Anno XX - Numero 74 - 21 ottobre 2014 L’intervista Parlano il regista Leo Muscato e il direttore Renato Palumbo A Pag. 2 La Corte di Mantova Allegra e raffinata con i Gonzaga nel ‘500 A Pag. 6e7 La Storia dell’Opera Il dramma di Hugo, poi una lunga battaglia contro la censura A Pag. 8 I luoghi di Rigoletto Angoli di Mantova tra storia e fantasia A Pag. 10 Rigoletto di Giuseppe Verdi Rigoletto 2 Il Parlano il regista Leo Muscato ed il direttore Renato Palumbo «Tensione come un thriller e sottotesto orgiastico per questo Rigoletto» G uarda ad una visione espressionista il nuovo allestimento del Rigoletto, che il Teatro dell’Opera di Roma mette in scena forse nel momento più difficile della sua storia, periodo di sbandamento totale che probabilmente necessiterebbe solo di un sano commissariamento, al fine di riacquistare quelle credibilità e fiducia del pubblico che i fatti e le cronache dei giornali hanno definitivamente minato dopo un recente passato non certo all’altezza di ciò che dovrebbe essere il tempio della Lirica di una Capitale. «In questa regia vado alla ricerca di un intervento quasi invisibile, – dice Leo Muscato, pugliese al suo primo Rigoletto, dopo essersi confrontato in passato con altre due opere verdiane, il Nabucco (2012 a Cagliari e 2014 al Comunale di Firenze) ed I Masnadieri (2013 al Regio di Parma) – perché non ho necessità di cercare una drammaturgia sovrapposta ad altra drammaturgia, conferendo un valore diverso ai personaggi. Piuttosto cerco di far “pensare” il pubblico, di indurlo ad immaginare. Victor Hugo nel suo testo del suo dramma da cui l’opera è ripresa dice: “siamo all’alba di una festa che è evidentemente degenerata in un’orgia”. Se pensiamo, sono parole forti per un dramma francese dell’800. E così ho tentato sottolineare que- sta sottile perversione di fondo che pervade l’opera, senza mai essere esplicito: non c’è un nudo o scena di sesso, ma quell’apparire di una maschera di maiale, quei personaggi in canottiera con le bretelle giù fanno intuire il divertimento sfrenato, l’esagerazione per compiacere il Duca che organizza tali feste nel suo palazzo, con donne ed uomini che se lo ingraziano. In mezzo a loro, quello più mascherato di tutti è il giullare Rigoletto, personaggio schifato da tutti perché non ha senso della misura e sulle situazioni e sugli scherzi ci va con la mano pesante, come con Ceprano al quale gli dà apertamente del cornuto. Tutto qui è esagerato. Così, nella mia regia, pure quella scritta, quasi da cabaret, fatta mettere dal Duca “Palazzo del Duca”». «Ho fatto in modo che non ci fosse un’epoca precisa – continua Muscato – perché quello che accadeva al tempo della corte di Mantova, accadde anche con la borghesia in un periodo di euforia come la Belle Époque, periodo di grande esaltazione in cui la medicina curava i malati, nelle case arrivava la luce elettrica, una nuova energia creativa invadeva l’arte con movimenti come il Dadaismo od il Futurismo che guardava prepotentemente in avanti». Le scene di questo allestimento sono curate da Federica Parolini. «Scenograficamente lo spazio è molto aperto – spiega ancora il regista – e ri- Il G iornale dei G randi Eventi Direttore responsabile Andrea Marini Direzione Redazione ed Amministrazione Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma e-mail: [email protected] Editore A. M. Stampa Tipografica Renzo Palozzi Via Vecchia di Grottaferrata, 4 - 00047 Marino (Roma) Registrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995 © Tutto il contenuto del Giornale è coperto da diritto d’autore Visitate il nostro sito internet www.ilgiornalegrandieventi.it dove potrete leggere e scaricare i numeri del giornale sponde esattamente alla mia visione di far immaginare agli spettatori ciò che non c’è. Un obiettivo che sembra ambizioso, ma questa a pensarci è l’ultima esclusiva del teatro rispetto ad altre forme di rappresentazioni. La scena è spoglia, con tele che cambiano colore, forme …. Stoffe molto semplici, ma con la possibilità di creare luoghi molto diversi. Sul finale, ad esempio, va su una teletta che creava un interno e siamo così di colpo in un luogo vasto e di estrema solitudine. Sono tante stoffe, quasi muri attraversabili che, nel prologo, ad un attacco musicale, riescono a riempire lo spazio: dove prima c’era solo Rigoletto con un fazzoletto in mano, in una frazione di secondo il luogo diviene completamente pieno di gente». «Ho lavorato sulla trama che in Hugo è più complessa – sottolinea Leo Muscato - inserendo nel testo degli antefatti non presenti nel libretto. Un lavoro sui personaggi che mi avvicina di più a Victor Hugo ed al suo dramma che mi piacerebbe moltissimo mettere un giorno in scena». Sul podio per queste dieci rappresentazioni è il giovane direttore Renato Palunbo, il quale all’opera di Roma è stato nell’aprile 2003 con Sly di Wolf Ferrari, nel marzo 2010 con Mefistofele e l’anno scorso con Tosca. «Rigoletto è una delle opere che più dirigo – l’ho fatta circa 35 volte - e più mi piace», dice. «La trovo di una estrema modernità ed anche sempre interessante da vedere ed ascoltare, poiché più delle altre cambia con il cast e l’interpretazione registica. E’ un’opera che va certamente raccontata, ma nella quale va tenuta sempre costante una grandissima tensione: deve essere gestita con ritmi cinematografici, come un thriller che inchioda lo spettatore alla poltrona. Musicalmente, con l’orchestra, alla quale va tutta la mia solidarietà per questo momento difficile, abbiamo fatto un lavoro di estrema raffinatezza, esaltando gli aspetti cromatici». Andrea Marini Giornale dei Grandi Eventi Stagione d’opera 2014- 2015 del teatro dell’opera di Roma 27 novembre - 14 dicembre RuSAlkA di Antonín Dvořák Eivind Gullberg Jensen Denis Krief Direttore Regia, scene e costumi 18 - 29 gennaio WeRtHeR di Jules Massenet Jesús López-Cobos Willy Decker Direttore Regia 4 - 8 febbraio Rigoletto di Giuseppe Verdi Gaetano d'Espinosa Leo Muscato Direttore Regia 1 - 12 marzo toSCA di Giacomo Puccini Donato Renzetti Alessandro Talevi Direttore Regia 31 marzo - 12 aprile luCiA Di lAMMeRMooR di Gaetano Donizetti Roberto Abbado Luca Ronconi Direttore Regia 23 aprile - 3 maggio AiDA di Giuseppe Verdi Donato Renzetti Direttore 21 maggio - 3 giugno le NoZZe Di FigARo di Wolfgang Amadeus Mozart Andrea De Rosa Regia 19 - 30 giugno lA DAMA Di PiCCHe di Pëtr Il'ič Čajkovskij James Conlon Peter Stein Direttore Regia 11 - 17 settembre i WAS lookiNg At tHe CeiliNg AND tHeN i SAW tHe SkY di John Adams Alexander Briger Giorgio Barberio Corsetti Direttore Regia 6 - 17 ottobre AuFStieg uND FAll DeR StADt MAHAgoNNY di Kurt Weill John Axelrod Graham Vick Direttore Regia RIGOLETTO La Locandina ~ ~ Teatro dell’Opera di Roma, 21 - 31 ottobre 2014 ~~ Melodramma in tre atti Libretto di Francesco Maria Piave dal dramma Le roi s’amuse di Victor Hugo Musica di Giuseppe Verdi Prima rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1851 Direttore Regia Scene Costumi Luci Maestro del Coro Renato Palumbo Leo Muscato Federica Parolini Silvia Aymonino Alessandro Verazzi Roberto Gabbiani Personaggi / Interpreti Rigoletto (Bar) Giovanni Meoni / Francesco Landolfi 22, 26, 31 / Stefano Antonucci 24, 29 Il Duca di Mantova (T) Piero Pretti / Gianluca Terranova 22, 24, 26, 29, 31 Gilda (S) Ekaterina Sadovnikova / Claudia Boyle 22, 24, 26, 29, 31 Sparafucile (B) Goran Jurić / Mikhail Korobeynikov 22, 24, 26, 29, 31 Maddalena (Cont.) Alisa Kolosova Giovanna (S) Marta Torbidoni Il Conte di Monterone (Bar) Italo Proferisce Marullo (Bar) Marco Camastra Matteo Borsa (T) Pietro Picone ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA Nuovo allestimento Il Rigoletto Giornale dei Grandi Eventi I n un Teatro dell’Opera di Roma che appare completamente destabilizzato, va in scena questo Rigoletto, ultimo titolo di una stagione travagliata, culminata con i licenziamenti di orchestra e coro e con il cambio del già annunciato titolo di apertura del nuovo cartellone, abbandonando l’Aida che doveva essere diretta da Muti e sostituendola con Rusalka di Dvořák, affidata al 42enne direttore norvegese Eivind Gullberg Jensen. Così lascia qualche perplessità la scelta di proporre un nuovo allestimento per Rigoletto, in un momento di gravi difficoltà economiche del Teatro, quando già 4 anni fa lo stesso titolo fu presentato in una formula originale e di vecchi e qualitativi allestimenti nel magazzino del teatro ce ne saranno di sicuro. Questa volta, comunque, lo spettaco- lo è messo in scena dal regista Leo Muscato, in una forma dal sapore espressionista. Molti aspetti sono fatti intuire, lasciando così allo spettatore la possibilità di immaginare. Scene molto semplici di Federica Parolini, dove lo spazio, giocando con le luci, è composto e scomposto da teli di stoffa. Sul podio il maestro Renato Palumbo, che al Costanzi è già stato diverse volte, fin dal 2002. Un Rigoletto espressionista a chiudere una stagione difficile 3 Le Repliche Mercoledì 22 ottobre, h. 20.00 Giovedì 23 ottobre, h. 20.00 Venerdì 24 ottobre, h. 20.00 Sabato 25 ottobre, h. 18.00 Domenica 26 ottobre, h. 16.30 Martedì 28 ottobre, h. 20.00 Mercoledì 29 ottobre, h. 20.00 Giovedì 30 ottobre, h. 20.00 Venerdì 31 ottobre, h. 18.00 L’editoriale Hanno distrutto l'Opera di Andrea Marini P La Trama Atto i – Quadro primo – Sala magnifica nel Palazzo Du- Atto ii – Salotto nel palazzo ducale – Il Duca è turbato per- cale – Durante una festa, il Duca di Mantova parla col cortigiano Matteo Borsa delle proprie avventure femminili ed in particolare di quella che ha in mente con una «incognita borghese», che travestito ha adocchiato in chiesa. Intanto egli corteggia la donna più bella della serata, la contessa di Ceprano, non curandosi della presenza del marito, del quale il gobbo e maligno giullare di corte Rigoletto si fa beffa senza ritegno. Questa sfrontatezza provoca l’indignazione dei cortigiani che meditano di punirlo, soprattutto dopo che uno di loro, il cavalier Marullo, dichiara di aver scoperto che il gobbo avrebbe una giovane amante. Intanto entra il Conte di Monterone, venuto a chiedere giustizia per aver il Duca disonorato sua figlia. Anche lui è sbeffeggiato da Rigoletto, fino ad essere arrestato su ordine del Duca. Mentre è portato via, il Conte maledice il Duca e Rigoletto per aver riso del dolore di un padre. Rigoletto rimane impressionato da queste parole e le vive come da un sinistro presagio. Quadro secondo – L’estremità deserta di una via cieca – Il borgognone Sparafucile ferma Rigoletto e gli offre i suoi servigi di sicario: la sorella danzando adesca la vittima e lui la elimina. Rigoletto rifiuta ed allontanandosi riflette che lui ed il sicario son pari: «Io la lingua, egli ha il pugnale». Nel cortile della sua casa l’accoglie Gilda, l’amata figlia, che solo da tre mesi ha fatto venire a Mantova e che tiene celata a tutti, tanto da essere stata scambiata da Marullo per “l’amante”. A lei ed alla domestica Giovanna Rigoletto raccomanda di non fidarsi degli sconosciuti e di tenere la porta sbarrata. Ma è proprio Giovanna che consente al Duca, travestito da giovane studente, di intrufolarsi in casa, dove egli apprende che la giovane è figlia del suo buffone e che ella lo ama dopo averlo visto in chiesa. Approfittando dell’assenza di Rigoletto, il Duca esce dall’ombra e si presenta a Gilda come Gualtier Maldé. Poi arriva qualcuno ed egli fugge. Sono Marullo ed i cortigiani intenzionati a portar via al buffone quella che credono l’amante. Rigoletto li scopre, ma essi gli dicono di voler rapire la Contessa di Ceprano. Il giullare si offre di aiutarli e loro gli impongono una maschera, che in realtà è una benda, facendogli reggere la scala con la quale entrano nella sua casa e rapiscono Gilda. Rigoletto, rimasto solo s’avvede della beffa e gli torna alla mente la maledizione. ché tornato nella casa di Gilda, non l’ha più trovata. Entrano i cortigiani che gli annunciano di aver rapito quella che credono l’amante di Rigoletto. Appreso che Gilda è nel suo palazzo, il Duca corre esultante ad incontrarla. Giunge Rigoletto, il quale dapprima simula indifferenza, poi, dopo aver appreso che Gilda è con il Duca, inveisce contro i cortigiani ed infine chiede pietà per quella che rivela essere sua figlia. La fanciulla appare. Allontanati i cortigiani, Rigoletto ascolta il suo racconto, ma quando appare il Conte di Monterone condotto in carcere, egli decide di vendicare il vecchio Conte e se stesso, mentre Gilda, innamorata del suo seduttore, invoca pietà. Atto iii – Sulla riva destra del Mincio, davanti all’osteria di Sparafucile – Rigoletto, al fine di dissuaderla, conduce la figlia a spiare il contegno del Duca, che travestito da semplice ufficiale di cavalleria, corteggia un’altra donna. Questa in realtà è Maddalena, sorella di Sparafucile, la quale lo ha attirato in un agguato. Gilda ricorda con amarezza le parole lusingatrici del Duca. Rigoletto, credendo d’averla convinta, la manda a casa a vestire abiti maschili per partire immediatamente alla volta di Verona, dove presto la raggiungerà. Intanto egli, consegnandogli 10 scudi d’anticipo, prende gli ultimi accordi col sicario: tornerà a mezzanotte per ricevere il cadavere del Duca chiuso in un sacco da gettare nel fiume. Ma Gilda riappare angosciata e, sotto il temporale, assiste non vista alla discussione fra Sparafucile e la sorella che gli chiede di non uccidere l’avvenente giovane ma di uccidere il gobbo. Sparafucile si ribella e fa valere il proprio onore di fedele professionista. Piuttosto ucciderà il primo viandante che prima di mezzanotte si presenterà a bussare all’Osteria. La notte è tempestosa e nessuno passa. Gilda decide di immolarsi per salvare il padre e bussa all’osteria. Quando la porta sia apre è colpita dal pugnale. Allo scoccare della mezzanotte si presenta Rigoletto il quale riceve il sacco e si appresta trionfante a gettarlo nel fiume. Ma di lontano ode la voce del Duca che canticchia la melodia de “La donna è mobile”. Il giullare apre il sacco e scopre inorridito la figlia morente, la quale invoca perdono per se e per il suo seduttore. La maledizione si è compiuta. otrebbe essere il canto del cigno dell’Opera di Roma questo Rigoletto. Se non formalmente, almeno di fatto. Già parla da sola la discutibile decisione del Sovrintendente Fuortes di cambiare, a poco più di un mese di distanza, il titolo d’apertura della prossima stagione, cancellando Aida per sostituirla con Rusalka di Dvorák, tanto più quando orchestra e coro - con la lettera di licenziamento in tasca - si erano resi disponibili per mantenere ad ogni costo la programmazione, confezionandosi addirittura i costumi da soli. Il problema è che nell’ambiente musicale – lo ha dichiarato un manager importante – è stato sconsigliato ai direttori di legare il proprio nome all’Opera di Roma. L’abbandono di Muti non deve stupire più di tanto. Il direttore napoletano scalpitava da tempo. In questa avventura era stato “tirato per la giacchetta” e certo non aveva accettato con entusiasmo. Per il Teatro si cercava un direttore stabile e, dopo alcuni contatti informali, fu annunciato troppo entusiasticamente - anche dal Sindaco l’arrivo di Muti, arrivo poi smentito dallo stesso Maestro. Si cercò, così, di mettere la cosiddetta “pezza” alla gaffe, con Alemanno impegnato in prima persona, spesso al telefono anche durante un pellegrinaggio a Lourdes, per convincere il Maestro. Risultato: solo un impegno di facciata, con la direzione di tre titoli l’anno, a fronte di tante richieste onerose, tra le quali, oltre ai compensi, l’assunzione di alcuni elementi dell’orchestra, l’imposizione di alcuni cantanti a lui vicini, il coinvolgimento della figlia regista, fino alla propria fotografa di scena, ogni volta – non segue a pag. 11 Segulcl su: fw-cp.;. ANCHE LE PICCOLE COSE POSSONO ESSERE GRANDI OPERE. , ;t t f t i i i U I , otll l l l l l l l •• • • ROMAFIL 2014 SALONE INTERNAZIONALE DEL FRANCOBOLLO Xli EDIZIONE Posteitaliane --------~ Chla1111t1 gratuita per ciii chiama da rete lini, chiiDCede da rete mobile lltervlzJo clienti di Pom 111111111e dovrl comporre 11 numero 1!19.100.160. 11 costo della chiamata~ legi!D all'operiiDre UlllmiD ed l parlai RIIISimo a €0,80 al minuto piO €0,15 alla r1111011a. Il Giornale dei Grandi Eventi Piero Pretti e Gianluca Terranova Rigoletto Giovanni Meoni, Francesco Landolfi e Stefano Antonucci Duca di Mantova, signore spavaldo e superficiale N ei panni dello sfrontato Duca di Mantova saranno i tenori Piero Pretti (21,23,25,28,30) e gianluca terranova (22,24,26,29,31). Piero Pretti, ha iniziato lo studio del canto lirico come tenore con Antonietta Chironi, frequentando in seguito le masterclass di Renata Scotto, Gianni Raimondi e Giusi Devinu. Si è perfezionato poi con Gianni Mastino. Ha debuttato partecipando alle produzioni di Bastien Piero Proietti und Bastienne e L’oca del Cairo di Mozart. Nella stagione 2007 ha cantato di nuovo la Bohème al teatro comunale di Treviso. Tra i prossimi impegni Lucia di Lammermoor a Verona, La Traviata, al Teatro la Fenice di Venezia e la Madama Butterfly, a Bilbao. gianluca terranova, nato a Roma il 3 luglio 1970, si è diplomato in pianoforte nel 1993, e successivamente ha cominciato a studiare canto lirico riuscendo ad affermarsi in vari concorsi come il “Riccardo Zandonai” di Rovereto. Nel 2008 ha conquistato pubblico e critica nel Rigoletto dell’Arena di Verona , sotto la direzione di Renato Palumbo. La stagione 2011/12 ha incluso La traviata a Venezia, Rigoletto a Tenerife ed il debutto ne I Puritani presso il Circuito Lirico Lombardo. Nell’autunno del 2012 ha preso parte come protagonista di “Caruso – La voce dell’amore”- a fianco di Vanessa Incontrada, film Rai che ha avuto un successo mondiale e che ha fatto apprezzare Terranova ad un pubblico internazionale. Ekaterina Sadovnikova e Claudia Boyle Gilda, dolce e segreta figlia di Rigoletto S aranno i soprano ekaterina Sadovnikova (21,23,25,28,30) e Claudia Boyle (22,24,26,29,31) ad interpretare il ruolo della giovane Gilda. ekaterina Sadovnikova, nata in Russia nel 1980, ha studiato al Conservatorio di San Pietroburgo e alla “Hochschule fur Muskik” di Dresda. Nel 2006 è stata fra i vincitori al “Competizione dell’opera” di Dresda e della “Elena Obraztsova International Competition”. Nella stagione 2008/09 è stata Violetta nella Traviata, riscuotendo grande consenso fra il pubblico. Nella sta- Ekaterina Sadovnikova gione successiva ha cantato Gilda in Rigoletto e nuovamente ne La Traviata al San Carlo di Napoli, per poi prendere parte a Die Zauberflote, Le Nozze di Figaro, Falstaff e molte altre. Tra i prossimi impegni Falstaff al Comunale di Firenze. Claudia Boyle, nata a Dublino, si è laureata con lode presso la” Royal Irish Accademy of Music”. Nel 2010 è stata selezionata per partecipare al prestigioso “Young Singers Project” al Festival di Saliburgo. In concerto ha debuttato con importanti direttori quali Riccardo Muti, Paavo Jarvi ed Eivind Gulberg Jensen. Nel 2012 al concorso “Maria Callas di Verona” si è aggiudicata sia il primo premio, sia il premio della critica. Pagina a cura di Mariachiara Onori 5 Rigoletto, il buffone di corte A cantare nei panni del giullare Rigoletto saranno i baritoni, giovanni Meoni (21,23,25,28,30), Francesco landolfi (22,26,31) e Stefano Antonucci (24 e 29). giovanni Meoni, nato a Gensano di Roma nel 1964, ha iniziato a studiare canto presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma con il Maestro Leo Ferri . Dal 1991 al 1993 ha vinto importanti concorsi nazionali ed internazionali, tra i quali il “Battistini” nel 1991, il “Ricciarelli” nel 1992, e il “Basiola” nel 1993. Da quel momento ha iniziato un’ importante carriera che lo ha portato sui principa- Giovanni Meoni li palcoscenici nazionali ed internazionali. Nel 2004 è stato insignito di importanti riconoscimenti quali il “Premio Lauri Volpi” e il “Premio Ettore Bastianini “. Tra i prossimi impegni,il Nabucco, e l’Otello. Francesco landolfi, nato a Caserta nel 1977, si è diplomato in Canto al Conservatorio Statale di Benevento sotto la guida del mezzosoprano Monica Carletti e nello stesso tempo si è laureato in Lettere e Filosofia alla Seconda Università di Napoli. Antonucci ha poi partecipato a vari corsi di perfezionamento, presso il “CUBEC” di Vignola,” l’Accademia Internazionale della Voce” di Torino e” l’Accademia Internazionale della Lirica” di Sulmona. Nel corso degli anni ha vinto diversi Concorsi Lirici Internazionali tra cui; il “Toti Dal Monte”, il “Mattia Battistini”, il “Ruggero Leoncavallo”, il “Mario Lanza”, l’ “Ottavio Ziino”, il “Maria Caniglia”, il “Tommaso Traetta”, il “Marie Kraja”, il “Giacomo Lauri Volpi” ed i Concorsi Comunità Europea “As.Li.Co.” di Como e “A. Belli” di Spoleto. Prossimi Impegni Falstaff, e l’Aida. Stefano Antonucci, dopo gli studi di recitazione ed una iniziale attività di attore ha compiuto i suoi studi musicali al Conservatorio «Niccolò Paganini» di Genova. Nel 1986 ha debuttato in Lucia di Lammermoor al Teatro di Alessandria per poi cantare nei principali teatri italiani. Nel 1988 ha cantato al Teatro alla Scala nella Bohème, ritornandovi in seguito per diverse produzioni. Antonucci ha collaborato con i più importanti teatri nazionali ed internazionali. Nelle ultime stagioni si è concentrato sull’interpretazione dei principali ruoli verdiani baritonali. Mikhail Korobeynikov e Goran Juric Sparafucile, sicario incaricato di uccidere il Duca N el ruolo del sicario Sparafucile saranno i basso Makhail korobeynikov (21,23,25,28,30)e goran Juric (22,24,26,29,31). Mikhail korobeynikov, nato in Russia, a Sysert nella regione di Sverdlovsk, si è diplomato alla P. I. Chaikovsky musical school di Sverdlovsk. Nel 2000 è entrato al Musorgskij Ural State Conservatory. Nel suo repertorio, Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Il Barbiere di Siviglia, La Boheme, Tosca, Madama Butterfly, e molto altro. Mikhail ha preso parte a numerosi festival internazionali, vincendo nel corso degli anni svariati premi e riconoscimenti. Nell’estate 2013 è stato a Montepulciano per frequentare un corso di Interpretazione Musicale con M. Andrea Severi. goran Jurić, nato il 6 maggio 1983 a Karlovac (Croazia), ha iniziato la sua formazione musicale presso la Scuola di Musica di Karlovac, ha studiato flauto e canto sotto la guida di Radmila Bocek, continuando poi con l’istruzione secondaria presso la Scuola di Musica Vatroslav Lisinski di Zagabria, studiando con Bojan Pogrmilović. Nell’estate del 2011 ha partecipato al progetto del Festival di Salisburgo dei Giovani Cantanti e dall’inizio della stagione 2011/12 si è trasferito a Monaco di Baviera, dove ha iniziato a lavorare con il complesso della Bayerische Staatsoper opera. Tra i prossimi impegni il Nabucco a Monaco di Baviera e Guillaume Tell. Rigoletto 6 Il Giornale dei Grandi Eventi La fastosa vita dei Gon L’allegra e raffinata eleganza de U na “Vinegia picholina”: così veniva descritta Mantova nel 1480 da un mercante fiorentino. Egli coglieva le principali caratteristiche della Mantova rinascimentale, una città quasi completamente circondata dall’acqua e da essa protetta. Il fiume Mincio, infatti, s’allarga in uno specchio lacustre che lambisce su tre lati la città, che fu in origine un avamposto settentrionale degli Etruschi e che vanta una mitica fondazione da parte di Ocno, figlio del dio Tiberino e dell’indovina Manto (da cui il centro abitato avrebbe preso il nome). In epoca romana Mantova fu un piccolo centro, un debole oppidum rispetto alle vicine Verona e Cremona. Eppure diede i natali al grande Virgilio, cui fu legata per secoli in un inscindibile binomio. Marziale nei suoi epigrammi (XIV,195) scriveva: “Tantum magna suo debet Verona Catullo / Quantum parva suo Mantua Vergilio”. Nel 603 d.C. la città fu presa dai Longobardi e nel X secolo entrò a far parte dei domi- Palazzo Te ni degli Attoni di Canossa e proprio Matilde di Canossa iniziò a ingrandirsi. Nel 1115 si affrancò dal potere comitale e si resse liberamente per oltre un secolo; la fase del potere comunale si chiuse per sempre negli anni Settanta del XIII secolo, quando Pinamonte Bonacolsi pose le basi di una effimera signoria, durata fino al 1328. Il 16 agosto di quell’anno Luigi Gonzaga, sostenuto dagli Scaligeri di Verona, si sollevava contro i Bona- colsi e li detronizzava. I Gonzaga devono il loro nome al centro da cui provenivano, Gonzaga, appunto, un paese dell’Oltrepò; in origine si chiamavano Corradi e nel XII secolo si erano affermati come proprietari terrieri, trasferendosi poi a Mantova e sostenendo in principio gli stessi Bonacolsi nella loro ascesa al potere. I discendenti di Luigi avrebbero governato la città fino al 1707; l’ultimo duca di Mantova fu Ferdinando Carlo, morto esule nel 1708. Da allora la città fu sotto la potestà dagli Asburgo fino al 1866 (pur con brevi parentesi napoleoniche) e solo da questa data entrò a far parte del Regno d’Italia. Crocevia d’arte Vincenzo I Gonzaga in un ritratto di P. P. Rubens Mantova fu per le arti un centro di eccezionale importanza, in proporzione alle ridotte dimensioni e possibilità dello Stato. La città è posta sulle rive del Mincio, non lontana dal lago di Garda e dal fiume Po, incuneata tra il Veneto, l’Emilia e quella Lombardia cui, per certi versi, pare culturalmente quasi estranea. Questa collocazione le ha permesso di diventare nel corso dei secoli un cro- cevia delle più svariate, e spesso innovative, tendenze dell’arte. La girandola delle alleanze dei Gonzaga e le loro intraprendenti politiche matrimoniali aprirono di volta in volta nuovi orizzonti e scambi culturali. La storia della città s’identifica in buona misura proprio con la storia dei Gonzaga, che per quasi quattro secoli l’hanno governata: tra essi, Francesco II (14901519), “vincitore” della battaglia del Taro (1495) e marito di Isabella d’Este – la “primadonna del Rinascimento” –, Federico II (15191540), che chiamò a Mantova Giulio Romano e gli fece erigere il sontuoso Palazzo Te. Con Vincenzo I (15871612) le sorti cittadine e le arti giunsero al vertice della parabola. I presupposti per l’apogeo sono tutti nella savia politica di suo padre, Guglielmo (15501587), duca di Mantova e marchese del Monferrato (territorio acquisito da Federico II per via matrimoniale). Il parsimonioso Guglielmo, grazie anche ad una attenta politica dei dazi, seppe amministrare il potere in maniera tale da accumulare un ingente patrimonio, che il figlio avrebbe allegramente dila- pidato, portando le casse dello Stato vicine al lastrico, ma elevando la città a centro di assoluto rilievo. il raffinato duca Vincenzo i L’uomo merita massima attenzione, poiché i suoi eccessi l’hanno reso simbolo di raffinatezza di gusto o di depravazione, di lungimiranza o di miopia, a seconda degli storici che ne hanno analizzato la figura. Una figura, comunque, notevole sotto ogni punto di vista: quasi un maestro di cerimonie per l’Europa intera, in grado di rendere la sua corte co- Palazzo Ducale Il Giornale dei Grandi Eventi nzaga nel Cinquecento Rigoletto 7 ella corte dei Duchi di Mantova smopolita e degna di competere con quelle delle principali dinastie. Vincenzo fu un vero gaudente: creò un duraturo clima di festa nella sua città (il Carnevale, ad esempio, durava interi mesi), tenendo più lontano possibile la rigida etichetta ed il protocollo delle corti spagnoleggianti. La vita attorno a Vincenzo I si improntava all’affabilità ed al divertimento, ma anche alla bellezza ed alla cultura. Grande fioritura ebbero nel Rinascimento mantovano le arti. Nel Quattrocento l’architetto Leon Battista Alberti progettò due chiese tuttora esistenti: Sant’Andrea e San Sebastiano, mentre nel Cinquecento su direzione di Giulio Romano fu costruito Palazzo Te, luogo di delizie e villa suburbana dei Gonzaga. In seguito i principali sforzi si sarebbero appuntati sul Palazzo Ducale, che è la vera summa dell’arte a Mantova. Crogiuolo delle arti Nel Rinascimento i Gonzaga mantennero relazioni con importanti umanisti, come Francesco Filelfo, Giovanni Francesco Soardi, Filippo Nuvoloni e, nei floridi anni di Isabella Castello di San Giorgio d’Este, Paride Ceresara, Battista Fiera, Mario Equicola, Baldassarre Castiglione, Battista Spagnoli, Teofilo Folengo. Nel corso del Cinquecento i rapporti con i letterati rimasero ad altissimo livello e tra gli altri Benedetto Lampridio e Torquato Tasso servirono lungamente i Gonzaga. Proprio l’autore della Gerusalemme Liberata, di casa a Mantova, così la descrisse nel 1586: «Questa è una bellissima città, e degna c’un si mova mille miglia per vederla». Anche la musica deve molto alla città virgiliana. È possibile che entro il 1478 il toscano Angelo Poliziano abbia composto per il cardinal Francesco (1444 – 1483), figlio di Ludovico III, la Fabula di Orpheo, che fu rappresentata a Mantova in forma scenica, a opera dei familiares del prelato. Il lavoro del Poliziano divenne subito il modello riconosciuto di tutto il teatro mitologico-pastorale tardoquattrocentesco. Sempre alla fine del XV sec., anche Isabella d’Este fece della città uno dei principali centri italiani di attività musicale profana tra i protetti, ricorderemo almeno Bartolomeo Tromboncino e Marchetto Cara. Nel Cinquecento furono attivi per la corte di Mantova – e in particolare per il duca Guglielmo, compositore egli stesso – i celeberrimi Pierluigi da Palestrina e Jaques de Wert. Le note di uno splendido organo Antegnati (tuttora esistente) accompagnavano i loro mottetti nella basilica palatina di Santa Barbara. Nel Palazzo Ducale si conservava persino uno straordinario organo d’alabastro, che avrebbe destato stupore nello stesso imperatore Carlo V. Alla fine del Cinquecento fu messo in scena il Pastor fido del ferrarese Battista Guarini e a ca- vallo del XVII secolo e sotto Vincenzo I Gonzaga il cremonese Claudio Monteverdi scrisse alcuni dei suoi capolavori, come l’Orfeo (1607) e il Ballo delle Ingrate (1608). La Favola di Orfeo di Alessandro Striggi e Claudio Monteverdi, opera in musica destinata a lasciare profonda impronta nella vita culturale del Seicento, venne per la prima volta rappresentata a Mantova, nel Palazzo Ducale. Dalla metà del XVI secolo il Palazzo ebbe almeno un teatro fisso, ma altri, d’occasione, vi furono sin dalla fine del Quattrocento. L'affresco della Camera degli sposi di Andrea Mantegna a Palazzo Ducale Nessuno di questi purtroppo oggi rimane. Tra essi da ricordare quello progettato da Giovan Battista Bertani, di ispirazione serliana e compiuto verso il 1549; quello realizzato nell’ultimo decennio del Cinquecento da Ippolito Andreasi e Anton Maria Viani; quello edificato verso il 1688 da Fabrizio Carini Motta; il “teatrino” documentato nei secoli XVIII e XIX di fianco alla Camera degli Sposi; quello principiato nel 1706 da Ferdinando Galli Bibiena e concluso verso il 1732 da Andrea Galluzzi; quello su progetti di Giuseppe Piermarini, attuato nel 1783 e demolito nel 1898, quando oramai il cuore teatrale e musicale della città pulsava nel Teatro Sociale, eretto nel 1822 su disegni di Luigi Canonica e tuttora esistente. Ci rimane anche il delizioso Teatro Scientifico settecentesco di Antonio Bibiena, eretto nel fabbricato dell’Accademia Virgiliana. Nel Teatro Sociale si tenne, nel 1853, la prima esecuzione mantovana del Rigoletto. Stefano l’occaso Conservatore del Museo di Palazzo Ducale di Mantova Rigoletto 8 Il Giornale dei Grandi Eventi La storia dell’opera Una lunga battaglia contro la censura C anticchiando il tema de “La donna è mobile” il pubblico veneziano lasciava soddisfatto la platea de La Fenice: era l’11 marzo 1851, coda della (mediocre) stagione di Carnevale-Quaresima 1850/51 quando il gobbo Rigoletto aveva riportato un vero e proprio trionfo, risollevando con il suo debutto le sorti alquanto incerte del cartellone. Interminabili quella sera le ovazioni, ripetute le richieste di bis: al calo del sipario, sul finale dell’ultimo atto, Verdi venne chiamato alla ribalta insieme ai cantanti – il baritono Felice Varesi, il soprano Teresa Brambilla (moglie di Amilcare Ponchielli), il tenore Raffaele Mirate – decretati a furor di popolo «ottimi interpreti». E questo nonostante le parziali riserve della critica, che, se nulla ebbe da obiettare alla musica, non intuì però la rivoluzione drammatica attuata dal compositore bussetano – il quale nei due anni successivi comporrà anche Trovatore e Traviata, completando così la cosiddetta Trilogia popolare - accanendosi sulla crudezza e l’«immoralità» del soggetto. Ma c’era da aspettarselo. una lunga gestazione La genesi di Rigoletto infatti era stata assai tormentata, ostacolata fin dall’inizio dai divieti della censura austriaca: Le roi s’amuse di Victor Hugo, da cui Verdi partiva per la sua opera, era un dramma, appunto, «immorale», che metteva in scena un re meschino – cosa intollerabile - un orribile gobbo, insulto al buon gusto ed una corte depravata, dedita ad orge ed ignobili nefandezze. Ed infatti la première del dramma originale, il 22 novembre del 1832 a Parigi, era stata una vera catastrofe e la tragedia rimase incompresa e mal digerita. Infatti, pochi istanti prima che si levasse il Interno del Teatro La Fenice di Venezia Francesco Maria Piave sipario, in teatro si diffuse la notizia che Luigi Filippo, re dei francesi, fosse stato assassinato. La voce era in realtà imprecisa, poiché l’attentato al Re era fallito, ma questa notizia, unita al nervosismo di alcuni attori ed alla confusione sorta in teatro, resero la rappresentazione un fallimento. Se si considera poi che il Re aveva un nome ben preciso, Francesco I, ecco che non è difficile intuire perché fosse stata anche immediatamente messa all’indice. Verdi l’aveva scoperta probabilmente durante i suoi soggiorni parigini del 1848-49, quando, nonostante il divieto di rappresentazione scenica, circolava comunque sulla carta stampata; certo ne rimase impressionato, tanto che ne annotò il titolo tra quelli che avrebbero potuto servire alla realizzazione di una nuova partitura. Sarebbe stata la seconda ispirata ad un dramma di Hugo, dopo la fortunata operazione di Ernani nel 1844 realizzata insieme al librettista veneziano Francesco Maria Piave, con il quale Verdi aveva già portato in scena sei opere, Ernani ed I due Foscari (1844), Attila (1846), Macbeth (1847), Il Corsaro (1848), Stiffelio (1850). Così, nella primavera del 1850, definito il contratto con la Fenice, si affrettò a scrivere nuovamente al Piave (dopo il rifiuto di Salvatore Cammarano) presentandogli Le Roi : «Il soggetto è grande, immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche». Il “carattere” in questione è il deforme Triboulet, «creatura sacco alla polizia?», né togliere la degna di Shakespeare», che gobba a Rigoletto «Io trovo appunto nell’opera verdiana diverrà bellissimo rappresentare questo persoil protagonista, col nome di naggio esternamente deforme e ridicolo ed internamente appassionato e pieno “Rigoletto”. Ma il percorso si preannun- d’amore». Insomma, la situazione ciava assai tortuoso. Non era sembrava inesorabilmente bloccastato certo sufficiente cam- ta, ma la vigilia di Natale arrivò, biare il titolo. Così, infatti, inaspettata, una parziale schiarita, La maledizione incappò fin da grazie un’altra volta all’abilità disubito nelle strette maglie plomatica di Piave e Marzari, che della censura austriaca, re- ottennero da Martello un definitivo stia ad accettare addirittura compromesso: il luogo dell’azione l’argomento. A poco sem- diventava un piccolo potentato inbrava servissero i tentativi dipendente, in cui regnava un «lidi Piave, che verso il Ferra- bertino e padrone assoluto del suo Stagosto di quello stesso 1850, to», il buffone poteva rimanere scriveva alla Fenice da Bus- gobbo ed il compositore poteva faseto, dove si era trasferito all’inizio re di testa sua sulla questione del dell’estate per la stesura del libret- sacco. A costo che si conservassero to al fianco di Verdi, al fine di otte- «i riguardi dovuti alla scena». Il 30 dinere il consenso e difendendo l’as- cembre Verdi firmò a Busseto - presoluta moralità del soggetto. Lo senti Piave e il segretario della Festesso Verdi, ancora intento alla nice Brenna - i termini del contratcomposizione di Stiffelio, si premurò di contattare il presidente del teatro veneziano Carlo Marzari, sottolineando come ormai «la tinta, l’idea musicale» fossero ormai definite nella sua mente. Ma fu l’autunno a riservare le peggiori sorprese: dopo la travagliata prima di Stiffelio, andata in scena a Trieste il 16 novembre, mutilata e “castrata”, la censura aveva inasprito le richieste. Intorno al 20 di novembre, La Maledizione venne ufficialmente respinta dal direttore centrale dell’Ordine Pubblico Luigi Martello, provocando il dispetto e la Giuseppe Verdi nel 1851 costernazione di Verdi, che “perse la testa”, avendo ormai musicato to ed in quaranta giorni portò a tergran parte del dramma. Le sue ire mine la composizione dell’opera, non risparmiarono nemmeno Pia- che finalmente, a gennaio, ebbe il ve, reo, secondo lui, di averlo tenu- titolo definitivo di Rigoletto, da una to all’oscuro degli impedimenti. Ci parodia francese della pièce, Rigovolle tutta la diplomazia del “col- letti, ou le dernier des fous. Il compopevole” librettista per arrivare ad sitore ebbe tanto più merito a comun accordo con le autorità venezia- piere con tanta solerzia il lavoro, ne, fermi restando i sacri dettami considerando che risale proprio a del maestro: «Bada a non lasciarti in- quel periodo la dolorosa interrudurre a fare trattamenti che portino al- zione dei rapporti con i genitori per terazione ai caratteri, al soggetto, alle motivi principalmente economici. operazioni». Il 14 dicembre a Busse- Il 5 febbraio Verdi annunciava a to arrivò una trama alternativa, Il Piave di aver messo la parola fine e Duca di Vendome, che Verdi si rifiu- lo invitava a ritirare alla diligenza tò di prendere in considerazione in proveniente da Cremona i due terquanto lesiva, a parer suo, del rigo- zi della partitura, riservandosi di re drammatico del testo. Andava raggiungerlo entro due settimane a bene la trasformazione del Re in Venezia con il rimanente del lavoDuca, ma in nessun modo la sua fi- ro, per iniziare le prove in vista delgura doveva essere ammorbidita; la tanto attesa première. non si doveva eliminare il sacco Barbara Catellani contenente Gilda «Cosa importa del Il Rigoletto Giornale dei Grandi Eventi Analisi Musicale 9 Rigoletto… quando Verdi rese grande Hugo «L a lunga esperienza mi ha confermato nelle idee che io ebbi sempre riguardo all’effetto teatrale, quantunque ne’ miei primordi non avessi il coraggio che di manifestarle in parte (per esempio dieci anni fa non avrei arrischiato di fare il Rigoletto). Trovo che la nostra opera pecca di soverchia monotonia e tanto che io rifiuterei oggi di scrivere soggetti sul genere del Nabucco, Foscari ecc. Presentano punti di scena interessantissimi ma senza varietà. E’ una corda sola, elevata se volete, ma pur sempre la stessa. E per spiegarmi meglio: il poema del Tasso sarà forse migliore, ma drammatici eccellenti e fra gli altri la scena del quartetto che in quanto ad effetto sarà sempre una delle migliori che vanti il nostro teatro… ». Scriveva così, il 22 aprile 1853, ad Antonio Somma (futuro librettista di Un ballo in maschera), Giuseppe Verdi. Rigoletto rappresentava per il compositore il punto più alto fino ad allora da lui raggiunto sul piano della drammaturgia musicale. Merito di Verdi, senza dubbio. Ma anche del librettista Francesco Maria Piave e del drammaturgo francese Victor Hugo al cui Le Roi s’amuse si ispira l’opera. e Traviata) anche qui l’autore pone al centro un personaggio ricco di sfaccettature. Rigoletto è il buffone di corte, gobbo e deforme, brutto esteriormente e bello interiormente, pronto a lottare per l’onore e la salvezza della figlia tenuta a tutti nascosta. Con il gioco di contrasti, Verdi va sempre a nozze e non a caso le pagine più straordinarie dell’opera vivono proprio di queste tensioni interne. La partitura è ricchissima di momenti di grande effetto. Si pensi alle riflessioni di Rigoletto nel primo atto (“Quel vecchio maledivami”) con quella splendida frase: “O uomini, o natura! Vil scellerato mi faceste voi”. Oppure l’affettuoso incontro fra Gilda e Rigoletto. Od ancora la delicata aria della ragazza, “Caro nome” che confina Gilda in una categoria di personaggi unica nel contesto dell’opera: è la vittima designata, l’innocente che nei suoi turbamenti d’amore avrà tuttavia il coraggio di un gesto finale eroico. E, infine, le trascinanti, allegre e celeberrime leggerezze del Duca, “Questa o quella per me pari sono” e “La donna è mobile”, palestre di virtuosistiche esibizioni da parte di tanti tenori della storia. Perfetta saldatura delle forme chiuse io preferisco mille e mille volte Ariosto. Per l’istessa ragione preferisco Shakespeare a tutti i drammatici senza eccettuarne i Greci. A me pare che il miglior soggetto in quanto ad effetto che io m’abbia finora posto in musica (non intendo affatto parlare del merito letterario e poetico) sia Rigoletto. Vi sono posizioni potentissime, varietà, brio, patetico: tutte le peripezie nascono dal personaggio leggero, libertino del Duca, da questo i timori di Rigoletto, la passione di Gilda ecc. che formano molti punti Rigoletto si chiamava allora Triboulet e l’antagonista era il re Francesco I, trasformato, nella trasposizione musicale, in duca per questioni di censura. Nella citata lettera Verdi parla di «posizioni potentissime, varietà, brio». In effetti Rigoletto è opera di contrasti che la musica di Verdi rende con straordinaria tensione drammatica e lirica. Come accade nelle altre due opere della cosiddetta “trilogia popolare” (Trovatore Ma vale la pena soffermarsi su due scene di particolare rilevanza. La prima è quella di Rigoletto, “Cortigiani, vil razza dannata”. La figlia Gilda è appena stata rapita, il buffone sa che è stata portata nel Palazzo ed entra nel Salone dove sono riuniti i cortigiani. L’orchestra ne sottolinea il passo strascicato, ne amplifica i gesti mentre passeggia fra l’uno e l’altro canticchiando e fingendo indifferenza. Con la morte nel cuore, Rigoletto si mette ancora la maschera del buffone e dispensa cattive- Victor Hugo ria e ironia, nel contempo investigando. Poi quando scopre che effettivamente la ragazza è di là con il Duca di fronte agli sbigottiti cortigiani che ignorano la vera identità di Gilda, urla “io vo’ mia figlia” e su questa frase fortissima Verdi scarica tutta la sua potenza. E’ l’amore di un genitore che prende il sopravvento e vince paure, rapporti sociali, tutto... .Parte lì una delle arie più belle di Verdi, “Cortigiani, vil razza dannata”. Si veda, intanto, la struttura drammaturgica con una perfetta saldatura delle forme chiuse che dà l’impressione di un discorso musicale ininterrotto. E poi, si noti la divisione in due parti dell’aria che corrisponde all’idea di “contrasti” di cui si diceva. Nella prima parte Rigoletto è violento, eroico. L’orchestra è un fiume in piena e le parole del buffone sono un atto di violenta accusa nei confronti dei suoi avversari. Poi, Rigoletto si calma di fronte alla insensibilità dei cortigiani e passa alla preghiera accorata (“Ebben io piango”) facendo leva sul suo sentimento di padre ferito. E’ una splendida scena e una dimostrazione della genialità drammaturgica di Verdi. Ma ancora più straordinario è il celebre quartetto cui faceva riferimento nella lettera lo stesso autore. Il Duca è nella casa di Maddalena, fuori stanno Gilda e Rigoletto a spiarlo. E il Quartetto (con il celeberrimo tema “Bella figlia dell’amore”) rende magnificamente il contrasto di passioni e di sentimenti che agitano i quattro personaggi. Due coppie così diverse: il Duca che amoreggia, Maddalena che lo fronteggia e lo asseconda, Gilda sconfortata, Rigoletto che si divide fra l’odio per il Duca e la pietà per la figlia. E’ un turbinio di emozioni che l’intreccio delle voci, l’intersecarsi di temi rendono compiutamente. Si racconta che Rigoletto tardò ad approdare nei teatri parigini per il boicottaggio di Hugo che non gradiva il successo dell’opera superiore alla sua tragedia. Finalmente quando l’opera fu messa in scena nella Ville lumière, Hugo si convinse ad assistere allo spettacolo. Gli piacque, naturalmente e quando ascoltò il quartetto non poté trattenersi dal dire: «Bella forza, lui li fa cantare tutti insieme, io debbo farli parlare uno per volta». Roberto iovino Rigoletto 10 Il Giornale dei Grandi Eventi I luoghi di Rigoletto a Mantova Più della storia potè la fantasia C ome è ben noto il Rigoletto è ambientato più per necessità che per scelta “nella città di Mantova e suoi dintorni. Epoca, il secolo XVI”, come recita il libretto di Francesco Maria Piave. Il “Duca di Mantova” verdiano è il risultato finale di una tormentata metamorfosi che parte dal re Francesco I di Francia, protagonista de Le roi s’amuse di Victor Hugo. Il principe dissoluto, protagonista del melodramma, si ritiene identificabile con Vincenzo I Gonzaga, anche se all’11 marzo 1851, data della “prima” dell’opera verdiana alla Fenice di Venezia, non erano ancora emerse notizie su alcune delle vicende più “piccanti” della sua inquieta vita sentimentale. Contemporaneo a Francesco I di Francia era Federico II Gonzaga, il signore di Mantova noto per il suo amore clandestino con Isabella Boschetti e pertanto anch’egli forse alluso genericamente nel Rigoletto. una reggia tra le più belle Il Palazzo Ducale, in cui sono ambientati buona parte di I e II atto, è un edificio che alla metà dell’Ottocento godeva di grande fama, per quanto fosse allora in uno stato di semi-abbandono che difficilmente poteva suggerire i fasti ed il lusso di un tempo: oggi ci appare sotto ben altra luce, grazie ad oltre un secolo di restauri. Medioevo, Rinascimento, Barocco, Neoclassicismo e un pizzico di modernità accolgono il visitatore, lasciando scorgere gli oltre sette secoli di vita del monumento, sunto e manifesto della storia e dell’arte mantovane. Il grandioso complesso architettonico oc- P.P. Rubens - La famiglia Gonzaga adora la S.S. Trinità cupa una superficie superiore ai 35.000 metri quadrati: non per nulla il veneziano Giovanni da Mula nel 1615 scriveva: «Gode il signor Duca per sua abitazione in Mantova un amplissimo palazzo, che sarebbe bastevolmente capace per ogni gran re». Il Palazzo è in realtà un incredibile agglomerato di edifici. Il medievale Palazzo del Capitano, il trecentesco Castello di San Giorgio, la quattrocentesca Domus Nova, l’Appartamento di Troia di Giulio Romano, la cinquecentesca Basilica di Santa Barbara (fulcro dell’intero complesso), e tanti altri corpi di fabbrica sono collegati da corridoi, logge, gallerie, cortili, giardini, in continuo dialogo. Gli interni non sorprendono meno degli esterni, per la loro vastità e varietà. Le decorazioni pittoriche e plastiche sono un vero manuale di storia dell’arte del Rinascimento: sale di rappresentanza sono dipinte da Pisanello, da Andrea Mantegna (la celeberrima Camera degli Sposi), da Giulio Romano (l’intero Appartamento di Troia). Quanti palazzi possono vantare un simi- le apporto di genî? E ricorderemo ancora Pietro Paolo Rubens e Domenico Fetti, anch’essi artefici del pristino splendore del monumento, per il quale dipinsero numerose opere, purtroppo perdute o disperse. Il Palazzo oggi accoglie capolavori di questi due artisti – rispettivamente il Tempio della Trinità e la Moltiplicazione dei pani e dei pesci – provenienti da chiese cittadine. La loro presenza in Palazzo narra la storia di questo come Museo, piuttosto che come dimora nobiliare. la casa di Rigoletto e l’osteria di Sparafucile L’opera verdiana è ambientata – oltre che nel Palazzo Ducale – anche in altri luoghi, che risultano essere invece del tutto di fantasia: la “Casa di Rigoletto” (I atto) e “l’Osteria di Sparafucile” (III atto). Proprio sull’onda del successo dell’opera due diversi fabbricati sono stati ribattezzati, a cavallo fra Otto e Novecento, come la casa del buffone di corte e la taverna dell’“uom di spada” borgognone. Oggi chiamiamo Casa di Rigo- letto un edificio prospiciente il Palazzo Ducale e attiguo alla cattedrale: una casa rinascimentale, dotata di un bel cortiletto, che fu in verità dei canonici del duomo. Rigoletto non è una figura storica, ma di fantasia, e nessun buffone di corte è, inoltre, mai vissuto nello stabile che proprio dal protagonista del melodramma oggi prende nome. L’invenzione è praticamente ed al contempo un omaggio al capolavoro di Verdi e un ammiccamento “pubblicitario”. Anche la cosiddetta “Rocchetta di Sparafucile” porta un nome moderno e filologicamente scorretto, essen- Rocca di Sparafucile do essa in origine nota come “Rocchetta di San Giorgio”, in quanto avanzo di una cintura di fortificazioni che proteggeva il borgo satellite di San Giorgio sin dal tardo Medioevo. Per secoli difese l’accesso al ponte di San Giorgio e quindi alla Città; tra i corpi di fabbrica che lo compongono, il più vetusto è una massiccia torre di pianta rettangolare, con rade finestre e feritoie nelle facciate, sorta probabilmente nel 1370-1372 e comunque prima del 1414. Più volte rimaneggiata nei secoli, la rocca rimase corpo di fabbrica isolato allorché – siamo nel 18081810 – la cinta muraria di cui era parte venne abbattuta. Il fortilizio perse, così, parte del suo aspetto militare e poté essere ribattezzato, ma solo forse ai primi del Novecento, come dimora di Sparafucile. È possibile che le scenografie ottocentesche di Giuseppe Bertoja del debutto alla Fenice di Venezia abbiano favorito la moderna sovrapposizione dell’“osteria di Sparafucile” all’antico avamposto militare, certo anche a ragione dell’arco d’accesso e della collocazione della vicenda sulla “deserta sponda del Mincio”. Stefano l’occaso Conservatore del Museo di Palazzo Ducale di Mantova Il Giornale dei Grandi Eventi Dal mondo della musica 11 La figura del buffone e la sua fortuna Giullari, da teatranti di strada a consiglieri a corte N onostante spesso si trattasse di esseri grotteschi, sfortunati nel fisico, come nel caso di Rigoletto, i giullari possedevano un genio comico e sagace fuori dal comune che li avvicinava e li rendeva amabili agli occhi di principi e regnanti. Oggi il termine “giullare”, è inteso in senso certamente non positivo, indicando persone ritenute di indole cialtrona e furbescamente arruffona. C’è stato un tempo però, in cui “fare il giullare” signifi- Ritratto di giullare di Velasquez cava avere confidenza con gli ambienti del posandi, è presente una vasta tere assoluto. Ciò significava selezione di termini, atti a talvolta essere contesi tra i definire i giullari. Si tratta di sovrani ed assicurarsi una viuna sorta di lista di proscrita agiata, circondati dal lusso zione sociale che li accomue dalle piacevolezze delle na a dei mostriciattoli, sia nel corti di tutta Europa. corpo che nell’anima, un cirComparso per la prima volta co dell’orrido che oggi definel documento del Concilio niremmo “freak”. di Cartagine del 436, il termine “Ioculares”, da cui deriva un ponte fra il poeta in seguito “giullare”, agli inie il saltimbanco zi stava a designare, quanti facevano professione di diLa svolta decisiva si ebbe nel vertire la gente con l’esercisec XII, quando Guglielmo zio delle più diverse arti IX d’Aquitania cominciò a d’intrattenimento. Si trattava comporre canzoni e sonetti di attività ludiche che, in per diletto, iniziando l’attivinuove condizioni ambientatà letteraria dei trovatori che li, continuavano tradizioni venne spesso a confondersi antiche, come quelle dei micon il ruolo del giullare, al mi d’Alessandria e di Roma, quale cominciò a essere concontaminate verosimilmente ferito un senso di dignità. Se con elementi di tradizione ne dolse Guiraut Requier germanica e araba. Nelle che, nella sua celebre petiziomolteplici condanne dell’alne rivolta ad Alfonso X di to medioevo, la professione Castiglia,, auspicava che, aldi “giullare” fu accompagnameno egli, «operi a vantaggio ta da una cattiva fama, in di coloro che detengono veraquanto l’indefinitezza del mente l’arte del poetare». Egli ruolo, l’ascendenza pagana e lamentava che, «è emersa una gli aspetti demoniaci che genia di figure prive di senso, conteneva, suscitarono diffiinette e ignoranti che si danno, denza e ostilità nella Chiesa. senza alcun diritto, a cantare, L’insistenza stessa delle difcomporre, a suonare strumenti fide ecclesiastiche, spinte tae ad altro, per il solo scopo di elelora fino all’anatema, attesta mosinare e facendo concorrenza indirettamente lo stato d’anisleale ai valenti». Ma la divermo con cui i giullari erano sità dei ruoli si impose con i accolti dal pubblico fuori fatti: da un lato i trovatori, delle corti e li confinava allo con la loro raffinata consapestesso tempo in una condivolezza artistica; dall’altra i zione d’inferiorità morale e giullari con le loro più modesociale. A riguardo, nel maste funzioni di esecutori, dinoscritto Summa de arte provulgatori e ripetitori. Per Ugo di San Vittore, «l’arte degli spettacoli è professione del divertimento volta a restaurare quella letizia che l’uomo aveva perso con il peccato originale». L’inserimento positivo dei giullari nella vita cittadina e nelle corti del XII sec, venne favorito dall’accoglienza che ne diedero i nuovi teologi e moralisti come San Tommaso d’Aquino. Inoltre, si organizzarono in confraternite religiose, pronte a servire le istanze di rappresentazione delle istituzioni religiose e civili, ad allietare feste e conviti di nobili e borghesi, pur continuando l’attività nelle piazze nel ruolo di ciarlatani e venditori di merci e intrugli vari. Buffone di corte, una professione ambita Il punto di incontro tra trovatori e giullari, permise a questi ultimi l’accesso ad ambienti prestigiosi e nel XVI sec. l’arte giullaresca raggiunse i suoi massimi vertici all’interno delle sontuose corti europee. Umorismo caustico, falsa ingenuità, solido buonsenso lo rendevano un consigliere eccellente, cui il re prestava il massimo ascolto. A lui solo era permesso esprimere la sua opinione in pubblico e dire a ciascuno la sua verità per mezzo del riso e dello sberleffo. In un periodo in cui si afferma l’assolutismo, il re, circondato da spiriti compiacenti e da cortigiani, cominciava a perdere contatto con la realtà e con i suoi aspetti spiacevoli. Il buffone di corte veniva in aiuto a demistificare la realtà, nonostante la nomea di “folle” o presunto tale che lo accompagnava, egli produceva in realtà un servizio, a patto che avesse imparato a giostrarsi nel suo essere ambiguo e restasse nel confine tra saggezza e follia, affinché potesse impunemente operare. In Francia per molti anni, da Francesco I in avanti, la figura del buffone di Corte acquistò sempre maggiore credito, parlando a tu per tu con il sovrano, scherzando insieme a lui, motteggiandolo affabilmente. Il giullare Chicot, ad esempio, godeva di un favore senza limiti nei riguardi del sovrano Enrico IV. Egli chiamava il re «il mio piccolo coglione» e si firmava «Sovrintendente alla Buffoneria di Sua Maestà». Le cose sono sensibilmente evolute: ora il giullare è divenuto un intermediario con i sudditi, al servizio del potere. La risata è strumento di propaganda, arma acuminata contro gli avversari. Mettere la verità in bocca ad un giullare vuol dire far passare la ferrea volontà del sovrano, evitando il cinismo. Ma anche questa pratica comincerà ad assumere toni moralistici ed il giullare diventerà un pedante conformista. La difesa dell’ordine costituito prende il posto della buffoneria e così la sua funzione diverrà ormai arcaica, infatti non ci sarà più posto per un buffone alla corte di Luigi XIV, che dichiarò «finito il carnevale» e imposterà il suo regno nella costante ricerca del sublime. liv Ma. continua da pag. 3 solo per le sue opere - in trasferta da Milano. Questo senza un reale impegno del Maestro, che a parte nell’ultimo anno con un paio di conferenze su altrettanti titoli, mai si è speso in prima persona, partecipando magari a conferenze stampa o altre iniziative di “traino” per l’Opera. Al Teatro romano sarebbe servito, invece, un direttore stabile, impegnato in un lavoro quotidiano. Muti lo si sarebbe potuto scritturare, come qualunque altro artista, per lo stesso numero di titoli, ma con meno oneri e – alla luce dei fatti, nell’aria fin dall’inizio – meno risalto negativo. Il vero problema del Teatro è però la struttura amministrativa, con un Sovrintendente, Carlo Fuortes, chiuso in se stesso, che rifiuta di dialogare con chiunque, da membri del consiglio di amministrazione, ai lavoratori. Un personaggio con una fama di manager, a nostro avviso autocostruita. Analizzando i fatti, un percorso costellato di alcuni insuccessi importanti, dall’aver lasciato il Petruzzelli di Bari con un buco milionario, fino all’attuale situazione dell’Opera, dove per un incarico così delicato ha pensato più alle poltrone che all’impegno, visto che ha voluto mantenere pure la carica di amministratore delegato di “Musica per Roma”, fondazione che gestisce l’Auditorium Parco della Musica. «In teatro manca la serenità» - quella che dovrebbe creare un manager - e per questo Muti se ne è andato. Tra l’altro, con sentenza del 1° ottobre scorso, è stata riconosciuta «l’antisindacalità del comportamento posto in essere dalla Fondazione Teatro dell’Opera di Roma il 21 dicembre 2013 (Lago dei cigni, n.d.r.), consisitito nell’utilizzazione delle bande magnetiche registrate in sostituzione degli orchestrali in sciopero». Certo non depongono a suo favore atti che potrebbero sembrare da “furbetto all’italiana”, come quello, quasi sfrontatamente dichiarata durante una conferenza stampa quando si parlava dell’adesione alla c.d. Legge Bray che prevede, a fronte del ripianamento del debito, la revisione della pianta organica e soprattutto l’abolizione del contratto integrativo. «Nulla toglie di rifarlo uguale», disse Fuortes minimizzando. Ma se lo spirito della norma è quello di rendere meno gravosa la gestione, queste parole suonano come un aggirare la legge, cercando di prendere in giro lo Stato che tra mille problemi finanziari cerca di aiutare le Fondazioni liriche sinfoniche, in difficoltà per anni di allegra gestione. A proposito di Fondazioni “Lirico Sinfoniche”, è singolare – creando un precedente pericoloso - per una di queste come l’Opera licenziare proprio orchestra e coro.... Così, di “lirico-sinfonico” al teatro cosa rimarrà? Solo una costosissima struttura che organizza spettacoli, al pari di tante private, le quali però, al contrario, non ricevono finanziamenti pubblici. Ma questa è un’altra storia. Andrea Marini