La Barriera d’Enfer. Documenti sulla gestazione letteraria del Quadro III de La bohème nell’archivio di Casa Giacosa* PIER GIUSEPPE GILLIO (Ivrea) La parte più consistente dei materiali preparatori per il libretto della Bohème, conservati nell’archivio di Casa Giacosa, è quella pertinente al Quadro III.1 Tra gli autografi del poeta si conservano un quinterno fittamente vergato da Illica, che del Quadro costituisce la prima stesura, un secondo fascicolo, che contiene il primo rifacimento di Giacosa, e venti carte sciolte (per complessive trentasei facciate) che documentano le fasi d’elaborazione del Quadro, dalla prima revisione all’ultima stesura. Poiché di tutti questi materiali sono noti solo una ventina di versi di Illica,2 mi è sembrata utile una loro rilettura sistematica, sia per integrare la ben nota storia epistolare della gestazione del Quadro, sia per meglio definire i ruoli assunti dai due autori nella stesura del libretto. * Questo articolo rielabora e amplia la relazione, con medesimo titolo, presentata al Convegno internazionale Giacomo Puccini da «Edgar» a «Bohème», svoltosi a Torino nei giorni 8 e 9 febbraio 1996 per iniziativa dell’Istituto di studi pucciniani e del Teatro Regio di Torino. Mi è grato porgere un sentito ringraziamento agli eredi Giacosa, avv. Paolo Cattani e gentile signora, per avermi cortesemente concesso visione e riproduzione del materiale conservato nella casa natale del poeta, a Colleretto Giacosa. 1 Il fondo non è stato fino ad oggi catalogato, per cui le carte, fascicolate o sciolte, raccolte nella busta intitolata Bohème, non sono numerate. Da ciò deriva l’assenza in questo scritto di una descrizione circostanziata delle fonti. Precisi riferimenti archivistici si leggeranno in una mia trascrizione integrale dei manoscritti di Bohème, attualmente in corso di ultimazione. Un sommario contributo alla descrizione dei materiali è offerto dal mio articolo Il proto-libretto di «Bohème»: materiali preparatori nell’archivio di Casa Giacosa, «Nuova rivista musicale italiana», XXXI, 1997, pp. 165-81. 2 Vedi FEDERICO GHISI, Un abbozzo inedito di Luigi Illica dell’inizio al terzo quadro di «Bohème», in Musicae Scientiae Collectanea. Festschrift K. G. Fellerer, Arno Volk, Köln, 1973, pp. 156-60. Ghisi doveva la conoscenza del documento a Bice Serafini, la quale nell’a.a. 1968-69 aveva discusso nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa la tesi di laurea Giacosa librettista pucciniano. La Serafini non pubblicò il materiale trascritto, ma lo descrisse diffusamente in Giacosa e i suoi libretti, in Critica pucciniana, Lucca, Nuova Grafica Lucchese, 1976, pp. 116-32; benché in quell’articolo la trattazione si svolgesse in termini piuttosto generici, ben s’evidenziava la stra- 96 PIER GIUSEPPE GILLIO Una breve premessa. L’opinione diffusa che ad Illica competesse la responsabilità dell’ideazione dell’intreccio drammatico e a Giacosa quella della verseggiatura è sostanzialmente confermata dagli autografi di Casa Giacosa.3 Tuttavia, almeno a giudicare dalle stesure del Quadro III, mi sembra che nei primissimi tempi della collaborazione la divisione delle competenze tra i due autori non fosse ancora definita in modo rigoroso. Infatti, mentre Illica tentava sin dalla stesura della «tela» di dimostrare la sua piena idoneità al lavoro di verseggiatura, Giacosa, nelle sue revisioni, pur rispettando di massima intreccio, focalizzazione e sistema dei personaggi ideati dal collega,4 reagiva all’ingerenza nell’ambito che riteneva di sua specifica competenza operando un rifacimento che ne rifiutava in toto le scelte stilistiche e formali. La composizione delle divergenze, nella quale la mediazione di Puccini e Ricordi fu certo determinante, ebbe luogo solo in una terza fase del lavoro. L’antagonismo tra Illica e Giacosa offre pertanto al mio studio non soltanto una plausibile chiave di lettura delle vicende connesse alla gestazione letteraria del Quadro della Barriera, ma anche l’occasione per delineare i caratteri contrastanti del linguaggio poetico dei due autori: una diglossia che riflette una diversità di convinzioni ed attitudini che, latente o manifesta, permarrà nel corso di tutta la successiva storia del sodalizio. 1. La prima stesura del Quadro III. La «tela» di Illica, anteriore al 22 marzo 1893, non era, come comunemente si ritiene, un semplice canovaccio, al quale solo in seguito Giacosa avrebbe dato conveniente forma poetica: la «tela» del Quadro III della Bohème già costituiva una compiuta stesura del libretto, nella quale ogni ordinaria rilevanza dei manoscritti di Giacosa per gli studi pucciniani; non mi spiego pertanto il tono liquidatorio col quale se ne dice in JÜRGEN MAEHDER, Immagini di Parigi. La trasformazione del romanzo «Scènes de la vie de Bohème» di Henry Murger nelle opere di Puccini e Leoncavallo, «Nuova rivista musicale italiana», XXIV, 1990, pp. 402-55: 427. 3 Non mancano comunque eccezioni: brevi passi all’inizio del Quadro I e la prima scena del Quadro III furono infatti verseggiati dal solo Illica. 4 Sotto l’aspetto drammatico – nel libretto di Bohème, come in quelli successivi di Tosca e di Madama Butterfly – gli interventi più rilevanti di Giacosa riguarderanno piuttosto la caratterizzazione dei personaggi o scelte stilistico-espressive idonee all’evocazione di particolari atmosfere. LA BARRIERA D’ENFER 97 battuta era versificata.5 In essa, cosa ancor più sorprendente, Illica operava scelte stilistiche e formali particolarissime che lo vincolavano ad una scrittura assai meno precipitosa di quella che ci si potrebbe attendere da un abbozzo preparatorio. Una scrittura, peraltro, dal carattere marcatamente dissimile da quello di lavori precedenti, come i libretti de La Wally, del Cristoforo Colombo e de La martire, ove la forma chiusa ottiene scarsa evidenza, ed è perlopiù sollecitata dalla citazione o dalla musica di scena. Probabilmente Puccini aveva sin dall’inizio escluso, per Bohème, un testo liberamente articolato e così lo zelante Illica volle subito dimostrare di esser in grado di scrivere in modo diverso da quello che gli era stato fino allora congeniale, se non dar prova che della collaborazione di Giacosa si poteva anche fare a meno. Diversamente, sarebbe difficile spiegare com’egli, in un lavoro preliminare, attendesse con tanta attenzione alla diversificazione degli schemi formali, rinserrando i suoi versi in strofe tetrastiche di tipo ABBA e ABAB (in endecasillabi) nella scena iniziale, di tipo AbbA (in endecasillabi e settenari) nel secondo intervento di Mimì e di tipo ABCc (in settenari e quinari) in quello di Rodolfo.6 In altri luoghi, Illica mantiene un’organizzazione metrica più simile a quella dei libretti di sua esclusiva creazione, ma senza rinunciare ad un’insolita varietà dell’articolazione: riconfermando la sua tenace idiosincrasia per le misure parisillabe, impiega a profusione i prediletti endecasillabi, in successioni esclusive o in aggregazioni diversamente mescidate, con settenari, quinari, martelliani e persino novenari;7 scrive il primo solo di Mimì in martelliani a rima baciata e i cinquantadue versi conclusivi del Quadro in quinari. 5 Il manoscritto è un quinterno, con pagine numerate da uno a venti. Non è tuttavia possibile escludere che la stesura di Illica fosse preceduta da un abbozzo preparatorio non verseggiato. La datazione della tela si desume dalla lettera di Giacosa a Illica del 22 marzo 1893 (Carteggi pucciniani, a cura di Eugenio Gara, Milano, Ricordi, 1958, n. 82, pp. 82-3). 6 Le forme ABBA e ABCc sono piuttosto infrequenti non solo nella librettistica, ma anche nella letteratura poetica. Lo schema AbbA appartiene ad una delle possibili forme del capitolo quadernario; alcuni autori lo assegnano anche a forme di serventese oppure di rimolatino. Cfr. FRANCESCO BAUSI e MARIO MARTELLI, La metrica italiana, Firenze, Le Lettere, 1993, p. 142. Lo schema di canzonetta ABCc fu recuperato dalla ballata romantica, ad esempio, nella variante ABBa adottata dal Berchet nella lirica Il trovatore. 7 Riabilitato da Arrigo Boito nel Mefistofele (sulle innovazioni di Boito nel contesto della fin de siècle si veda in particolare HAROLD S. POWERS, Boito rimatore per musica, in Arrigo Boito. Atti del convegno nel centocinquantesimo della nascita, a cura di Giovanni Morelli, Firenze, Olschki, 1994, pp. 355-94), e sempre più diffuso nella lirica coeva, il novenario si trova ad esempio, in due quartine intonate da Des Grieux nell’Atto I di Manon Lescaut. Tale metro 98 PIER GIUSEPPE GILLIO Inoltre, Illica adotta la rima con un’estensione pari soltanto a quella del libretto de La martire (l’ultimo da lui scritto prima della tela di Bohème), tanto che i versi indicati come «recitativi» nella tavola delle strutture metriche in appendice sono sia in forma sciolta che rimati.8 Se le intenzioni di Illica circa le macrostrutture metriche appaiono coerenti e definite, diverso è il caso della versificazione, sia per la frequente corrività dell’invenzione, sia per il carattere fondamentalmente prosastico della scrittura. Del resto è arcinoto come per Illica il sacrificio dell’euritmia del verso, a vantaggio della piena espressività della parola, costituisse un assunto primario, al quale egli non mancò di procurare persino appassionate giustificazioni estetiche, come nella nota lettera inviata a Puccini nell’ottobre 1907: Rimango dunque sempre del mio avviso: la forma di un libretto la fa la musica, soltanto la musica e niente altro che la musica! Essa sola, Puccini, è la forma! Un libretto non è che la traccia. [...] Il verso nel libretto non è che una abitudine invalsa, una moda passata in repertorio proprio come quella di chiamare «poeti» quelli che scrivono libretti. Quello che nel libretto ha vero valore è la parola. [...] Tutto è qui, il resto è blague! 9 Resta comunque il fatto che nella «tela» la sciattezza di non pochi versi è resa ancor più evidente dalla ricercatezza delle forme metriche adottate. Manchevolezze queste che Puccini e Ricordi non dovettero tuttavia giudicare gravi, se si considera che ad Illica era stato richiesto un semplice abbozzo da sottoporre al più meditato e sensibile intervento di Giacosa; e nel complesso il nitido disegno del Quadro – almeno nella fase iniziale dell’impresa – non doveva aver deluso i committenti. Vediamone gli aspetti principali. appare con singolare insistenza nelle prime opere di Illica, mentre viene meno in successive creazioni, quali i libretti di Iris ed Isabeau. 8 Il termine ‘recitativo’ è usato qui per indicare l’alternanza non strofica di endecasillabi e settenari. Negli ultimi decenni del secolo la forma recitativa si era ampliata, assumendo frequentemente la rima e i metri quinari e novenari. Nei libretti di Illica si assiste addirittura ad un rovesciamento delle convenzioni, per cui le sezioni che, per funzione drammatica sono più vicine al recitativo tradizionale, possono essere in rima, mentre i versi destinati agli episodi cantabili, conoscono la libera alternanza di imparisillabi, perdono la forma strofica, e adottano versi sciolti. Si veda il caso del libretto di Andrea Chénier – steso da Illica nel periodo in cui quello di Bohème ancora non era ultimato – ove la rima è generalmente assidua, ma non nell’improvviso di Chénier e nell’intervento della vecchia Madelon, che sono in versi sciolti. 9 Carteggi pucciniani, cit., n. 528, pp. 357-9. LA BARRIERA D’ENFER 99 Il testo del manoscritto, che conta 284 versi ripartiti in cinque scene,10 principia con una meticolosa didascalia – corredata persino da una pianta dell’assetto scenico – quasi identica a quella che ancor oggi leggiamo nel libretto dell’opera. Ma se l’ambientazione non conobbe evidenti modifiche nelle stesure seriori, caso diverso è quello dell’intreccio. La notoria inclinazione di Illica a moltiplicare personaggi e situazioni trova puntuale riscontro nelle prime due scene, che hanno fulcro nella loquace figura di un cenciaiolo, dapprima dialogante coi doganieri e quindi altercante con gli spazzini; al cenciaiolo non manca poi di accompagnarsi un piccolo spazzacamino savoiardo che, sperduto e quasi assiderato, è da lui condotto al corpo di guardia. Scena I. (all’alzarsi della tela la scena è immersa nella incertezza della luce della primissima alba – seduti avanti ad un bracere stanno presso alla barriera i doganieri – seduto coi doganieri sta un piccolo = samoveur = – ritto in piedi la mani stese al bracere un = chifounier = colla sua gerla e bastone uncinato,... Dal cabaret, ad intervalli grida, cozzi di bicchieri, risate) (Un doganiere esce dal cabaret con vino) IL CENCIAIUOLO (racconta ai doganieri) (la cancellata della barriera è chiusa) ...credete, dico il vero, signori doganieri!... Colla neve di jeri non si vede un sentiero! Tutto quel che ho trovato (indica lo spazzacamino) è qui ...questo piccino assiderato sovra un gradino; ma un cencio, un mozzicone... non c’è caso, non c’è!... [10] Non un soldo! Un bastone cerca... cerca... Ma che! Non si trovan che impronte di scarpe! E questo è quanto! se così va, dio santo sarà quel che sarà! 10 Le scene erano numerate nelle prime stesure di Illica e di Giacosa mentre sono prive di numerazione nei libretti a stampa del 1896 e del 1898. Nelle edizioni moderne manca ogni indicazione di cambio di scena. 100 PIER GIUSEPPE GILLIO L’osservatorio il sole (dicono) non lo vole... La Senna intanto gela e siamo al Marzo già! [20] DOGANIERI È un freddo cane, è vero! e noi la notte tutta così passata, è brutta!... Che vita il doganiere! CENCIAIOLO Udite c’è chi canta con questa neve fuori!... (sbuffando) Eh, si sa!... Son Signori!... Uff, se torno a rinascere! (tace - tacciono tutti e ascoltano - lo spazzacamino si addormenta) (finita la canzone di Musetta) (dentro grida di Brava... Viva Musetta e cozzo di bicchieri) CENCIAIOLO (ridendo mostra ai doganieri il piccolo spazzacamino addormentato) Tò... dorme!... Forse immagina d’essere un gran Signore!... [30] (lo spazzacamino si desta) Ora si desta! (sorridendo e scuotendolo amichevolmente) Hai l’incubo? LO SPAZZACAMINO (si guarda intorno trasognato poi rompe in singhiozzo e singhiozzando egli balbetta) Mamma!... Lago Maggiore!... (Il capoposto impietosito lo accarezza e lo ricovera nel corpo di guardia a sinistra) Quella di seguito trascritta è parte della seconda scena. Si osservi come la prolissità didascalica, pur consueta all’opera di Illica, sembri anche in questa pagina convenire più ad un testo definitivo che ad una stesura provvisoria: (Gli spazzaturai urlano scuotendo il cancello e mostrando i pugni al cenciaiolo) IL CAPOPOSTO (accorrendo con doganieri) Basta! LA BARRIERA D’ENFER 101 DAL CABARET (Marcello, Musetta e avventori sporgono la testa dalla porta e dalla finestra:) Che rumore è questo? (Il cenciajolo indica gli spazzaturai poi, le mani in tasca, zuffolando si allontana pel boulevard St Jacques) IL CAPOPOSTO (agli spazzaturai) Ov’è il permesso? SPAZZATURAI (mostrando il foglio) Eccolo qua! (Ad un cenno del Capoposto i doganieri aprono la cancellata – gli spazzaturai entrano e si allontanano per via d’Enfer). (I curiosi del cabaret si ritirano.) VOCI (dal boulevard esterno - dal fondo) Montrouge! Hopp-là! DOGANIERI Son già le lattivendole! LE LATTIV: (passano per la barriera /le lattivendole/ col latte a dorso di asinelli e si allontanano per diverse strade dicendo ai doganieri) Buon giorno! [50] PAESANE (con ceste al braccio) Burro ed ova! = Polleria! (i doganieri le lasciano passare) Nella breve terza scena, Mimì, giunta alla barriera, chiede al capoposto dove possa trovare il pittore Marcello. Pensando soprattutto all’unico, asciutto verbo proferito dal sergente nella versione finale del libretto, si coglie qui il carattere soverchio sia del commento sentenzioso dell’ufficiale, sia delle giustificazioni addotte da Mimì. Scena IIIa. Mimì dalla via d’Enfer. Entra guardando attentamente intorno cercando di /[...]/ riconoscere la località, ma giunta al primo platano la coglie un violento accesso di tosse che la costringe a sedere. IL CAPOPOSTO (le si avvicina) Che avete? Dite! Vi sentite male? 102 PIER GIUSEPPE GILLIO MIMÌ (tossendo) Un pò di tosse... una tosse ostinata che mi toglie il respiro!... Ma è passata! (si rialza per avviarsi) In cortesia, sapreste dirmi quale è l’osteria...? (non rammentandone il nome) ...dove un pittor lavora...? IL CAPOPOSTO. Eccola! MIMÌ. È questa? IL CAPOPOSTO Questa! MIMÌ. (ancora la tosse) Grazie! questa tosse!... Ma presto è primavera! (fa per entrare, poi si trattiene e ritornando al Capoposto gli dice ancora:) A voi così cortese chiederei [60] un piccolo favore. IL C.P. Dite! MIMÌ. A quel pittore... IL C.P. Marcello...? MIMÌ. Sì! parlare bramerei... Ma forse è troppo presto... IL C.P. (ridendo) È mattiniero chi a dormire non va! MIMÌ. Chiamatelo in disparte e, piano, ditegli: Mimì l’aspetta qua! Il Capoposto indica a Mimì il bracere poscia entra nell’Osteria. Mimì si avvicina al bracere e vi si scalda. Dalla barriera entrano altri carri, altre paesane, altra gente e chi da una parte, chi dall’altra, si allontana. Le campane dell’Ospizio Maria Teresa suonano il Mattutino. La scena è avvolta da una luce pesante, livida, grigia. 103 LA BARRIERA D’ENFER Nella quarta scena, non dissimile nell’impianto dalla corrispondente della versione definitiva, Mimì incontra Marcello. Dopo che il pittore s’è diffuso ad illustrare alla visitatrice le sue creazioni artistiche, ella spiega la ragione della sua venuta in una dozzina di versi, provvidamente virgolettati forse dallo stesso Illica. Fino a questo punto del Quadro l’autore aveva svolto il suo copione in piena autonomia da ambienti e situazioni descritti da Murger, con la sola eccezione del riferimento didascalico alla metamorfosi della tela Il passaggio del mar rosso. Ma quando Mimì spiega le ragioni del contrasto con Rodolfo, le sue parole sono pressappoco le stesse che si leggono nel capitolo XX del romanzo. Si confrontino i seguenti passi: MIMÌ Sapete chi è Rodolfo... carattere impastato d’ira e di gelosia... [...] Il mio amor proprio sotto i piedi l’ha pesto... M’uccide ad once... Ditemi se è vivere codesto?! [90] [100] Vous ne savez pas, vous, quel homme c’était que Rodolphe: un caractère pétri de colère et de jalousie, qui me tuait par petits morceaux. [...] Il a marché à deux pieds sur mon amour-propre.11 Dopodiché Illica ricorre a nuova trovata di fantasia: mentre Marcello risponde con una geremiade alle argomentazioni della donna, alla sua voce si sovrappone una canzone d’amore, in versi francesi, intonata da ebbri nottambuli in maschera: Viens me baiser, Titine, cela me rend content; * ne me fais pas la mine. * Helas! je t’aime tant! Laisse ma main caline sur ton sein palpitant; * cela n’est pas, Titine, * pour toi bien important!...12 11 HENRY MURGER, Scènes de la vie de Bohème, Nouvelle édition entièrement revue et corrigée, Paris, M. Lévy Frères, 1890, p. 262. 12 In calce, Illica annotava: «Gli * possono essere ritornelli». 104 PIER GIUSEPPE GILLIO Ed è questa festosa atmosfera che suggerisce al pittore la seguente conclusione: Che volete morir di crepacuore? Ecco il mondo! Canto ed amore! [110] E Mimì conclude la scena con un solo di sei strofe, una delle quali virgolettata: ( Mentre la canzone si allontana ) MIMÌ: Ragione avete!... E ragionate bene! E penso io pur così! E son venuta qui per questo! Sì. Dividerci conviene! Non è molto, una sera, si decise dividerci il domani. Ci siam strette le mani come due amici, e si cenò, e si rise. = I miei stracci raccolsi - ei m’ajutò = poi ricordammo l’ore = prima del nostro amore, = come si visse e come ci si amò. La «Buona Sera» noi ci siamo detto sorridendo e contenti... ma, a lumi spenti, Marcello, che tortura quel letto! Io lo sentivo sempre singhiozzare!... freddo come un cadavere era!... l’udivo piangere ed il guancial di lagrime inzuppare!... Ah, questo amante ch’io lasciavo allora si triste... al suo dolore, non pensai che all’amore e quando venne il dì rimasi ancora! [120] [130] [140] Si consideri qui la corrispondenza tra i versi 131-138 ed il seguente passo di Murger: – Bonsoir, me dit-il – Bonsoir, lui répondis-je – [...] il avait placé sa tête sur mon épaule, qui ne tarda pas à être toute mouillée. [...] J’entendais 105 LA BARRIERA D’ENFER toujours Rodolphe sangloter, et, je vous le jure, Marcel, ce sanglot dura toute la nuit.13 Alla parte iniziale della quinta ed ultima scena appartiene il medesimo disegno espositivo pervenuto alla stesura definitiva: Rodolfo dichiara all’amico il suo proposito di separarsi da Mimì, mentre la ragazza ascolta il colloquio, nascosta dietro a un platano. Anche le prime battute di Rodolfo trovano riscontro in un luogo delle Scènes de la vie de Bohème: RODOLFO Io voglio divorziarmi da Mimì! Pensar che già cantato il Deprofundis avevo sul mio amore e detto «Addio!» all’amore. [160] Rodolphe croyait alors sérieusement en avoir fini avec toutes les choses de jeunesse et d’amour; il chantait insolemment le Deprofundis sur son cœur qu’il croyait mort.14 Nella stesura di Illica il finale non è ancora quartetto, ma duetto tra i due amanti con ultima interlocuzione di Marcello. È questa la parte di minor nerbo della «tela»: il dialogo prende avvio con maldestre battute in cui Rodolfo e Mimì si parlano con un’impacciata alternanza di «tu» e «voi», suggerita evidentemente da un passo del capitolo XIV del romanzo.15 (Un colpo di tosse rivela a Rodolfo la presenza di Mimì.) MARCELLO: (per toglierlo dall’imbarazzo va a prendere Mimì e la conduce vicino a Rodolfo: dicendo:) Da amici date la mano – poi per la sua strada ciascuno vada. 13 Scènes de la vie de Bohème, cit., pp. 264-5. 14 Ibid., p. 164. 15 «Jusqu’à trois heures du matin ils causèrent. Une conversation explicative, ou de temps en temps le tu familier succédait au vous de la discussion officielle», ibid., p. 178. Anche questo passo, dunque, evidenzia una dipendenza dal romanzo di Murger insospettabile da parte di chi legga l’edizione moderna del libretto e non abbia potuto accedere alle fonti mano- 106 PIER GIUSEPPE GILLIO (a Mimì) La man toccate MIMÌ. (a Rodolfo) nulla ho con voi, Rodolfo... MARCELLO. Orsù, ditegli, Tu! [240] MIMÌ. E il «tu» sia ancora! Rodolfo, addio;... il mio saluto... (non può continuare) MARCELLO. (commosso, brusco a R.) Perché stai muto? R. Vorrei,... signora... essere Dio e a... voi... (non può continuare) MARCELLO. Ed ora perché «signora»? (fa stringere le loro mani) La man toccate da amici e poi ciascuno vada per la sua strada. RODOLFO (colle mani strette) Mimì, ascoltate... MIMÌ. Mi dici «Voi»? RODOLFO. (pieno d’amore) O mia Mimì!... [250] scritte. Al punto che autorevoli studiosi hanno fino ad oggi escluso ogni influenza di Murger sulla stesura del Quadro III; si veda, ad esempio, Giacomo Puccini: « La Bohème», a cura di Arthur Groos e Roger Parker, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, pp. 58-9. 107 LA BARRIERA D’ENFER MIMI. Ah, sì, così! RODOLFO. Se nel mio cuore leggesti tu!... tumultüose ed affannose passiam quelle ore che a noi mai più faran ritorno!... [260] Il colloquio si conclude con la rievocazione del primo incontro in soffitta, passo che, debitamente modificato, verrà in seguito trasferito all’ultimo Quadro, prima della morte di Mimì. La differenza più rilevante di questa conclusione di Quadro, rispetto alla versione definitiva, è che Rodolfo e Mimì, riappacificati per i buoni uffici di Marcello, non differiscono alla primavera la loro separazione, ma, accogliendo il suggerimento dell’amico, decidono di lasciarsi definitivamente. MIMÌ. Il primo giorno ancor rammento... Era il Natale... R. (sorridendo al ricordo) Odo un fruscìo, apro... MIMÌ. Ero io!! Il lume spento... buie le scale... R. Apro... È il mio cuore che apre all’amore ! MIMÌ (tornando mesta) Abbiam vissuti di lieti... R. (mestissimo) e s[‘]era così felici. [270] 108 PIER GIUSEPPE GILLIO MARCELLO. Eccovi amici. a tre Così la vita si vive e ognuno per la sua via poscia s’avvia!... [280] MIMÌ e RODOLFO (tristemente) Ora è finita Io metto il bruno attorno al cuore... Morto è l’amore. (e finisce quasi in un bisbiglio) Marcello entra nell’Osteria. Mimì e Rodolfo. Sempre le mani strette rimangono muti, le teste curve sul petto – immemori di tutto – in quell’intimo dolore del loro abbandono che li accascia. 2. Le revisioni di Giacosa. Il primo rifacimento di Giacosa, leggibile a margine del testo di Illica, interessava integralmente le prime tre scene e buona parte della quarta. È plausibile che questa stesura fosse ultimata prima del 31 maggio 1893, perché proprio in quella data Giacosa scriveva a Ricordi in settenari rimati: Ho sempre lavorato – ho sempre dibrucato – ho sempre tagliuzzato – ed è un lavoro ingrato. – Or mi vedo arrivato – ad un buon risultato – Puccini ha ormai sicura – trama alle note sue. – Faremo la lettura – domani all’ore due...16 Dopo di che probabilmente Puccini richiese a Giacosa il completamento della quarta scena e il rifacimento della quinta, restituendogli il manoscritto. Un successivo fascicolo ospita le prime tre scene, il completamento della quarta e l’inizio della quinta. Le pagine del manoscritto – che complessivamente conta 235 versi – sono numerate da uno a dieci e in calce ad un’undicesima pagina, non numerata, si legge: 16 Trascr. in MARIO MORINI, Come nacque «Bohème», «La Scala», VII/77, 1956, pp. 23-31: 24. LA BARRIERA D’ENFER 109 E qui devo rifare per la centesima volta la scena fra Rodolfo e Mimì ed il quartetto finale. Mi viene lungo e non mi contenta. Bisogna uscirne con pochi versi. Voglio sperare che gli altri atti non mi riescano ostici come questo. G.G. L’ultima frase lascerebbe dunque intendere che il Quadro della Barriera fosse il primo a conoscere la radicale revisione di Giacosa. Anche a questa stesura si può assegnare una data di ultimazione, infatti, il 28 luglio 1893, il poeta scriveva a Ricordi, promettendogli per il giorno successivo la consegna dell’atto ultimato.17 Sopravvenuti impegni gli impedirono però il proseguimento del lavoro ed è così possibile ch’egli inviasse a Ricordi, in agosto o settembre, quanto fino ad allora scritto, con l’aggiunta dell’annotazione sopra riportata. Come è noto, il finale non era ancora ultimato il 6 ottobre, allorché Giacosa dichiarava all’editore di voler cessare la collaborazione.18 Se Illica aveva inteso dare un saggio della sua sensibilità poetica, Giacosa volle invece dimostrare che neppure un verso del collega era degno d’esser salvato. Il rifacimento, infatti, fu integrale e investì non soltanto la stesura dei singoli versi ma anche l’intelaiatura formale, quasi sempre mutati senza alcuna apparente motivazione, come s’egli avesse voluto ribadire che in quell’ambito la responsabilità delle scelte era di suo esclusivo appannaggio. Si considerino, ad esempio, i passi in cui Illica aveva operato le scelte più vincolanti per complessità d’impianto metrico: i tetrastici polimetri della quarta scena sono riscritti in soli settenari e quelli della quinta in senari; come la tavola allegata illustra, analoghi sovvertimenti toccano la seconda scena, ove i versi recitativi cedono il passo a parisillabi, e il primo solo di Mimì della quarta – ancora in martelliani nel rifacimento di Giacosa a margine della «tela» – riscritto in seguito in versi recitativi, a rima baciata. Nel primo abbozzo del quartetto finale, che si legge in posteriori carte sciolte, sono introdotti metri del tutto diversi da quelli impiegati nel finale della «tela». Là dove Illica aveva conservato irrelato qualche verso recitativo, Giacosa – incline all’uso pervasivo della rima baciata nei suoi tanti 17 18 Cfr. Carteggi pucciniani, cit., n. 89, p. 87. Cfr. le lettere di Giacosa a Giulio Ricordi del 2 e 6 ottobre 1893 (Carteggi pucciniani, cit., nn. 91 e 92, pp. 88-9). 110 PIER GIUSEPPE GILLIO drammi in martelliani – impiega la rima in esteso.19 Oltre che integralmente rimati, i metri recitativi sono emendati dalla presenza della misura novenaria, abusata da Illica. La concezione della forma di Giacosa è, in sostanza, estremamente tradizionale e, per quanto lontana dall’arditezza e dalla complessità della scrittura, è semmai prossima a quella dell’amico Boito per varietà di caratterizzazione delle sezioni e per geometria della costruzione.20 A paragone del linguaggio spesso prosastico, la nuova versione appare smagliante per risorse timbriche, per calibratura e fluidità del discorso. E ciò evidenzia come la concezione del verso dei due poeti fosse nettamente diversa: per Illica il significato prevale sul significante; per Giacosa, come già per Boito, il significante ha lo stesso peso del significato, sicché raffinatezza dell’eloquio ed equilibrio e levigatezza del verso costituiscono idealità insopprimibili. Però, nonostante i diversi esiti formali, Giacosa perveniva a risultati espressivi piuttosto modesti e in alcuni casi persino meno efficaci di quelli della sceneggiatura originaria. Dubbie scelte lessicali, gratuiti sbalzi di registro, assidui lezi verbali, proposizioni ora vacue, ora iperboliche svelano in più casi un’applicazione non sorretta da genuinità d’ispirazione. In più, nei momenti di maggior incertezza, l’autore ricorre a formule stereotipe, tratte di peso dalla letteratura librettistica, così come all’inizio della seconda scena, ove l’esortazione degli spazzini «Date il passo / Oh Parigini! / L’ora è tarda», costituisce un’evidente reminiscenza dei versi «Parigini date il passo / Al trionfo del bue grasso» (La traviata, III.1). Eppure, proprio queste pagine offrono, in prospettiva, una precisa misura della versatilità e dei meriti del poeta. Che al suo primo approccio al melodramma appare piuttosto disorientato, forse perché non ancora del tutto cosciente delle specifiche esigenze del testo per musica – per non dire di quelle particolarissime ed inflessibili di Puccini 19 Il verso martelliano ebbe il trionfo librettistico nel Falstaff. In Bohème il metro si ritrova nel dialogo iniziale di Rodolfo e Marcello e, simmetricamente, doveva esser impiegato nel dialogo che principia il Quadro IV, come dimostra una primitiva versione della scena, di mano del Giacosa, conservata nel fondo. 20 Soltanto in un abbozzo del Quadro II figura una costruzione metrica particolarmente ricercata: si tratta del tentativo – subito abortito – di costruire un dialogo, tra Alcindoro e Musetta, ricorrendo ad un artificio figurato, del genere di quello introdotto da Boito nel quarto atto della prima versione del Mefistofele. Il percorso metrico, come si può vedere, conduce dal settenario al bisillabo e viceversa: 111 LA BARRIERA D’ENFER – e soprattutto per non aver ancora risolto il problema della sintesi di vicende complesse in scene essenziali. Il confronto tra la prima revisione e il libretto attesta la rapidità con la quale Giacosa giunse ad impadronirsi del nuovo codice espressivo, e a divenirne maestro. Giacosa intervenne, assai discretamente però, anche sul piano dell’intreccio drammatico, di certo accogliendo indicazioni nel frattempo formulate da Puccini. Ma anche su questo versante i risultati non furono esemplari. In particolare egli riscrisse in forma più agile le prime due scene, nelle quali la molesta verbosità del cenciaiolo di Illica si indirizza con faceta scurrilità anche alle fruttivendole; saggia la definitiva eliminazione della spaesata figura dello spazzacamino, ancora presente nell’abbozzo del maggio 1893. Scena 1a CENCIAIUOLO. (ai doganieri) In verità lo dico Signori doganieri Colla neve di ieri Non si raccatta un fico Sul lastrico m’attardo Menando il lanternino E il mio solo bottino Fu questo Savoiardo. E fruga e annaspa e ficca Il bastone qua e là. Non rinvenni una cicca In tutta la città. Stagione maledetta Ragazza benedetta Tu vai con tal foga Vertiginosa E tal fretta Che affoga Posa ! C’è ? Mi sloga E sgarretta M’è faticosa Disdice alla toga Tal[e] furia scorretta. [10] 112 PIER GIUSEPPE GILLIO È Marzo e par Gennaio. DOGANIERI. E noi nella garetta Tutta notte al rovaio? CENCIAIUOLO. Vitaccia! DOGANIERI. E così sia. Puoi tu mutarla? No. LA VOCE DI MUSETTA DALL’OSTERIA. Così ride l’amore Siccome olezza il fiore. CENCIAIUOLO. Evviva l’allegria. Canta e ride chi può. Scena IIa Gli spazzini di là dal cancello. SPAZZINI. Date il passo Oh Parigini! L’ora è tarda. CENCIAIUOLO. Qual fracasso. DOGANIERI. Gli spazzini. CENCIAIUOLO. Guarda guarda (si avvicina al cancello e ride agli spazzini) che aria idiota! Spazzan neve e portan mota. SPAZZINI. Vien, t’aspetto Pugni in faccia. CENCIAIUOLO. Belli! belli! SPAZZINI. Presto presto Qui s’agghiaccia Giù i cancelli Ehi sergente. [20] [30] LA BARRIERA D’ENFER IL SERGENTE. (dal fondo) Eccomi vado. MARCELLO E MUSETTA. (sull’uscio dell’osteria) Tanto chiasso che vuol dir? CENCIAIUOLO. È la gente del contado Che ci viene a incivilir. [40] (le erbivendole e le lattivendole a cavallo dei somari) Olà Ohè Olà Ohè CENCIAIUOLO. Largo ai somari Delle comari. (Le guardie aprono il cancello. La gente irrompe e passa) DOGANIERI. (ad una fruttivendola) Che ci avete in quelle ceste? FRUTTIVENDOLA. Polli ed ova al suo comando. CENCIAIUOLO. Fruga un po’ sotto la veste Là si cela il contrabbando. ERBIVENDOLA. Latte, rape, indivia, agretto CENCIAIUOLO. E due mele nel corsetto. [50] DOGANIERI. Via comari. LE DONNE. Addio messeri. (vanno) 1a ERBIVENDOLA. (alla 2a) Dove vai? 2a ERB. Verso Clichy. 1a Ci si trova? 2a Volentieri Qui, al ritorno, a mezzodì. Escono e si sparpagliano. 113 114 PIER GIUSEPPE GILLIO La breve terza scena appare identica nella sostanza e persino per numero di versi a quella di Illica. Nella quarta scena anche l’episodio dell’incontro di Mimì e Marcello è svolto con la medesima articolazione espositiva della tela di Illica, sulla quale, in un primo tempo, Giacosa aveva riscritto a margine il solo di Mimì, conservando il primitivo impianto in versi martelliani: MIMÌ Marcello Rodolfo m’abbandona, e mi ama e si tormenta Con una gelosia ingiusta e violenta È geloso di tutto: ogni passo, ogni detto, Un vezzo, un nastro un fiore gli è causa di sospetto. Mi affligge il suo dolore sapete, e non l’offesa Talor la notte chiudo gli occhi e mi fingo presa Dal sonno, ma lo sento spiarmi il viso come Per leggervi i miei sogni. È un cruccio senza nome. Ier sera mi ha lasciata mentre dormivo. Quante Volte non mi ha egli detto: Trovati un altro amante Non fai per me. Che posso rispondergli: ho il cervello In fuoco. Che gli posso rispondere, Marcello?! MARCELLO. Quando s’è come voi, l’amor si beve A sorsi e non si vive in compagnia Si accomuna l’ardore intenso e breve E poi ciascun riprende la sua via Io son lieve a Musetta ed ella è lieve A me perchè ci amiamo in allegria. Canti e risa ecco il fiore D’un giovanile amore. Ma nella versione del luglio 1893 il brano appare notevolmente trasformato, soprattutto per l’adozione di nuovi metri: MIMÌ. Rodolfo mi ama. Rodolfo si strugge Di gelosia e mi fugge. Un passo, un detto Un vezzo, un fior, lo mettono in sospetto Onde corrucci ed ire. Talor la notte fingo di dormire E in me lo sento fiso Spiarmi i sogni in viso. [90] 115 LA BARRIERA D’ENFER Oh se sapeste quante Volte mi disse: prendi un’altro amante Non fai per me. È il rovello Che parla, il so. Ma soltanto A lui dà voce il pianto Ed io non fo che piangere. Marcello.21 I successivi versi francesi degli ebbri nottambuli di Illica sono tradotti in italiano e riscritti. MASCHERE (sul boulevard) Non torcer dai fieri Miei baci la faccia V’è ancora la traccia Di quelli di ieri. La mia man furtiva Non tor dal tuo seno. Un fallo di meno L’inferno non schiva. Invan neghi, armata Di tarda virtù. Non cresce peccata Un bacio di più. [100] [110] Alla fine della medesima scena, si leggono il racconto di Mimì – amplificato a ben nove tetrastici – ed un’incongrua conclusione, che vede lo spavaldo Marcello commuoversi fino alle lacrime. MIMÌ (continuando a Marcello) Sì, ne andasse la vita Convien farla finita. L’abbiam detto anche noi Le mille volte. E poi Quando il momento viene Il proposito è vano. 21 A lato del testo si leggono due sintetiche annotazioni a matita: «il fatto» e «lungo». La Serafini attribuì le osservazioni a Puccini, ma la grafia mi sembra quella di Giulio Ricordi. Cfr. Giacosa e i suoi libretti, cit., p. 122. 116 PIER GIUSEPPE GILLIO Stringendoci la mano Riannodiam le catene. Una sera... Oh qual sera! Parea proprio la fine. Nei nostri sguardi c’era Il gel delle rovine. Lo salutai. Marcello, Senza lacrime al ciglio. Accendo il lume, piglio Il mio poco fardello. E me ne vo. Sul canto Oscuro del ripiano Mi grida: È freddo tanto Prenditi il mio pastrano. Mi volto. Io sempre muta Egli sempre di ghiaccio. Mi si accosta, mi aiuta A vestirlo, il mio braccio L’ampia manica imbocca. Ne avanza un moncherino. Si rise... e fu destino. Mi baciò sulla bocca. Mai voluttà più acuta In noi scese e più nuova. Di là conobbi a prova Che ogni forza ho perduta. Or senza dir parola Nel sonno mi lasciò. Rivederlo una sola Volta... piangete? MARCELLO Oibò! È l’aria viva che mi offende gli occhi. Che dir? Siete due sciocchi. Ma sciocchi al par di voi ve n’hanno a torme. Rivederlo volete? A voi. Venite qui. Guardate dorme Su quella scranna presso la parete.22 22 [120] [130] [140] [150] Che Giacosa non fosse contento dei risultati ai quali era pervenuto, lo lascia ancora intendere, oltre alla già trascritta annotazione conclusiva, un suo appunto, a margine della terza strofa: «Và ancora cambiato. Non mi piace». Nella quarta e quinta scena, tortuose linee verticali evidenziano lateralmente i passi che Ricordi o Puccini o lo stesso Giacosa ritenevano di minor efficacia. 117 LA BARRIERA D’ENFER La lunga ultima scena conobbe le innovazioni più rilevanti: per scemata aderenza ai passi di Murger, per vivacizzazione del dialogo tra Marcello e Rodolfo, alle cui voci si aggiunge quella esterna di Mimì, per l’inserimento di una canzone di Musetta – intonata fuori scena – e soprattutto per il finale che da terzetto diventa quartetto. Scena Va Marcello. Mimì nascosta. Rodolfo. ROD. (a Marcello) Sei qui? Che fai? MARC. Mi affina La brezza mattutina. Guardo la nebbia che ci ruba il sole. ROD. Marcello, due parole. MARCELLO. Io voglio divorziarmi da Mimì. ROD. L’hai detto. Sì Io voglio divorziarmi da Mimì. Non soffro carezza Quest’ozio mi prostra Rimpiango la nostra Virile gaiezza. Credevo già vinta La tenera smania, Ma un’esile spinta Tornommi alla pania. Un picciol mostaccio Color di camelia, Mi ha fatto la celia Di prendermi al laccio. Ma sazia la sete Del dolce licor, Dismaglio la rete E fuggo l’amor. MARC. Ti sei rimesso Davver? [160] [170] [180] MIMÌ Ei soffre e finge [190] Fortezza, il veggio.. 118 PIER GIUSEPPE GILLIO ROD. Davvero Torno in me stesso Col cuor leggiero. MARC. Rodolfo, menti Hai gli occhi ardenti ROD. Se nell’amore Mai più m’ingolfo... MARC. Troppo bollore, Menti Rodolfo. Ma il cor mi stringe Quel suo dileggio. Sacro è l’amore Sacro il dolore. Di tanta ebbrezza Che dee finir Grande dolcezza M’è il sovvenir. MARCELLO. (continuando a Rodolfo) La tua filosofia Si chiama gelosia. Sei geloso, geloso, arcigeloso; E non vuoi che sia detta. Se tu facessi come io con Musetta Conosceresti l’amor gaudioso Che le carni rimpolpa. Le faccio io colpa Di nulla? Ella può andare Venir, vestirsi, infiorarsi, occhieggiare Il terzo e il quarto (io già non faccio il primo) Che da men non la stimo. MUSETTA. (canta nell’interno dell’osteria) Ninon Ninon che fai tu della vita? Muore parte di noi col dì che muor. Oggi fiorente, domani appassita. Di che vivi se non vivi d’amor? Io per un po’ d’amor darei la vita E la darei per nulla senza amor. MARCELLO. Musetta a quel che sento Era in flebil concento. ROD. Forse quel moscardino Che le sedea vicino Le mosse il cor. [200] [210] [220] 119 LA BARRIERA D’ENFER MARCELLO. Cioè? MUSETTA. (c.s.) Amore e fedeltà non son germani E insiem non li confondo L’amor nasce col mondo La fedeltà deve nascer domani. Il verbo amar, vuole il tempo precedente Serbar fede, il futuro. Baciami di fretta e giuro Di amarti in un minuto eternamente. MARC. L’avrà da far con me. ROD. 23 Sei geloso anche tu! [230] La parte finale, della quinta scena, ancora assente nel fascicolo del luglio 1893, è così abbozzata su due carte sciolte (verosimilmente databili allo stesso anno): [RODOLFO] Dove ne andò quella scienza scaltrita Che a me dolente, predicavi or or? Canti e risa dicevi, ecco la vita Ecco il supremo intento dell’amor E Musetta se’n fugge invelenita E tu rimani col veleno in cor. [MARCELLO] [...] Lascia la tua scaltrezza scimunita! Ognuno per se stesso è buon dottor. Se colei mi ricasca fra le dita, Giuro che ne riporta il lividor. Falsa, furba, bugiarda, incaparbita Chi l’ha perduta ha trovato un tesor. 23 La prima strofa della canzone, ai versi 214-19, era già stata scritta da Giacosa a margine della stesura di Illica, ma non già come canzone di Musetta, bensì delle maschere. Lateralmente al nuovo testo si legge l’annotazione a matita: «basta una strofa»; anche in questo caso la grafia mi sembra quella di Giulio Ricordi. 120 PIER GIUSEPPE GILLIO [MUSETTA] [...?] dai piedi. [...] Se no gli strappo gli occhi. [...] [MIMÌ] Oh mio Rodolfo vedi Come fanno pietà. [MUSETTA E MARCELLO] Zimbello per gli allocchi. Pittore di bottega. Vipera. Rospo. Strega Pozzo di falsità. [MIMÌ] Tienimi stretta fra le tue braccia [...] Ch’io più non oda le grida oscene. T’amo, Rodolfo, guardami in faccia Voglimi bene, voglimi bene. Dalla lettura di questo frammento non si intende però se alla riconciliazione tra Mimì e Rodolfo già seguisse il proposito di differire il momento della separazione. Nel complesso anche l’efficacia di questa scena è scarsa, soprattutto per il carattere fastidiosamente sentenzioso dell’intervento di Rodolfo e più in generale per le tante espressioni forzate che fanno quasi rimpiangere la versione di Illica. 3. La terza versione del Quadro e i libretti a stampa. Avuta la stesura del Quadro che, nelle intenzioni dei librettisti, avrebbe dovuto essere la definitiva, Puccini non ne fu in alcun modo soddisfatto e, nella lettera inviata a Ricordi nel luglio 1894, deprecava le troppe «cianfrusaglie» che ancora gravavano il testo.24 Anche in questa circostanza, Illica cercò di evitare un nuovo coinvolgimento di Giacosa, proponendo a Ricordi un proprio rimaneggiamento del Quadro,25 ma senza esito perché il compositore non volle rinunciare 24 Lettera di Puccini a Ricordi del 13 luglio 1894, in Carteggi pucciniani, cit., n. 106, p. 103. 25 Lettera di Illica a Ricordi [12 agosto 1894 ?], in Carteggi pucciniani, cit., n. 116, p. 109. LA BARRIERA D’ENFER 121 all’intervento del suo ‘Budda’. L’ostinazione di Puccini comportò quasi un anno d’attesa,26 ma alla fine il Quadro raggiunse quell’eccellenza che i lavori preparatori lasciavano a mala pena presagire. Tra le carte giacosiane si trova la versione finale delle ultime due scene, ormai identiche a quelle che si leggono nella prima edizione del libretto.Tutta la scena di Mimì e Marcello, ora in metri recitativi rimati, risulta più agile ed efficace, anche per il taglio del secondo solo della protagonista e del coretto delle maschere.27 Più complessa è invece la versione dell’ultima scena, in ottantuno versi recitativi, da cui Puccini trasse anche il testo della romanza «D’onde lieta al tuo grido», contrappeso adeguato alla riduzione della parte solistica di Mimì nella precedente scena. Ai versi recitativi si aggiungono due ampie sezioni di forma strofica: l’intervento di Rodolfo, «Mimì è tanto malata», svolto in cinque tetrastici di schema ABBa (in settenari e quinari) ed il diverbio finale di Musetta e Marcello in nove tetrastici di ottonari. Tra gli autografi non figurano rifacimenti delle prime tre scene, sulle quali evidentemente Giacosa non era più intervenuto. Ma a Puccini – che inseguiva con caparbietà il suo ideale di massima concisione – l’avvio affollato e verboso del Quadro doveva piacere sempre di meno e così, nel luglio del 1895,28 partecipava ad Illica la drastica decisione di eliminare il personaggio del cenciaiuolo. Ne conseguì una radicale revisione delle due scene iniziali, ridotte ad una sola di tredici versi. Autore dell’intervento, questa volta, fu il solo Illica, come è dimostrato dall’assetto formale in versi sciolti e dai materiali testuali, che derivano dalla sua «tela» e non dalle revisioni del collega. L’estraneità di Giacosa agli ultimi rimaneggiamenti del Quadro è provata infine dalla richiesta di nuovi versi per il coretto dell’osteria, rivolta da Puccini al solo Illica.29 Un’ulteriore richiesta di minimi ag- 26 Solo il 25 giugno 1895 Giacosa comunicava a Ricordi: «l’atto della Barriera è finito […] Vi giuro che a fare libretti non mi ci colgono mai più» (Carteggi pucciniani, cit., n. 123, p. 115). 27 La riduzione di questo intervento di Mimì fu ancor più drastica sulla partitura, ove il numero di versi della replica a Marcello figura dimezzato rispetto a quello che si legge nelle edizioni del libretto datate 1896 e 1898. 28 29 Vedi lettera del 28 luglio 1895, in Carteggi pucciniani, cit., n. 126, p. 116. Nella lettera di cui alla precedente nota, Puccini richiedeva ad Illica quattro quinari tronchi per il coretto. Ad essi erano però ancora aggiunti due ottonari, cosicché, già nella versione del 1896, il testo risulta: 122 PIER GIUSEPPE GILLIO giustamenti, inoltrata dal compositore a Ricordi nel mese di agosto, costituisce l’ultima menzione epistolare del Quadro della Barriera.30 La storia del libretto del Quadro III non era però ancora conclusa. Sia le stesure preliminari manoscritte, sia il libretto nelle edizioni del 1896 e del 1898 consacrano rigidamente la regolarità della versificazione e delle forme chiuse. Nello spartito pubblicato da Ricordi nel 1896, invece, il testo è largamente stravolto dal compositore, che per esigenze d’intonazione mozza o dilata, elimina o fonde non pochi versi. Per almeno mezzo secolo l’editore continuò a proporre Bohème in due diverse lezioni: quella del libretto e quella della partitura. Poi, venuta meno la possibilità di un’opposizione da parte degli autori e dei loro eredi, licenziò la versione corrente, tanto infedele al libretto originale, quanto pienamente aderente al testo intonato da Puccini.31 Ecco, per produrre un unico esempio, come nella scena di Mimì e Marcello il coerente impianto in endecasillabi e settenari rimati della prima edizione viene inesorabilmente occultato dalla versione corrente del libretto(che si legge nella colonna di destra): MARCELLO Quando s’è come voi l’amor si beve Quando s’è come voi non si vive a sorsi e non si vive in compagnia. in compagnia. Io son lieve a Musetta ed ella è lieve Son lieve a Musetta ed ella è lieve a me perché ci amiamo in allegria... a me, perché ci amiamo in allegria... Canti e risa, ecco il fiore Canti e risa, ecco il fior di un giovanile amore. d’invariabile amor! Chi trovò forte piacer – nel suo bicchier di due labbra sul bel fior – trovò l’amor Trallarallé Eva e Noè. 30 31 Lettera di Puccini a Ricordi del 9 agosto 1895 (Carteggi pucciniani, cit., n. 128, p. 118). Giacosa non avrebbe mai acconsentito alla pubblicazione di un libretto modificato. Si rammenti la sua intransigente reazione alla proposta di pubblicazione del libretto di Madama Butterfly in una forma lievemente difforme da quella originale: «insisto con quanta ho forza perché sia stampato intero il testo del libretto. Questa mutilazione può convenire al maestro, ma offende profondamente il poeta. Non posso lasciar licenziare una scena stampata, senza ritmi, senza sintassi e senza senso comune. […] Credete a me, caro Sor Giulio, stampiamo un libretto che non sia troppo patente offesa alle ragioni letterarie e drammatiche» (lettera di Giacosa a Giulio Ricordi del 1° gennaio 1904, in Carteggi pucciniani, cit., n. 336, p. 250). 123 LA BARRIERA D’ENFER MIMÌ Dite bene. Dividerci conviene. Aiutateci voi; noi s’è provato più volte invan. Quando tutto è deciso se ci guardiamo in viso ogni savio proposito è fiaccato. Dite bene. Lasciarci conviene Aiutateci voi; noi s’è provato più volte ma invano. Fate voi per il meglio. Nel testo corrente, due versi sono irrelati e la polimetria assidua ed estrema: al punto che la quartina di Mimì presenta in sequenza le misure di decasillabo, endecasillabo, senario e settenario; incongrua è poi la misura del primo verso di Marcello, di ben quattordici sillabe!32 Chi volendo analizzare il libretto di Bohème dal punto di vista delle strutture metrico-formali, si limitasse alla lettura del testo corrente non potrebbe dunque non incorrere in gravi inesattezze d’interpretazione. Incidente occorso a Daniela Goldin Folena che, nel suo pregevole studio Drammaturgia e linguaggio della «Bohème» di Puccini, scrive: «Si potrebbe piuttosto qui parlare di anisoritmia – quasi un sistema di verso libero – che mi pare corrisponda all’anisocronia evidente nella partitura».33 Che è, poi, esattamente il contrario di quel che si può dire del libretto di Bohème, nella cui gestazione il riformatore Illica e il conservatore Giacosa diedero prova di attaccamento tenace alle rigorose convenzioni della tradizione letteraria. 32 Verso del tutto anomalo perché gli emistichi non sono due settenari, come nel verso martelliano, ma un settenario ed un ottonario. 33 DANIELA GOLDIN, La vera Fenice. Librettisti e libretti tra Sette e Ottocento, Torino, Einaudi, 1985, p. 358. 124 PIER GIUSEPPE GILLIO APPENDICE Tavola riassuntiva delle strutture metriche Prima stesura di Illica (ante- Primo rifacimento di Giacosa Libretto del 1896 riore al 22 marzo 1893) (aprile-luglio 1893) SCENA I [SCENA I] (Cenciaiuolo, doganieri, picco- (Cenciaiuolo, doganieri) lo spazzacamino) 8 tetrastici di settenari. 5 tetrastici di settenari e distico di Musetta. (Spazzini, doganieri, voci interne al cabaret, voce di Musetta, lattivendole, contadine, un sergente) 7 versi endecasillabi sciolti; 6 versi del coretto interno (2 otSCENA II tonari e 4 quinari) e distico di (Detti, capoposto, spazzini, pae- (Detti, sergente, Marcello e Musetta sane, lattivendole) Musetta, spazzini, fruttivendole, erbivendole) 20 versi endecasillabi, rimati 32 versi rimati, quadrisillabi e sciolti. ed ottonari (e quinari). SCENA III [SCENA II] (Capoposto e Mimì) (Sergente, Mimì, un doganie- (Mimì, Sergente, doganieri) 14 versi recitativi* rimati (en- re, un passeggero) decasillabi e settenari). 14 versi endecasillabi rimati. 7 versi recitativi rimati. SCENA IV (Marcello e Mimì) a) 10 versi recitativi rimati (più 13 versi virgolettati); b) primo solo di Mimì: 12 versi martelliani in rima baciata; c) risposta di Marcello: 9 versi recitativi (endecasillabi e novenari); d) coretto maschere: 2 tetrastici di settenari; e) secondo solo di Mimì: 5 tetrastici di forma AbbA (endecasillabi e settenari), più una strofa virgolettata; f) 11 versi recitativi (endecasillabi, novenari, settenari). [SCENA III] (Marcello e Mimì) (Marcello e Mimì) a-b-c) 30 versi recitativi rima- 48 versi recitativi rimati. ti; [una prima versione di «b» era in 12 versi martelliani] d) 3 tetrastici di senari; e) 9 tetrastici di settenari; f) 12 versi recitativi rimati. 125 LA BARRIERA D’ENFER SCENA V [SCENA III] (Marcello, Rodolfo, Mimì) (Marcello, Rodolfo, Mimì, Musetta) a) 43 versi recitativi, rimati e a) 7 versi recitativi rimati (en- a) 30 versi recitativi rimati (ensciolti (endecasillabi, novena- decasillabi, settenari, quinari); decasillabi, settenari, quinari); ri, settenari, quinari); b) Solo di Rodolfo: 8 tetrasti- b) 4 tetrastici di senari; ci di forma ABCc (endecasillabi e settenari) ed una nona strofa virgolettata; b) 5 tetrastici di forma ABBa (settenari e quinari) ed un tetrastico (settenario) per gli «a parte» di Marcello e Mimì; c) Terzetto finale: 52 versi qui- c) Terzetto: 20 versi quinari rinari rimati. mati; canzone di Musetta: esastico (endecasillabi); Quartetto: 27 versi recitativi rimati (prima dell’interruzione).*** c1) Finale (Mimì e Rodolfo): 51 versi recitativi rimati (endecasillabi, settenari e quinari);** c2) (Marcello e Musetta): 9 tetrastici di versi ottonari e 2 settenari conclusivi. * Uso l’aggettivo «recitativo» in esclusivo riferimento ad una strutturale alternanza non strofica di endecasillabi e settenari, senza alcun riferimento a funzioni drammatiche. ** Sono qui compresi i versi del primo dialogo, della romanza «D’onde lieta al tuo grido» e del quartetto. *** Nel finale contenuto in due carte sciolte – coeve o successive al primo rifacimento e forse mutile – il quartetto prosegue con due esastici di endecasillabi, un tetrastico di decasillabi ed otto settenari.