IL CASO NARDINI (sedici anni dopo) 1 Prefazione Sono passati sedici anni, sedici lunghi anni dall’inizio della mia vicenda, eppure sembra solo ieri. Che siano passati tutti questi anni me ne rendo conto solo quando guardo mio figlio Daniele che, all’epoca della vicenda, doveva nascere a giorni. Accadeva di frequente che qualcuno mi fermasse per strada chiedendomi di come si andata a finire la mia storia, altri mi chiedevano dove poter acquistare il libro che feci pubblicare nel 2000, per questi motivi decisi di fare una ristampa del libro e di rimettermi all’opera per scrivere un altro libro, per poter fugare i dubbi e poter appagare la curiosità di coloro che, a favore o contro, seguirono la mia vicenda. Giuseppe Nardini 2 Il rientro in fabbrica Al rientro nel mio primo giorno di lavoro alla ILAS, dopo nove anni di lotta, aprii la porta del locale adibito a spogliatoio ed entrai. Accesi la luce perché era buio, sul soffitto basso l’impronta della suola della mia scarpa c’era ancora, come me aveva resistito: mi sentivo forte, vincitore ed avevo una forte voglia di rivalsa…….. per la prima volta provavo un sentimento di odio e di rancore. Quello che era stato il mio armadietto era stato ora occupato da Ulisse, l’operaio che abitava nell’appartamento posto sopra gli uffici. Quell’uomo, che più di una volta era stato chiamato dall’azienda a testimoniare contro di me, non avrebbe dovuto! Aprii istintivamente lo sportello, essendo senza lucchetto non oppose nessuna resistenza, nella parte interna dello stesso campeggiava un grosso manifesto di Benito Mussolini a cavallo. Non riuscivo a capire se quel palmo della mano, teso verso di me, mi faceva il saluto romano o mi imponeva di fermarmi. La porta dello spogliatoio si aprii ed entrò Di Cesare, il direttore: “Buon giorno” mi disse con aria sicura. “Buon giorno a lei” risposi sorridendo. Il ghiaccio era rotto, l’odio ed il rancore erano svaniti nel nulla, quasi per incanto, ed io avevo riacquistato il controllo dei miei nervi, sapevo perfettamente che il reinserimento in quell’ambiente non sarebbe stato facile. Riprese a parlare Di Cesare: “Voglio dirti che non è successo niente, si ricomincia tutto da capo, va bene?”. Come potevo rispondergli di sì, come potevo dimenticare nove anni vissuti tra gli stenti, come potevo dimenticare le lacrime di mia moglie e le rinunzie delle mie figlie! I miei 3 occhi a questi ricordi si erano inumiditi per la commozione, lo guardai fisso negli occhi e gli risposi: “Dipende da voi, adesso mi conoscete bene ed io conosco voi!”. L’ingresso d alcuni colleghi operai spezzò, fortunatamente, l’atmosfera che si era creata. Strette di mano ed abbracci non fugarono i miei dubbi: era troppo facile adesso! La linea di patentamento era ferma ed io mi occupai insieme a Colella della pulizia della vasca del bonder. “Lo sai che adesso per lo smaltimento dell’acido di scarto lo vengono a prendere con le cisterne?” “Lo so Gabriele, ma così gli viene a costare parecchio, mi chiedo perché, visto che abbiamo un impianto di depurazione” “Giusè, sta arrivando il Professore!” Guardai con la coda dell’occhio, era livido in volto e aveva le labbra serrate, non era un buon segno. Uscii dalla vasca dove stavo lavorando, presi per i manici la carriola piena di materiale ed andai a scaricarla. Al mio ritorno erano tutti intorno a Cracchiolo “Il Professore” e discutevano su di una modifica da apportare alla vasca per migliorare il patentamento dei fili metallici. Rientrai nella vasca e ricominciai a lavorare con il badile. Avevano finito di discutere e Gabriele tornò da me: “Hai sentito?” “Sì, ma quello che vogliono fare non va bene. L’innalzamento della temperatura aumenterà le calcificazioni e sarà impossibile pulire i radiatori” “Come si potrebbe fare, allora?” “Si possono isolare i radiatori con una lamiera di acciaio inox. Il calore si propagherà ugualmente, ma gli elementi non saranno a contatto con il bonder e non si incrosteranno” Quale felice idea ebbe Gabriele! Chiamò il Direttore e Cracchiolo che se ne stavano andando e nel raggiungerli affermò raggiante: 4 “Professò, ha detto Nardini che in quel modo non va bene!” e mentre spiegava i dettagli, Cracchiolo guardò verso di me. Lo salutai con un cenno della testa e lui mi rispose allo stesso modo, ma le sue labbra rimanevano sempre serrate, quando Gabriele ebbe terminato il Direttore gli rispose: “Dì a Nardini che sappiamo noi cosa dobbiamo fare!”. Era finito il mio primo giorno di lavoro, alle due staccammo. Avevo rimproverato Gabriele per aver fatto il mio nome, ma mi resi conto che era in buona fede e credendola una buona idea aveva pensato di fare una cosa buona per me. A casa trovai la tavola imbandita e tutti pronti ad ascoltare quello cha avevo da raccontare di come erano andate le cose in quel primo giorno. Mi lavai le mani e mi sedetti a tavola, rimasi un po’ male perché credevo che mi avessero aspettato per pranzare. Letizia, mia figlia più grande, oramai ventiduenne, si sedette vicino a me riempiendomi il bicchiere con del vino. Guardai la bottiglia ed esclamai: “Ma siete impazziti! Chi ha avuto questa brillante idea?”. Era una bottiglia di “CORVO” il mio vino preferito, vino siculo, vino delle terre natie del Professor Cracchiolo. Daniela arrivò con un piattone di spaghetti fumanti. “Il vino è un nostro regalo, per il resto è tutto come quando è iniziata questa brutta storia”………. solo che i carabinieri non bussarono alla porta e potetti gustarmi gli spaghetti e mangiarne a sazietà. Del vino poi, non ne rimase nemmeno una goccia. Il pomeriggio fu peggio dell’inferno dantesco: tantissime le telefonate e le visite, tutti volevano sapere, sindacati, politici, semplici conoscenti e curiosi. Ora tutti volevano salire sul carro del vincitore, così, decisi di scendere io da quel carro diventato di colpo tanto rumoroso. Dopo tanti anni dormii di un sonno profondo e la mattina mi alzai con il braccio 5 indolenzito: Daniela aveva dormito tutta la notte sulla mia spalla. La linea di patentamento era da approntare per essere avviata, erano ormai anni che non ci lavoravo e la cosa più complessa era proprio la messa in funzione di tutto l’apparato. “Ti ricordi come si preparano i fili per l’infilaggio?” “Credo di si”, risposi al Direttore. “Accomodati pure ed attento a non sbagliare”. Avevo quasi paura, dovevo collegare ventuno rotoli di filo d’acciaio a due piastre, due motori, tramite due tiranti, avrebbero fatto camminare i fili all’interno del forno, che raggiungeva la temperatura di circa mille gradi ed ogni filo doveva scorrere all’interno di una guida. Dopo essere passati nel forno, si sarebbero tuffati ed immersi in una vasca con il piombo fuso a circa cinquecento gradi, che li avrebbe abbassati di temperatura e li avrebbe puliti dai residui delle scorie. Il loro tragitto proseguiva attraverso una vasca con l’acido cloridrico, alla fine della quale, i fili ormai lucidi, ne sarebbero usciti per girare intorno a due grossi rulli e dopo essere risaliti, sarebbero entrati nella vasca del bonder che li avrebbe rivestiti di una patina che avrebbe permesso loro una migliore trafilatura. Di lì a poco ventuno avvolgitori li avrebbero riavvolti. Avevo finito di montare i fili alle piastre, che Gabriele mi chiamò: “Vieni a vedere!” Lo raggiunsi alla vasca del bonder, due lunghe lastre di acciaio inox luccicavano ed al loro interno erano alloggiati due grossi radiatori. Guardai Gabriele e sorrisi. “Dai Gabriè facciamo questo infilaggio, andrà benissimo” “Ne sono convinto”. E così fu 6 Un tragico episodio Passarono i giorni e tutto sembrava andare per il meglio. Ero partito con largo anticipo per recarmi al lavoro nel turno pomeridiano, accesi una sigaretta ed aprii il finestrino dell’auto per fare uscire il fumo. Andavo piano come sempre, un’auto mi sorpassò e vidi l’autista gesticolare al mio indirizzo, pensai a mio fratello Maurizio ed ai miei famigliari che forse avevano ragione a chiamarmi “lumaca”, sorrisi tra me e me a questo pensiero ed aspirai un’atra boccata dalla sigaretta. Giunsi a Manoppello Scalo, appena fatta l’ultima semicurva che porta ad un lungo rettilineo, all’altezza del un distributore di benzina, vidi volare in aria qualcosa, sembravano oggetti. Raggiunsi il luogo e mi fermai sulla destra, l’auto che mi aveva sorpassato era ferma molto avanti a me ed il suo conducente era sceso dalla macchina e correva verso l’interno del distributore. Scesi e mi avviai anch’io correndo verso il distributore, all’improvviso mi trovai di fronte a una scena terribile: il corpo di un motociclista giaceva al centro della strada, indossava ancora il casco, venti metri più avanti un altro corpo, stesso abbigliamento, giaceva anch’esso in mezzo alla strada, era il passeggero della moto, una ragazza. Poi vidi una moto di grossa cilindrata ed una Fiat Panda rovesciata. Non sapevo cosa fare, ero terrorizzato così come molti altri automobilisti che si erano fermati nel frattempo. Fortunatamente un giovane uomo ebbe il sangue freddo di prendere l’ iniziativa: “Ferma il traffico presto! Ho già chiamato i soccorsi”. In seguito seppi che costui era un soccorritore volontario che si trovava a passare. Di lì a poco giunsero i carabinieri ed un’autoambulanza della Misericordia di Scafa, dopo pochi minuti arrivò un’altra ambulanza quasi contemporaneamente all’elicottero del 118. Il traffico era bloccato. Uno degli occupanti della macchina 7 rovesciata era deceduto, il motociclista era in coma e la ragazza aveva riportato numerose fratture esposte. Ormai avevo fatto tardi al lavoro, vicino a me passò un ufficiale dei carabinieri e gli spiegai la mia situazione, lui mi guardò e disse: “Ma lei non è Nardini, quello della ILAS?” “Si” gli risposi “Dammi il numero della ditta” Dall’ufficio della ILAS rispose qualcuno, dopo essersi qualificato il carabiniere giustificò il mio ritardo adducendo che ero intervenuto nei soccorsi. Mi vergognai di ciò e lo dissi anche ai miei colleghi di lavoro quando, un paio d’ore dopo, mi presentai. Nonostante tutto ebbi l’arroganza di criticare tutto e tutti: i carabinieri avevano lasciato l’auto dove doveva atterrare l’elicottero e prima che i feriti fossero caricati era passata un’ora. E’ scandaloso dissi! Oggi quando ripenso a quell’avvenimento me ne vergogno ancora. Ragliai come un asino per parecchio tempo ancora, convinto della giustezza delle mie polemiche, eppure, mi ero reso conto sin dal primo momento di quanto inutile era stata la mia presenza. La cosa lasciò un segno indelebile dentro di me e condizionò alcune scelte che feci in futuro che, forse, hanno contribuito ad indirizzare il futuro della mia vita. 8 Un’altra batosta Stava per arrivare il Natale e le cose sembravano procedere bene, mi facevo gli affari miei e aspettavo sempre gli arretrati dovutimi. L’avvocato Valter De Cesare, una sera mi convocò presso il suo studio. Era un po’ che non lo vedevo e quando, sedutomi davanti alla sua scrivania, lo vidi aprire un pacchetto di mentine e mettersene una in bocca pensai subito che qualcosa non andava: “Giusè, questi non vogliono cacciare una lira, sono stato costretto a mettere sotto sequestro l’azienda” “Ma chi se la compra?” “Alla prima asta nessuno, poi …. vedremo” “Quelli mi fanno la pelle, te ne rendi conto?” Si mise a ridere e la mentina gli andò di traverso. Dopo essersi schiarito la voce, sempre ridendo mi disse: “Non preoccuparti, i soldi non li perdi, li farò avere a tua moglie”. Come previsto, quell’azione legale peggiorò la mia situazione. A Natale, come tutti gli anni, l’azienda consegnò il pacco natalizio ai dipendenti. Il mio non c’era! Immediata fu la protesta di alcuni colleghi i quali per solidarietà rifiutarono il proprio. Alle diciannove il Direttore scese e riconsegnò i pacchi aggiungendone uno per me: “Questo è il mio, prendilo tu ma non dire niente a nessuno” Se ne andò senza dire altro, sarebbe invece bastato che mi dicesse “Buon Natale” per farmi contento. Alle ventidue smontai di turno ed all’uscita lasciai il pacco sotto il portone degli uffici. Qualche collega fece la stessa cosa per solidarietà (seppi in seguito che rientrarono per riprenderselo). Il Natale passò. La vendita all’asta andò deserta, L’aria in azienda era diventata irrespirabile. I manifesti affissi che 9 comunicavano la vendita dell’immobile con la scritta “TRIBUNALE DI CHIETI” avevano fatto perdere le staffe ai dirigenti dell’azienda. Sempre più frequentemente il Professore si lasciava andare ad esternazioni poco piacevoli contro di me e contro le istituzioni, le quali lo obbligavano a tenere una persona che non voleva nella sua azienda. In quel periodo Viteritti andò in pensione. Per l’azienda fu una liberazione, se ne andava un lavoratore che per vent’anni aveva fatto sindacato all’interno dell’azienda, la maggior parte dei quali come unico iscritto alla CGIL, … non meritò neanche un saluto. Fu necessario andare a nuove elezioni ….. tragedia! ……. Nardini e Zappacosta eletti delegati, Colella rappresentante per la sicurezza. La situazione era ora sfuggita di mano ai vertici dell’azienda, dovevano necessariamente porvi riparo. La seconda vendita all’asta gettò benzina sul fuoco, inoltre, a peggiorare la situazione alcuni infortuni sul lavoro ci costrinsero ad intervenire sindacalmente. Era passato appena un anno dalla mia reitegra, sentivo che le cose andavo degenerando, sentivo di essere impotente, ne parlai a Daniela: “Hanno in mente qualcosa Daniè, non so cosa, ma hanno in mente qualcosa” “Hanno in mente quello che ti ho sempre detto: non prenderai una lira!” Me lo aveva detto con tono secco e sicuro, la fulminai con lo sguardo, mi alzai e presi la via della porta, ero incazzato nero. Accesi una sigaretta e sbuffando fumo gli urlai: “Avevi anche detto che non sarei rientrato, te lo ricordi?” Sbattendo la porta me ne andai. Qualche giorno dopo ci chiamarono in ufficio, tutto venne alla luce. “Sono spiacente di informarvi che siamo costretti a chiudere il reparto di patentamento, avrete la lettera di licenziamento ed un conseguente periodo di mobilità. Purtrop- 10 po i semilavorati prodotti all’estero ci arrivano a prezzi inferiori di ciò che produciamo noi”. Nel mega ufficio era tutto silenzio, anche la mosca che si era posata sulla scrivania dell’Amministratore non si azzardava a volare, io invece volai: “I semilavorati di cui parlate, li state provando in trafileria da un po’ di tempo, Professore ........., la loro qualità e di un quarto rispetto alla nostra produzione”. Picchiettava la penna sulla scrivania e notai con piacere che la mosca aveva anch’essa ripreso il volo. Guardò tutti in faccia tranne me e non rispose al mio intervento. Serrò le labbra e le fece schioccare, poi, con voce calma disse: “Un altro problema è l’impatto ambientale del reparto, per la messa a norma di un nuovo impianto occorrono due miliardi di lire, che non possiamo spendere”. Disse tutto ciò senza mai guardarmi. Mi girai, aprii la porta e dopo aver salutato uscii. Lo sentii blaterare ad alta voce e quando fui in fondo alla gradinata gli sentii urlare: “Ma vi rendete conto che non posso più andare in una banca per i soldi? Quello lì mi ha sequestrato tutto!”. 11 Comincia una nuova vita Adesso cominciavo a rendermi conto che Daniela poteva avere ragione e che i soldi che mi spettavano avrebbero potuto finire in fumo. Cracchiolo potrebbe decidere di chiudere i battenti ed in quel caso, quanti anni avrei dovuto aspettare per ottenere le mie spettanze? Chi avrebbe potuto acquistare l’azienda? Una domanda mi arrovellava: come avrei potuto agire per uscire da quella situazione? A marzo del duemilauno tornai ad incatenarmi di nuovo ai cancelli della ILAS, per poi prendere regolarmente servizio durante il mio turno. Lo feci per giorni interi. I mass-media uscirono a raffica pubblicando anche le lettere che inviavo al Prefetto e alle altre istituzioni. Fu guerra aperta. Tra una proposta e l’altra entrammo tutti e sette in mobilità. I miei colleghi accettarono una somma forfetaria per andarsene, io no! Mi recai allo studio dell’avvocato “Valter, pensi che ce la possiamo fare?” “Credo di sì” “Sono esausto, Valter, sto letteralmente perdendo la pazienza, ma come cazzo fa a fregarsene delle leggi?” Alzò gli occhi al cielo e sembrò che stesse pensando, poi facendo una piccola smorfia con le labbra estrasse da una cartella alcuni fogli e porgendomeli disse: “Ho preparato queste carte che devi firmare” “Di che cosa si tratta?” “E’ una denuncia per risarcimento danni, non temere, se non rispetta le leggi gliele facciamo rispettare noi. Presto sarà fissata la data della seconda vendita all’asta e vedrai che qualcosa accadrà”. Firmai quei documenti sperando che fossero gli ultimi, ma quando stavo per uscire: ”Presto verrà fissata la data dell’udienza per l’ultimo ricorso, non perdere la fiducia e stai calmo” 12 “E’ una parola rimanere calmi, ciao Valter”. De Cesare sapeva benissimo che ero oberato dai debiti ai quali non potevo far fronte. Una mattina mi chiamò al telefono: “Ciao Giuseppe, come và?”, “Male” risposi, “Molto male, non riesco a stare senza far niente. C’è gente che pagherebbe per andare in mobilità, io invece ci sto male”. “Va bene, lo so, intanto vai alla BLS di Chieti Scalo a mettere delle firme, troverai un conto con una certa cifra che restituirai, quando prenderai i soldi”. Non mi aveva detto quale era l’importo e io ero rimasto senza parole. Non riuscivo neanche a dirgli grazie. Quando stavo per dire qualcosa continuò “Vai anche al Consorzio di Bonifica, dove hai già lavorato e rifai la domanda, tra qualche mese faranno delle assunzioni stagionali, ti riprenderanno volentieri”. Seppi solo dirgli : “Grazie, grazie per quanto stai facendo per me!”. In banca mi trattarono cose se io fossi un imprenditore, con tutte le gentilezze. Calcolai mentalmente quanto dovevo per pagare le pendenze con l’azienda del gas, alla quale portavo qualcosa, quando potevo, gli affitti arretrati, il negozio di alimentari e altre cosucce. Il fido era sostanzioso ed io prelevai una decina di milioni. Daniela non sapeva niente e quando vide tutti quei soldi quasi svenne. Il giorno dopo mi recai a Montesilvano, presso gli uffici dell’azienda del gas ed estinsi il debito per le bollette non pagate. Daniela mise in pari tutti gli affitti arretrati e finalmente saldò il conto dalla mitica Angiulina, una simpatica vecchina dove prendevamo i generi alimentari, ricevette anche un regalo. Quante volte abbiamo ringraziato Dio dell’esistenza di quella donna, di sua figlia Gabriella e di quel piccolo negozio in contrada Pianapuccia. In mancanza saremmo letteralmente morti di fame! 13 In casa era tornata la tranquillità e Daniela amministrava quei soldi piovuti dal cielo con moderazione, nell’attesa di momenti migliori e con la paura di quelli peggiori. 14 La Misericordia Mi annoiavo mortalmente, i giorni passavano e non sapevo cosa fare. Daniela era tornata dalla spesa e mi aveva trovato appollaiato davanti al camino spento: “Ma che ti stai rincoglionendo? Ma che fai lì, vatti a fare una camminata, non voglio vederti così!”. Mi alzai e feci per uscire, ma lei mi apostrofò: “Prima accendi il camino!” “Obbedisco” risposi. Al bar, mentre sorseggiavo un caffè, gli occhi mi caddero su di una locandina “Si apre un corso di Primo Soccorso”, era della Misericordia di Scafa, subito la mente ritornò a quel tragico incidente dove, avevo nel frattempo saputo che, anche il motociclista era in seguito deceduto. Detto fatto, mi scrissi al corso. Alla prima lezione mi presentai quasi spavaldamente, avevo criticato il loro operato, quello dell’equipaggio del 118 ed anche quello delle forze dell’ordine. Essendo alto, per dare fastidio, mi sedetti nell’ultima fila. Alcuni volontari preparavano l’occorrente per la lezione, erano in divisa. Una autoambulanza era parcheggiata fuori, capii poco dopo che erano in servizio: un telefono cellulare squillò: “58 in linea” rispose il Capo Servizio, che intanto annotava su un taccuino quanto gli veniva riferito. Nel frattempo gli si avvicinarono un ragazzo ed una ragazza, appena chiusa la comunicazione il Capo Servizio disse loro: “Codice Rosso, presto andiamo!”. Il rombo del motore venne subito coperto dal sibilo della sirena, che con l’allontanarsi andò svanendo. La sala si era riempita e la lezione ebbe inizio, un uomo sulla quarantina, di media statura, si pose al centro della 15 scrivania, lo conoscevo di vista e conoscevo anche il signore anziano al suo fianco, il quale, non ricordo in quale Natale, ci aveva portato un pacco natalizio ed una parola di conforto, conoscendo la nostra situazione famigliare. Seppi poi che si chiamava Durero Lanaro. L’oratore iniziò il suo discorso: “Sono Mauro Feliziani, per chi non mi conosce sono il Governatore di questa Associazione”. Mentre ci spiegava che la Misericordia era un’associazione non a scopo di lucro, ecc. ecc., io pensavo ai tre ragazzi appena usciti per servizio, a cosa si sarebbero trovati di fronte ripensando all’incidente che avevo visto e vissuto come spettatore. Feliziani aveva terminato il suo intervento, portando via dalla scrivania la sua folta barba e i capelli brizzolati, abbastanza lunghi. Partecipai a tutte le lezioni ed al termine del corso superai, non so quanto brillantemente, l’esame che ci fecero fare, per prendere il brevetto da soccorritore. Non saprei dire quanto avessi veramente imparato, ma una cosa la capii sicuramente, mi ero reso conto che in passato mi ero proprio comportato come un emerito somaro. Entrai a far parte della Misericordia ed iniziai a fare qualche servizio considerato più facile, tipo trasporto sanitario con autoambulanza per dializzati, però mi accorsi che, comunque, non erano servizi leggeri, tutt’altro, eravamo in due volontari, io e l’autista, quindi come barelliere sedevo con il paziente nel vano sanitario, durante il tragitto parlavo con loro e qualcuno più anziano mi raccontava della sua gioventù, dei figli, della moglie o del marito. Apprendevo storie d’altri tempi che mi affascinavano, amori ostacolati, la fame durante la guerra e confidenze di ogni genere, un universo di vite vissute, con gioie, speranze e soprattutto tanta, tanta sofferenza. Quando venne a mancare una signora che accompagnavamo spesso a fare le dialisi, piansi per il dispiacere. Ero in mobilità ma non mi annoiavo più, non ne avevo il tempo. Presi coraggio e con il consenso del Governatore, che mi ritenne ormai pronto, iniziai i turni per i servizi in emergenza. 16 Ricordo che nevicava abbondantemente, quella sera, quando il Capo Servizio ricevette la chiamata della centrale operativa del 118, io rabbrividii. Sulla Tiburtina, proprio dietro la mia abitazione, una vettura si era ribaltata finendo nella scarpata. Era un “Codice Rosso” e arrivammo in un baleno. Sul ciglio della strada si era radunato un gruppo di persone, anche se era notte fonda e gelava, l’autista dell’autoambulanza scese e rimase vicino alla portiera aperta, poi scese Durero che fungeva da Capo Servizio ed infine io. La neve fresca mi arrivava alla caviglia. “Presto” disse uno dei presenti, “forse è morto, non si muove. Avevo una fifa terribile, ma dovetti scendere io nella scarpata. Arrivai alla macchina cadendo un paio di volte, era rovesciata, allora mi misi in ginocchio ed entrai dal finestrino laterale che era aperto. Sentivo freddo ai piedi, la neve era entrata da tutte le parti. Toccai dappertutto, mi infilai ancora più all’interno battendo la testa sui sedili spora di me. C’era solo un giubbino di pelle. Ma dove era finito il presunto morto? “E’ vivo?”, mi chiese urlando Durero, “Credo di sì, qui non c’è nessuno. “Guarda meglio!” tornò ad urlarmi. Io guardai meglio, ma quella non era ne una cabina di un treno, tantomeno la fusoliera di un aereo. A meno chè non fosse già salito in cielo, era vivo. Risalii carponi sulla scarpata. Un presente mi diede una mano per l’ultimo strappo, mentre Durero parlava con i presenti per capirci qualcosa, mi cadde lo sguardo su uno di essi e mi colpì il fatto che nonostante il freddo pungente indossava solo un maglioncino, era con le mani in tasca per ripararle dal freddo, ricambiò il mio sguardo e sorrise, allora gli chiesi: ”Scusa, ma guidavi tu quella macchina?” Con un cenno del capo mi rispose di sì. Durero gli si avvicinò e lo osservò meglio per controllare il suo stato, era al limite dell’assideramento. 17 Quando giungemmo al pronto soccorso dell’ospedale, eravamo tutti quasi ubriachi, tanto era la puzza di alcool che quel giovane aveva ingerito, nonostante gli aspiratori della ambulanza andassero al massimo. Alle tre del mattino rientrammo. Mi addormentai felice, felice di poter essere stato d’aiuto a qualcuno, adesso capivo veramente perché i volontari non percepiscono compensi in denaro, per essere ripagati gli basta la soddisfazione di aver compiuto una buona azione. Ero talmente coinvolto che, stranamente, da quando avevo intrapreso quest’opera di volontariato non pensavo più alle spettanze, finché un giorno: “Ha telefonato l’avvocato e lo devi raggiungere subito!” “Dove Daniè?” “Ma nel suo ufficio scemo, dove sennò?”. Valter De Cesare dietro la sua scrivania sembrava troneggiare. Mi ero fermato dal tabaccaio per comprare le sigarette ed avevo preso anche una scatola di mentine: “Ciao Valter, ne vuoi una?”, la mise in bocca e cominciò a sfregarsi le mani, aveva un beffardo sorrisetto che traspariva soddisfazione. Poggiò i gomiti sulla scrivania e a mani giunte si prese il mento accarezzandolo con i pollici. Mi fissò intensamente, poi prese gli occhiali poggiati alla sua sinistra ed estrasse il pannetto blu dalla custodia, dopo averli accuratamente puliti li indossò ed estrasse delle carte da un cassetto: “Questa è la bozza dell’accordo che ho preparato con l’avvocato Martino, leggila e dimmi se può andare”. “Non va bene un tuo riassunto?”, “Se va bene a te ……”, comunicò l’importo delle spettanze, era quanto dovessi avere, avrei però dovuto a rinunciare ai danni morali e l’azienda avrebbe ritirato la sua denuncia per danni, un miliardo di lire, presentata contro di me e contro il sindacalista Zulli, i miei arretrati mi sarebbero stati elargiti con un primo acconto e successivi versamenti mensili da dilazionare in due o tre anni. 18 Accettai. Estinsi subito il mio debito in banca e continuai la vita da operaio in mobilità. 19 Il Signor Enrico Una sera ero al bar con il mio amico Ubaldo Di Gregorio. Mentre sorseggiavamo il caffè squillò il mio cellulare: “Ciao Antò, com’è la situazione?” “Tutto a posto, partiamo all’una dalla stazione di Chieti Scalo”, “Quanti ne siamo?” “La corriera nostra è piena” “Ok” risposi “ci vediamo lì” e chiusi la comunicazione. Ubaldo mi chiese a che ora saremmo arrivati a Genova, “Non lo so” gli risposi. “Speriamo che vi menino a tutti!”. La voce era giunta da un tavolo alle nostre spalle, quattro persone erano sedute e giocavano a carte, quella di fronte a me era la più anziana e mi guardava con un sorriso sarcastico. Si vedeva lontano un chilometro che era una persona distinta. Fissai a lungo i suoi pochi capelli brizzolati, il sorriso spavaldo si spegneva solo quando metteva in bocca la sigaretta per aspirarne il fumo e ricacciarlo a volte dal naso e altre volte dalla bocca. “Mi scusi” gli chiesi “Perché dovrebbero menarci? Io non vado alle manifestazioni per farmi menare, ci vado per protestare!” “Perché ai comunisti bisognerebbe menargli a tutti quanti!” “Spero di no” gli risposi. Uscii dopo aver pagato il caffè. Chiesi ad Ubaldo chi fosse quel tipo e mi rispose che era un imprenditore. “Lascialo perdere” mi disse. Tornai verso casa, ero contento di poter tornare a piedi, da qualche mese avevamo cambiato abitazione, ci eravamo trasferiti in un appartamento al primo piano, proprio all’ingresso superiore del paese, me lo aveva affittato Mauro Feliziani, il 20 Governatore della Misericordia. Lo incontrai al piano terra dove la moglie ha uno studio odontoiatrico e lui e un socio lavorano in laboratorio di odontotecnica. “Vai a Genova domani?” “Sì, parto questa notte” “Buon viaggio e state attenti!”. Salii la rampa di scale, girai a destra sul balcone che conduce al mio ingresso. Davanti alla porta notai la mia valigia, la soppesai e mi resi conto che era piena. Sulla porta non c’era la chiave, quindi suonai il campanello. La porta si aprii e mi trovai di fronte mia moglie: “Ma che cavolo ci fa la mia valigia qui fuori?” “Non devi andare a Genova?” mi rispose, “E che mi porto tutta questa roba, un paio di giorni e torniamo”. Daniela di mise a ridere! “Ma che cazzo ti ridi?” gli chiesi infuriato. “Nardini, tu non hai capito niente, se vai a Genova qui non ci rimetti più piede”. Entrai a casa sconvolto, conoscendo la bestia. Avevo tenuto testa a Cracchiolo, a politici di ogni sorta con tanto di guardie del corpo, ero riuscito a parlare persino con il Presidente dalla Repubblica e mi chiedo tutt’oggi perché non riesco a tenere testa a questa donna! La mattina seguente, il solito bar, il solito caffè, mentre giravo lo zucchero nella tazzina, una voce alle mie spalle: “Ma che stai a fare qui, non dovevi essere a Genova?” Il caffè mi andò quasi di traverso, mi chiesi “e mò che cazzo gli dico a questo?”. Gli dissi tutta la verità e lui rise. Mi resi conto che in fin dei conti non era tanto antipatico, anzi per la verità, neanche la sera prima mi aveva dato sui nervi. Chi l’avrebbe pensato che quell’uomo avrebbe cambiato la mia vita? 21 Protezione Civile A Gagliano Aterno, mandato dalla Misericordia di Scafa, avevo partecipato ad un corso di Protezione Civile della durata di tre giorni. Il corso si svolse in vecchio monastero di clausura dove oggi ha sede il Corpo della Guardia Forestale. Eravamo partiti io e una volontaria della Misericordia, Violetta, la figlia di un carissimo amico, Gianfranco De Luca, che mi aveva aiutato nella stesura del mio primo libro. Il corso che seguimmo ci dette tutte le nozioni necessarie per l’avvistamento degli incendi boschivi. Ebbi così modo, in quella occasione, di conoscere altre associazioni di volontariato. Fu un’esperienza bellissima , tanto che, quando l’anno successivo, la Misericordia di Scafa mi propose di andare a fare il corso avanzato, non me la sentii di rifiutare, anche se il corso, questa volta, era di sette giorni. Daniela già aveva borbottato la prima volta, non perché partissi e dormissi fuori con una ragazza, ma per il semplice fatto che mi giudicava vecchio per questo tipo di attività. Questa volta partii con un’altra ragazza. Monia, mi passò a prendere la mattina alle sette, caricai il bagaglio in macchina e partimmo. Lungo la strada parlammo del più e del meno e superata Sulmona, prendemmo la strada per Gagliano Aterno. Ci inerpicammo tra i monti con la sua piccola utilitaria fino a giungere al famoso monastero sede del corso. Varcammo la soglia della porticina ricavata nell’enorme portone in legno e trovammo alla nostra sinistra un ufficio con due Guardie Forestali. “Siamo qui per il corso” dissi, “Andate avanti nel cortile, tra un po’ vi chiameranno”. Giunti nel cortile, vedemmo una trentina di persone che, in piccoli gruppi, parlavano tra di loro. Solo due erano donne, Monia era la terza. Andammo al centro del cortile dove c’era un grande pozzo costruito in pietra, come d’altronde tutto l’enorme edificio. Un paio di ragazzi, con gomiti appoggiati sul bordo, tentavano di vederne il fondo. 22 “Salve, salve” dicemmo avvicinandoci, “Salve”, risposero senza distogliere lo sguardo dal pozzo, “Chissà quanti segreti ci saranno giù nel fondo” “Chissà, dovremmo scendere giù per vedere, forze potremmo trovare un tesoro, chissà” “Buona idea” rispose uno di loro “Una di queste notti scendiamo a vedere”. In quel momento una guardia forestale chiamò tutti a raccolta, Monia prendendomi per mano disse: “Dai papà, ci hanno chiamato” I due giovanotti si guardarono con disappunto, chissà in quei pochi istanti quanto aveva galoppato la loro fantasia insieme a quella bella ragazza. Ci chiamarono per gruppi di associazione, quindi arrivò il nostro turno: “Monia Battistelli della Misericordia di Scafa” rispose, “E tu?” “ Giuseppe Nardini”. Finito l’appello la guardia ci indicò dov’era la fureria dove ci avrebbero dato coperte e cuscini per poi sistemarci nelle camerate, le donne nell’ala destra e gli uomini nell’ala sinistra. Appuntamento dopo un’ora in aula. “Mi scusi” dissi, “Non so dove mi avete sistemato ma, se fosse possibile, gradirei una camera singola” La guardia guardò un collega e mi chiese: “Come mai?” “Stò scrivendo un libro ed avrei bisogno di tranquillità, ma solo se è possibile”. “Si, c’è una camera che possiamo darti, per la tranquillità ce n’è pure troppa” Ringraziai e mi avviai alla fureria, lì ci caricarono di roba, salii la scalinata con le coperte sotto il braccio, la valigia ed il cuscino tra i denti. Giunto in camera pensai di aver dimenticato la chiave, invece in quelle camere la serratura semplicemente non c’era e quando entrai mi resi conto che mancavano anche tende alle finestre e le persiane, furono questi particolari a farmi ricordare che quello era un vecchio 23 convento. Sistemai la mia roba nell’armadio e gli effetti personali nel comodino e mi avviai verso l’aula. Dopo un po’ eravamo tutti seduti e la prima lezione ebbe così inizio. Un paio di ragazzi si sedettero vicino a Monia che continuava a chiamarmi tranquillamente papà. Però durante l’appello si accorsero che il cognome era diverso e glielo fecero notare, ma lei candidamente aveva risposto: “Sono una figlia illegittima, ma questo non toglie che ci vogliamo bene lo stesso” e mi diede un bacio sulla guancia. Il vitto era ottimo ed abbondante, così come la colazione del mattino. Le lezioni affatto noiose, si alternavano a prove pratiche. Con gli altri volontari ci eravamo molto affiatati, unico neo questo padre tra i piedi, specialmente per un giovane teramano che si era preso una cotta per Monia. Una sera me lo disse e io gli risposi: “Lascia perdere, dammi retta, non vi conoscete per niente”. Dopo quattro giorni di corso ci dissero che avremmo fatto una prova di salvataggio in montagna. Suddivisi intre squadre avremmo dovuto seguire un percorso diverso con uguali difficoltà, la valutazione della squadra si sarebbe basata sulla velocità di percorrenza del tragitto, ma anche su altri criteri che avremmo saputo a simulazione finita. Nella nostra squadra c’erano due donne e noi, per cavalleria, le avevamo destinate a dirigere il gruppo. Con l’appoggio di due guardie forestali ed un fuoristrada, iniziammo il percorso. Ci attendevano cinque chilometri di sentieri di montagna, era il percorso più lungo, ma anche il meno dissestato. Le ragazze, cartine alla mano, procedevano spedite fermandosi di tanto in tanto alla ricerca di segnali lasciati da eventuali dispersi. Ne trovammo uno e discutemmo sul fatto che poteva essere un segnale reale e non messo lì per l’evento. Alla fine decidemmo per prenderlo per buono e uscimmo dal sentiero transitabile in auto e ci inerpicammo in una stretta mulattiera che si addentrava nel bosco. Le guardie con il fuoristrada pro- 24 seguirono per la strada, ero quindi certo che il sentiero ci avrebbe condotto di nuovo su di essa. Trovammo un altro segnale ed allora esultammo, la direzione era quella giusta. Ad un certo punto sentimmo parlare dietro di noi, era il ragazzo teramano innamorato che, con la scusa di un piccolo problema, si era fatto accompagnare da un forestale, lasciando la sua squadra, per unirsi a noi: “Stà già meglio, hai visto?, appena ha visto tua figlia gli è passato tutto” Riuscimmo, come previsto, sulla strada transitabile e calcolammo che avremmo dovuto percorrere ancora un chilometro, ci fermammo per riprendere fiato. Riprendemmo il cammino felici di essere quasi arrivati alla meta parlando già del pranzo che ci attendeva, quando mi accorsi che mancava un componente della squadra: “Fermi” intimai, “Manca una persona”, la guardia forestale ci guardava senza proferire parola, “Che facciamo adesso?” “Siamo partiti da poco tempo, non dovrebbe essere lontano, voi proseguite a passo lento, io torno indietro a cercarlo, se ho bisogno di aiuto ululerò” Mentre camminavo percorrendo la strada a ritroso, imprecavo con me stesso, come fa una squadra a perdere un componente durante il viaggio, poi mi ricordai un film con Verdone dove lui era il marito che si era dimenticato la moglie all’autogrill dell’autostrada, mentre pensavo trecento metri più giù lo vidi, era seduto sul tronco di un albero e mi guardava sorridendo, gli chiesi allora rincuorato: “Tutto bene?” “Mi fanno male le gambe, sapessi quanto mi pesano questi centoventi chili” Risposi scherzando: “Non pensare che ti porto in braccio eh!” “Tranquillo, piano piano ce la faccio, se vuoi vai avanti” 25 Finsi di non averlo sentito e lentamente riprendemmo il cammino. Non so dire quanto tempo impiegammo a raggiungere la cima della salita ed entrare in un’ampia radura verdeggiante. Un filo di fumo si alzava nel cielo da un’enorme graticola con dei gustosi pezzi di carne di agnello che rosolavano sulla brace. “Mo si che va bene” mi dissero quei centoventi chili e raggiungemmo gli altri. Mangiammo e bevemmo a sazietà, ridendo, scherzando e cantando, poi le guardie forestali ci dissero: “E’ stato bello, ma dobbiamo rientrare” “E’ presto, rispondemmo noi, la strada adesso è tutta in discesa, faremo subito a rientrare” “Vedete quelle nuvole che attraversano la vetta? Con la montagna non si scherza” Ripartimmo immediatamente, gli ordini non si discutono. Era bello, tutti insieme che cantavamo mentre scendevamo. A metà strada udimmo un paio di tuoni, poi le prime gocce d’acqua ed infine venne il diluvio universale. Io ero il più anziano ma preferii che il fuoristrada portasse via prima le persone in difficoltà, comunque usciti dal bosco fummo al sicuro. Quando il fuoristrada tornò a prenderci eravamo già arrivati in paese, salimmo lo stesso e rientrammo al convento. Il giorno seguente, in aula, l’istruttore ci disse: “Siete stati tutti bravissimi ma, ricordate una cosa, quando una squadra esce in soccorso deve rientrare come è partita, voi non siete eroi ma soccorritori e dovete pensare a riportare a casa prima la vostra pelle. Chi andiamo a soccorre potrebbe essere già morto e non dobbiamo aggiungere altre vittime alla lista, è chiaro?” “Si” rispondemmo in coro. I giorni che seguirono ci fecero eseguire prove pratiche con i mezzi antincendio, visitammo l’eliporto della forestale e ci portarono ad esercitarci presso la caserma dei Vigili del Fuoco di Pescara. Sulla via del ritorno, in autobus, parlammo 26 di ciò che avevamo fatto. Eravamo entusiasti. Tornati al centro, il test finale ...panico, ... venti domande. Chinai il capo su quei fogli e iniziai a compilare. Dopo aver finito diedi un’occhiata ai fogli dei miei vicini di banco. C’era una risposta di cui non ero sicuro, avevo sbagliato, Monia al mio fianco mi diede un’altra risposta, anche il teramano, seduto vicino a lei, mi guardai dietro, idem. Corressi la risposta e consegnai i test con le risposte. Uscii fuori a fumare per scaricare la tensione accumulata. Attendemmo circa una mezz’ora per i risultati. Uno alla volta venimmo chiamati e quando arrivò il mio turno mi presentai alla cattedra, emozionato come uno scolaretto. “Bravo Nardini, diciannove su venti, peccato che hai corretto quella sbagliata, era giusta la prima risposta che avevi dato” Mentre tornavo a posto l’istruttore mi disse: “Nardì non si deve mai ricopiare” e tutti risero. I momenti dei saluti furono i più tristi, eravamo stati bene insieme, ma Monia per spezzare l’atmosfera che si era creata se ne usci: “Diciamogli la verità Giusè!” poi rivolti a tutti loro aggiunse: “Io e Giuseppe siamo moglie e marito” e mi abbracciò dandomi un bacio. Anch’io l’abbracciai forte, tanto forte, l’ avrei stritolata. Quel povero ragazzo teramano, rosso come un peperone, si stava squagliando a pensare che mi aveva detto di “essere innamorato di tua figlia” . A fine corso la Regione Abruzzo ci fornì di bellissime divise per l’antincendio, la stessa attrezzature in dotazione ai Vigili del Fuoco. Mi augurai di non doverla usare mai, ma mi sbagliavo. 27 Finalmente torno a lavorare Era il mese di giugno o luglio, non ricordo bene. Paolo Lanaro, il cugino di Durero, era seduto di fronte a me, lo conoscevo poco perché era la prima volta che facevamo il turno insieme alla Misericordia. Alto qualcosa di più di un metro e settanta, capelli corti e sempre ordinati, la faccia pulita del bravo ragazzo, certamente tutto il contrario di me, disordinato e sciattone. Ero silenzioso e pensieroso quella sera, lui se ne accorse e mi chiese il perché. Sentii di potermi confidare, mi dava fiducia quella persona calma ed educata. “Presto scadrà la mia mobilità e non riesco trovare un lavoro. Dopo la mia vicenda, d’altronde, chi vuoi si possa fidare?” “Che lavoro cerchi?” “Qualsiasi lavoro, anche il manovale” “Va bene, domani parlo con il titolare della ditta dove lavoro, so che ci servono operai, vedrai che ti prenderà. Sei disposto ad andare in trasferta?” Risposi di si! Dopo qualche giorno mi invitò ad andare in ufficio. Ero molto fiducioso,. Suonai il campanello e la serratura della porta scattò elettricamente, entrai e salutai anche se non vidi nessuno sul corridoio. Paolo uscì da una porta di fronte a me e mi venne incontro facendomi un cenno, come per dire che ara tutto ok, a quel punto la speranza si era tradotta in certezza. Mi accompagnò subito nell’ufficio del titolare e mi introdusse dicendo: “Franco, questa è la persona di cui ti ho parlato” Sembrava di vedere mio fratello, alto quasi un metro e novanta, novanta chili di portata, la testa calva con i lineamenti del viso forti e ben fatti. Non mi piacque. “Che lavoro vorresti fare?” “Qualsiasi cosa di cui io possa essere capace” 28 “In questo momento non abbiamo bisogno, lascia il tuo recapito ed alla prima occasione ti mandiamo a chiamare”. Mi cadde il mondo addosso, sicuramente conosceva la mia vicenda …. e chi non la conosceva? Gli spiegai come stavano le cose, gli dissi che l’immagine che molti si erano fatti di me era sbagliata e lo pregai di mettermi alla prova. “Non è per quello, se avremo bisogno di personale ti manderemo a chiamare”. Io invece avevo letto nei sui occhi dispiacere, ma anche diffidenza. Passò quasi un mese e una sera ero in auto con Paolo, poco prima gli avevo chiesto se ci fossero novità, lui mi aveva fatto un gesto come a dire ”non c’è niente da fare”. Il semaforo era rosso e ci dovemmo fermare. Al senso opposto di marcia una Jaguar si fermò al nostro fianco, il suo finestrino si aprii e vidi l’imprenditore che avevo conosciuto al bar e con il quale scambiavi il saluto nei fugaci incontri “Paolo”, gli disse, “mò vai in giro con i comunisti con la macchina della EdilBreda?” Paolo non ebbe il tempo di rispondergli perché era scattato il verde, ci salutò con un gesto della mano e mi disse: “Stai attento, comunista!”. Partimmo, Paolo si mise a ridere, gli chiesi perché, ma lui continuò per un pezzo senza rispondere, fino a quando: “Ma tu lo conosci?” gli risposi di si e gli raccontai come l’avevo conosciuto “E’ il signor Enrico, il padre di Franco, è in effetti il fondatore della ditta, in parole povere è il padrone, prova a parlare con lui” “Ma sei matto, se dovesse imporre al figlio la mia assunzione, quello poi mi porterebbe rancore” “E che te ne frega? ….. Pensa alla famiglia, tu hai bisogno di lavorare!”. Raccontai tutto a Daniela, la quale mi consigliò di parlarci. Una mattina l’avevo accompagnata a fare la spesa, lei 29 portava il carrello ed io al suo fianco tenevo la mia mano sulla spalla, vicino alla cassa incontrammo il signor Enrico: “Buon giorno” dissi, “Ciao” rispose, poi guardando mia moglie “Signò, state attenta a questo giovanotto” Uno scambio di sorrisi e riprendemmo la nostra strada. Ad un certo punto ci ripensai: “Aspettami un attimo, Daniè, io ci vado a parlare!” Lo raggiunsi che era ancora vicino alla cassa: “Se ha un attimo di tempo avrei bisogno di parlarle” “Dimmi pure” mi rispose affabilmente, “Avrei bisogno di una raccomandazione” “Con tutti i politici che conosci vieni proprio da me?” mi disse ridendo, “E’ per un posto di lavoro, per questo non sono mai andato dai politici” “Per chi è?” mi chiese ridendo, “Per me”, “Se è per te non c’è nessun problema, dammi qualche giorno”. Io ero eccitatissimo, riprendere a lavorare, che meraviglia, mi comportavo come se avessi vinto al super-enalotto, ma Daniela provò a rimettermi con i piedi per terra: “Non essere così felice, aspetta che ti chiamino”. Non so se mia moglie sia una veggente o una menagramo, sta di fatto che passarono una quindicina di giorni e nessuno mi chiamava. Come tutti i sabati tornammo a fare la spesa, ….. la stessa scena, mia moglie con il carrello ed io con la mano sulla sua spalla. D’un tratto una voce dietro di noi: “Giovanò, ma che fai qui, non dovresti essere a Monselice?” Ci voltammo e vedemmo il signor Enrico che mi guardava come se avessi commesso un reato, io non riuscivo a capre: “Non mi ha chiamato nessuno, signor Enrico” 30 “Non ti ha chiamato nessuno? Bene bene, spicciati a fare la spesa e torna a casa” Ci salutammo e prendemmo ognuno la propria strada, io mettevo fretta a Daniela e lei mi rassicurava dicendomi: “Ma credi ancora alle favole?” Scaricammo le buste della spesa dalla macchina e salimmo le scale per rientrare a casa. A metà gradinata udimmo lo squillo del telefono, strappai le chiavi dalle mani di Daniela che, mentre correvo per aprire la porta di casa, mi strillava: “Dai che sicuramente è mia madre”. Entrai ed alzai la cornetta del telefono, Daniela era arrivata e stava sulla porta “Pronto” “Pronto, il signor Nardini?” chiese la voce all’altro capo del filo, la richiesta era stata fatta in maniera leggermente sfottente, “Sì” risposi, “Sono il geometra Paolo Marco Lanaro, la chiamo dalla ditta EdilBreda, dovrebbe portare i suoi documenti in ufficio per l’assunzione, possibilmente subito!”. Mi precipitai in Ufficio con il libretto di lavoro in mano. Il mio amico Paolo era diventato di colpo “il geometra Lanaro”, mi trattò con distacco, come se non mi conoscesse, sbrigò tutte le pratiche, mi consegnò tutto il materiale antinfortunistico, spiegandomi come e quando utilizzarlo ed alla fine mi disse con un sorriso e facendomi l’occhiolino: “Il contratto e per due anni, lunedì mattina attacchi al cantiere che abbiamo dentro il cementificio della Italcementi a Scafa”. Quando me ne andai, passai davanti all’ufficio di Franco, la porta era aperta ed io lo salutai, mi rispose con un cenno della mano. Uscii dall’ufficio con il pacco di materiale tra le braccia e con tanta speranza nel cuore. Daniela aveva sempre ragione ma, alla fine, vincevo sempre io! 31 Impara l’arte e …… (che fatica!) Rientrai a casa e sparsi sul tavolo tutta la roba che mi era stata data in dotazione, misi in bella mostra la tuta nuova, l’elmetto e gli scarponi, gli occhiali di protezione, le cuffie contro il rumore, i guanti e altri accessori. Daniela uscì dalla cucina e vedendo quella bancarella disse: “E adesso mi devo tenere tutta quella roba sul tavolo della sala?” “No, ma è un pretesto per farti capire che lunedì inizio a lavorare con la EdilBreda, il signor Enrico è stato di parola” “Dove vai a lavorare?” “Al cementificio di Scafa” “Povera me! A cinquant’anni vai a fare il manovale, chissà quanto duri, voglio proprio vedere” Mi diede una busta e ci misi all’interno tutta la roba che era sul tavolo, posai la busta vicino alla porta. Porca troia! A quella donna non andava mai bene niente. Nel pomeriggio, mentre in soffitta fumavo solitario il mio sigaro, mi chiamò dicendo: “Nardini, c’è Valter al telefono” Lascia il sigaro nel portacenere sulla scrivania e scesi di corsa le scale, rischiando di schiantami al suolo, ansimando risposi: “Ciao Valter, come va?” “Bene, proprio bene, lunedì mattina devi portare i documenti al Consorzio di Bonifica, così inizi a lavorare, per cominciare sarà un contratto per sei mesi, nel frattempo sarà fissata la data del ricorso alla ILAS, va bene?” “Mi dispiace Valter, ma ho firmato un contratto per due anni con un’impresa edile di Scafa” 32 “Ma sei proprio sicuro? Guarda che è un lavoro duro e dopo, tu non hai mai fatto il muratore, non è semplice” “Lo so Valter, anche loro lo sanno, farò il manovale, ma mi è stata data dopo tanti anni l’occasione di dimostrare quello che posso valere, come uomo intendo, e poi non me la sento di deludere chi mi ha dato fiducia” “Giusè, fai come credi, comunque lunedì ci dovresti andare per la rinuncia del posto” “Ma come faccio, come posso prendermi un permesso il primo giorno di lavoro?” “Va bene, ma almeno telefona per avvisarli, casomai ci andrai la sera, ok?” “Ok” risposi “E grazie di tutto”. Riattaccai il telefono e tornai in soffitta, mi sedetti alla scrivania che mi ero costruito con materiale di recupero e ripresi il sigaro. Provai a tirare, ma ormai si era spento. Aprii un cassetto della scrivania, che veramente era un vecchio comodino infilato sotto un pannello di legno che, solitamente, viene utilizzato dai carpentieri per casserare i getti in calcestruzzo, presi l’accendino, riaccesi il sigaro e aspirai una lunga boccata di fumo. Al Consorzio di Bonifica avevo lavorato per diciassette mesi, durante la mobilità, conoscevo il lavoro ed ero stimato da tutti, invece, avevo scelto di svolgere un nuovo lavoro, un lavoro che non conoscevo e sul quale anche Valter mi aveva messo sull’attenti, forse lui e Daniela avevano ragione, ma ormai il dado era tratto! Andai avanti per la mia strada cocciuto come sempre. Il lunedì mi presentai al lavoro, in mattinata telefonai, ed il pomeriggio, dopo aver smontato, mi recai al Consorzio di Bonifica per firmare il rifiuto all’incarico. Quando tornai a casa, senza parlare 33 mangiai e mi ficcai direttamente a letto. Daniela mi aveva chiesto come era andata la giornata, voleva sapere come era il nuovo lavoro, ma capì subito che non avevo voglia di parlarne quando mi sentì rispondere “bene” e basta. Come potevo dirgli che quel lavoro non mi piaceva? Ero stato otto ore a legare reti metalliche, la tenaglia mi aveva fatto sanguinare la mano destra, mentre il filo di ferro mi aveva bucherellato la mano sinistra, otto ore a gambe larghe e abbassato a legare quel maledetto ferro. La schiena mi faceva male. Il giorno dopo, il Capocantiere, Mancini Bartolomeo, si era accorto dei miei problemi e mi assegnò lavori meno pesanti. Con il passare del tempo imparai il nome delle attrezzature, cominciai a tenere la cazzuola in mano, ad usare la livella e il filo a piombo. Imparai i segreti dei forni dei cementifici e loro rivestimenti refrattari. Bartolomeo fu davvero un buon maestro per me, insegnandomi il mestiere, sicuramente lo fece non solo perché il signor Enrico mi aveva raccomandato a lui, ma anche perché gli andavo a genio. La sfida era duplice, non solo perché volevo dimostrare a Daniela quello che valevo, ma perché credo, che anche il signor Enrico doveva dimostrare a se stesso che non si era sbagliato su di me. Mi abituai piano piano alla durezza del lavoro edile, ma più che mai mi impegnavo a capirlo, per ogni difficoltà il mio punto di riferimento sempre presente era Paolo, il “Geometra Lanaro” mi riprendeva sempre quando sbagliavo, ma poi mi consigliava spiegandomi come fare, dissipando così le mie incertezze, mi diede anche da leggere un libro dal titolo “Manuale completo del Capomastro – Assistente edile” che mi fu molto utile. 34 Iniziai ad andare in trasferta e mi vennero date le prime responsabilità. Un giorno Paolo mi telefonò chiedendomi di passare in ufficio. “Nardini, c’è un corso per addetti alla rimozione dell’amianto, io stesso e alcuni operai lo abbiamo già fatto l’anno scorso, quest’anno abbiamo pensato di farlo fare anche a te. Devi firmare questi moduli.” Non ero sicuro di quello che stavo facendo, ma firmai. 35 L’amianto Nella sala della Provincia, a Pescara, dove si teneva il corso, sedevano una quarantina di persone dipendenti di varie imprese. Della EdilBreda ne eravamo tre, io, Mario Massimo Di Cecco e Catalin Marian Farcas, un ragazzo romeno. La prima lezione era cominciata. Mentre la docente, una simpatica dottoressa, ci illustrava la pericolosità dell’asbesto, dei suoi serpentini e dei problemi che avrebbe potuto provocarci, io spaziavo con la mente in polemici pensieri, come mai un prodotto così pericoloso non era stato testato prima? E per quale motivo era stato vietato il suo utilizzo solo due anni dopo la scoperta della sua nocività? Forse per permettere alla aziende senza scrupoli di svuotare i magazzini dei prodotti in giacenza? La lezione continuava nel silenzio più assoluto e quando la docente ultimò il suo intervento alzai la mano per chiedere la parola. Illustrai i miei pensieri chiedendo spiegazioni in merito, inoltre aggiunsi: “Dottoressa, non crede che, visto il pericolo che comportano le operazioni di bonifica dell’amianto, agli operatori del settore debba essere riconosciuto un indennizzo di rischio? E questo, intendo, tanto alla ditta quanto agli addetti” Ci fu un applauso ed un vocifero che si levò tra i partecipanti al corso, la dottoressa alzando una mano come per zittirci, disse: “Fate piano, dorme!” Ci voltammo tutti verso il punto che aveva indicato. Il nostro collega Massimo, da tutti conosciuto come “Ciccopeppe” per un nomignolo di famiglia, con il gomito poggiato sul bracciolo della sedia e la mano 36 sotto il mento, dormiva saporitamente. Tutti si misero a ridere e lui si svegliò, si guardò intorno poi, rivolgendosi a me, chiese cosa fosse successo: “Niente” risposi, “Ho solo fatto una domanda” “Propongo dieci minuti di pausa” disse la dottoressa “ poi riprendiamo, siete d’accordo?” Neanche a dirlo!, tutti si alzarono e presero la via dell’uscita. Volevo reclamare una risposta alla mia domanda, ma non lo feci, perché metterla in imbarazzo, non l’avrebbe avuta una risposta!. Tra alti e bassi finimmo di seguire il corso e superammo l’esame finale, al moneto ritenemmo il tutto noioso e inutile, ci rendemmo conto, in seguito che era stato effettivamente lungo e noioso, ma molto utile. Iniziai così le prime rimozioni di coperture in eternit, sotto la guida di responsabili già esperti. Luciano Pagliarella era uno di questi, anche in questo caso, come avevo fatto in precedenza con Bartolomeo, cercai di imparare il mestiere rubando con gli occhi quante più cose di quanto potessero spiegarmene. 37 Una decisione importante Mi trovavo bene in questa nuova azienda, mi trovavo bene nonostante i continui battibecchi che avevo con Franco, ma ormai erano diventati di routine, non ci facevo più caso da quando Paolo mi spiegò che Franco da me pretendeva di più sia produttivamente che qualitativamente, perché sapeva che potevo dare di più. Tutte le sere passavo in ufficio a portare i rapportini giornalieri ed a preparare il programma di lavoro per il giorno seguente, l’ambiente era per lo più calmo e famigliare, a parte alcune volte in cui la tensione e il nervosismo la facevano da padrona, ma questo succede anche nelle migliori famiglie. In amministrazione regnava il ragioniere Nicola De Thomasis, sempre sommerso da un mare di carte sparse sul tavolo, lo aiutava Stefania, la sorella di Franco, una donna molto bella e simpatica. L’ufficio tecnico era composto oltre che dal geometra Lanaro, anche dalla moglie di Franco, la signora Benita Renzetti che, per qualsiasi cosa, specie per le frequenti discussioni che avevo con il marito, tifava sempre per me, sempre molto affabile e precisa nel lavoro. C’era anche il nuovo geometra, Massimo Tasinato, assunto da poco per dare una mano a Paolo nei cantieri esterni, non nascondo che con lui i rapporti non sono mai stati dei migliori, ma esclusivamente per motivi di lavoro, non ero abituato al suo metodo di lavoro, molto diverso da quello di 38 Paolo, per il resto era comunque anche lui una brava persona. Avevo completamente dimenticato la ILAS. Ci pensò l’avvocato De Cesare Valter a ricordarmela, una sera mi telefonò a casa: ”Ciao Giusè, come va?” “Bene, c’è qualche novità? “E’ stata fissata l’udienza in tribunale, è per il mese prossimo, sei contento?” Non sapevo come dirglielo che non ero contento…… “Hai capito quello che ti ho detto?” Si, ho capito, il fatto è che adesso proprio non potrei, ho degli impegni di lavoro e …….” “Ma se hai dichiarato a mezzo mondo, giornalisti e televisioni che alla ILAS ci saresti andato in pensione e adesso ci hai ripensato, dimmi cosa devo fare?” “Fai un accordo Valter, se è possibile fai un accordo. Mi dispiace davvero ma non me la sento di tornare lì dentro” “Come vuoi tu, ma pensaci bene e fammi sapere, io intento sondo le acque. Ciao” “Ciao” risposi, “Vedi tu, ma tanto ho già deciso!”. 39 In attesa continuai a lavorare. Come al solito, la sera di un giorno di lavoro passai in ufficio, mi aspettava una sorpresa e darmela, naturalmente fu Paolo, come mi vide entrare mi disse: “Nardini, c’è da fare un lavoro particolare e abbiamo pensato a te!” “Di che si tratta?” chiesi incuriosito, “Il restauro di un rifugio montano, in cima al monte Morrone, aria buona, quota 1786 metri, allestiremo un campo dove dormirete e tornerete a fine settimana” “Ma sei sicuro che posso farcela?” “Sì” rispose seccamente. “Vorrei almeno vedere di che cosa si tratta, è possibile?” “Certo che è possibile, dobbiamo andare con il Direttore dei Lavori, l’architetto Santino Iezzi a visionare il posto, lo devo chiamare per prendere accordi e poi ti faccio sapere”. Gli impegni con la EdilBreda si intrecciavano sempre con quelli di Valter. Il venerdì sera Paolo passò a casa mia e mi disse di preparami perché il giorno dopo saremmo andati sul monte Morrone a vedere i lavori e fare l’elenco dei materiali e delle attrezzature da preparare. Valter mi aveva invitato, invece, la stessa mattina presso il tribunale per definire eventuali accordi o proseguire la vertenza. Lo chiamai subito dicendogli che era sopraggiunto un altro impegno e misi tutto nelle sue mani, di lui potevo fidarmi ciecamente. 40 Jaccio della Madonna Alle otto di sabato mattina Paolo mi passò a prendere, mi disse che lui era già stato con l’architetto a fare un sopralluogo, quindi mi avvisò che avremmo dovuto fare un tratto di strada a piedi, aprii la sportello del Doblò con il quale era venuto e ci feci scivolare dentro lo zainetto con la colazione che Daniela mi aveva preparato. La spada di legno, che poi avrei usato come bastone, la infilai di fianco al mio sedile. Paolo continuava a ridere e io non riuscivo a capire il perché. Superato il paese di Sant’Eufemia a Maiella, prese per Roccacaramanico e dopo qualche chilometro svoltò a destra per una strada di campagna. Era una strada dissestata da non credere, tanto che gli dissi: “Ma qui ci voleva un fuoristrada” “Non ce n’è bisogno, questa macchina è abbastanza alta da terra è come un fuoristrada e poi …….. ci vuole solo un bravo autista” Si fermò in un piccolo spiazzo, oltre non si poteva andare perché la strada era parzialmente franata, parcheggiò l’auto e scese. Prese il cellulare e chiamò l’architetto Iezzi, il quale gli rispose dicendo che stava arrivando. Dopo dieci minuti il grosso fuoristrada si annunciò dal rombo del motore, ne scesero due persone attrezzate per le scorribande montane. Si capiva benissimo che erano degli esperti: scarponi 41 alti, pantaloni alla zuava, piccozza, borraccia e zaino da montagna. Anche Paolo estrasse dall’ auto zaino e piccozza oltre a un paio di copristinchi antivipera. Io, con le mie scarpe da tennis, la mia spada di legno e lo zainetto della scuola che mi ero fregato a mio figlio Daniele, mi sentivo, come dire, come un pesce fuor d’acqua (in montagna). Dopo le presentazioni partimmo. Che meraviglia…. il viottolo iniziava con una salita da fare con le mani e con i piedi. L’architetto Iezzi, che era il presidente della Associazione “I folletti del Morrone”, insieme al suo amico, si arrampicavano lungo quel sentiero come degli scoiattoli, mentre io e Paolo, per stargli dietro procedevamo quasi caproni e con la lingua da fuori. Ad un certo punto non ce la feci più: “Architè, ma che ci scappa via questo rudere? Se continuiamo di questo passo io lassù non ci arrivo!” “Se continuiamo di questo passo ci arriviamo tra tre ore” rispose Iezzi. Mi ero seduto su una grossa pietra e tanto per ossigenarmi mi ero acceso una sigaretta. Fulminai Paolo che mi stava guardando con un sorriso beffardo sulle labbra. Si sedettero anche gli altri. Solo allora mi guardai intorno e mi resi conto dove mi trovavo: il bosco era immenso, pieno di colori. Vicino a me, tra le sterpaglie delle piccole fragole rosse. Ne raccolsi una e la misi in bocca, era buonissima! Raccolsi le altre e le misi in tasca. Ripartimmo, dopo un’ora e mezza uscimmo dal bosco. Il panorama che si presentò ai miei occhi era indescrivibile: ai miei piedi vedevo 42 i paesi di Caramanico Terme, poi spaziando intorno riconobbi Scafa con la sua caratteristica torre del cementificio, Pianella, Chieti, Francavilla, Pescara ed il mare. Tra me ed il mare tanti altri paesi ai quali non riuscivo a dare il nome. Il peggio era passato perché adesso il cammino si era fatto pianeggiante, però poco dopo ci accorgemmo che un tratto del sentiero era stato investito da una frana. Passammo usando molta accortezza, uno alla volta ed io per ultimo, proprio per vedere come avrei dovuto comportarmi. Sinceramente, mentre passavo sulla frana, guardando il baratro alla mia destra, ebbi un po’ di strizza, ma andò tutto bene. Percorremmo per altri venti minuti una spianata in leggera salita. Ormai non si vedeva più un albero, piegammo verso sinistra e iniziammo a scendere. “Se dovete telefonare in questa zona ch’è rete” disse Iezzi, “anche se non sempre si prende”. Aggirata una piccola altura, in fondo alla valletta sottostante, a circa duecento metri da noi si ergeva una fatiscente costruzione in pietra, era il rifugio chiamato “Jaccio della Madonna”. A un metro circa, sul retro del fabbricato, si ergevano delle rocce che risalivano sino all’altura che avevamo aggirato per arrivare, sul lato anteriore, invece, si stendeva una spianata molto ampia che mi apparve come un’immensa distesa verde, coperta da piante che mi sembrarono ortiche. Giungemmo finalmente al rifugio, ma io continuavo a guardare quel mare verde che ondeggiava ad ogni alito di vento. Iezzi, visto il mio interessamento mi disse: 43 “Sono spinaci selvatici, li chiamano orabi o orbi, crescono a queste quote grazie alle pecore che portano qui al pascolo. Quando ritorniamo giù ce ne riporteremo una busta, sono speciali da mangiare. Pensa che c’è gente che fa tutta questa strada solo per venire a raccogliere queste verdure”. Distolsi lo sguardo da quella prateria e mi volsi verso il rifugio. Ci trovavamo a non più di dieci metri da esso. Era un fabbricato composto da due locali al piano terra e un locale al primo piano in corrispondenza della stanza di sinistra guardando dal fronte anteriore. Parte delle pietre con le quali erano stati edificati i muri erano crollate lasciando in essi delle grosse breccie, non c’erano tracce degli infissi alle porte ed alle finestre, sul tetto i pochi ferri rimasti dell’armatura del cornicione, crollato anch’esso, sporgevano sembrando lani in cerca di aiuto. Entrai dentro al locale alla mia sinistra e ricaddero le braccia: a terra una montagna di sterco di mucca, il solaio che formava anche il pavimento della stanza al primo piano non c’era più e alle pareti mancavano interi pezzi di muro in pietra. Passai attraverso la porta che collegava i due locali al piano terra, il massetto del soffitto era talmente danneggiato che si vedevano tutti i ferri dell’armatura, la parte di muro sopra l’architrave della porta di accesso mancava totalmente facendo intravedere il cielo al di fuori della stanza. Uscii e mi accesi una sigaretta. Paolo parlava con l’architetto Iezzi ed il suo compagno di viaggio. Si accorsero che ero praticamente sconvolto. 1786 metri di altitudine, 44 isolati da tutto e da tutti con il telefono che prendeva si e no in una zona distante dal rifugio che per raggiungerla bisognava fare un bel tratto di faticosa salita. E come portare i materiali e le attrezzature? Non c’era né l’acque e neanche l’ energia elettrica. C’eravamo soltanto noi, la natura circostante ed il mondo ai nostri piedi. Mi voltai verso il trio e dissi loro: “Voi siete pazzi!” Paolo mi guardò sorridendo e disse: “Questo lavoro lo devi fare tu, ti scegli i compagni e lo fai!”. “Il bello è che non sono sicuro di esserne capace” risposi istintivamente, “Certo che lo sei” disse l’architetto “volevo che ci veniva Bartolomeo, ne ha fatto già un altro, ma mi ha assicurato che tu sei all’altezza”. Feci una smorfia con la bocca ma non risposi. Tirammo fuori i panini e mangiammo in silenzio. Al ritorno, tra una chiacchiera e l’altra, presi confidenza con l’architetto e mi disse che in quei posti avremmo potuto avvistare qualche lupo. Una volta era stato visto anche un orso, ma non si sapeva se ciò era vero. Il viaggio si concluse tranquillamente. La sera a casa andai a dormire distrutto e con la testa piena di pensieri e di dubbi per questo lavoro che mi era stato assegnato. 45 L’elicottero I preparativi per il cantiere sul monte Morrone erano in corso. Nella nostra officina si stava allestendo un prefabbricato che sarebbe servito come dormitorio e con un vano per la cucina. Paolo mi disse che stava contattando delle ditte che noleggiavano elicotteri per il trasporto delle attrezzature, i materiali e le provviste. Un momento molto difficile fu per me la scelta dei miei collaboratori, non era facile trovare persone brave per quel tipo di lavoro e che avrebbero accettato di sopportare i sacrifici di quel genere di vita. Feci dei nomi: Selami Jakup e Osmani Sitkija, che accettarono, il terzo, Selami Bajram si era fatto volontario. Erano tutti e tre macedoni. Avevamo acquistato ogni sorta di genere alimentare e di bevande perchè saremmo dovuti restare su per molto tempo. Ricordo con piacere il venerdì mattina, vigilia della partenza, che durante la riunione con altri capi cantiere, parlando della organizzazione del lavoro, uno di questi, venuto a conoscenza dei componenti della squadra, disse: “E che va a fare solo Nardini con tre manovali?”, Il geometra Paolo gli rispose: “Bè, intanto si vanno a fare un po’ di villeggiatura”. Il sabato mattina la squadra di “manovali” era pronta! 46 Paolo venne a prendermi a casa con il Doblò. Prima di uscire di casa salutai la famiglia e mi soffermai sulla porta di casa a parlare con Daniela. Lei mi chiese: “Sabato tornate?” “Non credo” risposi, “i tempi di lavoro sono ristretti, se torniamo ogni fine settimana non riusciremo a riconsegnare il lavoro in tempo”. Le diedi un bacio ed uscii. Caricammo i miei effetti personali sulla macchina e partimmo. Quando giungemmo sul luogo dell’incontro, i nostri camion carichi di roba erano già sul posto in attesa dell’arrivo dell’elicottero. Era stata scelta una piazzetta dove avrebbe potuto atterrare. Arrivò il camioncino per il supporto a terra della macchina volante e ci diede le reti dove iniziammo subito a sistemare i materiali da trasportare: sacchi di argilla espansa, cemento, intonaci, ferro, tavole, oltre ai viveri ed effetti personali. Giunsero anche il Sig. Enrico e Franco. “Arriva l’elicottero”, disse qualcuno. Mi voltai e lo vidi fare un largo giro su di noi, poi andò a verificare la zona sopra il rifugio dove avrebbe trasportato i materiali. Intanto era arrivato anche l’architetto Iezzi, il quale si diresse direttamente verso Bartolomeo, che era venuto per aiutare la squadra che caricava i materiali, facendogli ancora pressioni affinché ci ripensasse. “Non preoccuparti”, disse Bartolomeo a Iezzi, “stai tranquillo che questi ragazzi lo sapraino fare bene il lavoro”. L’elicottero atterrò alzando un turbinio di vento, qualche cappello finì nelle scarpate e fu tut- 47 to un volare di carte e polvere. Quando le pale smisero di girare tutti si avvicinarono al mezzo. Il pilota intanto era sceso e si stava accordando con i colleghi per le operazioni di carico. Io non ero curioso perché già avevo viaggiato con un mezzo simile quando facevo il meccanico in Iran per la società Saipem. Ultimati i preparativi iniziarono i trasporti. Per primi salimmo io, Paolo, l’architetto ed il tecnico per coordinare le operazioni di scarico. Tutti si allontanarono e le pale iniziarono a ruotare fino a ché, il mezzo si sollevò da terra e raggiunta una certa altezza ruotò su se stesso e inclinandosi in avanti partì. Era meraviglioso vedere il panorama da lassù e sorvolare quelle cime che l’elicottero sembrava sfiorare. In pochi minuti giungemmo sul luogo dell’atterraggio (pensare che a piedi ci avevamo messo più di due ore e mezzo) e dolcemente toccammo terra nel punto scelto dal pilota. Vedemmo il manto di verdura ondeggiare come flutti in un susseguirsi di onde che si andavano a infrangere sul fatiscente rifugio che sembrava ci stesse aspettando. Scendendo dal velivolo ci dovemmo chinare per vincere la forza del vento provocato dalle pale, una volta raggiunta la distanza di sicurezza il mezzo si risollevò. Con il secondo viaggio arrivarono gli addetti allo scarico dei materiali ed al montaggio del prefabbricato. Io davo una mano quando era possibile, feci posizionale il prefabbricato proprio di fronte al rifugio, due serbatoi dell’acqua da dieci quintali li feci mettere sulla collinetta laterale in posizione sopraelevata e uno proprio di fianco al prefabbricato. 48 L’isola dei ….. famosi Nelle prime ore del pomeriggio tutta la roba preparata era stata portata al rifugio e così dopo aver caricato il personale da riportare a valle, il volatile meccanico scomparve dalla nostra vista lasciandoci soli. Ci fu così un lungo momento di silenzio che si univa al silenzio che ci circondava. Dopo la bagarre degli scarichi, le folate di vento, le ondate di polvere, le voci e tutto il resto, lo sconforto ci aveva aggrediti. Mi guardai intorno e mi sembrò di vedere il nulla, alzai allora gli occhi al cielo e ciò che vidi ritemprò il mio essere: “Guarda Jakup”, gridai, “un’aquila”. Le grandi ali immobili, volteggiava sopra di noi senza fare rumore, austera e fiera. Rimpiansi di non aver portato il binocolo e dissi a Jakup: “Ricordami di portare il binocolo, quando torniamo”. “Va bene capo”. Avevamo rotto il ghiaccio. Presi in mano la situazione e dissi: “Jakup, tu e Sitkija cominciate ad organizzarvi per il lavoro, la prima cosa che dobbiamo fare è il risanamento del tetto. Intanto io e Bajram ci occuperemo di fare una tettoia davanti al prefabbricato e sistemiamo il campo” Collegammo con un tubo i contenitori dell’acqua che avevamo posizionato in alto con 49 quello vicino alla baracca, collegammo anche la bombola del gas con il fornello e provammo ad accenderlo con un fiammifero, una fiammata si alzò così alta da arrivare al soffitto. Chiusi immediatamente la bombola e imprecai. Controllai il regolatore e mi accorsi che l’intelligentone che aveva preparato il materiale ce ne aveva fornito uno di quelli che si usano per i bruciatori a cannello (quelli per saldare la guaina di bitume che si mette sulla coperture). Il fornello non avrebbe potuto funzionare! Per fortuna avevo portato per precauzione un fornelletto elettrico, lo cercai e dopo aver rovistato un bel po’ in mezzo a tutta la roba ammucchiata che aspettava di essere sistemata, lo trovai. Mettemmo in funzione il generatore e lo provammo, per fortuna era tutto ok, avremmo mangiato pasti caldi!. Collegammo il frigorifero all’impianto e ci accorgemmo che anch’esso non funzionava. Dissi a Bajram: “Non facciamo sapere niente in sede o succede un casino”. Qualcuno non aveva fatto bene il proprio dovere. Il sole si era andato a nascondere dietro i monti ed aveva lasciato il posto alla luna, a vederla dal rifugio sembrava ancora più era ancora più splendida e luminosa. L’aria era così tersa e leggera che ci aveva messo una fame da lupi (forse anche perché vivevamo nel loro mondo). Buttai nella pentola un chilo di spaghetti e li condii con un sughetto ai funghi. Non sazi mangiammo dei wurstel di tacchino e io e Sitkija bevemmo qualche bicchiere di vino. Al termine della cena chiesi: 50 “Come pensate che si debba procedere per il lavoro?” Rispose Jakup nel suo incerto italiano: “Il tetto sono quattro falde e dobbiamo farne una per volta, così penso Giusè”. “Io penso che è meglio iniziare da dentro”, rispose Sitkija. “Giusè”, ribattè Jakup, “Finchè il tempo è buono è meglio fare il tetto, quando piove facciamo dentro”. Accesi una sigaretta e aspirai una bella, se così si può dire, boccata di fumo, poi guardai Bajram. Non mi è mai piaciuto prendere decisioni senza aver interpellato i miei ragazzi e questo ha sempre dato i suoi frutti. Cacciai il fumo dalle narici mentre Jakup apriva la finestra alle mie spalle e rimproverandomi mi disse: “Non se fuma quì, capo!” “Stasera sopportami per favore”, lui mi sorrise e io continuai, “mi sa che non ce la facciamo a fare questo lavoro” Jakup rispose ridendo: “Che problema c’è?” Sitkija ribattè: “Facciamo tutto, padre”. Sitkija mi chiamava padre perché, quando arrivò nella nostra ditta, direttamente dalla Macedonia, non conosceva una parola d’italiano ed io mi ero prodigato a fargli tanti piccoli favori. Insieme alla sigaretta si era spenta anche l’energia e all’agitazione del primo giorno si era sostituita la stanchezza. Io scelsi di dormire del letto a castello, sotto di me si era sistemato Jakup. 51 Sull’altro letto c’erano sopra Sitkija e sotto Bajram. Appena allungati a letto scherzammo in po’, Jakup mi sollevò la branda dal suo posto allungando le braccia, ma poco dopo Morfeo ci accolse tra le sue braccia e dormimmo beatamente in quel luogo quasi irreale. Alle sei del mattini mi svegliai, avevo dormito profondamente ed erano scomparsi i segni della stanchezza del giorno prima. Scesi dal letto e trovai il vuoto sotto di me, caddi con un tonfo sordo sul pavimento in legno rivestito di linoleum. I miei compagni d’avventura si svegliarono di soprassalto: “Che successe?” disse Jakup nel suo cattivo italiano. “Niente” , risposi “faccio il caffè” “Ti sei fatto male, padre?” chiese Sitkija. Mi rialzai e feci cenno che era tutto a posto, avevo dimenticato che mi trovavo a dormire sulla rete rialzata. Ci mettemmo a ridere. Uscii ed accesi il generatore, entrai nel box doccia che avevamo posizionato di lato alla baracca. L’aria era fredda e l’acqua era gelida. Mi lavai la faccia e rientrai. Preparai la caffettiera e presi il latte dal frigorifero che fungeva da semplice credenza, intanto gli altri si erano alzati ed erano usciti per andarsi a lavare, quando rientrarono il caffè era pronto e i cornetti sul tavolo, facemmo colazione ed uscimmo pronti per affrontare il lavoro. Jakup e Sitkija iniziarono a montare il ponteggio, mentre Bajram preparava i materiali occorrenti. Ci rendemmo subito conto che i caval- 52 letti per la bancata erano sufficienti per fare una falda per volta. Mi incazzai terribilmente perché avremmo dovuto smontarla rimontarla diverse volte. Parlammo di questo e decidemmo, infine di fare un quarto di edificio alla volta, cornicione, tetto, e facciata. Io nel frattempo mi prodigai a migliorare la situazione logistica. Di fianco all’ingresso della baracca feci una specie di basamento con dei sacchi di argilla espansa, sopra vi collocai un serbatoio di vetroresina da duecento litri di capienza. Collegai con due tubi di gomma gli scarichi delle grondaie al serbatoio, così in caso di pioggia avremmo raccolta dell’acqua da usare per i lavori. Per noi il problema maggiore era proprio quello dell’acqua!. Chiamai Bajram e mi feci aiutare a posizionare un grosso cassone metallico in una piccola conca non molto distante e stendemmo dei teli di plastica sul terreno ai lati del cassone in maniera da formare una specie di imbuto. Se avesse piovuto avremmo raccolto fino a dieci quintali di acqua. Finito questo lavoro, con delle tavole di legno, costruimmo una verandina davanti all’ingresso del prefabbricato e lo coprimmo con un telone fissato con una rete metallica elettrosaldata. Passarono i giorni e il lavoro cominciava a progredire, nonostante non avevamo portato la sega circolare e tutte le tavole le dovessimo tagliare con la sega a mano, avevamo preparato le casseforme per rifare il cornicione, compreso i gocciolatoi. Avevamo messo i ferri delle armature e la rete elettrosaldata per rinforzare la falda del tetto. Avevamo ricostruito la parte del muro 53 sottostante, in parte recuperando le pietre crollate ed in parte procurandocene spaccando con la mazza, a forza di braccia, dei grossi massi nelle vicinanze. L’acqua era un problema, le pietre no…. ce n’erano in abbondanza! Nei ritagli di tempo si demolivamo e si rifacevano, con una malta speciale, le stuccature tra la pietre dei muri. Dopo una settimana di lavoro mettemmo in funzione la betoniera e facemmo la gettata di cemento sul tetto e nel cornicione. Un secchio dopo l’altro, una badilata dopo l’altra, alle tre del pomeriggio avevamo finito. E non avevamo pranzato! Preparai il solito chilo di pasta e lo condii con un veloce sugo bianco alle vongole, mangiammo voracemente e dopo andammo sulla cima a telefonare. Dopo ripetuti tentativi riuscii a contattare Paolo: “Come và?” – mi chiese, “Bene, rientriamo dopodomani, alle undici ci incontriamo sotto, alla fine del sentiero. Devo portare degli attrezzi. Come possiamo fare?” “Affittiamo i cavalli per il trasporto. Come è venuto il lavoro?” “Vienitelo a vedere” – gli risposi. Il giorno seguente sistemammo tutte le fughe di una parete, ma il pomeriggio, delle grosse nubi nere coprirono di colpo il cielo, decidemmo di sistemare il cantiere. Coprimmo con dei teloni i materiali cementizi. In una grossa buca, appositamente scavata, bruciammo le carte dei sacchi e dopo averci messo gli altri rifiuti la ricoprimmo di terra. Ne avremmo fatta un’altra al 54 nostro ritorno. Dopo cena giocammo a poker e persi, come tutte le altre sere, una decina di simidi, come i miei amici chiamavano in macedone i nostri cornetti. Poi tutti a nanna. Verso le undici di notte iniziò a piovere, poi piano piano la pioggia si trasformò in un vero e proprio diluvio. Provavo una piacevole sensazione di benessere in quel dormiveglia. Mi piaceva sentire il ticchettio che faceva sulla lamiera del soffitto la pioggia che cadeva, ma tutt’a un tratto: “Padre aiuto, piove” aveva gridato Sitkija terrorizzato, “Lo sentiamo che piove, smetterà, mica possiamo fermare la pioggia”. “Ma piove, padre” “Ma mò che ti possiamo fare?” disse Bajram, “facci dormì che domani dobbiamo camminare” “Si, ma sono tutto bagnato!” Saltammo dal letto ed accendemmo la torcia a batteria. Povero Sitkija, era davvero tutto bagnato, gli pioveva dal tetto. Spostammo il letto e mettemmo per terra un paio di secchi in corrispondenza di dove gocciolava, la mattina li ritrovammo pieni. Venne l’ora di alzarsi, la pioggia non era cessata ma era molto più leggera. Decidemmo di partire lo stesso, li avrei riportati a valle. Cosa avevo fatto a fare tutti quei corsi? Presi quattro grosse buste che erano servite da imballaggio per dei materiali, vi feci dei buchi per la testa e per le braccia e ce li infilammo come degli impermeabili, avvolgemmo intorno alle gambe ed alle 55 braccia dei pezzi di plastica fermati con del nastro adesivo. Ci caricammo sulle spalle i pesanti zaini con la biancheria sporca e così conciati ci mettemmo in marcia. Anche se chiamavo tutti i giorni a casa, non vedevo l’ora di riabbracciare la famiglia. Il percorso, già accidentato per se stesso, adesso era reso più pesante dalla pioggia che, anche se era diminuita notevolmente, continuava ad accompagnarci. Incominciavo a stancarmi e lo zaino sulle mie spalle sembrava che aumentasse di peso ad ogni passo che davo. Procedevamo in fila indiana, avanti c’era Jakup, seguiva Sitkija, poi io e dietro di me c’era Bajram. Giungemmo al tratto di sentiero franato, i due battistrada lo superarono con difficoltà, Jakup voltandosi mi disse: “Stai attento, Giusè”. Un piede dopo l’altro procedevo con cautela evitando di guardare verso il basso, quando di colpo il terreno cedette sotto i miei piedi. Vidi grosse pietre rotolare verso il basso ma io non ero con loro. La forte mano di Bajram mi aveva afferrato per lo zaino e mi tratteneva impedendomi di scivolare giù. I due davanti buttarono a terra il loro carico e corsero in mio soccorso e dolcemente ma con fermezza mi tirarono su. Riprendemmo il cammino mentre la pioggia aveva smesso di cadere. Il mio zaino adesso lo portavano loro, a turno. Sei troppo vecchio, mi avevano detto. Giunti alla fine del sentiero trovammo Paolo che ci aspettava: “E’ andato tutto bene?” Noi ci guardammo e rispondemmo: 56 ”Tutto bene, capo”. Erano passati dieci giorni, Bajram, il più giovane disse: “Geò, mi sembrava che stavamo sull’isola dei famosi”, scoppiammo a ridere come matti. 57 Finalmente è finita! A casa fu festa grande e tutti mi facevano domande su come era la vita su quel monte, io ero stanco ma, nonostante ciò, raccontavo come andavano le cose, cercando di ridimensionare le difficoltà. Daniela mi chiese: “Per andare al bagno come fate?” “Ognuno ha il proprio servizio igienico, abbiamo scavato delle buche per terra, la mia è a una cinquantina di metri dalla baracca “Ho capito” disse Daniela, “ma se piove come fate?” “O non ce la teniamo o portiamo l’ombrello!” “E per mangiare?”, chiese Letizia, la primogenita. “Benissimo, ho insegnato io a tua madre. Volete sapere se ci laviamo? Si facciamo la doccia ogni paio di giorni. Adesso se non avete altro da chiede vorrei fare una doccia vera e mangiare le porcherie che cucina vostra madre”. Il pomeriggio telefonai a Valter: “Buongiorno signora, avrei bisogno di parlare con Valter, è in ufficio?” “No Nardini, è a una riunione di partito, quando torna gli dico che hai chiamato” “Grazie, volevo sapere se c’era qualche sviluppo” “Ti faccio richiamare”. Salutai e chiusi la chiamata. 58 Saremmo dovuti ripartire tra un paio di giorni ma, visto che i miei compagni sarebbero tornati in Macedonia, dovetti trovare degli altri “manovali” per sostituirli. Avemmo anche il tempo per organizzare il trasporto con i cavalli dei viveri e delle piccole attrezzature occorrenti. Ritardammo di una settimana la partenza, svolgendo dei lavori a Scafa. Sfortunatamente trovai solo due sostituti per i tre operai mancanti e quindi per la seconda tornata partimmo in tre. Ma partivo con il cuore in pace perché nel frattempo era finalmente finita la vertenza con la Ilas. A distanza di tre giorni dalla mia chiamata, Valter aveva organizzato l’incontro. Mi aveva dato appuntamento per le nove. Fui puntuale, ma come al solito, alle dieci meno un quarto non era ancora arrivato. Mi allontanai per andare a prendere un caffè. Quante volte avevo sostato in quella Piazza San Giustino in attesa delle udienze e sperai che quella fosse proprio l’ultima. Di tanto in tanto incontravo qualcuno che mi riconosceva e mi chiedeva come fosse finita la vicenda, per scaramanzia non dissi a nessuno che probabilmente tutto si sarebbe concluso quel giorno. Assaporai lentamente il caffè che avevo già pagato alla cassa e diedi un’occhiata alla barista che aveva gli occhi color del mare, era veramente carina! Uscii dal locale e tornai al tribunale, mi diressi nell’aula delle udienze e vi trovai finalmente Valter: 59 “Ti cercavo”, mi disse. Io non ebbi voglia di dirgli che ero lì dalle nove. “Mi hai trovato”, gli risposi. “Deciso a chiudere la vertenza?” “Si”, affermai seccamente. “Andiamo allora”. Varcammo una soglia alla sinistra del banco dei giudici, attraversammo un breve corridoio, bussò aprendo contemporaneamente una porta sulla destra ed entrammo. Il giudice Marsella era seduto dietro una massiccia scrivania, alla mia destra c’era Gianvincenzo, il figlio di Cracchiolo, (vi sembrerà strano ma non ricordo se c’era anche lui), poi il loro avvocato e oltre a me c’era Valter. Marsella si alzò e mi diede la mano, poi fu la volta degli altri presenti. Quando strinsi la mano a Gianvincenzo, ci fu uno scambio di sguardi tra gli altri presenti. Io ed il mio ex datore di lavoro mascherammo l’imbarazzo dietro un sorriso. Il giudice ruppe il silenzio: “Allora Nardini, come và?” “Bene signor giudice, molto bene” “Mi ha detto Valter che adesso lavora in un impresa edile” “Si, è vero”, risposi. “Allora vediamo di chiudere questa vertenza, per la gioia di tutti. Come stanno le cose?” disse rivolgendosi a Valter , “Signor giudice, Nardini rinuncia, nonostante il mio consiglio, a portare avanti la vertenza per essere reintegrato nel suo legittimo posto di la- 60 voro. Abbiamo concordato con la controparte una cifra forfetaria per questo periodo, cifra che Nardini neanche conosce” “Gliela dica allora” Quando Valter sparò l’importo tutti gli occhi erano puntati su di me. Doveva essere evidente che io tentassi di rialzare la cifra, ma quando risposi “Va bene” gli sguardi se li scambiarono tra di loro. “Vorremmo però dilazionare l’importo in più rate”, aggiunse Gianvincenzo, “Sai Nardini, è un momento difficile e …….” “Non c’è nessun problema, dove devo firmare?” Mentre preparavano le carte, squillò il mio cellulare “Posso?”, chiesi al giudice, “Prego risponda pure”. Era il geometra Paolo, con il quale parlai per qualche minuto per l’organizzazione del viaggio per tornare al rifugio in montagna. Quando chiusi la conversazione Marsella mi chiese: “Ho sentito parlare di un elicottero, ma a cosa vi serve?” Gli spiegai il lavoro che stavamo facendo e del motivo per cui ci necessitava l’elicottero. “Nardini, lei mi sorprende sempre di più!”. I documenti erano stati approntati sul tavolo, firmai dove mi indicarono, poi venne il turno di Gianvincenzo. Mi sentii uscire da un incubo, ebbi la sensazione di volare tanta era la leggerezza che mi sentivo, sì di volare. Ebbi la sensazione di essere quell’aquila che volteggiava 61 sulla mia testa, sul monte Morrone, finalmente libero, come lei! Telefonai in ufficio e chiesi del geometra, parlai con lui della mia gioia e della mia liberazione: “Buone notizie, finalmente è finita!”. Non tornai a casa, me ne andai al Parco del Lavino dove mi rifugiavo con mio figlio, negli anni di lotta. Mi sedetti sul solito tronco e con gli occhi rivolti al cielo pensai cosa era stata la mia vita, a come ero riuscito a sopportare tutti quegli avvenimenti. Scorrevo nelle mia mente la cronologia dei duri momenti che avevo attraversato: vidi un uomo con una catena al collo, legato ai cancelli della sua azienda. Lo vidi patire la fame, il freddo, le umiliazioni di chi non riesce a mantenere una famiglia. Lo vidi stringere le mani di uomini politici: Dalema, Casini, Marini, Diliberto, Corleone, Fini, Melilla, Saia (che aveva fatto tre interpellanze parlamentari sul mio caso), il presidente della Confindustria Fossa, e tanti altri fino all’abbraccio con il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, l’unico determinante per la soluzione della prima parte della vertenza. Lo vidi incatenarsi sotto il palazzo della Provincia, sotto la Regione, davanti al Quirinale mentre litigava con le forze dell’ordine. Lo vidi riattaccare la corrente che gli avevano tagliato. Mentre quelle immagini continuavano a scorrere, accesi una sigaretta, lo vidi allora accanto alla famiglia che, nonostante tutti i patimenti, gli era rimasta vicino. Guardando dissolversi in 62 cielo l’ultima nuvoletta di fumo, con essa svanirono anche tutte quelle immagini. Mi alzai e tornai a casa. 63 Si torna al rifugio Il tre di agosto era tutto pronto per la partenza. Avevamo caricato tutto sul Doblò di Paolo, non dimenticai il binocolo. Caricammo anche una piccola sega circolare e una fresa che pensai ci potesse tornare utile. Paolo ci accompagnò fino all’inizio del sentiero che avremmo percorso a piedi per raggiungere il rifugio. Dopo un breve saluto, proseguì per Passo San Leonardo dove avrebbe caricato la roba sui cavalli ed insieme ad Antonio, che era il loro proprietario, ci avrebbe raggiunto. I miei nuovi compagni erano due romeni., Farcas Catalin lo conoscevo bene ed è ancora oggi nella mia squadra. Il cammino fu faticoso come sempre e dopo circa tre ore giungemmo al rifugio. Paolo, Antonio e un altro ragazzo che li accompagnava, arrivarono dopo quattro ore. Noi avevamo già pranzato ed iniziato a lavorare. Mentre scaricavano i cavalli, preparai da mangiare anche per loro. Prima di ripartire Paolo mi chiamò in disparte e mi disse: “Avete fatto un bel lavoro finora, ma dobbiamo accelerare i tempi perché siamo in ritar-do sull’avanzamento del restauro che avevamo programmato”. “Accelerare i tempi? E come credi che possa fare con una persona in meno?” Fece una smorfia con la faccia alzando le spalle, poi si avviò verso i cavalli. Salì in groppa agevolmente, anche se era alla sua prima esperien- 64 za. Ci salutarono con un cenno della mano mentre si avviavano. Li vedemmo allontanarsi fino a sparire dalla nostra vista. Avevamo spostato il ponteggio e rimosso la cassaforma del cornicione, senza smontarla completamente, in maniera da poterla rimontare semplicemente adattandola con un nuovo angolo d’inclinazione. Lavorammo febbrilmente, ma una persona in meno riduceva sensibilmente il procedere dei lavori. Catalin si impegnava molto, così pure l’altro ragazzo. Una sera, durante la cena, Catalin mi chiese: “Capo, quando torniamo giù? Stiamo qui da una settimana e abbiamo provviste solo per altri due o tre giorni “ “Domani facciamo la gettata del cornicione e della falda del tetto, poi rientriamo”. Il giorno seguente gettammo il tetto in tre, fu un lavoro davvero massacrante. Alle nove di sera eravamo già a letto stanchi morti, ma non riuscivamo a prendere sonno. Tra una chiacchiera e l’altra, trovai il coraggio di fare una proposta: “Ve la sentite di restare qualche altro giorno?” “E cosa ci mangiamo?”, rispose Catalin. “Vado a telefonare a Paolo e faccio portare i viveri, oltre a qualche cassa di birra. Ok?” “Fai un po’ come cazzo ti pare” risposero seccati, dopo un attimo di silenzio. Saltai dal letto e prima che ci ripensassero, presi il cellulare e andai alla cabina telefonica (avevamo battezzato così il posto in cima alla altura dove si prendeva con il telefono). La sera 65 stessa Paolo organizzò il trasporto e due giorni dopo Antonio Del Monte con i suoi cavalli arrivò al rifugio con abbondanti viveri, oltre al vino ed alla birra. La cosa ci tirò su di morale. Rimanemmo in quel posto ventitré giorni consecutivi. In quel periodo demmo inizio ai lavori all’interno del rifugio. La cosa più brutta fu spalare tutolo sterco di mucca che stava per terra nei due locali al piano terra. Finalmente giunse il momento di rientrare alla base. Mettemmo in sicurezza il cantiere e ci mettemmo in cammino. Questa volta andò tutto liscio. Raggiungemmo dopo circa due ore e mezza il punto di incontro con Paolo, la vista della macchina mi sembrò una cosa strana e così il rumore del suo motore. Ormai non capivo più cosa fosse più irreale il rombo del motore o il silenzio di Jaccio della Madonna. A casa fu festa grande, mi sembrò che mio figlio fosse diventato ancora più alto. Pranzai con gusto e andai a riposare. La sera uscii con tutta la famiglia e andammo a mangiare una pizza in un locale di Chieti Scalo, poi finalmente dopo ventitré giorni avrei dormito con mia moglie! Il giorno dopo mi recai in ufficio e feci un dettagliato resoconto dei lavori eseguiti, esprimendo il mio parere nel prevedere che non saremmo stati in grado di ultimare il restauro entro l’anno. 66 La lupa Tornammo altre due volte al rifugio e ogni volta cambiavano gli operai che venivano su, fortunatamente erano tornati Jakup e Sitkija, rispetto ai quali nutrivo particolare fiducia. Oltre a me, i miei ragazzi furono tutti o macedoni o romeni, ma l’armonia regnava sovrana. Sulla baracca avevamo messo a sventolare una bandiera iridata: la bandiera della pace. Spesso passavano in quella località comitive di turisti, appassionati di escursionismo, che venivano anche dall’estero per ammirare le nostre stupende e verdi montagne. Un giorno, Emir, un giovane macedone ventenne che era alla seconda turnazione in quel cantiere, mi chiamò tutto eccitato: “Giusè, guarda, guarda lassù!” Vi voltai a guardare nel punto in cui mi indicava con la mano, vidi procede serpeggiando lungo il sentiero, in fila indiana, sei o sette ragazze. Procedevano lentamente ma con passo sicuro, piccozza in mano e zaino in spalla. Inevitabilmente l’occhio cadde sul loro abbigliamento: scarponi da montagna e pantaloncini corti. Ci soffermammo tutti a guardare ed a fare commenti, ma quando da dietro la cima del colle spuntarono anche i loro accompagnatori, riprendemmo a lavorare. Dopo circa mezz’ora giunsero al nostro campo. 67 “Giorno”, salutarono con un italiano incerto e chiesero “avere un poca acqua?” Già, l’acqua, restava sempre il nostro problema principale e ne era rimasta veramente poca. Per il lavoro la riciclavamo tutta raccogliendo anche quella con la quale ci lavavamo o cucinavamo la pasta, non se ne sprecava neanche una goccia. Quando pioveva erano salti di gioia. Avevo dovuto collegare la vasca, che raccoglieva l’acqua del telone, ad un contenitore sottostante. Questo perché le mandrie di mucche che pascolavano allo stato brado ne venivano attratte irresistibilmente. Ormai il telo, che avrebbe dovuto raccogliere l’acqua, era stato irrimediabilmente danneggiato dagli zoccoli delle mucche e non raccoglieva che poche gocce. Gli demmo lo stesso una bottiglia da due litri e se ne andarono ringraziando. Non gli chiedemmo neanche di dove fossero, ma dovevano essere tedeschi o austriaci. Il lavoro andava avanti. Il tetto era completato e così anche tutto l’esterno. Internamente avevamo completato l’ottanta per cento dei lavori. Costruito il caminetto in pietra, completo di canna fumaria, ricostruito il solaio in legno tra in piano terra e il locale al primo piano, rifinito le pareti interne e sistemato il plafone. Mancava la gradinata in legno, ma la stavano preparando in officina e l’avrebbero portata già pronta. Il quattordici ottobre decidemmo di sospendere i lavori e chiudere il cantiere. I materiali erano quasi finiti, il freddo si faceva sempre più intenso e la minaccia della neve sempre più reale. 68 Portammo i materiali rimasti all’interno del rifugio e sprangammo con dei pannelli di legno porte e finestre. Puntellammo dall’interno il tetto del prefabbricato per sorreggere il peso della neve. Quella notte non riuscimmo quasi a dormire. Nonostante i nostri sforzi non eravamo riusciti a finire i lavori, come purtroppo avevo previsto. Il giorno dopo partimmo per rientrare. Non fu un viaggio facile perché normalmente in montagna in inverno nevica e così fu, la neve ci accompagnò per tutto il tragitto. Ma la cosa non ci aveva colti impreparati, infatti la sera prima ci aveva avvisato di ciò una lupa mentre scendeva dal cucuzzolo che ci sovrastava con dietro il suo cucciolo. 69 Emergenza bomba Paolo era stato nominato responsabile del Gruppo di Protezione Civile della Misericordia di Scafa. Il venerdì sera passai in ufficio per portare i soliti rapportini giornalieri dei lavori. Paolo mi informò che era stato ritrovato, durante gli scavi per la realizzazione di una nuova costruzione, proprio nelle vicinanze, un ordigno bellico risalente alla seconda guerra mondiale. “Il sindaco ci ha chiesto la collaborazione per organizzare l’evacuazione della popolazione per un raggio di cinquecento metri. Questa sera ci riuniamo in comune, vieni anche tu?” “No, sono stanco, poi farò tutto quello che deciderete di fare. Appena sai qualcosa mi fai un colpo di telefono” Salutai Franco mentre passai davanti alla porta del suo ufficio e me ne andai. Tutto fu organizzato alla perfezione e la domenica mattina ci ritrovammo tutti presso il municipio che fungeva da centrale operativa. Nella piazza del comune erano disposti tutti i mezzi degli addetti all’emergenza. Paolo e Mauro Feliziani riunirono il nostro gruppo di volontari e componendo le varie squadre ci assegnarono le zone dove operare, spiegandoci cosa fare e consegnandoci la radio ricetrasmittente. Antonio D’Alessandro, che mi era stato assegnato come compagno di squadra, prese la radio e se la infilò nel taschino. Il nostro territorio di pertinenza rica- 70 deva proprio dentro il perimetro della zona da evacuare, per cui andammo di casa in casa, porta per porta e controllammo tutta l’area di nostra competenza. Aiutammo qualche anziano ad uscire ed a raggiungere le auto. Dovemmo chiamare i carabinieri perchè una persona non era intenzionata ad abbandonare la propria abitazione. Quando passammo vicino al punto dove era stata ritrovata la bomba, vedemmo i mezzi degli artificieri. Avevano scavato una buca ed adagiata la bomba sopra un pianale fatto di tavole di legno. “Non ci metterei piede neanche se mi sparano” dissi ad Antonio, “Io sì”, mi rispose lui con enfasi. Tornammo al comune e salimmo al piano superiore e consegnammo ad un vigile urbano gli elenchi degli evacuati e attendemmo nuove istruzioni. Nel frattempo, il sindaco Luigi Sansovini, in qualità di primo cittadino, controllava che tutto procedesse come dovuto. Un funzionario della prefettura lo avvicinò e gli disse: “Lei sicuramente vorrà seguire di persona tutte le fasi delle operazioni, scelga una persona di fiducia che viene con lei” Luigi si guardò intorno, c’erano proprio tutti, i carabinieri, i vigili urbani, i poliziotti, i vigili del fuoco e tutti i rappresentati delle associazioni di volontariato. Si rivolse al funzionario e gli disse indicandomi: “Nardini, porto con me Nardini” Il funzionario si voltò verso di me e mi ordinò: “Lei, vada con il signor sindaco!” 71 Mi avvicinai a Luigi e lo ringraziai. Avevo paura ma mi sentivo onorato della fiducia. Una camionetta dell’esercito, dal municipio, ci condusse nei pressi della bomba, mentre la sirena del cementificio suonava per avvisare la popolazione che l’emergenza bomba era entrata nella fase cruciale. Scendemmo dentro lo scavo e ci avvicinammo, il disinnesco era appena iniziato, due artificieri erano intenti a lavorare sull’ordigno e ci davano le spalle. Restammo in silenzio come tutti fino a che uno dei due non si voltò verso il sottufficiale che ci aveva accompagnato e gli mise qualcosa tra le mani, il maresciallo guardò quel pezzo di ferro e lo porse a Luigi dicendo: “E’ una bomba lanciata dagli inglesi durante i bombardamenti, è una di quelle che non scherzano, è di cinquecento libbre!” “Questa è la spoletta”, disse Luigi, “Quindi avete già finito” Il maresciallo, sorridendo, rispose; “Magari! Quest’ordigno ha due spolette ed è strano che non sia esplosa. Ora procederemo a togliere anche la seconda. Se volete potete rimanere ma, anche per la tranquillità degli artificieri sarebbe meglio ……” Luigi lo interrupe dicendo: “Ce ne andiamo subito!” Mentre ci allontanavamo li sentivamo scherzare, beati loro!. Dopo il disinnesco assistemmo al carico della bomba su di un fuoristrada e seguimmo il trasporto fino al luogo dove sarebbe stata fatta brillare. Quando tutto fu pronto ci mettemmo a distanza di sicurezza ad aspettare il 72 botto, ma quando la bomba esplose ci rendemmo conto che la distanza di sicurezza non era quella. Una fitta pioggia di pietre e pezzi di terra ci cadeva addosso, io mi gettai sotto un camion militare proprio mentre un detrito grosso quanto un pompelmo cadde lì vicino proprio sull’auto dei vigili urbani sfiorando la spalla del suo autista. Finiti di cadere i detriti uscii dal mio provvidenziale improvvisato rifugio e vidi un’enorme nuvola di fumo e polvere che si alzava nel cielo. Finita l’emergenza, ci ritrovammo tutti al municipio per i ringraziamenti del sindaco e per i saluti. In occasione dell’evento era stato allestito un locale, nella frazione di De Contra per accoglie-re eventuali sfollati, erano stati preparati anche dei pasti caldi ed il sindaco, di cui ero diventato l’om-bra, invitò tutti i presenti a mangiare qualcosa. Io non vedevo l’ora di tornare a casa e ringraziando rifiutai l’invito. Mi riaccompagnarono a casa con la macchina dei vigili urbani. Dopo aver cenato e soddisfatto tutte le curiosità di mio figlio Daniele, me ne andai a letto. Prima di prendere sonno, ripassai mentalmente tutte le vicende della giornata e mi resi conto di far parte di un’ottima Associazione con di un gruppo di Protezione Civile con un responsabile capace ed un governatore eccezionale. Mi ricordai anche di una presa di posizione del sindaco che si era opposto ad una decisione giunta dagli uffici della prefettura su questioni di ordine pubblico. Sansovini aveva risposto: 73 “Il sindaco di Scafa sono io e si opera secondo le mie decisioni!” Mi addormentai pensando che gli uomini di polso esistono ancora ma che, purtroppo, in questo piccolo paese accarezzato dal fiume Pescara, di uomini di polso non ce n’erano poi tanti. 74 Un gruppo di amici A Jaccio della Madonna stava per iniziare l’atto finale. Paolo ed io lavorammo alacremente, per i preparativi, per circa una settimana. L’elicottero per i trasporti non era disponibile nell’immediato e comunque gli infissi in acciaio inox e la gradinata non erano ancora pronti. Si decise di partire con i cavalli e di seguito sarebbe venuto l’elicottero per portare la roba. Nel frattempo io, Paolo e l’architetto eravamo andati a piedi a fare un sopralluogo. C’era ancora la neve, ma si poteva lavorare. Partimmo il 28 giugno 2005. Jakup, Sikija e Emir, salirono per il solito sentiero che ormai conoscevano a memoria. Io, Paolo e Antonio Del Monte, partimmo da Passo San Leonardo con i cavalli. Dovevamo fare per forza quella strada che era molto più lunga perché i cavalli carichi di roba non riuscivano a salire per il sentiero in quanto c’erano dei tratti in salita troppo ripidi. Non era la prima volta che facevamo quel percorso ma, in quella occasione, il cavallo che montavo non ne volava sapere di portarmi a destinazione. Neanche il suo padrone, Antonio, riusciva a convincerlo a collaborare. Pensai alle carote che avevo portato con gli altri viveri, scesi da cavallo ed a fatica estrassi da una grossa sacca di provviste la busta piena delle radici color arancione e ne offrii qualcuna all’ animale (con le buone maniere si ottiene tutto!). Riprendemmo così il cammino con tranquillità e 75 la carovana giunse al rifugio dopo cinque ore di marcia. I miei colleghi, che erano giunti già da tre ore, avevano iniziato a sistemare il cantiere. Nelle zone in ombra giacevano ancora cumuli di neve e ne approfittammo per riempire tutti i contenitori che avevamo per fare provvista di acqua. L’aria era fredda, decidemmo di trasferire i letti dalla baracca all’interno del rifugio, nel locale di destra, dove avremmo potuto accendere il fuoco dentro il camino. Paolo fu felice che, nonostante la montagna di neve che aveva sommerso tutto, i lavori eseguiti non avevano subito danni, anzi il tutto aveva resistito benissimo. Appena mangiato, Paolo e Antonio, con i cavalli, ripresero la strada del ritorno. Quella sera dormimmo confortati dal calore del fuoco che scoppiettava dentro il caminetto. Alle cinque del mattino eravamo già tutti in piedi. Preparai la colazione: latte e caffè. La consumammo azzannando anche un paio di cornetti a testa. “Capo”, disse Jakup, “mentre cominciamo a preparare tutto il resto, tu controlla la betoniera. Hai detto a Enrico che avremmo finito il lavoro in venti giorni e noi vogliamo mantenere la parola” “Speriamo, speriamo di farcela” Sapevo che sarebbe stata dura, anzi quasi impossibile rispettare quel termine, ma dovevamo provarci. Mentre gli altri avevano già iniziato a fare delle rifiniture, io mi occupai della betoniera. Quando tolsi il telone che avevamo messo per protezione, mi cadde il mondo addosso: il pe- 76 so della neve l’aveva deformata e resa inutilizzabile. “Jakup!”, gridai chiamandolo “Vieni a vedere” Jakup, allarmato dal mio urlo, arrivò di corsa e resosi conto della situazione si mise le mani nei capelli. Dovevamo preparare ancora diversi metri cubi di calcestruzzo per gettare il massetto del pavimento dei locali al primo piano ed al piano terra nella zona di sinistra del rifugio, oltre al marciapiede sul fronte del fabbricato. “Non possiamo ripararla?”, mi chiese “E come facciamo Jakup, non abbiamo né gli attrezzi né i pezzi di ricambio necessari e poi ci vorrebbe una saldatrice” “Chiama Paolo e digli di farne portare un’ altra con l’elicottero” Andai di corsa sulla cima, che chiamavamo la cabina telefonica e dopo circa un ora passati a fare tentativi riuscii a prendere la linea e a parlare con Paolo per esporgli il problema. “Non vi posso aiutare perché l’elicottero non può venire prima della settimana prossima, purtroppo vi dovete arrangiare così” “Ricordati il gasolio per il generatore”, gli dissi sconfortato, prima di salutarlo. Impastammo il calcestruzzo a mano, dentro la carriola, ma, per il lavoro di due ore impiegammo una giornata. Non era accettabile. Per la prima volta cenammo in silenzio e accompagnati dallo stesso silenzio andammo a dormire. Le mani dietro la nuca e gli occhi aperti a fissare il soffitto, meditavo sul da farsi. Pensai a 77 quando, in Algeria, avevo riparato un motore con i tappi della coca-cola facendo funzionare il mezzo, o di quando avevo sostituito l’acceleratore di un camion con un semplice cavetto d’acciaio da manovrare a mano. E che aveva di speciale quella betoniera? Il mattino seguente tutti ripresero il loro lavoro, ogni tanto mi guardavano mentre manipolavo intorno alla betoniera ed avevano riso quando, dopo aver rimosso il motore, avevo fatto dei fori con il trapano per fissarlo di nuovo. Rimisi al suo posto il motore e feci dei tiranti con il filo di ferro che usavamo per legare i casseri di legno, per sostenere i supporti della bicchiere ruotante della betoniera. Accesi il generatore ed inserii nella presa la spina della prolunga della corrente. Non fu necessario che li chiamassi perché erano già tutti lì presenti, penso che in quel momento ognuno pregava il suo Dio. “A te l’onore Jakup, premi il pulsante” Il motore partì ed il bicchiere iniziò a ruotare con un rumore stridulò che colpì le nostre orecchie. Girava male, ma … girava! “Bravo padre” mi disse Sitkija. “Non possiamo caricarla troppo però, guarda sembra una signorina che sculetta” Tutti risero. Lavoravamo senza risparmiare le energie o badare agli orari, fu così fino all’arrivo dell’elicottero. Il rumore delle pale annunciò il suo arrivo. Paolo ne discese insieme all’operatore per lo scarico e a due nostri colleghi che avrebbero dovuto montare gli infissi e la gradinata in legno. Il 78 nostro lavoro era agli sgoccioli, a noi rimaneva solo da realizzare il marciapiede. Prima di sera tutti ripartirono e noi, come sempre rimanemmo soli, tra il cielo e la terra. Ci guardammo intorno, le porte non erano state montate e la gradinata non l’avevano portata. “Giù non hanno fatto in tempo a prepararla, fatela voi con il materiale che avete qui”, mi aveva detto Paolo. Grazie alla fresa che avevo portato, modificammo le porte e le montammo, costruimmo la gradinata con dei tavoloni di legno, facemmo persino il parapetto lavorando delle tavolette, in maniera da non farlo sembrare una semplice staccionata e non per vantarmi ma venne proprio bello da vedersi. Infine ultimammo anche il marciapiede. Avevamo lavorato con amore e con passione, per questo motivo riuscimmo a terminare il restauro nel tempo prestabilito. Il diciassette luglio Jakup e Sitkija, caricatisi sulle spalle gli zaini con i loro effetti personali, lasciarono Jaccio della Madonna per fare ritorno a valle, di lì a qualche giorno sarebbero tornati in Macedonia a trascorrere le meritate ferie. Io ed Emir restammo a preparare tutto quello che era rimasto e che in seguito sarebbe stato riportato alla base. Il diciannove luglio del duemilacinque il cantiere era ultimato. L’architetto Iezzi ci raggiunse in mattinata, in compagnia di un suo amico. Controllò i lavori e si complimentò con noi, 79 facemmo una breve colazione e mentre caricavamo gli zaini sulle palle, rivolgendosi a me, disse: “Nardì, non stai dimenticando qualcosa? Le chiavi del rifugio non me le dai?” Aveva ragione, non gli avevo consegnato le chiavi del rifugio. Mi misi le mani in tasca e le estrassi, dopo averle osservate per un attimo, gliele porsi. Ricontrollammo che porte e finestre fossero chiuse bene e ci avviammo per il ritorno. Quando giungemmo in cima al colle che sovrastava il rifugio, mi voltai per guardare, forse per l’ultima volta Jaccio della Madonna, una costruzione in pietra spersa tra i monti e che per un pezzo della mia vita aveva rappresentato per noi tutto il mondo creato. Forse l’avrei rivista solo in fotografia. Due lacrime solcarono le mie guance. Emir, vedendo la mia commozione cercò di rincuorami dicendomi: “Dai capo, non piangere, torniamo alle famiglie”. A ripensarci adesso, quel lavoro fu un meraviglioso calvario, perché avemmo così modo di conoscerci, affiatarci, capirci. Dovevamo risolvere i problemi da soli, poiché i consigli che Paolo ci dava per telefono, venivano dal mondo in cui si è abituati a vivere, lì contavano poco, quei consigli non si potevano adattare al quel mondo primitivo. I disagi dovuti alla scarsità di acqua, il freddo, i servizi igienici all’aperto, le mucche e i cavalli al pascolo che di notte invadevano il nostro campo in cerca di acqua, la nostalgia di casa e delle persone care, la solitudine, quella solitudine che aveva trasformato un gruppo di operai di na- 80 zionalità e religione diversi, in un gruppo di veri amici, che avevano saputo trasformare il lavoro in divertimento: Selami Jakup era rimasto in montagna, per un totale di cinquanta giorni; Osmani Sitkija per cinquantanove giorni; Farcas Catalin per ventotto giorni; Selami Bajram per dieci giorni; Ahmeti Emir per venticinque giorni; Nardini Giuseppe per ottantadue giorni, che oggi, a distanza di tempo, posso definire “meravigliosi”. 81 Brucia tutto Da mesi non riuscivo a dedicarmi ai servizi di volontariato. Il lavoro mi prendeva totalmente e spesso, per motivi di organizzazione, bisognava andare a lavorare nei giorni festivi o fuori regione. Avvicinandosi l’estate, decisi di riconsegnare alla Misericordia la divisa e le attrezzature che mi erano state date in consegna. Avevo parlato di questa decisione con Mauro Feliziani, il nostro governatore che, pur con dispiacere, aveva acconsentito. Avevo, quindi, preparato tutto dentro un borsone che avrei riconsegnato la sera stessa. Stavamo effettuando un lavoro di bonifica amianto sulla copertura di un fabbricato, in un paese a circa venti chilometri da Scafa, quando squillò il mio cellulare: “Giusè, sono Paolo, siamo stati precettati dalla prefettura, quando torni?” “Il tempo di rimettere a posto gli attrezzi, sono già le cinque, ma cosa è successo?” “Qui intorno sta andando tutto a fuoco. Appena arrivi cambiati, ti passeranno a prendere i volontari del gruppo di Protezione Civile con il fuoristrada dell’Associazione”. Durante il ritorno, avvicinandoci a Scafa, vedemmo una cappa di fumo che copriva tutta la vallata, si vedevano anche alte fiamme che si estendevano tutto intorno, a partire dal fiume fino 82 alle colline sovrastanti il paese, alcune case erano già minacciate dagli incendi. Quando i ragazzi passarono a prendermi stavo finendo di allacciarmi gli scarponi anfibi. Scesi di corsa e buttai il borsone sul cassone del fuoristrada dove era stato sistemato il modulo antincendio. “Dove andiamo?”chiesi, “Ai campetti da tennis, le fiamme li stanno raggiungendo e minacciano di bruciare il pallone di copertura.” Il posto era praticamente un po’ più su di casa mia, oltre la ferrovia ed arrivammo in due minuti. Un vigile del fuoco ci indicò il luogo dove dovevamo operare. Scesi dalla macchina, aprii la borsa e indossai il sottocasco, i guanti e l’elmetto, impugnai la lancia del modulo e scesi verso il fiume insieme ai ragazzi che mi aiutavano a tirare la manichetta di gomma. Dirigendo il getto dell’acqua che usciva dalla lancia, iniziai a contrastare l’avanzata del fuoco, ma dopo una ventina di minuti non ce la facevo più e chiamai il cambio. Nonostante la visiera dell’elmetto, gli occhi mi bruciavano e anche la respirazione era diventata affannosa. Giunto sul prato antistante, crollai a terra, mi misi supino e togliendomi l’elmetto ed il sottocasco, iniziai a respirare a pieni polmoni. Un vigile del fuoco inginocchiandosi al mio fianco mi chiese: “Tutto a posto?” “Sì”, risposi, “per la fretta non ho indossato la maschera di respirazione” 83 “Anche se spesso non serve, ricorda di portarla sempre con te, il fuoco è micidiale ma l’ossido di carbonio non perdona”. Fummo impegnati cinque giorni e cinque notti, riposando solo qualche ora. Tutti si impegnarono al massimo senza risparmio, specialmente i volontari. Fu un’esperienza drammatica. Gli interventi in quel modo, con il fuoco visto da vicino e di quelle proporzioni, non avevano nulla a che fare con le simulazioni che avevamo fatto nei corsi che avevo frequentato. Lì era tutto maledettamente reale, il fuoco con le sue fiamme alte anche venti metri che, nonostante gli indumenti ignifughi che indossavo, ti arrivava a scaldare la pelle, i volti delle persone sopraffatti dal terrore e dallo sgomento per aver visto bruciare la casa, la stalla, la macchina, i mezzi agricoli. Sembrava di stare all’inferno. E noi a soffrire con loro, impegnati fianco a fianco con i vigili del fuoco e le guardie forestali. Dovemmo raggiungere le zone d’intervento passando nei sentieri più impervi, tagliando i rami degli alberi o spostando massi dalla strada, per far avanzare il fuoristrada e tutto a causa di quel maledetto fuoco! Finalmente, il quinto giorno, il vento cessò di alimentare le fiamme ed erano rimasti solo pochi focolai che i vigili del fuoco erano rimasti a controllare. Quando tornai a casa, mio figlio Daniele mi accolse come il salvatore della patria, eppure io avevo fatto solo il poco che era stato nelle mie possibilità. “Mi sembri un negro”, mi disse Daniela, “Spogliati e vatti a fare una doccia”. 84 Mi spogliai e gettai a terra i vestiti, Daniela li raccolse e li portò subito fuori sul balcone, la puzza di fumo era insopportabile. “Sbrigati a lavarti o appendo anche te fuori. Ma guarda che roba, a cinquantaquattro anni vai ancora in giro a fare l’eroe. Tu sei scemo!”. Entrai nel bagno senza rispondere, aveva ragione. Quando uscii mi sentivo un’altra persona, l’acqua della doccia mi aveva rigenerato ed il cibo fece molto di più. Quello fu un segno del destino, quella divisa che dovevo riconsegnare è ancora nella borsa, pulita e profumata, ma io spero di non doverla usare mai più. 85 Daniele Appoggiato alla finestra della sala da pranzo, aspetto il ritorno da scuola di mio figlio Daniele. Sono appena tornato a casa, reduce di un intervento chirurgico per un’ernia inguinale. Questo piccolo intervento, affrontato peraltro in anestesia locale, mi aveva dato più problemi nei giorni precedenti che per l’operazione in se. Ero stato criticato dai miei colleghi di lavoro per non essermi messo sotto cassa malattia e non in infortunio. Ormai essere considerato un ruffiano della ditta è diventata una consuetudine, forse per invidia. Il fatto che passo tutte le sere in ufficio per fare i rapportino o comunicare le ore lavorate dagli operai, può dare fastidio a qualcuno, comunque fa parte dei miei compiti e per me è una cosa normale. Daniele dovrebbe arrivare a momenti, nell’attesa mi cadono gli occhi sul fabbricato vicino casa che ospita il negozio di Acqua e Sapone, quei locali li abbiamo ristrutturati noi, il risultato è venuto proprio bene, quando vedi questi lavori me ne frego di quelli che gli altri colleghi possono pensare di me, d’altronde durante questo periodo di malattia, non c’è stato giorno che i miei ragazzi non mi abbiano chiamato e chi se ne frega se sono tutti stranieri. Tra i rami della grossa acacia che sta sotto casa, vedo arrivare Daniele. Non è solo, è con una giovane amica e si ferma con lei a parlare sotto i rami dell’albero. Quanto e cresciuto, me ne rendo 86 conto solo ora. Questo sedicenne di un metro e ottantasei centimetri è stata la forza della mia lotta. Quando lo presi in braccio per la prima volta era solo un fagottino ed erano solo pochi giorni che ero stato licenziato. Quando lo vidi attaccarsi avidamente al seno della mamma per succhiare il latte, io, stringendo i pugni e serrando la mascella pensai: “non potrà mancarvi mai niente, dovessi rivoltare il mondo”. Forse mi avevano letto nel pensiero perché le sorelline che erano sedute sul letto si voltarono a guardami. E io quello feci!. La porta si apre e Daniele entra, si volta e mi vede in piedi vicino alla finestra. Getta a terra lo zaino e corre ad abbracciarmi. Un tempo, non molto lontano, ero io che gli mettevo la mano sulla spalla, oggi è lui che lo fa con me. Per vincere la mia commozione gli dico che devo andare in bagno, lui mi da un bacio e mi scioglie dall’ abbraccio. Entro in bagno, asciugo gli occhi dalle lacrime e riesco. Lui è lì ad aspettarmi, mi sorride e va a mangiare. Aveva capito. 87 Epilogo Questa è la mia storia, una storia che ha riempito oltre mille pagine di giornali e occupato ore di interventi televisivi. Una storia che ha commosso alcuni e divertito altri. I miei ricordi li ho nitidi e non offuscati dal rancore, perché in questa storia, io ho avuto solo da imparare ed è per questo che malgrado tutto sono felice di averla vissuta. Quasi tutti quei politici che sfruttarono l’immagine dell’uomo incatenato, sono scomparsi dalla scena ed anche gli amici di allora. Ora vivo serenamente, protetto, come in un guscio di tartaruga, dalla mia famiglia e dai pochi amici che mi sono rimasti, come Paolo e i miei ragazzi stranieri. A volte, mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se non fossi entrato a far parte della Misericordia di Scafa, se non avessi conosciuto il suo governatore, Mauro Feliziani, mio affittuario e amico. Ci penso spesso e mi vengono i brividi! E lì che ho conosciuto Paolo Lanaro, il quale entra costantemente nelle vicende della mia vita. E’ lui che mi ha spronato a riprendere a scrivere la storia della mia vita e che mi ha aiutato nella stesura del testo. In questi ultimi quattro anni mi ha guidato anche a crescere professionalmente in questa nuova attività. Per tutto questo lo ringrazio pubblicamente attraverso le pagine di questo libro. 88 Ma un’altra persona importante, che ha contribuito alla svolta della mia vita è stata Enrico Breda, uomini come lui, sono stati fatti con uno stampo che non si trova più. Quelli che quando ti parlano ti guardano diritto negli occhi e ti leggono dentro. A volte, quando lo guardo, mi sembra di rivedere mio padre e in certo modo, non lo nascondo, tale si è dimostrato nei miei confronti, proteggendomi sempre, alle volte anche quando non lo meritavo. E’ per merito degli uomini come lui che, persone che non vendono la propria dignità, possono ancora dimostrare quanto valgono e continuare a vivere. 89 Indice Il rientro in fabbrica …………………. Un tragico episodio ………………….. Un’altra batosta ………………….…… Comincia una nuova vita ……………. La Misericordia ………………………. Il Signor Enrico ………………………. Protezione Civile ……………………… Finalmente torno a lavorare …. …….. Impara l’arte e…(che fatica!)………... L’amianto ……………………………… Una decisione importante ……………. Jaccio della Madonna ………………… L’elicottero …………………………….. L’isola dei ……famosi ………………… Finalmente è finita! …………………… Si torna al rifugio ……………………… La lupa ………………………………….. Emergenza bomba ………………….. .. Un gruppo di amici …………………… Brucia tutto …………………………….. Daniele …………………………………. Epilogo ………………………………… 90 Pag. 3 Pag. 7 Pag. 9 Pag. 12 Pag. 15 Pag. 20 Pag. 22 Pag. 28 Pag. 32 Pag. 36 Pag. 38 Pag. 41 Pag. 46 Pag. 49 Pag. 58 Pag. 64 Pag. 66 Pag. 70 Pag. 75 Pag. 82 Pag. 86 Pag. 88