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NICOLA BONAZZI
Machiavelli e la nascita della politica moderna
1-Machiavelli: un autore buono per tutte le stagioni?
Capita ogni tanto che qualche solerte e preparato biografo ci racconti una serie di
aneddoti su un importante uomo politico del passato, rammentandoci non
infrequentemente che il personaggio in questione era un avido lettore del Principe di
Machiavelli. Questo vale sia per coloro che noi giudichiamo statisti illuminati, sia per
coloro che la storia ha bollato come tiranni. Insomma, il Principe pare tornare buono
tanto a quelli che hanno usato il potere in modi giudiziosamente equilibrati, quanto a
quelli che ne hanno fatto uno strumento di coercizione e minaccia, senza rifuggire dalle
azioni più crudeli. Come mai? Forse perché, al pari delle opere di tutti i grandi
pensatori, il testo dello scrittore fiorentino appare a tal punto complesso e profondo da
poter essere interpretato secondo motivazioni del tutto differenti, se non opposte?
O, al contrario, è così semplice da poter essere compendiato nella nota formula “il fine
giustifica i mezzi”, lasciando poi all’indole e all’abito morale del singolo decidere quali
mezzi impiegare? Come si vedrà, quest’ultima interpretazione è una forzatura derivata
da secoli di equivoci e fraintendimenti sull'opera di Machiavelli, sorta quasi subito dopo
la sua morte. Ma c’è anche chi ritiene che Machiavelli non sia stato affatto un grande
pensatore e che i suoi scritti valgano più come opera di letteratura che di riflessione
organica sullo stato. Noi, più semplicemente, ci azzarderemo a dire che Machiavelli ha
vissuto, da subalterno in quanto a funzioni ma da protagonista in quanto ad acume e
intelligenza, tutti gli eventi politici principali del suo tempo, distillandone una visione
pragmatica e per nulla idealizzante. Essendo poi un grande scrittore (è la ragione per
cui si studia più in letteratura che in filosofia), ha provato a compendiare le sue
riflessioni in opere che si impongono per la bruciante sintesi dello stile, per la chiarezza
tersa e acuminata dei passaggi logici. Perché, non dimentichiamolo, la politica è più
questione di fatti che di teoremi, di azioni che di pensieri, di pratica che di precetti
morali. Ed è stato merito di Machiavelli averlo rammentato per primo agli uomini del
suo tempo. E dei tempi successivi.
2-La famiglia di Niccolò
Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469 da Bernardo di Niccolò di
Buoninsegna e da Bartolomea de’ Nelli. È il primo figlio maschio: si aggiunge alle due
sorelle Primavera e Margherita; dopo di lui, nel 1575, nascerà il fratello Totto. Il padre
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era dottore in legge: uomo di non scarsa cultura, figura come uno degli interlocutori di
un dialogo sulla giustizia di Bartolomeo Scala, umanista e segretario della repubblica, la
stessa carica che ricoprirà qualche anno più tardi il nostro Niccolò; anche la madre si
dilettava di lettere: di lei non sappiamo praticamente nulla, tranne che compose
qualche poesia di argomento religioso andata perduta. Nella casa di famiglia Niccolò
poté dedicarsi alle prime letture, affrontando quei volumi che Bernardo aveva messo
insieme con i pochi risparmi che le proprie rendite gli consentivano; anche se i
Machiavelli erano una delle dinastie più antiche della città e avevano in epoche passate
ricoperto incarichi politici di un certo rilievo, la famiglia di Bernardo apparteneva a un
ramo cadetto, dunque non particolarmente ricco e soprattutto escluso dagli uffici
pubblici, ciò che non consentiva di esibire il prestigio (e insieme il denaro) delle
famiglie maggiori. Comunque sia, Niccolò poté probabilmente leggere in gioventù,
attingendoli dalla bibliotechina paterna, testi di Cicerone, Lucrezio e Tito Livio, il
grande storico latino che poi gli fornirà materia per una delle sue opere maggiori, i
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio; tra gli autori volgari, prediletti da
Machiavelli che non era abilissimo nella lingua latina, figurano naturalmente Petrarca,
Boccaccio e Dante, variamente imitati nei componimenti letterari del nostro. Con il
padre, Niccolò ebbe un buonissimo rapporto, anche grazie agli interessi che Bernardo
seppe trasmettergli: in un sonetto a lui dedicato, Machiavelli scherza su un’oca
comprata dal padre per arricchire il non pingue desco famigliare: tutti sono talmente
affamati che per Bernardo non resterà nulla, se non l’onere dell'acquisto. Un altro
aneddoto, riportato da Roberto Ridolfi, il biografo più importante di Machiavelli, narra
di un frate che, quando Bernardo era già morto, rivela a Niccolò il segreto di alcuni
cadaveri sepolti nascostamente nella cappella di famiglia: Niccolò risponde allora di
non curarsene, perché il padre aveva sempre amato la conversazione. Bernardo morì
nel 1500, mentre la madre era già morta quattro anni prima. Niccolò aveva quasi
trent'anni, e stava già bruciando le tappe di una brillantissima carriera politica.
3-A confronto con Savonarola
Nel 1498, ovvero nello stesso anno in cui Machiavelli comincia il suo tirocinio
politico e pubblico, viene arso sul rogo a Firenze Girolamo Savonarola, il frate
domenicano che per oltre un decennio ha avuto in mano il destino della città. Nato a
Ferrara nel 1452, e ordinato frate nel 1475, Savonarola era un oratore dalle capacità
retoriche straordinarie. Arriva a Firenze nel 1482: sono gli anni più fulgidi della
dinastia medicea; a capo della città è Lorenzo il Magnifico, sfuggito quattro anni prima
ad un attentato (la cosiddetta congiura dei Pazzi) nel quale perde la vita il fratello
Giuliano. I Medici si sono sempre ostinati a proclamarsi cittadini comuni, ma di fatto il
potere che hanno consolidato negli anni grazie a una rete di relazioni estesa a tutti i
maggiori stati europei e alle ingenti risorse economiche accumulate, configura il loro
ruolo all’interno delle istituzioni fiorentine come un vero e proprio principato.
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Inevitabile che si attirassero le ostilità della altre famiglie aristocratiche: Firenze, per
buona parte del XV secolo, è percorsa da lotte intestine perniciosissime, da cui tuttavia
i Medici escono sempre vittoriosi, potendo così rinvigorire il proprio potere. Cosimo il
Vecchio, nonno del Magnifico, dopo essere stato esiliato, rientra a Firenze nel 1435 tra
le urla di giubilo del popolo, venendo addirittura proclamato “padre della patria”.
Lorenzo, nato nel 1449, è un abile diplomatico, grande mecenate e poeta egli stesso:
riesce nell’impresa quasi impossibile di pacificare gli stati italiani per oltre un
quindicennio. Paradossalmente, è proprio l’oratoria del frate venuto da Ferrara a dargli
più filo da torcere: se nei primi anni di predicazione fiorentina Savonarola non ottiene
alcun successo, il secondo soggiorno, cominciato nel 1490 dopo anni di peregrinazione
nel Nord Italia, è contrassegnato da una popolarità travolgente: il frate, dal pulpito di
San Marco prima e di Santa Maria del Fiore poi, si scaglia contro il lusso sfrenato della
nobiltà, contro la corruzione del clero e dei capi politici della città: e pensare che
probabilmente era stato lo stesso Lorenzo a chiamare Savonarola a Firenze su
insistenza di Pico della Mirandola! Nella notte del 5 aprile 1492 un fulmine si schianta
contro la cupola del Duomo danneggiandola: molti interpretano l’evento come un
cattivo augurio, ed effettivamente tre giorni dopo il Magnifico muore. Il rapinoso
eloquio del frate gli procura fama di profeta: predice sventure sull’Italia e poco dopo la
penisola assiste impotente alla discesa sul proprio suolo del re di Francia Carlo VIII: i
fautori di Savonarola, chiamati Piagnoni (il nome la dice lunga sui toni millenaristici
delle loro rivendicazioni...) hanno buon gioco a imporsi sulle altre fazioni cittadine.
Ma il peso politico del frate sta diventando un fardello troppo ingombrante: il papa
Alessandro VI lo scomunica e anche il popolino di Firenze, che aveva sempre
appoggiato le sue accuse contro l’aristocrazia, comincia ad essere intollerante verso
l’intransigenza moralistica di Savonarola. Nel 1498 le magistrature fiorentine, dopo
averlo fatto arrestare e torturare, condannano il frate ferrarese al rogo per eresia.
4-Il «giudicio» sulle cose del mondo
Machiavelli ci racconta l’impressione suscitatagli da Savonarola in una lettera, la
seconda del suo ricchissimo epistolario, indirizzata a Ricciardo Becchi, ambasciatore
fiorentino presso il papa. Il suo giudizio non è molto benevolo: dopo aver
sommariamente descritto alcune prediche del frate, e aver individuato le strategie
soprattutto politiche che potevano celarsi dietro lo zelo religioso e le infuocate
esortazioni al popolo, Machiavelli conclude dicendo: «et così, secondo il mio giudicio,
viene secondando e’ tempi, et le sua bugie colorendo». È questa una delle prime volte in
cui possiamo apprezzare il lucido disincanto del «giudicio» machiavelliano sulle cose
del mondo: nel corso degli anni questa attitudine scettica si farà ancora più profonda,
quasi che, educato agli abili infingimenti e alle consuete gàbole della politica attiva,
Machiavelli sia in grado di leggere oltre i comportamenti abituali degli uomini di
potere, scoprendovi i sottotesti d’interesse e di tornaconto personale. D’altro canto,
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tutto il panorama politico degli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento appare
complicato da un continuo gioco di alleanze diverse tra gli stati, legami che si fanno e si
disfano a seconda delle convenienze e delle situazioni contingenti. Gli occhiali con cui il
Machia, come veniva chiamato dagli amici, osserva il mondo, hanno lenti spesse e
buone, e arrivano a scoprire le reali intenzioni che si celano dietro condotte instabili o
equivoche, per ricavarne addirittura una possibile declinazione positiva: «Si vede, per
esperienza ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno
tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli degli uomini; e
alla fine hanno superato quelli che si sono fondati sulla realtà» (Principe, cap. XVIII).
Inutile affannarsi a cercare, in queste parole, un’intenzione di diabolica furbizia, come
faranno un secolo dopo gli uomini della Controriforma: la politica del Rinascimento è
fatta di diffidenze reciproche, di infingardaggini, di patti violati per paura o arroganza:
chi avesse saputo barcamenarsi meglio, usando le armi della forza o dell’ingegno, in un
mare tanto tempestoso, avrebbe potuto mantenere il proprio potere più a lungo
nell’infido scacchiere europeo.
5-Lo scacchiere europeo
Che stava dunque accadendo in quegli anni in Europa? Dirlo in poche righe non è
semplice, proprio per via dei continui cambiamenti di fronte dei vari principi e sovrani.
Da un lato, tutti gli stati mirano legittimamente a mantenere i propri confini, dall’altro,
un po’ meno legittimamente, ad espanderli. Carlo VIII, il sovrano francese di cui
abbiamo parlato un paio di paragrafi sopra, voleva per esempio condurre una crociata
contro i turchi, usufruendo per questo di una base d’appoggio nel Regno di Napoli, in
mano agli Aragonesi, che detenevano il potere dalla fine della dinastia angioina, di cui
però Carlo VIII era discendente... È una faccenda già piuttosto complicata, come si
vede. Quando passa in Italia, Carlo VIII si vede spalancare le porte del proprio ducato
da Ludovico Sforza, signore di Milano, da Venezia e persino dal papa: anche Firenze,
pur alleata degli Aragonesi, si schiera dalla parte della Francia, e ciò porta alla
sollevazione della città, all’allontanamento dei Medici e all’instaurazione della
repubblica (intanto il prestigio di Savonarola cresce a dismisura...). Poi però tutti gli
alleati avvertono il rischio che comporta la presenza sulle proprie terre di un sovrano
straniero tanto potente: disfano l’alleanza appena intessuta e danno vita alla Lega di
Venezia, che riunisce, contro la Francia, appunto Venezia, Milano, papato, Firenze e
ottiene l’appoggio pure dell’Impero e della Spagna. Carlo VIII viene sconfitto a
Fornovo, nell’Appennino parmense, e torna in Francia con la coda tra le gambe. Non è
finita, naturalmente: il successore di Carlo VIII si chiama Luigi XII; anche a lui fa gola
l’Italia, ma preferisce puntare su Milano, rivendicando un’antica parentela con i
Visconti, cacciati anni prima dagli Sforza. Milano cade in mano francese nel 1500; nel
1501 sempre la Francia decide di prendersi anche un pezzetto del regno di Napoli,
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lasciando l’altro pezzo agli spagnoli, che in seguito, estromessi i francesi, lo terranno
per oltre due secoli. Un bel ginepraio, insomma: a farne le spese è l’Italia, calpestata in
lungo e in largo dagli stivali delle milizie straniere.
6-Lo scacchiere italiano
Naturalmente, come tutti sanno, gli stati e staterelli italiani, invece che sollevarsi e
cacciare il nemico, decidono di combattere tra loro. Per noi oggi l’unità politica,
amministrativa e culturale della penisola è un fatto pienamente acquisito, mentre allora
il frazionamento in tante piccole o medie unità territoriali comprometteva ogni forma
di solidaristico aiuto in nome di un’idea di nazione ancora troppo astratta e vaga. Ogni
pezzetto d’Italia aveva i suoi statuti politici, i suoi costumi, i suoi poeti che cantavano la
dinastia in carica. Così Cesare Borgia detto il Valentino, figlio del pontefice Alessandro
VI, decide tra il 1499 e il 1503 di riacquistare al pieno controllo di Roma quella miriade
di piccole signorie che tra Umbria e Romagna si erano rafforzate in totale autonomia
dalla Chiesa che, nominalmente, le amministrava. Ma Alessandro VI muore, il
Valentino cade: alcune di quelle signorie recuperano i vecchi sovrani, altre se le ingoia
Venezia. Il nuovo papa si chiama Giulio II, un personaggio energico e senza scrupoli,
che, non volendo assecondare il prestigio e la forza della Serenissima, istituisce
un’alleanza (Lega di Cambrai, 1508) che unisce papato, Francia, Spagna e Impero.
Venezia è battuta. Ora però sono i francesi, e grazie proprio all’alleanza appena
stipulata, ad apparire troppo potenti al papa, che non si fa scrupoli di tessere nuove
alleanze. I contraenti prendono il nome di Lega Santa: tale Lega unisce papato, Spagna,
Impero, Inghilterra e Venezia: così, nel 1512, i francesi vengono cacciati dai confini
italiani. Firenze, che per fedeltà all’antico alleato si è schierata dalla parte della Francia,
è costretta a pagare cara la propria coerenza: viene assaltata da truppe spagnole che
riportano al potere la signoria medicea, dopo diciotto anni di repubblica.
7-Alla riconquista di Pisa
E Machiavelli in tutto questo dov’è? È ogni volta nel cuore degli avvenimenti più
importanti del suo tempo. Quando si pensa al Principe, alla Mandragola, ai Discorsi, ci
si immagina forse che Niccolò abbia seguito il cursus normale degli uomini di lettere:
studi letterari e una solida preparazione umanistica. Niente di tutto questo, almeno
sino a quel fatidico 1512. Machiavelli è uomo d’azione, stare fermo anche un sol giorno
a poltrire in casa gli procura accessi di stizza e di umore malinconico. Non a caso,
cinque giorni dopo la morte di Savonarola (torniamo indietro al 1498), Niccolò viene
nominato segretario della commissione dei Dieci di Libertà e Pace, che deve gestire gli
affari militari nei territori dominati dalla Repubblica fiorentina. Insomma, una specie
di ministro degli esteri, seppur privo della facoltà di prendere decisioni: il compito suo
e dei suoi collaboratori, Biagio Buonaccorsi o Marcello Adriani, era di informare i Dieci
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su ciò che stava accadendo nelle varie zone sottoposte al potere fiorentino, in modo che
essi potessero deliberare tempestivamente e in funzione delle diverse situazioni in atto.
Una delle questioni più spinose che Machiavelli si trovò ad affrontare fu la riconquista
di Pisa, caduta in mano francese al tempo della discesa di Carlo VIII. Pisa era una città
strategica per Firenze, baluardo verso possibili invasioni straniere, e rientrarne in
possesso avrebbe garantito alla città del Giglio maggiore sicurezza e stabilità. Inoltre, il
comandante che i francesi avevano posto a capo della fortezza pisana, anziché
riconsegnarla come promesso a Firenze, l’aveva rivenduta al popolo pisano dietro il
pagamento di ventimila scudi: toccava dunque riprendersela con la forza. A capo
dell’impresa fu chiamato il condottiero romano Paolo Vitelli, il quale, già sotto le mura
di Pisa, traccheggia, lascia che i pisani si rianimino e alla fine del 1499, con le truppe
minate dalla malaria, toglie persino il campo. I fiorentini non possono sopportare
quello che giudicano non solo una poco accorta strategia militare, ma addirittura un
vero e proprio affronto, e alla fine del 1499 arrestano il Vitelli e lo condannano a morte.
8-In Francia
Come abbiamo detto prima, c’è un nuovo sovrano che sta per scendere in Italia: è
Luigi XII, pronto a conquistare Milano e il Regno di Napoli. È a lui, ora, che si
rivolgono i fiorentini. I francesi si impegneranno a conquistare Pisa dietro il pagamento
di una somma molto alta e il vettovagliamento di 5.000 soldati: si tratta di una
condizione molto onerosa, ma Firenze, pur di riavere Pisa, accetta. Le cose, ovviamente
non vanno come devono: la soldataglia francese perde tempo nel sacco di altre città e,
giunta in vista di Pisa, decide di ammutinarsi con la scusa che il cibo fornito dai
fiorentini è di scarsa qualità. A loro volta, i fiorentini non hanno ancora pagato a Luigi
XII la somma concordata per la spedizione. Machiavelli deve dunque recarsi in Francia
con il compito da un lato di rassicurare il re sul pagamento della somma, dall’altro di
lamentare lo scarso impegno delle sue truppe. È una situazione spinosa, nella quale
Machiavelli mette alla prova le proprie doti di abile oratore e politico. Egli resterà in
Francia molti mesi, ricavandone utili osservazioni per il proprio operato e per le
condotta da tenere in frangenti così difficili. All’inizio del 1501 è richiamato a Firenze,
perché un’altra partita si sta giocando, ancora più intricata.
Cesare Borgia detto il Valentino
Il figlio di papa Alessandro, Cesare Borgia detto il Valentino (dal nome delle terre –
Valentinois – donategli dal re di Francia), sta riconquistando alla Chiesa i territori delle
Romagna dove infuria la ribellione dei vari signorotti locali. È già cosa fatta la
conquista di Pesaro, Forlì, Rimini, Imola, Faenza; Urbino sta per cadere; la cosa che
però angoscia maggiormente Firenze e insieme Machiavelli, è la ribellione di Arezzo al
dominio fiorentino: anche in questo caso, a fomentare la rivolta, pare ci sia lo zampino
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di Cesare Borgia. Così Firenze, stretta d’assedio da ogni parte, si trova in pericolo
mortale: la repubblica decide di mandare Machiavelli e Francesco Soderini a trattare
col Borgia a Urbino, appena caduta. I dispacci che Niccolò invia ai Dieci sono dei
capolavori, soprattutto per le descrizioni che egli fa del condottiero, dovute
all’ammirata inquietudine che il Valentino era in grado di suscitare nei due
ambasciatori: Machiavelli lo dipinge come un uomo astuto e imperscrutabile, energico,
coraggioso, e con in più la fortuna dalla sua parte: non è un caso che, anni dopo, egli ne
farà un esempio da portare ai lettori del Principe. Cesare Borgia sa anche essere
spietato: presa Urbino, fa uccidere Guidobaldo da Montefeltro, signore della città;
qualche tempo dopo, avendo ricevuto notizia di una congiura ai propri danni, fa
strangolare Vitellozzo Vitelli, Paolo Orsini, il duca di Gravina e Oliverotto da Fermo,
tutti tirannelli della Romagna. Questa era la politica a quel tempo, forza e astuzia,
sangue e cervello: la diplomazia era un’opzione poco praticata... Machiavelli ammira il
Valentino per il suo spirito d’iniziativa e per la lucidità che sempre pare accompagnare
le sue scelte, anche le più crudeli: come quando lascia le terre di Romagna al proprio
luogotenente Ramiro de Lorqua, uomo spietato e dai modi sbrigativi («crudele ed
espedito», Principe, cap. VI), ma, accortosi poi che tale governo risulta troppo gravoso
alla popolazione, lo uccide e ne squarta il corpo, esibendolo sulla piazza di Cesena: in
questo modo tutti vedono la fine che può fare chi non ottempera ai propri compiti. «La
ferocità di quello spettacolo», conclude Machiavelli a proposito di questa vicenda, «fece
quelli popoli in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi» (Principe, cap. VI), cioè
soddisfatti e stupiti.
9-La fine di un condottiero
Ma la fortuna volta le spalle anche all’apparentemente invincibile Cesare Borgia: nel
1503 Alessandro VI muore e lo stesso Valentino si ammala (ce lo dice Machiavelli nel
Principe senza specificare di quale malattia); la forza e la lucidità di qualche tempo
prima sono irrimediabilmente compromesse; lo stesso Valentino commette una
sciocchezza: favorisce l’ascesa al soglio pontificio del cardinale di San Pietro in Vincoli,
Giuliano della Rovere, che diventerà appunto papa con il nome di Giulio II. Si tratta di
un rivale della famiglia Borgia, esiliato dalle terre pontificie dal suo predecessore: forse
il Valentino, mostrandosi così clemente, sperava di cattivarsene l’amicizia; Machiavelli,
sempre scettico sulla lealtà degli uomini, ha buon gioco a dimostrare che quello del
Valentino fu un calcolo del tutto sbagliato: «e chi crede che ne’ personaggi grandi e
benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vecchie, s’inganna» (Principe, cap. VI).
Infatti Giulio II fa arrestare il duca, che rifiuta di cedere le terre di Romagna ancora in
suo possesso, e qualche tempo dopo lo fa uccidere. Firenze, che si era salvata da un
assalto delle truppe ducali grazie allo spauracchio dell’alleanza con la Francia, gli aveva
appena negato il salvacondotto per passare sui propri territori e mettersi in salvo.
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10-L’istituzione della “milizia”
In questi anni, pieni per Firenze di ansie e timori, Machiavelli, non sta certo con le
mani in mano. Risalgono al marzo e luglio del 1503 i due discorsi Parole da dirle sopra
la provisione del danaio, sulla necessità di imporre nuove tasse per dotarsi di truppe
fedeli, e Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, con cui il Segretario
esorta le istituzioni fiorentine ad avere un po’ più di polso nel trattare con Arezzo, per
evitare nuove ribellioni fomentate dal Valentino. In mezzo a queste bufere politiche e
belliche, Machiavelli concepisce un’idea che, secondo lui, può aiutare Firenze a
sostenersi in tempi tanto calamitosi, così da poter fronteggiare l’assalto di truppe
straniere: l’istituzione della “milizia”, ovvero di un esercito regolare e ben addestrato.
Il Segretario comincia a parlarne in giro e trova le istituzioni fiorentine abbastanza
sollecite ad accogliere il suggerimento, in particolare il gonfaloniere Pier Soderini. Non
mancano però nemmeno le riserve: i fiorentini da lungo tempo avevano smesso l’uso
delle armi, essendosi trasformati nell’ultimo secolo in artigiani, mercanti e banchieri;
inoltre le famiglie aristocratiche temevano che la milizia diventasse uno strumento di
offesa e propaganda per il gonfaloniere, sì da portarlo alla signoria assoluta sulla città.
L’ultima riserva riguardava colui che avrebbe dovuto guidare le truppe, Michele de
Corella, un ex luogotenente del Valentino, noto per le sue crudeltà e vessazioni.
Machiavelli non si scoraggia: comincia ad assoldare uomini nel Mugello e nel
Casentino: meglio infatti reclutare gente nelle campagne, perché, di ritorno dalle
spedizioni, i fanti si sarebbero dispersi su un territorio ampio, eliminando così il
pericolo di possibili adunanze non controllate: il fatto poi che guidarli fosse un capitano
di altra provenienza geografica, scongiurava ogni possibile solidarietà tra il capo e i suoi
sottoposti. Insomma, come un ottimo stratega, Niccolò aveva previsto tutto. Tra
delusioni e speranze (Francesco Soderini gli scrive, nel maggio del 1504, di non
abbattersi: «non restate, che forse un dì serà data la gloria, che non se dà l’altro»),
finalmente, nel febbraio del 1506, Machiavelli può far sfilare quattrocento fanti vestiti e
armati di tutto punto. Sono contadini, ma il fascino della parata conferisce loro una
credibilità che le vicende belliche presto saranno destinate a minare.
11-Niccolò e Marietta
Nel 1501, intanto, il nostro Niccolò si era sposato con una certa Marietta. Di lei non
sappiamo quasi nulla, se non le notizie che ricaviamo dalle lettere di Biagio
Buonaccorsi allo stesso Machiavelli. Biagio è suo collaboratore presso la magistratura
dei Dieci, e quando Machiavelli è fuori, gli racconta le ansie e i dispiaceri di Marietta,
lasciata spesso sola a tirar su la famiglia. Il 15 ottobre 1502, per esempio, Biagio
racconta che il fratello di Marietta è andato da lui per sapere se ha notizie del ritorno di
Niccolò (in quel momento si trovava presso il Valentino): dice che Marietta è disperata,
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non vuole scrivergli e fa «mille pazie». Saranno molte altre le lettere in cui il buon
Biagio è costretto a riferire a Niccolò le scenate di Marietta: le sue sono missive
straordinarie, hanno la freschezza della quotidianità e la confidenza che solo l’amicizia
vera può consentire; così, a noi è dato oggi guardare dal buco della serratura le faccende
private di Niccolò, scoprire le sue mancanze coniugali, la sua perenne inquietudine, e
anche la non sempre florida situazione economica. Il 24 novembre 1503 Marietta scrive
al suo Niccolò una lettera, l’unica che di lei ci rimane: ribadisce il suo dolore per
ricevere dal marito poche notizie, avendo peraltro saputo che a Roma, dove ora si trova
Machiavelli, infuria una pestilenza; gli dà notizie del figlio, che sta bene e assomiglia a
Niccolò, la qual cosa la riempie di gioia: «per ora el babino sta bene, somiglia voi: è
bianco chome la neve, ma gl’à el capo che pare veluto nero, et è peloso chome voi; e da
che somiglia voi, parmi bello». Da brava moglie, Marietta conclude la lettera
annunciandogli l’invio di abiti nuovi, da lei confezionati: «mandovi farseto e dua
camice, e dua fazoleti e uno sciugatoio, che vi cucio».
12-In giro per l’Europa
Machiavelli, dunque, non è molto spesso a casa. Quando ci resta è inquieto, e tutt’al
più, occupa il tempo a leggere i classici e a scriver lettere e versi, come per esempio
quelli del Decennale, un poemetto in terzine dedicato agli ultimi dieci anni di storia
fiorentina, sul modello delle cronache in versi dei cantastorie municipali: Antonio
Pucci, vissuto a Firenze nel Quattrocento, ne aveva scritte di simili. Il Decennale è un
testo importante, prima di tutto perché è la prima opera letteraria di un certo impegno
del Segretario, e poi perché ne documenta gli umori e le preoccupazioni. Basti dire che
si chiude esortando le istituzioni fiorentine a riprendere le armi, quelle in cui Niccolò
voleva esercitare la costituenda milizia: («ma sarebbe il cammin facile e corto/se voi el
tempio riaprissi a Marte»). Inoltre il poemetto era dedicato ad Alamanno Salviati, capo
degli ottimati, la fazione delle grandi famiglie aristocratiche che non vedevano di buon
occhio l’ascesa di Machiavelli: un po’ di diplomazia non guasta mai. Questi continuano
ad essere anni di importanti missioni in giro per l’Italia e l’Europa. Nel 1506
Machiavelli è di nuovo alla corte papale per rabbonire Giulio II che richiede a Firenze le
truppe di Marcantonio Colonna, condottiero papale allora impegnato nella riconquista
di Pisa. Il papa, come il suo predecessore, vuole cacciare dai propri territori i vari
signorotti locali, in particolare i Baglioni a Perugia e i Bentivoglio a Bologna. Giulio II è
un vero papa-guerriero, a capo del più importante principato ecclesiastico del tempo
(Machiavelli ne descriverà pregi e difetti nel Principe), che, proteggendosi sotto le
insegne della Chiesa, rende gli altri principi più guardinghi e timorosi nelle loro
contromosse; non a caso Giulio II si riprenderà velocemente sia Perugia che Bologna.
Ma Niccolò è già altrove; Firenze ha saputo che si sta preparando la discesa in Italia
dell’imperatore Massimiliano I, con l’avvallo del papato: il pericolo, ancora una volta, è
grande per la città, che vedrebbe scacciati dalla Lombardia gli unici alleati affidabili,
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ovvero i francesi; Machiavelli è spedito in Germania insieme a Francesco Vettori per
ricavarne qualche notizia utile: vi risiede per qualche mese; essendo riuscito a
scongiurare il pericolo in atto, Niccolò ne approfitta per redigere un rapporto su quanto
ha visto (Rapporto di cose della Magna); altre vicende incalzano in Italia, però: a
richiamare l’attenzione di Niccolò è sempre la questione di Pisa, per la quale egli mette
ora in campo tutta la propria abilità diplomatica e, per la prima volta, anche la nuova
milizia da lui creata. L’assedio alla città si fa più serrato, e Pisa, alla fine, cede, firmando
la resa nel 1509. Si tratta di un successo personale di Machiavelli, che, naturalmente,
provoca il disappunto degli Ottimati.
13-Giulio II, papa-guerriero
Niccolò non fa in tempo a risolvere una situazione che subito gli si presenta un
nuovo pericolo: ancora una volta è Giulio II a scatenarlo, ancora una volta si tratta di
scacciare i francesi dall’Italia; ancora una volta, infine, Firenze non può permetterlo,
perché, se la Lombardia cadesse nelle mani della Chiesa, si troverebbe accerchiata da
territori papali. Giulio II, poi, è grande amico di Giovanni de’ Medici, cardinale e capo
della fazione medicea: una vittoria della Chiesa significherebbe sicuramente il ritorno
dei Medici in città, cioè, in ultima istanza, la fine della Repubblica. Machiavelli è
spedito in Francia, per trovare una soluzione diplomatica e convincere Luigi XII a non
rispondere alle intenzioni belligeranti di Giulio II: se la Francia avesse fatto la guerra da
sola contro il papa, il rischio di sconfitta era altissimo; peraltro il re aveva chiesto a
Firenze delle truppe da dislocare in Lombardia, e in tal modo la città avrebbe offerto il
fianco all’esercito di Giulio II; insomma, il solito guazzabuglio di eventi ostili da gestire.
Ma se altre volte Machiavelli era riuscito in imprese che sembravano disperate, questa
volta il compito si presenta drammaticamente difficile: Luigi XII sembra
accondiscendere alle proposte fiorentine, ma Giulio II, di fronte alle richieste di
mediazione degli ambasciatori fiorentini, va su tutte le furie e minaccia gravi
conseguenze per la città. Tra la fine del 1511 e l’inizio del 1512 la situazione precipita: il
papa decide di fare un’alleanza con i grandi d’Europa contro la Francia (Lega Santa): al
grido di "fuori i barbari", essa unì papato, Venezia, Spagna, Impero e Inghilterra.
Firenze, per lealtà verso l’alleato francese, resta fuori dalla Lega: così viene attaccata da
truppe spagnole e costretta a capitolare. Tutti questi avvenimenti sono raccontati da
Machiavelli in una lettera scritta il 16 settembre 1512 a una non meglio precisata
«gentildonna»; ne esce un quadro fosco delle guerre rinascimentali, in particolare dei
saccheggi e degli eccidi compiuti dagli spagnoli: «li Spagnoli, occupata la terra, la
saccheggiorno, et ammazzorno li huomini di quella con miserabile spettacolo di
calamità... né perdonarono a vergini rinchiuse ne’ luoghi sacri, i quali si riempierono
tutti di stupri et di sacrilegi». I Medici rientrano a Firenze da vincitori; Pier Soderini è
costretto a fuggire e anche per Machiavelli si preparano tempi bui.
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14-Morte della Repubblica fiorentina
In quello stesso settembre in cui Niccolò scrive la lettera alla gentildonna, un
gruppo di cittadini fautori dei Medici scende in piazza e chiede la riforma di tutte le
cariche istituzionali: anche l’Ordinanza viene soppressa. Machiavelli è destituito dai
suoi incarichi, lo si obbliga a non mettere più piede a Palazzo Vecchio e a restare per un
anno confinato entro il dominio fiorentino. C’è di peggio, però: viene scoperta una
congiura contro i Medici, a cui pare contribuire lo stesso Machiavelli, che è condotto in
carcere alla fine del 1512. Lì resterà fino al marzo dell’anno successivo, quando, per sua
fortuna, viene eletto papa Giovanni de’ Medici, principale esponente della grande
famiglia fiorentina: come segno di concordia e apertura, il nuovo pontefice concede la
grazia ai propri rivali; anche Machiavelli viene liberato, dopo essersela vista davvero
brutta: in un componimento di encomio a Giuliano de’ Medici (scritto per cattivarsene i
favori) descrive le misere condizioni della sua cella, ma rammenta che la paura
maggiore l’ha provata sentendo i cori per i condannati a morte, tra cui Pietro Paolo
Boscoli e Agostino Capponi, capi della congiura. Qualche mese dopo, uscito dal carcere,
Machiavelli, fatta esperienza della vita in un modo così atroce, dirà in una lettera di non
desiderare più nulla con passione («mi sono acconcio a non desiderare più cosa alcuna
con passione»); lo dice in una missiva a Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino
presso il soglio pontificio; nella medesima lettera afferma che, non sapendo ragionare
«né dell’arte della seta, né dell’arte della lana», è costretto a ragionare dell’unica cosa
che conosce, l’arte dello stato: di questo infatti parlano le numerose missive inviate al
Vettori in quel memorabile, ancorché infausto, anno 1513.
15-In esilio
Machiavelli infatti, non potendo uscire dai territori fiorentini, ma non volendo
restare a Firenze, dove ogni attività gli è preclusa, si ritira in una casa lasciatagli dal
padre a Sant’Andrea in Percussina, presso San Casciano. Qui conduce una vita del tutto
diversa da quella movimentata che aveva contraddistinto il suo operato sino a un anno
prima. È ancora una lettera al Vettori, famosissima, a raccontarcelo: Niccolò dice di
aver passato le ultime settimane a cacciare tordi, pieno di gabbie addosso: «pigliavo el
meno dua, el più sei tordi». Così è passato novembre; poi, anche questo passatempo è
finito; nelle parole di Machiavelli senti la noia di un uomo costretto al riposo forzato,
che non sa bene come far passare il tempo e anche quando questo passa, sente che è
tempo sprecato in attività inutili. Lasciamo per un attimo la parola a lui:
«Dipoi questo badalucco, ancora che dispettoso et strano, è mancato con mio
dispiacere; et qual la vita mia sia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole et vommene
in un mio boscho che io fo tagliare, dove sto dua hore a rivedere l’opere del giorno
passato et a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle
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mane o fra loro o co’ vicini». Lascia il bosco e si reca in un capanno dove legge qualche
poeta volgare o latino, Dante, Petrarca, Tibullo, Ovidio... Legge dei loro amori e ripensa
ai propri, perso nel vagheggiamento di lontani ricordi. Si rimette in strada e va
all’osteria. Diamo di nuovo la parola a Machiavelli: «Trasferiscomi poi in su la strada
nell’hosteria, parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de’ paesi loro, intendo
varie cose et noto varii gusti et diverse fantasie d’huomini. Viene in questo mentre
l’hora del desinare, dove con la mia brigata [famiglia] mi mangio di quelli cibi che
questa povera villa e paululo [piccolissimo] patrimonio comporta. Mangiato che ho,
ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua
fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a trich-trach, e poi
dove nascono mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose; et il più delle volte si
combatte un quattrino, et siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosí,
rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità di
questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne
vergognassi». Con un’immagine altamente suggestiva, Machiavelli ci dice di vivere fino
in fondo l’abiezione di questa vita inutile, perché il destino stesso se ne possa
vergognare.
16-Abiti «curiali»
È la sera, però, che la giornata di Machiavelli prende finalmente una piega diversa;
egli entra nel suo studio e, dimessa la «veste cotidiana, piena di fango et di loto»,
indossa «panni reali et curiali». Prende in mano i suoi libri più amati, si riconduce agli
studi che mai ha abbandonato: entra, dice con un’immagine diventata famosissima,
nelle antiche corti degli antichi uomini, dove viene ricevuto amorevolmente, li interroga
sulle loro azioni e loro con gentilezza rispondono, e può così passare quattro ore di
assoluta felicità, senza pensare agli affanni quotidiani, alla povertà, alla morte: perché
«tucto mi transferisco in loro». Uomo di azione, Machiavelli è però educato al culto
delle lettere, e non dimentica mai l'alta lezione di umanità che da queste proviene.
17-Di cosa parla il «Principe»
Nella chiusa della stessa missiva del dieci dicembre 1513, troviamo anche un
accenno al Principe, che Niccolò aveva probabilmente appena terminato. La necessità,
dice Machiavelli, mi spinge a mandarlo ai Medici: necessità di lavorare, di trovare un
impiego che lo faccia sentire vivo; così si vedrà che i quindici anni passati a servire la
Repubblica, egli non li ha «né dormiti né giuocati». Effettivamente lo scritto
machiavelliano è tutto pieno di una saggezza aspra e sbrigativa: lo stesso Niccolò, nella
dedica a Lorenzo de’ Medici (non il Magnifico, ma un suo meno magnifico nipote),
dichiara di non aver usato quelle ampollosità, quelle formule retoriche ampie e gravi
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che fanno la fortuna di certi trattati; solamente la varietà della materia e l’importanza di
essa possono abbellire il suo Principe. Lo ribadisce anche nel capitolo XV: non
vorrebbe passare per presuntuoso, scrivendo dello Stato in maniera differente da
quanto hanno fatto i teorici che l’hanno preceduto, ma suo intento è più «andare drieto
alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa». Insomma, chi ha scritto
di politica di solito lo ha fatto immaginando situazioni ben lontane dalla realtà,
costruendo ipotesi di «republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti
essere in vero». Il tentativo di Machiavelli è di sbaragliare qualunque costruzione
idealistica e di maniera per andare al cuore della verità: ecco perché il suo principe,
quando serva, deve imparare a poter «essere non buono»: tale fu Cesare Borgia, il
famoso duca Valentino che tanto filo da torcere aveva dato allo stesso Niccolò; averlo
reso protagonista del capitolo VII, è il miglior tributo pagato alla memoria del vecchio
nemico.
18-Circostanze della composizione e struttura
Il Principe fu composto di getto tra l’estate e l’autunno del 1513, quando Machiavelli
si trovava nella sua casa di Sant’Andrea in Percussina. Correzioni e aggiunte
continuarono fino al dicembre dello stesso anno, se si deve dar credito alla famosa
lettera che Machiavelli invia a Francesco Vettori il 10 dicembre («anchor che tuttavolta
io l’ingrasso et ripulisco»). Il trattatello era dedicato inizialmente a Giuliano de’ Medici,
ma dopo la sua morte nel 1516 venne dedicato a Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino. La
vicenda editoriale del Principe, come di quasi tutti i testi machiavelliani, appare
piuttosto travagliata. Conosciuto in forma manoscritta già a partire dal 1517, fu
stampato postumo solo nel 1532, in un volume di opere del Segretario. È un insieme di
26 brevi capitoletti sul governo monarchico (i Discorsi si occuperanno più
specificatamente di quello repubblicano); tema dell’opera è il mantenimento o la
conquista dello Stato da parte del principe, come già indicato nella lettera al Vettori:
«che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si
mantengono, perché e’ si perdono». Si tratta insomma di verificare, fuori da qualunque
tipo di idealismo, le dinamiche per cui si può conquistare o perdere il potere, e come
difendere e mantenere i territori dello Stato. La necessità di un tale tipo d’indagine
nasceva in Machiavelli dalla desolata presa d’atto dell'intrinseca debolezza degli Stati
italiani all’alba del XVI secolo.
Benché Machiavelli non abbia immaginato partizioni interne all’opera, il Principe
può essere suddiviso in quattro parti; nella prima (capp. I-XI), sono presi in esame i
vari tipi di principato: ereditari, misti, nuovi, civili, ecclesiastici; nella seconda (capp.
XII-XXIV) si affrontano i punti di forza e i punti di debolezza di un principato, con
speciale riguardo alla «virtù» del principe e all’uso dell'esercito. Il capitolo XXV si
occupa della «fortuna»; il XXVI infine, staccandosi dallo stile asciutto sin lì adottato, si
apre a considerazioni di carattere idealistico, con l’esortazione a liberare l’Italia dagli
eserciti stranieri.
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La grande novità del Principe consiste nel desiderio di fornire regole certe all’agire
politico, con un atteggiamento per così dire “scientifico”. Già nella dedica a Lorenzo de’
Medici, del resto, Machiavelli sostiene di aver imparato a conoscere gli uomini grazie a
una «lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique»,
ovvero al suo tirocinio nella politica attiva e alla lettura di testi degli storici latini e
greci. Per Machiavelli infatti il nocciolo delle azioni umane non muta mai, essendo
costituito da tratti comuni e invariabili. Possono cambiare le circostanze esterne, ma
non cambia mai il modo in cui l’uomo le affronta: è così possibile, per il principe,
prevedere come si comporterà questo o quel protagonista della scena politica e
prendere adeguate contromisure. Lungo i 26 capitoli dell’opera, alle prese con i diversi
problemi che intende analizzare, Machiavelli affianca esempi moderni e antichi, per
ricavarne un regola semplice ed efficace che compendi in una sintesi chiara il sugo del
suo ragionamento. Nel capitolo III, dedicato ai «principati misti», dopo aver preso in
esame quello che fecero i Romani nelle regioni conquistate, Machiavelli passa a
verificare il comportamento tenuto da Luigi XII re di Francia nel momento di scendere
in Italia, terminando con una «regola generale» ovvero che «chi è cagione che uno
diventi potente, rovina; perché quella potenzia è causata da colui o con industria o con
forza, e l'una e l'altra di queste due è sospetta a chi è diventato potente».
Del resto, forza, audacia e spregiudicatezza sono caratteristiche fondamentali per il
buon principe delineato da Machiavelli. Questi deve, se può, essere generoso; ma dal
momento che essere generosi costa caro, è meglio essere parsimoniosi; così, non si
dilapideranno i beni dello Stato (cap. XVI). Inoltre dovrà essere pietoso, ma
all’occorrenza anche crudele; al punto che, di fronte al dilemma se sia meglio per un
principe essere amato o temuto, Machiavelli non esita a optare per la seconda
soluzione, perché gli uomini sono volubili e se desiderano ribellarsi al dominio,
colpiranno più volentieri quel principe che si sia dimostrato amorevole; infatti l’amore
è sorretto da un vincolo di riconoscenza che si può facilmente tradire, laddove il timore,
fondandosi sulla paura di venire puniti, non abbandona mai i sudditi (cap. XVII).
Ancora: il principe deve essere leale, ma può, quando occorra, tradire la parola data. E
se le leggi che si è dato, e che ha dato al proprio Stato, non bastano a conservarlo, può
ricorrere alla forza, tipica delle bestie. Deve insomma essere uomo e animale insieme;
e, «dovendo usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe (volpe) e il lione (leone);
perché il lione non si defende da' lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna dunque
essere golpe a consocere e’ lacci e lione a sbigottire e’ lupi»: l’astuzia della volpe e la
forza del leone possono aver ragione di ogni nemico.
Insomma, il buon principe non è colui che si attiene a in ogni circostanza a quei
comportamenti virtuosi teorizzati dai trattatisti dei secoli precedenti, ma chi
intraprende con lucidità e fermezza le azioni richieste dalle diverse contingenze. In
questo si compendia la «virtù» dell’abile politico, ovvero appunto la capacità di leggere
ogni situazione e adottare quelle misure in grado di sottomettere la «fortuna», cioè le
avversità impreviste del caso. «Virtù» e «fortuna» sono due termini fondamentali del
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lessico politico machiavelliano, di cui si discute soprattutto nel penultimi capitolo del
Principe. Non è semplice definirli: il concetto di «virtù» può essere accostato alla virtus
romana, e compendia intuito, volontà, capacità strategiche e militari; «fortuna»,
invece, indica le circostanze esterne, che, dominate spesso da casualità e
indeterminatezza, possono compromettere l’azione dell’uomo. L’abilità del principe
consiste allora nel sottomettere la fortuna alla virtù, in modo da guidare e controllare
sempre l’andamento degli eventi.
Del tutto peculiare è la lingua del Principe. Già nella lettera proemiale Machiavelli
dichiara di aver voluto evitare uno stile ampolloso: «la quale opera io non ho ornata né
ripiena di clausule ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro
lenocinio o ornamento estrinseco con li quali molti sogliono le loro cose descrivere e
ornare». Lo stile del Principe è asciutto: ogni circonlocuzione, ogni giro ampio di frase
è evitato a favore di una scrittura secca e precisa, dove a prevalere dev’essere la
chiarezza espositiva, la limpidezza di un ragionamento che non ammette scarti o
deviazioni. Non è inusuale che, come nel linguaggio scientifico, Machiavelli proponga
per ogni caso due soluzioni possibili: le frasi si dispongono così in coppie oppostive
rette dalla congiunzione “o”. Si veda questo esempio, sempre dal capitolo III: «Dico
pertanto, che questi stati, quali acquistandosi si aggiungono a uno stato antiquo di
quello che acquista, o e’ sono della medesima provincia e della medesima lingua, o non
sono». Una sintassi di questo tipo (che peraltro non fa quasi mai ricorso alle
subordinate) non ammette sfumature, escludendo le possibilità intermedie: in tal modo
l’opera diventa specchio della concitata e drammatica situazione politica della penisola
nel primo scorcio del Cinquecento.
19-La «Mandragola»
La fatica del Principe, tuttavia, passa in fretta; per non dovere annoiarsi
ulteriormente Machiavelli affronta altre fatiche letterarie, come quella, non nuova in
realtà, di scrivere una commedia. Si tratta della Mandragola, una delle più riuscite
prove teatrali del nostro Rinascimento: ne sono protagonisti un vecchio sciocco, un
giovane piacente, un servo furbo e un frate corrotto. Il giovane Callimaco vuole avere
una storia d’amore con Lucrezia, moglie dello stupido Nicia e organizza, aiutato dal
servo Ligurio e da fra’ Timoteo, una beffa ai suoi danni: la riuscita di questa sarà
completa, tanto da fargli conquistare l’amore della donna. Nel prologo alla Mandragola
Machiavelli intreccia l’argomento della commedia alle vicissitudini personali: dichiara
di essere stato costretto a scrivere di faccende così pruriginose per rendere meno
pesante il suo esilio dalla vita attiva: «scusatelo con questo», dice rivolgendosi agli
eventuali spettatori, «che s’ingegna/con questi van pensieri fare el suo tristo tempo più
suave». Non sa infatti come arrabattarsi per passare il tempo e buscare qualche soldo,
dal momento che tutti lo hanno allontanato: «perché altrove non have dove voltare el
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viso,/ché gli è stato interciso/mostrar con altre/imprese altra virtùe,/non sendo premio
alle fatiche sue».
20-L’«Asino»
Questo sconsolato sarcasmo lo ritroviamo anche in un poemetto in terzine, L’asino,
steso sempre, almeno nella sua prima forma, negli anni dell’esilio dalle cariche
pubbliche. In terzine perché, trattandosi di un testo allegorico, Machiavelli riprende il
metro della Commedia dantesca. Protagonista è infatti lo stesso Niccolò che viene
invitato da un’ancella di Circe a visitarne i serragli, dove vivono uomini trasformati in
bestie. Il poemetto, rimasto incompiuto, si conclude con le parole di un porco che esalta
la condizione animale a tutto scapito di quella umana, con parole amare sul “furore”
che contraddistingue la nostra specie: «Nessun altro animal si truova ch’abbia/più
fragil vita, e di viver più voglia, più confuso timore o maggior rabbia./Non dà l’un porco
a l’altro porco doglia, l’un cervo a l’altro: solamente l’uomo/l’altr’uom ammazza,
crocifigge e spoglia». Nel frattempo, l’obiettivo che Machiavelli si era dato attraverso la
stesura del Principe, ovvero di suscitare interesse presso i Medici, segnatamente
Lorenzo, sì da poter essere richiamato al lavoro, viene meno: quel giovane signore non
ha affatto interesse verso la pratica dello stato accumulata da Niccolò in tanti anni di
onorata carriera. Machiavelli è deluso: nella dedica ai Discorsi sopra la prima Deca di
Tito Livio, altra grande opera di questo periodo, dice di volerla indirizzare non tanto a
un principe quanto agli amici Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, gli unici che,
potendolo, vorrebbero dargli onori e cariche.
21-Imparare dalla storia: i «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio»
I Discorsi nascono come una specie di commento all’opera dello storico latino Tito
Livio: più ancora che in altre opere di Machiavelli, qui spira potente la lezione della
storia, di cui l’autore fa tesoro non tanto per indagare la nascita e lo sviluppo di un
principato assoluto (come nel Principe), quanto delle istituzioni repubblicane. Il
modello latino serve a Machiavelli per individuare le cause della decadenza presente, lo
scarto tra la corruzione dei propri tempi e l’integro funzionamento degli ordini civili
nella Roma repubblicana. I Discorsi sono un’opera meno affascinante dell’impetuoso
Principe, ma non per questo meno meditata; anzi, vi si riscontra un idealismo più
marcato che nell’operetta sui principati, quasi che Machiavelli, ragionando di istituzioni
che conosce bene e per le quali ha operato e combattuto, si faccia trascinare dalla
memoria di età trascorse e gradite. Inoltre, come nella missiva al Vettori, si avverte
costantemente l’amore per la latinità e il desiderio di confrontarsi con l’epoca antica.
L’idea (già espressa nel Principe) che l’uomo, nei suoi comportamenti essenziali, sia
immutabile, torna anche nei Discorsi. Tale concetto, anzi, è espresso con ancor
maggiore convinzione rispetto al Principe, poiché Machiavelli ritiene che i Romani,
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nella loro storia, abbiano espresso le migliori strutture repubblicane. Quindi esse vanno
studiate non per generico amore del passato, ma per assumerne gli insegnamenti e gli
esempi. Nel Proemio, Machiavelli parte dalla constatazione che i contemporanei
faticano, nell’ambito della politica, a rifarsi agli esempi degli antichi, mentre in altri
campi tale resistenza è del tutto assente (egli pensa soprattutto all’antiquaria):
«Nondimanco, nello ordinare le repubbliche, nel mantenere li stati, nel governare e’
regni, nello ordinare la milizia, ed amministrare la guerra, nel iudicare e’ sudditi, nello
accrescere l’imperio, non si trova principe né repubblica che agli esempli antiqui
ricorra». È dunque per mostrare la bontà di tali esempi che Machiavelli si è accinto
all’opera.
I Discorsi vennero composti con tutta probabilità tra il 1515 e il 1517, nel periodo
dell’esilio volontario a San Casciano, e furono influenzati dagli incontri e dalle
discussioni degli Orti Oricellari. Non a caso tra i dedicatari figura Cosimo Rucellai, il
principale animatore del circolo. La materia è suddivisa in 142 brevi capitoli, a loro
volta raccolti in 3 libri. Rispetto al Principe, i Discorsi hanno una struttura più
frammentaria e rapsodica. Non si tratta di un commento organico al testo di Livio,
bensì di una riflessione autonoma sulle forme dello stato a partire dalle suggestioni
fornite dall’originale latino. Al solito ciò che più interessa Machiavelli sono i pericoli cui
lo stato repubblicano è esposto e i modi in cui esso può mantenersi, non senza un’acuta
indagine sulle forme della convivenza civile, che arriva a scandagliare il ruolo della
religione, dei rapporti tra i diversi ceti sociali, della guerra e dell’organizzazione degli
eserciti. La differenze strutturali tra Principe e Discorsi hanno una ricaduta anche sul
piano dello stile: se nel Principe era più drammatico e conciso, qua si fa più ampio e
composto e il giro della frase assume l’andamento ragionativo dell’analisi problematica.
22-La brigata degli Orti Oricellari
Ma c’è anche altro. A partire dal 1517, Machiavelli aveva cominciato a frequentare, a
Firenze, un circolo di giovani aristocratici che si riunivano nel giardino di casa Rucellai,
chiamato Orti Oricellari. Il vecchio padrone, Bernardo Rucellai, era morto da poco, e a
reggere le sorti della famiglia era subentrato ora Cosimo, lo stesso a cui Machiavelli
dedica i Discorsi. Accanto a lui e ad altri giovani di buona famiglia, frequentavano gli
Orti parecchi intellettuali, come Zanobi Buondelmonti (l’altro dedicatario dei Discorsi),
lo storico Jacopo Nardi, il poeta Luigi Alamanni e il filosofo Francesco da Diacceto. È
proprio perché incalzato da quegli incontri e da quelle discussioni, dove egli poteva
riordinare le idee sull’arte dello stato, che Machiavelli compone i Discorsi e l’Arte della
guerra, un dialogo in cui, ancora una volta, riversa l’esperienza della vita temprata
dallo studio degli antichi testi. Scopo dell’opera è di mostrare quali siano i modi
migliori per difendere militarmente lo stato. Difendere e non offendere, giacché
Machiavelli sa bene che la guerra è detestabile e rovinosa. Tuttavia, come direbbe lo
stesso Segretario, è necessario per uno stato saper bene salvaguardare i propri confini
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per non cadere ai primi colpi dell’esercito nemico. Naturalmente la stesura di questo
testo era anche un modo per rispondere, molti anni dopo, alle accuse sulla disfatta
dell’Ordinanza nella sconfitta di Prato per opera degli spagnoli ed anzi per riprendere
con matura convinzione quell’idea, ricusando nel medesimo tempo la corruzione e
l’indisciplina delle milizie mercenarie. Fabrizio Colonna, il protagonista del dialogo,
discute con competenza ogni aspetto dell’arte militare, consapevole, tuttavia, che un
buon esercito deve essere formato da buoni soldati, e che buoni soldati si hanno solo
con una riforma radicale delle istituzioni politiche. Qualche studioso ha rilevato come la
disillusione machiavelliana circa la bontà degli ordini militari, trasparirebbe sin dal
titolo, dove “arte” significa non solo tecnica del guerreggiare, ma anche “mestiere”,
quasi che fosse divenuto possibile impugnare le armi non per difendere lo Stato
all’occorrenza, ma per farne un vero e proprio lavoro retribuito, indipendentemente
dall’appartenenza a una città o a una patria.
23-Di nuovo al servizio dei Medici
La tensione ideale che spira da questo testo conferma ancor più il ritratto di un
Machiavelli che non arretra di fronte al vagheggiamento di grandi imprese, a dispetto
della concretezza e degli stringenti, realistici ragionamenti di cui è intessuta tutta la sua
opera. Ma se pensiamo alla conclusione del Principe, con l’esortazione a liberare l’Italia
dal dominio straniero, al rimpianto, nei Discorsi, per le antiche istituzioni
repubblicane, al desiderio costante, ribadito nell’Arte della guerra, di dotare Firenze di
una milizia ordinaria che la potesse difendere dagli attacchi esterni, se pensiamo a tutto
questo, allora capiremo perché Niccolò, nonostante le brucianti delusioni di tutta una
vita, abbia sempre trovato la forza per rialzarsi e rimettersi al lavoro: non aveva altro
desiderio che quello di servire la propria città; la politica era il suo ambiente naturale,
altro non sapeva fare, e lo voleva fare al meglio, fuori da piccinerie e meschinità,
immerso tutto nella prospettiva di un futuro che sperava migliore di questo presente, a
suo giudizio imperfetto e mediocre. Ecco perché, non appena gliene viene offerta
l’occasione, si rimette al servizio dei Medici: dapprima deve sbrigare alcune faccende di
poco conto, come risolvere beghe tra mercanti; poi, nel novembre del 1520, il cardinale
Giulio gli affida un incarico di prestigio: scrivere una storia di Firenze, come avevano
fatto nel passato umanisti del calibro di Poggio Bracciolini o Leonardo Bruni. Niccolò
avrebbe voluto forse calarsi nuovamente nella politica attiva, ma dopo tanti anni di
inerzia la stesura di quelle che diventeranno le Istorie fiorentine era pur sempre
un’occasione da cogliere al volo.
24-Gli amori…
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Nel 1525 l’opera è pronta, e Machiavelli può presentarla al papa, ovvero lo stesso
cardinale Giulio, nel frattempo salito al soglio pontificio con il nome di Clemente VII. È
l’ultima grande opera di Niccolò, che ha ormai più di cinquant’anni, e non rinuncia,
nonostante l’età, alle piccole missioni in giro per l’Italia che la sorte sapeva ancora
offrirgli: in una di queste ha modo di approfondire l’amicizia con Francesco
Guicciardini, l’altro grande scrittore politico del Rinascimento, su cui tra breve avremo
modo di tornare. L’altra passione a cui Niccolò non rinuncia sono le donne. Doppiato
da un pezzo il “mezzo del cammin” della vita, Machiavelli sembra accendersi d’amore
per Barbara Raffacani, una gentildonna, cantante e cortigiana, che frequentava la casa
del Fornaciaio, un nobile fiorentino di cui Niccolò era spesso ospite. Che l’infatuazione
si trasformasse in relazione vera e propria è lo stesso epistolario di Machiavelli a
rivelarcelo, come quando, in data 15 marzo 1526, si rivolge a Francesco Guicciardini
chiedendo dei favori per Barbara: «dove voi gli possiate far piacere, io ve la
raccomando, perché la mi dà molto più da pensare che lo inperadore». Insieme, però,
Niccolò si lascia avvincere anche dalle grazie della popolana Maliscotta, che aveva
conosciuto a Faenza, ancora una volta in un’ambasceria presso il Guicciardini. Non
dobbiamo stupirci degli “amorazzi senili” di Niccolò, che ha sempre avuto un debole
per il fascino femminile: ora sono la Raffacani e la Maliscotta, in passato erano state la
Riccia, una cortigiana fiorentina, e una tal Jeanne, conosciuta in una delle missioni in
Francia. A casa, poi, c’era sempre la povera Marietta ad aspettarlo, tanto che l’amico
Filippo de’ Nerli dovrà lamentarsi con Francesco del Nero dei comportamenti
passionali di Machiavelli, uno che, in fin dei conti, era padre di famiglia. Ma forse anche
la passione per le donne era segno della grande vitalità di Niccolò, che nell’ultimissima
parte della sua vita di nuovo si trova impegnato in missioni di un certo riguardo.
25-… e la politica
La politica delle grandi potenze europee, infatti, continua ad avere come epicentro
l’Italia. Un nuovo grande sovrano si staglia all’orizzonte: l’imperatore Carlo V, di cui,
com’è noto, si dirà che sul suo impero non tramonta mai il sole: riuniva infatti sul suo
capo, per una serie di circostanze fortuite, la corona imperiale e la corona di re di
Spagna. Carlo V si pone come il nuovo paladino della cristianità e decide di
riconquistare all’impero tutte quelle terre che giudicava illegittimamente tenute da altri
sovrani: tra queste il ducato di Milano su cui governava il re di Francia Francesco I, che
in un grande battaglia combattuta a Pavia viene catturato e fatto prigioniero. Tutti i
territori contesi passano all’impero; in cambio, con il trattato di Madrid del 1526,
Francesco I riacquista la libertà, ma anziché onorare l’accordo, riesce a creare
un’alleanza anti-imperiale, la cosiddetta Lega di Cognac, con papato, Firenze e Venezia.
Machiavelli è chiamato a redigere progetti per rafforzare le mura di Firenze, viene
mandato da Francesco Guicciardini, plenipotenziario papale, in missione presso le
varie potenze coinvolte: egli è di nuovo nel pieno delle sue forze e dell’attività che tanto
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ama. Le cose tuttavia non volgono al meglio: le truppe imperiali, oltre a essere molto
numerose, sono ben addestrate. L’unico problema è, dopo Pavia, la difficoltà di
equipaggiarle e pagarle a dovere, ma anche questa difficoltà si trasforma in un’arma
potentissima: i soldati, malnutriti e stanchi, vengono condotti dai loro capitani verso
Roma, capitale (per loro protestanti) della cristianità infida: è il cosiddetto sacco di
Roma, ovvero il saccheggio della città, nel maggio del 1527.
26-Francesco Guicciardini
Francesco Guicciardini, cui qua e là abbiamo accennato, è un alto esponente della
politica fiorentina, ora al servizio di Clemente VII. È proprio in questi anni difficili che
Machiavelli rinsalda l’amicizia con lui, nonostante le differenze nel carattere e nella
storia famigliare. Figlio di Piero, importante esponente della parte ottimatizia oltre che
amico e discepolo di Marsilio Ficino, Guicciardini viene subito avviato agli studi
giuridici e poi alla professione avvocatesca: una professione che gli frutterà anche un
certo agio economico, se in alcuni appunti autobiografici potrà dire di avere avuto «più
condizione assai che non si aspettava all’età mia». Dopo il matrimonio con la figlia di
Alamanno Salviati, anch’egli esponente di spicco della parte aristocratica, comincia per
Guicciardini la carriera politica. È del 1511 l’incarico più importante offertogli dalla
Repubblica fiorentina: l’ambasceria presso Ferdinando il Cattolico; si tratta di
verificare le reali intenzioni del re di Spagna rispetto alla coalizione che il papa vuole
mettere in piedi contro Luigi XII di Francia; mentre Guicciardini è in Spagna,
Machiavelli è in Francia: i due più importanti scrittori politici del nostro Rinascimento,
insomma, verificano sul campo la tenuta e la reale applicabilità delle loro idee sullo
stato e sulla dialettica del potere tra le grandi nazioni europee. È questo il sentimento
che per esempio informa il Discorso di Logrogno, uno dei testi politici più interessanti
del Guicciardini, composto appunto in Spagna nel 1512 con l’intenzione di discutere la
forma di governo migliore per Firenze, avendo tuttavia ben presente uno scacchiere
europeo dal quale è ormai impossibile prescindere, dal momento che proprio la politica
delle grandi potenze influenza le vicende interne delle città italiane. La riprova se ne ha
allo scadere di quello stesso 1512, con la caduta della Repubblica fiorentina e il ritorno
dei Medici: la proposta, avanzata da Guicciardini proprio nel Discorso di Logrogno, di
una costituzione mista, che contemperi potere monarchico (gonfaloniere), oligarchico
(Senato) e democratico (Consiglio maggiore) appare drammaticamente superata dai
fatti.
27-Coincidenze della vita
Se l’ambizione di procurare il bene alla propria città accomuna emblematicamente
Niccolò e Francesco, anche le vicende biografiche hanno tratti simili. L'arrivo dei
Medici compromette la carriera di Francesco, che può tornare alla politica attiva solo
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nel 1516, e solo al servizio del papa (è del resto quello che sperava, e che in qualche
modo ottenne, lo stesso Machiavelli). Prima sotto la protezione di Leone X e poi di
Clemente VII, peraltro appartenenti alla famiglia Medici, Guicciardini ottiene
importanti incarichi, come il governatorato di Modena prima e la presidenza della
Romagna poi. Tra il ‘21 e il ‘26, nel pieno di avvenimenti drammatici per l’Italia,
Guicciardini scrive il Dialogo del reggimento di Firenze, dove riprende, in maniera più
articolata, i princìpi enunciati nel Discorso di Logrogno: l’importanza assunta, nella
vita politica fiorentina e italiana, dalla famiglia dei Medici, rendeva quella riflessione
sulla repubblica ormai del tutto inapplicabile; quello che però interessa a Guicciardini è
realizzare un discorso teorico ampio e ben saldo, ragione per cui tornerà a più riprese
sul testo, procurandone due redazioni successive e riscrivendo addirittura tre volte il
proemio.
28-La storia ritorna
Il 18 maggio 1521, Guicciardini scrive una lettera a Machiavelli, in cui si compiace
del suo nuovo incarico di storiografo fiorentino, senza tuttavia dimenticare che in altri
tempi l’amico aveva ricoperto incarichi di ben più alto prestigio nell’ambito della
politica attiva. La missiva è importante perché ci mostra il sentimento di stima che
univa i due, oltre ad un approccio simile agli insegnamenti della storia. Quando io
considero, scrive Guicciardini all’amico, «con quanti Re, Duchi et Principi, voi havete
altre volte negociato», mi viene in mentre Lisandro, il famoso condottiero spartano, a
cui spettava di distribuire il rancio a quegli stesso soldati che aveva appena comandato.
Se ne può dedurre, seguita Guicciardini, che mutati solo i visi degli uomini, tutte le cose
nel corso dei secoli ritornano, «et però è buona et utile la hystoria, perché ti mecte
innanzi et ti fa riconoscere et rivedere quello che mai non havevi conosciuto né
veduto». Lo stesso concetto Guicciardini esprime quasi in identica forma in uno dei
Ricordi: «Tutto quello che è stato per el passato e è al presente, sarà ancora in futuro:
ma si mutano e nomi e le superficie delle cose, in modo che chi non ha buono occhio
non le riconosce, né sa pigliare regola o fare giudicio per mezzo di quella osservazione».
29-Qualche idea comune
I Ricordi sono l’opera forse più nota di Guicciardini: una serie di massime di
carattere morale e politico, distillate dalla sua enorme esperienza mondana (non a caso
egli continuò a limare ed accrescere il suo libretto nel corso di oltre un ventennio). Qui,
tra le altre, si trova una massima che non avrebbe stonato nemmeno in bocca a Niccolò:
«Tre cose desidero vedere innanzi alla morte: uno vivere di republica bene ordinato
nella città nostra, Italia liberata da tutti e’ barbari e liberato el mondo dalla tirannide di
questi scelerati preti». In quanto ai preti, Francesco e Niccolò avevano idee simili e
piuttosto severe... La forma repubblicana era quella in cui erano nati, avevano
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cominciato a muovere i primi passi da politici e che rimpiangeranno per tutta la vita.
Infine, il desiderio di vedere il suolo della penisola finalmente libero dagli eserciti
stranieri, doveva scontrarsi con la debolezza costitutiva della miriade di stati e staterelli
italiani, soprattutto in quel drammatico giro di anni che va dal 1525 al 1527.
30-Il sogno di Niccolò
Abbiamo detto prima del sacco di Roma: a Firenze, con la sconfitta della Lega e
delle truppe papali, le cose naturalmente si mettono male. Già nell’aprile c’è una
sollevazione contro i Medici: nel maggio vengono definitivamente scacciati ed è
restaurata la Repubblica. Molti si aspettano che Machiavelli venga di nuovo nominato
segretario, se lo aspetta lui stesso; molti altri, tuttavia, non hanno mai potuto
sopportarlo, perché non è aristocratico, perché nell’ultima parte della sua carriera ha
servito Clemente VII e i Medici, perché si dice che sia un uomo senza Dio, eretico e
malvagio... Insomma, com’è prevedibile, ancora una volta Niccolò viene messo ai
margini. Questa volta, però, non ha molto tempo per dolersene: il 10 giugno, avendo
contratto qualche infezione, si ammala di peritonite. Il 21 giugno muore e il giorno
seguente viene sepolto in Santa Croce. Negli ultimi giorni di vita pare che raccontasse
agli amici un sogno, divenuto noto come il “sogno di Machiavelli”: nel sogno Niccolò
vede un gruppo di persone lacere e tristi; chiede chi siano e loro rispondono di essere i
beati del Paradiso; vede un’altra schiera di uomini, dall’aspetto solenne e dagli abiti
nobili; tra essi vi sono grandi filosofi e pensatori dell’antichità, come Platone e Plutarco;
alla domanda sulla loro identità gli viene risposto che sono i dannati dell’inferno. Così,
conclude Machiavelli, è meglio andare all’inferno per parlare con quei grandi, che finire
in paradiso ad annoiarsi mortalmente. E davvero per lunghi secoli, le opere di
Machiavelli sono state relegate negli inferni delle biblioteche come testi terribili e
malvagi, scritti da un uomo che voleva sovvertire le buone regole della politica, e che
invece provava solo a salvaguardare, con l’audacia del pensiero, i destini della propria
città e dell’Italia intera.
Cronologia
1469: Niccolò nasce a Firenze da Bernardo di Niccolò e Bartolomea de’ Nelli.
1476-1480: intraprende gli studi di grammatica e, subito dopo, quelli di abaco.
1481: segue presso lo Studio di Firenze le lezioni del grammatico Paolo Sasso da
Ronciglione.
1494: dopo la cacciata dei Medici e l’instaurazione di una repubblica ispirata ai
principi religiosi di Gerolamo Savonarola, Machiavelli si avvicina al partito
antisavonaroliano.
1498: in giugno entra nella Seconda Cancelleria della Repubblica e, in luglio, viene
nominato segretario dei Dieci di Libertà e Pace.
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1499: segue l’assedio di Pisa, città persa da Firenze durante la discesa in Italia di
Carlo VIII.
1500: viene inviato in missione in Francia insieme a Francesco Della Casa per
discutere al cospetto del re Luigi XII lo scarso impegno mostrato dalle truppe
francesi nell’assedio di Pisa.
1501: al ritorno a Firenze compone il discorso De natura gallorum. In autunno si
sposa con Marietta di Luigi Corsini, avendone sette figli: Primerana, Bernardo,
Lodovico, Guido, Piero, Baccina, Totto.
1502: segue l’ambasciatore fiorentino Francesco Soderini a Urbino in missione
presso Cesare Borgia, detto duca del Valentino. Lo scopo è quello di penetrare le
intenzioni del duca, che sta silenziosamente effettuando un accerchiamento dei
territori fiorentini. Machiavelli ne resterà fortemente impressionato, tanto da
rendere il Valentino, anni dopo, protagonista di un’importante capitolo
del Principe.
1503: scrive il discorso Parole da dirle sopra la provisione del danaio, centrato
sulla necessità di trovare finanziamenti per la ripresa della guerra contro Pisa. Va a
Roma in occasione del conclave pontificio dal quale uscirà papa il cardinale della
Rovere (Giulio II).
1504: di fronte allo strapotere spagnolo nel regno di Napoli, Firenze invia di nuovo
Machiavelli in Francia per chiedere l’aiuto dei francesi.
1505: sono di questo periodo i primi tentativi teorici di dotare Firenze di armi
proprie attraverso l’istituzione della milizia.
1507: viene nominato cancelliere dei Nove ufficiali della Milizia fiorentina.
1508: vincendo le resistenze aristocratiche viene inviato in missione presso
l’imperatore Massimiliano I, che minacciava di scendere in Italia e regolare con
Firenze antiche questioni di denaro. Ne nasceranno il Discorso sopra le cose della
Magna e il Ritracto delle cose della Magna.
1509: si impegna nell'addestramento della milizia e parte alla riconquista di Pisa,
che cade nel giugno.
1510: prevedendo uno scontro tra il papato e la Francia, Firenze invia Machiavelli
in Francia nel tentativo di scongiurare la guerra.
1511: nuova missione in Francia per scongiurare il tentativo di un concilio in
funzione antipapale da tenersi a Pisa. Machiavelli ne ottiene il rinvio.
1512: il cardinale Giovanni de’ Medici, con l’aiuto dell'esercito papale e di quello
spagnolo, entra a Firenze. Il gonfaloniere della repubblica Pier Soderini è costretto a
fuggire. Nel settembre i Medici riprendono il potere. A novembre Machiavelli viene
destituito dai suoi incarichi politici.
1513: è sospettato di coinvolgimento in una congiura antimedicea: viene arrestato e
torturato. Viene successivamente confinato, poi, scoperto innocente, viene
amnistiato. Si ritira all’Albergaccio, un suo podere a Sant’Andrea in Percussina,
presso San Casciano. Risalgono a questo periodo il poemetto Decennale secondo (il
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primo era stato composto all’epoca della prima missione francese) e
il Principe (edito postumo nel 1532). Intrattiene una fitta corrispondenza epistolare
con Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino a Roma.
1515: frequenta gli Orti Oricellari a Firenze e lavora ai Discorsi sopra la prima
Deca di Tito Livio (apparsi postumi nel 1531).
1517-1520: cura gli interessi di alcuni mercanti fiorentini coinvolti in un’istanza di
fallimento. Scrive il poemetto L’asino, la Favola (altrimenti chiamata Novella di
Belfagor), la commedia Mandragola e L’arte della guerra (edita Firenze nel 1521).
1520: i Medici paiono meno sospettosi nei confronti di Machiavelli. A ciò si deve
l’incarico e la somma stanziata dallo Studio fiorentino per la composizione
di annalia sulla storia fiorentina. Machiavelli è così storiografo della signoria: scrive
le Istorie fiorentine, terminate nel 1525 e apparse postume a Roma nel 1532.
1521: a Carpi , dove è in missione presso il Capitolo dei Frati Minori, stringe
amicizia con Francesco Guicciardini.
1525: a Roma presenta al nuovo papa Clemente VII (Giulio de’ Medici) le Istorie
fiorentine. Lo stesso papa lo invia in Romagna per allestire una milizia antiimperiale. Continua l'amicizia con Guicciardini, nel frattempo diventato presidente
delle Romagne.
1526: deciso a rafforzare le mura di Firenze, il papa nomina Machiavelli cancelliere
dei Procuratori delle Mura.
1527: i soldati imperiali entrano in Roma e la saccheggiano. È il cosiddetto “sacco di
Roma”. Machiavelli muore il 21 giugno a Firenze.
Nicola Bonazzi
(università di Bologna)
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