Anno XX - Numero 74 - 21 ottobre 2014
L’intervista
Parlano il regista Leo Muscato
e il direttore Renato Palumbo
A Pag.
2
La Corte di Mantova
Allegra e raffinata
con i Gonzaga nel ‘500
A Pag.
6e7
La Storia dell’Opera
Il dramma di Hugo,
poi una lunga battaglia
contro la censura
A Pag.
8
I luoghi di Rigoletto
Angoli di Mantova
tra storia e fantasia
A Pag.
10
Rigoletto
di Giuseppe Verdi
Rigoletto
2
Il
Parlano il regista Leo Muscato ed il direttore Renato Palumbo
«Tensione come un thriller
e sottotesto orgiastico per questo Rigoletto»
G
uarda ad una visione
espressionista il nuovo allestimento del
Rigoletto, che il Teatro dell’Opera di Roma mette in
scena forse nel momento più
difficile della sua storia, periodo di sbandamento totale
che probabilmente necessiterebbe solo di un sano commissariamento, al fine di
riacquistare quelle credibilità e fiducia del pubblico che
i fatti e le cronache dei giornali hanno definitivamente
minato dopo un recente passato non certo all’altezza di
ciò che dovrebbe essere il
tempio della Lirica di una
Capitale.
«In questa regia vado alla ricerca di un intervento quasi invisibile, – dice Leo Muscato, pugliese al suo primo Rigoletto, dopo essersi confrontato
in passato con altre due opere verdiane, il Nabucco (2012
a Cagliari e 2014 al Comunale di Firenze) ed I Masnadieri
(2013 al Regio di Parma) –
perché non ho necessità di cercare una drammaturgia sovrapposta ad altra drammaturgia,
conferendo un valore diverso ai
personaggi. Piuttosto cerco di
far “pensare” il pubblico, di indurlo ad immaginare. Victor
Hugo nel suo testo del suo
dramma da cui l’opera è ripresa
dice: “siamo all’alba di una
festa che è evidentemente
degenerata in un’orgia”. Se
pensiamo, sono parole forti per
un dramma francese dell’800. E
così ho tentato sottolineare que-
sta sottile perversione di fondo
che pervade l’opera, senza mai
essere esplicito: non c’è un nudo
o scena di sesso, ma quell’apparire di una maschera di maiale,
quei personaggi in canottiera
con le bretelle giù fanno intuire
il divertimento sfrenato, l’esagerazione per compiacere il Duca che organizza tali feste nel
suo palazzo, con donne ed uomini che se lo ingraziano. In
mezzo a loro, quello più mascherato di tutti è il giullare Rigoletto, personaggio schifato da
tutti perché non ha senso della
misura e sulle situazioni e sugli
scherzi ci va con la mano pesante, come con Ceprano al quale
gli dà apertamente del cornuto.
Tutto qui è esagerato. Così, nella mia regia, pure quella scritta,
quasi da cabaret, fatta mettere
dal Duca “Palazzo del Duca”».
«Ho fatto in modo che non ci
fosse un’epoca precisa – continua Muscato – perché quello
che accadeva al tempo della corte di Mantova, accadde anche
con la borghesia in un periodo
di euforia come la Belle Époque,
periodo di grande esaltazione in
cui la medicina curava i malati,
nelle case arrivava la luce elettrica, una nuova energia creativa invadeva l’arte con movimenti come il Dadaismo od il
Futurismo che guardava prepotentemente in avanti».
Le scene di questo allestimento sono curate da Federica Parolini. «Scenograficamente lo spazio è molto aperto –
spiega ancora il regista – e ri-
Il G iornale dei G randi Eventi
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sponde esattamente alla mia visione di far immaginare agli
spettatori ciò che non c’è. Un
obiettivo che sembra ambizioso,
ma questa a pensarci è l’ultima
esclusiva del teatro rispetto ad
altre forme di rappresentazioni.
La scena è spoglia, con tele che
cambiano colore, forme ….
Stoffe molto semplici, ma con la
possibilità di creare luoghi molto diversi. Sul finale, ad esempio, va su una teletta che creava
un interno e siamo così di colpo
in un luogo vasto e di estrema
solitudine. Sono tante stoffe,
quasi muri attraversabili che,
nel prologo, ad un attacco musicale, riescono a riempire lo spazio: dove prima c’era solo Rigoletto con un fazzoletto in mano,
in una frazione di secondo il
luogo diviene completamente
pieno di gente».
«Ho lavorato sulla trama che in
Hugo è più complessa – sottolinea Leo Muscato - inserendo
nel testo degli antefatti non presenti nel libretto. Un lavoro sui
personaggi che mi avvicina di
più a Victor Hugo ed al suo
dramma che mi piacerebbe moltissimo mettere un giorno in
scena».
Sul podio per queste dieci
rappresentazioni è il giovane direttore Renato Palunbo,
il quale all’opera di Roma è
stato nell’aprile 2003 con Sly
di Wolf Ferrari, nel marzo
2010 con Mefistofele e l’anno
scorso con Tosca. «Rigoletto è
una delle opere che più dirigo –
l’ho fatta circa 35 volte - e più
mi piace», dice. «La trovo di
una estrema modernità ed anche sempre interessante da vedere ed ascoltare, poiché più delle altre cambia con il cast e l’interpretazione registica. E’
un’opera che va certamente raccontata, ma nella quale va tenuta sempre costante una grandissima tensione: deve essere
gestita con ritmi cinematografici, come un thriller che inchioda
lo spettatore alla poltrona. Musicalmente, con l’orchestra, alla
quale va tutta la mia solidarietà
per questo momento difficile,
abbiamo fatto un lavoro di
estrema raffinatezza, esaltando
gli aspetti cromatici».
Andrea Marini
Giornale dei Grandi Eventi
Stagione d’opera 2014- 2015
del teatro dell’opera di Roma
27 novembre - 14 dicembre
RuSAlkA
di Antonín Dvořák
Eivind Gullberg Jensen
Denis Krief
Direttore
Regia, scene e costumi
18 - 29 gennaio
WeRtHeR
di Jules Massenet
Jesús López-Cobos
Willy Decker
Direttore
Regia
4 - 8 febbraio
Rigoletto
di Giuseppe Verdi
Gaetano d'Espinosa
Leo Muscato
Direttore
Regia
1 - 12 marzo
toSCA
di Giacomo Puccini
Donato Renzetti
Alessandro Talevi
Direttore
Regia
31 marzo - 12 aprile
luCiA Di lAMMeRMooR
di Gaetano Donizetti
Roberto Abbado
Luca Ronconi
Direttore
Regia
23 aprile - 3 maggio
AiDA
di Giuseppe Verdi
Donato Renzetti
Direttore
21 maggio - 3 giugno
le NoZZe Di FigARo
di Wolfgang Amadeus Mozart
Andrea De Rosa
Regia
19 - 30 giugno
lA DAMA Di PiCCHe
di Pëtr Il'ič Čajkovskij
James Conlon
Peter Stein
Direttore
Regia
11 - 17 settembre
i WAS lookiNg At tHe CeiliNg
AND tHeN i SAW tHe SkY
di John Adams
Alexander Briger
Giorgio Barberio Corsetti
Direttore
Regia
6 - 17 ottobre
AuFStieg uND FAll
DeR StADt MAHAgoNNY
di Kurt Weill
John Axelrod
Graham Vick
Direttore
Regia
RIGOLETTO
La Locandina ~ ~
Teatro dell’Opera di Roma, 21 - 31 ottobre 2014
~~
Melodramma in tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave
dal dramma Le roi s’amuse di Victor Hugo
Musica di Giuseppe Verdi
Prima rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1851
Direttore
Regia
Scene
Costumi
Luci
Maestro del Coro
Renato Palumbo
Leo Muscato
Federica Parolini
Silvia Aymonino
Alessandro Verazzi
Roberto Gabbiani
Personaggi / Interpreti
Rigoletto (Bar)
Giovanni Meoni /
Francesco Landolfi 22, 26, 31 /
Stefano Antonucci 24, 29
Il Duca di Mantova (T)
Piero Pretti /
Gianluca Terranova 22, 24, 26, 29, 31
Gilda (S)
Ekaterina Sadovnikova /
Claudia Boyle 22, 24, 26, 29, 31
Sparafucile (B)
Goran Jurić /
Mikhail Korobeynikov 22, 24, 26, 29, 31
Maddalena (Cont.)
Alisa Kolosova
Giovanna (S)
Marta Torbidoni
Il Conte di Monterone (Bar)
Italo Proferisce
Marullo (Bar)
Marco Camastra
Matteo Borsa (T)
Pietro Picone
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA
Nuovo allestimento
Il
Rigoletto
Giornale dei Grandi Eventi
I
n un Teatro dell’Opera di Roma
che appare completamente destabilizzato, va in scena questo Rigoletto, ultimo titolo di una stagione travagliata, culminata con i licenziamenti di orchestra e coro e con il cambio
del già annunciato titolo di apertura
del nuovo cartellone, abbandonando
l’Aida che doveva essere diretta da
Muti e sostituendola con Rusalka di
Dvořák, affidata al 42enne direttore
norvegese Eivind Gullberg Jensen.
Così lascia qualche perplessità la
scelta di proporre un nuovo allestimento per Rigoletto, in un momento
di gravi difficoltà economiche del
Teatro, quando già 4 anni fa lo stesso titolo fu presentato in una formula originale e di vecchi e qualitativi
allestimenti nel magazzino del teatro ce ne saranno di sicuro.
Questa volta, comunque, lo spettaco-
lo è messo in scena dal regista Leo
Muscato, in una forma dal sapore
espressionista. Molti aspetti sono fatti
intuire, lasciando così allo spettatore
la possibilità di immaginare. Scene
molto semplici di Federica Parolini,
dove lo spazio, giocando con le luci, è
composto e scomposto da teli di stoffa. Sul podio il maestro Renato Palumbo, che al Costanzi è già stato diverse volte, fin dal 2002.
Un Rigoletto espressionista a chiudere una stagione difficile
3
Le Repliche
Mercoledì 22 ottobre, h. 20.00
Giovedì 23 ottobre, h. 20.00
Venerdì 24 ottobre, h. 20.00
Sabato 25 ottobre, h. 18.00
Domenica 26 ottobre, h. 16.30
Martedì 28 ottobre, h. 20.00
Mercoledì 29 ottobre, h. 20.00
Giovedì 30 ottobre, h. 20.00
Venerdì 31 ottobre, h. 18.00
L’editoriale
Hanno
distrutto
l'Opera
di Andrea Marini
P
La Trama
Atto i – Quadro primo – Sala magnifica nel Palazzo Du- Atto ii – Salotto nel palazzo ducale – Il Duca è turbato per-
cale – Durante una festa, il Duca di Mantova parla col cortigiano Matteo Borsa delle proprie avventure femminili ed in
particolare di quella che ha in mente con una «incognita borghese», che travestito ha adocchiato in chiesa. Intanto egli corteggia la donna più bella della serata, la contessa di Ceprano,
non curandosi della presenza del marito, del quale il gobbo e
maligno giullare di corte Rigoletto si fa beffa senza ritegno.
Questa sfrontatezza provoca l’indignazione dei cortigiani che
meditano di punirlo, soprattutto dopo che uno di loro, il cavalier Marullo, dichiara di aver scoperto che il gobbo avrebbe una giovane amante. Intanto entra il Conte di Monterone,
venuto a chiedere giustizia per aver il Duca disonorato sua figlia. Anche lui è sbeffeggiato da Rigoletto, fino ad essere arrestato su ordine del Duca. Mentre è portato via, il Conte maledice il Duca e Rigoletto per aver riso del dolore di un padre.
Rigoletto rimane impressionato da queste parole e le vive come da un sinistro presagio.
Quadro secondo – L’estremità deserta di una via cieca – Il borgognone Sparafucile ferma Rigoletto e gli offre i suoi servigi
di sicario: la sorella danzando adesca la vittima e lui la elimina. Rigoletto rifiuta ed allontanandosi riflette che lui ed il sicario son pari: «Io la lingua, egli ha il pugnale». Nel cortile della sua casa l’accoglie Gilda, l’amata figlia, che solo da tre mesi ha fatto venire a Mantova e che tiene celata a tutti, tanto da
essere stata scambiata da Marullo per “l’amante”. A lei ed alla domestica Giovanna Rigoletto raccomanda di non fidarsi
degli sconosciuti e di tenere la porta sbarrata. Ma è proprio
Giovanna che consente al Duca, travestito da giovane studente, di intrufolarsi in casa, dove egli apprende che la giovane è figlia del suo buffone e che ella lo ama dopo averlo visto in chiesa. Approfittando dell’assenza di Rigoletto, il Duca
esce dall’ombra e si presenta a Gilda come Gualtier Maldé.
Poi arriva qualcuno ed egli fugge. Sono Marullo ed i cortigiani intenzionati a portar via al buffone quella che credono
l’amante. Rigoletto li scopre, ma essi gli dicono di voler rapire la Contessa di Ceprano. Il giullare si offre di aiutarli e loro
gli impongono una maschera, che in realtà è una benda, facendogli reggere la scala con la quale entrano nella sua casa
e rapiscono Gilda. Rigoletto, rimasto solo s’avvede della beffa e gli torna alla mente la maledizione.
ché tornato nella casa di Gilda, non l’ha più trovata. Entrano i cortigiani che gli annunciano di aver rapito quella che
credono l’amante di Rigoletto. Appreso che Gilda è nel suo
palazzo, il Duca corre esultante ad incontrarla. Giunge Rigoletto, il quale dapprima simula indifferenza, poi, dopo
aver appreso che Gilda è con il Duca, inveisce contro i cortigiani ed infine chiede pietà per quella che rivela essere
sua figlia. La fanciulla appare. Allontanati i cortigiani, Rigoletto ascolta il suo racconto, ma quando appare il Conte
di Monterone condotto in carcere, egli decide di vendicare
il vecchio Conte e se stesso, mentre Gilda, innamorata del
suo seduttore, invoca pietà.
Atto iii – Sulla riva destra del Mincio, davanti all’osteria di
Sparafucile – Rigoletto, al fine di dissuaderla, conduce la figlia
a spiare il contegno del Duca, che travestito da semplice ufficiale di cavalleria, corteggia un’altra donna. Questa in realtà
è Maddalena, sorella di Sparafucile, la quale lo ha attirato in
un agguato. Gilda ricorda con amarezza le parole lusingatrici del Duca. Rigoletto, credendo d’averla convinta, la manda
a casa a vestire abiti maschili per partire immediatamente alla volta di Verona, dove presto la raggiungerà. Intanto egli,
consegnandogli 10 scudi d’anticipo, prende gli ultimi accordi col sicario: tornerà a mezzanotte per ricevere il cadavere
del Duca chiuso in un sacco da gettare nel fiume. Ma Gilda
riappare angosciata e, sotto il temporale, assiste non vista alla discussione fra Sparafucile e la sorella che gli chiede di non
uccidere l’avvenente giovane ma di uccidere il gobbo. Sparafucile si ribella e fa valere il proprio onore di fedele professionista. Piuttosto ucciderà il primo viandante che prima di
mezzanotte si presenterà a bussare all’Osteria. La notte è
tempestosa e nessuno passa. Gilda decide di immolarsi per
salvare il padre e bussa all’osteria. Quando la porta sia apre
è colpita dal pugnale. Allo scoccare della mezzanotte si presenta Rigoletto il quale riceve il sacco e si appresta trionfante
a gettarlo nel fiume. Ma di lontano ode la voce del Duca che
canticchia la melodia de “La donna è mobile”. Il giullare apre il
sacco e scopre inorridito la figlia morente, la quale invoca
perdono per se e per il suo seduttore. La maledizione si è
compiuta.
otrebbe essere il canto del
cigno dell’Opera di Roma
questo Rigoletto. Se non formalmente, almeno di fatto. Già
parla da sola la discutibile decisione del Sovrintendente Fuortes di cambiare, a poco più di
un mese di distanza, il titolo
d’apertura della prossima stagione, cancellando Aida per sostituirla con Rusalka di Dvorák,
tanto più quando orchestra e
coro - con la lettera di licenziamento in tasca - si erano resi disponibili per mantenere ad
ogni costo la programmazione,
confezionandosi addirittura i
costumi da soli. Il problema è
che nell’ambiente musicale – lo
ha dichiarato un manager importante – è stato sconsigliato
ai direttori di legare il proprio
nome all’Opera di Roma.
L’abbandono di Muti non deve
stupire più di tanto. Il direttore
napoletano scalpitava da tempo. In questa avventura era
stato “tirato per la giacchetta”
e certo non aveva accettato con
entusiasmo. Per il Teatro si cercava un direttore stabile e, dopo alcuni contatti informali, fu
annunciato troppo entusiasticamente - anche dal Sindaco l’arrivo di Muti, arrivo poi
smentito dallo stesso Maestro.
Si cercò, così, di mettere la cosiddetta “pezza” alla gaffe, con
Alemanno impegnato in prima
persona, spesso al telefono anche durante un pellegrinaggio
a Lourdes, per convincere il
Maestro. Risultato: solo un impegno di facciata, con la direzione di tre titoli l’anno, a fronte di tante richieste onerose, tra
le quali, oltre ai compensi, l’assunzione di alcuni elementi
dell’orchestra, l’imposizione di
alcuni cantanti a lui vicini, il
coinvolgimento della figlia regista, fino alla propria fotografa di scena, ogni volta – non
segue a pag. 11
Segulcl su:
fw-cp.;.
ANCHE LE PICCOLE COSE
POSSONO ESSERE
GRANDI OPERE.
, ;t t f t i i i U I
, otll l l l l l l l •• • •
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Il
Giornale dei Grandi Eventi
Piero Pretti e Gianluca Terranova
Rigoletto
Giovanni Meoni, Francesco Landolfi e Stefano Antonucci
Duca di Mantova, signore
spavaldo e superficiale
N
ei panni dello sfrontato Duca di Mantova saranno i tenori
Piero
Pretti
(21,23,25,28,30) e gianluca terranova (22,24,26,29,31).
Piero Pretti, ha iniziato lo studio del
canto lirico come tenore con Antonietta
Chironi, frequentando in seguito le masterclass di Renata Scotto, Gianni Raimondi e Giusi Devinu. Si è perfezionato
poi con Gianni Mastino. Ha debuttato
partecipando alle produzioni di Bastien Piero Proietti
und Bastienne e L’oca del Cairo di Mozart.
Nella stagione 2007 ha cantato di nuovo la Bohème al teatro comunale di
Treviso. Tra i prossimi impegni Lucia di Lammermoor a Verona, La Traviata, al Teatro la Fenice di Venezia e la Madama Butterfly, a Bilbao.
gianluca terranova, nato a Roma il 3 luglio 1970, si è diplomato in pianoforte nel 1993, e successivamente ha cominciato a studiare canto lirico
riuscendo ad affermarsi in vari concorsi come il “Riccardo Zandonai” di
Rovereto. Nel 2008 ha conquistato pubblico e critica nel Rigoletto dell’Arena di Verona , sotto la direzione di Renato Palumbo. La stagione
2011/12 ha incluso La traviata a Venezia, Rigoletto a Tenerife ed il debutto ne I Puritani presso il Circuito Lirico Lombardo. Nell’autunno del 2012
ha preso parte come protagonista di “Caruso – La voce dell’amore”- a fianco di Vanessa Incontrada, film Rai che ha avuto un successo mondiale e
che ha fatto apprezzare Terranova ad un pubblico internazionale.
Ekaterina Sadovnikova e Claudia Boyle
Gilda, dolce e segreta
figlia di Rigoletto
S
aranno i soprano ekaterina Sadovnikova (21,23,25,28,30) e Claudia
Boyle (22,24,26,29,31) ad interpretare il ruolo della giovane Gilda.
ekaterina Sadovnikova, nata in Russia nel
1980, ha studiato al Conservatorio di San
Pietroburgo e alla “Hochschule fur Muskik” di Dresda. Nel 2006 è stata fra i vincitori al “Competizione dell’opera” di Dresda e della “Elena Obraztsova International Competition”. Nella stagione 2008/09
è stata Violetta nella Traviata, riscuotendo
grande consenso fra il pubblico. Nella sta- Ekaterina Sadovnikova
gione successiva ha cantato Gilda in Rigoletto e nuovamente ne La Traviata al San Carlo di Napoli, per poi prendere
parte a Die Zauberflote, Le Nozze di Figaro, Falstaff e molte altre. Tra i prossimi impegni Falstaff al Comunale di Firenze.
Claudia Boyle, nata a Dublino, si è laureata con lode presso la” Royal Irish
Accademy of Music”. Nel 2010 è stata selezionata per partecipare al prestigioso “Young Singers Project” al Festival di Saliburgo. In concerto ha debuttato con importanti direttori quali Riccardo Muti, Paavo Jarvi ed Eivind
Gulberg Jensen. Nel 2012 al concorso “Maria Callas di Verona” si è aggiudicata sia il primo premio, sia il premio della critica.
Pagina a cura di Mariachiara Onori
5
Rigoletto,
il buffone di corte
A
cantare nei panni del giullare Rigoletto
saranno i baritoni, giovanni Meoni
(21,23,25,28,30), Francesco landolfi
(22,26,31) e Stefano Antonucci (24 e 29).
giovanni Meoni, nato a Gensano di Roma nel
1964, ha iniziato a studiare canto presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma con il Maestro Leo
Ferri . Dal 1991 al 1993 ha vinto importanti concorsi nazionali ed internazionali, tra i quali il “Battistini” nel 1991, il “Ricciarelli” nel 1992, e il “Basiola” nel 1993. Da quel momento ha iniziato un’
importante carriera che lo ha portato sui principa- Giovanni Meoni
li palcoscenici nazionali ed internazionali. Nel
2004 è stato insignito di importanti riconoscimenti quali il “Premio Lauri Volpi” e
il “Premio Ettore Bastianini “. Tra i prossimi impegni,il Nabucco, e l’Otello.
Francesco landolfi, nato a Caserta nel 1977, si è diplomato in Canto al Conservatorio Statale di Benevento sotto la guida del mezzosoprano Monica Carletti e
nello stesso tempo si è laureato in Lettere e Filosofia alla Seconda Università di
Napoli. Antonucci ha poi partecipato a vari corsi di perfezionamento, presso il
“CUBEC” di Vignola,” l’Accademia Internazionale della Voce” di Torino e”
l’Accademia Internazionale della Lirica” di Sulmona. Nel corso degli anni ha
vinto diversi Concorsi Lirici Internazionali tra cui; il “Toti Dal Monte”, il “Mattia Battistini”, il “Ruggero Leoncavallo”, il “Mario Lanza”, l’ “Ottavio Ziino”, il
“Maria Caniglia”, il “Tommaso Traetta”, il “Marie Kraja”, il “Giacomo Lauri
Volpi” ed i Concorsi Comunità Europea “As.Li.Co.” di Como e “A. Belli” di Spoleto. Prossimi Impegni Falstaff, e l’Aida.
Stefano Antonucci, dopo gli studi di recitazione ed una iniziale attività di attore
ha compiuto i suoi studi musicali al Conservatorio «Niccolò Paganini» di Genova. Nel 1986 ha debuttato in Lucia di Lammermoor al Teatro di Alessandria per poi
cantare nei principali teatri italiani. Nel 1988 ha cantato al Teatro alla Scala nella
Bohème, ritornandovi in seguito per diverse produzioni. Antonucci ha collaborato con i più importanti teatri nazionali ed internazionali. Nelle ultime stagioni si
è concentrato sull’interpretazione dei principali ruoli verdiani baritonali.
Mikhail Korobeynikov e Goran Juric
Sparafucile, sicario incaricato
di uccidere il Duca
N
el ruolo del sicario Sparafucile saranno i basso Makhail korobeynikov (21,23,25,28,30)e goran Juric (22,24,26,29,31).
Mikhail korobeynikov, nato in Russia, a Sysert nella regione di Sverdlovsk,
si è diplomato alla P. I. Chaikovsky musical school di Sverdlovsk. Nel 2000 è
entrato al Musorgskij Ural State Conservatory. Nel suo repertorio, Le nozze di
Figaro, Don Giovanni, Il Barbiere di Siviglia, La Boheme, Tosca, Madama Butterfly,
e molto altro. Mikhail ha preso parte a numerosi festival internazionali, vincendo nel corso degli anni svariati premi e riconoscimenti. Nell’estate 2013 è
stato a Montepulciano per frequentare un corso di Interpretazione Musicale
con M. Andrea Severi.
goran Jurić, nato il 6 maggio 1983 a Karlovac (Croazia), ha iniziato la sua formazione musicale presso la Scuola di Musica di Karlovac, ha studiato flauto
e canto sotto la guida di Radmila Bocek, continuando poi con l’istruzione secondaria presso la Scuola di Musica Vatroslav Lisinski di Zagabria, studiando con Bojan Pogrmilović. Nell’estate del 2011 ha partecipato al progetto del
Festival di Salisburgo dei Giovani Cantanti e dall’inizio della stagione
2011/12 si è trasferito a Monaco di Baviera, dove ha iniziato a lavorare con il
complesso della Bayerische Staatsoper opera. Tra i prossimi impegni il Nabucco a Monaco di Baviera e Guillaume Tell.
Rigoletto
6
Il
Giornale dei Grandi Eventi
La fastosa vita dei Gon
L’allegra e raffinata eleganza de
U
na “Vinegia picholina”: così veniva
descritta Mantova
nel 1480 da un mercante
fiorentino. Egli coglieva le
principali caratteristiche
della Mantova rinascimentale, una città quasi completamente circondata dall’acqua e da essa protetta.
Il fiume Mincio, infatti,
s’allarga in uno specchio
lacustre che lambisce su
tre lati la città, che fu in origine un avamposto settentrionale degli Etruschi e
che vanta una mitica fondazione da parte di Ocno,
figlio del dio Tiberino e
dell’indovina Manto (da
cui il centro abitato avrebbe preso il nome).
In epoca romana Mantova
fu un piccolo centro, un
debole oppidum rispetto alle vicine Verona e Cremona. Eppure diede i natali al
grande Virgilio, cui fu legata per secoli in un inscindibile binomio. Marziale nei suoi epigrammi
(XIV,195) scriveva: “Tantum magna suo debet Verona
Catullo / Quantum parva suo
Mantua Vergilio”. Nel 603
d.C. la città fu presa dai
Longobardi e nel X secolo
entrò a far parte dei domi-
Palazzo Te
ni degli Attoni di Canossa
e proprio Matilde di Canossa iniziò a ingrandirsi.
Nel 1115 si affrancò dal
potere comitale e si resse
liberamente per oltre un
secolo; la fase del potere
comunale si chiuse per
sempre negli anni Settanta
del XIII secolo, quando Pinamonte Bonacolsi pose le
basi di una effimera signoria, durata fino al 1328. Il
16 agosto di quell’anno
Luigi Gonzaga, sostenuto
dagli Scaligeri di Verona,
si sollevava contro i Bona-
colsi e li detronizzava. I
Gonzaga devono il loro
nome al centro da cui provenivano, Gonzaga, appunto, un paese dell’Oltrepò; in origine si chiamavano Corradi e nel XII secolo
si erano affermati come
proprietari terrieri, trasferendosi poi a Mantova e
sostenendo in principio gli
stessi Bonacolsi nella loro
ascesa al potere. I discendenti di Luigi avrebbero
governato la città fino al
1707; l’ultimo duca di
Mantova fu Ferdinando
Carlo, morto esule nel
1708. Da allora la città fu
sotto la potestà dagli
Asburgo fino al 1866 (pur
con brevi parentesi napoleoniche) e solo da questa
data entrò a far parte del
Regno d’Italia.
Crocevia d’arte
Vincenzo I Gonzaga in un ritratto di P. P. Rubens
Mantova fu per le arti un
centro di eccezionale importanza, in proporzione
alle ridotte dimensioni e
possibilità dello Stato. La
città è posta sulle rive del
Mincio, non lontana dal lago di Garda e dal fiume
Po, incuneata tra il Veneto,
l’Emilia e quella Lombardia cui, per certi versi, pare
culturalmente quasi estranea. Questa collocazione le
ha permesso di diventare
nel corso dei secoli un cro-
cevia delle più svariate, e
spesso innovative, tendenze dell’arte. La girandola
delle alleanze dei Gonzaga
e le loro intraprendenti politiche matrimoniali aprirono di volta in volta nuovi orizzonti e scambi culturali.
La storia della città s’identifica in buona misura proprio con la storia dei Gonzaga, che per quasi quattro
secoli l’hanno governata:
tra essi, Francesco II (14901519), “vincitore” della
battaglia del Taro (1495) e
marito di Isabella d’Este –
la “primadonna del Rinascimento” –, Federico II (15191540), che chiamò a Mantova Giulio Romano e gli
fece erigere il sontuoso Palazzo Te.
Con Vincenzo I (15871612) le sorti cittadine e le
arti giunsero al vertice della parabola. I presupposti
per l’apogeo sono tutti nella savia politica di suo padre, Guglielmo (15501587), duca di Mantova e
marchese del Monferrato
(territorio acquisito da Federico II per via matrimoniale). Il parsimonioso Guglielmo, grazie anche ad
una attenta politica dei dazi, seppe amministrare il
potere in maniera tale da
accumulare un ingente patrimonio, che il figlio
avrebbe allegramente dila-
pidato, portando le casse
dello Stato vicine al lastrico, ma elevando la città a
centro di assoluto rilievo.
il raffinato duca
Vincenzo i
L’uomo merita massima
attenzione, poiché i suoi
eccessi l’hanno reso simbolo di raffinatezza di gusto o di depravazione, di
lungimiranza o di miopia,
a seconda degli storici che
ne hanno analizzato la figura. Una figura, comunque, notevole sotto ogni
punto di vista: quasi un
maestro di cerimonie per
l’Europa intera, in grado
di rendere la sua corte co-
Palazzo Ducale
Il
Giornale dei Grandi Eventi
nzaga nel Cinquecento
Rigoletto
7
ella corte dei Duchi di Mantova
smopolita e degna di competere con quelle delle
principali dinastie. Vincenzo fu un vero gaudente: creò un duraturo clima
di festa nella sua città (il
Carnevale, ad esempio,
durava interi mesi), tenendo più lontano possibile la
rigida etichetta ed il protocollo delle corti spagnoleggianti. La vita attorno a
Vincenzo I si improntava
all’affabilità ed al divertimento, ma anche alla bellezza ed alla cultura.
Grande fioritura ebbero
nel Rinascimento mantovano le arti. Nel Quattrocento l’architetto Leon Battista Alberti progettò due
chiese tuttora esistenti:
Sant’Andrea e San Sebastiano, mentre nel Cinquecento su direzione di Giulio Romano fu costruito
Palazzo Te, luogo di delizie e villa suburbana dei
Gonzaga. In seguito i principali sforzi si sarebbero
appuntati sul Palazzo Ducale, che è la vera summa
dell’arte a Mantova.
Crogiuolo delle arti
Nel Rinascimento i Gonzaga mantennero relazioni
con importanti umanisti,
come Francesco Filelfo,
Giovanni Francesco Soardi, Filippo Nuvoloni e, nei
floridi anni di Isabella
Castello di San Giorgio
d’Este, Paride Ceresara,
Battista Fiera, Mario Equicola, Baldassarre Castiglione, Battista Spagnoli, Teofilo Folengo. Nel corso del
Cinquecento i rapporti con
i letterati rimasero ad altissimo livello e tra gli altri
Benedetto Lampridio e
Torquato Tasso servirono
lungamente i Gonzaga.
Proprio l’autore della Gerusalemme Liberata, di casa
a Mantova, così la descrisse nel 1586: «Questa è una
bellissima città, e degna c’un
si mova mille miglia per vederla».
Anche la musica deve
molto alla città virgiliana.
È possibile che entro il
1478 il toscano Angelo Poliziano abbia composto per
il cardinal Francesco (1444
– 1483), figlio di Ludovico
III, la Fabula di Orpheo, che
fu rappresentata a Mantova in forma scenica, a opera dei familiares del prelato.
Il lavoro del Poliziano divenne subito il modello riconosciuto di tutto il teatro
mitologico-pastorale tardoquattrocentesco. Sempre alla fine del XV sec.,
anche Isabella d’Este fece
della città uno dei principali centri italiani di attività musicale profana tra i
protetti, ricorderemo almeno Bartolomeo Tromboncino e Marchetto Cara.
Nel Cinquecento furono
attivi per la corte di Mantova – e in particolare per il
duca Guglielmo, compositore egli stesso – i celeberrimi Pierluigi da Palestrina
e Jaques de Wert. Le note
di uno splendido organo
Antegnati (tuttora esistente) accompagnavano i loro
mottetti nella basilica palatina di Santa Barbara. Nel
Palazzo Ducale si conservava persino uno straordinario organo d’alabastro,
che avrebbe destato stupore nello stesso imperatore
Carlo V. Alla fine del Cinquecento fu messo in scena il Pastor fido del ferrarese Battista Guarini e a ca-
vallo del XVII secolo e sotto Vincenzo I Gonzaga il
cremonese Claudio Monteverdi scrisse alcuni dei
suoi capolavori, come l’Orfeo (1607) e il Ballo delle Ingrate (1608). La Favola di
Orfeo di Alessandro Striggi
e Claudio Monteverdi,
opera in musica destinata
a lasciare profonda impronta nella vita culturale
del Seicento, venne per la
prima volta rappresentata
a Mantova, nel Palazzo
Ducale.
Dalla metà del XVI secolo
il Palazzo ebbe almeno un
teatro fisso, ma altri, d’occasione, vi furono sin dalla fine del Quattrocento.
L'affresco della Camera degli sposi di Andrea Mantegna a Palazzo Ducale
Nessuno di questi purtroppo oggi rimane. Tra
essi da ricordare quello
progettato da Giovan Battista Bertani, di ispirazione serliana e compiuto
verso il 1549; quello realizzato nell’ultimo decennio del Cinquecento da
Ippolito Andreasi e Anton Maria Viani; quello
edificato verso il 1688 da
Fabrizio Carini Motta; il
“teatrino” documentato
nei secoli XVIII e XIX di
fianco alla Camera degli
Sposi; quello principiato
nel 1706 da Ferdinando
Galli Bibiena e concluso
verso il 1732 da Andrea
Galluzzi; quello su progetti di Giuseppe Piermarini, attuato nel 1783 e demolito nel 1898, quando
oramai il cuore teatrale e
musicale della città pulsava nel Teatro Sociale,
eretto nel 1822 su disegni
di Luigi Canonica e tuttora esistente. Ci rimane anche il delizioso Teatro
Scientifico settecentesco
di Antonio Bibiena, eretto
nel fabbricato dell’Accademia Virgiliana. Nel
Teatro Sociale si tenne,
nel 1853, la prima esecuzione mantovana del Rigoletto.
Stefano l’occaso
Conservatore del Museo di
Palazzo Ducale di Mantova
Rigoletto
8
Il
Giornale dei Grandi Eventi
La storia dell’opera
Una lunga battaglia contro la censura
C
anticchiando il tema de “La
donna è mobile” il pubblico
veneziano lasciava soddisfatto la platea de La Fenice: era
l’11 marzo 1851, coda della (mediocre) stagione di Carnevale-Quaresima 1850/51 quando il gobbo Rigoletto aveva riportato un vero e
proprio trionfo, risollevando con il
suo debutto le sorti alquanto incerte del cartellone. Interminabili
quella sera le ovazioni, ripetute le
richieste di bis: al calo del sipario,
sul finale dell’ultimo atto, Verdi
venne chiamato alla ribalta insieme
ai cantanti – il baritono Felice Varesi, il soprano Teresa Brambilla (moglie di Amilcare Ponchielli), il tenore Raffaele Mirate – decretati a furor di popolo «ottimi interpreti». E
questo nonostante le parziali riserve della critica, che, se nulla ebbe
da obiettare alla musica, non intuì
però la rivoluzione drammatica attuata dal compositore bussetano –
il quale nei due anni successivi
comporrà anche Trovatore e Traviata, completando così la cosiddetta
Trilogia popolare - accanendosi sulla
crudezza e l’«immoralità» del soggetto. Ma c’era da aspettarselo.
una lunga gestazione
La genesi di Rigoletto infatti era stata assai tormentata, ostacolata fin
dall’inizio dai divieti della censura
austriaca: Le roi s’amuse di Victor
Hugo, da cui Verdi partiva per la
sua opera, era un dramma, appunto, «immorale», che metteva in scena un re meschino – cosa intollerabile - un orribile gobbo, insulto al
buon gusto ed una corte depravata,
dedita ad orge ed ignobili nefandezze. Ed infatti la première del
dramma originale, il 22 novembre
del 1832 a Parigi, era stata una vera
catastrofe e la tragedia rimase incompresa e mal digerita. Infatti,
pochi istanti prima che si levasse il
Interno del Teatro La Fenice di Venezia
Francesco Maria Piave
sipario, in teatro si diffuse la notizia che Luigi Filippo, re dei francesi, fosse stato assassinato. La voce
era in realtà imprecisa, poiché l’attentato al Re era fallito, ma questa
notizia, unita al nervosismo di alcuni attori ed alla confusione sorta
in teatro, resero la rappresentazione un fallimento.
Se si considera poi che il Re aveva
un nome ben preciso, Francesco I,
ecco che non è difficile intuire perché fosse stata anche immediatamente messa all’indice. Verdi
l’aveva scoperta probabilmente
durante i suoi soggiorni parigini
del 1848-49, quando, nonostante il
divieto di rappresentazione scenica, circolava comunque sulla carta
stampata; certo ne rimase impressionato, tanto che ne annotò il titolo tra quelli che avrebbero potuto
servire alla realizzazione di una
nuova partitura. Sarebbe stata la
seconda ispirata ad un dramma di
Hugo, dopo la fortunata operazione di Ernani nel 1844 realizzata insieme al librettista veneziano Francesco Maria Piave, con il quale Verdi aveva già portato in scena sei
opere, Ernani ed I due Foscari (1844),
Attila (1846), Macbeth (1847), Il Corsaro (1848), Stiffelio (1850). Così, nella primavera del 1850,
definito il contratto con
la Fenice, si affrettò a
scrivere nuovamente al
Piave (dopo il rifiuto di
Salvatore Cammarano)
presentandogli Le Roi :
«Il soggetto è grande, immenso, ed avvi un carattere che è una delle più
grandi creazioni che vanti
il teatro di tutti i paesi e di
tutte le epoche». Il “carattere” in questione è il
deforme Triboulet, «creatura sacco alla polizia?», né togliere la
degna di Shakespeare», che gobba a Rigoletto «Io trovo appunto
nell’opera verdiana diverrà bellissimo rappresentare questo persoil protagonista, col nome di naggio esternamente deforme e ridicolo
ed internamente appassionato e pieno
“Rigoletto”.
Ma il percorso si preannun- d’amore». Insomma, la situazione
ciava assai tortuoso. Non era sembrava inesorabilmente bloccastato certo sufficiente cam- ta, ma la vigilia di Natale arrivò,
biare il titolo. Così, infatti, inaspettata, una parziale schiarita,
La maledizione incappò fin da grazie un’altra volta all’abilità disubito nelle strette maglie plomatica di Piave e Marzari, che
della censura austriaca, re- ottennero da Martello un definitivo
stia ad accettare addirittura compromesso: il luogo dell’azione
l’argomento. A poco sem- diventava un piccolo potentato inbrava servissero i tentativi dipendente, in cui regnava un «lidi Piave, che verso il Ferra- bertino e padrone assoluto del suo Stagosto di quello stesso 1850, to», il buffone poteva rimanere
scriveva alla Fenice da Bus- gobbo ed il compositore poteva faseto, dove si era trasferito all’inizio re di testa sua sulla questione del
dell’estate per la stesura del libret- sacco. A costo che si conservassero
to al fianco di Verdi, al fine di otte- «i riguardi dovuti alla scena». Il 30 dinere il consenso e difendendo l’as- cembre Verdi firmò a Busseto - presoluta moralità del soggetto. Lo senti Piave e il segretario della Festesso Verdi, ancora intento alla nice Brenna - i termini del contratcomposizione di Stiffelio, si premurò di contattare il presidente
del teatro veneziano Carlo Marzari, sottolineando come ormai
«la tinta, l’idea musicale» fossero
ormai definite nella sua mente.
Ma fu l’autunno a riservare le
peggiori sorprese: dopo la travagliata prima di Stiffelio, andata in
scena a Trieste il 16 novembre,
mutilata e “castrata”, la censura
aveva inasprito le richieste. Intorno al 20 di novembre, La Maledizione venne ufficialmente respinta dal direttore centrale dell’Ordine Pubblico Luigi Martello, provocando il dispetto e la Giuseppe Verdi nel 1851
costernazione di Verdi, che “perse la testa”, avendo ormai musicato to ed in quaranta giorni portò a tergran parte del dramma. Le sue ire mine la composizione dell’opera,
non risparmiarono nemmeno Pia- che finalmente, a gennaio, ebbe il
ve, reo, secondo lui, di averlo tenu- titolo definitivo di Rigoletto, da una
to all’oscuro degli impedimenti. Ci parodia francese della pièce, Rigovolle tutta la diplomazia del “col- letti, ou le dernier des fous. Il compopevole” librettista per arrivare ad sitore ebbe tanto più merito a comun accordo con le autorità venezia- piere con tanta solerzia il lavoro,
ne, fermi restando i sacri dettami considerando che risale proprio a
del maestro: «Bada a non lasciarti in- quel periodo la dolorosa interrudurre a fare trattamenti che portino al- zione dei rapporti con i genitori per
terazione ai caratteri, al soggetto, alle motivi principalmente economici.
operazioni». Il 14 dicembre a Busse- Il 5 febbraio Verdi annunciava a
to arrivò una trama alternativa, Il Piave di aver messo la parola fine e
Duca di Vendome, che Verdi si rifiu- lo invitava a ritirare alla diligenza
tò di prendere in considerazione in proveniente da Cremona i due terquanto lesiva, a parer suo, del rigo- zi della partitura, riservandosi di
re drammatico del testo. Andava raggiungerlo entro due settimane a
bene la trasformazione del Re in Venezia con il rimanente del lavoDuca, ma in nessun modo la sua fi- ro, per iniziare le prove in vista delgura doveva essere ammorbidita; la tanto attesa première.
non si doveva eliminare il sacco
Barbara Catellani
contenente Gilda «Cosa importa del
Il
Rigoletto
Giornale dei Grandi Eventi
Analisi Musicale
9
Rigoletto… quando Verdi rese grande Hugo
«L
a lunga esperienza
mi ha confermato
nelle idee che io
ebbi sempre riguardo all’effetto teatrale, quantunque ne’
miei primordi non avessi il coraggio che di manifestarle in
parte (per esempio dieci anni
fa non avrei arrischiato di fare
il Rigoletto). Trovo che la nostra opera pecca di soverchia
monotonia e tanto che io rifiuterei oggi di scrivere soggetti
sul genere del Nabucco, Foscari ecc. Presentano punti di
scena interessantissimi ma
senza varietà. E’ una corda sola, elevata se volete, ma pur
sempre la stessa. E per spiegarmi meglio: il poema del
Tasso sarà forse migliore, ma
drammatici eccellenti e fra gli
altri la scena del quartetto che
in quanto ad effetto sarà sempre una delle migliori che vanti il nostro teatro… ».
Scriveva così, il 22 aprile
1853, ad Antonio Somma
(futuro librettista di Un ballo in maschera), Giuseppe
Verdi. Rigoletto rappresentava per il compositore il
punto più alto fino ad allora da lui raggiunto sul piano della drammaturgia
musicale.
Merito di Verdi, senza dubbio. Ma anche del librettista
Francesco Maria Piave e
del drammaturgo francese
Victor Hugo al cui Le Roi
s’amuse si ispira l’opera.
e Traviata) anche qui l’autore pone al centro un personaggio ricco di sfaccettature. Rigoletto è il buffone di
corte, gobbo e deforme,
brutto esteriormente e bello
interiormente, pronto a lottare per l’onore e la salvezza della figlia tenuta a tutti
nascosta. Con il gioco di
contrasti, Verdi va sempre
a nozze e non a caso le pagine più straordinarie dell’opera vivono proprio di
queste tensioni interne.
La partitura è ricchissima
di momenti di grande effetto. Si pensi alle riflessioni di
Rigoletto nel primo atto
(“Quel vecchio maledivami”)
con quella splendida frase:
“O uomini, o natura! Vil scellerato mi faceste voi”. Oppure l’affettuoso incontro fra
Gilda e Rigoletto. Od ancora la delicata aria della ragazza, “Caro nome” che
confina Gilda in una categoria di personaggi unica
nel contesto dell’opera: è la
vittima designata, l’innocente che nei suoi turbamenti d’amore avrà tuttavia il coraggio di un gesto
finale eroico. E, infine, le
trascinanti, allegre e celeberrime leggerezze del Duca, “Questa o quella per me
pari sono” e “La donna è mobile”, palestre di virtuosistiche esibizioni da parte di
tanti tenori della storia.
Perfetta saldatura
delle forme chiuse
io preferisco mille e mille volte
Ariosto. Per l’istessa ragione
preferisco Shakespeare a tutti i
drammatici senza eccettuarne
i Greci. A me pare che il miglior soggetto in quanto ad effetto che io m’abbia finora posto in musica (non intendo affatto parlare del merito letterario e poetico) sia Rigoletto. Vi
sono posizioni potentissime,
varietà, brio, patetico: tutte le
peripezie nascono dal personaggio leggero, libertino del
Duca, da questo i timori di Rigoletto, la passione di Gilda
ecc. che formano molti punti
Rigoletto si chiamava allora Triboulet e l’antagonista
era il re Francesco I, trasformato, nella trasposizione
musicale, in duca per questioni di censura.
Nella citata lettera Verdi
parla di «posizioni potentissime, varietà, brio».
In effetti Rigoletto è opera
di contrasti che la musica
di Verdi rende con straordinaria tensione drammatica e lirica.
Come accade nelle altre
due opere della cosiddetta
“trilogia popolare” (Trovatore
Ma vale la pena soffermarsi su due scene di particolare rilevanza.
La prima è quella di Rigoletto, “Cortigiani, vil razza
dannata”. La figlia Gilda è
appena stata rapita, il buffone sa che è stata portata
nel Palazzo ed entra nel Salone dove sono riuniti i cortigiani. L’orchestra ne sottolinea il passo strascicato,
ne amplifica i gesti mentre
passeggia fra l’uno e l’altro
canticchiando e fingendo
indifferenza. Con la morte
nel cuore, Rigoletto si mette ancora la maschera del
buffone e dispensa cattive-
Victor Hugo
ria e ironia, nel contempo
investigando. Poi quando
scopre che effettivamente
la ragazza è di là con il Duca di fronte agli sbigottiti
cortigiani che ignorano la
vera identità di Gilda, urla
“io vo’ mia figlia” e su questa
frase fortissima Verdi scarica tutta la sua potenza. E’
l’amore di un genitore che
prende il sopravvento e
vince paure, rapporti sociali, tutto... .Parte lì una delle
arie più belle di Verdi,
“Cortigiani, vil razza dannata”. Si veda, intanto, la
struttura drammaturgica
con una perfetta saldatura
delle forme chiuse che dà
l’impressione di un discorso musicale ininterrotto. E
poi, si noti la divisione in
due parti dell’aria che corrisponde all’idea di “contrasti” di cui si diceva. Nella prima parte Rigoletto è
violento, eroico. L’orchestra è un fiume in piena e
le parole del buffone sono
un atto di violenta accusa
nei confronti dei suoi avversari. Poi, Rigoletto si
calma di fronte alla insensibilità dei cortigiani e
passa alla preghiera accorata (“Ebben io piango”) facendo leva sul suo sentimento di padre ferito.
E’ una splendida scena e
una dimostrazione della
genialità drammaturgica
di Verdi.
Ma ancora più straordinario è il celebre quartetto cui
faceva riferimento nella lettera lo stesso autore. Il Duca è nella casa di Maddalena, fuori stanno Gilda e Rigoletto a spiarlo. E il Quartetto (con il celeberrimo tema “Bella figlia dell’amore”)
rende magnificamente il
contrasto di passioni e di
sentimenti che agitano i
quattro personaggi. Due
coppie così diverse: il Duca
che amoreggia, Maddalena
che lo fronteggia e lo asseconda, Gilda sconfortata,
Rigoletto che si divide fra
l’odio per il Duca e la pietà
per la figlia. E’ un turbinio
di emozioni che l’intreccio
delle voci, l’intersecarsi di
temi rendono compiutamente.
Si racconta che Rigoletto tardò ad approdare nei teatri
parigini per il boicottaggio
di Hugo che non gradiva il
successo dell’opera superiore alla sua tragedia. Finalmente quando l’opera
fu messa in scena nella Ville lumière, Hugo si convinse
ad assistere allo spettacolo.
Gli piacque, naturalmente
e quando ascoltò il quartetto non poté trattenersi dal
dire: «Bella forza, lui li fa cantare tutti insieme, io debbo farli parlare uno per volta».
Roberto iovino
Rigoletto
10
Il
Giornale dei Grandi Eventi
I luoghi di Rigoletto a Mantova
Più della storia potè la fantasia
C
ome è ben noto il
Rigoletto è ambientato più per necessità che per scelta “nella
città di Mantova e suoi dintorni. Epoca, il secolo XVI”,
come recita il libretto di
Francesco Maria Piave.
Il “Duca di Mantova”
verdiano è il risultato finale di una tormentata
metamorfosi che parte
dal re Francesco I di Francia, protagonista de Le roi
s’amuse di Victor Hugo. Il
principe dissoluto, protagonista del melodramma,
si ritiene identificabile
con Vincenzo I Gonzaga,
anche se all’11 marzo
1851, data della “prima”
dell’opera verdiana alla
Fenice di Venezia, non
erano ancora emerse notizie su alcune delle vicende più “piccanti” della
sua inquieta vita sentimentale. Contemporaneo
a Francesco I di Francia
era Federico II Gonzaga,
il signore di Mantova noto per il suo amore clandestino con Isabella Boschetti e pertanto anch’egli forse alluso genericamente nel Rigoletto.
una reggia tra
le più belle
Il Palazzo Ducale, in cui
sono ambientati buona
parte di I e II atto, è un
edificio che alla metà dell’Ottocento godeva di
grande fama, per quanto
fosse allora in uno stato
di semi-abbandono che
difficilmente poteva suggerire i fasti ed il lusso di
un tempo: oggi ci appare
sotto ben altra luce, grazie ad oltre un secolo di
restauri. Medioevo, Rinascimento, Barocco, Neoclassicismo e un pizzico
di modernità accolgono il
visitatore, lasciando scorgere gli oltre sette secoli
di vita del monumento,
sunto e manifesto della
storia e dell’arte mantovane. Il grandioso complesso architettonico oc-
P.P. Rubens - La famiglia Gonzaga adora la S.S. Trinità
cupa una superficie superiore ai 35.000 metri quadrati: non per nulla il veneziano Giovanni da Mula nel 1615 scriveva: «Gode il signor Duca per sua
abitazione in Mantova un
amplissimo palazzo, che sarebbe bastevolmente capace
per ogni gran re». Il Palazzo è in realtà un incredibile agglomerato di edifici.
Il medievale Palazzo del
Capitano, il trecentesco
Castello di San Giorgio, la
quattrocentesca Domus
Nova, l’Appartamento di
Troia di Giulio Romano,
la cinquecentesca Basilica
di Santa Barbara (fulcro
dell’intero complesso), e
tanti altri corpi di fabbrica sono collegati da corridoi, logge, gallerie, cortili,
giardini, in continuo dialogo.
Gli interni non sorprendono meno degli esterni,
per la loro vastità e varietà. Le decorazioni pittoriche e plastiche sono un
vero manuale di storia
dell’arte del Rinascimento: sale di rappresentanza
sono dipinte da Pisanello,
da Andrea Mantegna (la
celeberrima Camera degli
Sposi), da Giulio Romano
(l’intero Appartamento di
Troia). Quanti palazzi
possono vantare un simi-
le apporto di genî? E ricorderemo ancora Pietro
Paolo Rubens e Domenico Fetti, anch’essi artefici
del pristino splendore del
monumento, per il quale
dipinsero numerose opere, purtroppo perdute o
disperse. Il Palazzo oggi
accoglie capolavori di
questi due artisti – rispettivamente il Tempio della
Trinità e la Moltiplicazione
dei pani e dei pesci – provenienti da chiese cittadine.
La loro presenza in Palazzo narra la storia di questo come Museo, piuttosto che come dimora nobiliare.
la casa di Rigoletto e
l’osteria di Sparafucile
L’opera verdiana è ambientata – oltre che nel
Palazzo Ducale – anche in
altri luoghi, che risultano
essere invece del tutto di
fantasia: la “Casa di Rigoletto” (I atto) e “l’Osteria di
Sparafucile” (III atto). Proprio sull’onda del successo dell’opera due diversi
fabbricati sono stati ribattezzati, a cavallo fra Otto
e Novecento, come la casa del buffone di corte e la
taverna dell’“uom di spada” borgognone. Oggi
chiamiamo Casa di Rigo-
letto un edificio prospiciente il Palazzo Ducale e
attiguo alla cattedrale:
una casa rinascimentale,
dotata di un bel cortiletto,
che fu in verità dei canonici del duomo. Rigoletto
non è una figura storica,
ma di fantasia, e nessun
buffone di corte è, inoltre,
mai vissuto nello stabile
che proprio dal protagonista del melodramma
oggi prende nome. L’invenzione è praticamente
ed al contempo un omaggio al capolavoro di Verdi
e un ammiccamento
“pubblicitario”.
Anche la cosiddetta “Rocchetta di Sparafucile” porta
un nome moderno e filologicamente scorretto, essen-
Rocca di Sparafucile
do essa in origine nota come “Rocchetta di San Giorgio”, in quanto avanzo di
una cintura di fortificazioni che proteggeva il borgo
satellite di San Giorgio sin
dal tardo Medioevo.
Per secoli difese l’accesso
al ponte di San Giorgio e
quindi alla Città; tra i corpi di fabbrica che lo compongono, il più vetusto è
una massiccia torre di
pianta rettangolare, con
rade finestre e feritoie nelle facciate, sorta probabilmente nel 1370-1372 e comunque prima del 1414.
Più volte rimaneggiata
nei secoli, la rocca rimase
corpo di fabbrica isolato
allorché – siamo nel 18081810 – la cinta muraria di
cui era parte venne abbattuta. Il fortilizio perse, così, parte del suo aspetto
militare e poté essere ribattezzato, ma solo forse
ai primi del Novecento,
come dimora di Sparafucile. È possibile che le scenografie ottocentesche di
Giuseppe Bertoja del debutto alla Fenice di Venezia abbiano favorito la
moderna sovrapposizione dell’“osteria di Sparafucile” all’antico avamposto
militare, certo anche a ragione dell’arco d’accesso
e della collocazione della
vicenda sulla “deserta
sponda del Mincio”.
Stefano l’occaso
Conservatore del Museo di
Palazzo Ducale di Mantova
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Dal mondo della musica 11
La figura del buffone e la sua fortuna
Giullari, da teatranti di strada a consiglieri a corte
N
onostante spesso
si trattasse di esseri grotteschi,
sfortunati nel fisico, come nel caso di Rigoletto, i
giullari possedevano un
genio comico e sagace
fuori dal comune che li
avvicinava e li rendeva
amabili agli occhi di
principi e regnanti. Oggi
il termine “giullare”, è inteso in senso certamente
non positivo, indicando
persone ritenute di indole cialtrona e furbescamente arruffona. C’è stato un tempo però, in cui
“fare il giullare” signifi- Ritratto di giullare di Velasquez
cava avere confidenza
con gli ambienti del posandi, è presente una vasta
tere assoluto. Ciò significava
selezione di termini, atti a
talvolta essere contesi tra i
definire i giullari. Si tratta di
sovrani ed assicurarsi una viuna sorta di lista di proscrita agiata, circondati dal lusso
zione sociale che li accomue dalle piacevolezze delle
na a dei mostriciattoli, sia nel
corti di tutta Europa.
corpo che nell’anima, un cirComparso per la prima volta
co dell’orrido che oggi definel documento del Concilio
niremmo “freak”.
di Cartagine del 436, il termine “Ioculares”, da cui deriva
un ponte fra il poeta
in seguito “giullare”, agli inie il saltimbanco
zi stava a designare, quanti
facevano professione di diLa svolta decisiva si ebbe nel
vertire la gente con l’esercisec XII, quando Guglielmo
zio delle più diverse arti
IX d’Aquitania cominciò a
d’intrattenimento. Si trattava
comporre canzoni e sonetti
di attività ludiche che, in
per diletto, iniziando l’attivinuove condizioni ambientatà letteraria dei trovatori che
li, continuavano tradizioni
venne spesso a confondersi
antiche, come quelle dei micon il ruolo del giullare, al
mi d’Alessandria e di Roma,
quale cominciò a essere concontaminate verosimilmente
ferito un senso di dignità. Se
con elementi di tradizione
ne dolse Guiraut Requier
germanica e araba. Nelle
che, nella sua celebre petiziomolteplici condanne dell’alne rivolta ad Alfonso X di
to medioevo, la professione
Castiglia,, auspicava che, aldi “giullare” fu accompagnameno egli, «operi a vantaggio
ta da una cattiva fama, in
di coloro che detengono veraquanto l’indefinitezza del
mente l’arte del poetare». Egli
ruolo, l’ascendenza pagana e
lamentava che, «è emersa una
gli aspetti demoniaci che
genia di figure prive di senso,
conteneva, suscitarono diffiinette e ignoranti che si danno,
denza e ostilità nella Chiesa.
senza alcun diritto, a cantare,
L’insistenza stessa delle difcomporre, a suonare strumenti
fide ecclesiastiche, spinte tae ad altro, per il solo scopo di elelora fino all’anatema, attesta
mosinare e facendo concorrenza
indirettamente lo stato d’anisleale ai valenti». Ma la divermo con cui i giullari erano
sità dei ruoli si impose con i
accolti dal pubblico fuori
fatti: da un lato i trovatori,
delle corti e li confinava allo
con la loro raffinata consapestesso tempo in una condivolezza artistica; dall’altra i
zione d’inferiorità morale e
giullari con le loro più modesociale. A riguardo, nel maste funzioni di esecutori, dinoscritto Summa de arte provulgatori e ripetitori. Per
Ugo di San Vittore, «l’arte degli spettacoli è professione del divertimento volta
a restaurare quella letizia
che l’uomo aveva perso con
il peccato originale». L’inserimento positivo dei
giullari nella vita cittadina e nelle corti del XII
sec, venne favorito dall’accoglienza che ne diedero i nuovi teologi e
moralisti come San Tommaso d’Aquino. Inoltre,
si organizzarono in confraternite religiose, pronte a servire le istanze di
rappresentazione delle
istituzioni religiose e civili, ad allietare feste e
conviti di nobili e borghesi, pur continuando l’attività nelle piazze nel ruolo di
ciarlatani e venditori di merci e intrugli vari.
Buffone di corte,
una professione ambita
Il punto di incontro tra trovatori e giullari, permise a
questi ultimi l’accesso ad
ambienti prestigiosi e nel
XVI sec. l’arte giullaresca
raggiunse i suoi massimi
vertici all’interno delle sontuose corti europee. Umorismo caustico, falsa ingenuità, solido buonsenso lo rendevano un consigliere eccellente, cui il re prestava il
massimo ascolto. A lui solo
era permesso esprimere la
sua opinione in pubblico e
dire a ciascuno la sua verità
per mezzo del riso e dello
sberleffo. In un periodo in
cui si afferma l’assolutismo,
il re, circondato da spiriti
compiacenti e da cortigiani,
cominciava a perdere contatto con la realtà e con i suoi
aspetti spiacevoli. Il buffone
di corte veniva in aiuto a demistificare la realtà, nonostante la nomea di “folle” o
presunto tale che lo accompagnava, egli produceva in
realtà un servizio, a patto che
avesse imparato a giostrarsi
nel suo essere ambiguo e restasse nel confine tra saggezza e follia, affinché potesse
impunemente operare. In
Francia per molti anni, da
Francesco I in avanti, la figura del buffone di Corte acquistò sempre maggiore credito, parlando a tu per tu con
il sovrano, scherzando insieme a lui, motteggiandolo affabilmente. Il giullare Chicot,
ad esempio, godeva di un favore senza limiti nei riguardi
del sovrano Enrico IV. Egli
chiamava il re «il mio piccolo
coglione» e si firmava «Sovrintendente alla Buffoneria di
Sua Maestà». Le cose sono
sensibilmente evolute: ora il
giullare è divenuto un intermediario con i sudditi, al servizio del potere. La risata è
strumento di propaganda,
arma acuminata contro gli
avversari. Mettere la verità
in bocca ad un giullare vuol
dire far passare la ferrea volontà del sovrano, evitando il
cinismo. Ma anche questa
pratica comincerà ad assumere toni moralistici ed il
giullare diventerà un pedante conformista. La difesa dell’ordine costituito prende il
posto della buffoneria e così
la sua funzione diverrà ormai arcaica, infatti non ci sarà più posto per un buffone
alla corte di Luigi XIV, che
dichiarò «finito il carnevale» e
imposterà il suo regno nella
costante ricerca del sublime.
liv Ma.
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solo per le sue opere - in trasferta da Milano. Questo senza un reale impegno del Maestro, che a parte nell’ultimo anno con un paio
di conferenze su altrettanti titoli, mai si è speso in prima persona,
partecipando magari a conferenze stampa o altre iniziative di
“traino” per l’Opera. Al Teatro romano sarebbe servito, invece,
un direttore stabile, impegnato in un lavoro quotidiano. Muti lo si
sarebbe potuto scritturare, come qualunque altro artista, per lo
stesso numero di titoli, ma con meno oneri e – alla luce dei fatti,
nell’aria fin dall’inizio – meno risalto negativo.
Il vero problema del Teatro è però la struttura amministrativa, con
un Sovrintendente, Carlo Fuortes, chiuso in se stesso, che rifiuta di
dialogare con chiunque, da membri del consiglio di amministrazione, ai lavoratori. Un personaggio con una fama di manager, a
nostro avviso autocostruita. Analizzando i fatti, un percorso costellato di alcuni insuccessi importanti, dall’aver lasciato il Petruzzelli di Bari con un buco milionario, fino all’attuale situazione dell’Opera, dove per un incarico così delicato ha pensato più alle poltrone che all’impegno, visto che ha voluto mantenere pure la carica di amministratore delegato di “Musica per Roma”, fondazione
che gestisce l’Auditorium Parco della Musica. «In teatro manca la
serenità» - quella che dovrebbe creare un manager - e per questo
Muti se ne è andato. Tra l’altro, con sentenza del 1° ottobre scorso,
è stata riconosciuta «l’antisindacalità del comportamento posto in essere dalla Fondazione Teatro dell’Opera di Roma il 21 dicembre 2013 (Lago dei cigni, n.d.r.), consisitito nell’utilizzazione delle bande magnetiche registrate in sostituzione degli orchestrali in sciopero».
Certo non depongono a suo favore atti che potrebbero sembrare
da “furbetto all’italiana”, come quello, quasi sfrontatamente dichiarata durante una conferenza stampa quando si parlava dell’adesione alla c.d. Legge Bray che prevede, a fronte del ripianamento del debito, la revisione della pianta organica e soprattutto
l’abolizione del contratto integrativo. «Nulla toglie di rifarlo uguale»,
disse Fuortes minimizzando. Ma se lo spirito della norma è quello di rendere meno gravosa la gestione, queste parole suonano come un aggirare la legge, cercando di prendere in giro lo Stato che
tra mille problemi finanziari cerca di aiutare le Fondazioni liriche
sinfoniche, in difficoltà per anni di allegra gestione. A proposito di
Fondazioni “Lirico Sinfoniche”, è singolare – creando un precedente pericoloso - per una di queste come l’Opera licenziare proprio orchestra e coro.... Così, di “lirico-sinfonico” al teatro cosa rimarrà? Solo una costosissima struttura che organizza spettacoli, al
pari di tante private, le quali però, al contrario, non ricevono finanziamenti pubblici. Ma questa è un’altra storia.
Andrea Marini
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