LADOMENICA
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
NUMERO 348
DIREPUBBLICA
CULT
All’interno
La copertina
L’artista scende
in campo
Ecco le star
dell’impegno
BIZIO, CERCAS E TOBAGI
Viaggio
negli
archivi
del teatro
a pochi
giorni
dalla
riapertura
Frasi,
disegni,
caricature
Gli spartiti
ritrovati
raccontano
la storia
dell’Urss
Il libro
Moto e amicizie
così Grossi
narra l’incanto
della giovinezza
DARIA GALATERIA
L’intervista
Terry Eagleton
“Il mio saggio
sulla nostra felicità
da jazz band”
RAFFAELLA DE SANTIS
Spettacoli
Ingegner Vian,
le canzoni
mai cantate
ANAIS GINORI e BORIS VIAN
L’incontro
Sofia Coppola,
“Non sono più
una figlia di papà”
MARIO SERENELLINI
FOTO PETER TURNLEY/CORBIS
I fantasmi
del
Bolshoi
DANIELE MASTROGIACOMO
I
NICOLA LOMBARDOZZI
MOSCA
l tempo l’ha ingiallita. Rischia di sfaldarsi come una pergamena. Gli angoli sono consumati; soprattutto quello destro,
in basso, levigato da migliaia di dita che durante i concerti seguivano gli accordi sul pentagramma. Boris sfiora quel pezzo di carta. La musica invade la stanza mentre l’indice affusolato dell’archivista scorre le note. Si ferma sul margine e indica una parola
scritta a mano, in stampatello. Un tratto di matita, il commento lapidario dell’autrice: «1923, vediamo solo orrore».
Al secondo piano di un palazzo color ocra, dietro piazza Teatralnaya, nel cuore di Mosca, c’è l’archivio storico di quello che è considerato il tempio del balletto e della musica classica. Il Bolshoi, “grande” in russo, dopo sette anni di restauri il 28 ottobre riaprirà i battenti.
Ma è in questo immobile separato, l’Operetta, che si nasconde un
segreto conservato da quasi due secoli.
(segue nelle pagine successive)
S
MOSCA
u una panchina che dà le spalle alla statua di Karl Marx,
nel centro di piazza Teatralnaya, Alesja Shuzhiraskaja,
splendida pensionata di quarantasette anni, guarda gli
operai che danno gli ultimi ritocchi al Bolshoi. Il racconto viene fuori da solo. Senza pause, e con gli occhi un po’ lucidi.
«Più che gli applausi, ricordo i funghi e le patate che ci portavamo in
giro per il mondo negli anni Settanta e Ottanta. Eravamo proprio delle strane star io e le altre ballerine di prima fila. Gli americani, i francesi, tutti, impazzivano per noi. I nostri politici erano fieri del nostro
mito esportato in Occidente. Eravamo la vetrina della macchina invincibile dell’Unione Sovietica. Sorridevamo con quell’aria di leggera supponenza che copiavamo dalle foto dei divi di Hollywood.
Poi trasformavamo le nostre suite in un campeggio e tiravamo fuori dalle valigie in similpelle quello che ci eravamo portate».
(segue nelle pagine successive)
La mostra
Arrivano
gli indiani,
l’arte glocal
di una nazione
ACHILLE BONITO OLIVA
Il teatro
La Biennale
dove si mette
in scena
la realtà
ANNA BANDETTINI
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
LA DOMENICA
■ 28
La copertina
Fantasmi di carta
“1923, solo orrore”
scriveva in stampatello
su un pentagramma
l’étoile Anastasia Abramova
Dagli archivi del celebre teatro,
a pochi giorni dalla riapertura,
spuntano i vecchi spartiti
su cui artisti noti e meno noti
appuntavano i grandi
e i piccoli fatti della storia
CARICATURE
A sinistra la caricatura di un suonatore di corno
inglese e alcuni appunti su personaggi legati al Kgb;
qui sopra la disperata voglia di una sigaretta durante
le prove esorcizzata con un disegno e una scritta: “Fumare!”
Bolshoi
Sulle note ritrovate
la vita ai tempi dell’Urss
DANIELE MASTROGIACOMO
(segue dalla copertina)
un diario, raccolto
in trentamila fascicoli, dove compositori, direttori,
orchestrali, adattatori e scenografi
raccontano lo spirito del tempo,
gli avvenimenti che hanno scandito la storia di tutte le Russie. Parole, frasi, poesie, disegni, caricature, bozzetti. A volte semplici schizzi;
altre interi affreschi.
La scoperta è avvenuta per caso. Per
procedere alla digitalizzazione dei
ventiduemila spartiti conservati al Bolshoi, una squadra di archivisti ha dovuto sfogliare ogni singolo foglio, fotografarlo e immetterlo su file elettronici.
Boris Mukosey, Aleshia Bobrik e Sergei
Konayev, tutti sulla trentina, accettano
È
di incontrarci e ci spiegano la loro avventura. Mentre ordinavano con delicatezza questi reperti ammassati su alte pile e sommersi dalla polvere, hanno
cominciato a notare degli appunti a
margine degli spartiti. «Sulle prime», ricorda Boris, «abbiamo pensato a delle
correzioni. Molte delle scritte, infatti,
riportano annotazioni tecniche. Poi ci
siamo resi conto che c’era molto di
più». Sulle opere di Boito, Masetti, Rossini, Verdi, Chopin appaiono brevi
commenti, battute, riflessioni filosofiche, giudizi politici; anche semplici saluti ai colleghi che in altri teatri di altre
città prima o poi si sarebbero ritrovati
tra le mani gli stessi spartiti. «Sono testimonianze uniche», si appassiona
Sergei, «piccoli frammenti di storia. Alcune parole sono in latino, altre in cirillico, altre ancora in francese, in tedesco. Ma la maggioranza sono in italia-
no». «Gli spartiti», aggiunge Aleshia,
«venivano fotocopiati dal direttore e
distribuiti a tutti gli orchestrali. Questi
stavano la maggior parte del loro tempo chiusi nella fossa a provare e riprovare i pezzi per decine di volte». «Probabilmente si annoiavano», suggerisce
Boris, «restare seduti per ore, aspettando il proprio turno, concedendosi ogni
tanto delle pause, tutto ciò li spingeva a
scarabocchiare sullo spartito che avevano davanti. Ma c’era anche chi su
quei fogli lanciava messaggi, descriveva quello che stava avvenendo. Confermava o smentiva gli effetti di certi sconvolgimenti politici che hanno segnato
la storia del nostro Paese». L “orrore”
scritto in stampatello è un commento
di Anastasia Abramova, famosissima
ballerina degli anni Venti. «Si riferiva»,
spiega Boris, «a quanto stava accadendo dopo la rivoluzione bolscevica».
Non è stato facile legare le frasi e i disegni ai singoli musicisti o ballerini.
Ma lo studio comparativo consente di
descrivere anche le caratteristiche degli orchestrali. Gli addetti agli archi
erano più razionali e pragmatici. «I loro spartiti sono pieni di numeri», racconta Aleshia. «Forse avevano meno
tempo: i violinisti devono intervenire
più spesso nel concerto e questo li obbligava a scrivere cose semplici. La
maggior parte calcolava quanto
avrebbe dovuto percepire a fine settimana. Molti si perdevano nei conti».
Gli addetti agli ottoni, agli strumenti a
fiato, avevano molto più tempo e largheggiavano in disegni. In alcuni
spartiti ci sono quasi degli affreschi
colorati. In altri interi sonetti. In altri
ancora caricature di colleghi colti in
posizioni strane mentre si concentrano durante le prove. «È un vero diario
CONTI
Da sinistra, i conti
sui giorni mancanti
alla consegna
della busta paga
accanto a un ritratto
femminile; appunti
del 1892 sulle prove
SCHERZI
A destra, la presa in giro
di un suonatore di fagotto:
“A diciott’anni era così,
oggi è così”. In basso,
ballerine del Bolshoi
dietro le quinte
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
■ 29
PACE
FIDEL
Ballerina prima dello spettacolo
Sotto, caricature su pentagramma
e una scritta in italiano: “pace pace”
Fidel Castro, Nikita Kruscev
e Emilio Aragones Navarro a un balletto
del Bolshoi il 1° maggio del 1963
STALIN
Tra le scritte e gli scarabocchi
su un pentagramma compare
la frase: “5/III/1953. Il grande Stalin
è morto”. Qualcuno ha cancellato
la parola “grande”. Nella foto accanto,
il dittatore al Bolshoi in occasione
del suo settantesimo compleanno
AMERICANO
A destra, una delle stelle del teatro
moscovita: Mikhail Baryshnikov
Qui la sua interpretazione
nel Lago dei cigni, al Bolshoi,
nel 1983. Tre anni più tardi
il celebre ballerino sceglierà
di diventare cittadino americano
La ballerina
“Il mondo ci applaudiva,
noi sognavamo le Barbie”
NICOLA LOMBARDOZZI
(segue dalla copertina)
etrioli e salsicce sfuggiti ai controlli con la
complicità degli equipaggi dell’Aeroflot.
L’importante era non spendere un centesimo dei 15 dollari giornalieri di diaria per ogni tournée.
E investire tutto nell’unica cosa che contava: regali per
gli amici, jeans, profumi, qualche disco proibito dei
Beatles, cioccolato. All’inizio era un gioco. Poi cominciai a organizzarmi. Un po’ di risparmi nascosti nella
biancheria. Un capitale per comprare merce da rivendere o regalare a Mosca in cambio di piccoli favori indispensabili: l’inserimento nella cooperativa che costruiva nuove case, una fornitura di elettrodomestici
rarissimi, un salto in avanti nella lista d’attesa per una
Zhigulì. Ma non crediate che ci sentissimo inferiori a
nessuno. Io, ero orgogliosa di essere una protagonista
nel corpo di ballo più famoso del mondo. Non una stella di prima grandezza come Ekaterina Maksimova, per
intenderci, ma neanche l’ultima arrivata. I giornali sovietici dicevano che chiunque di noi avrebbe potuto essere la prima donna in qualsiasi teatro occidentale. E
forse avevano ragione. Ero fiera della qualità della nostra danza. E, lasciatemelo dire, grata al sistema per essere diventata quello che ero. Nei primi anni Settanta
non era come adesso che danza chi vuole danzare. Perché ha i soldi o perché lo vogliono i genitori. C’era una
ricerca scientifica dei talenti come del resto avveniva
per gli atleti. A otto anni fui obbligata come tutte le bambine a fare delle prove a scuola. Poi mi ordinarono di fare un altro test davanti a Jurij Grigorovich, il più grande
coreografo di tutti i tempi. Ma figuratevi, mia madre era
ingegnere, niente di più lontano dall’arte. Io stessa eseguivo gli esercizi per puro dovere, come facevo quelli di
matematica o di grammatica. Ma la selezione era implacabile. Fui assegnata alla scuola del Bolshoi. E non
ci fu discussione. Arrivarono richieste anche da altri celebri teatri, dallo Stanislavskij per esempio, ma ero stata giudicata da Bolshoi e fu detto loro di non insistere.
Avevo un talento, anche se non lo sapevo, e dovevo
metterlo al servizio della Patria.
«C
In cambio ho imparato un’arte che adesso non si insegna più. Alla corte di Marina Timofeevna Semionova, un mito per chi conosce un po’ di storia della danza.
Niente super allenamenti, niente ossessione perfezionistica, non fidatevi dei luoghi comuni. Studiavamo
danza ma anche recitazione e pianoforte. E sapete in
cosa consisteva la nostra superiorità? Nell’anima.
Adesso vince il modello occidentale, spettacolare, potente. Si strappa l’ovazione con il salto più in alto, con le
piroette più difficili. L’arte però è un’altra cosa. Non
puoi ballare Ciaikovskij come fosse Ravel e viceversa.
Devi entrare nel ruolo, sentire la musica, metterci il
cuore. E non era solo arte. Il prestigio sociale era immenso. Ricchi no, guadagnavamo anche meno degli
operai. Ma quanti privilegi. Vi dico solo una cosa. Mi davano due biglietti omaggio per ogni rappresentazione.
Il prezzo era alto ma soprattutto le code infinite. Quei
tagliandi erano oro puro. Con soli quattro biglietti regalati a ginecologo e ostetrica ho rimediato un trattamento da regina per il mio primo parto. Con meno di
una decina, ho ricevuto per mesi forniture alimentari
introvabili al bancone dei negozi.
Certo, c’era anche il rovescio della medaglia. A cominciare dall’indottrinamento politico. Penso a quelle
lezioni alle otto di mattina, quando avevamo finito uno
spettacolo la sera prima a mezzanotte. Tutti assonnati,
docente compreso, fingevamo di occuparci del socialismo e dei suoi obiettivi. Una farsa, ma si doveva fare.
E prima di ogni tournée, quanti interrogatori e raccomandazioni. Erano terrorizzati dalle fughe. Un omino
del Kgb ci seguiva ovunque. Implorava, poveretto: non
fuggite, non stavolta che ci sono io, sarei rovinato. Ma
per fuggire ci voleva coraggio, motivazione politica. Io
stavo bene. Non ho mai visto l’Occidente come il Paradiso in terra. Piuttosto un sogno che mi capitava di vivere spesso. Ricordo il mio primo viaggio, a New York,
da allieva, nel ’74. Avevo dodici anni. Impazzii per le
Barbie. Mai visto bambole così. Ne comprai tre. E non
vedevo l’ora di tornare dalle mie amiche a Mosca. Io, la
piccola ballerina del Bolshoi. Quella con le Barbie».
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di quanto accadeva sulla scena e nella
vita di tutti i giorni. Tenuto spesso con
grande umorismo e con un vero talento artistico». Su alcuni spartiti ci sono
anche disegni all’epoca piuttosto rischiosi, come le ballerine nude in posizioni erotiche disegnate su un Rigoletto. L’archivio originale era molto più
vasto di quello attuale. I tre incendi che
nell’Ottocento aggredirono il teatro
hanno distrutto la metà degli spartiti.
Si sono salvati, per fortuna, i più famosi, spesso donati al teatro dagli stessi
compositori e per questo ancora più
pregiati. Nascosti tra gli scaffali di questa piccola stanza rimasta a lungo
chiusa e isolata, hanno resistito ai momenti più difficili, la campagna di Napoleone, la caduta degli zar, la rivoluzione d’Ottobre, due guerre mondiali,
gli assedi delle truppe di Hitler. Oggi
quegli spartiti restano i testimoni di
una lunga storia. «Il grande Stalin è
morto», annuncia nel 1953 una mano
anonima in fondo a un pentagramma.
Mentre un’altra cancella, con un graffio nervoso, quel «grande». «Suoniamo
con 5 gradi», ricorda uno spartito del
compositore Carl Maria Von Weber
nel 1940. «Alcune persone hanno il naso congelato». Fino a commenti più allarmati che rievocano il terrore della
polizia segreta, l’allora Kgb: «Sembra
che siano venuti per Tatiana», appunta nel 1968 un violinista durante le prove dell’Eugenio Onegin, romanzo in
versi di Puskin arrangiato dal grande
Ciaikovskij. I tre archivisti sorridono.
«L’autore voleva dire un’altra cosa»,
suggeriscono. «Tatiana era una pessima cantante. Non vedevano l’ora che
se ne andasse e speravano che qualcuno la portasse via».
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RITRATTI
Sopra, altri disegni dei musicisti
del Bolshoi: una voluttuosa ballerina
e due caricature su un pentagramma
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
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L’attualità
Si chiamano Woodland, Spirit Land, Tinkers Bubble. Sono microscopiche
comunità di persone che hanno deciso di vivere lontane
dal consumismo e di costruire le proprie case di tronchi
e foglie nelle foreste inglesi del Devon, del Pembrokeshire,
Into the Wild
del Somerset. E che da qui difendono il loro diritto a un’esistenza fuori dal comune
EMMA & JOHN. Sono membri della comunità Brithdir Mawr,
MARY & JOE. Vivono in questa casa nella foresta del Somerset e fanno parte della comunità Tinkers Bubble
Popolo
C’
alberi
Il
degli
ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA
era una volta una strada nel bosco. O meglio, un’autostrada. Potrebbe essere l’inizio di una favola postmoderna. Precisiamo, però: il bosco c’era, l’autostrada che ci
passava in mezzo ancora no. Volevano costruirla nel Devon,
per portare il traffico nel countryside inglese e così alleggerire gli ingorghi di una tangenziale vicina. Forse sarebbe piaciuta agli automobilisti, ma certo non al bosco, ai suoi animali, alle sue piante secolari. Così nove anni fa un gruppo di
ambientalisti decise di piantare le tende tra gli alberi di quella foresta, con l’obiettivo di bloccare l’avanzata di ruspe, camion, asfalto, insomma per fermare l’autostrada. L’iniziativa riuscì. Con il sostegno della potente lobby dei campagnoli, ossia degli amanti della vita di campagna, che è una delle
sacre icone dell’Inghilterra: una singolare alleanza di verdi e
tradizionalisti, di ecologisti e conservatori ha fatto cambiare idea alle autorità e salvato il bosco dall’autostrada.
Sembra la versione moderna de Il segreto del bosco vecchio, indimenticabile apologo di Dino Buzzati in cui uno
speculatore è pronto a tutto pur di abbattere un bosco. Solo
che nella realtà la fiaba non è finita con lo stop alla costru-
BRIGYN. La sua casa si trova nel bosco della comunità Brithdir Mawr, nel Pembrokeshire, in Galles
zione dell’autostrada. Gli ambientalisti si sono trovati così
bene nella foresta che ci sono rimasti. Le tende sono diventate capanne, poi casupole, poi case, naturalmente eco-sostenibili, fatte in proprio, non inquinanti e appoggiate, avvinghiate, arrampicate agli alberi, o addirittura sopra di essi. È nato così poco per volta uno strano movimento, dapprima in Inghilterra, poi anche altrove (Italia compresa).
People of the Trees, si autodefiniscono: “Il popolo degli alberi”. «Albericoli», li chiamano talvolta quelli che stanno fuori
dal bosco, evocando il termine «cavernicoli». Ed è a una vita
più semplice, primitiva, elementare, che loro effettivamente ambiscono, perciò non lo prendono come un insulto.
La prima è stata la Steward Community Woodland nel Devon. Si è autoproclamata comunità nel 2004, qualche anno
dopo la campagna per fermare l’autostrada. «Tra gli alberi e
sugli alberi si vive bene, certamente meglio che tra le auto, lo
smog e tutte le follie del consumismo urbano», dice John
Asher, circondato da Sonya, Daisy, Marley e dal cane, considerato il capo di questa speciale tribù. La pensano come lui
Emma e Bill del Tir Ysbrydol (Spirit Land, “La terra dello spirito”), una comunità analoga nel Pembrokeshire, e i residenti del Tinkers Bubble (“Bolla dei pensatori”) nel Somerset, e tutti gli altri seguaci del ritorno alla natura. La vita degli
“albericoli” non è facile. Intanto, bisogna saper costruire
una casetta con materiali naturali, facendo tutto da soli, sopravvivendo senza elettricità, gas, acqua. Poi, quando le casette sono almeno mezza dozzina, bisogna combattere contro le leggi e la burocrazia che si rifiutano di considerarle un
villaggio: le stesse leggi e la stessa burocrazia che sarebbero
pronte ad abbattere un bosco per farci passare un’autostrada, ma che giudicano incivile la presenza di qualche decina
di esseri umani rispettosi dell’ambiente. Quindi servono avvocati, lobbisti, soldi, per difendere il proprio diritto a un’esistenza fuori dalla norma. «Ma questa è gente che crede in
quello che fa e non arretra davanti a nulla», ci dice David Spero, il fotografo inglese che per un decennio ha documentato
CUCINA. Pentole e stoviglie a disposizione dei membri
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
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IL FESTIVAL
La decima edizione del Festival internazionale FOTOGRAFIA (al Macro Testaccio
di Roma, in piazza Giustiniani, fino al 23 ottobre) diretto da Marco Delogu,
è dedicata al tema “Motherland” e affronta il rapporto tra fotografia e territorio
Sotto il titolo Settlements sono esposte anche le immagini di David Spero,
alcune delle quali pubblicate in queste pagine. Le sue e quelle degli altri fotografi
che partecipano alle collettiva sono inoltre pubblicate nel catalogo
Motherland edito da Quodlibet (264 pagine, 25 euro)
nel Pembrokeshire, in Galles
LONGHOUSE. Tipica casa nel bosco abitata dai membri della Steward Community Woodland, nel Devon
L’eremitaggio senza trucchi
della donna che rinnegò soldi e cognome
PAOLO RUMIZ
on ricordo più il nome, ma la faccia ce l’ho stampata
davanti. Avrà avuto quarant’anni e pareva uscita da
un altro tempo. Abbronzata come un tagliaboschi,
portava capelli a caschetto, tagliati alla buona. C’era qualcosa di francescano e medievale in lei. Si era fermata a una fonte, in un paesino sloveno di dieci abitanti. Sulle spalle aveva
uno zaino e a tracolla una bisaccia da cui sbucava un quadro
a tempera. Io passavo di lì, in gita col mio compagno preferito, Virgilio, e la donna — accortasi che parlavamo italiano come lei — ci chiese la strada per andare a un altro villaggio. Ci
mostrò la sua carta e vedemmo con sbigottimento che era
scala uno al duecentomila, buona per automobilisti e non
per camminatori. Un tipo speciale.
Viveva di ciò che dava il bosco. «D’autunno — disse — è impossibile aver fame. Trovo uva, castagne, bacche di ogni tipo.
E poi mi regalano zucche, patate». Spiegò che veniva dalle valli del Friuli Orientale e andava a piedi da sola a un santuario in
località Strugnano, alto sul mare dell’Istria. Pregava spesso,
disse, ma non era cattolica e nemmeno cristiana. Le sua divinità stavano effigiate in piccole icone indiane raccolte nella bisaccia. Il santuario lo cercava solo per sondarne l’energia. Raccontò che dormiva sotto gli alberi con una coperta e un telo e
la pioggia non era un problema. Poi raccontò la sua storia.
Viveva in una grotta, e si preparava all’inverno racco-
N
gliendo la legna del bosco. Le chiedemmo come si procurava il cibo. Spiegò che ogni tanto scendeva a valle per prestare lavoro e avere cibo in cambio. Niente danaro, l’aveva bandito dalla sua vita. Il resto era eremitaggio puro, senza trucchi. Roba vera, per vivere: non per suicidarsi nella wilderness
o scrivere libri alla moda millantando prestazioni inesistenti. Era piemontese, figlia di ricchi industriali, e aveva mollato il suo mondo da vent’anni. Della vecchia pelle aveva rinnegato tutto, persino il cognome. Rifiutava di avere documenti e la polizia, comprensiva, le ristampava ogni tanto un
foglio di smarrimento della carta d’identità.
La fuggitiva parlava senza reticenze, quasi meravigliata
che non la deridessimo. Non sfuggiva al mondo, lo attraversava e basta. A piedi era stata fino all’ultima Ucraina, quattromila chilometri dormendo «dentro i covoni» nei mesi
freddi. Poi l’avevano trovata senza passaporto dalle parti del
Don e l’avevano messa in galera. «Lì ho imparato a cantare.
C’era una prostituta dolcissima che mi insegnava ballate
stupende. Sono stati i giorni più belli della mia vita». Le regalai un block notes, le dissi che non poteva non scrivere quelle cose. In cambio, lei ci offrì due mazzetti di fiori gialli minuziosamente annodati con fili d’erba, poi se ne andò, soletta, verso la notte.
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l’epopea del Popolo degli Alberi. «Per fotografare le case
ho dovuto prima guadagnare la fiducia di quelli che ci abitavano. È stato come entrare a contatto con una specie sconosciuta, perché in un certo senso anche queste persone, con
la loro scelta radicale, sono diventate parte della fauna del
bosco, parte del bosco, e guardano giustamente con una certa diffidenza chi viene da fuori».
In Inghilterra, come altrove, ce l’hanno fatta, almeno finora. Qui hanno persino ricevuto un aiuto del tutto inatteso: una campagna stampa del quotidiano conservatore
Daily Telegraphcontro le nuove regole di pianificazione approvate dal governo (conservatore anche quello) di David
Cameron. Il premier voleva sostituire 1300 pagine di regolamenti con un libretto di appena 52. Il messaggio era chiaro: tutto è permesso. «Un assegno in bianco agli speculatori per distruggere il nostro patrimonio forestale e allargare a
dismisura le città», accusa John Rhodes, inizialmente uno
degli autori della riforma, che ora ha ritrattato passando dalla parte degli “albericoli”. Gli inglesi adorano la campagna,
anche quelli che non ne posseggono neppure un pezzetto,
sicché nel nome di sentimenti a metà strada tra tradizioni
vecchio stile e ecologismo militante sperano che il progetto sarà bloccato – come anni fa l’autostrada che doveva sradicare gli alberi del Devon.
Fanno venire in mente gli gnomi, gli elfi, i folletti del bosco,
questi uomini e donne (e anche qualche bambino) che hanno scelto di abitare tra gli alberi. Alcuni di loro hanno l’auto
parcheggiata non troppo lontano e ogni giorno vanno al lavoro in città. Le loro originali costruzioni hanno attirato anche l’interesse di agenzie immobiliari: c’è chi le acquisterebbe a suon di milioni di sterline come seconda casa. Ma gli “albericoli”, come Robin Hood, stanno bene nella foresta. E come il Barone Rampante di Italo Calvino rispondono alle offerte di denaro allo stesso modo in cui rispondevano alle minacce delle ruspe: fermate il mondo, da quassù non si scende.
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della comunità Tinkers Bubble, nel Somerset
ROTONDA. La casa funge da spazio comune per i membri della Tinkers Bubble, nella foresta inglese del Somerset
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
LA DOMENICA
■ 36
La lettura
“Addetto all’ufficio informazioni delle ferrovie salva bambino
da un incendio”. La notizia appare sul giornale e per qualche giorno
la vita di Earl Parish cambia. Poi il tempo passa, tutti dimenticano,
tranne lui. La storia di un’ossessione in un racconto
Noir
totalmente inedito del creatore di Sam Spade
Dashiell
Hammett
DASHIELL HAMMETT
alla porta aperta e da una finestra
al secondo piano uscivano sottili
spirali di fumo senza propulsione
che svanivano nell’aria. Più in alto, il viso di un bambino — appeso al davanzale come se fosse in
punta di piedi — era schiacciato contro il vetro di
una finestra del terzo piano. Sembrava perplesso, ma non impaurito. L’uomo a sinistra di Earl
Parish fu il primo a vederlo.
«Guardate!» esclamò, indicandolo con la mano. «C’è un bambino, lassù!»
Gli altri guardarono in alto e ripeterono: «C’è
un bambino, lassù!».
«Qualcuno ha già dato l’allarme?» chiese un
uomo appena arrivato.
«Sì» gli assicurarono diverse voci. E una aggiunse: «I pompieri dovrebbero arrivare da un
momento all’altro».
«Il bambino sta bene». L’uomo che aveva visto
per primo il bambino elogiava la sua scoperta.
«Non piange nemmeno».
«Probabilmente non sa nemmeno che cosa
stia succedendo».
«I pompieri arriveranno tra un attimo. È inutile che proviamo a fare qualcosa. Lo tireranno fuori con la scala molto più in fretta di quanto potremmo fare noi». [...]
Da una casa dietro agli uomini, giunse la voce
di una donna. «Qualcuno dovrebbe andare a tirar
fuori quel bambino! Anche se non si brucia, potrebbero venirgli le convulsioni dallo spavento o
qualcosa del genere». [...]
L’uomo che aveva scoperto il viso alla finestra
si schiarì la gola, gli occhi fissi in modo un po’ rigido alla finestra.
D
«Forse quella
donna ha ragione» disse. «Quel
bambino rischia di avere una crisi di panico. Avevo un nipote a cui veniva il ballo di San Vito per la
paura, se un gatto gli saltava addosso».
«Ma davvero?» chiese l’araldo dei vigili del fuoco con straordinario interesse.
«Forse sarebbe meglio se noi...» suggerì Earl
Parish.
«Forse sarebbe meglio».
Il gruppo oscillava senza prendere una decisione. Poi, otto uomini attraversarono la strada,
affrettando il passo via via che si avvicinavano all’ingresso fumante. Nel salire i quattro gradini di
legno, si urtarono l’un l’altro, perché ognuno voleva arrivare per primo. Stavano entrando in
quella casa e avrebbero corso tutti lo stesso rischio. Ma chi entrava per primo avrebbe portato
giù il bambino, mentre gli altri sarebbero stati solo un coro di poca importanza. Varcata la soglia,
li avvolse una folata di fumo che offuscò la luce
bruciandogli gli occhi e la gola. Per strada, si sentirono risuonare le campane e le sirene.
«Ecco i pompieri!» gridò il profeta. «Porteranno giù quel bambino in un attimo!».
Sette uomini tornarono in strada e nulla nel loro atteggiamento rivelava che intendessero scusarsi. Earl Parish rimase nella casa. [...]Esitò. Vo-
leva salire quei gradini e portare giù il bambino, o
restare con lui finché il fuoco non fosse stato
spento. Ma farlo poteva sembrare una mancanza di fiducia negli uomini che erano tornati per
strada. Se avesse detto loro che voleva continuare nell’impresa, lo avrebbero accompagnato. Essendo rimasto silenziosamente indietro, se ora
fosse uscito con il bambino o se si fosse fatto trovare di sopra con lui dopo lo spegnimento del fuoco, avrebbero pensato che li aveva imbrogliati
per mostrarsi come uno che, da solo, aveva fatto
ciò di cui loro avevano avuto paura.
Fece un passo verso la strada e si fermò. Uscire
senza il bambino, a questo punto, non sarebbe
stato meglio. Gli uomini in strada, che senza dubbio si erano ormai accorti della sua assenza,
avrebbero pensato che, dopo aver tradito la loro
fiducia, gli era mancato il coraggio.
Due righe in cronaca
per l’impiegato
che si immaginò eroe
Earl Parish salì i gradini con le aste d’ottone. Via
via che saliva, il fumo diventava più spesso, ma
mai così denso da impedirgli di continuare ad
avanzare. Non vide nessuna fiamma. Al terzo piano, una porta sgangherata gli impediva l’accesso
alla facciata dell’edificio, ma poi si ricordò che
questa era un’occasione insolita, un’emergenza,
per essere precisi e aprì la porta con
una spallata.
Nella stanza dove si
trovava il bambino c’era poco fumo, ma una
lieve nebbiolina entrò insieme a lui. Il bambino
gli andò incontro.
«’umo» disse con tono serio.
«È tutto a posto, figliolo» disse Earl Parish prendendolo in braccio. «Adesso ti porto subito fuori
da qui».
Avvolse con leggerezza una tovaglia rossa e
verde intorno alla testa del bambino, lasciandone libero un lembo se per caso ne avesse avuto bisogno. Fece uno sforzo per non mostrarsi alla finestra e poi scese da dove era salito.
Per strada, qualcuno prese il bambino. Gli girava un po’ la testa per il fumo, per lo sforzo nello
scendere giù con il bambino e per l’emozione che
era cresciuta in lui mentre scendeva... quel nervosismo che accompagna anche la più tranquilla delle ritirate. Tenne la schiena dritta ed evitò gli
sguardi curiosi.[...]
***
Il mattino dopo, seduto alla sua scrivania, Earl
Parish cercò sui quotidiani. Sul Morning Post,
Rimase disteso
pensando che molta gente,
in tutta la città, aveva letto
ciò che aveva fatto
Adesso sapevano
che era un uomo
coraggioso
trovò una notizia di due righe: un incendio di origini sconosciute era stato domato con lievi danni
dopo che un bambino era stato tratto in salvo da
Earl Parish. Piegò il trafiletto in mezzo al giornale e
lo mise via. Tra la partenza del 131, diretto a sud, e
l’arrivo del 22, un impiegato delle ferrovie si avvicinò allo sportello di Earl Parish e gli rivolse un sorriso da sopra il cartello “Informazioni”.
«Dov’è la medaglia?» chiese l’impiegato delle
ferrovie.
Earl Parish gli restituì il sorriso con aria ebete. Il
sangue gli salì alla testa, cominciò a sudare. Alla
stazione, la notizia si diffuse in un baleno: Earl Pa-
Repubblica Nazionale
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rish aveva salvato un bambino da un edificio in
fiamme... due bambini! Gli impiegati della stazione con cui era più in confidenza lo presero in giro
per la sua impresa. Quelli più importanti — il responsabile dell’ufficio bagagli, il capostazione, il
dirigente centrale — si congratularono solennemente con lui, quasi a nome della compagnia. A
mezzogiorno, il direttore generale dell’ufficio passeggeri in persona, mentre andava a un congresso
a St. Louis, si fermò a lodare il coraggio di Earl Parish. Earl Parish lo ascoltò, rispose alle sue domande, mantenne lo sguardo fisso sulla catenella dell’orologio del direttore generale dell’ufficio passeggeri e sudò. Finalmente, venne annunciato il
treno del direttore generale dell’ufficio passeggeri, che strinse la mano a Earl Parish e se ne andò. [...]
Era piacevole rimanere disteso sul letto sapendo che molta gente, in tutta la città, aveva letto ciò
che aveva fatto, che i suoi conoscenti lo consideravano un uomo coraggioso e che forse si vantavano
un po’ di conoscere Earl Parish.[...]
***
Il mattino dopo, andò al lavoro con il volto sereno. Uscì di casa di nascosto per evitare la padrona
di casa, diventata improvvisamente troppo affettuosa. Fu una giornata meno
imbarazzante della precedente. Da una parte, si
stava abituando al suo nuovo status tra i colleghi,
dall’altra, le cose stavano tornando come la settimana prima. I bigliettai davanti al suo sportello facevano ancora delle battute parlando attraverso la
grata: «La prossima volta che salvi delle donne e dei
bambini, salvami una bionda!». Ma ora riusciva a
restituirgli il sorriso senza sudare.
A volte, incontrava delle persone conosciute che
avevano letto la notizia sul Poste gliene parlavano.
In queste occasioni, arrossiva e si sentiva a disagio,
ma poi si godeva il ricordo. Certo, non usciva mai
sperando di fare uno di questi incontri per strada.
Sull’ultimo numero dell’Employee’s Magazine
delle ferrovie c’era la sua fotografia e un dettaglia-
to racconto della sua impresa.
Poi, fu come se l’incendio non ci fosse mai stato.
Nessuno ne parlò più. Un paio di volte lo citò casualmente nella conversazione, ma nessuno mostrò il minimo interesse. Dapprima, pensò che
questa freddezza nascesse dalla noia. Poi, pensò
che fosse colpa dell’invidia.
Cominciò a chiudersi in se stesso. Dopotutto,
che cosa aveva in comune con la gente che lo circondava? Era gente poco interessante: abitanti minori del mondo, rotelle irrilevanti in macchinari
non particolarmente importanti. Lui stesso era
una rotella, questo è vero, ma con la differenza che
in certe occasioni poteva avere un’identità. L’ultima goccia dello spirito d’avventura ancestrale non
era stata ancora distillata dal suo sangue. Giocò
con questo pensiero inventando una frase che gli
piaceva: «L’industrialismo ha distillato dalle loro
vene tutto il loro coraggio ancestrale». Guardava il
mondo da sopra il cartello con la scritta “Informazioni” e si ripeteva da solo la frase.
Chiunque passasse davanti al suo sportello o gli
chiedesse qualcosa veniva catalogato. Possedeva
ancora un po’ di coraggio ancestrale? Oppure no?
Il primo gruppo era piccolo.
Agli uffici della direzione generale, che si trovavano in centro, giunsero delle lamentele:
l’uomo allo sportello delle “Informazioni”
era stato poco disponibile, era stato maleducato, aveva detto delle cose offensive. Earl Parish ricevette una lettera
ufficiale che richiamava la sua attenzione sulla quantità di lamentele e sullo slogan viola che promuoveva la compagnia: «La cortesia ovunque». Dipartimenti importanti come l’ufficio informazioni, insisteva la lettera, avevano
una grande influenza sull’atteggiamento del pubblico nei confronti della compagnia e da quell’atteggiamento dipendevano
non solo i ricavi della compagnia, ma anche il suo
successo nell’ottenere una legislazione favorevole.
A Earl Parish la lettera non piacque. Con una matita e un blocco di carta cominciò a buttar giù una
risposta, ma non la risposta che ci si potrebbe
aspettare da una rotella. Al suo sportello si presentò un vecchio irritabile con una domanda senza risposta. L’Earl Parish di qualche tempo prima
avrebbe portato il vecchio a un punto in cui la risposta a una domanda completamente diversa lo
avrebbe soddisfatto. L’Earl Parish alle prese con la
bozza di risposta agli uffici della direzione generale disse al vecchio a bruciapelo che la sua domanda era sciocca. Il vecchio era una persona a suo modo importante. Il giorno seguente, Earl Parish ricevette due settimane di preavviso. Se ne andò dopo
dieci minuti.[...]
***
Earl Parish stava lavorando temporaneamente
in una fabbrica di saponi quando un giorno lesse
sul giornale che il corpo dei vigili del fuoco pativa
una grave carenza di personale. Lasciò immediatamente la fabbrica di saponi, stupito di aver avuto bisogno che il giornale gli indicasse la strada: era
ovvio, il corpo dei vigili del fuoco era il posto più
adatto per lui!
Presentò la sua domanda di lavoro e fu visitato
da un medico. Trascorsero alcuni giorni e finalmente gli dissero che non aveva superato la visita
medica — per una questione di reni. Lo stesso giorno, nell’ufficio del comandante dei vigili del fuoco,
Earl Parish diede spettacolo. Davanti agli occhi del
comandante, venne brandito un trafiletto di giornale. Il comandante fu chiamato vecchio pazzo.
Earl Parish fu preso e sbattuto fuori.
Si recò nell’ufficio del Morning Post, dove trovò
qualcuno disposto ad ascoltare la sua storia. In
quel momento, il Morning Postera un giornale dell’opposizione e dedicò mezza colonna alla storia di
un uomo che un giorno «si lanciò in un edificio in
fiamme per salvare un bambino» e a cui ora, non
riuscendo a trovare un altro impiego, veniva
impedito di entrare nel
corpo dei vigili del fuoco da «quella
stessa burocrazia a cui si deve la loro incapacità di
trovare e mantenere un’adeguata quantità di personale».
Da questa pubblicità, Earl Parish ottenne — oltre che un nuovo articoletto — un impiego come
guardia notturna in un conservificio. Lo pagavano
quattro dollari a notte e presto venne a sapere che
due uomini che si dividevano quel lavoro erano
stati licenziati per far posto a lui. Compito del guardiano notturno era fare il giro di tutti gli edifici ogni
ora lasciando prova del suo passaggio in quindici
piccole scatole appese al muro. Dopo la prima set-
timana, Earl Parish cominciò a saltare delle scatole, quelle più lontane. [...] Lo licenziarono alla fine
della terza settimana. [...]
***
Trascorse molto tempo in una piazza poco lontano dalla zona degli uffici. Seduto su una panchina o sdraiato sull’erba, classificava i passanti come
era sua abitudine. Sempre meno erano quelli a cui
la civiltà industriale non avesse distillato dalle vene il coraggio ancestrale. Ogni tanto, mandava una
lettera alla rubrica dei lettori del Post, con amari
commenti sulla decadenza della razza.
A volte andava al porto, fingendo di partire per
una terra virile dove ancora prosperavano i coraggiosi e le pecore si mangiavano. Non metteva mai
piede sul ponte di una nave, non faceva mai una
domanda che potesse portarlo a bordo. I periodi in
cui cercava svogliatamente lavoro si allungarono.
Le parentesi di lavoro si fecero più brevi. Certi giorni, ebbe fame.
In uno di quei giorni, andò in quella casa da cui
aveva tratto in salvo il bambino. La famiglia del
bambino se n’era andata dal quartiere e nessuno
sapeva dove fosse. Una mattina in cui la fame si era
fatta un groppo duro nello stomaco, camminava
per la strada studiando i volti delle persone che incrociava, classificandole, ma non nel suo modo
abituale. Ora cercava di distinguere tra chi probabilmente era di idee liberali e chi probabilmente
non lo era.
Per tre volte si avvicinò a dei volti che rivelavano
generosità. Per tre volte, all’ultimo momento, la timidezza e l’eccessiva vicinanza di altre persone
nella strada gli impedirono di parlare, facendogli
affrettare il passo come se un urgente impegno lo
aspettasse alla fine della strada. Il quarto volto che
lo attrasse era molto anziano e gli anni avevano dilavato ogni colore, ogni espressione, a parte una
mite cordialità. Il proprietario di quel volto camminava solo, a passo lento, con l’aiuto di un bastone dall’impugnatura d’argento. Le sue scarpe erano specchi neri.
Earl Parish si girò e seguì il vecchio. Passarono
e ripassarono altri passanti. Earl Parish si manteneva a mezzo isolato di distanza da quell’uomo e
mentre camminava tirò fuori dalla loro busta i ritagli di giornale che aveva sempre sottomano e se
li mise in tasca sciolti, pronti per essere mostrati
se la sua richiesta di «qualche soldo» avesse avuto bisogno di essere corroborata da qualche documento.
A quel punto, il vecchio svoltò in una strada dove c’era poca gente. Earl Parish affrettò il passo e
la distanza fra di loro diminuì. Affrettandosi in
quel modo, arrivò in un angolo dove un uomo a
capo scoperto stava rompendo il vetro di un allarme antincendio con un fazzoletto avvolto attorno al pugno. Earl Parish dimenticò la sua preda dal viso gentile.
«Dov’è?» chiese all’uomo a capo scoperto in un
tono secco e professionale.
«Nella strada qui dietro».
Earl Parish corse dietro l’angolo. Tre uomini si
stavano dirigendo verso l’imbocco di un vicolo che
divideva un caseggiato. Si affrettò a seguirli. Da una
casa bianca e rossa, a metà del caseggiato, si levava un fumo spugnoso che ingrigiva la strada. Davanti alla casa, un uomo cercò di afferrare Earl Parish per un braccio, ma lui spinse via quella mano
che si intrometteva e salì rapidamente i gradini
esterni.
«Ehi! Esca da lì!» gli urlò l’uomo.
Earl Parish aprì con una spinta la porta d’ingresso e si slanciò nell’interno fumoso. Un colpo al petto lo fermò, risospingendolo indietro, svuotandogli i polmoni dell’aria pulita che avevano portato
dalla strada. Il fumo gli bruciava la gola, il petto. Le
sue mani trovarono la cosa che lo aveva colpito, il
montante della scala. Vi si afferrò, poi chiuse gli occhi per il fumo bruciante e tossì. [...]
Earl Parish urlò — una protesta soffocata dal fumo contro quell’inganno, quel tradimento. Nell’altra casa non c’era stato un fuoco visibile. C’era
stato solo del fumo e un bambino da portare fuori,
null’altro. Qui c’era un fuoco vivo — che scemo era
stato! — e forse nessuno da portar fuori. Come poteva sapere se c’era qualcuno al
piano di sopra?
Era possibile? [...]
Fissò il foglio con una strana concentrazione. Gli risultava familiare, quel piccolo rettangolo di polpa di legno arrotolata, così totalmente
privo di importanza, una cosa così banale, lì, in
una casa in fiamme. E quando riconobbe il foglietto, continuò a guardarlo, vedendo ora per la
prima volta nella sua vera misura il suo amato ritaglio del Morning Post dell’anno prima: la notizia di due righe di un incendio di origini sconosciute domato con lievi danni dopo che un bam-
bino era stato tratto in salvo da Earl Parish.
Vedendo quel ritaglio per quello che era, ne vide il suo significato e vide anche altre cose: vide se
stesso con una chiarezza che screziava il suo volto più di quanto potessero fare il fumo e il fuoco.
Si rialzò sul pianerottolo e guardò verso il piano
superiore con un pezzo di giornale accartocciato
nel pugno.
«Finora ho avuto il mio divertimento, brutto...»
disse rivolto al ritaglio di giornale. E dopo averlo
coperto di pesanti invettive quasi fosse una persona, lo gettò nel fuoco. «Ma adesso me lo vado a
guadagnare!»
C’era un turbine di fumo per le scale, una luce
rossa che crepitava e vivide lingue di fuoco che
lambivano il soffitto. Earl Parish le attraversò per
salire al secondo piano. Ma non le attraversò tutto intero. Un po’ di capelli, un lembo di pelle di
una mano, alcuni brandelli dei suoi abiti ridotti
scomparvero, ridotti in cenere. Il resto di Earl Parish giunse al secondo piano, sbatté la porta tra lui
e le scale e soffocò con le mani le numerose bruciacchiature sui suoi vestiti. [...]
In un angolo, sentì un piccolo starnuto.
L’uomo si mise a quattro zampe e guardò sotto
la sedia. Un micino color cannella smise di fregarsi il naso con le zampine per starnutire di nuovo.
Earl Parish rise rocamente. Prese il gattino dal suo
nascondiglio e lo infilò nella tasca del cappotto.
Faticò a rimettersi in piedi, ma alla fine ci riuscì.
La finestra si sollevò facilmente, creando una corrente che spalancò la porta e risucchiò nella stanza una palla di fuoco che non assomigliava più a lame di spada. Earl Parish si arrampicò sulla finestra
e vide le facce per strada che guardavano in su.
Un poliziotto agitò il braccio.
«Resisti, fratello» gridò. «Stanno arrivando i
pompieri!»
«Attenti!» rispose urlando Earl Parish. E saltò.
Ci fu un impatto, ma non quello del duro marciapiede che si aspettava. Si trovava su una specie di cuscino blu: il poliziotto era corso a mettersi sotto di lui. Alcuni uomini li trascinarono via
per far posto ai pompieri in arrivo e li aiutarono a
rialzarsi. Il poliziotto aveva il volto sanguinante.
«Tu sei matto!» disse.
Earl Parish era alle prese con la tasca del suo
cappotto per districare il gattino color cannella
dalla fodera strappata. Qualcuno prese il gattino.
Si udirono delle voci, delle domande. Una di queste riguardava il nome e l’indirizzo di Earl Parish.
«Earl...» tossì violentemente per coprire la pausa e ripeté: «Earl... John W. Earl» e aggiunse il nome di una strada e un numero, sperando che non
appartenessero a nessuno dei presenti.
Ripeté che si sentiva bene, che non aveva bisogno di un medico. Sgattaiolò via tra la folla. Si allontanò frettolosamente dal fuoco lungo un vicolo. Girò tre angoli prima di fermarsi. Dalla tasca, tirò fuori due ritagli... uno, della rivista degli
impiegati delle ferrovie e l’altro di un giornale.
Li strappò in minuscoli pezzetti e poi li lanciò
per aria come un turbine di neve artificiale.
***
A Howard Street, tra un negozio di abiti usati e
una tavola calda, c’è un ufficio con un ampio ingresso non ammobiliato a eccezione di una
squallida scrivania, una sedia e un tavolo dietro a
un logoro bancone sul retro e una lavagna che occupa una parete laterale.
Su questa lavagna c’è una lista di cose tipo:
«operai, azienda, campagna, $3,75; taglialegna,
campagna, 4 piedi e legna da ardere, $2,50-4,50 a
catasta; bracciante, campagna, $45-65; saldatore
piombo, azienda, $8». Sotto alcune di queste voci, c’era scritto «rimborso spese di trasferimento».
Un pomeriggio, si presentò in questo ufficio un
uomo basso e robusto sui trent’anni, con gli abiti
logori e la faccia sporca. Non portava il cappello e
una parte dei suoi capelli sembrava smangiucchiata. Al posto di un sopracciglio vi era uno
sbaffo. Camminava in modo malfermo. Gli occhi
rossi avevano l’ilarità interiore del filosofo ubriaco, ma non puzzava d’alcol. Aveva piuttosto un
odore di fumo, di legna bruciata da poco. Si appoggiò al bancone e sorrise giovialmente al titolare dell’ufficio.
«Voglio un lavoro» disse. «Un lavoro qualsiasi.
Basta che mi permetta di lasciare la città prima che escano i giornali
del mattino».
Traduzione di Luis E. Moriones
(An Inch and a Half of Glory © 2011
The Dashiell Hammett Literary Property Trust
Published by Arrangement
with Roberto Santachiara Literary Agency)
Ha collaborato Gabriele Pantucci
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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LA DOMENICA
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Spettacoli
Su una pila di fogli la versione censurata della sua canzone
più celebre, “Il Disertore”, e accanto la chitarra con cui la suonò
E poi disegni, invenzioni, appunti per romanzi, brani inediti
Bricoleurs
Nella casa di Montmartre il mondo segreto
del più eclettico tra gli artisti di Francia. Ora celebrato
con una grande mostra e un raffinatissimo libro
LE CANZONI
Cha cha cha
Fu mentre andavo a comprare il torrone
Ai grandi magazzini Printemps
Che sentii per la prima volta
Questo cha cha cha ossessivo
Parlava di tenerezza e d'amore
Con ritmo pulsante
Non compresi che un verso solo
Ma definitivo
In ogni occasione io gioco col cuore
Io perdo, tu vinci, si piange
Parte una nuova mano
Carte truccate, misdeal
Non ho niente… mi lasci, il giro riparte
Tocca a te, cuor mio,
Tu perdi, io vinco, si piange
Che gioco idiota, cambiamo disco
Smettiamola, corriamo il rischio (...)
L’incontro
Accanto a me il tuo corpo si allunga
Le nostre due mani s’incontrano
Da una sigaretta
Trarremo il medesimo sogno
Tutto acqua fresca e baci
La musica tenera
Ci avvolge
Ecco, è ora di sognare
INEDITI
In queste pagine,
appunti dell’artista
con svariati disegni
e cinque testi
di canzoni inedite
scritte a mano
Sotto ogni
testo originale
la corrispondente
traduzione
a cura di Marzia Porta
Boris
Vian
Le poesie mai cantate
del musicista-ingegnere
La canzone del vento
Ti dice
Che il mio amore ti attende
Non ho che te sulla terra
A cui aggrapparmi
Mai
Anche nei sogni più belli
Ho sperato nel tuo ritorno
Ma il giorno che sorge
Risveglia il mio amore
Sei molto distante
Eppure
Vorrei rivederti
E ho urlato al vento il mio dolore
E la mia speranza
ANAIS GINORI
A
PARIGI
l muro è appesa la chitarra con doppie corde sulla quale è stata composta Il Disertore. Boris Vian aveva acquistato questo strano strumento ispirato all’antica lira
greca nel negozio del fratello Alain, in Saint-Germaindes-Prés, quando le difficoltà respiratorie non gli permettevano più di
soffiare nella sua amata tromba tascabile, che lui teneva sempre sotto
al braccio e chiamava «trompinette». Tra una pila di fogli, il manoscritto della prima versione della canzone che si concludeva con: «E dica pure ai suoi/se vengono a cercarmi/che tengo un’arma/e so anche usarla». Era il 1954, guerra d’Indocina. Nessuna casa discografica accettò di
incidere la canzone. Alla fine, Vian cambiò l’ultima strofa in un manifesto pacifista senza più ambiguità: «E dica pure ai suoi/se vengono a
cercarmi/che possono spararmi/io armi non ne ho».
«Molti pensano che Il Disertoresia stata scritta durante la battaglia di
Dien Bien Phu, invece risale a qualche tempo prima» racconta Nicole
Bertolt, direttrice della fondazione Boris Vian che ci guida nella casa
dell’artista a cité Veron, dietro al Moulin Rouge, accanto a quella dell’amico Jacques Prévert. Sulla porta di vernice verde, la targhetta dice
solo: “Ingegnere, musicista”. Ma qualsiasi categoria va stretta a Boris
Vian, troppi talenti per quarant’anni di vita appena. Ha lasciato dietro
di lui una scia luminosa di romanzi, poesie, racconti, articoli, traduzio-
ni, disegni, spettacoli, oggi celebrati in una grande mostra alla Bibliothéque Nationale e da un raffinato libro, Post-Scriptum (edizioni
Cherche-Midi). Onnivoro, ecclettico, visionario. La musica è una passione iscritta nel nome, scelto dai genitori in omaggio all’opera Boris
Godunov di Modest Mussorgsky. La madre è pianista, il padre ascolta
Carlos Gardel. Lui s’innamora del jazz, il ritmo proibito, è il primo dei
suoi tanti gesti di contestazione. Nella prefazione a L’Écume des Jours,
scrive: «Sono solo due le cose che contano: l’amore, in tutte le sue forme, con belle ragazze, e la musica di New Orleans e di Duke Ellington.
Tutto il resto è da buttar via, perché è brutto».
Un’altra parete è coperta dai 33 giri, i cofanetti rilegati di Charlie
Parker, Louis Armstrong, Coleman Hawkins. «Ha incominciato a collezionarli da adolescente, li usava per fare i surprises-parties nella casa
di famiglia di Ville d’Avray». Suona con i fratelli, creano il gruppo Accord Jazz. Nell’aprile 1939 vede finalmente il suo dio, Ellington, che si
esibisce al palazzo di Chaillot. Miscela esplosiva di regole e improvvisazione: il suo stile. Con la «trompinette» va a suonare per gli americani nelle caves di Saint-Germain, insieme alla prima moglie Michelle e
all’amica Juliette Gréco. Oggi la trombetta di Vian non esiste più, è rimasta solo la custodia che si era fabbricato, in legno e cartone con fodera di velluto arancione. «Vian costruiva quasi tutto con le sue mani.
In questa casa — racconta Bertolt — non solo ha fatto alcuni mobili e librerie ma anche il sistema elettrico e di riscaldamento». C’è ancora lo
sgabuzzino con i suoi attrezzi di lavoro. Un bricoleur di oggetti e parole, come quel «pianocktail» che s’ispira al pianoforte nell’appartamen-
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Ah, che amanti
Ah! quant'è triste star di vedetta
Sul cammino di ronda,
Con le dita serrate attorno
a un moschetto,
Mentre potrebbero, sì, sì,
Stringer delle belle bionde
Ah! quant'è triste star di vedetta
In cima a una garitta
to parigino e rimanda all’ebbrezza tra jazz e alcol.
Il chansonnier Vian firma oltre seicento canzoni, molte inedite, alcune mai messe in musica e rimaste orfane. Nella casa di Montmartre,
sono state tutte conservate dalla seconda moglie Ursula, morta l’anno
scorso, e ora da Nicole Bertolt, che rappresenta gli eredi. Vian scrive una
canzone in poche ore, è un paroliere nato, abituato a pensare in rime.
Usa quasi sempre una penna Bic blu, a volte rossa. Accanto ai testi,
compaiono fiorellini, strane geometrie o i «miam», testoline sorridenti che sembrano anticipare gli attuali smiley. Con la musica ha un rapporto d’amore subito ricambiato, mentre i suoi romanzi non vendono
abbastanza, lo fanno litigare con gli editori e lo costringono ad affrontare tormentate vicende giudiziarie. Il vero successo letterario sarà postumo. Scrive critiche musicali sui giornali, diventa direttore di case discografiche, scopre giovani talenti come Georges Brassens, Serge
Gainsbourg. Lavora spesso in coppia con il compositore Alain Goraguer, tenta anche di cantare i suoi brani ma dura poco. «Soffriva troppo della tensione davanti al pubblico» ricorda Bertolt che mostra una
foto di Vian prima di andare in scena.
Con l’amico Michel Legrand fa scoprire ai francesi con ironia cos’è il
rock. «I suoi interpreti preferiti sono Henri Salvador e Magali Noël, perché sapevano divertirsi e avere la leggerezza necessaria». L’artista impegnato, sovversivo, era anche un raffinato burlone. C’è una vecchia
registrazione di Fais-moi mal Johnny in cui Noël e Vian alla fine scoppiano a ridere. Nella musica, Boris Vian ha fatto tutto: compositore, paroliere, musicista, interprete, critico, discografico. «Solo, non amava
CHITARRA E GATTO
danzare» aggiunge Bertolt. Era un uomo alto e
massiccio. Prendeva Ursula, che era una bellissima ballerina, e la faceva salire in punta dei piedi sulle sue scarpe. «Facciamo il ballo del Bisonte e dell’Orso», scherzava cercando di camminare con lei abbracciata in equilibrio. Prima di morire, nel 1957 aveva incominciato a scrivere un’opera. Titolo: Il Mercenario. L’ultimo appello a Monsieur le Président.
Nella foto grande,
Parigi 1953: Boris Vian,
in compagnia
del suo gatto
Wolfgang Busi
von Drachenfels,
suona la chitarra-lira
su cui ha composto
Il Disertore
La acquistò nel negozio
del fratello Alain,
in Saint-Germain-des-Prés,
quando le difficoltà
respiratorie non gli permisero
più di suonare la sua amata
«trompinette»
Qui sopra un collage
raffigura Vian nudo
che passeggia nella neve
A lato scarponcini
in cartone, risultato
di una delle sue attività
preferite: il découpage
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Next
Vocabolari
Si apre
per trascrivere
le sue informazioni
in molecole di Rna.
Se la parte copiata
è un gene, si tratta
di un Rna-messaggero
Se viene trascritto
uno pseudo-gene,
si formano
Rna diversi,
detti Micro-Rna
Destinata ad aprire nuove strade
nella lotta contro il cancro
e altre malattie, la scoperta è stata fatta
nei laboratori dell’università di Harvard
diretti dall’italiano Pier Paolo Pandolfi
Che qui spiega cosa racconterà
la nostra “materia oscura”
Dna
La lingua
segreta
dei geni
Dna
GLOSSARIO
O genoma. Lungo filamento
che contiene le istruzioni per la vita
Struttura e funzionamento sono
simili in tutti gli organismi viventi
Codice genetico Codone
È il linguaggio del Dna
Ha un alfabeto di solo 4 lettere
e parole sempre di 3 lettere
Le parole possibili sono 64
Anche detto tripletta
Sono le tre lettere
che definiscono l’aminoacido
Ad esempio: A, C, T = Tirosina
Aminoacidi
Le 64 parole corrispondono
ai 20 aminoacidi che compongono
le proteine e ad alcuni ordini
per la loro produzione
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l Dna ha una seconda lingua, finora rimasta segreta, per parlare alle cellule e al corpo. Comunica istruzioni per la vita molto più complesse ed è più usata
di quella conosciuta. Quando sarà completamente
svelata ci farà comprendere anche il linguaggio del
cancro e, si spera, gli ordini giusti per riportarlo alla
normalità. Ma la scoperta finalmente dipana anche molti
altri misteri in cui si sono impantanate la medicina e la biologia e contribuisce a spiegare il perché delle tante e drammatiche mancate promesse.
La decodificazione della lingua segreta dei geni è iniziata alla Harvard University, in uno dei laboratori di ricerca
biomedica più grandi e dotati di risorse al mondo. È diretto dall’italiano Pier Paolo Pandolfi. Da lì è partita la rivoluzione che il New York Timesha definito «il Big Bang della vita» perché avrà sulla medicina lo stesso impatto che sull’astronomia ebbe la teoria sull’origine dell’universo.
I
I micro-Rna
interagiscono
tra di loro
per precisare
il comando
Così regolano
precisamente
la funzione
dei geni
LO SCIENZIATO
Pier Paolo Pandolfi,
48 anni, romano
Dirige il laboratorio
di genetica
del cancro
della Harvard
University
Le promesse
«Negli anni Novanta sembrava tutto chiaro», ricorda
Pandolfi. «Il Dna porta le istruzioni per la vita depositate
sotto forma di lunghe frasi. Le parole del suo vocabolario
sono appena 64, risultanti da tutte le possibili combinazioni ternarie di un alfabeto di sole quattro lettere: A, C, G, T.
Le 64 parole si traducono in 20 aminoacidi che a loro volta
si attaccano in sequenza a formare le proteine. Sono queste l’impalcatura (proteine di struttura delle cellule, dei
muscoli, eccetera) e il motore (gli enzimi che gestiscono le
reazioni chimiche) degli organismi viventi. Le lettere, le parole e i significati del codice genetico sono universali, valgono per tutti gli organismi. “Errori” in queste parole sono
stati considerati finora l’unica causa di molte malattie,
compreso il cancro». “Vado al potere. Vado al podere”. Lo
scambio di una sola lettera, la “t” con la “d”, fa assumere
non solo alla parola ma anche alla frase un significato diverso. Così basta una sola mutazione (la sostituzione di una
delle quattro lettere dell’alfabeto del Dna) perché la “parola genetica” corrisponda a un altro aminoacido, che cambia la funzione della proteina. E, se la proteina mutata regola la moltiplicazione della cellula, è il cancro.
“Scoperto il gene del tumore al...”. Sono questi i titoli che
negli anni ’90 rimbalzano sui quotidiani dalle riviste scientifiche e promettono una cura per ogni tipo di cancro. «Si
mettono a punto i primi farmaci “intelligenti” che colpiscono solo la mutazione, e si ottengono alcune clamorose
vittorie — ricorda Pandolfi — tuttavia le cure si rivelano efficaci per pochi pazienti, quelli col sottotipo di tumore con
la mutazione. La maggioranza dei malati sembra avere un
Dna codificante proteine “sano”. E allora, da dove viene la
malattia? Non può che arrivare dal Dna. Ma da dove parte?
E in che lingua è scritto? Il codice genetico a 64 parole non
ha le risposte».
I misteri
Le scoperte della biologia aggiungono altri misteri. Alla
fine degli anni ’90 si sequenzia il genoma umano e quello
di numerose specie viventi e si iniziano a contare i geni. Nel-
Gene
È la sequenza di “parole”
corrispondenti alla sequenza
di aminoacidi di una proteina
da cui dipende la sua funzione vitale
Dna codificante
Parte del Dna composta dai geni
che danno origine alle proteine
Occupa appena il 2 per cento
della lunghezza del Dna umano
l’uomo si stimava ce ne fossero centomila, numero compatibile con la sua complessità che lo posiziona al vertice
della scala evolutiva. Tuttavia, si scopre che i geni umani
che producono proteine sono appena ventimila. Inoltre
questi geni occupano solo il 2% della lunghezza del Dna.
Che c’è nel restante 98%?
È ancora la biologia, con le sue ricerche, a svelare un ulteriore paradosso che, contemporaneamente, indica la
strada da battere. La scoperta che lo scimpanzé ha solo lo
0,2% di geni codificanti per proteine in meno dell’uomo lascia perplessi. Scendendo nella scala evolutiva aumenta lo
sgomento quando si scopre che nelle cellule del lievito di
birra o di un vermetto il Dna contenente i geni che fanno
proteine è lungo poco meno di quello umano. La parte di
Dna “muta” è invece di ben trenta volte più corta. «La specie umana quindi ha il record di dotazione di Dna “oscuro”
— osserva Pandolfi — Non fa proteine, non si sa che fa, eppure è qui che devono risiedere le informazioni genetiche
‘‘
L’opportunità
Quando sapremo parlare
la nuova lingua
avremo un’opportunità
senza precedenti per la terapia
e la prevenzione delle malattie
Pier Paolo Pandolfi
Harvard University, Boston
che fanno dell’uomo l’organismo vivente più complesso.
E più vulnerabile alle malattie. In quel 98% c’è la differenza
tra noi e le altre specie che popolano il pianeta».
La comprensione del ruolo di questo “genoma oscuro”
arriva dalle ricerche sul cancro di Pandolfi. La chiave sta
nella nuova prospettiva in cui si guarda un prodotto del
Dna sinora considerato un semplice esecutore, l’Rna. Questa molecola è da tempo nota per essere il messaggero del
Dna. Su di esso il gene trasferisce l’informazione necessaria a costruire la proteina. L’Rna poi raggiunge le strutture
di produzione della cellula dove materialmente le proteine sono assemblate a partire dagli aminoacidi quello che
Pandolfi ha scoperto è che l’Rna porta altre informazioni
indipendenti da quelle che “fanno le proteine”.
La scoperta
«Una parte di Dna “oscuro” contiene gli “pseudogeni”
— continua il professore — Sinora sono stati considerati
“relitti evolutivi” dei geni “veri”, che fanno proteine, informazioni ereditarie obsolete dimenticate nel codice della
vita. Ma come mai decine di migliaia di geni vengono risparmiati dalla dura legge di selezione naturale che elimina tutto ciò che non serve più? Perché questo 98 per cento
di Dna “inutile” continua a essere trasmesso di generazione in generazione? Il fatto è che, come i geni, anche gli
pseudogeni producono “messaggi”, molecole di Rna. Ma
questi Rna non raggiungono le catene di montaggio delle
proteine e rimangono a fluttuare nella cellula. Lungi dall’essere inutile, ognuno di questi Rna reca dei messaggi
precisi, basati su un nuovo linguaggio, un nuovo codice.
Messaggi che significano “accendere”, “spegnere”, “accelerare” e “rallentare”. Questi messaggi sono indirettamente destinati a tutti gli altri Rna presenti nella cellula, sia quelli prodotti dai geni che poi fanno le proteine, che quelli prodotti dagli pseudogeni. È questo l’aspetto più sconvolgente della scoperta: questa nuova lingua è parlata da ogni Rna,
cioè non solo dagli Rna degli pseudogeni, ma da tutti gli Rna
cellulari. Per capire la dimensione del fenomeno basti pensare che nel nostro Dna ci sono moltissime unità geniche,
forse decine di migliaia, che come gli pseudogeni fanno solo Rna. Ebbene, la nuova lingua è condivisa da tutti questi
nuovi protagonisti».
A fare da “portavoce” di questi messaggi sono un’altra
categoria di molecole di Rna più piccole e che non fanno
proteine: i microRna. Questo nuovo linguaggio basato sugli Rna espande enormemente la percentuale del Dna funzionale. Obsoleti diventano i concetti “relitto genetico evolutivo” e “Genoma oscuro”.
La lingua
«A rendere più complesso il sistema informativo sono
poi le caratteristiche del linguaggio usato dagli Rna per comunicare — aggiunge Pandolfi — Questo linguaggio è
scritto nella molecola di Rna, si può leggere informaticamente ed è sempre basato sulle quattro lettere del Dna, ma
le “parole” e le frasi hanno lunghezza non fissa bensì variabile, come avviene nel linguaggio parlato. I significati possibili quindi sono molti più di 64. Sono già state individuate 500 parole diverse, ognuna delle quali viene riconosciuta da un microRna diverso. Insomma si delinea finalmente un linguaggio con una ricchezza di significati compatibile con la complessità delle informazioni necessarie a guidare lo sviluppo e la gestione della struttura del corpo
umano, delle sue funzioni, anche quelle mentali. E delle
malattie, prima di tutto il cancro, quando la comunicazione tra molecole di Rna viene danneggiata da mutazioni, sia
dei geni che degli pseudogeni. La completa decodificazione di questo nuovo linguaggio non solo aumenterà le nostre conoscenze sull’eziologia del cancro e delle malattie in
generale, ma offrirà nuove strategie per la loro cura».
Pandolfi ha descritto la nuova teoria “Rna-centrica” ad
agosto su Cell, la rivista scientifica più prestigiosa nel campo della genetica. E sempre su Cell, venerdì scorso, Pandolfi ha svelato il ruolo determinate nei tumori di prostata,
colon e cervello umani di 150 Rna che usano il nuovo linguaggio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Rna messaggero Dna oscuro
È la molecola in cui il gene
trasferisce l’informazione
per fare la proteina e la porta
al sistema di assemblaggio
È il 98 per cento del Dna. Gli Rna
dei suoi geni non fanno proteine,
fluttuano intorno al Dna
apparentemente senza scopo
INFOGRAFICA PAULA SIMONETTI
ARNALDO D’AMICO
Il nuovo codice
Gli Rna della parte oscura,
con una lingua diversa, regolano
il Dna codificante in modo
più sofisticato di quello conosciuto
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
LA DOMENICA
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I sapori
Le prime coltivazioni risalgono addirittura al Neolitico, i Romani
lo offrivano a Cerere chiedendo la fecondità per i giovani sposi
Dimenticato nel Medioevo, è stato riscoperto per l’abbondante
Ritrovati
contenuto di proteine e l’alta digeribilità. Che ne fanno
il compagno ideale dei legumi nei piatti d’autunno
Piccolo
Medio
Grande
Vecchio di diecimila
anni, il Triticum
Monococcum
è il primo seme
di frumento piantato
dall’uomo. Ha poco
glutine, rese basse,
sapore intenso
Il Dicocco è il più
coltivato in Italia,
soprattutto al Centro
In Garfagnana,
dove viene ancora
macinato a pietra,
è protetto dall’Igp
europea
Dall’incrocio tra
Dicocco e Aegilops
squarrosa —
battezzato col nome
tedesco spelz,
l’involucro del seme
— si ha la farina
del Panpepato
LICIA GRANELLO
n nomeomen, sostenevano i Romani. Un destino nel nome, ma anche un biglietto da visita prezioso. Farro come farina, da fero, verbo latino per portare, sostenere e quindi nutrire. Duemila anni fa,
la gente del Mediterraneo aveva come base della dieta quotidiana
le antesignane di focaccia (libum) e polenta (puls), impastate con
la farina di triticum monococcum, dicoccum e spelta. Allora come
oggi, seminati tra fine ottobre e inizio novembre. Quando arrivò sulle tavole dei popoli latini, il farro aveva fatto già moltissima strada e vissuto più
a lungo di qualsiasi altro cereale, se è vero che le prime coltivazioni risalgono al Neolitico (8000 a. C), tra Mesopotamia, Egitto e Palestina. A Roma,
da semplice alimento diventò simbolo di fecondità grazie alla pratica della Confarreatio, in uso tra le famiglie patrizie: l’offerta della focaccia nuziale richiamava sugli sposi la protezione di Cerere, dea delle messi, portatrice di potenza e fertilità.
Le fortune del farro originario sono durate per il tempo dell’agricoltura
di sussistenza. Fin dal Medioevo, l’adozione di nuove varietà, figlie di incroci più produttivi (da cui sono nati grano tenero e grano duro) ha causato una riduzione delle coltivazioni, confinate nelle zone agricole marginali, dove la produzione intensiva è impossibile. Il farro si è adattato, imparando a non soffrire il freddo e amare i terreni in pendenza, meglio se
calcarei, crescendo anche oltre i mille metri. Oltre alle rese basse, la raccolta faticosa — i chicchi maturi non restano sulla spiga, ma cadono sul
terreno — e la perdita di sapienza culinaria lo hanno condotto sul bilico
I
Farrotto
Quaranta minuti di cottura
per il risotto di farro, cucinato
per contrasto (con acciughe
o frutti di mare) o assecondando
la tendenza dolce (con funghi,
zucca, carote, topinambur)
Pane
Profumato, saporito,
ricco di fibre, si impasta
con la farina forte (tipo Manitoba)
per irrobustire la modesta
quota di glutine
necessaria alla lievitazione
Zuppa
Dopo l’ammollo, si insaporisce
in un soffritto di verdure
miste e poi si copre d’acqua
A piacere, funghi, fagioli,
pancetta, olio
e crosta di Parmigiano
Il cereale antico
come il mondo
dell’oblio alimentare. Ma per fortuna, il tempo del cibo è galantuomo. La
nuova attenzione agli equilibri dietetici ha spinto a riscoprire i cereali negletti, primo fra tutti il farro, straordinario a partire dalla pianta, che protegge i chicchi con un guscio robusto, ostico a insetti e parassiti: un atout
fondamentale per la riuscita della produzione biologica e biodinamica.
Tra i cereali, è il meno calorico — 335 calorie per cento grammi — e quello a più alto indice di sazietà, grazie allo smisurato assorbimento d’acqua
in cottura (quasi tre volte il suo peso). Nei suoi chicchi, abitano generose
quantità di nutrienti essenziali: sali minerali (calcio, fosforo, magnesio),
vitamine del gruppo B e tante fibre, a patto di sceglierlo nella versione decorticata, che preserva la glumettaesterna, mentre quello perlato è del tutto svestito. Grazie al contenuto di proteine — abbondante e ad alto tasso
di digeribilità — è il compagno ideale dei legumi, che contribuiscono con
l’aminoacido Lisina a equilibrare il più salubre dei piatti unici. Se vi stuzzica l’archeogastronomia, regalatevi una gita in Franciacorta e dintorni, andando a visitare la cooperativa sociale Antica Terra, a Cigole, Brescia, che ha recuperato la coltura del monococco. I
consigli su come cucinare il cereale più vecchio del mondo, invece, chiedeteli a Vittorio Fusari, che pochi chilometri più in là dirige le cucina de La Dispensa
(Torbiato). La sua zuppetta di monococco al nero di seppia con tartare di gamberi e crema di
mozzarella vi illuminerà il cammino.
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Tortino
Dalla base lessata si cucina
in versione dolce (amalgamato
con cioccolato e uvetta),
o salata (legato con uova,
formaggio grattugiato
ricotta e noce moscata)
Farro
Repubblica Nazionale
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ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA
Gli indirizzi
DOVE DORMIRE
PALAZZO TUCCI
Via Battisti 13
Lucca
Tel. 0583-464279
Doppia 150 euro con colazione
HOTEL IL CIOCCO
Via del Ciocco 2
Castelvecchio Pascoli-Barga
Tel. 0583-766365
Doppia 115 euro con colazione
ALBERGO LA LANTERNA
Località Le Monache 300
Castelnuovo Garfagnana
Tel. 0583-639364
Doppia 90 euro con colazione
L’ALTANA
Via di Mezzo 1
Barga
Tel. 0583-723192
Chiuso merc., menù 25 euro
IL MECENATE
Via della Chiesa 707
Lucca
Tel. 0583-512617
Chiuso lunedì, menù 30 euro
ANTICO PANIFICIO
DELL’ANGELA
Via Garibaldi 12
Castenuovo Garfagnana
Tel. 0583-62656
AGRITURISMO PALLUNGA
(con camere)
Località Pallunga di Sopra
San Romano in Garfagnana
Tel. 328-9264045
DOVE MANGIARE
IL VECCHIO MULINO
Via Vittorio Emanuele 12
Castelnuovo Garfagnana
Tel. 0583-62192
Chiuso lunedì, menù 20 euro
DOVE COMPRARE
Insalata
Sulla strada
Cottura lunga, sapore
e consistenza originali
per il cereale bollito che sostituisce
il riso come base per potpourri golosi:
dadini di verdure, uova, formaggi
(la foto è tratta dal libro
Cucina Mediterranea,
Edizioni White Star, a cura
di Academia Barilla)
Garfagnana a passo d’uomo,
un viaggio nell’altrove
MAURIZIO MAGGIANI
S
e davverovolete andarci in Garfagnana, se avete l’intenzione di un viaggio e non di una gita, arrivateci per le strade alte, quelle tracciate dai romani e dai longobardi,
quelle che seguono l’andamento dell’Appennino e dell’Apua Alpe con il passo degli uomini. Volete arrivare a
un antipodo della contemporaneità, fatelo dandovi uno
sguardo adatto. Passo del Vestito e passo del Cipollaio,
dalla Versilia, dalla Via del console Aurelio. Passo dei
Carpinelli, passo della Pradarena, salendo dalle vie padane che si dipartono da quella del console Emilio. Fatelo con l’accortezza di una moderata velocità di pensiero, perché le gole che vi si parano davanti sono precipizi in cui sono rovinati molti sguardi stranieri. Se è nelle vostre
disponibilità, andateci a bordo di un elefante:
lo fece Annibale e si procurò, unico tra i passanti
in armi, l’amicizia e l’alleanza dei garfagnini.
E considerate la morbida complessità della valle del
Serchio nel giro d’orizzonte di San Pellegrino in Alpe, da
dove il santo barbaro credette di indovinare Gerusa-
lemme e fu preso a schiaffi dal diavolo; considerate l’irsuta Garfagnana dal balcone della fortezza delle Verrucole, da dove il governatore Ariosto smaniava nella deprimente digestione del suo castigo di cortigiano, e intanto andava cercando tra i banditi che depredavano i
suoi vitalizi chi gli leggesse qualche paginetta dell’Orlando. Ascendete al sacro pastorale di Campo Catino,
buttatevi su un masso candido di marmo, strizzate gli
occhi e fatevi confondere dal sole che stride dalle lame
della Roccandagia, prendete atto che siete nell’altrove.
E allora imparate un po’ della lingua di lì e chiedete alla
Luciana di Treppignana se per favore vi da una tazza di
zuppa, o all’Olinto della Gragnanella se potesse per caso favorirvi di un piatto di ossetti di maiale con la polenta di neccio. Se siete fortunati, e di metabolismo adattabile, potete allora capire l’intimità delirante di un poeta
e la misterica veggenza di un santo che si sono nutriti di
quell’universo e di quel farro e di quel suino e lì si sono
persi per sempre.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
LA RICETTA
Rombo al vapore
con farro in più consistenze
Ingredienti per 4 persone
Igles Corelli
è uno dei più bravi
e “didattici” cuochi
italiani. Dopo una lunga
esperienza a Ostellato,
sul delta del Po,
da pochi mesi dirige
le cucine di “Atman”,
a Pescia, confine
tra Lucchesia
e campagna pistoiese,
dove interpreta
con sapienza
e creatività i migliori
prodotti dell’Appennino
toscano. Ha preparato
questa ricetta
per i lettori
di Repubblica
600 gr. di rombo chiodato
600 gr. di farro della Garfagnana
bollito in un fumetto di rombo
50 gr. di spinaci puliti
1 scalogno
1 rametto di timo
50 gr. di burro
1 spicchio d’aglio
2 dl di fumetto di rombo
Olio extravergine di oliva
sale pepe q. b.
La cialda:
setacciare e frullare100 gr. di farro bollito condito con sale e pepe
Stendere il composto tra due fogli di carta da forno unti
con extravergine, tirarlo sottile con il mattarello e infornare
a 140 ° fino a che non risulta croccante
Il gelato:
frullare 150 gr. di farro con burro e timo, setacciare
e mettere in gelatiera
Il purè:
frullare il restante farro, setacciare, condire con extravergine, sale,
pepe e tenere in caldo. Saltare gli spinaci in padella con un filo d’olio,
uno spicchio d’aglio e tenere in caldo
La salsa di salicornia:
tritare lo scalogno, insaporire con poco olio, aggiungere la salicornia
tagliata a pezzi, coprire con il fumetto di rombo e cuocere un quarto
d’ora Frullare, setacciare e tenere in caldo.Cuocere il rombo a vapore
Presentazione:
Velare con la salsa di salicornia il fondo del piatto, su cui appoggiare
il purè di farro e poi il rombo. Guarnire con gli spinaci,
la cialda e il gelato
✃
ANTICA BOTTEGA
DI PROSPERO
Via Santa Lucia 13
Lucca
Tel. 0583-496234
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 OTTOBRE 2011
LA DOMENICA
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L’incontro
Figlie di papà
Ci sono voluti quarant’anni, quattro
film di successo, due maternità
e altrettanti matrimoni per uscire
dall’ombra paterna e diventare
semplicemente se stessa: “È vero,
ho vissuto buona parte
della mia vita
in una prigione dorata”
risponde la regista
“Ma oggi sono fiera
di far parte di una grande
famiglia circense. Nella quale
Sofia Coppola
faccio un numero che tutti
riconoscono come solo mio”
ha fatta esordire neonata nel battesimo del
Padrino. L’ha portata
con sé, a sedici anni, a
Cuba da Fidel Castro. Le ha finanziato
i suoi film, quattro in dodici anni e tutti di successo. Quanto può essere lunga per una figlia l’ombra di un padre
come Francis Ford Coppola? Forse solo adesso che ne è uscita Sofia Coppola lo può dire. A quarant’anni compiuti a maggio, reduce dal matrimonio a
Bernalda, nella Basilicata del bisnonno, con il leader dei Phoenix Thomas
Mars — padre delle sue due figlie
Romy e Cosima — si è finalmente regalata quella libertà cui ha brindato lo
stesso padre battezzando “Sofia” una
partita del suo champagne californiano con queste parole: «Giovane in rivolta giunta a maturità».
E dunque cìn cìn, Sofia. Lei ascolta
l’impietoso riassunto sorseggiando
Coca Cola, l’espressione concentrata
di sfinge intellettuale, nella suite regale di uno dei tanti hotel esclusivi della
sua vita e del suo cinema, con la sicurezza semplice di chi è cresciuta nella
bambagia di Hollywood: «È vero, la
mia infanzia l’ho trascorsa con mio padre tra i privilegi del jet-set e sotto i riflettori del cinema. Come la mia amica
e attrice Kirsten Dunst. I set sono stati i
nostri primi e unici giocattoli: ma anche i nostri prematuri richiami al futuro. Nell’89 lei, a sette anni, esordiva sul
grande schermo in New York Stories,
nell’episodio di Woody Allen, Edipo
‘‘
domanda che mi rivolse mia madre:
“Non trovi una correlazione tra il soggetto del film e la tua vita privata, il privilegio d’aver vissuto come una principessa sotto l’ala di tuo padre?”. Rispondevo di non aver voluto tracciare
espliciti paralleli con la vita di MarieAntoinette, enfant gâtéenella quale mi
riconoscevo anche in quanto, fin da
bambina, stava subendo quella stessa
forma d’apprensione sorda, quella
pressione palpabile nello sguardo dell’entourage familiare, nell’aspettativa
d’una affermazione senza appello».
Va bene, riproviamoci. Detrattori
maligni e cinefili devoti concordano
nel ricondurre il suo cinema a una formula fissa. Ecco la ricetta: prendere
una ragazza, preferibilmente bella,
bionda, solitaria, tagliarla a fettine sottili dentro una famiglia inadeguata
(Vergini suicide) o oppressiva (MarieAntoinette) o assente (Lost in Translation) o arresa (Somewhere), introdurre
una figura paterna in jet-lag esistenziale, cuocere a fuoco lento in ambien-
Fin da bambina
ho subìto
un’oppressione sorda
ma palpabile:
era l’aspettativa
del successo
senza appello
FOTO PHOTOMOVIE
L’
PARIGI
relitto; io, che di anni ne avevo diciotto, proprio per New York Stories insieme a mio padre scrissi la sceneggiatura del suo episodio, La vita senza Zoe.
Destini di star bambine: due vite dorate ma già prigioniere. Io mi ci ero abituata, dai tempi delle riprese di Apocalypse Now, quando a sei anni avevo
seguito la famiglia nelle Filippine, frequentando lì il primo anno di scuola».
Da bambina ha assorbito il cinema,
ma l’ha anche “suggerito”: «Sì, le mie
giornate allo Sherry Netherland, albergo tra i più lussuosi di New York, dove ho abitato a lungo, furono poi reinventate da mio padre in quel suo episodio di New York Stories: la Midtown
vi è osservata con gli occhi d’una bambina immersa in un mondo incantato
grazie al padre famoso». Pare già il soggetto di Somewhere, il suo Leone d’oro
dell’anno scorso a Venezia: il genitore,
colosso annoiato dello star system, e la
bambina che lo risveglia con l’impazienza di vivere: «È un film che non a
caso ho girato dopo esser diventata
mamma. Le figlie mi hanno mutato il
modo di percepire l’esistenza: mi hanno ribaltato le prospettive, le priorità,
influenzato i punti di vista. Un figlio ti
cambia davvero la vita. Rallenta di colpo la corsa quotidiana: cammini in un
parco con quell’esserino che trotterella sotto di te e ti ci vuole mezz’ora per
raccogliere una foglia. Mai, prima,
avevi trascorso tanto tempo a osservare una foglia, farla tua. È un riappropriarsi della vita, la riconquista dello
sguardo, di cui i bambini ci sono maestri». Somewhere è il ritratto d’una star
internazionale, lost in business, di colpo a tu per tu con la paternità: lei e suo
padre o lei e le sue figlie? «I rapporti con
mio padre e mia madre sono assai diversi da quelli del protagonista con la
sua bambina. Ma mettiamola così: girare quel film mi ha portato a guardare
in modo nuovo i miei genitori, il mio
compagno e anche le mie figlie».
Le protagoniste del suo cinema vivono tutte in un tempo sospeso, tra
un’infanzia non ancora o non del tutto alle spalle e, dietro l’angolo, l’incognita adulta, che in Marie-Antoinette e
nello splendido Giardino delle vergini
suicide verrà appena assaporata. Fino
a non troppe stagioni fa, quel limbo fatato è stato il suo universo esistenziale,
vero? La regista increspa in un sorriso
le labbra tumide da eterna collegiale:
«Dal pressbook di Marie-Antoinette,
cinque anni fa, ho fatto togliere una
te chiuso, popolato di estranei, meglio
se ostili, far croccare con una spalmata di rock Doc e servire riscaldato. Radiografia troppo tagliente? «Sono
d’accordo sull’“ingrediente” colonna
sonora. Chi ha da ridire sul duo elettronico Air dei miei primi tre film o su
My Bloody Valentine e Death in Vegas
in Lost in Translation? Si dirà che i
Phoenix sono un po’ ovunque, ma è
dalle Vergini suicide che frequento il
loro cantante, ora diventato mio marito...».
Il milieu rock/cinema indipendente (ribadito dal primo matrimonio con
Spike Jonze, finito nel 2003, e dal successivo flirt con Quentin Tarantino) ha
fatto della Coppola un’icona della cultura pop e dell’eclettismo musicale
spinto fino alla recente regia della Manon Lescaut con Roberto Alagna all’Opéra di Montpellier: «La voglia di
darmi al cinema m’è venuta abbandonandomi al sogno di personaggi romantici e fiammeggianti mentre
ascoltavo Purple Rain di Prince. Non
immaginavo ancora che un giorno mi
sarei trovata davanti a una delle cineprese che mio padre aveva regalato a
me e ai miei fratelli ancora bambini.
Poi, una volta su questa strada, ho premuto a fondo, con determinazione,
seguendo puntigliosamente desideri
e sogni di grandezza». Ad esempio ottenendo di girare Marie-Antoinettenei
saloni di Versailles: «Volevo aprire ogni
mattina gli occhi sulle fughe di stanze
sontuose che si offrivano due secoli fa
alla giovane regina. Ma il Settecento
l’ho rifatto di mio gusto, con fruscii di
modelle, pettinature punk, broccati
da favola, in sintonia perfetta con la costumista Milena Canonero. Per intenderci sui colori, evocavamo sughi per
la pasta o nostri sorbetti preferiti: ci si
capiva al volo».
Sofia Coppola è pop non solo nella
musica ma anche nella moda, dove si
esprime forse ancor più liberamente
che nel cinema: «Mi sono formata al
California Institute of the Arts e ho fatto la gavetta per due anni a Parigi da
Karl Lagerfeld, dedicandomi nello
stesso tempo a foto per Vogue, Interview, Allure, con mostre in Giappone,
dove ora si vende in esclusiva la mia linea d’abbigliamento Milk Fed. I miei
primi passi sono nella moda: creata,
interpretata e ritratta. Sono stata testimonial del profumo di Marc Jacobs, ho
firmato una nuova linea con Kim Gordon e girato spot per Miss Dior Chérie.
La scorsa primavera ho infranto la linea classica Louis Vuitton, per lanciare una borsa con le mie iniziali. È stato
come l’avverarsi d’un sogno d’infanzia, la mia borsa come l’ho sempre immaginata». Ed ecco di nuovo la bambina viziata da un papà onnipotente.
Qual è l’insegnamento più importante ricevuto da suo padre? «L’entusiasmo per il proprio mestiere: anche perché mi ha fatto crescere con l’idea che
il cinema non è solo un mestiere ma un
modo di esprimere se stessi. Per questo ho fatta mia la sua regola d’oro: meglio un piccolo budget che ti lascia libera di realizzare quel che senti piuttosto che una pioggia milionaria che ti
seppellisce sotto mille condizionamenti e compromessi e ti toglie l’ultima parola». Si chiude così una staffetta circolare, con passaggio di testimone. Una volta si diceva: Sofia Coppola,
la figlia del regista del Padrino. Oggi,
sempre più: Francis Ford Coppola, il
padre di Sofia. «Non esageriamo! Tra
l’altro, non sono l’unica della dinastia.
C’è mio fratello Roman, lui pure regista. Mia zia è l’attrice Talia Shire. E ho
tre cugini attori, Jason Schwartzman,
Robert Carmine e Nicolas Cage, che
trovo formidabile: vorrei girare il mio
prossimo film con lui. Più che figli e cugini d’arte, ci sentiamo una carovana
di circo, ognuno con le sue specialità, i
suoi numeri. Tutti in azione sulla stessa pista, a tramandare l’arte di padri e
antenati. Sono fiera, oggi, di farne parte: con le mie iniziali su una borsa, il
mio nome per esteso nei titoli di testa e
un numero che tutti possono riconoscere come mio».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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MARIO SERENELLINI
Repubblica Nazionale
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16 ottobre 2011 - La Repubblica.it