei confronti di Vienna.
Ad est dell’Italia, l’Albania non ha pace. Il paese è dilaniato dalle bande. A
sud i greco ortodossi che vogliono l’annessione alla Grecia fanno strage di
mussulmani che fuggono verso Valona. L’Italia vorrebbe tanto non farsi
risucchiare dal gorgo albanese ma Valona è la chiave d’ingresso dell’Adriatico.
Dopo giorni di tentennamenti, il 26 ottobre sbarca a Valona una spedizione
“sanitaria” come si chiamavano allora gli interventi militari, con lo scopo
ufficiale di aiutare i profughi in fuga dall’Epiro. È una formula ambigua, per
rispettare formalmente la sovranità albanese. Pochi giorni dopo il tricolore
sventola sull’isola di Sasseno che chiude il porto di Valona. L’operazione
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coinvolge nel complesso sei navi e 1200 uomini.
Anche la quarta sponda è in difficoltà. Nonostante la campagna di
repressione dell’estate, la ribellione araba in Libia continua. Il bel suol d’amor è
la tomba di tanti giovani. Il 13 ottobre una carovana che trasporta rifornimenti
per la guarnigione di Agedabia in Cirenaica viene attaccata dai ribelli: 26 morti
tra gli italiani, 15 tra le truppe indigene, più 25 feriti. Un’altra carovana viene
assalita il 20. Lasciamo 6 morti ed 8 feriti. La ribellione libica continua ad essere
alimentata dalla Turchia che scivola sempre più verso la guerra a favore degli
Imperi centrali. A fine ottobre i turchi lanciano improvvisi attacchi contro le basi
russe senza dichiarazione di guerra. La situazione strategica nel Mediterraneo
cambia e noi ci troviamo con la guerra praticamente in casa. La Gran Bretagna
deve proteggere l’Egitto e il Canale di Suez. La Grecia non potrà restare inerte
di fronte al ritorno della Turchia. Bulgaria e Romania non resteranno ferme.
L’Italia però non è pronta. Salandra aspetta. Fa bene.
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Il sacro egoismo
Sul piano politico il mese di ottobre è un momento decisivo. Già a settembre
si erano rincorse le voci di un rimpasto di governo, se non di una sostituzione di
Salandra. Solo Giolitti, che fa il gentiluomo nel suo Piemonte, ha il potere di
separare Salandra dalla poltrona. E allora Salandra ne approfitta: trasforma le
crisi di ottobre in altrettante occasioni per consolidare la sua posizione. La prima
crisi si stende il 10 ottobre quando il ministro della guerra, generale Grandi, si
dimette in contrasto con Cadorna, Capo di Stato Maggiore, che pretende 600
milioni di lire per l’esercito. Lo sostituisce il generale Zupelli, fedele all’inflessibile
Cadorna.
Il 16 muore di gotta il ministro degli esteri San Giuliano. Salandra prende
l’interim mentre agita una caramella al suo sodale Sydney Sonnino che esita.
Interessante il discorso che Salandra compie il 18 ottobre al palazzo della
Consulta, allora sede del Ministero degli esteri, ai diplomatici italiani, in cui
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afferma che deciderà il miglior corso “…con animo scevro da ogni preconcetto,
da ogni pregiudizio, da ogni sentimento che non sia quello dell’esclusiva e
illimitata devozione alla Patria nostra, del sacro egoismo per l’Italia.” Questa
frase resterà il simbolo del cinismo di un’intera classe dirigente.
Pochi giorni dopo una nuova crisi spacca la compagine governativa. Il
Ministro del tesoro Rubini, di tendenza neutralista, contrario all’aumento delle
spese militari, si dimette dopo un tempestoso consiglio dei ministri. Salandra sale
dal re a rimettere il mandato, sapendo bene che nessun altro potrà prendere il
suo posto.
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Dov’è il sottomarino?
La mattina di sabato 3 il sottomarino numero 43 lascia il cantiere navale
FITA-San Giorgio di La Spezia per un normale collaudo. I sedici membri
dell’equipaggio non hanno alcuna idea di cosa abbia deciso di fare il loro
comandante, l’ex capitano di vascello ed ingegnere Angelo Belloni, geniale e
folle. Si fidano di lui. Belloni fa capire che il sottomarino è stato chiamato per
una missione segreta. Gli uomini non fanno domande. Il natante si immerge
nelle acque del Tirreno.
A sera il mezzo non è ancora rientrato. Si teme una disgrazia. Alla ricerca di
indizi sull’accaduto, i colleghi trovano nel suo ufficio dell’ufficiale un messaggio
di Belloni diretto alla madre con cui dichiara che sta per partire per una
destinazione ignota per fare una strage. Le preoccupazioni aumentano.
Tre giorni dopo il sottomarino appare in Corsica. I francesi ricevono una
strana offerta. Belloni vuole scatenare una guerra personale contro la marina
austriaca nell’Adriatico ma ha bisogno di siluri, dato che il sommergibile non è
armato. I francesi lo rispediscono in manette in Italia dove, nel clima
iperprudente di Salandra, queste provocazioni sono mal viste. Belloni rischia una
pesante sentenza e lunghi anni di carcere. Finirà all’italiana, qualche mese dopo.
In un altro settore, Giovanni Caproni riesce finalmente a realizzare e far
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volare il prototipo di un bombardiere a tre motori, il Ca.31. Caproni godeva
dell’aiuto di Giulio Douhet, comandante del Battaglione Aviatori, che aveva già
capito l’importanza del dominio dell’aria, e della convinta ostilità dell’ispettore
dell’Aeronautica Maurizio Moris che riteneva completamente sbagliato il
progetto. Tanto sbagliato che l’aereo fu utilizzato durante la guerra
dall’aviazione francese, britannica e americana, oltre che da quella italiana.
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Gli amanti della guerra.
“Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è
spaventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice
dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi” così scrive Papini su
Lacerba del primo ottobre. Gli interventisti di ogni risma sono pochi e rumorosi,
con obiettivi diversi. Chi vuole la guerra per la democrazia, la rivoluzione,
l’autodeterminazione. Chi vuole la guerra come sola igiene del mondo. Per
questi ultimi la paura è di arrivare troppo tardi, a cose fatte, quando non
potremo reclamare la parte del bottino dei vincitori.
Lunedì 5 ottobre appare il manifesto del Fascio rivoluzionario d’azione
internazionalista, che nasce negli ambienti del sindacalismo rivoluzionario e che
segna la prima saldatura tra istanze rivoluzionarie e nazionalismo, l’humus in cui
prospererà il fascismo dopo la guerra. Al comitato promotore aderiscono nomi
come Filippo Corridoni, Michele Bianchi, Angelo Oliviero Olivetti, Libero
Tancredi, tutte personalità rilevanti nel successivo regime mussoliniano.
Prosegue la campagna personale del socialista Cesare Battisti nel nord Italia
in favore dell’intervento. Salvemini avverte Ernesta Battisti affinché il marito non
si mescoli con i nazionalisti. “La campagna di Battisti deve conservare carattere
democratico. Battisti non deve lasciarsi sequestrare dai nazionalisti. Se si
presenta in compagnia dei nazionalisti, indispone quegli elementi democratici e
socialisti, che possono essere ancora conquistati, e si prende tutti i tumulti diretti
contro i nazionalisti.” Gli austriaci spiccano un mandato di cattura contro il
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traditore e lo fanno seguire da spie.
Ma tutti questi movimenti sono poca cosa rispetto a quello che sta maturando
nella mente inquieta, rozza e geniale di Mussolini, probabilmente uno dei leader
politici più temuti ed amati dell’epoca. Lo scoppio della guerra l’ha messo in
crisi. Per uno spirito combustibile come il suo, la neutralità è uno spreco di
energie. Gli interventisti più accesi lo sollecitano a passare dalla loro parte. In
ottobre cominciano ad apparire pettegolezzi e voci sulle oscillazioni di Mussolini.
Il 4 ottobre un articolo sul “Giornale d’Italia” di Lombardo Radice attacca le
esitazioni di Mussolini, pur senza nominarlo. Il 7 ottobre sul Resto del Carlino
Libero Tancredi attacca la doppiezza di Mussolini, che vorrebbe la guerra ma
spera che sia il governo a proclamarla. Mussolini nelle risposte dichiara le sue
simpatie per la Francia e la sua ostilità per l’Austria, cercando di non saltare il
fosso, difendendosi con arditi equilibrismi “sono venuto a valutare l’eventualità
di un intervento italiano nella conflagrazione europea da un punto di vista
puramente e semplicemente nazionale. Il che non esclude che sia proletario.”
Salvemini colse molti anni più tardi questo momento. “Un giornalista deve
avere al momento buono un’opinione pronta per qualsiasi avvenimento, e deve
esprimere tale opinione anche prima di averci pensato su. La disgrazia di
Mussolini derivò dal fatto che la sua natura egocentrica e violenta non gli
permise di mostrare al pubblico quei dubbi che si andavano insinuando nel suo
animo folle. Continuò a brandire la sua penna come si usa una spada, senza
accettare di venire mai contraddetto su quanto scriveva, mentre in cuor suo non
era affatto sicuro di quello che avrebbe pensato il giorno dopo.”
Mussolini rompe gli indugi il giorno che si apre la Direzione del PSI. Il 18
ottobre l’Avanti! pubblica un suo editoriale che titola molto chiaramente “Dalla
neutralità assoluta a quella attiva e operante”. Mussolini smonta l’impossibile
tesi assolutistica del partito proponendo una neutralità a favore dell’Intesa contro
l’Austria. Il ragionamento è basato sul rifiuto dell’immobilismo del partito e sul
ruolo che l’Italia potrebbe avere per accelerare la conclusione del conflitto ed in
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favore della rivoluzione proletaria. “Vogliamo essere – come uomini e come
socialisti – gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo
esserne – in qualche modo e in qualche senso – i protagonisti?” Il ragionamento
non è privo di logica, soprattutto in considerazione della sterilità della politica
del partito ma emerge la personalità convulsa, l’ansia di protagonismo, la voglia
di primeggiare e di essere dalla parte di chi vince.
Se Mussolini spera di portare dalla sua il partito con un tipico gesto di audace
rottura, ha fatto male i calcoli. La direzione del PSI lo sconfessa all’unanimità.
Mussolini scrive il 20 il suo ultimo articolo per L’Avanti! e si dimette dal
giornale. Ma nel partito la presa di posizione di Mussolini suscita un forte
dibattito che la direzione si sforza di soffocare. Costringe i socialisti a porsi il
problema della guerra e della sua posizione nella politica italiana. Il PSI deve
avere una politica e sporcarsi le mani oppure deve attendere in una posizione
moralmente ineccepibile ma sterile? Molti, tra cui il sindaco socialista di Milano,
chiedono un congresso straordinario. La sera del 21 Mussolini si presenta ad
un’assemblea dei socialisti milanesi in cui viene acclamato proprio per le sue
posizioni interventiste. In questo momento Mussolini non pensa a lasciare il
partito.
Molti giovani socialisti sono istintivamente dalla parte di Mussolini. A Torino,
due studenti di scarsi mezzi si interrogano sul futuro del partito. Il 31 ottobre
Gramsci pubblica uno dei suoi primi articoli su “Il Grido del Popolo” dal titolo
“Neutralità attiva ed operante” che, pur non sostenendo Mussolini, presenta la
tesi che il partito e il proletariato debbano riprendere l’iniziativa per non
lasciarla alla classe dominante. Gramsci critica “la comoda posizione della
neutralità assoluta”. Il giovane sardo, prima della pubblicazione, mostra
l’articolo a Togliatti che, interventista democratico, lo approva senza riserve.
Gramsci ha 23 anni. Conduce una vita grama da studente di lettere in una
misera stanza in un quartiere popolare. Campa con una borsa di studio di 70 lire
al mese più 15-20 lire che il padre gli manda quando può. I soldi non bastano
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mai. Oltre alle tasse universitarie, deve pagare 25 lire al mese per l’affitto della
stanza, la luce, la pulizia, i pasti, la legna e il carbone per il riscaldamento. Gli
manca anche il cappotto. “La preoccupazione del freddo non mi permette di
studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i piedi oppure devo stare
imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima gelata”. Il 1914 è stato un
anno durissimo. Povero, psicologicamente fragile, cerca di mantenersi al pari con
gli esami per non perdere la borsa di studio ma lo sforzo lo debilita. Il suo
isolamento è rotto dall’iscrizione al partito socialista verso la fine del 1913.
Frequenta i giovani compagni di partito, fra i quali trova Tasca, Togliatti,
Terracini: “uscivamo spesso dalle riunioni di partito [...] mentre gli ultimi
nottambuli si fermavano a sogguardarci [...] continuavamo le nostre discussioni,
intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti risate, di galoppate nel regno
dell’impossibile e del sogno”. Per questi ragazzi di Torino è l’inizio di una
carriera politica che farà la storia d’Italia.
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Mercurio passa davanti al sole di Giacomo Balla.
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NOVEMBRE 1914
La nave senza nocchiere?
Se questa Europa ci lasciasse in pace… pensano i nostri governanti cento
anni fa. Anche allora a Bruxelles comandano i tedeschi, non con la
Bundesbank ma con gli stivaloni prussiani. Le pianure delle Fiandre sono già
bagnate di sangue. In tre mesi il Regno Unito ha perso 57.000 uomini, l’Impero
germanico 125.000 e la Repubblica francese una cifra di poco inferiore. Non è
che l’inizio: mancano ancora quattro anni pieni di massacri.
Anche la Turchia si butta nella mischia. C’è l’ha con la Gran Bretagna che
controlla l’Egitto, vuole riprendersi la Libia dagli italiani, vuole
raddrizzare qualche conto con il secolare nemico russo. Il sultano Maometto V
lancia la guerra santa, che però è guerra turca, visto che i turchi sono alleati dei
cristianissimi austriaci e tedeschi. Rispondono con gusto all’appello i beduini
libici che gli italiani a casa loro non li vogliono. Detto con il senno di oggi,
c’hanno pure ragione. Ma con il senno di allora a noi non sta tanto bene.
Insomma, gran bordello in Europa. E l’Italia? La nave in gran tempesta è
senza nocchiere. Nell’ultimo consiglio dei ministri di ottobre il ministro del
tesoro Rubini e il presidente del consiglio Salandra sono venuti alle metaforiche
mani per 400 milioni di spese militari che Rubini non vuole autorizzare.
Salandra fa finta di dimettersi. Non sia mai che i contabili della Ragioneria
generale dello stato si mettano di traverso.
Il due novembre al Quirinale cominciano le consultazioni. Il re sa già che
confermerà Salandra, fa finta di parlare con i presidenti di Camera e Senato e
con altri politici ma un solo colloquio è importante, quello con Giolitti che la
sera di ognissanti, accompagnato da prefetti, autorità e assessori, sale sul diretto
da Torino per Roma. Il giorno dopo si incontra con il re. Giolitti ha il
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grimaldello del governo. Se vuole, l’incarico è suo, addio Salandra e addio
tricolore sventolante sui monti del Trentino. Ma Giolitti non vuole. Gli sta bene
Salandra. Forse non ha voglia di mettersi in gioco in una situazione così
complicata. Forse spera che la guerra finirà prima che Salandra combini qualche
guaio. Un altro piccolo passo nella concatenazione di eventi che porta alla
guerra.
A sera Vittorio Emanuele restituisce il posto a Salandra che può quindi rifare
il gabinetto a sua immagine e somiglianza. Agli esteri si assetta l’amico Sydney
Sonnino, conservatore, liberale in economia, comproprietaro del “Giornale
d’Italia”. Sonnino era stato uno dei promotori dell’impresa libica. In agosto era
stato favorevole ad un intervento con gli antichi alleati ma ora è più interessato a
gettare le armi nel campo del miglior offerente. Al tesoro, al posto di Rubini, va
Paolo Carcano, ex garibaldino nella spedizione dei Mille, un risorgimentale con
attributi, non certo amico dell’Austria. Alla guerra resta Zupelli, in buoni
rapporti con l’ostico Capo di Stato Maggiore Cadorna.
Il cinque il nuovo ministero giura nelle mani del re. Lo Statuto albertino non
prevede la fiducia ma la prassi costituzionale prevede un passaggio in
Parlamento. Salandra non ha fretta di riaprire Montecitorio, di cui nessuno sente
la mancanza, a parte i socialisti che vorrebbero costringere il governo ad
impegnarsi più chiaramente a mantenere la neutralità.
Il governo tace. Non intende rivelare le sue intenzioni. Vuole tenere le mani
libere. Non ritiene che l’opinione pubblica sia in grado di capire le sofisticate
convulsioni della diplomazia. È un sentimento comune. Salandra riceve il pieno
appoggio dalla stampa dell’epoca che ritiene normale il riserbo dell’esecutivo; il
popolo italiano non ha diritto di dire la sua di fronte alla più distruttiva guerra
della storia europea.
Il parlamento riaprirà il 2 dicembre. L’unico punto all’ordine del giorno sono
le “comunicazioni del governo”. La nazione saprà qualcosa allora, non prima, e
solo quello che l’esecutivo riterrà opportuno rivelare.
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Il passaggio di novembre apparentemente è solo un italico rimpasto di
governo. In realtà il gran pastaio, Salandra, con l’appoggio del suo sodale
Sonnino e l’occhio mai troppo assonnato del re, stanno preparando l’intervento.
Salandra, che il 14 si ha approvare dal diligente Consiglio dei Ministri l’aumento
delle spese militari per 400 milioni di lire, può cominciare a guardarsi in giro con
maggiore fiducia, in cerca del migliore offerente a cui regalare il sangue italiano.
Intanto, per rastrellare soldi, Salandra impone una tassa anche sui biglietti del
cinema.
Come dice Silvio Bertoldi nella sua biografia su Vittorio Emanuele III, furono
in tre i responsabili della guerra, contro la volontà del paese e del parlamento:
Salandra, Sonnino e il re. “La vollero, la prepararono, la sottoscrissero
segretamente in proprio, come se si trattasse di un contratto d’affitto. La
condussero in porto eliminando tutto quanto di opponeva ai loro disegni:
maggioranza parlamentare, volontà popolare, voci dei partiti, impegni
internazionali, rapporti diplomatici, ogni cosa. Il loro, non fu un piano di
preveggenza storica, ma un gioco d’azzardo. Una scelta personale del possibile
cavallo vincente su cui puntare e, dopo, una puntata eseguita segretamente,
senza avvertire nessuno, a costo di rischi incalcolabili.”
Tutto ciò comincia a novembre. A Berlino fiutano subito che l’aria è cambiata
e che si rischia di avere un nuovo nemico. Si parla di sostituire l’Ambasciatore
Von Flotow con Von Bülow, l’ex cancelliere imperiale, che conosce bene l’Italia.
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L’agitato scatolone di sabbia.
La proclamazione della guerra santa eccita gli animi in Libia. I ribelli
ripartono all’offensiva, aumentando le scorrerie, attaccando le postazioni isolate,
costringendo i comandi a ripiegare su posizioni più difendibili. Le notizie che
arrivano sulla stampa sono frammentarie ma la situazione è critica. Anche se la
Turchia vuole evitare lo scontro con l’Italia, suoi agenti circolano in Libia.
L’obiettivo è quello di preparare un duplice attacco contro l’Inghilterra in Egitto
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e sul Canale di Suez, dalla Palestina e dalla Libia.
Il 28 novembre contingenti arabi attaccano i presidi di Sebha e di Ubari, nel
Fezzan. Il presidio di Sebha è annientato; quello di Ubari, assediato da
preponderanti forze nemiche, non può ritirarsi.
La colonia italiana a Beirut ha paura della guerra santa. Il 27 novembre una
nostra nave militare, la Calabria, viene spedita sulle coste siriane, pronta ad
intervenire, caso mai la Turchia avesse idee strane.
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La vita è bella. O quasi.
I prezzi degli alimenti crescono ma per fortuna un bastimento è in viaggio
verso la penisola carico di grano americano. I trasporti via Atlantico non sono
sicuri: i sottomarini tedeschi hanno il grilletto facile e gli assicuratori chiedono
premi altissimi. Forti piogge in novembre devastano il nord Italia, con
allagamenti e straripamenti, lasciando morte e distruzione, cento anni fa come
allora.
In questo mese esce un altro dei capolavori del cinema italiano anteguerra. Si
tratta di Julius Caesar, firmato da Enrico Guazzoni, antesignano del peplum. 86
minuti di drammone in costume con Vercingetorige, Bruto, Cleopatra, Catone e
Marcantonio. Attori protagonisti Amleto Novelli nei panni di Cesare, uno dei
maggiori interpreti dell’epoca e Pina Menichelli, ormai proiettata tra le dive del
cinema, in quelli di Cleopatra.
Nel frattempo a Firenze si aggira come un barbone il poeta Dino Campana.
Da anni conduce una vita errante per il mondo, già con vari segni di squilibrio.
Pochi mesi prima ha pubblicato a sue spese una raccolta di poesie, i “Canti
Orfici” col sottotitolo in tedesco: “La tragedia dell’ultimo germano in Italia”,
con dedica a Gugliemo II. Come dire, il libro giusto al momento giusto. Le
vendite sono scarse. Per accontentare i suoi clienti, pare che strappi la pagina
con la dedica all’imperatorino fumino di Berlino. I canti hanno una storia
incredibile. Campana aveva sottoposto il manoscritto originale a fine 1913 al
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duo Papini-Soffici per una pubblicazione su Lacerba. Soffici lo ricorda come
“tarchiato, statura media, sciatto nell’aspetto e rude nei modi, capelli biondorame, aria dionisiaca, occhi celesti, faccia rosea, vestito malissimo, di pelli di
capra, scarpe scalcagnate, pantaloni di mussolina troppo corti, giaccone
pastorale di mezzalana dalle tasche ampie, pieni di carta”. Soffici smarrisce il
manoscritto e non vuole perder tempo a cercarlo. Campana lo riscrive basandosi
sulla memoria. Resterà ancora poco a Firenze e continuerà la sua vita
vagabonda, vivendo di espedienti, lavoretti e mense popolari. Durante la guerra
avrà una breve intensa storia d’amore con Sibilla Aleramo, poi sarò solo il
manicomio fino alla morte nel 1932. Soffici ritroverà il manoscritto originale dei
“Canti orfici” nel 1971 frugando fra le sue carte.
Un appassionato di astronomia ritrae a modo suo un raro fenomeno che
avviene il 7 novembre, ossia il passaggio di Mercurio sul Sole. Giacomo Balla si
attarda al telescopio e cerca di restituire con linee e colori quello che ha visto. Il
1914 è stato un anno molto produttivo per Balla, in cui porterà a termine vari
progetti, come la serie delle “Compenetrazioni iridescenti” oltre a “Mercurio
passa davanti al sole”.
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Vaticano fuori dal mondo.
Benedetto XV continua la sua azione solitaria contro la guerra. Nella sua
prima enciclica, pubblicata il primo novembre, “Ad beatissimi apostolorum”, il papa
invoca la pace con un richiamo etico ai principi del cristianesimo. Se la prende
col materialismo e il socialismo e, come se non bastasse, protesta per la
scomparsa dello Stato pontificio. Fa un po’ di minestrone di idee antiquate,
destinate per questo a restare tutte inascoltate. Ecco un passo. “Invero, da
quando si è lasciato di osservare nell’ordinamento statale le norme e le pratiche
della cristiana saggezza, le quali garantivano esse sole la stabilità e la quiete delle
istituzioni, gli Stati hanno cominciato necessariamente a vacillare nelle loro basi,
e ne è seguito nelle idee e nei costumi tale cambiamento che, se Iddio presto non
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provvede, sembra già imminente lo sfacelo dell’umano consorzio. I disordini che
scorgiamo sono questi: la mancanza di mutuo amore fra gli uomini, il disprezzo
dell’autorità, l’ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali, il bene materiale
fatto unico obiettivo dell’attività dell’uomo, come se non vi fossero altri beni, e
molto migliori, da raggiungere. Sono questi a Nostro parere, i quattro fattori
della lotta, che mette così gravemente a soqquadro il mondo. Bisogna dunque
diligentemente adoperarsi per eliminare tali disordini, richiamando in vigore i
princìpi del cristianesimo, se si ha veramente intenzione di sedare ogni conflitto e
di mettere in assetto la società.”
Pare che la guerra l’abbiano inventata nel 1914, secondo il papa. Tutti a
messa la domenica e la pace regnerà in terra.
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11 novembre, quarantacinque anni per re sciaboletta.
Grandi feste per Regno e colonie, tranne che a Bologna e Milano dove le
amministrazioni socialiste non imbandierano i municipi. Chi vuole festeggiare, è
libero di farlo, dice il sindaco di Bologna. Salandra vorrebbe punire l’affronto ma
scopre che non esistono leggi per farlo.
Lo stesso giorno Gramsci riesce finalmente a dare un esame dopo mesi in cui
ha sofferto di esaurimento nervoso. Prende 27/30 in Letterature neolatine. Ciò
non gli impedirà di perdere la borsa per quattro mesi, mettendolo in gravissime
difficoltà economiche.
Il 19 novembre a L’Aquila inizia il processo per la Settimana rossa. Nenni è
fra gli imputati. Di fronte ai giudici si definisce “repubblicano e rivoluzionario”.
I repubblicani manifestano per la liberazione dei rivoltosi.
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Podisti e pedate.
Lo sport è confinato all’Italia. Alla 100 chilometri di marcia, organizzata dalla
Gazzetta dello Sport, che si tiene il 15 novembre, partecipano solo italiani, molti
dei quali arruolati nell’esercito. Si parte poco prima delle tre del mattino da
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Sesto San Giovanni. La giornata vive sotto un tempo perfetto, nonostante la
stagione inoltrata. Vince il favorito, Donato Pavesi, in poco meno di dieci ore (9
ore 59 minuti 48 secondi). Pavesi, venticinquenne, era già un noto marciatore.
Vinse moltissime gare in Italia e all’estero e al suo palmares mancherà solo una
medaglia olimpica che avrebbe meritato. Squalificato nella tre e nella dieci
chilometri ad Anversa, giunse solo quarto a Parigi nel 1924.
Diamo un’occhiata anche ai campi di calcio del nord. Sta per concludersi la
prima fase del campionato, quella con i gironi eliminatori. Alla penultima
giornata tutte le squadre maggiori sono già qualificate per il turno successivo. Il
29 novembre si tiene il secondo derby torinese, una delle poche partite
interessanti di questa lunga e barbosa fase eliminatoria. Finisce 7-2 per il Torino.
Altri tempi. La supersfida tra Casale e Pro Vercelli viene invece rimandata per
nebbia. Alla fine la partita non verrà mai disputata per rinuncia della Pro
Vercelli che ha già vinto il suo girone e non ha interesse a perdere tempo.
Il 16 novembre un giovane cronista sedicenne si presenta nello stadio di
Modena per scrivere per la Gazzetta dello sport una cronaca della partita con
l’Inter. È il primo articolo sportivo di Enzo Ferrari che è ancora indeciso se
diventare cantante d’opera, pilota automobilistico o giornalista sportivo. Nel
frattempo è la disperazione del padre. Poca voglia di studiare ma un grande
amore per i motori.
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Interventismo.
Il 5 novembre viene fondato il movimento politico dei Fasci d’Azione
Internazionalista, con Michele Bianchi come segretario. Bianchi sarà un futuro
quadrumviro nella marcia su Roma e primo segretario del partito fascista.
Nazionalismo, azione, gioventù, violenza, comincia quella simpatica fusione di
parole e gesti da cui scaturiranno i fasci littori, di cui sarà la suprema levatrice il
mascellone ingrugnito del focoso forlivese, il professor Mussolini, come lo
chiamano i giornali.
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Il salto di Mussolini all’altra sponda bellica ha traumatizzato il partito
socialista e scosso la politica nazionale. Il 15 novembre Mussolini fonda a Milano
il giornale “Il Popolo d’Italia – Quotidiano socialista”. Il uso primo editoriale è
chiarissimo. Contrappone l’Italia dei vivi a quella dei morti (Giolitti, socialisti) e
così si avvicina ai nazionalisti, a Salandra, anche se ancora da una prospettiva
rivoluzionaria. “Gridare: noi vogliamo la guerra! Non potrebbe essere – allo
stato dei fatti – molto più rivoluzionario che gridare abbasso!”
Prima tiratura 30.000 copie, destinate a crescere nei mesi successivi. Il futuro
“Testa di Morto in bombetta, poi Emiro col fez e col pennacchio” (Gadda)
realizza il suo nuovo giornale a tempo di record. Sponsor del lieto evento è
Filippo Naldi, direttore del Resto del Carlino, uomo di fiducia del defunto
ministro degli esteri San Giuliano, nonché portavoce di gruppi economici e
finanziari interventisti, legati all’incremento delle forniture militari (Fiat, Edison,
Unione Zuccheri, Ansaldo ed armatori). Naldi è uno dei più spregevoli
voltagabbana della storia patria. Nell’ordine fu giolittiano poi fascista. Coinvolto
nel delitto Matteotti, riparò in Francia come faccendiere petrolifero. Ricomparve
nel 1943 al fianco di Badoglio.
Insomma Mussolini si fece pagare dai suoi nemici storici. E lo mise in chiaro
subito. Il 19 novembre L’Avanti! attacca Mussolini come traditore con un sonoro
titolo “Chi paga?” Mussolini risponde dicendo che “Io dichiaro che non un
centesimo dell’oro straniero è entrato o entrerà nel mio giornale. Il denaro del
giornale è italiano, italianissimo e borghese. Il capitale è sempre borghese.”
Mussolini non nota alcuna contraddizione con il fatto di dirigere un quotidiano
socialista, anzi replica pubblicamente che “non esiste capitale proletario”. Più
avanti, comunque, non esiterà ad accettare anche i denari francesi. Il che spiega
chiaramente chi è Mussolini: un opportunista violento con un unico saldo
principio di fondo: faccio quello che mi pare. Con le donne, i compagni, i
camerati, e con l’Italia.
Il partito socialista non è tenero con il suo ex leader. Il 24 Mussolini viene
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pubblicamente processato presso il Teatro del Popolo di Milano. Impossibile la
difesa. Tra fischi e boati, Mussolini non riesce quasi a parlare. “Voi credete di
perdermi. Voi vi illudete. Voi mi odiate perché mi amate ancora. Sono e rimarrò
un socialista.” Viene espulso dalla sezione. Il giorno dopo l’espulsione Mussolini
scrive un editoriale contro “la congrega che pretende stoltamente di fermare il
corso della storia”, per illuminare il proletariato e per il socialismo. Il tono è
incoerente, rabbioso e minaccioso. “Il caso Mussolini non è finito come voi
pensate. Incomincia. Si complica. Assume proporzioni più vaste.” Un vero
profeta.
La sera dopo si tiene una riunione di socialisti milanesi favorevoli a
Mussolini. Gramsci e Togliatti stracciano la tessera socialista. Mussolini
incoraggia Tasca a compagni a collaborare al suo giornale. Gramsci gli manda
un articolo sui contadini sardi che Mussolini non pubblicherà, pur invitandolo a
mandare altro. Il 29 la direzione ratifica l’espulsione di Mussolini, non solo per
indisciplina ma anche mettendo in dubbio la sua moralità a causa della vicenda
dei finanziamenti per il Popolo d’Italia. Prezzolini e Lombardo Radice inviano
un telegramma a Mussolini: “Partito socialista ti espelle. Italia ti accoglie.”
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Peppino Garibaldi in Messico. Avventuriero e rivoluzionario, organizzò la
Legione garibaldina per combattere a fianco della Francia
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L’anno prima della guerra
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DICEMBRE 1914
Che ne sanno le donne della guerra?
Che sanno della vita, della realtà? Esseri poco razionali, prigioniere del ciclo,
ottenebrate dai sentimenti, poco più che bambini, che hanno bisogno di un
tutore legale. Già abbiamo aperto alle ragioniere. Adesso ci sono quelle che
vorrebbero fare le avvocate. Non sono capaci di badare a loro stesse e
vorrebbero difendere gli altri? Una follia degna di questo folle secolo. A Torino
le laureate in giurisprudenza inviano una petizione per chiedere l’accesso alla
professione di avvocato. Tra di loro c’è Lidia Poët, la prima laureata in legge in
Italia. Sta aspettando dal 1881 di essere accolta nell’ordine. Le trombe femminili
squillano a Torino, il l’Ordine degli avvocati di Roma risponde con un
categorico no. Come tutto nel nostro paese, il dibattito sui diritti delle donne va
avanti da almeno trent’anni. Bisognerà aspettare la fine della guerra. Lidia
diventerà avvocato nel 1920, all’età di 65 anni.
Il primo dicembre viene fondata a Bologna la Società Anonima Officine
Alfieri Maserati che all’inizio si occupa, con solo cinque dipendenti, di
sviluppare auto da gara per la Isotta Fraschini. Il 5 dicembre avviene un grave
incidente ferroviario sulla linea Roma-Napoli: 11 morti e 50 feriti. Il 6 dicembre
si conclude la prima fase del campionato di calcio nel nord Italia. Tutte le grandi
sono promosse: Genoa, Pro Vercelli, Casale, Juventus, Milan, Inter, Torino e poi
altre squadre come Alessandria, Andrea Doria (Genova), Vigor (Torino),
Novara, Juventus Italia (Milano), Como, Vicenza, Hellas e Venezia. Si
ricomincerà a gennaio con quattro gironi semifinali di quattro squadre.
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Cronache dall’inferno
Il macello industrializzato di milioni di uomini è di una violenza mai vista.
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Chi era partito alla guerra con entusiasmo sotto il sole d’agosto, oggi si ritrova in
una trincea fangosa, con i piedi gelati nell’acqua, senza possibilità di dormire,
esposto al continuo fuoco nemico, al terrore di morire in un momento, di essere
squartato da una raffica di mitragliatrice, maciullato da una cannonata. Ad ovest
il fronte si è ormai stabilizzato dalla Manica alle Alpi. I soldati dei due
schieramenti iniziano una lunga e terrificante guerra di logoramento. I tedeschi
hanno trasferito truppe sul fronte orientale dove sperano di sfondare le linee
russe. Riescono a prendere Lodz ma non vanno molto più avanti, mentre gli
austriaci le prendono dai russi sui Carpazi. Il due dicembre l’esercito
austroungarico occupa Belgrado, che i serbi riconquistano il quindici, a prezzo
di enormi perdite, sia militari che civili. Russia e Turchia sono impegnate tra i
ghiacci del Caucaso. Il Regno Unito impone il protettorato sull’Egitto, abolendo
la finzione della sovranità ottomana. Le Isole Falkland sono testimoni di una
delle poche battaglie navali della guerra: vincono gli inglesi che affondano
quattro navi tedesche e catturano la quinta. I comandi continuano a dichiarare
fiduciosi che a primavera la guerra sarà finita.
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La legione di Peppino Garibaldi.
Gli italiani in guerra, per il momento, appartengono a due categorie: nella
prima troviamo le truppe regolari che si trovano a fronteggiare la rivolta araba in
Libia. L’aggressività dei legittimi abitanti libici ci costringe ad un graduale
abbandono delle posizioni avanzate nel deserto verso la costa. Il governo vigila
che non giungano alle orecchie dell’opinione pubblica notizie sfavorevoli, che
dimostrerebbero l’impopolarità del dominio italiano e la nostra impreparazione
militare.
Nella seconda categoria troviamo i volontari della legione italiana agli ordini
di Peppino Garibaldi, nipote di Giuseppe, già noto combattente rivoluzionario
in Venezuela, Grecia e Messico. La legione nasce dopo non pochi travagli. Il
governo italiano non vede di buon occhio la presenza di nostri combattenti in
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Francia, che minacciano la neutralità dell’Italia. Si tratta, tra l’altro, di pericolosi
repubblicani, come se non bastasse guidati da un pericolosissimo Garibaldi. All’inizio anche la Francia è perplessa. Sono 2500 uomini, tra cui anche molti
non italiani, con una divisa francese che nasconde la camicia rossa. Dopo un
lungo addestramento, il 21 dicembre la Legione riceve il battesimo del fuoco tra
le colline dell’Argonne. Nella prima giornata cadono a dozzine. Il 26 dicembre
muore anche Bruno, il fratello di Peppino.
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Il mistero Salandra
Il presidente del consiglio continua a tenere il paese all’oscuro delle sue
intenzioni. E il paese, diligentemente, lascia fare, senza porre domande. Si fida
ciecamente. Gli unici che vorrebbero capire sono i socialisti. Resteremo neutrali?
Cosa stiamo dicendo nelle capitali europee? Perché l’aumento delle spese
militari? Dal governo nessuna risposta. Dal lato opposto gli interventisti
premono per spingere Salandra a dichiarare la fine della neutralità. Ma
insomma, nell’ora suprema della storia europea, l’Italia vuole restare fuori?
Quando diventeremo grandi? Crediamo davvero che l’Austria ci regalerà Trento
e Trieste senza combattere? Nessuna risposta dal governo.
La grande maggioranza governativa, formata da deputati ignavi, giornalisti,
industriali e banchieri, si piazza al centro del dibattito e soffoca ogni discussione
seria. Il governo sa, il governo ha le informazioni, il riserbo è essenziale, le
trattative sono delicate, la diplomazia si conduce con discrezione, non nelle aule
parlamentari. I giornali commentino, se vogliono, c’è libertà di stampa, ma
lascino fare il presidente del consiglio e il suo fido alleato il ministro Sonnino.
Quanto alle masse, il governo sta lavorando per loro, per dargli un’Italia più
grande e più bella. Per la nostra epoca tutto ciò è inconcepibile ma questa era la
normalità nel 1914 e non solo in Italia. Una delle cose che la Grande Guerra
seppellirà sarà proprio la segretezza della diplomazia. Le guerre non sono
cessate da allora, purtroppo, ma almeno sappiamo perché vengono scatenate.
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Per cui, quando il 3 dicembre riapre il Parlamento dopo cinque mesi di
vacanza, l’obiettivo della maggioranza è quello di evitare dibattiti, imbavagliare
l’opposizione e richiudere la Camera appena possibile. Il governo ha esercitato
discrete pressioni affinché i deputati iscritti a parlare rinuncino. Il popolo italiano
ha il dovere di morire per la grandezza d’Italia ma non il diritto di chiedere
perché.
Il giorno della riapertura della Camera una gran folla assiepa la spianata di
Montecitorio. Eleganti signore sfoggiano i vestiti alla moda dalle tribune
riservate al pubblico. Ci sono magistrati, militari, membri della dinastia. Tutti i
deputati sono presenti alle 14 quando il presidente della Camera Giuseppe
Marcora apre la seduta. Dopo cinque minuti entra Salandra, seguito dai suoi
ministri, tutti in redingote nera, l’abito delle occasioni solenni. Nell’aula
chiacchierona piomba il silenzio. Si sa che le comunicazioni del governo saranno
brevissime. Salandra non delude le attese. Il suo discorso dura in tutto venti
minuti e sostanzialmente dice una sola cosa, decido io quello che è giusto per
l’Italia. Quale sia l’interesse nazionale, Salandra non lo dice. Il governo non
pone obiettivi, non spiega come ottenerli, non ritiene che gli italiani debbano
essere motivati a capire una decisione. Le parole chiavi sono neutralità operosa e
guardinga, armata, pronta ad ogni evenienza. “Ove cessi l’impero del diritto”
resta solo la forza. L’Italia è pronta.
In mezzo al discorso accade però che Giuseppe De Felice, deputato catanese
del gruppo dei socialisti riformisti, favorevoli alla guerra contro l’Austria, gridi
“Viva Trieste italiana!” seguito da moltissimi deputati. Salandra e ministri
rispondono col gelo. Ecco il tipo di scena che rischia di creare inutili problemi
con l’Austria. Alle 14.30 Salandra ha finito. Si appella all’unità del paese e alla
concordia nazionale, scatenando un tripudio di entusiastiche grida di “Viva
l’Italia”. Fragorose invocazioni in favore del Belgio. I deputati si alzano in piedi.
Tutti, tranne i socialisti. Anche Giovanni Giolitti resta seduto ma applaude. Al
vecchio notabile piemontese tutti questi sfoghi patriottardi devono sembrare
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fuori luogo. Forse perché lui è uno dei pochi a sapere che l’Italia non è pronta ad
una guerra. E in mente ha una piccola mossa che potrebbe scatenare la Camera.
Due giorni dopo, Giolitti si iscrive a sorpresa a parlare. Racconta che nel
luglio 1913 il governo italiano aveva impedito all’Austria di lanciare una guerra
preventiva contro la Serbia. La rivelazione ha un effetto dirompente. Con poche
parole Giolitti ricorda a Salandra (che non era stato informato dell’iniziativa) chi
comanda in Parlamento, critica implicitamente Salandra per non aver agito con
uguale vigore in luglio per impedire l’aggressione. Inoltre, mette in mora
l’Austria. Vienna non si può lamentare che l’Italia sia rimasta neutrale. Anche
tra le grandi potenze le scorrettezze si pagano.
La Camera approva a larghissima maggioranza (493 a 49, contrari solo i
socialisti) un ordine del giorno che conferisce al governo piena libertà d’azione.
Così facendo, la Camera abiura alle proprie responsabilità. La radice
dell’intervento imposto contro il volere della nazione è anche in questa rinuncia
alle proprie responsabilità. Il 10 i deputati approvano l’esercizio provvisorio fino
al 30 giugno 1915 e il giorno successivo votano a favore dell’aumento delle spese
militari: 1,2 miliardi di lire. Quanti soldi sono? Proviamo a capirlo. Il bilancio
dello stato nel 1914 è di 4,5 miliardi di lire. La spesa per la difesa, già la
principale voce di spesa, passa al 46% delle spese statali.
Subito dopo (12 dicembre), esausto per lo strenuo lavoro, la Camera va in
vacanza. I deputati si danno appuntamento al febbraio 1915. Inutile il tentativo
dei socialisti di continuare i lavori.
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Discreti sondaggi diplomatici.
Rinfrancato dallo scontato successo parlamentare, Salandra può ripresentarsi
a Vienna col cappello in mano. Il 9 dicembre iniziamo le trattative per ottenere i
famosi compensi territoriali che ci spettano, a norma di trattato, in caso di
modifica dell’assetto nei Balcani. Ora, anche se l’Austria ha occupato Belgrado,
spingendo la Serbia verso una sempre più probabile capitolazione, la guerra non
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è finita, per cui una qualunque persona sana di mente si chiederebbe: ma cosa
chiediamo a bocce ancora in movimento? Forse, è proprio perché la guerra nei
Balcani sembra prossima alla conclusione, che ai nostri dirigenti viene la fregola
di terra altrui. Salandra e Sonnino si muovono nel mondo della diplomazia col
puntiglio dell’Azzeccagarbugli e la volgarità di un parvenu. Vienna,
comprensibilmente, recalcitra. Volete Trento? State pazziando! E non vi basta!
Volete pure Trieste, il porto dell’Impero?
A Berlino, però, sentono odore di bruciato. Sanno benissimo con chi hanno a
che fare: i Savoia non hanno mai rispettato la parola data. La Germania non ha
motivi di attrito con l’Italia. La sua influenza commerciale e finanziaria è forte,
le élite italiane sono legate a quelle tedesche, ma capisce che se l’Austria non
cede qualcosa, l’Italia rischia di passare al campo avversario. Per questo
Gugliemo II decide di sostituire l’ambasciatore a Roma, richiamando dalla sua
dorata pensione il principe Bernhard Von Bülow.
Breve descrizione di Von Bülow. Ex ambasciatore a Roma, poi ministro degli
esteri e cancelliere imperiale, sposato con la principessa Maria Anna Beccardelli,
fu uno dei responsabili della politica di riarmo di inizio secolo che portò la
Germania verso un pericoloso militarismo nutrito dalla retorica espansionista. A
riposo dal 1909, venne richiamato per una missione di cui fu chiara fin
dall’inizio la natura: impedire l’intervento dell’Italia convincendo l’Austria a
lasciare alcuni territori all’Italia.
La missione Von Bülow è una svolta chiave nei complessi passaggi diplomatici
che portarono all’intervento nel maggio 1915. Una speranza di pace, per chi
volle scongiurare fino all’ultimo la guerra, un’orribile disonorevole mercato per
chi voleva incrociare le armi. Come se Salandra e Sonnino non stessero facendo
esattamente questo: offrire l’Italia al migliore offerente, in spregio ai patti
decennali, all’onore e alla dignità di una nazione. Intorno a Von Bülow si
scatenerà la propaganda interventista. Ogni sua mossa spiata, valutata,
soppesata. E temuta. Von Bülow è un personaggio di altissimo profilo, la cui
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parola è ascoltata con rispetto a Roma come a Berlino. Andrà vicino al
compimento della sua missione.
L’uomo politico parte dalla Germania con un treno speciale imperiale,
accompagnato dalla moglie e da dieci persone di servizio. Si ferma alla stazione
di Milano dove ordina la cena. Arriva la mattina del 17 a Roma, va a vivere a
Villa Malta, una sua proprietà nel cuore di Roma, celebre per aver ospitato in
passato artisti e scrittori tedeschi, tra cui Goethe, e per essere stato teatro a metà
settecento dell’arresto del Conte di Cagliostro. Villa Malta diventa
immediatamente un centro di attrazione per il mondo diplomatico e politico
romano. Il 18 l’ambasciatore tedesco vede Sonnino, che gli dice che l’Italia
sarebbe rimasta neutrale solo con la cessione del Trentino e di Trieste,
successivamente, il giorno dopo incontra Salandra. Von Bülow spiega
chiaramente l’impossibilità per l’Austria di cedere Trieste. Nel frattempo prosegue la campagna interventista. L’11 si costituisce a
Milano il fascio interventista. Ci sono De Ambris, Mussolini, Michele Bianchi,
Aurelio Galassi. Mussolini iracondo: “vogliamo l’intervento immediato. Il signor
Bülow arriva col Trentino in tasca. No, noi non patteggiamo la viltà. Basta con
questa aspettativa sorniona!” Mussolini forgia la frase ad effetto “guerra oppure
rivoluzione”, minaccia che sarà abilmente usata dal governo Salandra nei mesi
successivi, per giustificare l’inevitabilità dell’intervento. Mussolini stringe
amicizia con un altro futuro amichetto del fascio rinnovatore dei fasti d’Italia:
Italo Balbo, già comparso durante la Settimana Rossa, che farà da guardia del
corpo a Cesare Battisti.
L’altro invasato dell’epoca, Gabriele D’Annunzio, invece, è ancora a Parigi.
Freme per tornare in Italia ma aspetta il momento giusto. Nel frattempo, sempre
con i soldi degli altri, cambia casa. Si sposta nel vecchio ed elegante quartiere del
Marais. “Cinque stanze, splendidamente arredato, con boiseries, una collezione
d’armi, una di strumenti musicali, una biblioteca musicale, una serie di statuette
riproducenti divinità orientali.” Spende ancora un mucchio di denari per
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riempirla di tendaggi e addobbi. Al suo servizio ci sono la vecchia cuoca Victoire
e la giovane cameriera Amélie-Aélis, che non si limita a rassettargli le lenzuola.
C’è anche chi ragiona. Aldo Palazzeschi rompe con futuristi, interventisti e
nazionalisti. Su Lacerba appare un suo articolo in cui lo scrittore denuncia il
militarismo. “Mi offrite una guerra che ha per mezzo la morte e per fine la vita,
io ve ne domando una che abbia per mezzo la vita e per fine la morte.”
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Natale con i tuoi e con gli altri.
A Natale truppe italiane sbarcano a Valona minacciata dall’insurrezione
filoturca. I soldati italiani passano da 300 a 6.800. Decisione del re e
di
Sonnino, un modo per mettere un piede più fermo nell’inquieta Albania e
aiutare i parenti montenegrini. Cadorna critica la decisione, errata dal punto di
vista militare perché disperde le forze.
Il 7 dicembre Papa Benedetto XV propone una tregua natalizia. All’inizio
sono favorevoli Inghilterra, Belgio, Germania ed Austria. La Turchia risponde
positivamente. La Russia propone che la tregua si estenda al Natale
ortodosso. La Francia anticlericale e invasa dai tedeschi non ci sta. Il tentativo
fallisce. In compenso, in molti settori del fronte, a cavallo del Natale, i soldati
francesi, inglesi e tedeschi osservano una tregua informale, con scambio di
auguri e di piccoli doni, e perfino alcune partite di calcio, di cui sono rimaste
alcune foto. Una cosa che verrà duramente osteggiata dai comandi e che non si
ripeterà più negli anni successivi.
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Sperduti nel buio
In questi giorni freddi e piovosi è il momento giusto per andare al cinema.
Purtroppo solo in pochi staccano il biglietto per la nuova pellicola di Nino
Martoglio “Sperduti nel buio”, con Giovanni Grasso e Virginia Balistrieri.
Eppure questo è un film che fa parte della storia del cinema italiano. Di che
parla? È una vicenda strappacuore, un confronto tra miseria e nobiltà. Paolina è
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la figlia illegittima del Duca di Venezia. Vita grama, di espedienti, a contatto con
la malavita, ma ovviamente Paolina rimane illibata ed onesta. La ragazza
conosce Nunzio, suonatore cieco sfruttato, che la difende da lenoni e poliziotti,
finché i due non decidono di scappare assieme, mentre il Duca cerca inutilmente, pentito, la figlia scomparsa. In contrasto con la produzione di commediole, drammoni borghesi e peplum storici, “Sperduti nel buio” è considerata la
prima opera del neorealismo italiano. Purtroppo del film si trovano solo dei
fotogrammi, perché l’unica copia conservata a Cinecittà andò perduta durante
la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi trafugarono le attrezzature
cinematografiche da Roma per portarle nella Repubblica di Salò. Questa
piccola storia è narrata in un documentario e in un sitoweb.
Il 26 dicembre nasce Maria Francesca Anna Romana di Savoia, quinta ed
ultima figlia del re, che non lascerà grandi tracce nella storia. Grazie a questo
atto, il re promulga un’amnistia di cui beneficiano i ferrovieri scioperanti della
scorsa estate e quasi tutti i partecipanti alla Settimana Rossa. Restano esclusi solo
gli omicidi e i recidivi. Pietro Nenni esce dal carcere e subito riprende l’attività
sovversiva sul giornale “Lucifero”, da lui diretto, stavolta per invocare
l’intervento contro Austria e Germania.
Il 28 dicembre ricorre il sesto anniversario del terremoto di Messina. La
ricostruzione della città non è neppure cominciata. Messina è ancora
un’immensa baraccopoli, formata da quartieri di legno costruiti dalle istituzioni,
nazioni o persone che l’avevano edificati (il quartiere svizzero, il Regina Elena,
l’americano). A fine 1911 le autorità avevano emanato il nuovo piano regolatore
ma i lavori non erano partiti per problemi burocratici e mancanza di fondi. La
guerra bloccherà tutto. La ricostruzione terminerà solo poco prima della
seconda guerra mondiale. Le baracche ci sono ancora e vi abitano i discendenti
dei superstiti, cento anni dopo in condizioni penose.
L’anno si chiude con la nomina di un gruppo di senatori, tra cui Guglielmo
Marconi.
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Cesare Battisti con la famiglia. Il deputato socialista trentino lanciò fin
dall’agosto 1914 una campagna per le terre irredente.
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GENNAIO 1915
L’inverno non ferma le armi
Si continua a combattere nelle trincee fangose delle Fiandre. Il 19 gennaio gli
zeppellin tedeschi compiono i primi e sconclusionati bombardamenti aerei della
storia dell’umanità, scatenando un’inutile ma sanguinosa tempesta di bombe
sulla cittadina di Great Yarmouth, nella parte occidentale dell’Inghilterra. Il
risultato sono venti morti tra i civili, un altro passo in avanti sulla strada che
condurrà rapidamente a Guernica, Coventry, Dresda e Hiroshima. Risultati
militari nulli, un colpo propagandistico per l’Intesa che alimenta i generali
sentimenti di riprovazione verso la Germania.
In mancanza di progressi sui fronti terrestri, i contendenti cercano di
annichilirsi per vie trasversali. I tedeschi iniziano anche la guerra sottomarina
con lo scopo di affamare l’Inghilterra. Sul fronte occidentale si susseguono
scontri di limitata importanza, nell’attesa del bel tempo. Anche il fronte orientale
è statico, mentre più ad est i russi infliggono perdite considerevoli agli ottomani
sul Caucaso. I turchi attaccano il canale di Suez ma non riescono a superare le
linee inglesi. Dal punto di vista italiano le rinnovate pressioni di Austria e
Germania sulla Romania, i movimenti della Bulgaria e i continui disordini in
Albania fomentati da Austria e Ottomani mettono in difficoltà la nostra
posizione nel Mediterraneo orientale. L’Adriatico è un mare pericoloso per la
navigazione. All’inizio di gennaio il piroscafo Varese urta una mina e affonda
nelle acque intorno a Pola. Dei venti uomini dell’equipaggio se ne salva solo
uno. In Libia fronteggiamo a fatica la rivolta araba. Non ci si può fidare neppure
delle truppe locali. Nella zona di Socna (Fezzan) un gruppo di truppe libiche
diserta, seguono duri scontri che portano all’uccisione di 100 ribelli e a 16 feriti
italiani.
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Stare fuori dalla guerra è sempre più difficile.
Non aiuta la poca chiarezza negli obiettivi del re e del governo. Cosa
vorremmo dall’Austria in cambio della neutralità? Sicuramente il Trentino ma
dove collocare la frontiera? Il Brennero è il confine naturale ma ciò significherebbe annettere territori in maggioranza tedesca. Che fare di Trieste? Impossibile che l’Austria se ne privi. Difficile anche mettere le mani sulla costa
dalmata, dove la presenza italiana è limitata a poche città, a meno di non
alienarci la Serbia. Ad ogni modo, nonostante le abili manovre dell’ambasciatore
tedesco a Roma Von Bülow. l’Austria non intende trattare. Tedeschi ed austriaci
hanno interesse a prolungare quanto più possibile le trattative con l’Italia, in
modo da arrivare alla primavera, quando si spera di lanciare l’offensiva finale
contro la Francia, che chiuderà ogni discussione su chi è il più forte.
Il 9 gennaio il Barone Alliotti, ambasciatore in Albania, giunge a Roma per
conferire sulla situazione nel paese delle aquile. L’Italia ha occupato a Natale la
città di Valona e sostiene il primo ministro Essad Pascià nel suo sforzo di
riprendere il controllo del paese dai ribelli filoturchi che controllano Tirana e
premono su Durazzo e dalle bande filogreche che scorrazzano nel sud. L’Italia
cerca un’intesa con la Grecia i cui rapporti con la Turchia vanno peggiorando.
Tutti i Balcani sono in movimento.
Le linee di frattura nel Mediterraneo orientale sono abbastanza chiare e
spingono sempre più l’Italia nel campo dell’Intesa. Eppure, non siamo pronti né
militarmente né politicamente a rompere con l’Austria. Il gioco diplomatico è
delicatissimo. Ci vorrebbero persone all’altezza ma siamo governati da gente
mediocre.
Il primo dei mediocri è il sabaudo inquilino del Quirinale.
Papini rischia il vilipendio al re con questo velenoso ritratto di Vittorio
Emanuele pubblicato su Lacerba di gennaio. “Povero Vittorio! Basso di statura e
sempre in bassa tenuta da generale, par fatto apposta per rammentare la
mediocrità e la miseria del paese dove regna (…) Oggi il nostro re è più infelice
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che mai. Alle noie dell’etichetta, ai mille doveri di cerimoniale, all’isolamento
morale da cui lo salva appena la più vicina famiglia, alla fatica di dover leggere e
conoscere un’infinità di cose di cui farebbe volentieri a meno, alle
preoccupazioni per il malcontento del paese che ogni tanto minaccia di mettere
in pericolo il suo posto, alle difficoltà di raccapezzarsi fra uomini, partiti e
correnti di opinione, sono venuti ad aggiungersi altri più lancinanti pensieri.” Un’analisi feroce. Papini ha azzeccato qual è l’unica preoccupazione di
Vittorio Emanuele III, la salvezza della dinastia, a costo di mettere a rischio
l’Italia. Una politica che il Vittorio seguirà da oggi fino all’otto settembre.
Mentre l’Italia tentenna rigorosamente nella scelta della neutralità, gli italiani
che hanno seriamente preso le armi si rifanno sotto. Il comando francese schiera
la legione garibaldina per la seconda volta nelle Argonne. Il 5 gennaio le truppe
attaccano con valore i tedeschi a Four-de-Paris, subendo gravi perdite tra cui
Costante, un altro fratello di Peppino Garibaldi. Il rientro della salma
di Bruno Garibaldi in Italia, caduto nel giorno di Santo Stefano, è occasione per
gli interventisti per fare propaganda contro la neutralità. Il Ministero dell’interno
sorveglia e proibisce ogni manifestazione.
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I divertimenti italiani
Si ride poco in Italia. Il governo vigila che non si parli troppo di neutralità ed
interventismo, soprattutto negli spettacoli popolari. L’8 gennaio la commissione
censura del ministero dell’interno vieta la rappresentazione dei film con
Fantomas e Roncambole, due popolari figure francesi di criminali, più o meno
gentiluomini, più o meno crudeli. Vallo a capire perché. Forse perché entrambi
irridono l’autorità? Per non fornire alle masse modelli criminali? Contemporaneamente la censura proibisce di utilizzare negli spettacoli le divise francesi.
In precedenza erano state proibite le uniformi italiane.
In pieno inverno di divertimenti ce ne sono pochi. A gennaio riprende il
campionato di calcio con i gironi semifinali dell’Alta Italia. Sedici squadre divise
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in quattro gironi. Accede al girone finale unico la prima di ogni gruppo. Al
termine delle prime tre giornate sono in testa a punteggio pieno Genoa e Torino,
che stanno dominando (il Genoa ha stritolato la Juventus per 4-0). Il Milan è a
punteggio pieno ma non convince troppo, mentre l’Internazionale, dopo un
avvio scoppiettante (16-0 al Vicenza) ha rovinato tutto a Genova perdendo 4-3
con l’Andrea Doria. Il risultato è che il girone D è incerto, con tre squadre
ancora in corsa: Inter, Juventus Italia e Andrea Doria.
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Un altro disastro naturale
Sulle montagne abruzzesi l’inverno è normalmente lungo e gelido. Anche
nella fertile piana del Fucino, che sta vivendo un boom agricolo ed industriale
dopo il prosciugamento del lago ad opera dei Torlonia una quarantina d’anni
prima. Con una posizione eccellente, ben collegata con Roma e Pescara da
buone strade e dalla ferrovia, Avezzano è una delle poche città del mezzogiorno
in crescita. Il censimento del 1911 ha contato 15.233 abitanti, più del doppio
rispetto al momento dell’Unità. Le case sono state costruite in fretta, senza
badare ai materiali, con cementi scadenti, per alloggiare i molti coloni venuti
dalle Marche e dalla Puglia. Alle 7,48 del 13 gennaio la terra trema. Raggiunge
l’undicesimo grado della scala Mercalli o magnitudine 7 nella scala Richter. È
uno dei peggiori terremoti della storia italiana, secondo per intensità solo a
quello di Reggio e Messina del 1908. Colpisce in pieno Avezzano e i paesi
intorno, fino al Lazio meridionale. Provoca danni anche a Roma. In pochi
secondi le gracili strutture di Avezzano sono spazzate via, seppellendo sotto
cumuli di macerie migliaia di persone.
Le notizie del disastro arrivano lentamente nella capitale a causa
dell’interruzione del telegrafo. Il governo non si rende conto della gravità della
situazione anche se già nella mattina delibera i primi limitati soccorsi che
arriveranno solo all’alba del 14. Nonostante la catastrofe del 1908, lo stato non
ha strutture per gestire simili emergenze. Ci si affida all’esercito ma, come al
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solito, senza dotare i soldati dei mezzi necessari. I militari hanno fucili e
baionette ma neanche una vanga e una pala. Le prime essenziali 24 ore passano
invano. Avezzano è stata completamente rasa al suo suolo: sparite le chiese, il
castello, le fabbriche. L’inviato de La Stampa nota che “una casa sola si è salvata
interamente, senza una crepa; è un edificio nuovo di cemento armato (…) Oltre
a questa piccola casa, tutto il rimanente si è sfasciato. Avezzano è, ora, senza
case e senza strade. Le case sono precipitate nelle strade e le hanno colmate
come d’un diluvio pietrificato (…) Sembra che il disastro si sia compiuto perché
la calce si è disfatta, si è polverizzata. Le grosse pietre di cui la città era costruita,
rimaste senza legamento, all’urto della mia lieve forza sono crollate. Il tragico
prodigio non pare sia stato quello della formidabile furia che ha squassato la
città, ma del malvagio incantamento che ha reso polvere la calce che cementava
le case. Così ne è avvenuta come una liquefazione dell’intera città (…)”
Oltre a gran parte della popolazione, sono annientate le istituzioni; muoiono
autorità civili, carabinieri, soldati, medici. Pochi superstiti si aggirano tra le
rovine al freddo, senza cibo, acqua, assistenza. I sepolti vivi gridano disperati da
sotto le macerie, sperando in un impossibile soccorso. Il 14 mattina il re giunge
ad Avezzano con un treno speciale, cerca di portare conforto e qualche aiuto ai
superstiti che lo accolgono con affetto. Si porterà indietro con il treno 40 feriti
gravi, una goccia nel mare del bisogno di questi giorni. Nel pomeriggio arrivano
altri soldati con migliori attrezzature ma sempre insufficienti. Sono passate 36
ore dal sisma. I comuni della Marsica duramente colpiti restano senza alcun
aiuto per giorni.
I giornali sono pieni di giuste critiche per l’impreparazione dello stato. Si
sottolinea che Avezzano è una città ben collegata al resto d’Italia, a tre ore di
auto e treno da Roma. Si segnalano deficienze di ogni tipo: i soldati fermi sui
binari delle stazioni per far passare i treni delle autorità, la mancanza di mezzi,
tende, viveri, legname per costruire le baracche. I soldati di leva si distinguono
per abnegazione. Anche i medici sopravvissuti si sforzano di aiutare i feriti, nel
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L’anno prima della guerra
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gelo pungente dell’inverno.
Se lo stato è deficiente, non manca la solidarietà nazionale. È gara tra i
cittadini e i comuni italiani per offrire soccorso agli abruzzesi. Le sottoscrizioni
dei giornali raccolgono in pochi giorni molte centinaia di migliaia di lire.
Arrivano volontari da tutta Italia. Il 17 le lampade a petrolio offerte dal comune
di Roma tornano ad illuminare le rovine di Avezzano. Si moltiplicano le
iniziative di solidarietà, le serate di beneficenza, gli spettacoli pro-terremotati. Il
governo respinge però le offerte di aiuto provenienti dagli USA, accampando la
scusa della situazione politica attuale. Non si capisce il motivo, a meno che non
si tratti di malcelato orgoglio nazionale.
Dopo 4 giorni viene salvata Esterina Sorgi che ha partorito tra le macerie,
dopo essere precipitata dal quarto piano alla cantina. Ha fatto tutto da sola,
tagliando il cordone ombelicale con i denti, tenendo il bambino nudo attaccato a
sé per scaldarlo, pur non potendolo nutrire. Quando i soldati arrivano da lei, le
chiedono di passare il bambino ma lei rifiuta e pretende di essere estratta insieme
a lui.
Dal 21 le condizioni peggiorano. Una bufera di neve investe l’Abruzzo,
ostacolando per giorni gli spostamenti ed interrompendo le comunicazioni
telegrafiche. Gli aiuti sono insufficienti. La costruzione delle baracche va a
rilento. La fame spinge i lupi a valle. Alcuni si spingono fino al municipio
provvisorio di Avezzano. Un gruppo di deputati vorrebbe parlare con Salandra
per dare qualche suggerimento al governo ma Salandra li fa aspettare per 24 ore
e non manca di fare inutile polemica. Né nei giorni successivi lo stato mostra
maggiore sensibilità. Stanzia 30 milioni per le città colpite e silura il Direttore
generale delle ferrovie statali, comm. Bianchi, unica vittima sacrificale dei
problemi avuti con le ferrovie dopo il terremoto. Alla fine i morti saranno oltre
30 mila, 9.238 vittime solo ad Avezzano, l’80% della popolazione. Chi visita oggi
la città, trova una pianta regolare con case ad un solo piano, senza alcun edificio
antico.
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L’anno prima della guerra
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Pane e lavoro!
Invece di pensare ad una guerra complicata, Salandra potrebbe occuparsi
delle deficienze dell’economia italiana. Come in altri paesi europei, il pane
continua a rincarare a causa della guerra e della speculazione eppure, sottolinea
La Stampa, in Italia il suo prezzo cresce più velocemente che altrove. Il pane
come la benzina oggi. Un quintale di grano costa 33 lire a Marsiglia e 38 lire a
Genova. Perché queste 5 lire di differenza? Secondo il quotidiano torinese, 3 lire
sono il dazio, ridotto solo in parte nei mesi scorsi per evitare di danneggiare i
latifondisti meridionali sostenitori di Salandra, ma le altre 2 lire sono causate
dall’inefficienza dei trasporti. Il porto di Genova è congestionato, l’organizzazione è carente in ogni settore. Il governo prende provvedimenti più seri solo
quando cominciano le prime manifestazioni di piazza, prima a Catania, dove ci
scappa un morto, poi in altre località della Sicilia e della Puglia, a Siena, Firenze
e Bergamo.
Il consiglio dei ministri del 30 abolisce il dazio sul grano, almeno fino al 30
giugno. Vengono ridotti i noli marittimi e ferroviari e disposte altre misure per
facilitare lo stoccaggio del grano nei depositi statali. Nonostante l’ottimismo del
governo, le incognite sono molte. Mancano ancora 600mila tonnellate di grano
per arrivare al raccolto dell’estate.
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C’è chi vuole la guerra
Il Popolo d’Italia di Mussolini si va affermando nel paese come la rivista
dell’interventismo. Mussolini rompe con Filippo Naldi, il direttore del Resto del
Carlino, che lo aveva aiutato a reperire i fondi iniziali. Pare che Mussolini abbia
trovato altre fonti di finanziamento, stavolta in Francia. Ad ogni modo il giornale
va bene, anche se rimane confinato alle zone urbane e al nord d’Italia. Nelle
campagne e nel mezzogiorno, la sua influenza è zero.
Cesare Battisti continua il suo tour pro terre irridente. Il 13 gennaio è a
Milano in cui tiene un discorso intitolato “L’italianità del Trentino e
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L’anno prima della guerra
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l’irredentismo italiano”. Chissà se Battisti ha mai chiesto direttamente ai trentini
e ai triestini cosa ne pensano davvero?
Il 18 il PSI vota a Firenze una mozione a favore della neutralità italiana nel
conflitto europeo, che viene appoggiato dalla CGdL. Il problema, però, è cosa
fare in caso il governo decida l’intervento? Appoggiare, sabotare o stare zitti? I
radicali chiedono lo sciopero generale ma i più saggi, come Turati, fanno capire
che il partito non avrebbe le forze per impedire la guerra e che si rischierebbe di
consegnare l’Italia agli austriaci. Turati fa queste importanti dichiarazioni di
presa della realtà il 28 a Milano.
Il 24 si tiene il primo congresso dei Fasci interventisti. Mussolini è presente
con il suo solito discorso pieno di foga. L’ordine del giorno finale chiede al
governo di denunciare immediatamente la Triplice Alleanza.
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Addio alle armi (calcistiche)
Domenica 31 si svolge la prima e purtroppo ultima partita della nazionale
prima della guerra. È rimasta solo la Svizzera a svolgere attività sportiva internazionale. Si gioca a Torino, in una giornata soleggiata ma gelida. Lo stadio non è
pieno come in altre occasioni, a causa del freddo e forse della crisi economica. Il
campo è gelato e cumuli di neve appena spalata sono accumulati appena fuori
del rettangolo di gioco. In compenso alle 15, quando si comincia, splende il sole.
In rosso con croce bianca gli svizzeri, in azzurro gli italiani. Arbitra Pasteur,
francese, abbastanza corretto, dato che sbaglia sia a favore dell’una che dell’altra
squadra. Alla prima azione italiana, il difensore Duriaux manda la palla nella
porta svizzera. Al 10° un fortissimo tiro di Compte s’insacca nella rete senza che
il portiere del Brescia Trivellini possa fare nulla. Dopo un alternarsi di azioni
delle due squadre, al 40° di nuovo Duriaux commette un fallo sanzionato con la
massima punizione. Segna l’interista Luigi Cevenini, all’esordio tra gli azzurri. Il
fratello Aldo Cevenini, anche lui all’Inter, segna di testa il terzo gol. Meritata
vittoria italiana, cresciuta in ogni reparto nei pochi anni della sua storia.
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Avezzano rasa al suolo. Il terremoto della Marsica è stato il secondo più
disastroso della storia italiana, dopo quello di Reggio e Messina.
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FEBBRAIO 1915
Guerra in terra, in aria, sotto il mare
Nessuno può chiamarsi fuori dalla guerra. Anche i civili devono dare il loro
contributo di sangue. Se la marina britannica ha imposto il blocco navale per
affamare i tedeschi, la Germania risponde scatenando un’indiscriminata guerra
sottomarina. In una giornata gli U-boot di Guglielmo II affondano cinque
mercantili inglesi. Led Zeppellin e aerei solcano gli orizzonti, aprendo nuovi
campi di battaglia, ma il peso della guerra ricade sulla fanteria a cui spetta
l’orribile compito di districarsi tra i campi minati e i reticolati per raggiungere le
trincee nemiche. Il fronte occidentale è statico, mentre in quello orientale i
tedeschi passano all’offensiva nel pieno di una tempesta di neve il 7
febbraio. Avanzano di quasi cento chilometri in una settimana senza però
distruggere la capacità di resistenza dei russi. Francesi e inglesi si preparano a
forzare i Dardanelli, attraverso i quali potrebbero stabilire un collegamento
diretto con la Russia ed infliggere un colpo strategico decisivo agli Imperi
centrali. Gli alleati iniziano i bombardamenti navali il 17 febbraio. All’inizio
fanno rapidi progressi, distruggendo i forti di accesso agli stretti turchi e
permettendo lo sbarco a gruppi di marines inglesi ma il brutto tempo impedisce
grandi progressi. L’Italia invece continua ad essere duramente impegnata in
Libia. Le notizie che filtrano sui giornali sono preoccupanti. Le colonne italiane
sono esposte a durissimi attacchi da parte dei ribelli. Il nuovo governatore della
Tripolitania, generale Tassoni, dà l’ordine alle basi interne di ripiegare verso la
costa.
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Chiacchiere e manovre politiche.
Le trattative con Austria e Germania sono in stallo. I tedeschi premono sugli
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L’anno prima della guerra
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alleati austriaci affinché si dimostrino concilianti. A metà febbraio l’Italia non ha
ancora ottenuto una risposta chiara da Vienna. I negoziati diplomatici sono
segretissimi, il governo tace e in questa atmosfera di silenzio, trionfano le
chiacchiere. Qualche notizia filtra sui giornali, astutamente manipolati dai
governi per cercare di mettere pressione sugli altri con il gioco dell’oltraggio
all’opinione pubblica.
Mentre Salandra fa mostra di mutismo, Giolitti, che non è a conoscenza delle
trame del trittico Salandra-Sonnino-Vittorio Emanuele, espone pubblicamente il
suo pensiero che, almeno in questa fase, è allineato a quello del governo. Si tratta
di una lettera inviata il 24 gennaio da Giolitti ad un amico, il deputato Camillo
Peano, che l’influente giornale La Tribuna pubblica il 2 febbraio. È un
incoraggiamento ad andare avanti con le trattative con l’Austria. Ravviva le
speranze dei neutralisti, incensa gli interventisti.
“Io considero la guerra non come una fortuna, ma come una disgrazia, la
quale si deve affrontare solo quando sia necessario per l’onore e i grandi interessi
del Paese.” Giolitti è realista: la guerra non si fa per aiutare gli altri popoli. “Non
credo sia lecito portare il Paese alla guerra per un sentimentalismo verso gli altri
popoli. Per sentimento, ognuno può gettare la propria vita, non quella del
proprio Paese.” Ma allora, quando sarebbe lecito e necessario entrare in guerra?
“Quando necessario, non esiterei ad affrontare la guerra e l’ho provato.” E poi la
frase che tante critiche gli valsero dagli ambienti nazionalisti, “potrebbe essere e
non apparirebbe improbabile che nelle attuali condizioni dell’Europa, parecchio
possa ottenersi senza una guerra.” Cosa significhi questo parecchio Giolitti non
lo dice ma è sufficiente per marchiarlo come un infame sensale dell’onore italico.
L’Italia barcolla tra “il sacro egoismo” e il “parecchio”. Non molto esaltante
per una grande potenza ma le idee di Giolitti sono ispirate ad un sano senso
della realtà.
Essendo questa l’Italia, ogni polemica si nutre di dietrologia. Giolitti parla per
sé o a nome di Salandra?
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L’anno prima della guerra
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I giornali prendono posizione. Accanto al Corriere della Sera, interventista
della prima ora, ci sono il Resto del Carlino e molti altri giornali liberali, mentre
La Stampa, già vicina a Giolitti, conferma apertamente la sua scelta neutralista.
Il quotidiano di Torino contesta la tesi che un’Italia neutrale resterebbe isolata
nella futura Europa e sostiene che un paese giovane come il nostro debba entrare
nella più terribile guerra della storia, solo per difendere i suoi interessi vitali. Il
che rappresenta esattamente la posizione di Giolitti. Un’Italia neutrale, con le
forze intatte, potrebbe trovarsi in una posizione di maggiore forza rispetto agli
altri stati spossati dalla guerra. Già all’inizio del 1915 era infatti chiaro che la
guerra sarebbe durata ancora molto e che i vincitori saranno stati debilitati come
i vinti.
Il 13 febbraio il Giornale d’Italia, organo vicinissimo a Sonnino e Salandra
passa all’interventismo. Afferma che a primavera ci sarà lo scontro finale e
l’Italia non può restare indefinitivamente in questa situazione di incertezza.
“L’inerzia è la morte, l’azione è la vita.” Nessuno può sapere che questo
redazionale cade in un momento chiave dell’azione politica di Salandra e
Sonnino.
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I negoziati
Alla vigilia della ripresa dei lavori parlamentari il 18 febbraio si moltiplicano i
segnali di una possibile “irrevocabile decisione” da parte del governo. Un
articolo della Neue Freie Press di Vienna dice che il progetto tedesco di
convincere l’Austria a cedere territori all’Italia in cambio del non intervento è
fallito. Pochi conoscono la realtà delle cose, meno di tutti la Camera dei
deputati. Gli austriaci non intendono cedere alcun territorio, tantomeno prima
della conclusione della guerra. E forse qualche ragione ce l’hanno pure. I
tedeschi sono più flessibili. Il 12 febbraio il ministro degli esteri Sonnino scrive
agli ambasciatori a Berlino e Vienna per ordinare di interrompere le trattative e
minacciare l’Austria di conseguenze gravi in caso di azione nei Balcani. Von
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L’anno prima della guerra
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Bülow va a trovare Sonnino che gli fa un quadro molto chiaro della situazione.
La monarchia dei Savoia si regge solo sul nazionalismo italiano. Se non si dà
soddisfazione al nazionalismo il paese rischia la rivoluzione. L’alternativa è la
guerra per ottenere i giusti obiettivi nazionali. La neutralità non è più un’opzione. Con occhi che guardano dopo cento anni di distanza (ma anche con
quelli dell’epoca, pensiamo a quello che aveva appena scritto Giolitti) si tratta di
un ragionamento senza alcun fondamento. Nessuna persona sana di mente
crede ad una rivoluzione in Italia, dopo il fallimento della Settimana Rossa che
ha già dimostrato la forza dello stato sabaudo; i gruppi nazionalisti sono
assolutamente minoritari; ma il governo ha bisogno di creare un alibi
propagandistico per giustificare la futura entrata in guerra.
Pochi giorni dopo, il 16 febbraio, Sonnino autorizza l’ambasciatore a Londra
a riprendere formalmente i contatti con l’Intesa. L’Italia non si accontenta;
chiede agli inglesi il Trentino, Trieste, il Tirolo cisalpino, buona parte della
Dalmazia con le isole, una porzione dell’Impero ottomano, un trattamento equo
nella distribuzione delle colonie. Una politica imperialista che non tiene in alcun
conto della situazione politica nei Balcani né del principio di nazionalità. Né del
parere negativo di Cadorna sull’utilità militare della Dalmazia, una costa
montuosa di impossibile difesa. Non tiene conto della logica: vogliamo
distruggere l’Austria? Ci conviene far scomparire la monarchia danubiana per
ritrovarci faccia a faccia con i serbi sostenuti dai russi?
Inoltre, non va dimenticato che i trentini non hanno alcun interesse
all’annessione all’Italia. Pochi mesi prima Alcide De Gasperi, deputato al
parlamento asburgico per il Trentino, aveva dichiarato all’ambasciatore
austriaco a Roma Von Macchio che se i trentini avessero potuto votare,
avrebbero scelto al 90% di restare con l’Austria. Lo si vedrà chiaramente al
momento dello scoppio della guerra. Su 60.000 trentini richiamati, solo in 700
fuggiranno per arruolarsi sotto il tricolore.
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Lacerba pubblica la prima poesia di Ungaretti, ventisettenne, che da poco è
rientrato in Italia, dopo l’infanzia e l’adolescenza trascorse in Egitto e gli studi
universitari a Parigi. La poesia è proprio un ricordo della sua città natale,
intitolata “Il paesaggio di Alessandria d’Egitto”.
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La verdura estenuata dal sole.
Il bove bendato prosegue il suo giro
Accompagna il congegno tondo stridente.
Si ferma alle pause regolari.
L’acqua mesciuta si distende barcollante.
Si risotterra durante il viaggio.
Le gocciole attimo di gioia trattenuto
brillano sulla verdura rasserenata.
Il fellà è accoccolato nell’antro
del sicomoro ritto sulle proboscidi
che escono di terra come vermi mostruosi
col moto uguale di anelli in su e giù
stese verso terra come le braccia di Gesù.
Il fellà canta
gorgoglio di passione di piccione innamorato
nenia noiosa delizia
- Anatra vieni.
- E chi se ne frega.
- Al letto di seta colore di sfumature di poesia.
- E chi se ne frega.
- T’insegnerò la frescura di tramonto delle astuzie.
- E chi se ne frega.
- Lo possiedo duro grande e grosso.
- E chi se ne frega.
Il mio silenzio di vagabondo indolente.
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Lo scrittore piemontese Pietro Jahier, responsabile de La Voce, pubblica il
romanzo “Resultanze in merito alla vita ed al carattere di Gino Bianchi”, una
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L’anno prima della guerra
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satira del burocrate medio. “Ora, dunque essendo spuntato il giorno della
riforma burocratica inevitabile, fu constatato che vi erano dieci Direzioni, dieci
Divisioni, dieci Sezioni: e che le dieci Sezioni facevano il lavoro, e le dieci
Divisioni rifacevano il lavoro e le dieci Direzioni vigilavano a che le dieci
Divisioni rifacessero il lavoro che le dieci Sezioni facevano. Perché essendo le
dieci Divisioni risultate inutili, furon chiamate: Sezioni Principali.”
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Pane duro e freddo
Sembra incredibile l’incompetenza del governo nazionale. La penuria di
carbone e grano si fa sentire ovunque. Soffrono le industrie, si lamentano i
proletari che vedono crescere il prezzo del pane, loro principale alimento. Il
governo aveva rifiutato pochi mesi prima di acquistare il grano a 27 lire il
quintale. Oggi costa 40 lire. Le importazioni di materiali ferrosi sono crollate. La
crescita dei noli marittimi causati dal pericolo bellico, la mancanza di navi
mercantili e il perenne congestionamento del porto di Genova rendono difficili
gli approvvigionamenti di carbone. Salandra e i suoi emanano nuovi palliativi. A
partire dall’8 sono vietate quasi tutte le esportazioni di prodotti alimentari.
Restano escluse solo quelle deperibili come frutta, burro, latte, di difficile
immagazzinamento. Si fanno esperimenti nel panificio militare per produrre
pane anche con altri cereali, mais e riso. I deputati vengono invitati ad una
dimostrazione. Il pane è ottimo, dichiarano con ottimismo.
Il maltempo colpisce l’Italia in ogni regione. È inverno e a quell’epoca non si
parlava di “emergenza freddo”. E faceva davvero freddo. La neve abbondante
che cade sulle Alpi era pericolosa come oggi.
La notte del 12 febbraio una valanga si abbatte su un villaggio temporaneo di
operai a San Dalmazzo di Tenda, in provincia di Cuneo. Si contano decine di
morti. Centinaia di persone e di soldati spalano la neve in cerca di superstiti. Tra
gli operai travolti c’è Alfredo Ransi, l’unico sopravvissuto della sua famiglia al
terremoto di Avezzano. Emigrato al nord in cerca di lavoro, la sua vita si spezza
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L’anno prima della guerra
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sotto un cumulo di neve. Negli stessi giorni Roma viene allagata da una forte
piena del Tevere che esonda nel quartiere Prati, nel Borgo Vaticano (dove oggi
c’è Viale della Conciliazione) e nel Testaccio.
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Lo sport.
Gli sport invernali dominano il cartellone con i campionati di sci a
Courmayer. Ma l’attrazione del pubblico è sicuramente il campionato di calcio
giunto nel nord Italia alla fase decisiva. Nella quarta giornata dei gironi
semifinali il Torino strapazza il Pro Vercelli per 3-0 davanti a ben 4.000
spettatori, mentre il Genoa detronizza i campioni del Casale con un secco 3-0. A
fine mese, con una sola giornata rimasta, a meno di clamorose sorprese, sono
ormai qualificati Genoa, Milan, Torino ed Internazionale.
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La riapertura del parlamento.
Dopo quasi due mesi di vacanza, il 18 riapre la Camera dei deputati. Gli
interventisti si concentrano in Piazza Montecitorio per accogliere degnamente i
deputati ma vengono rapidamente dispersi da carabinieri, polizia e bersaglieri.
La polizia ha l’ordine di reprimere qualsiasi manifestazione pro o contro la
guerra. Marinetti, che proprio in quei giorni sta completando insieme a Bruno
Settimelli e Bruno Corra il “Manifesto del teatro sintetico futurista” (qualunque
cosa esso sia), viene arrestato e poi rilasciato subito dopo.
La prima seduta di Montecitorio inizia alle due di pomeriggio, e trascorre a
ricordare i morti del terremoto marsicano, i parlamentari defunti negli ultimi
due mesi e i caduti della legione garibaldina in Francia. Si passa poi alla
conversione dei decreti legge che si erano ammucchiati a prendere polvere. Il
governo risponde a qualche interrogazione minore. Si nota una differenza di
tono rispetto a dicembre. I giornalisti sottolineano un generale contegno,
maggiore riservatezza, meno ostentato patriottismo. Il governo, del resto, come
in dicembre, ha blindato i lavori. Il giorno dopo, quando socialisti e repubblicani
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L’anno prima della guerra
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tentano di forzare la mano per discutere di politica estera, il governo si oppone
col sostegno della sua maggioranza. Il socialista Marangoni chiede di discutere
del bilancio del Ministero degli esteri ma la proposta è respinta. Chiesa, per il
gruppo repubblicano, presenta una mozione chiedendo al governo di informare
il parlamento di cosa intende fare di fronte alla guerra. Salandra si oppone,
affermando che se la mozione non verrà ritirata, la risposta arriverà comunque
fra molto tempo.
I bellicosi non smettono di farsi sentire. Il leader degli esagitati debitori,
D’Annunzio, fa un discorso al banchetto interventista organizzato dalla “Revue
Hebdomadaire” di Parigi ma in quei giorni lo assillano di più i suoi problemi
finanziari. Il vate continua a spendere molto di più di quello che riceve dal
direttore del Corrierone Luigi Albertini, da Treves e dal gruppo americano
Hearst. I rivoluzionari cercano di provocare un casus belli con l’Austria.
Corridoni, Mussolini e altri complottano, in un denso sottobosco di contatti
segreti, di cui l’Ambasciata austriaca e Salandra sono bene al corrente. Il
governo userà tutti questi utili chiassosi, se e quando verrà il momento, per il
momento possono continuare a giocare alla diplomazia.
Domenica 21 viene indetta una “giornata di propaganda socialista”. In tutto
il paese i socialisti sono mobilitati contro la guerra. Le manifestazioni socialiste
attraggono una folle numerosa, nettamente superiore rispetto a quelle presenti
nelle opposte dimostrazioni a favore della guerra. Gli interventisti, inferiori in
numero ma non in voce, attaccano sistematicamente le manifestazioni
neutraliste. Alla Casa del popolo di Roma, presente il segretario socialista Lazzari, le due fazioni vengono alle mani. Si scatena una feroce battaglia a forza di
sedie in testa e pugni. Quarantacinque minuti di guerriglia e 15 feriti. Venti feriti
anche a Milano, dove i contrari alla guerra sovrastano in numero gli
interventisti, la cui unica arma di discussione è la violenza. A Firenze il comizio
del nazionalista Alfredo Rocco raccoglie un 300 persone, piccola cosa rispetto ai
1400 socialisti. Anche qui scontri con una decina di arresti. Stesse scene a
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L’anno prima della guerra
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Venezia, Ancora, Catania, Napoli.
Le manifestazioni proseguono nei giorni seguenti. Gli incidenti più gravi
avvengono il 25 a Reggio Emilia. Cesare Battisti va a chiedere la guerra per le
terre irredente proprio nel cuore del neutralismo socialista. La tensione monta in
città già dalla mattina. Studenti interventisti ed operai neutralisti sono pronti a
darsele. Le autorità impongono il numero chiuso nel teatro dove si terrà il
discorso: si entra solo per invito e pagando il biglietto. Il popolo resta fuori
dall’edificio. Nella serata avvengono i primi duri scontri davanti al teatro, poi
qualcuno estrae le armi. I colpi di fucili seminano il panico. Due ragazzi restano
uccisi e moltissimi sono i feriti. I socialisti proclamano lo sciopero e il lutto
proletario. Come reazione, il 26 il consiglio dei ministri dà ai prefetti la facoltà di
vietare i comizi, anche privati, pericolosi per l’ordine pubblico. Inutili le proteste
dei parlamentari socialisti. Su questo punto Salandra non esita a chiedere il voto
di fiducia che gli viene accordato a grande maggioranza (314 a 44). Se qualcuno
voleva usare la piazza per imporre leggi restrittive, c’è riuscito in pieno.
Protestano anche i nazionalisti per motivi opposti.
Qualche giorno dopo Battisti è a Napoli. Matilde Serao gli riserva parole di
“rara perfidia” affermando che il discorso di Battisti cade nell’indifferenza
generale, e non riesce a smuovere il pubblico, tranne “una diecina di studenti
imberbi, riformati per deficienza toracica alla visita di leva”. Battisti viene
definito “di nessuna autorità politica e morale, irresponsabile commesso
viaggiatore della più losca idea guerrafondaia, che va facendo, della sua relativa
italianità, insana e funestissima speculazione.”
Un altro animo infuocato, il futuro duce, tra un veemente articolo
interventista e qualche amorazzo fugace, schiaffeggia l’avvocato Merlino nel
corso di un processo per diffamazione. Merlino aveva accusato Mussolini
sull’Avanti! di incitare i nazionalisti senza farsi mai vedere. Come si usava allora
tra gentiluomini, il 25 mattina i due sono pronti a sfidarsi a duello. La polizia,
che tiene entrambi d’occhio, glielo impedisce. I due riescono a scontrarsi a
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L’anno prima della guerra
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mezzogiorno a suon di sciabolate. Tre assalti, conclusi con una ferita al braccio
destro per entrambi. I padrini, sentiti i medici, decidono la conclusione dello
contro. La questione si conclude con la riconciliazione tra i due.
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L’anno prima della guerra
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Giolitti divenne la bestia nera degli interventisti con il suo “parecchio”.
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L’anno prima della guerra
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MARZO 1915
Sydney & Antonio
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Ricordate il caso Belloni? Il salgariano capitano di vascello che nell’ottobre
1914 aveva rubato un sottomarino per scatenare una guerra privata contro
l’Austria? Finito a processo con accuse gravissime di mettere in pericolo la
sicurezza dello Stato, il primo marzo arriva la sentenza. Flaiano stesso non
avrebbe saputo trovare una conclusione più in linea con l’atmosfera della
penisola, farsesca anche quando si parla di cose serie. I severissimi giudici di
Sarzana, con baffoni a manubrio e toghe solenni, lo rinviano a giudizio per
esportazione di sommergibili senza autorizzazione. E basta. Come dire, svaligio
una salumeria e vengo condannato per aver mangiato per strada. Il 24 marzo
viene assolto anche da quest’ultimo reato.
Non di aver mangiato per strada, per chi non l’avesse capito.
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Torna la primavera, tornano le rondini e le offensive.
L’imminente ritorno della primavera lascia immaginare una ripresa in grande
stile della guerra sul fronte occidentale, dove poco o nulla si è mosso in questi
mesi invernali. Politici e militari sono convinti che il conflitto terminerà nei
prossimi mesi. La guerra moderna, con le sue immense perdite di vite e
materiali, non è sostenibile a lungo. O no? Il blocco navale imposto
dall’Inghilterra alla Germania infligge ai tedeschi un duro regime di
razionamento. Gli inglesi non se la cavano meglio, con le navi mercantili affondate a ripetizione dagli U-boot imperiali. In oriente gli austriaci continuano a
prenderle dai russi, che conquistano la fortezza di Przemysl nei Carpazi e
avanzano verso l’Ungheria. Una battaglia decisiva si combatte nei Dardanelli.
Continua la violenta offensiva delle marine francesi e britanniche contro i forti
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L’anno prima della guerra
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turchi disposti negli stretti. La Turchia non sembra in grado di resistere. Il
controllo degli Stretti darebbe un vantaggio strategico decisivo all’Intesa, forse
affrettando la conclusione della guerra.
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Sydney & Antonio
Salandra & Sonnino, il duo del neo-opportunismo italiano, con condimento
sabaudo, cominciano ad avere fretta. Sarà mica che arriveremo ultimi
alla spartizione del bottino? L’attacco nei Dardanelli sembra destinato a far cadere la Turchia. Anche i tedeschi hanno fretta di concludere un accordo con noi.
E cercano di smuovere l’ostinata intransigenza dell’anziana sorda monarchia
austriaca: “date qualcosa agli italiani per evitare di trovarceli nemici”.
Pochissime persone sono informate dei fatti. L’opinione pubblica brancola nel
buio. I giornali pubblicano notizie false che devono servire a spostare il pubblico
in una direzione o l’altra. Neutralità o intervento. La nostra stampa riprende le
notizie pubblicate a Berlino e Vienna, a loro volta ispirate da quel politico
disposto all’accordo con l’Italia o da una fazione oltranzista. È un fiorire di voci
e di fantasie. Chi non sa, parla. Chi sa, non parla. Salandra rifiuta di spiegarsi in
Parlamento, respinge le interpellanze delle opposizioni che vorrebbero
inchiodarlo. L’apparato statale ed ideologico si chiude a riccio intorno a
Salandra. Le classi dirigenti italiane, liberali e conservatrici, non contemplano la
possibilità che il Parlamento esprima un’opinione. Il governo va lasciato libero.
Una delle decisioni più importanti della storia italiana resta nelle mani di tre
persone senza alcun legame con il popolo italiano.
Continuo a trovare stupefacente come cento anni fa tutto ciò fosse normale.
Il primo marzo il governo propone un disegno di legge per combattere lo
spionaggio e il contrabbando. La penisola è infatti diventata il teatro di operazioni segrete. Si lamenta l’eccessiva tolleranza verso gli stranieri, l’indolenza “quasi
mussulmana” degli italiani, gli ufficiali che si sposano con belle straniere,
dimenticandosi dei doveri patriottici. I fatti di Reggio Emilia del mese scorso
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L’anno prima della guerra
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mostrano che sono all’opera “influenze esterne”. Ottimo pretesto per il governo
per limitare ulteriormente le libertà costituzionali. Si stringe la censura sulle
notizie militari. Nello stesso momento entra in vigore il decreto approvato in
febbraio che proibisce i comizi politici pubblici.
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Nei boudoir diplomatici
Oggi sappiamo cosa accadde. Giovedì 4 marzo l’ambasciatore a Londra
Imperiali di Francavilla si presenta al ministro degli esteri inglese Edward Grey
con le condizioni italiane per il passaggio alla Triplice Intesa. Il sibilo di una sola
italica filtra a Berlino e Vienna. L’ambasciatore tedesco a Roma, principe Von
Bülow, sa che il tempo della sua missione sta per scadere. Capisce che l’Italia non
scenderà in campo con gli Imperi centrali ma che va tenuta fuori dal conflitto
con un’offerta generosa da parte austriaca. Lunedì 8 marzo, dopo due mesi di
ostinato rifiuto, sottoposta alle forti pressioni tedesche, l’Austria accetta finalmente di iniziare a discutere i compensi all’Italia previsti dall’articolo 7 del
trattato della Triplice Alleanza. Eppure la posizione di Vienna si è solo marginalmente ammorbidita. È disponibile a cedere alcuni territori trentini, ma solo a
conclusione della guerra. Gli austriaci non considerano neppure la possibilità
di discutere lo status di Trieste, il porto dell’Impero.
Nella giornata dell’otto marzo circolano a Roma le notizie più incredibili.
Intanto tutti sanno che al palazzo della Consulta, sede del ministero degli esteri,
Sonnino sta ricevendo Von Bülow. I giornali speculano su possibili trattative con
l’Austria. Giustamente. Ma i risultati dell’incontro sono avvolti nel più assoluto
riserbo. Allora non si tenevano conferenze stampe. Subito dopo, però, la notizia
della convocazione in serata di un consiglio dei ministri straordinario scatena un
altro tornado di voci. Si parla di mobilitazione generale, anche perché contemporaneamente stanno rientrando in Italia i volontari della legione garibaldina,
sciolta due giorni prima. La realtà più prosaica è che la legione non è di grande
utilità per la Francia e la mette in serio imbarazzo con il governo italiano.
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L’altra notizia esplosiva del giorno è l’incontro Salandra-Giolitti. È un fatto di
grandissima importanza politica, una specie di patto del Nazareno (o della
crostata) di cento anni fa. Salandra, forse spinto dal re, va a rendere conto del
suo operato a Giolitti, capo della maggioranza parlamentare, il quale nelle settimane precedenti aveva reso noto il suo pensiero con la famosa lettera a Peano:
ottenere il massimo dalle trattative e la guerra solo come ultima estrema risorsa.
Salandra sa bene che basterebbe un fischio di Giolitti per farlo tornare nel nulla
da cui è venuto. Per il conservatore Salandra una guerra dalla parte giusta, breve
e vittoriosa, è quello che ci vuole per rafforzare il prestigio della nazione, del re e
il suo potere personale. Ma nel frattempo Salandra deve neutralizzare in qualche
modo Giolitti, compito mica facile.
Al momento nulla si sa dei contenuti dell’incontro. I giornali si devono
accontentare di guardare le forme. È stato Salandra a chiedere la riunione, il
presidente del consiglio si è recato a piedi nell’abitazione romana di Giolitti in
Via Cavour, un doppio segnale di deferenza. Dai successivi resoconti storici,
sappiamo che Salandra racconta a Giolitti solo una mezza verità. Afferma che
sono in corso trattative con l’Austria e concorda con Giolitti che la guerra va
tenuta solo come extrema ratio. Non dice nulla sui negoziati avviati a Londra.
Un inganno bello e buono. Giolitti ci casca? Oppure vuole crederci, pensando
che ha ancora la possibilità di controllare Salandra? Qualunque sia la risposta, in
questo incontro Giolitti perde l’iniziativa politica e quando dovrà mettersi di
traverso contro Salandra, sarà troppo tardi. Il vero contenuto dell’incontro
apparirà evidente qualche giorno dopo, quando il 22 marzo la Camera viene aggiornata con l’adesione dei deputati giolittiani e nonostante la vana opposizione
dei socialisti. Chiudere il Parlamento lascia al governo campo libero. A cosa
serve del resto chiacchierare quando ci sono problemi così importanti per il
destino della patria? La Camera riaprirà solo il 20 maggio.
La giornata dell’8 marzo si conclude con il Consiglio dei ministri. La riunione
dura tre ore e termina poco prima di mezzanotte. Anche qui un altro inganno.
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Salandra spiega agli altri ministri che sono in corso trattative con l’Austria ma
tace sulla realtà, ovvero che Sonnino ha avviato negoziati con gli inglesi.
Neppure il Ministro della difesa deve sapere cosa si sta preparando.
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L’Italia all’asta
Il giorno dopo, alla Camera, si presenta Martini, il ministro delle colonie per
riferire sulla situazione in Libia. Afferma che non ci siamo ritirati dal Fezzan
verso la costa di fronte alla ribellione, bensì che abbiamo distribuito meglio le
forze, con criteri di economicità. Eufemismi. Racconta che le truppe costano 12
milioni di lire l’anno. Ammette l’errore di un dispiegamento troppo rapido e
profondo, l’influenza della guerra santa lanciata dai turchi, gli errori nel trattare
le popolazioni locali, la disorganizzazione del governo coloniale. Alla fine di tutte
queste chiacchiere resta il semplice fatto che ci stiamo ritirando verso la costa. Lo
facciamo in modo ordinato ma non mancano sanguinosi combattimenti con i
ribelli senussiti.
Il 10 marzo Von Bülow va da Salandra per parlare dei famosi compensi
austriaci. Anche in questo caso, nulla filtra sui giornali. Vienna sembra disposta
a cedere il Trentino, forse parte del Tirolo. Sonnino chiede all’Austria anche
Bolzano e Gorizia, mentre Trieste diventerebbe città libera nell’Impero. Sono
richieste impossibili per la duplice monarchia. Del resto Salandra non ha
davvero intenzione di negoziare. L’Inghilterra ci prospetta condizioni più
succulente: non solo il Trentino, ma anche l’Alto Adige, Trieste, Gorizia, l’Istria
e la Dalmazia. In pratica, tutte le zone italiane più le frontiere naturali. E
qualcosa di più. Nelle discussioni non viene mai menzionata Fiume, che Sonnino
era disposto a lasciare ai serbi nella futura sistemazione dell’area. Ad ogni modo,
Salandra decide di lasciar cadere alcune richieste in modo da accelerare la
conclusione delle trattative ed evitare di trovarsi in una posizione sfavorevole ora
che la Turchia sembra prossima alla resa.
Uno scambio di lettere tra Sonnino e Salandra illumina il loro pensiero sulla
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guerra. La prima lettera è dell’11: Salandra scrive a Sonnino. Informa che la
guerra è ormai probabile e vicina. “Noi due soli dovremmo decidere quando
giocare la terribile carta”. Il re non ha ancora dato l’assenso alla guerra ma non
avrebbe creato difficoltà. Parlamento e opinione pubblica sono contrari, ma il
loro dissenso non è importante. Conferma, dopo aver sentito Cadorna, che
l’esercito non sarà pronto fino alla fine di aprile. Nel frattempo si può continuare
la finzione delle trattative con Vienna. Sonnino replica il 16 marzo. Spera ancora di convincere l’Austria ed evitare
la guerra. Dice di voler continuare le trattative con entrambi. Ma è fondamentale affrettarsi prima che la Turchia si arrenda e l’Intesa riduca il prezzo
disposto a pagare all’Italia. È una completa rottura dell’ordine costituzionale
parlamentare e monarchico. Se vogliamo anche della logica. Il paese sta già
soffrendo di mancanza di grano e carbone, abbiamo frontiere sfavorevoli con
l’Austria, che intanto le ha fortificate, un esercito scadente e una popolazione
poco motivata, e pensiamo di infilarci in una guerra che ha già dimostrato i suoi
orrori? A forza di chiacchiere e di grida patriottiche?
Lo sappiamo, l’Italia è il paese della retorica. E dei grandi annunci, salvo
scoprire subito dopo di non aver pane e cannoni.
Nel frattempo si tengono manifestazioni di vario genere, dei vari illusi che
credono di influenzare il governo. L’11 marzo vengono arrestati Balla, Carrà,
Marinetti, Settimelli e Mussolini in una manifestazione interventista. Lo stesso
giorno, Balla e Depero pubblicano la “Ricostruzione futurista dell’universo”.
Dare scheletro all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile.
Trovare equivalenti astratti di forme e elementi dell’universo, combinarli
secondo i capricci dell’ispirazione “per formare dei complessi plastici che
metteremo in moto”.
Cioè?
Anche i socialisti tentano di riprendere l’iniziativa politica ma loro azione è
sterile. Il popolo, dal canto suo, manifesta dal Veneto alla Sicilia per l’aumento
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del prezzo del pane. E il governo risponde. Domenica 7 marzo viene pubblicato
il decreto sul pane unico. Da ora in poi i fornai potranno produrre solo una
pagnotta da 500 grammi, composta per l’80% di macinato di grano, il resto può
essere qualunque cosa. Serve per risparmiare il grano fino al prossimo raccolto.
Anche alla tavola del re si serve il pane scuro unico. Il principe Umberto afferma
“questo è il pane dei soldati”.
Segniamoci questa data. Il 16 marzo il sindaco di Genova invita ufficialmente
D’Annunzio, ancora “esule” per debiti in Francia, ad inaugurare il monumento
dei Mille a Quarto. Qualche testa matta pensa di usare questa occasione per
spingere l’Italia all’intervento o per fare la rivoluzione. L’idea iniziale è quella di
uno sbarco di garibaldini insieme all’inaugurazione del monumento e al discorso
di D’Annunzio. Il vate nazionale pensa alla gloria e nel frattempo cerca soldi dai
soliti amici. Luigi Albertini gli spedisce 4850 franchi. Il supremo poeta
debitore ne aveva chiesti 5000. A metà aprile li ha già finiti.
Il 31 si svolge a Milano una grande manifestazione della sinistra interventista,
a cui si contrappone una dimostrazione neutralista. Vengono arrestate 236
persone. In un’altra zona di Milano, ad arringare la folla interventista c’è anche
Mussolini. Anche lui deve pensare ai soldi. Il suo Popolo d’Italia, per quanto in
crescita di copie e di influenza, non naviga in buone acque. Pochi abbonati e
scarsa pubblicità. Sono finiti i finanziamenti delle Messaggerie italiane di Filippo
Naldi. Mussolini deve rivolgersi da altre parti. Li troverà in Francia ma solo a
partire da giugno. Intanto il 29 marzo si scontra alla spada con il deputato
socialista Treves, ex direttore dell’Avanti!, neutralista, che gli ha scatenato una
violenta campagna condita da insulti personali. Il duello al calor bianco dura
ben venticinque minuti e si conclude solo per l’intervento dei medici. I due non
si riconciliano.
A proposito di estrema sinistra. Cosa dice Nenni della guerra? “Solo se si
identifica la nostra nazione con quella massa caotica di contadini o di lavoratori
analfabeti ed ignoranti (non per colpa loro ma per colpa dei governanti) si può
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affermare che l’Italia è per la neutralità. Ma se si tiene conto dei cittadini che
hanno un cervello e l’adoperano, che non sono né servi di preti né di socialisti,
che non sono invigliacchiti né dai vizi né dalle privazioni, allora appare chiaro a
chiunque che l’Italia è interventista.”
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Verso le finali nazionali
Nel frattempo avvengono anche cose più leggere. Il match-clou dei gironi di
semifinale si tiene a Vercelli il 7 marzo tra il Torino e il Pro Vercelli. Un treno
speciale porta da Torino un foltissimo gruppo di tifosi granata (400) che vengono
inizialmente ben accolti dai locali. La partita finisce al 43° del secondo tempo
con uno splendido gol del granata Mosso I su servizio in rovesciata di D’Auria. I
vercellesi non ci stanno a perdere e, mentre dalle tribune si applaude
sportivamente, dai posti popolari partono le invettive contro l’arbitro, un
gruppetto invade il campo e devono intervenire i carabinieri. “Parapiglia!
Confusione!” Titola La Stampa. Alla fine però i carabinieri sono sufficienti per
riportare la calma e i tifosi torinesi si avviano verso la stazione senza bisogno di
una scorta armata. Il 28 marzo si giocano le ultime partite. Oltre al Torino, alla
finale del nord Italia accedono, il Genoa, il Milan e l’Inter. Domenica 28 si tiene la nona edizione della Milano-Sanremo, al cui nastro di
partenza sono presenti tutti i campioni italiani: Girardengo, Azzini, Ganna,
Durando, Corlaita, Galetti e Calzolari, e nessuno straniero. Si parte alle 5.30
sotto un cielo plumbeo. La fuga decisiva avviene sul mare. Nei pressi di Imperia,
che allora si chiamava Porto Maurizio, si vedono in cinque sotto un tempo
pessimo: Girardengo, Galetti, Azzini, Corlaita e Lucotti. Pochi minuti più tardi,
al traguardo di Sanremo arriva Costante Girardengo, incrostato di fango ma
freschissimo, con ben cinque minuti di vantaggio su Corlaita. Subito viene
presentato un reclamo. Pare che il campione, a Porto Maurizio, non abbia
seguito le frecce che costeggiavano la cittadina, ma abbia proseguito diritto,
guadagnando un vantaggio considerevole. Alla fine Girardengo viene
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squalificato e la vittoria passa ad Enzo Corlaita.
Chiudiamo il mese con un po’ d’amore. Giacomo Puccini continua la sua
storia d’amore con Josephine Von Stengel, baronessa tedesca, trentaduenne,
divorziata e madre di due bambine. In marzo Josephine gli scrive una lettera
appassionata. “Adoro te in tutto. Adoro l’arte tua, la musica tua, il tuo grande
sapere in tutto e amo sopra tutto – malgrado tu non mostri come sei grande – la
tua modestia e la semplicità d’ogni cosa tua! Sei adorabile davvero! (…) Come
ero felice quel giorno a Viareggio, quando venisti al bosco per cenare con me,
alla lampada rossa! Come mi faceva piacere e come godevo nel preparare la
tavola per te! E poi a casa tua, io mi sentivo a casa mia! Che belle,
indimenticabili ore!” Puccini è meno focoso. La vecchiaia incombente e un
declino lo legano sempre più alla sua ansiosa, gelosa, e meno impegnativa e
protettiva legittima consorte. La storia tra i due amanti durerà fino al 1917.
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Sydney Sonnino negoziò contemporaneamente con entrambe le parti, alla
ricerca del miglior offerente.
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APRILE 1915
Alleati di tutti
Rivergaro, provincia di Piacenza. Un telegramma ufficiale proveniente da
Roma annuncia lo scioglimento del consiglio comunale e l’arrivo del
commissario regio. Il paese entra in agitazione. Si puliscono strade, si adornano
aiuole, si mettono fiori a lato dei lampioni a gas. La mattina del primo aprile il
sindaco si reca a ricevere l’illustre ospite in stazione accompagnato da consiglieri,
carabinieri e banda municipale. Dal treno scenderà un pesce gigante.
Si scherza ancora in Italia, ma la guerra è ben presente. Sul fronte
occidentale la primavera non porta nuovi amori ma la ripresa del massacro, con
un’altra prima assoluta. Dopo i sottomarini, i dirigibili, i bombardamenti aerei
sulle città, è la volta dei gas asfissianti. Ad Ypres muoiono diecimila soldati
francesi e un congruo gruppo di tedeschi, investiti dalla nube di ritorno a base di
cloro. Per il resto è solo logorante guerra di trincea. Sul fronte orientale la spinta
russa di primavera si esaurisce sui Carpazi. Neppure austriaci e tedeschi riescono
a sfondare le linee russe. Nei Dardanelli l’attacco navale anglo-francese incontra
un’ostinata resistenza turca. Il 25 sbarcano le truppe dell’Impero britannico, tra
cui soldati australiani e neozelandesi. È lo sbarco di Gallipoli celebrato in un
bellissimo film di Peter Weir. I turchi inchiodano gli anglosassoni sulla spiaggia.
Al largo di Santa Maria di Leuca, il sommergibile austriaco U5 silura
l’incrociatore francese Léon Gambetta. Gli italiani salvano 138 uomini su 725. Il
comandante Deperierè rifiuta di salire sulle scialuppe: rimane a bordo e si uccide
con un colpo alla testa. Sempre i tedeschi trasformano il parlamento di Bruxelles
in un dormitorio per le truppe. Sul piano diplomatico, Bulgaria e Romania sono
contese tra i due blocchi con allettanti offerte. Ma il boccone più grosso resta
l’Italia.
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Dilettanti allo sbaraglio. E cinici.
Costante della diplomazia italiana di questi mesi è quella di negoziare con
entrambi i contendenti cercando di strappare il massimo, sempre con l’idea che
qualsiasi impegno preso possa essere poi rinnegato con qualche pretesto. Anche
nella realpolitik dell’epoca, è un gioco cinico e disonorevole, segretissimo,
condotto da Salandra, Sonnino e dagli ambasciatori a Londra, Parigi e
Pietrogrado (nel ruolo di ligi funzionari), con la complicità del Re. Per chi ha
voglia, è istruttivo leggere i documenti pubblicati on line dal Ministero degli
esteri.
Proviamo a seguire i due filoni di trattative, senza pretendere di essere
esaurienti. A Vienna, come già detto, la corte imperiale è disposta a poche
concessioni. Il 2 aprile comunica che è disposta a cedere solo parte del Trentino
italiano e comunque non prima della conclusione della guerra. Troppo poco per
i nostri appetiti da bulimici. A Londra, l’ambasciatore Imperiali si districa in una
trattativa complicatissima. L’Italia invoca il principio di nazionalità quando le fa
comodo e se ne dimentica se si tratta di slavi e albanesi. Inglesi e francesi sono
pronti a darci tutti i pezzi dell’Austria che vogliamo, mentre fanno i taccagni
quando si parla di Mediterraneo e di colonie. Il nostro scopo principale è
ottenere il controllo assoluto dell’Adriatico, che si scontra con le ansie liberatrici
dei serbi sostenuti dai russi. Si tratta di una questione è ben presente all’opinione
pubblica e che viene vista in modo diverso dagli interventisti democratici,
favorevoli al principio delle nazionalità, e da quelli esaltati dal delirio della
potenza nazionale, che naturalmente non concepiscono l’esistenza di diritti dei
popoli. Mussolini, ancora nel filone dell’interventismo democratico, afferma il 6
sul Popolo d’Italia che non si può liquidare il nemico austriaco per crearne uno
nuovo, la Serbia, escludendola dall’Adriatico. La difesa dell’italianità passa
attraverso un’intesa con serbi e croati.
Peraltro il futuro duce, solo due giorni dopo, ricorda alla monarchia che la
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sua esistenza è in pericolo. Se si lancia la guerra, tutti gli italiani si stringeranno
intorno in un’unione sacra. Altrimenti, se si farà una guerra a metà (qualunque
cosa essa sia), oppure si continuerà con la politica del “parecchio”, “la nazione
insorgerà contro il tradimento e la monarchia avrà – nelle more della neutralità
– tessuto il suo lenzuolo funebre.” Riappare il mito del popolo risorgimentale talmente voglioso di combattere
contro l’antica nemica austriaca al punto di rovesciare i Savoia. Una cinica
invenzione che il duo Salandra-Sonnino sfrutta abilmente per ricattare gli altri
paesi e creare una risibile giustificazione per una guerra che nessun italiano
vuole. Guerra senza obiettivi e senza una chiara strategia. Infatti, se è senz’altro
vero che la posizione internazionale dell’Italia è difficilissima, i nostri leader non
hanno alcuna idea di quali siano i nostri veri interessi nazionali. Siamo sicuri di
voler lottare contro l’Austria, sapendo che la Germania, con cui non abbiamo
alcun motivo di rivalsa, si schiererà in suo favore? Vogliamo davvero
ridimensionare l’Austria a prezzo di far aumentare il peso degli slavi? Negli
ultimi trent’anni con chi abbiamo avuto forti rivalità, con la Francia o con la
Germania? Vogliamo un Mediterraneo in equilibrio tra varie potenze, oppure
un lago francese?
Fatto sta che l’8 aprile Sonnino invia un progetto di trattato in undici articoli
all’Austria, che è un’autentica provocazione. Chiediamo l’immediata cessione del
Trentino con Bolzano, varie isole lungo la costa dalmata, lo spostamento del
confine orientale italiano che includa Gorizia, la creazione di uno stato
autonomo di Trieste, la rinuncia austriaca a ogni pretesa sull’Albania. Le
impressioni a Vienna e Berlino sono di assoluta costernazione. Si tratta di
proposte inaccettabili per la duplice monarchia, che segnerebbero la sua fine
come grande potenza. Il ministro degli esteri tedesco Jagow afferma che “il
governo italiano non vuole la riuscita dei negoziati e mira ad una rottura con i
suoi alleati”.
Nel frattempo continuiamo i negoziati a Londra, neanche questi facili, per il
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patto che ci legherà a Francia, Inghilterra e Russia.
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Neutralisti contro interventisti.
I socialisti continuano nella loro risoluta sebbene sterile opposizione alla
guerra. Come sempre, a sinistra ci si divide. Anche in casa. Turati e la sua
compagna Anna Kuliscioff la vedono diversamente. Turati è sempre per il
neutralismo anche se dilaniato dal pensiero che possa vincere la Germania o,
peggio, l’odiata Russia zarista. La compagna Anna Kuliscioff è ormai per
l’intervento contro l’Austria e rifiuta il mercanteggiare, “un’onta morale”.
Turati le risponde “La tua ossessione sta in questo: nel credere che la guerra
possa salvarci o difenderci. La guerra è come la malattia: può uccidere, può
indebolire, niente altro.”
Turati non è neutralista per spirito socialista ma da patriota. Conosce l’impreparazione dell’Italia. Allo stesso tempo non intende scatenare lo sciopero
generale per fermare la guerra. Così paralizzando ancora di più il PSI, già
incapace di agire.
Il 10 D’Annunzio accetta l’invito a ritornare in Italia in occasione
dell’inaugurazione del monumento alla spedizione dei Mille, che avverrà il 5
maggio a Quarto. Una delegazione del comune di Genova parte pochi giorni
dopo per Roma per invitare ufficialmente il Re.
L’11 nuove manifestazioni interventiste a Milano e Roma. Nella capitale
Piazza della Pilotta (vicino al Quirinale) è presidiata militarmente. Chi si avvicina viene fatto sgomberare. Mussolini e circa 4-5000 persone si accalcano
intorno alla Fontana di Trevi, il capopopolo si alza sulla balaustra ma non ha
detto due parole che viene fatto scendere dalla polizia. Il corteo si sposta,
distruggendo per strada le vetrine del Lloyd. Prima carica della polizia. La
cavalleria carica una seconda volta i dimostranti a Piazza Barberini per bloccare
il discorso di Mussolini, che vene arrestato. Avvengono incidenti meno gravi e
qualche arresto nel comizio neutralista a Piazza Esedra. Incidenti e rivoltellate
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anche nel quartiere di San Frediano a Firenze. Scontri ed arresti a Torino,
Ancona, Verona, Parma e Napoli, quasi sempre provocati dagli interventisti. A
Milano, la polizia disperde un comizio socialista. Nel parapiglia l’operaio
Marcora, 28 anni, riceve un colpo di bastone alla nuca. Di notte si sente male e
muore poche ore dopo. I sindacati proclamano lo sciopero generale per il 14,
che riesce pienamente. 150.000 persone partecipano ai funerali di Marcora.
Manifestanti e polizia si scontrano anche in quest’occasione.
Gramsci sostiene il 13 aprile quello che sarà il suo ultimo esame
all’Università; il suo impegno politico cresce durante queste settimane e con il
suo ingresso nella redazione torinese dell’Avanti!
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Eppure si muove. Le timide concessioni austriache.
La stampa è unanime nel ritenere che le questioni di politica estera non
debbano essere discusse dal parlamento, nemmeno dal Consiglio dei ministri e
neppure dai militari. È normalissimo, anzi necessario, che queste scelte siano
riservate al Re, al presidente del consiglio e al ministro degli esteri.
Le posizioni dell’Italia rispetto all’Inghilterra e alla Russia si vanno avvicinando. Lo scoglio resta sempre l’Adriatico. Il 14 Sonnino telegrafa a Londra accantonando alcune richieste sulle isole dalmate in cambio di un sostanziale
protettorato sull’Albania. Lo stesso giorno il ministro degli esteri austriaco Jagow,
preoccupato della piega degli avvenimenti, propone a Sonnino un incontro
segreto, che il nostro rifiuta.
Non mancano i dubbi tra i protagonisti di questi giorni. L’ambasciatore a
Berlino Bollati scrive il 14 aprile al suo collega ed intimo amico a Vienna, duca
Avarna. Il diplomatico è costernato dal tenore delle proposte fatte all’Austria.
Sono le condizioni imposte a un nemico vinto non proposte ragionevoli per
restare neutrali, a cui comunque saremmo tenuti dall’onore e da un accordo di
alleanza vecchio di trent’anni. Bollati è stupefatto che Salandra e Sonnino considerino la distruzione dell’Austria vantaggiosa per l’Italia; per noi sarebbe più
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utile mantenere la duplice monarchia come baluardo contro gli slavi e gli anglofrancesi nell’Adriatico. Bollati si lamenta che questa semplice verità sia
scomparsa dal dibattito pubblico. Scrive con penna feroce. “E così si lascia far
tutto ad un volgare parlamentarucolo, ad un dottrinario intestardito, e a un
militare tronfio e vanitoso all’opera dei quali sarà dovuto se l’Italia compirà l’atto
più ignominioso che la Storia abbia mai registrato, e si esporrà – anche nella
migliore delle ipotesi – ad orrori e disastri senza fine.” Bollati, consapevole di
essere strumento e complice di una politica da condannare, si chiede se “non
sarebbe invece nostro dovere di abbandonare ogni scrupolo e di dire senza
riserva tutto ciò che sentiamo, cominciando a rivolgerci direttamente al Re…
Non temere, non muoverei nessun passo senza di te, e poi – forse non farei
niente in nessun caso, perché anch’io… non ho il coraggio.”
Sono parole che suonano di condanna per un’intera classe politica mediocre e
irresponsabile. Avarna risponde il 20 facendo sobbalzare Ponzio Pilato. Afferma
che entrambi hanno sempre detto la verità. “Delle nostre parole non essendosi
tenuto alcun conto, la nostra responsabilità personale di funzionari pubblici è
interamente al coperto e non ci resta altro da fare che di eseguire, sia pure a
malincuore, gli ordini che ci vengono impartiti quali siano le conseguenze che ne
deriveranno pel nostro Paese.”
Il 16 l’Austria respinge ufficialmente le proposte italiane senza però
rompere. A Berlino non perdono la speranza di impedire la deriva italiana.
Motivi di inimicizia con la Germania non ve ne sono. L’ambasciatore tedesco a
Roma Von Bülow scatena tutte le sue amicizie romane per cercare di influire
sulla testa di Salandra e Sonnino. Il 17 il senatore Riccardo Carafa D’Andria,
neutralista, si fa portavoce di Von Bülow con Salandra che lo riceve spazientito.
Carafa riferisce al presidente del consiglio che il Senato è in larghissima parte
per la neutralità. I particolari dell’incontro filtrano sulla stampa, generando un
piccolo scandalo. Carafa sarà uno dei due senatori che non voterà l’intervento il
21 maggio.
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Parliamo anche di altre cose.
Il 10 aprile esce a Roma un altro melodrammone cinematografico di grande
successo, “Fior di male”, di Carmine Gallone, con la divina Lyda Borelli. Parla
di una donna con una durissima esistenza e del figlio abbandonato, poi di un
impossibile riscatto grazie alla sua bontà d’animo, per finire al classico tragico
epilogo in cui sarà proprio il figlio ad uccidere ignaro la madre con una
coltellata. Vabbé.
Domenica 18 inizia il girone finale dell’Alta Italia che deciderà il futuro
campione di calcio. Si comincia con due pareggi. Inter-Torino 2-2. Match non
esaltante per tecnica, ma veloce ed emozionante. Il Torino va in vantaggio per
2-0. Attacca molto ma senza avere grandi idee sulle conclusioni. L’Inter regge,
segna prima della fine del primo tempo e pareggia meritatamente al 30° del
secondo. Nell’altra partita il Milan non solo neutralizza l’offensiva del Genoa,
superiore per tecnica, ma lo surclassa andando in vantaggio dopo pochi minuti.
Il Genoa pareggia con un gol fantasma, vivacemente contestato dal pubblico.
Lunedì 19 prima rappresentazione al teatro Manzoni di Milano di “Se non è
così”, poi rinominato “La ragione degli altri” di Luigi Pirandello.
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Le intese con l’Intesa
Martedì 20 Salandra scrive a Sonnino in vista del consiglio dei ministri fissato
per il giorno dopo. Tra le altre cose, dice che si potrebbero “informare i ministri
delle conclusioni reali a cui sono giunte le trattative con gli Imperi centrali.
Bisogna che essi pure si persuadano che la soluzione pacifica non è resa
impossibile dalla durezza di noi due, o particolarmente tua, come vanno
insinuando i corifei del connubio Giolitti-Bülow.”
Salandra e Sonnino continuano ad ingannare i colleghi. I ministri vengono
informati dei negoziati con l’Austria ma non di quelli con l’Intesa. Lo stesso
giorno il presidente del consiglio riceve i rapporti segreti dei prefetti
sull’atteggiamento della popolazione verso la guerra. Il paese è in gran parte
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L’anno prima della guerra
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contrario anche se rassegnato a nord e indifferente nel centrosud. Pochi gruppi
sono chiaramente favorevoli, quasi unicamente borghesi o piccolo-borghesi. In
ogni caso il popolo obbedirà al re e al governo. Nello stesso consiglio il governo
vieta i comizi e i cortei in vista del 1° maggio.
I giornali non hanno idea di cosa stia realmente accadendo. Si rincorrono le
voci più diverse. In alcuni momenti si parla di rottura, in altri di accordi imminenti. Alcune voci parlano di un’Austria disposta a cedere tutte le terre irredente
tranne Fiume, con compensazioni territoriali dalla Germania. Altre fonti danno
per certa l’adesione dell’Italia all’Intesa. Ma sono frutto di fantasie e di voci
alimentate ad arte. D’Annunzio fa sapere, tramite un amico, che se l’Italia non
scenderà in guerra farà “karakiri” (sic). Auspica di salire a bordo di una nave per
assistere ad una battaglia navale che lavi l’onta di Lissa. “Qual miglior morte per
me che affondare nell’Adriatico? Così deve finire un poeta!”
I negoziati a Londra entrano nella stretta finale. Il 21 gli inglesi chiedono agli
italiani di chiudere le trattative evitando di aprire nuove questioni. Sonnino cede
anche perché è ormai imminente l’attacco finale contro la Turchia e non vuole
arrivare tardi alla spartizione del bottino.
Il 23 una nuova lettera di Avarna a Bollati. Dopo la rottura delle trattative
con l’Austria, ormai è la guerra. “Speriamo che questa sciagurata guerra non
produca spiacevoli sorprese, ma essa è una triste e grave avventura a cui il
governo spinge il paese con tanta leggerezza.”
Il 26, dopo ulteriori negoziati dell’ultimo minuto, e dopo che il re ha dato la
sua approvazione, avviene la firma del trattato di Londra. I militari non sono
consultati. Anche se segreto, indiscrezioni sul patto filtrano all’opinione pubblica.
La notizia appare sulla stampa francese già il 26 e viene ripresa nei giorni
successivi dalla stampa italiana. Si dice che ormai il patto con gli inglesi sia stato
firmato e che il negoziato con l’Austria sia stato interrotto. La censura agisce per
impedire altre fughe di notizie.
Il patto prevede per l’Italia molte concessioni a danno dell’Austria-Ungheria:
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L’anno prima della guerra
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il Trentino e il Tirolo cisalpino fino al Brennero (abitato da popolazione tedesca),
ma anche Trieste, Gorizia, l’Istria, gran parte della Dalmazia, il protettorato
sull’Albania e il possesso sulla città di Valona, il riconoscimento della sovranità
sulle isole del Dodecaneso, il bacino carbonifero di Adalia, in Asia Minore, e
benevola considerazione in caso di spartizione delle colonie e dei possedimenti
turchi. Chiediamo anche l’esclusione del Vaticano da ogni negoziato di pace. Il
Regno Unito ci concederà un prestito di almeno 50 milioni di sterline. In cambio
ci impegniamo ad entrare in guerra entro un mese contro gli Imperi centrali,
cioè contro Austria, Germania e Turchia e a non concludere pace separata.
Il dado è tratto. Il re e compagnia hanno un mese di tempo per costringere il
paese alla guerra. Dal punto di vista costituzionale il re è sovrano per la firma
dei trattati internazionali e la dichiarazione di guerra, ma il parlamento deve
concedere i crediti di guerra, senza i quali non si va molto lontano. Dal 26 aprile,
fatto inusitato, siamo contemporaneamente alleati dell’Intesa e degli Imperi
centrali.
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La lotta nelle piazze e negli stadi
La domenica sportiva del 25 è caratterizzata dalla vittoria di Girardengo
nella Milano-Torino e dalla seconda giornata del girone finale. Il Genoa batte
l’Inter 5-3 e si porta in testa con 3 punti. Seguono Milan e Torino a due punti
dopo il pareggio per 1-1.
Ormai gli italiani capiscono che sta per maturare qualcosa di grave. Un
manifesto del PSI invita i lavoratori a partecipare alle manifestazioni per il 1°
maggio, dando loro un significato pacifista. Il 27 si svolge a Milano il Consiglio
nazionale della CGdL, che approva una risoluzione contro la guerra. Il 29
Mussolini annuncia “Non è più questione di mesi, né di settimane, ma di
giorni.” D’Annunzio rilascia sul Corriere della Sera due ardenti articoli di delirio
patriottico, scritti originariamente per Le Figaro e La Petite Gironde. Proclama
la rinascita della razza italica contro i tedeschi. L’Adriatico, il polmone sinistro
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L’anno prima della guerra
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dell’Italia, è nostro. In questi giorni si moltiplicano le agitazioni studentesche, sia
all’università che nelle scuole superiori a favore dell’intervento contro l’Austria.
Gli studenti sono tutti di provenienza agiata.
Il 30 aprile Sonnino informa Cadorna del patto siglato senza fargli vedere il
contenuto. Il capo di stato maggiore annuncia che l’esercito potrà muoversi il 12
maggio con 240mila uomini. Iniziano i colloqui con i nuovi alleati per una
convenzione militare ed una navale per definire la conduzione della guerra. I
negoziati non si presentano facili. Nel frattempo da Berlino e Vienna vengono
nuove avances di discussione per evitare la guerra.
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Il discorso di Gabriele D’Annunzio a Quarto il 5 maggio.
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MAGGIO 1915
I giochi sono fatti, checché ne dica Gabriele
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Siamo arrivati alla conclusione. Per quello che ci riguarda, una volta firmato
il Patto di Londra, i giochi sono fatti. L’Italia è in guerra. Resta solo l’aspetto,
purtroppo meramente formale, della ratifica parlamentare. Eppure, per qualche
giorno sembrò che i deputati, guidati dall’ex presidente del consiglio Giovanni
Giolitti, sarebbero giunti a rovesciare Salandra pur di evitare la guerra. Quando
fu chiaro che dietro Salandra c’era il re, le opinioni cambiarono drasticamente.
Nessuno voleva mettere a rischio il monarca. Che gli italiani morissero a migliaia
pur di non toccare il mini savoiardo. Quello che accadde in maggio ha
significato solo per le manovre politiche del re e di Salandra. Il chiasso, le
manifestazioni oceaniche, le violenze verbali e fisiche furono solo il sinistro coro
di contorno di decisioni già stabilite. Per bloccare la guerra ci sarebbe voluta una
completa rottura dell’ordine costituzionale. La guerra salvò le forme e la dinastia
e aprì agli italiani la strada per il baratro.
Ecco come si giunse al 24 maggio, giorno per giorno.
Sabato primo maggio trascorre tranquillamente. Sindacati e partito socialista
si oppongono alla guerra con sterili dichiarazioni di principio. Continua a
crescere intanto la campagna interventista che ha a disposizione i principali
organi di stampa. In prima fila ci sono il Corriere della Sera di Albertini, il
Popolo d’Italia di Mussolini, il Resto del Carlino di Naldi, la Gazzetta del
Popolo, l’ultraministeriale Giornale d’Italia. Dei grandi giornali, solo La Stampa
di Torino di Frassati resta convintamente neutralista. Si attende con ansia il
cinque, giorno dell’inaugurazione a Quarto del monumento all’impresa dei
Mille. Saranno presenti il re e D’Annunzio. Si pensa che in tale occasione
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L’anno prima della guerra
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avverrà l’annuncio della guerra. Nel massimo silenzio e con piglio piemontese,
dopo aver saputo del Patto di Londra, Cadorna si è messo a fare piani di guerra.
Deve essersi messo le mani nei capelli di fronte al compito impossibile. L’Italia
deve attaccare, risalendo le valli sotto le fortezze che nel frattempo l’Austria ha
piazzato sulle alture. Deve mobilitare l’esercito in gran segreto per non avvertire
il nemico.
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Domenica due Cadorna chiede ufficialmente alla Russia di attaccare l’Austria
in contemporanea con l’intervento italiano. Avverte che i nostri avanzeranno
lentamente a causa della preparazione difensiva austriaca. Nella terza giornata
del girone finale il Torino strapazza Genoa 6-1, mentre l’Inter vince il derby
della Madonnina per 3-1. Il Torino guida la classifica con 4 punti, seguono
Genoa ed Inter a 3, chiude il Milan a 2. La lotta è apertissima.
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Lunedì tre il consiglio dei ministri blocca la partecipazione del re e dei
ministri alla cerimonia di Quarto con la scusa che la situazione internazionale
non lo permetterebbe. La vera ragione è che oggi l’Italia denuncia segretamente
il trattato della Triplice alleanza con l’Austria, dietro il pretesto dell’impossibilità
di raggiungere un accordo territoriale. L’Italia non denuncia invece l’alleanza
con la Germania, come avrebbe dovuto a norma di trattato il cui inchiostro si è
appena asciugato, nell’illusione di poter evitare la guerra contro il Kaiser. I
tedeschi fanno immediatamente sapere che scenderanno in campo per difendere
l’Austria dall’Italia. I tedeschi saranno antipatici ma sono di parola.
In serata D’Annunzio parte in treno da Parigi per l’Italia. Finalmente arriva il
momento del rientro, che deve il più teatrale possibile. Il superuomo giusto al
momento giusto per raddrizzare la schiena curva dell’Italia serva della gleba
dell’Europa. Povero illuso vanitoso. Crederà di guidare gli eventi, senza sapere
che sono altri a guidarli.
D’Annunzio abbandona la sua amante, Nathalie de Goloubeff, che non si
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L’anno prima della guerra
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rassegna ad essere lasciata, dopo aver finanziato per anni il gaudente poetastro.
Inutile. La donna finirà male, morirà sola e alcolizzata nel 1941. Il vate d’Italia
arriva a Bardonecchia la mattina del 4 tra molti simpatizzanti che lo omaggiano.
Il corrispondente de La Stampa sale sul treno per intervistarlo. Gli chiede
“Resterà molto in Italia?” “Dipenderà dagli avvenimenti. Se si farà la guerra,
resterò; se non si farà, riprenderò la via dell’esilio.” Esilio dorato a carico degli
amici e delle amanti. Arriva in serata a Genova, già affollata di gente
proveniente da tutta Italia, soprattutto studenti e professori universitari.
D’Annunzio fa un primo discorso davanti all’Hotel Eden Palace. Riempie la folla
di paroloni: dovere, giovinezza rigeneratrice, eroe, patria, obbedisco, bronzo.
D’Annunzio inizia a seminare l’Italia di dichiarazioni rimbombanti, sbatte
padelle, rulla tamburi e speterchia chiarine. Stordisce, acceca ed esalta. Lette
oggi i suoi roboanti paroloni fanno semplicemente ridere. Ma allora erano prese
molto sul serio.
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La realtà è diversa. In questi nove mesi non abbiamo risolto le carenze
strutturali dell’esercito: mezzi, uomini e cervelli. Scarsa artiglieria, pochi
mitragliatrici. Solo la marina è decente. Salandra vuole fare la guerra con poca
spesa, né si è preoccupato di avere sufficienti aiuti finanziari e materiali dagli
alleati. I cinquanta milioni di sterline prestate dagli inglesi basteranno per un
paio di mesi. La realtà delle trincee era evidente a tutti da mesi ma a Roma, con
il tipico idealismo da irresponsabili di cui è costellata la storia patria, si crede che
basteranno poche migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace.
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Mercoledì 5 è il giorno del discorso di Quarto. L’atmosfera si è un po’
sgonfiata dopo la rinuncia del re e delle autorità nazionali. C’è un’atmosfera
caciarona ed anarchica, molto italiana, molto pittoresca, La folla è rumorosa ma
ordinata, non avvengono incidenti. D’Annunzio pronuncia un discorso erudito e
narcisistico e, come al solito, incomprensibile. La riva del mare non era il posto
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L’anno prima della guerra
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più adatto per farsi sentire. Tra le sirene delle navi venute a salutare e le salve dei
cannoni, la confusione impedisce di sentire il poeta. Non che ci fosse molto da
capire. Tanto per darvene un’idea, ecco le frasi conclusive, “Tutto ciò che siete,
tutto ciò che avete, o voi datele alla fiammeggiante Italia! O beati quelli che più
hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere. Beati quelli che hanno
vent’anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa. Beati quelli
che aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza ma la custodirono
nella disciplina del guerriero. Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per
esser vergini a questo primo e ultimo amore.”
Poteva lanciare una dozzina di petardi in un pentolone ed ottenere lo stesso
effetto. Protesta l’Osservatore romano per l’uso blasfemo del Vangelo. A
Montecitorio si commenta favorevolmente ma senza gran trasporto. Quando
lascia Genova, D’Annunzio lascia il conto dell’albergo al Comune per se e altre
due signore sue amiche.
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Giovedì sei giungono nuove offerte territoriali. L’Austria è disposta a cedere la
parte italiana del Trentino e della Venezia Giulia, a concedere un’ampia
autonomia a Trieste e a lasciare mano libera in Albania. La consegna dei
territori dopo la guerra con garanzia della Germania.
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Il giorno dopo comincia il rimpatrio degli italiani da Austria e Germania. Il
gabinetto governativo viene finalmente informato del Patto di Londra. Sonnino
comunica le ultime offerte austriache. Dopo un lungo dibattito il consiglio
approva la scelta dell’intervento e si impegna a dimettersi nel caso di un voto
contrario della Camera. Va tenuto conto che nel sistema albertino, spettava al re
la nomina e la revoca del presidente del consiglio.
Salandra non è sicuro di avere la maggioranza alla Camera, le cui chiavi
risiedono nel neutralista Giolitti. Il re è nervoso: ha dato la sua parola d’onore ai
nuovi amichetti dell’Intesa. Non è che i politici romani gli faranno fare una
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L’anno prima della guerra
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brutta figura? Come uscire da questo pasticcio? Per guadagnare tempo si rinvia
la riapertura del parlamento al 20 maggio. Nel primo pomeriggio Von Bülow si
reca dal re portando una lettera del Kaiser, redatta in toni conciliativi. Nel
frattempo giunge notizia che un sottomarino tedesco ha affondato il
transatlantico Lusitania. Muoiono 1201 persone. A bordo doveva esserci
Toscanini, che aveva litigato con gli americani e aveva deciso di tornare in Italia.
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La resa dei conti con il parlamento si avvicina. Vittorio Emanuele non è
antidemocratico ma ci tiene ai suoi poteri. Non sappiamo esattamente cosa si
dicano la mattina di sabato otto a Villa Ada, il re, Salandra e Sonnino, se
abbiano litigato o se il re abbia alzato la voce. Ma un fatto è sicuro. Vittorio
Emanuele dichiara di essere pronto ad abdicare nel caso in cui la Camera
respinga l’ingresso in guerra. Il che sarebbe una possibilità logica e
costituzionalmente ineccepibile. Peccato che il principe ereditario, il futuro
Umberto II, abbia appena dieci anni. Si rischia una crisi pericolosissima in un
paese fragilissimo.
A questo punto, tutto dipende da Giolitti che in serata si appresta a partire
per Roma. Alla stazione di Torino viene contestato da un piccolo gruppo di
interventisti. “Cosa volete?” chiede lo statista. “Vogliamo la guerra!” “Chi di voi
si è arruolato?” risponde senza perdere la calma.
Lo stesso giorno Salandra scrive a Sonnino sui problemi internazionali. Si
parla delle difficoltà di concludere la convenzione militare e navale con i
neoalleati, per cui il presidente del consiglio suggerisce di tenersi le mani libere
ordinando la mobilitazione ma senza dichiarare guerra. Un altro esempio della
superficialità del duo. Per usare una metafora calcistica, è come schierare la
squadra a centro campo e non farla muovere al fischio dell’arbitro.
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La mattina successiva Giolitti arriva a Roma. Nel tragitto dalla stazione a
casa, che compie a piedi, Giolitti viene contestato dagli interventisti, tenuti a
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L’anno prima della guerra
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bada dalla polizia. All’ennesimo “Abbasso!” Giolitti, che non si è mai scomposto,
si rivolge ai manifestanti dicendo “E adesso almeno gridate con me una volta
Viva l’Italia!” Confessa a Olindo Malagodi, direttore de La Tribuna, “La gente
che è al governo meriterebbe di essere fucilata. Vogliono portare l’Italia alla
guerra, per gli altri, senza bisogno; quando già sono state fatte concessioni
adeguate. È un’idea fissa di Sonnino, di fare la guerra per salvare la monarchia,
che non è affatto in pericolo.”
Già nella mattinata di quella domenica, Salandra spedisce il ministro del
tesoro Carcano a sondare Giolitti. Nelle sue memorie Giolitti afferma di aver
ricevuto soltanto indicazioni generiche e di non essere stato informato del
trattato già firmato e delle relative clausole. Ciò sembra plausibile alla luce degli
avvenimenti successivi. Giolitti quindi crede legittimamente che sia ancora
possibile tenere l’Italia lontana dal conflitto e inizia a tessere la sua tela
parlamentare.
Nel pomeriggio si svolge la quarta giornata del torneo finale, che segna un
completo ribaltone al vertice. Il Genoa regola il Milan per 3-0 mentre l’Inter
sconfigge il favorito Torino per 2-1. Genoa ed Inter balzano in testa con 5 punti,
lasciandosi alle spalle ad un punto il Torino. Con due sole giornate rimaste il
Milan, ultimo con due punti, è virtualmente fuori dai giochi.
!
L’arrivo di Giolitti mette in subbuglio la politica romana. Dopo i primi
contatti esplorativi della domenica, lunedì 10 è un turbine di incontri al
vertice. Nella mattina Giolitti espone apertamente al re le sue ragioni contro la
guerra. Il paese e l’esercito non sono pronti. Ritiene che si possa ottenere ancora
molto dai negoziati con l’Austria. Ma, ed è qui la debolezza della sua posizione,
non intende tornare al governo e promette di sostenere Salandra nel suo
obiettivo di liberarsi dagli eventuali obblighi presi con l’Intesa. Il re, astuto
manovratore, non gli dice nulla del Patto di Londra e lo manda a sentire
Salandra. I due uomini si vedono nel pomeriggio. Giolitti ricorda che “Salandra
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L’anno prima della guerra
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mi rispose che il Governo aveva ormai presa la deliberazione di entrare in
guerra; che gli era impossibile tornare indietro, e che se non avesse potuto
dichiarare la guerra per ostacoli da parte del Parlamento, avrebbe dovuto
dimettersi. Egli era informato della quantità di adesioni che i deputati avevano
espresso al mio punto di vista, donde desumeva la possibilità che il Parlamento
potesse votargli contro.”
Nel frattempo a Parigi si conclude la Convenzione navale per le operazioni
nell’Adriatico.
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Martedì 11 una nota congiunta Macchio-Von Bülow inviata a Sonnino
formalizza pubblicamente le offerte austriache già preannunciate nei giorni
precedenti: il Trentino, tutto il Tirolo italiano, Trieste come città libera e la riva
occidentale dell’Isonzo. Col senno di poi è quasi quello che otterremo al prezzo
di seicentomila morti. Sonnino risponde che le proposte sono ancora troppo
vaghe. Di sera gli interventisti milanesi inscenano una violenta dimostrazione
sotto il consolato germanico. Mussolini arringa la folla. “Sembra che, complice
Giovanni Giolitti, si mercanteggi nel modo più abbietto l’avvenire d’Italia. (…)
Se l’Italia non avrà la guerra alla frontiera, essa avrà fatalmente, inevitabilmente,
la guerra interna!” Gli avvenimenti incalzano. Giolitti non prende l’iniziativa
contro Salandra nonostante 320 deputati e un centinaio di senatori lascino a
casa sua il proprio biglietto di visita per sottolineare pubblicamente la loro
adesione alla linea neutralista. Una maggioranza schiacciante che conferma a
Salandra i suoi timori.
!
Roma si va popolando di politici e di mestatori. Nella sera di mercoledì 12
arriva Gabriele D’Annunzio accolto da una grande folla. Il poeta sa come
accendere le passioni. La massa urlante lo accompagna in corteo fino all’albergo
Regina in via Veneto. Discorso dal balcone con inni bellicosi “Com’è romano
forti cose operare e patire, così è romano vincere e vivere nella vita eterna della
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L’anno prima della guerra
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Patria.” È la guerra per la guerra. D’Annunzio non sarebbe capace di spiegare
cosa vuole dalla guerra. In una lettera, Salandra confessa a Sonnino di temere di
non farcela. Si mostra sicuro con l’ambasciatore russo che vuole una data per la
mobilitazione. Nella risposta Sonnino teme invece che l’Intesa manovri per far
precipitare la situazione rapidamente prima della riapertura del parlamento.
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La situazione così come si è delineata nei primi giorni della settimana non
può durare. Come una faglia sotterranea che si muove lentamente e poi giunge
improvvisamente al punto di rottura, all’ora di cena di giovedì 13 giunge la
notizia che Salandra si è dimesso. Si tratta di un’abile e rischiosissima manovra
per costringere Giolitti a venire pubblicamente allo scoperto. Una vera e propria
guerra di nervi, un bluff dichiarato. Salandra ha in mano cinque scartine.
Giolitti una scala reale.
La crisi era nell’aria. Gli interventisti già dalla mattina si abbandonano a
tumulti e proteste in giro per Roma. Squadracce di esaltati assalgono i
rivenditori dei giornali neutralisti, minacciano uomini politici come gli ex
ministri Bertolini e Facta. Di sera, dopo aver seminato il caos nel centro, gli
interventisti convergono all’Hotel Regina. D’Annunzio si scatena con un
violentissimo discorso contro Giolitti, definito il “mestatore di Dronero” e “il
vecchio boia labbrone”.
“Compagni, non è più tempo di parlare ma di fare; non è più tempo di
concioni ma di azioni, e di azioni romane. Se considerato è come crimine
l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine.”
Non ricorda nulla questa frase? Parole simili le userà Benito il 3 gennaio
1925.
D’Annunzio accusa Giolitti di tradimento, che vuole svilire la patria con
bieche trattative mercantili, ovvero quelle che ha fatto Salandra senza alcuna
vergogna. Afferma “Le nostre sorti non si misurano con la spanna del merciaio,
ma con la spada lunga. Però con bastone e col ceffone, con la pedata e col pugno
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L’anno prima della guerra
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si misurano i manutengoli e i mezzani, i leccapiatti e i leccazampe dell’excancelliere tedesco che sopra un colle quirite fa il grosso Giove trasformandosi a
volta a volta in bue tenero e in pioggia d’oro.”
Cosa significhino il bue tenero e la pioggia d’oro lo lascio a scrittori con una
migliore educazione classica.
Più interessante sapere cosa dice della nostra classe politica il
nostro ambasciatore a Vienna Avarna in una lettera al collega Bollati a Berlino.
“Nella mia lunga carriera non ho mai visto condurre la nostra politica estera in
modo così bestiale e così poco leale come è stata condotta dacché Sonnino è alla
Consulta.”
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Si illudono il vate pelato, il duce futurista e gli altri guerrafondai che le loro
parole abbiano un peso. Il re ha già deciso cosa fare. Non ci pensa affatto ad
abdicare e vuole rimettere Salandra al suo posto. Venerdì 14 il re tiene le
consultazioni. Comincia con Giolitti che propone i nomi del presidente della
camera Marcora e del ministro del tesoro Carcano, entrambi convinti
interventisti, per un governo autorevole che prosegua le trattative con l’Austria.
Perché Giolitti non prende il posto di Salandra? L’idea di fondo sembra essere
quella di avere un governo autorevole all’interno e verso l’estero, formato da
persone interventiste, che quindi sappiano quando usare la minaccia della guerra
e quando le tattiche della diplomazia. Giolitti vorrebbe infatti mandare vis
Salandra e riprendere le trattative con l’Austria. Eppure non ci sarebbe stato
governo più autorevole di uno presieduto da Giolitti. Evidentemente lo statista
piemontese non se la sente di mettere la faccia.
I buoni propositi di Giolitti hanno però un difetto sostanziale. Dietro
Salandra c’è il re, che manovra con rara astuzia, apparendo super partes e
disinteressato.
La Stampa continua, isolata, ad invocare la ragione contro i propositi bellici.
“A non voler la guerra sono tutti i ministri di Stato, tutti gli ex ministri che si
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L’anno prima della guerra
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sono succeduti al Governo del Paese da venti anni a questa parte senza
distinzione di parte politica. Tutti, nessuno escluso: contraria la grande
maggioranza della Camera, contrario il Senato. Ma chi dunque ha il diritto di
rappresentare l’Italia? Ma chi ha il diritto di curare le sue sorti, di essere vigili sui
suoi destini se non la maggioranza di costoro?” Inutili appelli alla ragione.
A Roma scoppiano disordini causati dagli interventisti contro i giolittiani.
Nella mattina una folla di studenti partiti dall’università irrompe dentro Montecitorio, un atto senza precedenti. È uno strano episodio in quanto il
centro della città è presidiato militarmente in ogni angolo. Salvemini fa un
discorso incendiario alla Sapienza davanti a gruppi di studenti. Si scaglia contro
Giolitti e anche contro il re che deve scegliere la via della dignità e dell’onore
della nazione, “se no, di lui non sappiamo che farcene!”
D’Annunzio non smette di concionare. “Udite. Udite. Gravissime cose io vi
dirò, da voi non conosciute. State in silenzio. Ascoltatemi. Poi balzerete in piedi,
tutti.” Racconta che l’Italia ha denunciato il trattato della Triplice alleanza,
accusa Giolitti di tradimento, quando semmai era stata l’Italia ad ingannare e
poi abbandonare l’alleata di trent’anni, dopo aver mercanteggiato con chiunque.
Non sono discorsi razionali. Sono immagini, suoni, emozioni, violenza condensata in parole. D’Annunzio usa parole mistico-religiose per imbonire la folla,
farle credere di far parte di un popolo eletto: la Nazione, la Razza, il Diritto
divino. D’Annunzio è l’utile idiota della monarchia, per creare quel caos che
serve al governo per giustificare la guerra.
!
Sabato 15 è la giornata decisiva. Sia Marcora che Carcano rifiutano l’incarico. A Roma gli interventisti sono padroni delle piazze, almeno di quelle che il
governo ha deciso di lasciare libere. I socialisti sono scomparsi. Nella capitale
non si trova più neanche un neutralista. Anche gli impiegati dei ministeri si
schierano per la guerra. Il rettore della Sapienza Tonelli tiene un discorso
patriottico a varie migliaia di studenti delle scuole e dell’università. Gli impiegati
!
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L’anno prima della guerra
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del ministero delle finanze e del tesoro inscenano una manifestazione spontanea
per Carcano e Salandra. Altre dimostrazioni simili all’Agricoltura e alla Guerra.
Gli avvocati romani si schierano per l’intervento e contro Giolitti, dichiarato
servo degli stranieri. Un paese schiavo della retorica e del conformismo. Le voci
dissidenti sono messe a tacere. Fallisce lo sciopero generale neutralista a Milano.
Incidenti a Napoli. Gruppi di interventisti lanciano pietre contro Il Mattino.
Manifestazioni pro e contro la guerra anche a Torino e in altre città.
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Domenica 16 a Torino viene proclamato uno sciopero generale per lunedì
contro la guerra e gli interventisti. Ma è troppo tardi per cambiare gli eventi.
Alle 15 giunge l’annuncio che il re ha rifiutato le dimissioni di Salandra. In base
allo Statuto Albertino, non è previsto un voto di fiducia. La Camera può ancora
impedire la guerra, votando contro Salandra e quindi il re, cosa che non può
accadere. Giolitti ha fallito, non ha avuto il coraggio, è stato ingannato. Uomo
d’ordine, non avrebbe mai messo a repentaglio la monarchia. L’annuncio della
conferma di Salandta scatena l’eccitazione delle folle interventiste. Duecentomila
romani gremiscono Piazza del Popolo festeggiando la certezza della guerra.
Nel pomeriggio, tra squadre già falcidiate dai richiami militari, si svolge la
quinta giornata del torneo finale di calcio. Nello scontro diretto, prevale il Genoa
sull’Inter per 3-1, mentre il Torino non va oltre il pareggio 1-1 col Milan. Genoa
in testa con 7 punti. Inter e Torino a 5. Milan a 3. Sono le ultime partite. Ormai
è questione di giorni prima che parli il cannone.
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Lunedì 17 il consiglio dei ministri del redivivo Salandra prepara la riapertura
della Camera per il 20. Un unico punto all’ordine del giorno “comunicazioni del
governo”. Sul colle del Campidoglio si svolge una grande manifestazione a
favore della guerra. D’Annunzio riceve la spada di Nino Bixio. Il lubrico
poetante innalza un altro incomprensibile inno alla guerra, a Roma all’Italia.
“Sonate la Campana a stormo! Oggi il Campidoglio è vostro come quando il
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L’anno prima della guerra
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popolo se ne fece padrone, or è otto secoli, v’istituì il suo parlamento. O Romani,
è questo il vero parlamento. Qui oggi da voi si delibera e si bandisce la guerra.
Sonate la Campana!”
Editoriale di Mussolini. “La terribile settimana di passione dell’Italia, si è
chiusa con la vittoria del Popolo (…) Non si hanno più notizie del cav. Giolitti. È
forse fuggito ancora una volta a Berlino? Anche il giolittismo versa in condizioni
disperate. È latitante. I suoi partigiani scivolano via e tacciono.” Ha ragione Mussolini. Giolitti ritorna in Piemonte, consapevole della
sconfitta. I neutralisti hanno perso. In quei giorni si svolge a Bologna una
riunione dei dirigenti del PSI e della CGL, durante il quale viene approvata la
formula del “né aderire né sabotare”, che non significa nulla. A Torino lo
sciopero generale si conclude con incidenti, arresti e un morto. Le truppe
occupano la Camera del Lavoro. Tanta forza non fu mai usata contro gli
interventisti.
Prima a Torino di “Assunta Spina” con Francesca Bertini, da una storia di
Salvatore Di Giacomo. Regia di Gustavo Serena. La Bertini viene considerata
come co-regista in virtù del contributo essenziale dato alla messa in scena del
film. È una storia strappalacrime di amori, galera e tradimenti. La Bertini mette
in scena una grande interpretazione di realismo e duttilità espressiva che
rendono il film uno dei più grandi del cinema muto e nettamente superiore
all’enfatico e celebrato Cabiria. Il cinema italiano, uno dei maggiori centri di
produzione con Stati Uniti e Francia, non sopravviverà alla grande guerra.
Quando le armi taceranno, il mondo sarà diverso e dominerà l’America, anche
in questo campo.
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A Roma Von Bülow e Macchio non nutrono più speranze. Eppure
quest’ultimo vuole fare l’ultimo tentativo il 18 maggio con ulteriori proposte
migliorative per un accordo.
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L’anno prima della guerra
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Fervono i preparativi militari. Cadorna già da giorni ha realizzato una
mobilitazione generale utilizzando cartoline precetto individuali. Un piccolo
capolavoro di organizzazione italica. Mercoledì 19 il Capo di Stato maggiore
emana una rigida circolare sulla disciplina nel periodo di guerra. Salandra, con
una circolare “riservatissima urgente” ai prefetti delle città principali di formare
uffici per la revisione preventiva della stampa. D’Annunzio viene ricevuto dal re
a Villa Savoia. Tre quarti d’ora a passeggio per il parco. Non si sa cosa si siano
detti. Il cancelliere tedesco Bethmann presenta le ultime offerte, che prevedono
una rapida consegna dei territori austriaci.
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Giovedì 20 alle 14 riapre il parlamento di fronte a tribune gremite. Ci sono gli
ambasciatori di Gran Bretagna, Francia e Russia. Mancano i diplomatici dei
nostri ex alleati e futuri nemici. Compostezza ma anche generale entusiasmo.
D’Annunzio viene portato a dorso di folla nell’unico posto rimasto libero. I
socialisti restano seduti in silenzio tra grida di “Viva l’Italia! Viva la guerra! Viva
Trento e Trieste!” Salandra fa un discorso da imbonitore, che maschera la
guerra di aggressione che l’Italia intende scatenare contro l’ex alleata. Nemmeno
una volta dichiara cosa vuole l’Italia e perché dovrebbe prenderselo con la forza.
Afferma comicamente che l’alleanza con l’Austria è stata violata dall’ultimatum
alla Serbia. Ce ne accorgiamo dopo nove mesi? Dopo aver chiesto all’Austria
compensi territoriali? Sono affermazioni pubbliche che farebbero arrossire
persone in grado di ragionare. “Il Governo del Re si vide costretto a notificare al Governo imperiale e reale
dell’Austria-Ungheria, il giorno 4 di questo mese, il ritiro di ogni sua proposta di
accordo, la denuncia del trattato d’alleanza e la dichiarazione della propria
libertà d’azione. Né, d’altra parte, era più possibile lasciar l’Italia in un
isolamento senza sicurtà e senza prestigio proprio nel momento in cui la storia
del mondo sta attraversando una fase decisiva.”
Salandra mente. Non dice che lui ha impegnato l’Italia con il Patto di
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Londra. Chiede i pieni poteri “in caso di guerra”, un’altra piccola meschina
ipocrisia, come se nell’aula si discutesse del raccolto dei cocomeri.
Turati parla a nome del gruppo socialista tra continue interruzioni. Un breve
discorso in cui si appella alla ragione e ad un sincero patriottismo. Ricorda che
fino ad una settimana fa la maggioranza del parlamento, interprete del
sentimento popolare, era contro la guerra, ed oggi ha cambiato bandiera
nonostante non vi fossero fatti nuovi; denuncia la campagna di intimidazioni e di
denigrazione degli interventisti contro i politici contrari alla guerra; chiede che
siano le classi agiate a pagate il prezzo della guerra e non il popolo.
La Camera è chiamata a votare a scrutinio segreto la concessione dei pieni
poteri. Alle 18.30 la proclamazione dei risultati: 407 voti a favore, 74 contrari,
molti di più dei 41 socialisti. Nei giorni successivi si scatenerà la ricerca dei
cosiddetti traditori. La seduta si conclude tra applausi, canti patriottici, inni al re
e a D’Annunzio. Una collettiva manifestazione di irresponsabilità.
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Il giorno dopo i primi segnali di ostilità al confine. L’Austria ritira i doganieri,
respinge la posta italiana e rimuove le rotaie ferroviarie. Anche il Senato concede
i pieni poteri al governo Salandra con 282 voti favorevoli e solo 2 contrari. Nel
pomeriggio il ministro degli esteri austriaco Burian consegna una nota di accusa
sulla doppiezza e sull’ipocrisia del governo italiano. Non si può dar torto a
Vienna. Il re appare ad un balcone del Quirinale per rivolgersi direttamente al
popolo romano, vestito in uniforme grigio-verde, con la regina Elena, i principini
e il sindaco di Roma. È la prima volta che accade durante il suo regno.
L’entusiasmo è indescrivibile. Le foto in bianco e nero mostrano la piazza del
Quirinale gremita di folla.
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Sabato sera 22 viene finalmente decretata la mobilitazione generale. La
dichiarazione di guerra ancora però non si vede. L’Austria e la Germania non
vogliono dare questa soddisfazione al nostro paese. Facciamolo noi, se ne
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abbiamo coraggio. Assumiamoci le nostre responsabilità. Nel pomeriggio Von
Bülow e Macchio si recano alla Consulta, per l’ultimo colloquio.
Nel frattempo Il consiglio dei ministri approva la dichiarazione di guerra
all’Austria che viene spedito per telegramma a Vienna alle 17.20. La consegna
effettiva il giorno dopo alle 16.15.
Lo stesso giorno la rivista “Lacerba” termina le sue pubblicazioni. Lo scopo
della rivista è raggiunto. Papini scrive “Abbiamo vinto!”
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A Trieste scoppiano domenica 23 gravi incidenti antiitaliani. La sede de Il
Piccolo viene incendiata. Viene sospeso anche il campionato. Invece di fischiare
l’inizio delle partite, gli arbitri leggono ai giocatori già in campo il comunicato
FIGC che ordina la sospensione di ogni gara. Protesta il Genoa e anche il
Torino. La FIGC crede che la guerra finirà presto. Bisognerà aspettare il 1919
per la consegna dello scudetto al Genoa. Non molti giocatori genoani
sopravviveranno alla guerra.
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Lunedì 24 maggio le prime truppe italiane varcano il confine dell’Isonzo,
dove si intende condurre la principale offensiva con l’obiettivo di prendere
Trieste rapidamente. Ma i nostri soldati sono ancora pochi. Alle 2 del mattino
muore il primo italiano, l’alpino udinese Riccardo Giusto. Ferroviere di 19 anni,
viene colpito alla nuca. Morì in pochi minuti dopo aver chiamato la madre.
È il primo dei seicentomila soldati e marinai che moriranno nei tre anni e
mezzo della più terribile guerra combattuta sul suolo italiano. A cui si dovranno
aggiungere quasi altre seicentomila vittime civili. In totale, il 3,5% della
popolazione, senza dimenticare i 430mila morti per l’influenza spagnola, diretta
conseguenza della guerra. Tutto questo per soddisfare la vanità di un piccolo
monarca provinciale e di altrettante mediocri figure coinvolte in un gioco ben
più grande di loro.
Certo, come abbiamo più volte detto, difficilmente l’Italia avrebbe potuto
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rimanere estranea al conflitto mondiale. Piazzata al centro del Mediterraneo, tra
Francia ed Austria, con consistenti interessi politici e commerciali nei Balcani,
eravamo in una posizione difficilissima. E lo siamo sempre stati, fin dall’Unità.
L’isolamento è pericoloso per una nazione fragile e debole come l’Italia.
Fino al 28 giugno 1914 ce la siamo cavata egregiamente in un continente
pieno di pericoli. La nostra stella polare era il mantenimento dell’equilibrio
europeo. Dal nostro punto di vista il revanscismo francese era pericoloso quanto
il militarismo tedesco. Potevamo attendere che la storia ci avrebbe dato su un
piatto d’argento le terre irredente. L’Impero austro-ungarico, simbolicamente
presieduto da un imperatore ottantenne proveniente da un’altra epoca, era in
avanzata fase terminale.
Ma non potevamo attendere. Finito l’equilibrio con l’inizio della grande
guerra, la strada dell’Italia era rischiosa qualunque cosa i nostri politici avessero
deciso di fare. La neutralità rappresentava un pericoloso isolamento
internazionale. Come per gli Stati Uniti, non sarebbe durata. Saremmo stati
tirati dentro, in un modo o nell’altro. Avremmo potuto guadagnare tempo,
sistemare l’esercito, riassettare l’economia, prepararci al peggio. Nulla di questo
venne tentato.
Il vero peccato di Salandra e compagnia, ad essere giusti, è quello di aver
ridotto le scelte dell’Italia ad un’alternativa secca tra neutralità ed intervento. Vi
era almeno una terza opzione, quella che Giolitti delineò nella sua lettera a
Peano in gennaio, trattare per ottenere il massimo e riservare l’opzione militare
solo come extrema ratio. Ve ne era forse anche un’altra, quella di usare le nostre,
sia pur limitate, risorse per favorire la fine della guerra. Siamo nella fantapolitica
ma c’è da chiedersi se un’Italia neutrale non avrebbe affrettato la conclusione del
conflitto.
Tutto ciò non accadde. L’Italia liberale di inizio novecento finì vittima della
sua stessa retorica, quella che dopo aver dato alla penisola la sospirata unità
politica, fece credere ai nostri dirigenti e ai nostri intellettuali di essere gli eredi
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degli antichi romani.
Quando invece eravamo solo un popolo di contadini affamati che a malapena
aveva i mezzi per mettere insieme un pranzo e una cena.
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Il primo di 689.000 morti. Riccardo Giusto aveva vent’anni.
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BIBLIOGRAFIA
Wikipedia è uno degli strumenti essenziali di consultazione in rete. Ma non può
essere l’unico. Ci sono vari errori (per esempio i dati sul campionato di calcio
1914-15 non corrispondono alla realtà) ed incompletezze. Si trovano eppure
anche molte informazioni introvabili oppure non facilmente recuperabili (per
esempio la storia del capitano Belloni e del furto del sottomarino, la foto di
Riccardo Giusto). A questa base utilissima, vanno quindi affiancate altre fonti
più professionali, molte reperibili on line.
Eccole.
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• AA.VV. Documenti diplomatici italiani. In particolare Quarta Serie, volume
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Luca Editori D’Arte 2008.
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• Giorgio Candeloro. Storia dell’Italia moderna. Volume ottavo. Feltrinelli 1981.
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L`anno prima della guerra. Italia 1914-15