IL CASO NARDINI
(sedici anni dopo)
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Prefazione
Sono passati sedici anni, sedici lunghi anni dall’inizio
della mia vicenda, eppure sembra solo ieri. Che siano passati
tutti questi anni me ne rendo conto solo quando guardo mio
figlio Daniele che, all’epoca della vicenda, doveva nascere a
giorni.
Accadeva di frequente che qualcuno mi fermasse per
strada chiedendomi di come si andata a finire la mia storia,
altri mi chiedevano dove poter acquistare il libro che feci
pubblicare nel 2000, per questi motivi decisi di fare una
ristampa del libro e di rimettermi all’opera per scrivere un
altro libro, per poter fugare i dubbi e poter appagare la
curiosità di coloro che, a favore o contro, seguirono la mia
vicenda.
Giuseppe Nardini
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Il rientro in fabbrica
Al rientro nel mio primo giorno di lavoro alla ILAS, dopo
nove anni di lotta, aprii la porta del locale adibito a spogliatoio
ed entrai. Accesi la luce perché era buio, sul soffitto basso
l’impronta della suola della mia scarpa c’era ancora, come me
aveva resistito: mi sentivo forte, vincitore ed avevo una forte
voglia di rivalsa…….. per la prima volta provavo un
sentimento di odio e di rancore.
Quello che era stato il mio armadietto era stato ora
occupato da Ulisse, l’operaio che abitava nell’appartamento
posto sopra gli uffici. Quell’uomo, che più di una volta era
stato chiamato dall’azienda a testimoniare contro di me, non
avrebbe dovuto! Aprii istintivamente lo sportello, essendo
senza lucchetto non oppose nessuna resistenza, nella parte
interna dello stesso campeggiava un grosso manifesto di
Benito Mussolini a cavallo. Non riuscivo a capire se quel
palmo della mano, teso verso di me, mi faceva il saluto romano
o mi imponeva di fermarmi.
La porta dello spogliatoio si aprii ed entrò Di Cesare, il
direttore:
“Buon giorno” mi disse con aria sicura.
“Buon giorno a lei” risposi sorridendo.
Il ghiaccio era rotto, l’odio ed il rancore erano svaniti
nel nulla, quasi per incanto, ed io avevo riacquistato il controllo dei miei nervi, sapevo perfettamente che il reinserimento
in quell’ambiente non sarebbe stato facile. Riprese a parlare Di
Cesare:
“Voglio dirti che non è successo niente, si ricomincia tutto
da capo, va bene?”.
Come potevo rispondergli di sì, come potevo dimenticare
nove anni vissuti tra gli stenti, come potevo dimenticare le
lacrime di mia moglie e le rinunzie delle mie figlie! I miei
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occhi a questi ricordi si erano inumiditi per la commozione, lo
guardai fisso negli occhi e gli risposi:
“Dipende da voi, adesso mi conoscete bene ed io conosco
voi!”.
L’ingresso d alcuni colleghi operai spezzò, fortunatamente,
l’atmosfera che si era creata. Strette di mano ed abbracci non
fugarono i miei dubbi: era troppo facile adesso!
La linea di patentamento era ferma ed io mi occupai
insieme a Colella della pulizia della vasca del bonder.
“Lo sai che adesso per lo smaltimento dell’acido di scarto
lo vengono a prendere con le cisterne?”
“Lo so Gabriele, ma così gli viene a costare parecchio, mi
chiedo perché, visto che abbiamo un impianto di depurazione”
“Giusè, sta arrivando il Professore!”
Guardai con la coda dell’occhio, era livido in volto e aveva
le labbra serrate, non era un buon segno. Uscii dalla vasca
dove stavo lavorando, presi per i manici la carriola piena di
materiale ed andai a scaricarla. Al mio ritorno erano tutti
intorno a Cracchiolo “Il Professore” e discutevano su di una
modifica da apportare alla vasca per migliorare il patentamento
dei fili metallici. Rientrai nella vasca e ricominciai a lavorare
con il badile. Avevano finito di discutere e Gabriele tornò da
me:
“Hai sentito?”
“Sì, ma quello che vogliono fare non va bene. L’innalzamento della temperatura aumenterà le calcificazioni e sarà
impossibile pulire i radiatori”
“Come si potrebbe fare, allora?”
“Si possono isolare i radiatori con una lamiera di acciaio
inox. Il calore si propagherà ugualmente, ma gli elementi non
saranno a contatto con il bonder e non si incrosteranno”
Quale felice idea ebbe Gabriele! Chiamò il Direttore e
Cracchiolo che se ne stavano andando e nel raggiungerli
affermò raggiante:
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“Professò, ha detto Nardini che in quel modo non va
bene!” e mentre spiegava i dettagli, Cracchiolo guardò verso di
me.
Lo salutai con un cenno della testa e lui mi rispose allo
stesso modo, ma le sue labbra rimanevano sempre serrate,
quando Gabriele ebbe terminato il Direttore gli rispose:
“Dì a Nardini che sappiamo noi cosa dobbiamo fare!”.
Era finito il mio primo giorno di lavoro, alle due staccammo. Avevo rimproverato Gabriele per aver fatto il mio
nome, ma mi resi conto che era in buona fede e credendola una
buona idea aveva pensato di fare una cosa buona per me.
A casa trovai la tavola imbandita e tutti pronti ad ascoltare
quello cha avevo da raccontare di come erano andate le cose in
quel primo giorno. Mi lavai le mani e mi sedetti a tavola,
rimasi un po’ male perché credevo che mi avessero aspettato
per pranzare. Letizia, mia figlia più grande, oramai ventiduenne, si sedette vicino a me riempiendomi il bicchiere con
del vino. Guardai la bottiglia ed esclamai:
“Ma siete impazziti! Chi ha avuto questa brillante idea?”.
Era una bottiglia di “CORVO” il mio vino preferito, vino
siculo, vino delle terre natie del Professor Cracchiolo. Daniela
arrivò con un piattone di spaghetti fumanti.
“Il vino è un nostro regalo, per il resto è tutto come quando
è iniziata questa brutta storia”………. solo che i carabinieri
non bussarono alla porta e potetti gustarmi gli spaghetti e
mangiarne a sazietà. Del vino poi, non ne rimase nemmeno
una goccia.
Il pomeriggio fu peggio dell’inferno dantesco: tantissime
le telefonate e le visite, tutti volevano sapere, sindacati,
politici, semplici conoscenti e curiosi. Ora tutti volevano salire
sul carro del vincitore, così, decisi di scendere io da quel carro
diventato di colpo tanto rumoroso. Dopo tanti anni dormii di
un sonno profondo e la mattina mi alzai con il braccio
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indolenzito: Daniela aveva dormito tutta la notte sulla mia
spalla.
La linea di patentamento era da approntare per essere
avviata, erano ormai anni che non ci lavoravo e la cosa più
complessa era proprio la messa in funzione di tutto l’apparato.
“Ti ricordi come si preparano i fili per l’infilaggio?”
“Credo di si”, risposi al Direttore.
“Accomodati pure ed attento a non sbagliare”.
Avevo quasi paura, dovevo collegare ventuno rotoli di filo
d’acciaio a due piastre, due motori, tramite due tiranti,
avrebbero fatto camminare i fili all’interno del forno, che
raggiungeva la temperatura di circa mille gradi ed ogni filo
doveva scorrere all’interno di una guida. Dopo essere passati
nel forno, si sarebbero tuffati ed immersi in una vasca con il
piombo fuso a circa cinquecento gradi, che li avrebbe abbassati
di temperatura e li avrebbe puliti dai residui delle scorie. Il loro
tragitto proseguiva attraverso una vasca con l’acido cloridrico,
alla fine della quale, i fili ormai lucidi, ne sarebbero usciti per
girare intorno a due grossi rulli e dopo essere risaliti, sarebbero
entrati nella vasca del bonder che li avrebbe rivestiti di una
patina che avrebbe permesso loro una migliore trafilatura. Di lì
a poco ventuno avvolgitori li avrebbero riavvolti.
Avevo finito di montare i fili alle piastre, che Gabriele mi
chiamò:
“Vieni a vedere!”
Lo raggiunsi alla vasca del bonder, due lunghe lastre di
acciaio inox luccicavano ed al loro interno erano alloggiati due
grossi radiatori. Guardai Gabriele e sorrisi.
“Dai Gabriè facciamo questo infilaggio, andrà benissimo”
“Ne sono convinto”. E così fu
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Un tragico episodio
Passarono i giorni e tutto sembrava andare per il meglio.
Ero partito con largo anticipo per recarmi al lavoro nel
turno pomeridiano, accesi una sigaretta ed aprii il finestrino
dell’auto per fare uscire il fumo. Andavo piano come sempre,
un’auto mi sorpassò e vidi l’autista gesticolare al mio indirizzo, pensai a mio fratello Maurizio ed ai miei famigliari che
forse avevano ragione a chiamarmi “lumaca”, sorrisi tra me e
me a questo pensiero ed aspirai un’atra boccata dalla sigaretta.
Giunsi a Manoppello Scalo, appena fatta l’ultima semicurva che porta ad un lungo rettilineo, all’altezza del un
distributore di benzina, vidi volare in aria qualcosa, sembravano oggetti. Raggiunsi il luogo e mi fermai sulla destra, l’auto
che mi aveva sorpassato era ferma molto avanti a me ed il suo
conducente era sceso dalla macchina e correva verso l’interno
del distributore. Scesi e mi avviai anch’io correndo verso il
distributore, all’improvviso mi trovai di fronte a una scena
terribile: il corpo di un motociclista giaceva al centro della
strada, indossava ancora il casco, venti metri più avanti un
altro corpo, stesso abbigliamento, giaceva anch’esso in mezzo
alla strada, era il passeggero della moto, una ragazza. Poi vidi
una moto di grossa cilindrata ed una Fiat Panda rovesciata.
Non sapevo cosa fare, ero terrorizzato così come molti altri
automobilisti che si erano fermati nel frattempo. Fortunatamente un giovane uomo ebbe il sangue freddo di prendere l’
iniziativa:
“Ferma il traffico presto! Ho già chiamato i soccorsi”.
In seguito seppi che costui era un soccorritore volontario
che si trovava a passare.
Di lì a poco giunsero i carabinieri ed un’autoambulanza
della Misericordia di Scafa, dopo pochi minuti arrivò un’altra
ambulanza quasi contemporaneamente all’elicottero del 118. Il
traffico era bloccato. Uno degli occupanti della macchina
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rovesciata era deceduto, il motociclista era in coma e la ragazza aveva riportato numerose fratture esposte.
Ormai avevo fatto tardi al lavoro, vicino a me passò un
ufficiale dei carabinieri e gli spiegai la mia situazione, lui mi
guardò e disse:
“Ma lei non è Nardini, quello della ILAS?”
“Si” gli risposi
“Dammi il numero della ditta”
Dall’ufficio della ILAS rispose qualcuno, dopo essersi
qualificato il carabiniere giustificò il mio ritardo adducendo
che ero intervenuto nei soccorsi.
Mi vergognai di ciò e lo dissi anche ai miei colleghi di
lavoro quando, un paio d’ore dopo, mi presentai. Nonostante
tutto ebbi l’arroganza di criticare tutto e tutti: i carabinieri
avevano lasciato l’auto dove doveva atterrare l’elicottero e
prima che i feriti fossero caricati era passata un’ora. E’ scandaloso dissi! Oggi quando ripenso a quell’avvenimento me ne
vergogno ancora.
Ragliai come un asino per parecchio tempo ancora, convinto della giustezza delle mie polemiche, eppure, mi ero reso
conto sin dal primo momento di quanto inutile era stata la mia
presenza. La cosa lasciò un segno indelebile dentro di me e
condizionò alcune scelte che feci in futuro che, forse, hanno
contribuito ad indirizzare il futuro della mia vita.
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Un’altra batosta
Stava per arrivare il Natale e le cose sembravano procedere bene, mi facevo gli affari miei e aspettavo sempre gli
arretrati dovutimi. L’avvocato Valter De Cesare, una sera mi
convocò presso il suo studio. Era un po’ che non lo vedevo e
quando, sedutomi davanti alla sua scrivania, lo vidi aprire un
pacchetto di mentine e mettersene una in bocca pensai subito
che qualcosa non andava:
“Giusè, questi non vogliono cacciare una lira, sono stato
costretto a mettere sotto sequestro l’azienda”
“Ma chi se la compra?”
“Alla prima asta nessuno, poi …. vedremo”
“Quelli mi fanno la pelle, te ne rendi conto?”
Si mise a ridere e la mentina gli andò di traverso. Dopo
essersi schiarito la voce, sempre ridendo mi disse:
“Non preoccuparti, i soldi non li perdi, li farò avere a tua
moglie”.
Come previsto, quell’azione legale peggiorò la mia situazione. A Natale, come tutti gli anni, l’azienda consegnò il
pacco natalizio ai dipendenti. Il mio non c’era! Immediata fu la
protesta di alcuni colleghi i quali per solidarietà rifiutarono il
proprio. Alle diciannove il Direttore scese e riconsegnò i
pacchi aggiungendone uno per me:
“Questo è il mio, prendilo tu ma non dire niente a nessuno”
Se ne andò senza dire altro, sarebbe invece bastato che mi
dicesse “Buon Natale” per farmi contento. Alle ventidue
smontai di turno ed all’uscita lasciai il pacco sotto il portone
degli uffici. Qualche collega fece la stessa cosa per solidarietà
(seppi in seguito che rientrarono per riprenderselo).
Il Natale passò. La vendita all’asta andò deserta, L’aria in
azienda era diventata irrespirabile. I manifesti affissi che
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comunicavano la vendita dell’immobile con la scritta
“TRIBUNALE DI CHIETI” avevano fatto perdere le staffe ai
dirigenti dell’azienda. Sempre più frequentemente il Professore
si lasciava andare ad esternazioni poco piacevoli contro di me
e contro le istituzioni, le quali lo obbligavano a tenere una
persona che non voleva nella sua azienda.
In quel periodo Viteritti andò in pensione. Per l’azienda fu
una liberazione, se ne andava un lavoratore che per vent’anni
aveva fatto sindacato all’interno dell’azienda, la maggior parte
dei quali come unico iscritto alla CGIL, … non meritò neanche
un saluto.
Fu necessario andare a nuove elezioni ….. tragedia! …….
Nardini e Zappacosta eletti delegati, Colella rappresentante per
la sicurezza. La situazione era ora sfuggita di mano ai vertici
dell’azienda, dovevano necessariamente porvi riparo.
La seconda vendita all’asta gettò benzina sul fuoco,
inoltre, a peggiorare la situazione alcuni infortuni sul lavoro ci
costrinsero ad intervenire sindacalmente.
Era passato appena un anno dalla mia reitegra, sentivo che
le cose andavo degenerando, sentivo di essere impotente, ne
parlai a Daniela:
“Hanno in mente qualcosa Daniè, non so cosa, ma hanno
in mente qualcosa”
“Hanno in mente quello che ti ho sempre detto: non
prenderai una lira!”
Me lo aveva detto con tono secco e sicuro, la fulminai con
lo sguardo, mi alzai e presi la via della porta, ero incazzato
nero. Accesi una sigaretta e sbuffando fumo gli urlai:
“Avevi anche detto che non sarei rientrato, te lo ricordi?”
Sbattendo la porta me ne andai.
Qualche giorno dopo ci chiamarono in ufficio, tutto venne
alla luce.
“Sono spiacente di informarvi che siamo costretti a
chiudere il reparto di patentamento, avrete la lettera di
licenziamento ed un conseguente periodo di mobilità. Purtrop-
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po i semilavorati prodotti all’estero ci arrivano a prezzi inferiori di ciò che produciamo noi”.
Nel mega ufficio era tutto silenzio, anche la mosca che si
era posata sulla scrivania dell’Amministratore non si azzardava
a volare, io invece volai:
“I semilavorati di cui parlate, li state provando in trafileria
da un po’ di tempo, Professore ........., la loro qualità e di un
quarto rispetto alla nostra produzione”.
Picchiettava la penna sulla scrivania e notai con piacere
che la mosca aveva anch’essa ripreso il volo. Guardò tutti in
faccia tranne me e non rispose al mio intervento. Serrò le
labbra e le fece schioccare, poi, con voce calma disse:
“Un altro problema è l’impatto ambientale del reparto, per
la messa a norma di un nuovo impianto occorrono due miliardi
di lire, che non possiamo spendere”.
Disse tutto ciò senza mai guardarmi. Mi girai, aprii la porta
e dopo aver salutato uscii.
Lo sentii blaterare ad alta voce e quando fui in fondo alla
gradinata gli sentii urlare:
“Ma vi rendete conto che non posso più andare in una
banca per i soldi? Quello lì mi ha sequestrato tutto!”.
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Comincia una nuova vita
Adesso cominciavo a rendermi conto che Daniela poteva
avere ragione e che i soldi che mi spettavano avrebbero potuto
finire in fumo. Cracchiolo potrebbe decidere di chiudere i
battenti ed in quel caso, quanti anni avrei dovuto aspettare per
ottenere le mie spettanze? Chi avrebbe potuto acquistare
l’azienda? Una domanda mi arrovellava: come avrei potuto
agire per uscire da quella situazione?
A marzo del duemilauno tornai ad incatenarmi di nuovo ai
cancelli della ILAS, per poi prendere regolarmente servizio
durante il mio turno. Lo feci per giorni interi. I mass-media
uscirono a raffica pubblicando anche le lettere che inviavo al
Prefetto e alle altre istituzioni. Fu guerra aperta. Tra una
proposta e l’altra entrammo tutti e sette in mobilità. I miei
colleghi accettarono una somma forfetaria per andarsene, io
no!
Mi recai allo studio dell’avvocato
“Valter, pensi che ce la possiamo fare?”
“Credo di sì”
“Sono esausto, Valter, sto letteralmente perdendo la
pazienza, ma come cazzo fa a fregarsene delle leggi?”
Alzò gli occhi al cielo e sembrò che stesse pensando, poi
facendo una piccola smorfia con le labbra estrasse da una
cartella alcuni fogli e porgendomeli disse:
“Ho preparato queste carte che devi firmare”
“Di che cosa si tratta?”
“E’ una denuncia per risarcimento danni, non temere, se
non rispetta le leggi gliele facciamo rispettare noi. Presto sarà
fissata la data della seconda vendita all’asta e vedrai che qualcosa accadrà”.
Firmai quei documenti sperando che fossero gli ultimi, ma
quando stavo per uscire:
”Presto verrà fissata la data dell’udienza per l’ultimo
ricorso, non perdere la fiducia e stai calmo”
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“E’ una parola rimanere calmi, ciao Valter”.
De Cesare sapeva benissimo che ero oberato dai debiti ai
quali non potevo far fronte. Una mattina mi chiamò al telefono:
“Ciao Giuseppe, come và?”,
“Male” risposi, “Molto male, non riesco a stare senza far
niente. C’è gente che pagherebbe per andare in mobilità, io invece ci sto male”.
“Va bene, lo so, intanto vai alla BLS di Chieti Scalo a
mettere delle firme, troverai un conto con una certa cifra che
restituirai, quando prenderai i soldi”.
Non mi aveva detto quale era l’importo e io ero rimasto
senza parole. Non riuscivo neanche a dirgli grazie. Quando
stavo per dire qualcosa continuò
“Vai anche al Consorzio di Bonifica, dove hai già lavorato
e rifai la domanda, tra qualche mese faranno delle assunzioni
stagionali, ti riprenderanno volentieri”.
Seppi solo dirgli : “Grazie, grazie per quanto stai facendo
per me!”.
In banca mi trattarono cose se io fossi un imprenditore,
con tutte le gentilezze. Calcolai mentalmente quanto dovevo
per pagare le pendenze con l’azienda del gas, alla quale
portavo qualcosa, quando potevo, gli affitti arretrati, il negozio
di alimentari e altre cosucce. Il fido era sostanzioso ed io
prelevai una decina di milioni. Daniela non sapeva niente e
quando vide tutti quei soldi quasi svenne.
Il giorno dopo mi recai a Montesilvano, presso gli uffici
dell’azienda del gas ed estinsi il debito per le bollette non
pagate. Daniela mise in pari tutti gli affitti arretrati e
finalmente saldò il conto dalla mitica Angiulina, una simpatica
vecchina dove prendevamo i generi alimentari, ricevette anche
un regalo. Quante volte abbiamo ringraziato Dio dell’esistenza
di quella donna, di sua figlia Gabriella e di quel piccolo
negozio in contrada Pianapuccia. In mancanza saremmo
letteralmente morti di fame!
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In casa era tornata la tranquillità e Daniela amministrava
quei soldi piovuti dal cielo con moderazione, nell’attesa di
momenti migliori e con la paura di quelli peggiori.
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La Misericordia
Mi annoiavo mortalmente, i giorni passavano e non sapevo
cosa fare. Daniela era tornata dalla spesa e mi aveva trovato
appollaiato davanti al camino spento:
“Ma che ti stai rincoglionendo? Ma che fai lì, vatti a fare
una camminata, non voglio vederti così!”.
Mi alzai e feci per uscire, ma lei mi apostrofò:
“Prima accendi il camino!”
“Obbedisco” risposi.
Al bar, mentre sorseggiavo un caffè, gli occhi mi caddero
su di una locandina “Si apre un corso di Primo Soccorso”, era
della Misericordia di Scafa, subito la mente ritornò a quel
tragico incidente dove, avevo nel frattempo saputo che, anche
il motociclista era in seguito deceduto. Detto fatto, mi scrissi al
corso.
Alla prima lezione mi presentai quasi spavaldamente, avevo criticato il loro operato, quello dell’equipaggio del 118 ed
anche quello delle forze dell’ordine. Essendo alto, per dare
fastidio, mi sedetti nell’ultima fila. Alcuni volontari preparavano l’occorrente per la lezione, erano in divisa. Una autoambulanza era parcheggiata fuori, capii poco dopo che erano
in servizio: un telefono cellulare squillò: “58 in linea” rispose
il Capo Servizio, che intanto annotava su un taccuino quanto
gli veniva riferito. Nel frattempo gli si avvicinarono un ragazzo ed una ragazza, appena chiusa la comunicazione il Capo
Servizio disse loro:
“Codice Rosso, presto andiamo!”.
Il rombo del motore venne subito coperto dal sibilo della
sirena, che con l’allontanarsi andò svanendo.
La sala si era riempita e la lezione ebbe inizio, un uomo
sulla quarantina, di media statura, si pose al centro della
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scrivania, lo conoscevo di vista e conoscevo anche il signore
anziano al suo fianco, il quale, non ricordo in quale Natale, ci
aveva portato un pacco natalizio ed una parola di conforto,
conoscendo la nostra situazione famigliare. Seppi poi che si
chiamava Durero Lanaro. L’oratore iniziò il suo discorso:
“Sono Mauro Feliziani, per chi non mi conosce sono il
Governatore di questa Associazione”.
Mentre ci spiegava che la Misericordia era un’associazione
non a scopo di lucro, ecc. ecc., io pensavo ai tre ragazzi appena
usciti per servizio, a cosa si sarebbero trovati di fronte
ripensando all’incidente che avevo visto e vissuto come
spettatore. Feliziani aveva terminato il suo intervento, portando
via dalla scrivania la sua folta barba e i capelli brizzolati,
abbastanza lunghi.
Partecipai a tutte le lezioni ed al termine del corso superai,
non so quanto brillantemente, l’esame che ci fecero fare, per
prendere il brevetto da soccorritore. Non saprei dire quanto
avessi veramente imparato, ma una cosa la capii sicuramente,
mi ero reso conto che in passato mi ero proprio comportato
come un emerito somaro.
Entrai a far parte della Misericordia ed iniziai a fare
qualche servizio considerato più facile, tipo trasporto sanitario
con autoambulanza per dializzati, però mi accorsi che,
comunque, non erano servizi leggeri, tutt’altro, eravamo in due
volontari, io e l’autista, quindi come barelliere sedevo con il
paziente nel vano sanitario, durante il tragitto parlavo con loro
e qualcuno più anziano mi raccontava della sua gioventù, dei
figli, della moglie o del marito. Apprendevo storie d’altri tempi
che mi affascinavano, amori ostacolati, la fame durante la
guerra e confidenze di ogni genere, un universo di vite vissute,
con gioie, speranze e soprattutto tanta, tanta sofferenza.
Quando venne a mancare una signora che accompagnavamo
spesso a fare le dialisi, piansi per il dispiacere. Ero in mobilità
ma non mi annoiavo più, non ne avevo il tempo.
Presi coraggio e con il consenso del Governatore, che mi
ritenne ormai pronto, iniziai i turni per i servizi in emergenza.
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Ricordo che nevicava abbondantemente, quella sera,
quando il Capo Servizio ricevette la chiamata della centrale
operativa del 118, io rabbrividii. Sulla Tiburtina, proprio dietro
la mia abitazione, una vettura si era ribaltata finendo nella
scarpata. Era un “Codice Rosso” e arrivammo in un baleno.
Sul ciglio della strada si era radunato un gruppo di persone,
anche se era notte fonda e gelava, l’autista dell’autoambulanza
scese e rimase vicino alla portiera aperta, poi scese Durero che
fungeva da Capo Servizio ed infine io. La neve fresca mi arrivava alla caviglia.
“Presto” disse uno dei presenti, “forse è morto, non si
muove.
Avevo una fifa terribile, ma dovetti scendere io nella scarpata. Arrivai alla macchina cadendo un paio di volte, era rovesciata, allora mi misi in ginocchio ed entrai dal finestrino
laterale che era aperto. Sentivo freddo ai piedi, la neve era
entrata da tutte le parti. Toccai dappertutto, mi infilai ancora
più all’interno battendo la testa sui sedili spora di me. C’era
solo un giubbino di pelle. Ma dove era finito il presunto
morto?
“E’ vivo?”, mi chiese urlando Durero,
“Credo di sì, qui non c’è nessuno.
“Guarda meglio!” tornò ad urlarmi.
Io guardai meglio, ma quella non era ne una cabina di un
treno, tantomeno la fusoliera di un aereo. A meno chè non
fosse già salito in cielo, era vivo. Risalii carponi sulla scarpata.
Un presente mi diede una mano per l’ultimo strappo, mentre
Durero parlava con i presenti per capirci qualcosa, mi cadde lo
sguardo su uno di essi e mi colpì il fatto che nonostante il
freddo pungente indossava solo un maglioncino, era con le
mani in tasca per ripararle dal freddo, ricambiò il mio sguardo
e sorrise, allora gli chiesi:
”Scusa, ma guidavi tu quella macchina?”
Con un cenno del capo mi rispose di sì. Durero gli si
avvicinò e lo osservò meglio per controllare il suo stato, era al
limite dell’assideramento.
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Quando giungemmo al pronto soccorso dell’ospedale,
eravamo tutti quasi ubriachi, tanto era la puzza di alcool che
quel giovane aveva ingerito, nonostante gli aspiratori della
ambulanza andassero al massimo. Alle tre del mattino
rientrammo. Mi addormentai felice, felice di poter essere stato
d’aiuto a qualcuno, adesso capivo veramente perché i volontari
non percepiscono compensi in denaro, per essere ripagati gli
basta la soddisfazione di aver compiuto una buona azione.
Ero talmente coinvolto che, stranamente, da quando avevo
intrapreso quest’opera di volontariato non pensavo più alle
spettanze, finché un giorno:
“Ha telefonato l’avvocato e lo devi raggiungere subito!”
“Dove Daniè?”
“Ma nel suo ufficio scemo, dove sennò?”.
Valter De Cesare dietro la sua scrivania sembrava troneggiare. Mi ero fermato dal tabaccaio per comprare le sigarette
ed avevo preso anche una scatola di mentine:
“Ciao Valter, ne vuoi una?”,
la mise in bocca e cominciò a sfregarsi le mani, aveva un
beffardo sorrisetto che traspariva soddisfazione. Poggiò i
gomiti sulla scrivania e a mani giunte si prese il mento
accarezzandolo con i pollici. Mi fissò intensamente, poi prese
gli occhiali poggiati alla sua sinistra ed estrasse il pannetto blu
dalla custodia, dopo averli accuratamente puliti li indossò ed
estrasse delle carte da un cassetto:
“Questa è la bozza dell’accordo che ho preparato con
l’avvocato Martino, leggila e dimmi se può andare”.
“Non va bene un tuo riassunto?”,
“Se va bene a te ……”,
comunicò l’importo delle spettanze, era quanto dovessi
avere, avrei però dovuto a rinunciare ai danni morali e l’azienda avrebbe ritirato la sua denuncia per danni, un miliardo di
lire, presentata contro di me e contro il sindacalista Zulli, i
miei arretrati mi sarebbero stati elargiti con un primo acconto e
successivi versamenti mensili da dilazionare in due o tre anni.
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Accettai. Estinsi subito il mio debito in banca e continuai la
vita da operaio in mobilità.
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Il Signor Enrico
Una sera ero al bar con il mio amico Ubaldo Di Gregorio. Mentre sorseggiavamo il caffè squillò il mio cellulare:
“Ciao Antò, com’è la situazione?”
“Tutto a posto, partiamo all’una dalla stazione di Chieti
Scalo”,
“Quanti ne siamo?”
“La corriera nostra è piena”
“Ok” risposi “ci vediamo lì” e chiusi la comunicazione.
Ubaldo mi chiese a che ora saremmo arrivati a Genova,
“Non lo so” gli risposi.
“Speriamo che vi menino a tutti!”.
La voce era giunta da un tavolo alle nostre spalle, quattro persone erano sedute e giocavano a carte, quella di fronte a
me era la più anziana e mi guardava con un sorriso sarcastico.
Si vedeva lontano un chilometro che era una persona distinta.
Fissai a lungo i suoi pochi capelli brizzolati, il sorriso spavaldo
si spegneva solo quando metteva in bocca la sigaretta per
aspirarne il fumo e ricacciarlo a volte dal naso e altre volte
dalla bocca.
“Mi scusi” gli chiesi “Perché dovrebbero menarci? Io
non vado alle manifestazioni per farmi menare, ci vado per
protestare!”
“Perché ai comunisti bisognerebbe menargli a tutti
quanti!”
“Spero di no” gli risposi.
Uscii dopo aver pagato il caffè. Chiesi ad Ubaldo chi
fosse quel tipo e mi rispose che era un imprenditore.
“Lascialo perdere” mi disse.
Tornai verso casa, ero contento di poter tornare a piedi,
da qualche mese avevamo cambiato abitazione, ci eravamo trasferiti in un appartamento al primo piano, proprio all’ingresso
superiore del paese, me lo aveva affittato Mauro Feliziani, il
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Governatore della Misericordia. Lo incontrai al piano terra dove la moglie ha uno studio odontoiatrico e lui e un socio lavorano in laboratorio di odontotecnica.
“Vai a Genova domani?”
“Sì, parto questa notte”
“Buon viaggio e state attenti!”.
Salii la rampa di scale, girai a destra sul balcone che
conduce al mio ingresso. Davanti alla porta notai la mia valigia, la soppesai e mi resi conto che era piena. Sulla porta non
c’era la chiave, quindi suonai il campanello. La porta si aprii e
mi trovai di fronte mia moglie:
“Ma che cavolo ci fa la mia valigia qui fuori?”
“Non devi andare a Genova?” mi rispose,
“E che mi porto tutta questa roba, un paio di giorni e
torniamo”. Daniela di mise a ridere!
“Ma che cazzo ti ridi?” gli chiesi infuriato.
“Nardini, tu non hai capito niente, se vai a Genova qui
non ci rimetti più piede”.
Entrai a casa sconvolto, conoscendo la bestia.
Avevo tenuto testa a Cracchiolo, a politici di ogni sorta
con tanto di guardie del corpo, ero riuscito a parlare persino
con il Presidente dalla Repubblica e mi chiedo tutt’oggi perché
non riesco a tenere testa a questa donna!
La mattina seguente, il solito bar, il solito caffè, mentre
giravo lo zucchero nella tazzina, una voce alle mie spalle:
“Ma che stai a fare qui, non dovevi essere a Genova?”
Il caffè mi andò quasi di traverso, mi chiesi “e mò che
cazzo gli dico a questo?”. Gli dissi tutta la verità e lui rise. Mi
resi conto che in fin dei conti non era tanto antipatico, anzi per
la verità, neanche la sera prima mi aveva dato sui nervi.
Chi l’avrebbe pensato che quell’uomo avrebbe cambiato la mia vita?
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Protezione Civile
A Gagliano Aterno, mandato dalla Misericordia di
Scafa, avevo partecipato ad un corso di Protezione Civile della
durata di tre giorni. Il corso si svolse in vecchio monastero di
clausura dove oggi ha sede il Corpo della Guardia Forestale.
Eravamo partiti io e una volontaria della Misericordia,
Violetta, la figlia di un carissimo amico, Gianfranco De Luca,
che mi aveva aiutato nella stesura del mio primo libro. Il corso
che seguimmo ci dette tutte le nozioni necessarie per l’avvistamento degli incendi boschivi. Ebbi così modo, in quella
occasione, di conoscere altre associazioni di volontariato. Fu
un’esperienza bellissima , tanto che, quando l’anno successivo,
la Misericordia di Scafa mi propose di andare a fare il corso
avanzato, non me la sentii di rifiutare, anche se il corso, questa
volta, era di sette giorni. Daniela già aveva borbottato la prima
volta, non perché partissi e dormissi fuori con una ragazza, ma
per il semplice fatto che mi giudicava vecchio per questo tipo
di attività. Questa volta partii con un’altra ragazza. Monia, mi
passò a prendere la mattina alle sette, caricai il bagaglio in
macchina e partimmo. Lungo la strada parlammo del più e del
meno e superata Sulmona, prendemmo la strada per Gagliano
Aterno. Ci inerpicammo tra i monti con la sua piccola utilitaria
fino a giungere al famoso monastero sede del corso.
Varcammo la soglia della porticina ricavata nell’enorme
portone in legno e trovammo alla nostra sinistra un ufficio con
due Guardie Forestali.
“Siamo qui per il corso” dissi,
“Andate avanti nel cortile, tra un po’ vi chiameranno”.
Giunti nel cortile, vedemmo una trentina di persone
che, in piccoli gruppi, parlavano tra di loro. Solo due erano
donne, Monia era la terza. Andammo al centro del cortile dove
c’era un grande pozzo costruito in pietra, come d’altronde tutto
l’enorme edificio. Un paio di ragazzi, con gomiti appoggiati
sul bordo, tentavano di vederne il fondo.
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“Salve, salve” dicemmo avvicinandoci,
“Salve”, risposero senza distogliere lo sguardo dal
pozzo, “Chissà quanti segreti ci saranno giù nel fondo”
“Chissà, dovremmo scendere giù per vedere, forze potremmo trovare un tesoro, chissà”
“Buona idea” rispose uno di loro “Una di queste notti
scendiamo a vedere”.
In quel momento una guardia forestale chiamò tutti a
raccolta, Monia prendendomi per mano disse:
“Dai papà, ci hanno chiamato”
I due giovanotti si guardarono con disappunto, chissà
in quei pochi istanti quanto aveva galoppato la loro fantasia insieme a quella bella ragazza. Ci chiamarono per gruppi di associazione, quindi arrivò il nostro turno:
“Monia Battistelli della Misericordia di Scafa” rispose,
“E tu?”
“ Giuseppe Nardini”.
Finito l’appello la guardia ci indicò dov’era la fureria
dove ci avrebbero dato coperte e cuscini per poi sistemarci nelle camerate, le donne nell’ala destra e gli uomini nell’ala sinistra. Appuntamento dopo un’ora in aula.
“Mi scusi” dissi, “Non so dove mi avete sistemato ma,
se fosse possibile, gradirei una camera singola”
La guardia guardò un collega e mi chiese:
“Come mai?”
“Stò scrivendo un libro ed avrei bisogno di tranquillità,
ma solo se è possibile”.
“Si, c’è una camera che possiamo darti, per la tranquillità ce n’è pure troppa”
Ringraziai e mi avviai alla fureria, lì ci caricarono di
roba, salii la scalinata con le coperte sotto il braccio, la valigia
ed il cuscino tra i denti. Giunto in camera pensai di aver
dimenticato la chiave, invece in quelle camere la serratura
semplicemente non c’era e quando entrai mi resi conto che
mancavano anche tende alle finestre e le persiane, furono
questi particolari a farmi ricordare che quello era un vecchio
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convento. Sistemai la mia roba nell’armadio e gli effetti
personali nel comodino e mi avviai verso l’aula. Dopo un po’
eravamo tutti seduti e la prima lezione ebbe così inizio. Un
paio di ragazzi si sedettero vicino a Monia che continuava a
chiamarmi tranquillamente papà. Però durante l’appello si
accorsero che il cognome era diverso e glielo fecero notare, ma
lei candidamente aveva risposto:
“Sono una figlia illegittima, ma questo non toglie che
ci vogliamo bene lo stesso” e mi diede un bacio sulla guancia.
Il vitto era ottimo ed abbondante, così come la
colazione del mattino. Le lezioni affatto noiose, si alternavano
a prove pratiche. Con gli altri volontari ci eravamo molto affiatati, unico neo questo padre tra i piedi, specialmente per un
giovane teramano che si era preso una cotta per Monia. Una
sera me lo disse e io gli risposi:
“Lascia perdere, dammi retta, non vi conoscete per
niente”.
Dopo quattro giorni di corso ci dissero che avremmo
fatto una prova di salvataggio in montagna. Suddivisi intre
squadre avremmo dovuto seguire un percorso diverso con
uguali difficoltà, la valutazione della squadra si sarebbe basata
sulla velocità di percorrenza del tragitto, ma anche su altri
criteri che avremmo saputo a simulazione finita. Nella nostra
squadra c’erano due donne e noi, per cavalleria, le avevamo
destinate a dirigere il gruppo. Con l’appoggio di due guardie
forestali ed un fuoristrada, iniziammo il percorso. Ci
attendevano cinque chilometri di sentieri di montagna, era il
percorso più lungo, ma anche il meno dissestato. Le ragazze,
cartine alla mano, procedevano spedite fermandosi di tanto in
tanto alla ricerca di segnali lasciati da eventuali dispersi. Ne
trovammo uno e discutemmo sul fatto che poteva essere un
segnale reale e non messo lì per l’evento. Alla fine decidemmo
per prenderlo per buono e uscimmo dal sentiero transitabile in
auto e ci inerpicammo in una stretta mulattiera che si
addentrava nel bosco. Le guardie con il fuoristrada pro-
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seguirono per la strada, ero quindi certo che il sentiero ci
avrebbe condotto di nuovo su di essa. Trovammo un altro
segnale ed allora esultammo, la direzione era quella giusta. Ad
un certo punto sentimmo parlare dietro di noi, era il ragazzo
teramano innamorato che, con la scusa di un piccolo problema,
si era fatto accompagnare da un forestale, lasciando la sua
squadra, per unirsi a noi:
“Stà già meglio, hai visto?, appena ha visto tua figlia
gli è passato tutto”
Riuscimmo, come previsto, sulla strada transitabile e
calcolammo che avremmo dovuto percorrere ancora un
chilometro, ci fermammo per riprendere fiato. Riprendemmo il
cammino felici di essere quasi arrivati alla meta parlando già
del pranzo che ci attendeva, quando mi accorsi che mancava
un componente della squadra:
“Fermi” intimai, “Manca una persona”,
la guardia forestale ci guardava senza proferire parola,
“Che facciamo adesso?”
“Siamo partiti da poco tempo, non dovrebbe essere
lontano, voi proseguite a passo lento, io torno indietro a cercarlo, se ho bisogno di aiuto ululerò”
Mentre camminavo percorrendo la strada a ritroso,
imprecavo con me stesso, come fa una squadra a perdere un
componente durante il viaggio, poi mi ricordai un film con
Verdone dove lui era il marito che si era dimenticato la moglie
all’autogrill dell’autostrada, mentre pensavo trecento metri più
giù lo vidi, era seduto sul tronco di un albero e mi guardava
sorridendo, gli chiesi allora rincuorato:
“Tutto bene?”
“Mi fanno male le gambe, sapessi quanto mi pesano
questi centoventi chili”
Risposi scherzando:
“Non pensare che ti porto in braccio eh!”
“Tranquillo, piano piano ce la faccio, se vuoi vai
avanti”
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Finsi di non averlo sentito e lentamente riprendemmo il
cammino. Non so dire quanto tempo impiegammo a
raggiungere la cima della salita ed entrare in un’ampia radura
verdeggiante. Un filo di fumo si alzava nel cielo da un’enorme
graticola con dei gustosi pezzi di carne di agnello che
rosolavano sulla brace.
“Mo si che va bene” mi dissero quei centoventi chili e
raggiungemmo gli altri. Mangiammo e bevemmo a sazietà,
ridendo, scherzando e cantando, poi le guardie forestali ci
dissero:
“E’ stato bello, ma dobbiamo rientrare”
“E’ presto, rispondemmo noi, la strada adesso è tutta in
discesa, faremo subito a rientrare”
“Vedete quelle nuvole che attraversano la vetta? Con la
montagna non si scherza”
Ripartimmo immediatamente, gli ordini non si discutono. Era bello, tutti insieme che cantavamo mentre scendevamo. A metà strada udimmo un paio di tuoni, poi le prime
gocce d’acqua ed infine venne il diluvio universale. Io ero il
più anziano ma preferii che il fuoristrada portasse via prima le
persone in difficoltà, comunque usciti dal bosco fummo al
sicuro. Quando il fuoristrada tornò a prenderci eravamo già
arrivati in paese, salimmo lo stesso e rientrammo al convento.
Il giorno seguente, in aula, l’istruttore ci disse:
“Siete stati tutti bravissimi ma, ricordate una cosa,
quando una squadra esce in soccorso deve rientrare come è
partita, voi non siete eroi ma soccorritori e dovete pensare a
riportare a casa prima la vostra pelle. Chi andiamo a soccorre
potrebbe essere già morto e non dobbiamo aggiungere altre
vittime alla lista, è chiaro?”
“Si” rispondemmo in coro.
I giorni che seguirono ci fecero eseguire prove pratiche
con i mezzi antincendio, visitammo l’eliporto della forestale e
ci portarono ad esercitarci presso la caserma dei Vigili del
Fuoco di Pescara. Sulla via del ritorno, in autobus, parlammo
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di ciò che avevamo fatto. Eravamo entusiasti. Tornati al
centro, il test finale ...panico, ... venti domande. Chinai il capo
su quei fogli e iniziai a compilare. Dopo aver finito diedi
un’occhiata ai fogli dei miei vicini di banco. C’era una risposta
di cui non ero sicuro, avevo sbagliato, Monia al mio fianco mi
diede un’altra risposta, anche il teramano, seduto vicino a lei,
mi guardai dietro, idem. Corressi la risposta e consegnai i test
con le risposte. Uscii fuori a fumare per scaricare la tensione
accumulata. Attendemmo circa una mezz’ora per i risultati.
Uno alla volta venimmo chiamati e quando arrivò il mio turno
mi presentai alla cattedra, emozionato come uno scolaretto.
“Bravo Nardini, diciannove su venti, peccato che
hai corretto quella sbagliata, era giusta la prima risposta che
avevi dato”
Mentre tornavo a posto l’istruttore mi disse:
“Nardì non si deve mai ricopiare” e tutti risero.
I momenti dei saluti furono i più tristi, eravamo stati
bene insieme, ma Monia per spezzare l’atmosfera che si era
creata se ne usci:
“Diciamogli la verità Giusè!” poi rivolti a tutti loro aggiunse:
“Io e Giuseppe siamo moglie e marito” e mi abbracciò
dandomi un bacio. Anch’io l’abbracciai forte, tanto forte, l’
avrei stritolata. Quel povero ragazzo teramano, rosso come un
peperone, si stava squagliando a pensare che mi aveva detto di
“essere innamorato di tua figlia” .
A fine corso la Regione Abruzzo ci fornì di bellissime
divise per l’antincendio, la stessa attrezzature in dotazione ai
Vigili del Fuoco. Mi augurai di non doverla usare mai, ma mi
sbagliavo.
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Finalmente torno a lavorare
Era il mese di giugno o luglio, non ricordo bene. Paolo
Lanaro, il cugino di Durero, era seduto di fronte a me, lo
conoscevo poco perché era la prima volta che facevamo il
turno insieme alla Misericordia.
Alto qualcosa di più di un metro e settanta, capelli corti
e sempre ordinati, la faccia pulita del bravo ragazzo, certamente tutto il contrario di me, disordinato e sciattone.
Ero silenzioso e pensieroso quella sera, lui se ne
accorse e mi chiese il perché. Sentii di potermi confidare, mi
dava fiducia quella persona calma ed educata.
“Presto scadrà la mia mobilità e non riesco trovare un
lavoro. Dopo la mia vicenda, d’altronde, chi vuoi si possa
fidare?”
“Che lavoro cerchi?”
“Qualsiasi lavoro, anche il manovale”
“Va bene, domani parlo con il titolare della ditta dove
lavoro, so che ci servono operai, vedrai che ti prenderà. Sei
disposto ad andare in trasferta?”
Risposi di si!
Dopo qualche giorno mi invitò ad andare in ufficio.
Ero molto fiducioso,. Suonai il campanello e la serratura della
porta scattò elettricamente, entrai e salutai anche se non vidi
nessuno sul corridoio. Paolo uscì da una porta di fronte a me e
mi venne incontro facendomi un cenno, come per dire che ara
tutto ok, a quel punto la speranza si era tradotta in certezza. Mi
accompagnò subito nell’ufficio del titolare e mi introdusse
dicendo:
“Franco, questa è la persona di cui ti ho parlato”
Sembrava di vedere mio fratello, alto quasi un metro e
novanta, novanta chili di portata, la testa calva con i lineamenti
del viso forti e ben fatti. Non mi piacque.
“Che lavoro vorresti fare?”
“Qualsiasi cosa di cui io possa essere capace”
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“In questo momento non abbiamo bisogno, lascia il tuo
recapito ed alla prima occasione ti mandiamo a chiamare”.
Mi cadde il mondo addosso, sicuramente conosceva la
mia vicenda …. e chi non la conosceva? Gli spiegai come
stavano le cose, gli dissi che l’immagine che molti si erano
fatti di me era sbagliata e lo pregai di mettermi alla prova.
“Non è per quello, se avremo bisogno di personale ti
manderemo a chiamare”.
Io invece avevo letto nei sui occhi dispiacere, ma anche
diffidenza.
Passò quasi un mese e una sera ero in auto con Paolo,
poco prima gli avevo chiesto se ci fossero novità, lui mi aveva
fatto un gesto come a dire ”non c’è niente da fare”. Il semaforo
era rosso e ci dovemmo fermare. Al senso opposto di marcia
una Jaguar si fermò al nostro fianco, il suo finestrino si aprii e
vidi l’imprenditore che avevo conosciuto al bar e con il quale
scambiavi il saluto nei fugaci incontri
“Paolo”, gli disse, “mò vai in giro con i comunisti con
la macchina della EdilBreda?”
Paolo non ebbe il tempo di rispondergli perché era
scattato il verde, ci salutò con un gesto della mano e mi disse:
“Stai attento, comunista!”.
Partimmo, Paolo si mise a ridere, gli chiesi perché, ma
lui continuò per un pezzo senza rispondere, fino a quando:
“Ma tu lo conosci?”
gli risposi di si e gli raccontai come l’avevo conosciuto
“E’ il signor Enrico, il padre di Franco, è in effetti il
fondatore della ditta, in parole povere è il padrone, prova a parlare con lui”
“Ma sei matto, se dovesse imporre al figlio la mia assunzione, quello poi mi porterebbe rancore”
“E che te ne frega? ….. Pensa alla famiglia, tu hai
bisogno di lavorare!”.
Raccontai tutto a Daniela, la quale mi consigliò di
parlarci. Una mattina l’avevo accompagnata a fare la spesa, lei
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portava il carrello ed io al suo fianco tenevo la mia mano sulla
spalla, vicino alla cassa incontrammo il signor Enrico:
“Buon giorno” dissi,
“Ciao” rispose, poi guardando mia moglie “Signò, state
attenta a questo giovanotto”
Uno scambio di sorrisi e riprendemmo la nostra strada.
Ad un certo punto ci ripensai:
“Aspettami un attimo, Daniè, io ci vado a parlare!”
Lo raggiunsi che era ancora vicino alla cassa:
“Se ha un attimo di tempo avrei bisogno di parlarle”
“Dimmi pure” mi rispose affabilmente,
“Avrei bisogno di una raccomandazione”
“Con tutti i politici che conosci vieni proprio da me?”
mi disse ridendo,
“E’ per un posto di lavoro, per questo non sono mai
andato dai politici”
“Per chi è?” mi chiese ridendo,
“Per me”,
“Se è per te non c’è nessun problema, dammi qualche
giorno”.
Io ero eccitatissimo, riprendere a lavorare, che meraviglia, mi comportavo come se avessi vinto al super-enalotto,
ma Daniela provò a rimettermi con i piedi per terra:
“Non essere così felice, aspetta che ti chiamino”.
Non so se mia moglie sia una veggente o una menagramo, sta di fatto che passarono una quindicina di giorni e
nessuno mi chiamava. Come tutti i sabati tornammo a fare la
spesa, ….. la stessa scena, mia moglie con il carrello ed io con
la mano sulla sua spalla. D’un tratto una voce dietro di noi:
“Giovanò, ma che fai qui, non dovresti essere a Monselice?”
Ci voltammo e vedemmo il signor Enrico che mi guardava come se avessi commesso un reato, io non riuscivo a capre:
“Non mi ha chiamato nessuno, signor Enrico”
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“Non ti ha chiamato nessuno? Bene bene, spicciati a
fare la spesa e torna a casa”
Ci salutammo e prendemmo ognuno la propria strada,
io mettevo fretta a Daniela e lei mi rassicurava dicendomi:
“Ma credi ancora alle favole?”
Scaricammo le buste della spesa dalla macchina e salimmo le scale per rientrare a casa. A metà gradinata udimmo
lo squillo del telefono, strappai le chiavi dalle mani di Daniela
che, mentre correvo per aprire la porta di casa, mi strillava:
“Dai che sicuramente è mia madre”.
Entrai ed alzai la cornetta del telefono, Daniela era arrivata e stava sulla porta
“Pronto”
“Pronto, il signor Nardini?” chiese la voce all’altro capo del filo, la richiesta era stata fatta in maniera leggermente
sfottente,
“Sì” risposi,
“Sono il geometra Paolo Marco Lanaro, la chiamo dalla ditta EdilBreda, dovrebbe portare i suoi documenti in ufficio
per l’assunzione, possibilmente subito!”.
Mi precipitai in Ufficio con il libretto di lavoro in
mano. Il mio amico Paolo era diventato di colpo “il geometra
Lanaro”, mi trattò con distacco, come se non mi conoscesse,
sbrigò tutte le pratiche, mi consegnò tutto il materiale antinfortunistico, spiegandomi come e quando utilizzarlo ed alla fine
mi disse con un sorriso e facendomi l’occhiolino:
“Il contratto e per due anni, lunedì mattina attacchi al
cantiere che abbiamo dentro il cementificio della Italcementi a
Scafa”.
Quando me ne andai, passai davanti all’ufficio di Franco, la porta era aperta ed io lo salutai, mi rispose con un cenno
della mano. Uscii dall’ufficio con il pacco di materiale tra le
braccia e con tanta speranza nel cuore.
Daniela aveva sempre ragione ma, alla fine, vincevo
sempre io!
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Impara l’arte e …… (che fatica!)
Rientrai a casa e sparsi sul tavolo tutta la roba
che mi era stata data in dotazione, misi in bella mostra
la tuta nuova, l’elmetto e gli scarponi, gli occhiali di
protezione, le cuffie contro il rumore, i guanti e altri
accessori. Daniela uscì dalla cucina e vedendo quella
bancarella disse:
“E adesso mi devo tenere tutta quella roba sul
tavolo della sala?”
“No, ma è un pretesto per farti capire che
lunedì inizio a lavorare con la EdilBreda, il signor Enrico è stato di parola”
“Dove vai a lavorare?”
“Al cementificio di Scafa”
“Povera me! A cinquant’anni vai a fare il manovale, chissà quanto duri, voglio proprio vedere”
Mi diede una busta e ci misi all’interno tutta la
roba che era sul tavolo, posai la busta vicino alla porta.
Porca troia! A quella donna non andava mai bene
niente. Nel pomeriggio, mentre in soffitta fumavo
solitario il mio sigaro, mi chiamò dicendo:
“Nardini, c’è Valter al telefono”
Lascia il sigaro nel portacenere sulla scrivania
e scesi di corsa le scale, rischiando di schiantami al
suolo, ansimando risposi:
“Ciao Valter, come va?”
“Bene, proprio bene, lunedì mattina devi
portare i documenti al Consorzio di Bonifica, così inizi
a lavorare, per cominciare sarà un contratto per sei
mesi, nel frattempo sarà fissata la data del ricorso alla
ILAS, va bene?”
“Mi dispiace Valter, ma ho firmato un contratto per due anni con un’impresa edile di Scafa”
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“Ma sei proprio sicuro? Guarda che è un lavoro
duro e dopo, tu non hai mai fatto il muratore, non è
semplice”
“Lo so Valter, anche loro lo sanno, farò il
manovale, ma mi è stata data dopo tanti anni l’occasione di dimostrare quello che posso valere, come uomo
intendo, e poi non me la sento di deludere chi mi ha
dato fiducia”
“Giusè, fai come credi, comunque lunedì ci
dovresti andare per la rinuncia del posto”
“Ma come faccio, come posso prendermi un
permesso il primo giorno di lavoro?”
“Va bene, ma almeno telefona per avvisarli,
casomai ci andrai la sera, ok?”
“Ok” risposi “E grazie di tutto”.
Riattaccai il telefono e tornai in soffitta, mi
sedetti alla scrivania che mi ero costruito con materiale
di recupero e ripresi il sigaro. Provai a tirare, ma ormai
si era spento. Aprii un cassetto della scrivania, che
veramente era un vecchio comodino infilato sotto un
pannello di legno che, solitamente, viene utilizzato dai
carpentieri per casserare i getti in calcestruzzo, presi
l’accendino, riaccesi il sigaro e aspirai una lunga
boccata di fumo.
Al Consorzio di Bonifica avevo lavorato per
diciassette mesi, durante la mobilità, conoscevo il
lavoro ed ero stimato da tutti, invece, avevo scelto di
svolgere un nuovo lavoro, un lavoro che non
conoscevo e sul quale anche Valter mi aveva messo
sull’attenti, forse lui e Daniela avevano ragione, ma
ormai il dado era tratto! Andai avanti per la mia strada
cocciuto come sempre.
Il lunedì mi presentai al lavoro, in mattinata
telefonai, ed il pomeriggio, dopo aver smontato, mi
recai al Consorzio di Bonifica per firmare il rifiuto
all’incarico. Quando tornai a casa, senza parlare
33
mangiai e mi ficcai direttamente a letto. Daniela mi
aveva chiesto come era andata la giornata, voleva
sapere come era il nuovo lavoro, ma capì subito che
non avevo voglia di parlarne quando mi sentì
rispondere “bene” e basta. Come potevo dirgli che quel
lavoro non mi piaceva? Ero stato otto ore a legare reti
metalliche, la tenaglia mi aveva fatto sanguinare la
mano destra, mentre il filo di ferro mi aveva
bucherellato la mano sinistra, otto ore a gambe larghe
e abbassato a legare quel maledetto ferro. La schiena
mi faceva male.
Il giorno dopo, il Capocantiere, Mancini
Bartolomeo, si era accorto dei miei problemi e mi
assegnò lavori meno pesanti. Con il passare del tempo
imparai il nome delle attrezzature, cominciai a tenere
la cazzuola in mano, ad usare la livella e il filo a
piombo. Imparai i segreti dei forni dei cementifici e
loro rivestimenti refrattari. Bartolomeo fu davvero un
buon maestro per me, insegnandomi il mestiere,
sicuramente lo fece non solo perché il signor Enrico mi
aveva raccomandato a lui, ma anche perché gli andavo
a genio. La sfida era duplice, non solo perché volevo
dimostrare a Daniela quello che valevo, ma perché
credo, che anche il signor Enrico doveva dimostrare a
se stesso che non si era sbagliato su di me.
Mi abituai piano piano alla durezza del lavoro
edile, ma più che mai mi impegnavo a capirlo, per ogni
difficoltà il mio punto di riferimento sempre presente
era Paolo, il “Geometra Lanaro” mi riprendeva sempre
quando sbagliavo, ma poi mi consigliava spiegandomi
come fare, dissipando così le mie incertezze, mi diede
anche da leggere un libro dal titolo “Manuale completo
del Capomastro – Assistente edile” che mi fu molto
utile.
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Iniziai ad andare in trasferta e mi vennero date
le prime responsabilità. Un giorno Paolo mi telefonò
chiedendomi di passare in ufficio.
“Nardini, c’è un corso per addetti alla rimozione dell’amianto, io stesso e alcuni operai lo abbiamo già fatto l’anno scorso, quest’anno abbiamo pensato di farlo fare anche a te. Devi firmare questi moduli.”
Non ero sicuro di quello che stavo facendo, ma firmai.
35
L’amianto
Nella sala della Provincia, a Pescara, dove si
teneva il corso, sedevano una quarantina di persone
dipendenti di varie imprese. Della EdilBreda ne
eravamo tre, io, Mario Massimo Di Cecco e Catalin
Marian Farcas, un ragazzo romeno. La prima lezione
era cominciata.
Mentre la docente, una simpatica dottoressa, ci
illustrava la pericolosità dell’asbesto, dei suoi serpentini e dei problemi che avrebbe potuto provocarci, io
spaziavo con la mente in polemici pensieri, come mai
un prodotto così pericoloso non era stato testato
prima? E per quale motivo era stato vietato il suo
utilizzo solo due anni dopo la scoperta della sua
nocività? Forse per permettere alla aziende senza
scrupoli di svuotare i magazzini dei prodotti in giacenza? La lezione continuava nel silenzio più assoluto
e quando la docente ultimò il suo intervento alzai la
mano per chiedere la parola. Illustrai i miei pensieri
chiedendo spiegazioni in merito, inoltre aggiunsi:
“Dottoressa, non crede che, visto il pericolo
che comportano le operazioni di bonifica dell’amianto,
agli operatori del settore debba essere riconosciuto un
indennizzo di rischio? E questo, intendo, tanto alla
ditta quanto agli addetti”
Ci fu un applauso ed un vocifero che si levò tra
i partecipanti al corso, la dottoressa alzando una mano
come per zittirci, disse:
“Fate piano, dorme!”
Ci voltammo tutti verso il punto che aveva
indicato. Il nostro collega Massimo, da tutti conosciuto
come “Ciccopeppe” per un nomignolo di famiglia, con
il gomito poggiato sul bracciolo della sedia e la mano
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sotto il mento, dormiva saporitamente. Tutti si misero
a ridere e lui si svegliò, si guardò intorno poi, rivolgendosi a me, chiese cosa fosse successo:
“Niente” risposi, “Ho solo fatto una domanda”
“Propongo dieci minuti di pausa” disse la dottoressa “ poi riprendiamo, siete d’accordo?”
Neanche a dirlo!, tutti si alzarono e presero la
via dell’uscita. Volevo reclamare una risposta alla mia
domanda, ma non lo feci, perché metterla in imbarazzo, non l’avrebbe avuta una risposta!.
Tra alti e bassi finimmo di seguire il corso e
superammo l’esame finale, al moneto ritenemmo il
tutto noioso e inutile, ci rendemmo conto, in seguito
che era stato effettivamente lungo e noioso, ma molto
utile.
Iniziai così le prime rimozioni di coperture in
eternit, sotto la guida di responsabili già esperti.
Luciano Pagliarella era uno di questi, anche in questo
caso, come avevo fatto in precedenza con Bartolomeo,
cercai di imparare il mestiere rubando con gli occhi
quante più cose di quanto potessero spiegarmene.
37
Una decisione importante
Mi trovavo bene in questa nuova azienda,
mi trovavo bene nonostante i continui battibecchi
che avevo con Franco, ma ormai erano diventati
di routine, non ci facevo più caso da quando Paolo
mi spiegò che Franco da me pretendeva di più sia
produttivamente che qualitativamente, perché
sapeva che potevo dare di più. Tutte le sere
passavo in ufficio a portare i rapportini giornalieri
ed a preparare il programma di lavoro per il
giorno seguente, l’ambiente era per lo più calmo e
famigliare, a parte alcune volte in cui la tensione e
il nervosismo la facevano da padrona, ma questo
succede anche nelle migliori famiglie.
In amministrazione regnava il ragioniere
Nicola De Thomasis, sempre sommerso da un
mare di carte sparse sul tavolo, lo aiutava
Stefania, la sorella di Franco, una donna molto
bella e simpatica. L’ufficio tecnico era composto
oltre che dal geometra Lanaro, anche dalla moglie
di Franco, la signora Benita Renzetti che, per
qualsiasi cosa, specie per le frequenti discussioni
che avevo con il marito, tifava sempre per me,
sempre molto affabile e precisa nel lavoro. C’era
anche il nuovo geometra, Massimo Tasinato,
assunto da poco per dare una mano a Paolo nei
cantieri esterni, non nascondo che con lui i rapporti non sono mai stati dei migliori, ma esclusivamente per motivi di lavoro, non ero abituato al
suo metodo di lavoro, molto diverso da quello di
38
Paolo, per il resto era comunque anche lui una
brava persona.
Avevo completamente dimenticato la
ILAS. Ci pensò l’avvocato De Cesare Valter a ricordarmela, una sera mi telefonò a casa:
”Ciao Giusè, come va?”
“Bene, c’è qualche novità?
“E’ stata fissata l’udienza in tribunale, è
per il mese prossimo, sei contento?”
Non sapevo come dirglielo che non ero
contento……
“Hai capito quello che ti ho detto?”
Si, ho capito, il fatto è che adesso proprio
non potrei, ho degli impegni di lavoro e …….”
“Ma se hai dichiarato a mezzo mondo,
giornalisti e televisioni che alla ILAS ci saresti
andato in pensione e adesso ci hai ripensato,
dimmi cosa devo fare?”
“Fai un accordo Valter, se è possibile fai
un accordo. Mi dispiace davvero ma non me la
sento di tornare lì dentro”
“Come vuoi tu, ma pensaci bene e fammi
sapere, io intento sondo le acque. Ciao”
“Ciao” risposi, “Vedi tu, ma tanto ho già
deciso!”.
39
In attesa continuai a lavorare. Come al
solito, la sera di un giorno di lavoro passai in ufficio, mi aspettava una sorpresa e darmela, naturalmente fu Paolo, come mi vide entrare mi disse:
“Nardini, c’è da fare un lavoro particolare e
abbiamo pensato a te!”
“Di che si tratta?” chiesi incuriosito,
“Il restauro di un rifugio montano, in cima
al monte Morrone, aria buona, quota 1786 metri,
allestiremo un campo dove dormirete e tornerete a
fine settimana”
“Ma sei sicuro che posso farcela?”
“Sì” rispose seccamente.
“Vorrei almeno vedere di che cosa si tratta,
è possibile?”
“Certo che è possibile, dobbiamo andare
con il Direttore dei Lavori, l’architetto Santino
Iezzi a visionare il posto, lo devo chiamare per
prendere accordi e poi ti faccio sapere”.
Gli impegni con la EdilBreda si intrecciavano sempre con quelli di Valter. Il venerdì
sera Paolo passò a casa mia e mi disse di preparami perché il giorno dopo saremmo andati sul
monte Morrone a vedere i lavori e fare l’elenco
dei materiali e delle attrezzature da preparare.
Valter mi aveva invitato, invece, la stessa mattina
presso il tribunale per definire eventuali accordi o
proseguire la vertenza. Lo chiamai subito dicendogli che era sopraggiunto un altro impegno e
misi tutto nelle sue mani, di lui potevo fidarmi
ciecamente.
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Jaccio della Madonna
Alle otto di sabato mattina Paolo mi passò
a prendere, mi disse che lui era già stato con
l’architetto a fare un sopralluogo, quindi mi
avvisò che avremmo dovuto fare un tratto di
strada a piedi, aprii la sportello del Doblò con il
quale era venuto e ci feci scivolare dentro lo
zainetto con la colazione che Daniela mi aveva
preparato. La spada di legno, che poi avrei usato
come bastone, la infilai di fianco al mio sedile.
Paolo continuava a ridere e io non riuscivo a
capire il perché.
Superato il paese di Sant’Eufemia a Maiella, prese per Roccacaramanico e dopo qualche
chilometro svoltò a destra per una strada di campagna. Era una strada dissestata da non credere,
tanto che gli dissi:
“Ma qui ci voleva un fuoristrada”
“Non ce n’è bisogno, questa macchina è
abbastanza alta da terra è come un fuoristrada e
poi …….. ci vuole solo un bravo autista”
Si fermò in un piccolo spiazzo, oltre non si
poteva andare perché la strada era parzialmente
franata, parcheggiò l’auto e scese. Prese il cellulare e chiamò l’architetto Iezzi, il quale gli rispose
dicendo che stava arrivando.
Dopo dieci minuti il grosso fuoristrada si
annunciò dal rombo del motore, ne scesero due
persone attrezzate per le scorribande montane. Si
capiva benissimo che erano degli esperti: scarponi
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alti, pantaloni alla zuava, piccozza, borraccia e
zaino da montagna. Anche Paolo estrasse dall’
auto zaino e piccozza oltre a un paio di copristinchi antivipera. Io, con le mie scarpe da tennis,
la mia spada di legno e lo zainetto della scuola che
mi ero fregato a mio figlio Daniele, mi sentivo,
come dire, come un pesce fuor d’acqua (in montagna). Dopo le presentazioni partimmo.
Che meraviglia…. il viottolo iniziava con
una salita da fare con le mani e con i piedi.
L’architetto Iezzi, che era il presidente della Associazione “I folletti del Morrone”, insieme al suo
amico, si arrampicavano lungo quel sentiero come
degli scoiattoli, mentre io e Paolo, per stargli dietro procedevamo quasi caproni e con la lingua da
fuori. Ad un certo punto non ce la feci più:
“Architè, ma che ci scappa via questo rudere? Se continuiamo di questo passo io lassù non
ci arrivo!”
“Se continuiamo di questo passo ci arriviamo tra tre ore” rispose Iezzi.
Mi ero seduto su una grossa pietra e tanto
per ossigenarmi mi ero acceso una sigaretta. Fulminai Paolo che mi stava guardando con un sorriso beffardo sulle labbra. Si sedettero anche gli
altri. Solo allora mi guardai intorno e mi resi
conto dove mi trovavo: il bosco era immenso,
pieno di colori. Vicino a me, tra le sterpaglie delle
piccole fragole rosse. Ne raccolsi una e la misi in
bocca, era buonissima! Raccolsi le altre e le misi
in tasca. Ripartimmo, dopo un’ora e mezza
uscimmo dal bosco. Il panorama che si presentò ai
miei occhi era indescrivibile: ai miei piedi vedevo
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i paesi di Caramanico Terme, poi spaziando
intorno riconobbi Scafa con la sua caratteristica
torre del cementificio, Pianella, Chieti, Francavilla, Pescara ed il mare. Tra me ed il mare tanti
altri paesi ai quali non riuscivo a dare il nome.
Il peggio era passato perché adesso il cammino si era fatto pianeggiante, però poco dopo ci
accorgemmo che un tratto del sentiero era stato
investito da una frana. Passammo usando molta
accortezza, uno alla volta ed io per ultimo, proprio
per vedere come avrei dovuto comportarmi.
Sinceramente, mentre passavo sulla frana, guardando il baratro alla mia destra, ebbi un po’ di
strizza, ma andò tutto bene. Percorremmo per altri
venti minuti una spianata in leggera salita. Ormai
non si vedeva più un albero, piegammo verso
sinistra e iniziammo a scendere.
“Se dovete telefonare in questa zona ch’è
rete” disse Iezzi, “anche se non sempre si prende”.
Aggirata una piccola altura, in fondo alla
valletta sottostante, a circa duecento metri da noi
si ergeva una fatiscente costruzione in pietra, era
il rifugio chiamato “Jaccio della Madonna”. A un
metro circa, sul retro del fabbricato, si ergevano
delle rocce che risalivano sino all’altura che
avevamo aggirato per arrivare, sul lato anteriore,
invece, si stendeva una spianata molto ampia che
mi apparve come un’immensa distesa verde, coperta da piante che mi sembrarono ortiche. Giungemmo finalmente al rifugio, ma io continuavo a
guardare quel mare verde che ondeggiava ad ogni
alito di vento. Iezzi, visto il mio interessamento
mi disse:
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“Sono spinaci selvatici, li chiamano orabi o
orbi, crescono a queste quote grazie alle pecore
che portano qui al pascolo. Quando ritorniamo giù
ce ne riporteremo una busta, sono speciali da
mangiare. Pensa che c’è gente che fa tutta questa
strada solo per venire a raccogliere queste verdure”.
Distolsi lo sguardo da quella prateria e mi
volsi verso il rifugio. Ci trovavamo a non più di
dieci metri da esso. Era un fabbricato composto da
due locali al piano terra e un locale al primo piano
in corrispondenza della stanza di sinistra guardando dal fronte anteriore. Parte delle pietre con
le quali erano stati edificati i muri erano crollate
lasciando in essi delle grosse breccie, non c’erano
tracce degli infissi alle porte ed alle finestre, sul
tetto i pochi ferri rimasti dell’armatura del
cornicione, crollato anch’esso, sporgevano sembrando lani in cerca di aiuto. Entrai dentro al locale alla mia sinistra e ricaddero le braccia: a terra
una montagna di sterco di mucca, il solaio che
formava anche il pavimento della stanza al primo
piano non c’era più e alle pareti mancavano interi
pezzi di muro in pietra. Passai attraverso la porta
che collegava i due locali al piano terra, il
massetto del soffitto era talmente danneggiato che
si vedevano tutti i ferri dell’armatura, la parte di
muro sopra l’architrave della porta di accesso
mancava totalmente facendo intravedere il cielo al
di fuori della stanza. Uscii e mi accesi una
sigaretta. Paolo parlava con l’architetto Iezzi ed il
suo compagno di viaggio. Si accorsero che ero
praticamente sconvolto. 1786 metri di altitudine,
44
isolati da tutto e da tutti con il telefono che
prendeva si e no in una zona distante dal rifugio
che per raggiungerla bisognava fare un bel tratto
di faticosa salita. E come portare i materiali e le
attrezzature? Non c’era né l’acque e neanche l’
energia elettrica. C’eravamo soltanto noi, la natura
circostante ed il mondo ai nostri piedi. Mi voltai
verso il trio e dissi loro:
“Voi siete pazzi!”
Paolo mi guardò sorridendo e disse:
“Questo lavoro lo devi fare tu, ti scegli i
compagni e lo fai!”.
“Il bello è che non sono sicuro di esserne
capace” risposi istintivamente,
“Certo che lo sei” disse l’architetto “volevo
che ci veniva Bartolomeo, ne ha fatto già un altro,
ma mi ha assicurato che tu sei all’altezza”.
Feci una smorfia con la bocca ma non risposi. Tirammo fuori i panini e mangiammo in silenzio. Al ritorno, tra una chiacchiera e l’altra,
presi confidenza con l’architetto e mi disse che in
quei posti avremmo potuto avvistare qualche lupo.
Una volta era stato visto anche un orso, ma non si
sapeva se ciò era vero. Il viaggio si concluse tranquillamente. La sera a casa andai a dormire distrutto e con la testa piena di pensieri e di dubbi
per questo lavoro che mi era stato assegnato.
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L’elicottero
I preparativi per il cantiere sul monte
Morrone erano in corso. Nella nostra officina si
stava allestendo un prefabbricato che sarebbe
servito come dormitorio e con un vano per la
cucina. Paolo mi disse che stava contattando delle
ditte che noleggiavano elicotteri per il trasporto
delle attrezzature, i materiali e le provviste. Un
momento molto difficile fu per me la scelta dei
miei collaboratori, non era facile trovare persone
brave per quel tipo di lavoro e che avrebbero
accettato di sopportare i sacrifici di quel genere di
vita. Feci dei nomi: Selami Jakup e Osmani
Sitkija, che accettarono, il terzo, Selami Bajram si
era fatto volontario. Erano tutti e tre macedoni.
Avevamo acquistato ogni sorta di genere alimentare e di bevande perchè saremmo dovuti restare
su per molto tempo. Ricordo con piacere il venerdì mattina, vigilia della partenza, che durante la riunione con altri capi cantiere, parlando della
organizzazione del lavoro, uno di questi, venuto a
conoscenza dei componenti della squadra, disse:
“E che va a fare solo Nardini con tre manovali?”,
Il geometra Paolo gli rispose:
“Bè, intanto si vanno a fare un po’ di villeggiatura”.
Il sabato mattina la squadra di “manovali”
era pronta!
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Paolo venne a prendermi a casa con il
Doblò. Prima di uscire di casa salutai la famiglia e
mi soffermai sulla porta di casa a parlare con
Daniela. Lei mi chiese:
“Sabato tornate?”
“Non credo” risposi, “i tempi di lavoro
sono ristretti, se torniamo ogni fine settimana non
riusciremo a riconsegnare il lavoro in tempo”.
Le diedi un bacio ed uscii. Caricammo i
miei effetti personali sulla macchina e partimmo.
Quando giungemmo sul luogo dell’incontro, i
nostri camion carichi di roba erano già sul posto
in attesa dell’arrivo dell’elicottero. Era stata scelta
una piazzetta dove avrebbe potuto atterrare. Arrivò il camioncino per il supporto a terra della
macchina volante e ci diede le reti dove iniziammo subito a sistemare i materiali da trasportare: sacchi di argilla espansa, cemento, intonaci,
ferro, tavole, oltre ai viveri ed effetti personali.
Giunsero anche il Sig. Enrico e Franco.
“Arriva l’elicottero”, disse qualcuno.
Mi voltai e lo vidi fare un largo giro su di
noi, poi andò a verificare la zona sopra il rifugio
dove avrebbe trasportato i materiali. Intanto era
arrivato anche l’architetto Iezzi, il quale si diresse
direttamente verso Bartolomeo, che era venuto per
aiutare la squadra che caricava i materiali, facendogli ancora pressioni affinché ci ripensasse.
“Non preoccuparti”, disse Bartolomeo a
Iezzi, “stai tranquillo che questi ragazzi lo sapraino fare bene il lavoro”.
L’elicottero atterrò alzando un turbinio di
vento, qualche cappello finì nelle scarpate e fu tut-
47
to un volare di carte e polvere. Quando le pale
smisero di girare tutti si avvicinarono al mezzo. Il
pilota intanto era sceso e si stava accordando con i
colleghi per le operazioni di carico. Io non ero
curioso perché già avevo viaggiato con un mezzo
simile quando facevo il meccanico in Iran per la
società Saipem. Ultimati i preparativi iniziarono i
trasporti. Per primi salimmo io, Paolo, l’architetto
ed il tecnico per coordinare le operazioni di
scarico. Tutti si allontanarono e le pale iniziarono
a ruotare fino a ché, il mezzo si sollevò da terra e
raggiunta una certa altezza ruotò su se stesso e
inclinandosi in avanti partì. Era meraviglioso
vedere il panorama da lassù e sorvolare quelle
cime che l’elicottero sembrava sfiorare. In pochi
minuti giungemmo sul luogo dell’atterraggio
(pensare che a piedi ci avevamo messo più di due
ore e mezzo) e dolcemente toccammo terra nel
punto scelto dal pilota. Vedemmo il manto di
verdura ondeggiare come flutti in un susseguirsi
di onde che si andavano a infrangere sul fatiscente
rifugio che sembrava ci stesse aspettando.
Scendendo dal velivolo ci dovemmo chinare per
vincere la forza del vento provocato dalle pale,
una volta raggiunta la distanza di sicurezza il
mezzo si risollevò. Con il secondo viaggio arrivarono gli addetti allo scarico dei materiali ed al
montaggio del prefabbricato. Io davo una mano
quando era possibile, feci posizionale il prefabbricato proprio di fronte al rifugio, due serbatoi
dell’acqua da dieci quintali li feci mettere sulla
collinetta laterale in posizione sopraelevata e uno
proprio di fianco al prefabbricato.
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L’isola dei ….. famosi
Nelle prime ore del pomeriggio tutta la
roba preparata era stata portata al rifugio e così
dopo aver caricato il personale da riportare a valle,
il volatile meccanico scomparve dalla nostra vista
lasciandoci soli.
Ci fu così un lungo momento di silenzio
che si univa al silenzio che ci circondava. Dopo la
bagarre degli scarichi, le folate di vento, le ondate
di polvere, le voci e tutto il resto, lo sconforto ci
aveva aggrediti. Mi guardai intorno e mi sembrò
di vedere il nulla, alzai allora gli occhi al cielo e
ciò che vidi ritemprò il mio essere:
“Guarda Jakup”, gridai, “un’aquila”.
Le grandi ali immobili, volteggiava sopra
di noi senza fare rumore, austera e fiera. Rimpiansi di non aver portato il binocolo e dissi a
Jakup:
“Ricordami di portare il binocolo, quando
torniamo”.
“Va bene capo”.
Avevamo rotto il ghiaccio. Presi in mano la
situazione e dissi:
“Jakup, tu e Sitkija cominciate ad organizzarvi per il lavoro, la prima cosa che dobbiamo
fare è il risanamento del tetto. Intanto io e Bajram
ci occuperemo di fare una tettoia davanti al
prefabbricato e sistemiamo il campo”
Collegammo con un tubo i contenitori
dell’acqua che avevamo posizionato in alto con
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quello vicino alla baracca, collegammo anche la
bombola del gas con il fornello e provammo ad
accenderlo con un fiammifero, una fiammata si
alzò così alta da arrivare al soffitto. Chiusi
immediatamente la bombola e imprecai. Controllai il regolatore e mi accorsi che l’intelligentone
che aveva preparato il materiale ce ne aveva fornito uno di quelli che si usano per i bruciatori a
cannello (quelli per saldare la guaina di bitume
che si mette sulla coperture). Il fornello non
avrebbe potuto funzionare! Per fortuna avevo
portato per precauzione un fornelletto elettrico, lo
cercai e dopo aver rovistato un bel po’ in mezzo a
tutta la roba ammucchiata che aspettava di essere
sistemata, lo trovai. Mettemmo in funzione il
generatore e lo provammo, per fortuna era tutto
ok, avremmo mangiato pasti caldi!. Collegammo
il frigorifero all’impianto e ci accorgemmo che
anch’esso non funzionava. Dissi a Bajram:
“Non facciamo sapere niente in sede o
succede un casino”. Qualcuno non aveva fatto
bene il proprio dovere.
Il sole si era andato a nascondere dietro i
monti ed aveva lasciato il posto alla luna, a vederla dal rifugio sembrava ancora più era ancora
più splendida e luminosa. L’aria era così tersa e
leggera che ci aveva messo una fame da lupi
(forse anche perché vivevamo nel loro mondo).
Buttai nella pentola un chilo di spaghetti e
li condii con un sughetto ai funghi. Non sazi
mangiammo dei wurstel di tacchino e io e Sitkija
bevemmo qualche bicchiere di vino. Al termine
della cena chiesi:
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“Come pensate che si debba procedere per
il lavoro?”
Rispose Jakup nel suo incerto italiano:
“Il tetto sono quattro falde e dobbiamo farne una per volta, così penso Giusè”.
“Io penso che è meglio iniziare da dentro”,
rispose Sitkija.
“Giusè”, ribattè Jakup, “Finchè il tempo è
buono è meglio fare il tetto, quando piove facciamo dentro”.
Accesi una sigaretta e aspirai una bella, se
così si può dire, boccata di fumo, poi guardai
Bajram. Non mi è mai piaciuto prendere decisioni
senza aver interpellato i miei ragazzi e questo ha
sempre dato i suoi frutti. Cacciai il fumo dalle
narici mentre Jakup apriva la finestra alle mie
spalle e rimproverandomi mi disse:
“Non se fuma quì, capo!”
“Stasera sopportami per favore”, lui mi
sorrise e io continuai, “mi sa che non ce la
facciamo a fare questo lavoro”
Jakup rispose ridendo:
“Che problema c’è?”
Sitkija ribattè:
“Facciamo tutto, padre”.
Sitkija mi chiamava padre perché, quando
arrivò nella nostra ditta, direttamente dalla Macedonia, non conosceva una parola d’italiano ed io
mi ero prodigato a fargli tanti piccoli favori.
Insieme alla sigaretta si era spenta anche
l’energia e all’agitazione del primo giorno si era
sostituita la stanchezza. Io scelsi di dormire del
letto a castello, sotto di me si era sistemato Jakup.
51
Sull’altro letto c’erano sopra Sitkija e sotto
Bajram. Appena allungati a letto scherzammo in
po’, Jakup mi sollevò la branda dal suo posto
allungando le braccia, ma poco dopo Morfeo ci
accolse tra le sue braccia e dormimmo beatamente
in quel luogo quasi irreale.
Alle sei del mattini mi svegliai, avevo dormito profondamente ed erano scomparsi i segni
della stanchezza del giorno prima. Scesi dal letto e
trovai il vuoto sotto di me, caddi con un tonfo sordo sul pavimento in legno rivestito di linoleum. I
miei compagni d’avventura si svegliarono di soprassalto:
“Che successe?” disse Jakup nel suo
cattivo italiano.
“Niente” , risposi “faccio il caffè”
“Ti sei fatto male, padre?” chiese Sitkija.
Mi rialzai e feci cenno che era tutto a posto, avevo dimenticato che mi trovavo a dormire
sulla rete rialzata. Ci mettemmo a ridere.
Uscii ed accesi il generatore, entrai nel box
doccia che avevamo posizionato di lato alla baracca. L’aria era fredda e l’acqua era gelida. Mi lavai
la faccia e rientrai. Preparai la caffettiera e presi il
latte dal frigorifero che fungeva da semplice credenza, intanto gli altri si erano alzati ed erano
usciti per andarsi a lavare, quando rientrarono il
caffè era pronto e i cornetti sul tavolo, facemmo
colazione ed uscimmo pronti per affrontare il
lavoro.
Jakup e Sitkija iniziarono a montare il ponteggio, mentre Bajram preparava i materiali
occorrenti. Ci rendemmo subito conto che i caval-
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letti per la bancata erano sufficienti per fare una
falda per volta. Mi incazzai terribilmente perché
avremmo dovuto smontarla rimontarla diverse
volte. Parlammo di questo e decidemmo, infine di
fare un quarto di edificio alla volta, cornicione,
tetto, e facciata. Io nel frattempo mi prodigai a
migliorare la situazione logistica. Di fianco
all’ingresso della baracca feci una specie di
basamento con dei sacchi di argilla espansa, sopra
vi collocai un serbatoio di vetroresina da duecento
litri di capienza. Collegai con due tubi di gomma
gli scarichi delle grondaie al serbatoio, così in
caso di pioggia avremmo raccolta dell’acqua da
usare per i lavori. Per noi il problema maggiore
era proprio quello dell’acqua!. Chiamai Bajram e
mi feci aiutare a posizionare un grosso cassone
metallico in una piccola conca non molto distante
e stendemmo dei teli di plastica sul terreno ai lati
del cassone in maniera da formare una specie di
imbuto. Se avesse piovuto avremmo raccolto fino
a dieci quintali di acqua.
Finito questo lavoro, con delle tavole di
legno, costruimmo una verandina davanti all’ingresso del prefabbricato e lo coprimmo con un
telone fissato con una rete metallica elettrosaldata.
Passarono i giorni e il lavoro cominciava a
progredire, nonostante non avevamo portato la
sega circolare e tutte le tavole le dovessimo
tagliare con la sega a mano, avevamo preparato le
casseforme per rifare il cornicione, compreso i
gocciolatoi. Avevamo messo i ferri delle armature
e la rete elettrosaldata per rinforzare la falda del
tetto. Avevamo ricostruito la parte del muro
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sottostante, in parte recuperando le pietre crollate
ed in parte procurandocene spaccando con la
mazza, a forza di braccia, dei grossi massi nelle
vicinanze. L’acqua era un problema, le pietre
no…. ce n’erano in abbondanza! Nei ritagli di
tempo si demolivamo e si rifacevano, con una
malta speciale, le stuccature tra la pietre dei muri.
Dopo una settimana di lavoro mettemmo in
funzione la betoniera e facemmo la gettata di
cemento sul tetto e nel cornicione. Un secchio
dopo l’altro, una badilata dopo l’altra, alle tre del
pomeriggio avevamo finito. E non avevamo
pranzato!
Preparai il solito chilo di pasta e lo condii
con un veloce sugo bianco alle vongole,
mangiammo voracemente e dopo andammo sulla
cima a telefonare. Dopo ripetuti tentativi riuscii a
contattare Paolo:
“Come và?” – mi chiese,
“Bene, rientriamo dopodomani, alle undici
ci incontriamo sotto, alla fine del sentiero. Devo
portare degli attrezzi. Come possiamo fare?”
“Affittiamo i cavalli per il trasporto. Come
è venuto il lavoro?”
“Vienitelo a vedere” – gli risposi.
Il giorno seguente sistemammo tutte le
fughe di una parete, ma il pomeriggio, delle grosse nubi nere coprirono di colpo il cielo, decidemmo di sistemare il cantiere. Coprimmo con dei
teloni i materiali cementizi. In una grossa buca,
appositamente scavata, bruciammo le carte dei
sacchi e dopo averci messo gli altri rifiuti la ricoprimmo di terra. Ne avremmo fatta un’altra al
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nostro ritorno. Dopo cena giocammo a poker e
persi, come tutte le altre sere, una decina di simidi,
come i miei amici chiamavano in macedone i nostri cornetti. Poi tutti a nanna. Verso le undici di
notte iniziò a piovere, poi piano piano la pioggia
si trasformò in un vero e proprio diluvio. Provavo
una piacevole sensazione di benessere in quel dormiveglia. Mi piaceva sentire il ticchettio che faceva sulla lamiera del soffitto la pioggia che cadeva,
ma tutt’a un tratto:
“Padre aiuto, piove” aveva gridato Sitkija
terrorizzato,
“Lo sentiamo che piove, smetterà, mica
possiamo fermare la pioggia”.
“Ma piove, padre”
“Ma mò che ti possiamo fare?” disse
Bajram, “facci dormì che domani dobbiamo camminare”
“Si, ma sono tutto bagnato!”
Saltammo dal letto ed accendemmo la torcia a batteria. Povero Sitkija, era davvero tutto
bagnato, gli pioveva dal tetto. Spostammo il letto
e mettemmo per terra un paio di secchi in corrispondenza di dove gocciolava, la mattina li ritrovammo pieni.
Venne l’ora di alzarsi, la pioggia non era
cessata ma era molto più leggera. Decidemmo di
partire lo stesso, li avrei riportati a valle. Cosa
avevo fatto a fare tutti quei corsi? Presi quattro
grosse buste che erano servite da imballaggio per
dei materiali, vi feci dei buchi per la testa e per le
braccia e ce li infilammo come degli impermeabili, avvolgemmo intorno alle gambe ed alle
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braccia dei pezzi di plastica fermati con del nastro
adesivo. Ci caricammo sulle spalle i pesanti zaini
con la biancheria sporca e così conciati ci mettemmo in marcia. Anche se chiamavo tutti i giorni
a casa, non vedevo l’ora di riabbracciare la famiglia. Il percorso, già accidentato per se stesso,
adesso era reso più pesante dalla pioggia che,
anche se era diminuita notevolmente, continuava
ad accompagnarci. Incominciavo a stancarmi e lo
zaino sulle mie spalle sembrava che aumentasse di
peso ad ogni passo che davo. Procedevamo in fila
indiana, avanti c’era Jakup, seguiva Sitkija, poi io
e dietro di me c’era Bajram. Giungemmo al tratto
di sentiero franato, i due battistrada lo superarono
con difficoltà, Jakup voltandosi mi disse:
“Stai attento, Giusè”.
Un piede dopo l’altro procedevo con
cautela evitando di guardare verso il basso, quando di colpo il terreno cedette sotto i miei piedi.
Vidi grosse pietre rotolare verso il basso ma io
non ero con loro. La forte mano di Bajram mi aveva afferrato per lo zaino e mi tratteneva impedendomi di scivolare giù. I due davanti buttarono
a terra il loro carico e corsero in mio soccorso e
dolcemente ma con fermezza mi tirarono su.
Riprendemmo il cammino mentre la pioggia
aveva smesso di cadere. Il mio zaino adesso lo
portavano loro, a turno. Sei troppo vecchio, mi
avevano detto.
Giunti alla fine del sentiero trovammo
Paolo che ci aspettava:
“E’ andato tutto bene?”
Noi ci guardammo e rispondemmo:
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”Tutto bene, capo”.
Erano passati dieci giorni, Bajram, il più
giovane disse:
“Geò, mi sembrava che stavamo sull’isola
dei famosi”, scoppiammo a ridere come matti.
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Finalmente è finita!
A casa fu festa grande e tutti mi facevano
domande su come era la vita su quel monte, io ero
stanco ma, nonostante ciò, raccontavo come andavano le cose, cercando di ridimensionare le difficoltà. Daniela mi chiese:
“Per andare al bagno come fate?”
“Ognuno ha il proprio servizio igienico,
abbiamo scavato delle buche per terra, la mia è a
una cinquantina di metri dalla baracca
“Ho capito” disse Daniela, “ma se piove
come fate?”
“O non ce la teniamo o portiamo l’ombrello!”
“E per mangiare?”, chiese Letizia, la primogenita.
“Benissimo, ho insegnato io a tua madre.
Volete sapere se ci laviamo? Si facciamo la doccia
ogni paio di giorni. Adesso se non avete altro da
chiede vorrei fare una doccia vera e mangiare le
porcherie che cucina vostra madre”.
Il pomeriggio telefonai a Valter:
“Buongiorno signora, avrei bisogno di
parlare con Valter, è in ufficio?”
“No Nardini, è a una riunione di partito,
quando torna gli dico che hai chiamato”
“Grazie, volevo sapere se c’era qualche
sviluppo”
“Ti faccio richiamare”.
Salutai e chiusi la chiamata.
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Saremmo dovuti ripartire tra un paio di
giorni ma, visto che i miei compagni sarebbero
tornati in Macedonia, dovetti trovare degli altri
“manovali” per sostituirli. Avemmo anche il tempo per organizzare il trasporto con i cavalli dei
viveri e delle piccole attrezzature occorrenti.
Ritardammo di una settimana la partenza, svolgendo dei lavori a Scafa. Sfortunatamente trovai
solo due sostituti per i tre operai mancanti e quindi per la seconda tornata partimmo in tre. Ma partivo con il cuore in pace perché nel frattempo era
finalmente finita la vertenza con la Ilas.
A distanza di tre giorni dalla mia chiamata,
Valter aveva organizzato l’incontro. Mi aveva
dato appuntamento per le nove. Fui puntuale, ma
come al solito, alle dieci meno un quarto non era
ancora arrivato. Mi allontanai per andare a
prendere un caffè. Quante volte avevo sostato in
quella Piazza San Giustino in attesa delle udienze
e sperai che quella fosse proprio l’ultima. Di tanto
in tanto incontravo qualcuno che mi riconosceva e
mi chiedeva come fosse finita la vicenda, per
scaramanzia non dissi a nessuno che probabilmente tutto si sarebbe concluso quel giorno. Assaporai
lentamente il caffè che avevo già pagato alla cassa e diedi un’occhiata alla barista che aveva gli
occhi color del mare, era veramente carina! Uscii
dal locale e tornai al tribunale, mi diressi nell’aula
delle udienze e vi trovai finalmente Valter:
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“Ti cercavo”, mi disse.
Io non ebbi voglia di dirgli che ero lì dalle
nove.
“Mi hai trovato”, gli risposi.
“Deciso a chiudere la vertenza?”
“Si”, affermai seccamente.
“Andiamo allora”.
Varcammo una soglia alla sinistra del banco dei giudici, attraversammo un breve corridoio,
bussò aprendo contemporaneamente una porta
sulla destra ed entrammo.
Il giudice Marsella era seduto dietro una
massiccia scrivania, alla mia destra c’era Gianvincenzo, il figlio di Cracchiolo, (vi sembrerà strano
ma non ricordo se c’era anche lui), poi il loro avvocato e oltre a me c’era Valter. Marsella si alzò e
mi diede la mano, poi fu la volta degli altri
presenti. Quando strinsi la mano a Gianvincenzo,
ci fu uno scambio di sguardi tra gli altri presenti.
Io ed il mio ex datore di lavoro mascherammo
l’imbarazzo dietro un sorriso. Il giudice ruppe il
silenzio:
“Allora Nardini, come và?”
“Bene signor giudice, molto bene”
“Mi ha detto Valter che adesso lavora in un
impresa edile”
“Si, è vero”, risposi.
“Allora vediamo di chiudere questa vertenza, per la gioia di tutti. Come stanno le cose?”
disse rivolgendosi a Valter ,
“Signor giudice, Nardini rinuncia, nonostante il mio consiglio, a portare avanti la vertenza
per essere reintegrato nel suo legittimo posto di la-
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voro. Abbiamo concordato con la controparte una
cifra forfetaria per questo periodo, cifra che Nardini neanche conosce”
“Gliela dica allora”
Quando Valter sparò l’importo tutti gli occhi erano puntati su di me. Doveva essere evidente che io tentassi di rialzare la cifra, ma quando
risposi “Va bene” gli sguardi se li scambiarono tra
di loro.
“Vorremmo però dilazionare l’importo in
più rate”, aggiunse Gianvincenzo, “Sai Nardini, è
un momento difficile e …….”
“Non c’è nessun problema, dove devo firmare?”
Mentre preparavano le carte, squillò il mio
cellulare
“Posso?”, chiesi al giudice,
“Prego risponda pure”.
Era il geometra Paolo, con il quale parlai
per qualche minuto per l’organizzazione del viaggio per tornare al rifugio in montagna. Quando
chiusi la conversazione Marsella mi chiese:
“Ho sentito parlare di un elicottero, ma a
cosa vi serve?”
Gli spiegai il lavoro che stavamo facendo e
del motivo per cui ci necessitava l’elicottero.
“Nardini, lei mi sorprende sempre di più!”.
I documenti erano stati approntati sul
tavolo, firmai dove mi indicarono, poi venne il
turno di Gianvincenzo. Mi sentii uscire da un
incubo, ebbi la sensazione di volare tanta era la
leggerezza che mi sentivo, sì di volare. Ebbi la
sensazione di essere quell’aquila che volteggiava
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sulla mia testa, sul monte Morrone, finalmente
libero, come lei!
Telefonai in ufficio e chiesi del geometra,
parlai con lui della mia gioia e della mia liberazione:
“Buone notizie, finalmente è finita!”.
Non tornai a casa, me ne andai al Parco del
Lavino dove mi rifugiavo con mio figlio, negli
anni di lotta. Mi sedetti sul solito tronco e con gli
occhi rivolti al cielo pensai cosa era stata la mia
vita, a come ero riuscito a sopportare tutti quegli
avvenimenti. Scorrevo nelle mia mente la cronologia dei duri momenti che avevo attraversato:
vidi un uomo con una catena al collo, legato ai
cancelli della sua azienda. Lo vidi patire la fame,
il freddo, le umiliazioni di chi non riesce a mantenere una famiglia. Lo vidi stringere le mani di
uomini politici: Dalema, Casini, Marini, Diliberto,
Corleone, Fini, Melilla, Saia (che aveva fatto tre
interpellanze parlamentari sul mio caso), il presidente della Confindustria Fossa, e tanti altri fino
all’abbraccio con il presidente della Repubblica
Oscar Luigi Scalfaro, l’unico determinante per la
soluzione della prima parte della vertenza. Lo vidi
incatenarsi sotto il palazzo della Provincia, sotto
la Regione, davanti al Quirinale mentre litigava
con le forze dell’ordine. Lo vidi riattaccare la
corrente che gli avevano tagliato.
Mentre quelle immagini continuavano a
scorrere, accesi una sigaretta, lo vidi allora accanto alla famiglia che, nonostante tutti i patimenti,
gli era rimasta vicino. Guardando dissolversi in
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cielo l’ultima nuvoletta di fumo, con essa svanirono anche tutte quelle immagini.
Mi alzai e tornai a casa.
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Si torna al rifugio
Il tre di agosto era tutto pronto per la
partenza. Avevamo caricato tutto sul Doblò di
Paolo, non dimenticai il binocolo. Caricammo anche una piccola sega circolare e una fresa che
pensai ci potesse tornare utile. Paolo ci accompagnò fino all’inizio del sentiero che avremmo percorso a piedi per raggiungere il rifugio. Dopo un
breve saluto, proseguì per Passo San Leonardo
dove avrebbe caricato la roba sui cavalli ed
insieme ad Antonio, che era il loro proprietario, ci
avrebbe raggiunto.
I miei nuovi compagni erano due romeni.,
Farcas Catalin lo conoscevo bene ed è ancora oggi
nella mia squadra. Il cammino fu faticoso come
sempre e dopo circa tre ore giungemmo al rifugio.
Paolo, Antonio e un altro ragazzo che li accompagnava, arrivarono dopo quattro ore. Noi avevamo
già pranzato ed iniziato a lavorare. Mentre scaricavano i cavalli, preparai da mangiare anche per
loro. Prima di ripartire Paolo mi chiamò in disparte e mi disse:
“Avete fatto un bel lavoro finora, ma dobbiamo accelerare i tempi perché siamo in ritar-do
sull’avanzamento del restauro che avevamo programmato”.
“Accelerare i tempi? E come credi che possa fare con una persona in meno?”
Fece una smorfia con la faccia alzando le
spalle, poi si avviò verso i cavalli. Salì in groppa
agevolmente, anche se era alla sua prima esperien-
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za. Ci salutarono con un cenno della mano mentre
si avviavano. Li vedemmo allontanarsi fino a sparire dalla nostra vista.
Avevamo spostato il ponteggio e rimosso
la cassaforma del cornicione, senza smontarla
completamente, in maniera da poterla rimontare
semplicemente adattandola con un nuovo angolo
d’inclinazione. Lavorammo febbrilmente, ma una
persona in meno riduceva sensibilmente il procedere dei lavori. Catalin si impegnava molto, così
pure l’altro ragazzo. Una sera, durante la cena,
Catalin mi chiese:
“Capo, quando torniamo giù? Stiamo qui
da una settimana e abbiamo provviste solo per
altri due o tre giorni “
“Domani facciamo la gettata del cornicione
e della falda del tetto, poi rientriamo”.
Il giorno seguente gettammo il tetto in tre,
fu un lavoro davvero massacrante. Alle nove di
sera eravamo già a letto stanchi morti, ma non
riuscivamo a prendere sonno. Tra una chiacchiera
e l’altra, trovai il coraggio di fare una proposta:
“Ve la sentite di restare qualche altro
giorno?”
“E cosa ci mangiamo?”, rispose Catalin.
“Vado a telefonare a Paolo e faccio portare
i viveri, oltre a qualche cassa di birra. Ok?”
“Fai un po’ come cazzo ti pare” risposero
seccati, dopo un attimo di silenzio.
Saltai dal letto e prima che ci ripensassero,
presi il cellulare e andai alla cabina telefonica
(avevamo battezzato così il posto in cima alla
altura dove si prendeva con il telefono). La sera
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stessa Paolo organizzò il trasporto e due giorni
dopo Antonio Del Monte con i suoi cavalli arrivò
al rifugio con abbondanti viveri, oltre al vino ed
alla birra. La cosa ci tirò su di morale. Rimanemmo in quel posto ventitré giorni consecutivi. In
quel periodo demmo inizio ai lavori all’interno del
rifugio. La cosa più brutta fu spalare tutolo sterco
di mucca che stava per terra nei due locali al piano
terra. Finalmente giunse il momento di rientrare
alla base. Mettemmo in sicurezza il cantiere e ci
mettemmo in cammino. Questa volta andò tutto
liscio. Raggiungemmo dopo circa due ore e mezza
il punto di incontro con Paolo, la vista della macchina mi sembrò una cosa strana e così il rumore
del suo motore. Ormai non capivo più cosa fosse
più irreale il rombo del motore o il silenzio di
Jaccio della Madonna.
A casa fu festa grande, mi sembrò che mio
figlio fosse diventato ancora più alto. Pranzai con
gusto e andai a riposare. La sera uscii con tutta la
famiglia e andammo a mangiare una pizza in un
locale di Chieti Scalo, poi finalmente dopo ventitré giorni avrei dormito con mia moglie!
Il giorno dopo mi recai in ufficio e feci un
dettagliato resoconto dei lavori eseguiti, esprimendo il mio parere nel prevedere che non saremmo stati in grado di ultimare il restauro entro
l’anno.
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La lupa
Tornammo altre due volte al rifugio e ogni
volta cambiavano gli operai che venivano su,
fortunatamente erano tornati Jakup e Sitkija, rispetto ai quali nutrivo particolare fiducia. Oltre a
me, i miei ragazzi furono tutti o macedoni o romeni, ma l’armonia regnava sovrana. Sulla baracca
avevamo messo a sventolare una bandiera iridata:
la bandiera della pace.
Spesso passavano in quella località comitive di turisti, appassionati di escursionismo, che
venivano anche dall’estero per ammirare le nostre
stupende e verdi montagne. Un giorno, Emir, un
giovane macedone ventenne che era alla seconda
turnazione in quel cantiere, mi chiamò tutto eccitato:
“Giusè, guarda, guarda lassù!”
Vi voltai a guardare nel punto in cui mi
indicava con la mano, vidi procede serpeggiando
lungo il sentiero, in fila indiana, sei o sette ragazze. Procedevano lentamente ma con passo sicuro,
piccozza in mano e zaino in spalla. Inevitabilmente l’occhio cadde sul loro abbigliamento: scarponi
da montagna e pantaloncini corti. Ci soffermammo tutti a guardare ed a fare commenti, ma quando da dietro la cima del colle spuntarono anche i
loro accompagnatori, riprendemmo a lavorare.
Dopo circa mezz’ora giunsero al nostro campo.
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“Giorno”, salutarono con un italiano incerto e chiesero “avere un poca acqua?”
Già, l’acqua, restava sempre il nostro problema principale e ne era rimasta veramente poca.
Per il lavoro la riciclavamo tutta raccogliendo
anche quella con la quale ci lavavamo o cucinavamo la pasta, non se ne sprecava neanche una goccia. Quando pioveva erano salti di gioia. Avevo
dovuto collegare la vasca, che raccoglieva l’acqua
del telone, ad un contenitore sottostante. Questo
perché le mandrie di mucche che pascolavano allo
stato brado ne venivano attratte irresistibilmente.
Ormai il telo, che avrebbe dovuto raccogliere
l’acqua, era stato irrimediabilmente danneggiato
dagli zoccoli delle mucche e non raccoglieva che
poche gocce.
Gli demmo lo stesso una bottiglia da due
litri e se ne andarono ringraziando. Non gli chiedemmo neanche di dove fossero, ma dovevano essere tedeschi o austriaci.
Il lavoro andava avanti. Il tetto era completato e così anche tutto l’esterno. Internamente avevamo completato l’ottanta per cento dei lavori.
Costruito il caminetto in pietra, completo di canna
fumaria, ricostruito il solaio in legno tra in piano
terra e il locale al primo piano, rifinito le pareti
interne e sistemato il plafone. Mancava la
gradinata in legno, ma la stavano preparando in
officina e l’avrebbero portata già pronta.
Il quattordici ottobre decidemmo di sospendere i lavori e chiudere il cantiere. I materiali
erano quasi finiti, il freddo si faceva sempre più
intenso e la minaccia della neve sempre più reale.
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Portammo i materiali rimasti all’interno del
rifugio e sprangammo con dei pannelli di legno
porte e finestre. Puntellammo dall’interno il tetto
del prefabbricato per sorreggere il peso della neve.
Quella notte non riuscimmo quasi a dormire. Nonostante i nostri sforzi non eravamo riusciti
a finire i lavori, come purtroppo avevo previsto.
Il giorno dopo partimmo per rientrare. Non
fu un viaggio facile perché normalmente in montagna in inverno nevica e così fu, la neve ci accompagnò per tutto il tragitto. Ma la cosa non ci
aveva colti impreparati, infatti la sera prima ci
aveva avvisato di ciò una lupa mentre scendeva
dal cucuzzolo che ci sovrastava con dietro il suo
cucciolo.
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Emergenza bomba
Paolo era stato nominato responsabile del
Gruppo di Protezione Civile della Misericordia di
Scafa. Il venerdì sera passai in ufficio per portare i
soliti rapportini giornalieri dei lavori. Paolo mi
informò che era stato ritrovato, durante gli scavi
per la realizzazione di una nuova costruzione, proprio nelle vicinanze, un ordigno bellico risalente
alla seconda guerra mondiale.
“Il sindaco ci ha chiesto la collaborazione
per organizzare l’evacuazione della popolazione
per un raggio di cinquecento metri. Questa sera ci
riuniamo in comune, vieni anche tu?”
“No, sono stanco, poi farò tutto quello che
deciderete di fare. Appena sai qualcosa mi fai un
colpo di telefono”
Salutai Franco mentre passai davanti alla
porta del suo ufficio e me ne andai.
Tutto fu organizzato alla perfezione e la
domenica mattina ci ritrovammo tutti presso il
municipio che fungeva da centrale operativa.
Nella piazza del comune erano disposti tutti i
mezzi degli addetti all’emergenza. Paolo e Mauro
Feliziani riunirono il nostro gruppo di volontari e
componendo le varie squadre ci assegnarono le
zone dove operare, spiegandoci cosa fare e consegnandoci la radio ricetrasmittente. Antonio
D’Alessandro, che mi era stato assegnato come
compagno di squadra, prese la radio e se la infilò
nel taschino. Il nostro territorio di pertinenza rica-
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deva proprio dentro il perimetro della zona da
evacuare, per cui andammo di casa in casa, porta
per porta e controllammo tutta l’area di nostra
competenza. Aiutammo qualche anziano ad uscire
ed a raggiungere le auto. Dovemmo chiamare i
carabinieri perchè una persona non era intenzionata ad abbandonare la propria abitazione. Quando passammo vicino al punto dove era stata ritrovata la bomba, vedemmo i mezzi degli artificieri.
Avevano scavato una buca ed adagiata la bomba
sopra un pianale fatto di tavole di legno.
“Non ci metterei piede neanche se mi
sparano” dissi ad Antonio,
“Io sì”, mi rispose lui con enfasi.
Tornammo al comune e salimmo al piano
superiore e consegnammo ad un vigile urbano gli
elenchi degli evacuati e attendemmo nuove istruzioni. Nel frattempo, il sindaco Luigi Sansovini,
in qualità di primo cittadino, controllava che tutto
procedesse come dovuto. Un funzionario della
prefettura lo avvicinò e gli disse:
“Lei sicuramente vorrà seguire di persona
tutte le fasi delle operazioni, scelga una persona di
fiducia che viene con lei”
Luigi si guardò intorno, c’erano proprio
tutti, i carabinieri, i vigili urbani, i poliziotti, i
vigili del fuoco e tutti i rappresentati delle associazioni di volontariato. Si rivolse al funzionario e gli disse indicandomi:
“Nardini, porto con me Nardini”
Il funzionario si voltò verso di me e mi
ordinò:
“Lei, vada con il signor sindaco!”
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Mi avvicinai a Luigi e lo ringraziai. Avevo
paura ma mi sentivo onorato della fiducia.
Una camionetta dell’esercito, dal municipio, ci condusse nei pressi della bomba, mentre la
sirena del cementificio suonava per avvisare la
popolazione che l’emergenza bomba era entrata
nella fase cruciale. Scendemmo dentro lo scavo e
ci avvicinammo, il disinnesco era appena iniziato,
due artificieri erano intenti a lavorare sull’ordigno
e ci davano le spalle. Restammo in silenzio come
tutti fino a che uno dei due non si voltò verso il
sottufficiale che ci aveva accompagnato e gli mise
qualcosa tra le mani, il maresciallo guardò quel
pezzo di ferro e lo porse a Luigi dicendo:
“E’ una bomba lanciata dagli inglesi
durante i bombardamenti, è una di quelle che non
scherzano, è di cinquecento libbre!”
“Questa è la spoletta”, disse Luigi, “Quindi
avete già finito”
Il maresciallo, sorridendo, rispose;
“Magari! Quest’ordigno ha due spolette ed
è strano che non sia esplosa. Ora procederemo a
togliere anche la seconda. Se volete potete rimanere ma, anche per la tranquillità degli artificieri
sarebbe meglio ……”
Luigi lo interrupe dicendo:
“Ce ne andiamo subito!”
Mentre ci allontanavamo li sentivamo
scherzare, beati loro!. Dopo il disinnesco assistemmo al carico della bomba su di un fuoristrada
e seguimmo il trasporto fino al luogo dove
sarebbe stata fatta brillare. Quando tutto fu pronto
ci mettemmo a distanza di sicurezza ad aspettare il
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botto, ma quando la bomba esplose ci rendemmo
conto che la distanza di sicurezza non era quella.
Una fitta pioggia di pietre e pezzi di terra ci
cadeva addosso, io mi gettai sotto un camion
militare proprio mentre un detrito grosso quanto
un pompelmo cadde lì vicino proprio sull’auto dei
vigili urbani sfiorando la spalla del suo autista.
Finiti di cadere i detriti uscii dal mio provvidenziale improvvisato rifugio e vidi un’enorme
nuvola di fumo e polvere che si alzava nel cielo.
Finita l’emergenza, ci ritrovammo tutti al
municipio per i ringraziamenti del sindaco e per i
saluti. In occasione dell’evento era stato allestito
un locale, nella frazione di De Contra per
accoglie-re eventuali sfollati, erano stati preparati
anche dei pasti caldi ed il sindaco, di cui ero
diventato l’om-bra, invitò tutti i presenti a
mangiare qualcosa. Io non vedevo l’ora di tornare
a casa e ringraziando rifiutai l’invito. Mi
riaccompagnarono a casa con la macchina dei
vigili urbani. Dopo aver cenato e soddisfatto tutte
le curiosità di mio figlio Daniele, me ne andai a
letto.
Prima di prendere sonno, ripassai mentalmente tutte le vicende della giornata e mi resi
conto di far parte di un’ottima Associazione con
di un gruppo di Protezione Civile con un responsabile capace ed un governatore eccezionale. Mi
ricordai anche di una presa di posizione del
sindaco che si era opposto ad una decisione giunta
dagli uffici della prefettura su questioni di ordine
pubblico. Sansovini aveva risposto:
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“Il sindaco di Scafa sono io e si opera secondo le mie decisioni!”
Mi addormentai pensando che gli uomini
di polso esistono ancora ma che, purtroppo, in
questo piccolo paese accarezzato dal fiume Pescara, di uomini di polso non ce n’erano poi tanti.
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Un gruppo di amici
A Jaccio della Madonna stava per iniziare
l’atto finale. Paolo ed io lavorammo alacremente,
per i preparativi, per circa una settimana. L’elicottero per i trasporti non era disponibile nell’immediato e comunque gli infissi in acciaio inox e la
gradinata non erano ancora pronti. Si decise di
partire con i cavalli e di seguito sarebbe venuto
l’elicottero per portare la roba. Nel frattempo io,
Paolo e l’architetto eravamo andati a piedi a fare
un sopralluogo. C’era ancora la neve, ma si poteva
lavorare. Partimmo il 28 giugno 2005.
Jakup, Sikija e Emir, salirono per il solito
sentiero che ormai conoscevano a memoria. Io,
Paolo e Antonio Del Monte, partimmo da Passo
San Leonardo con i cavalli. Dovevamo fare per
forza quella strada che era molto più lunga perché
i cavalli carichi di roba non riuscivano a salire per
il sentiero in quanto c’erano dei tratti in salita
troppo ripidi. Non era la prima volta che facevamo quel percorso ma, in quella occasione, il cavallo che montavo non ne volava sapere di
portarmi a destinazione. Neanche il suo padrone,
Antonio, riusciva a convincerlo a collaborare.
Pensai alle carote che avevo portato con gli altri
viveri, scesi da cavallo ed a fatica estrassi da una
grossa sacca di provviste la busta piena delle
radici color arancione e ne offrii qualcuna all’
animale (con le buone maniere si ottiene tutto!).
Riprendemmo così il cammino con tranquillità e
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la carovana giunse al rifugio dopo cinque ore di
marcia. I miei colleghi, che erano giunti già da tre
ore, avevano iniziato a sistemare il cantiere. Nelle
zone in ombra giacevano ancora cumuli di neve
e ne approfittammo per riempire tutti i contenitori
che avevamo per fare provvista di acqua. L’aria
era fredda, decidemmo di trasferire i letti dalla
baracca all’interno del rifugio, nel locale di destra,
dove avremmo potuto accendere il fuoco dentro il
camino. Paolo fu felice che, nonostante la montagna di neve che aveva sommerso tutto, i lavori
eseguiti non avevano subito danni, anzi il tutto
aveva resistito benissimo. Appena mangiato,
Paolo e Antonio, con i cavalli, ripresero la strada
del ritorno.
Quella sera dormimmo confortati dal calore del fuoco che scoppiettava dentro il caminetto.
Alle cinque del mattino eravamo già tutti in
piedi. Preparai la colazione: latte e caffè. La consumammo azzannando anche un paio di cornetti a
testa.
“Capo”, disse Jakup, “mentre cominciamo
a preparare tutto il resto, tu controlla la betoniera.
Hai detto a Enrico che avremmo finito il lavoro in
venti giorni e noi vogliamo mantenere la parola”
“Speriamo, speriamo di farcela”
Sapevo che sarebbe stata dura, anzi quasi
impossibile rispettare quel termine, ma dovevamo
provarci. Mentre gli altri avevano già iniziato a
fare delle rifiniture, io mi occupai della betoniera.
Quando tolsi il telone che avevamo messo
per protezione, mi cadde il mondo addosso: il pe-
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so della neve l’aveva deformata e resa inutilizzabile.
“Jakup!”, gridai chiamandolo “Vieni a vedere”
Jakup, allarmato dal mio urlo, arrivò di
corsa e resosi conto della situazione si mise le mani nei capelli. Dovevamo preparare ancora diversi
metri cubi di calcestruzzo per gettare il massetto
del pavimento dei locali al primo piano ed al
piano terra nella zona di sinistra del rifugio, oltre
al marciapiede sul fronte del fabbricato.
“Non possiamo ripararla?”, mi chiese
“E come facciamo Jakup, non abbiamo né
gli attrezzi né i pezzi di ricambio necessari e poi ci
vorrebbe una saldatrice”
“Chiama Paolo e digli di farne portare un’
altra con l’elicottero”
Andai di corsa sulla cima, che chiamavamo
la cabina telefonica e dopo circa un ora passati a
fare tentativi riuscii a prendere la linea e a parlare con Paolo per esporgli il problema.
“Non vi posso aiutare perché l’elicottero
non può venire prima della settimana prossima,
purtroppo vi dovete arrangiare così”
“Ricordati il gasolio per il generatore”, gli
dissi sconfortato, prima di salutarlo.
Impastammo il calcestruzzo a mano, dentro
la carriola, ma, per il lavoro di due ore impiegammo una giornata. Non era accettabile. Per la prima
volta cenammo in silenzio e accompagnati dallo
stesso silenzio andammo a dormire.
Le mani dietro la nuca e gli occhi aperti a
fissare il soffitto, meditavo sul da farsi. Pensai a
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quando, in Algeria, avevo riparato un motore con i
tappi della coca-cola facendo funzionare il mezzo,
o di quando avevo sostituito l’acceleratore di un
camion con un semplice cavetto d’acciaio da manovrare a mano. E che aveva di speciale quella
betoniera?
Il mattino seguente tutti ripresero il loro
lavoro, ogni tanto mi guardavano mentre manipolavo intorno alla betoniera ed avevano riso quando, dopo aver rimosso il motore, avevo fatto dei
fori con il trapano per fissarlo di nuovo. Rimisi al
suo posto il motore e feci dei tiranti con il filo di
ferro che usavamo per legare i casseri di legno,
per sostenere i supporti della bicchiere ruotante
della betoniera. Accesi il generatore ed inserii
nella presa la spina della prolunga della corrente.
Non fu necessario che li chiamassi perché erano
già tutti lì presenti, penso che in quel momento
ognuno pregava il suo Dio.
“A te l’onore Jakup, premi il pulsante”
Il motore partì ed il bicchiere iniziò a ruotare con un rumore stridulò che colpì le nostre
orecchie. Girava male, ma … girava!
“Bravo padre” mi disse Sitkija.
“Non possiamo caricarla troppo però, guarda sembra una signorina che sculetta”
Tutti risero.
Lavoravamo senza risparmiare le energie o
badare agli orari, fu così fino all’arrivo dell’elicottero. Il rumore delle pale annunciò il suo arrivo.
Paolo ne discese insieme all’operatore per lo
scarico e a due nostri colleghi che avrebbero dovuto montare gli infissi e la gradinata in legno. Il
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nostro lavoro era agli sgoccioli, a noi rimaneva
solo da realizzare il marciapiede.
Prima di sera tutti ripartirono e noi, come
sempre rimanemmo soli, tra il cielo e la terra. Ci
guardammo intorno, le porte non erano state montate e la gradinata non l’avevano portata.
“Giù non hanno fatto in tempo a prepararla,
fatela voi con il materiale che avete qui”, mi
aveva detto Paolo.
Grazie alla fresa che avevo portato, modificammo le porte e le montammo, costruimmo la
gradinata con dei tavoloni di legno, facemmo
persino il parapetto lavorando delle tavolette, in
maniera da non farlo sembrare una semplice
staccionata e non per vantarmi ma venne proprio
bello da vedersi. Infine ultimammo anche il marciapiede.
Avevamo lavorato con amore e con passione, per questo motivo riuscimmo a terminare il
restauro nel tempo prestabilito.
Il diciassette luglio Jakup e Sitkija, caricatisi sulle spalle gli zaini con i loro effetti personali, lasciarono Jaccio della Madonna per fare
ritorno a valle, di lì a qualche giorno sarebbero
tornati in Macedonia a trascorrere le meritate
ferie. Io ed Emir restammo a preparare tutto quello che era rimasto e che in seguito sarebbe stato
riportato alla base.
Il diciannove luglio del duemilacinque il
cantiere era ultimato. L’architetto Iezzi ci raggiunse in mattinata, in compagnia di un suo amico. Controllò i lavori e si complimentò con noi,
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facemmo una breve colazione e mentre caricavamo gli zaini sulle palle, rivolgendosi a me, disse:
“Nardì, non stai dimenticando qualcosa?
Le chiavi del rifugio non me le dai?”
Aveva ragione, non gli avevo consegnato
le chiavi del rifugio. Mi misi le mani in tasca e le
estrassi, dopo averle osservate per un attimo, gliele porsi. Ricontrollammo che porte e finestre fossero chiuse bene e ci avviammo per il ritorno.
Quando giungemmo in cima al colle che sovrastava il rifugio, mi voltai per guardare, forse per
l’ultima volta Jaccio della Madonna, una costruzione in pietra spersa tra i monti e che per un pezzo della mia vita aveva rappresentato per noi tutto
il mondo creato. Forse l’avrei rivista solo in fotografia. Due lacrime solcarono le mie guance.
Emir, vedendo la mia commozione cercò di rincuorami dicendomi:
“Dai capo, non piangere, torniamo alle famiglie”.
A ripensarci adesso, quel lavoro fu un
meraviglioso calvario, perché avemmo così modo
di conoscerci, affiatarci, capirci. Dovevamo risolvere i problemi da soli, poiché i consigli che Paolo
ci dava per telefono, venivano dal mondo in cui si
è abituati a vivere, lì contavano poco, quei consigli non si potevano adattare al quel mondo primitivo. I disagi dovuti alla scarsità di acqua, il freddo, i servizi igienici all’aperto, le mucche e i cavalli al pascolo che di notte invadevano il nostro
campo in cerca di acqua, la nostalgia di casa e
delle persone care, la solitudine, quella solitudine
che aveva trasformato un gruppo di operai di na-
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zionalità e religione diversi, in un gruppo di veri
amici, che avevano saputo trasformare il lavoro in
divertimento:
Selami Jakup era rimasto in montagna, per
un totale di cinquanta giorni;
Osmani Sitkija per cinquantanove giorni;
Farcas Catalin per ventotto giorni;
Selami Bajram per dieci giorni;
Ahmeti Emir per venticinque giorni;
Nardini Giuseppe per ottantadue giorni,
che oggi, a distanza di tempo, posso definire “meravigliosi”.
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Brucia tutto
Da mesi non riuscivo a dedicarmi ai servizi
di volontariato. Il lavoro mi prendeva totalmente e
spesso, per motivi di organizzazione, bisognava
andare a lavorare nei giorni festivi o fuori regione.
Avvicinandosi l’estate, decisi di riconsegnare alla Misericordia la divisa e le attrezzature
che mi erano state date in consegna. Avevo
parlato di questa decisione con Mauro Feliziani, il
nostro governatore che, pur con dispiacere, aveva
acconsentito. Avevo, quindi, preparato tutto dentro un borsone che avrei riconsegnato la sera stessa.
Stavamo effettuando un lavoro di bonifica
amianto sulla copertura di un fabbricato, in un
paese a circa venti chilometri da Scafa, quando
squillò il mio cellulare:
“Giusè, sono Paolo, siamo stati precettati
dalla prefettura, quando torni?”
“Il tempo di rimettere a posto gli attrezzi,
sono già le cinque, ma cosa è successo?”
“Qui intorno sta andando tutto a fuoco. Appena arrivi cambiati, ti passeranno a prendere i
volontari del gruppo di Protezione Civile con il
fuoristrada dell’Associazione”.
Durante il ritorno, avvicinandoci a Scafa,
vedemmo una cappa di fumo che copriva tutta la
vallata, si vedevano anche alte fiamme che si
estendevano tutto intorno, a partire dal fiume fino
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alle colline sovrastanti il paese, alcune case erano
già minacciate dagli incendi. Quando i ragazzi
passarono a prendermi stavo finendo di allacciarmi gli scarponi anfibi. Scesi di corsa e buttai il
borsone sul cassone del fuoristrada dove era stato
sistemato il modulo antincendio.
“Dove andiamo?”chiesi,
“Ai campetti da tennis, le fiamme li stanno
raggiungendo e minacciano di bruciare il pallone
di copertura.”
Il posto era praticamente un po’ più su di
casa mia, oltre la ferrovia ed arrivammo in due
minuti. Un vigile del fuoco ci indicò il luogo dove
dovevamo operare. Scesi dalla macchina, aprii la
borsa e indossai il sottocasco, i guanti e l’elmetto,
impugnai la lancia del modulo e scesi verso il
fiume insieme ai ragazzi che mi aiutavano a tirare
la manichetta di gomma. Dirigendo il getto
dell’acqua che usciva dalla lancia, iniziai a contrastare l’avanzata del fuoco, ma dopo una ventina di
minuti non ce la facevo più e chiamai il cambio.
Nonostante la visiera dell’elmetto, gli occhi mi
bruciavano e anche la respirazione era diventata
affannosa. Giunto sul prato antistante, crollai a
terra, mi misi supino e togliendomi l’elmetto ed il
sottocasco, iniziai a respirare a pieni polmoni. Un
vigile del fuoco inginocchiandosi al mio fianco mi
chiese:
“Tutto a posto?”
“Sì”, risposi, “per la fretta non ho indossato
la maschera di respirazione”
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“Anche se spesso non serve, ricorda di portarla sempre con te, il fuoco è micidiale ma l’ossido di carbonio non perdona”.
Fummo impegnati cinque giorni e cinque
notti, riposando solo qualche ora. Tutti si impegnarono al massimo senza risparmio, specialmente i volontari. Fu un’esperienza drammatica. Gli
interventi in quel modo, con il fuoco visto da
vicino e di quelle proporzioni, non avevano nulla
a che fare con le simulazioni che avevamo fatto
nei corsi che avevo frequentato. Lì era tutto
maledettamente reale, il fuoco con le sue fiamme
alte anche venti metri che, nonostante gli indumenti ignifughi che indossavo, ti arrivava a scaldare la pelle, i volti delle persone sopraffatti dal
terrore e dallo sgomento per aver visto bruciare la
casa, la stalla, la macchina, i mezzi agricoli.
Sembrava di stare all’inferno. E noi a soffrire con
loro, impegnati fianco a fianco con i vigili del
fuoco e le guardie forestali. Dovemmo raggiungere le zone d’intervento passando nei sentieri più
impervi, tagliando i rami degli alberi o spostando
massi dalla strada, per far avanzare il fuoristrada e
tutto a causa di quel maledetto fuoco! Finalmente,
il quinto giorno, il vento cessò di alimentare le
fiamme ed erano rimasti solo pochi focolai che i
vigili del fuoco erano rimasti a controllare.
Quando tornai a casa, mio figlio Daniele
mi accolse come il salvatore della patria, eppure
io avevo fatto solo il poco che era stato nelle mie
possibilità.
“Mi sembri un negro”, mi disse Daniela,
“Spogliati e vatti a fare una doccia”.
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Mi spogliai e gettai a terra i vestiti, Daniela
li raccolse e li portò subito fuori sul balcone, la
puzza di fumo era insopportabile.
“Sbrigati a lavarti o appendo anche te fuori.
Ma guarda che roba, a cinquantaquattro anni vai
ancora in giro a fare l’eroe. Tu sei scemo!”.
Entrai nel bagno senza rispondere, aveva
ragione. Quando uscii mi sentivo un’altra persona,
l’acqua della doccia mi aveva rigenerato ed il cibo
fece molto di più. Quello fu un segno del destino,
quella divisa che dovevo riconsegnare è ancora
nella borsa, pulita e profumata, ma io spero di non
doverla usare mai più.
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Daniele
Appoggiato alla finestra della sala da pranzo, aspetto il ritorno da scuola di mio figlio
Daniele. Sono appena tornato a casa, reduce di un
intervento chirurgico per un’ernia inguinale.
Questo piccolo intervento, affrontato peraltro in
anestesia locale, mi aveva dato più problemi nei
giorni precedenti che per l’operazione in se. Ero
stato criticato dai miei colleghi di lavoro per non
essermi messo sotto cassa malattia e non in infortunio. Ormai essere considerato un ruffiano della
ditta è diventata una consuetudine, forse per
invidia. Il fatto che passo tutte le sere in ufficio
per fare i rapportino o comunicare le ore lavorate
dagli operai, può dare fastidio a qualcuno, comunque fa parte dei miei compiti e per me è una cosa
normale. Daniele dovrebbe arrivare a momenti,
nell’attesa mi cadono gli occhi sul fabbricato
vicino casa che ospita il negozio di Acqua e
Sapone, quei locali li abbiamo ristrutturati noi, il
risultato è venuto proprio bene, quando vedi
questi lavori me ne frego di quelli che gli altri
colleghi possono pensare di me, d’altronde
durante questo periodo di malattia, non c’è stato
giorno che i miei ragazzi non mi abbiano
chiamato e chi se ne frega se sono tutti stranieri.
Tra i rami della grossa acacia che sta sotto
casa, vedo arrivare Daniele. Non è solo, è con una
giovane amica e si ferma con lei a parlare sotto i
rami dell’albero. Quanto e cresciuto, me ne rendo
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conto solo ora. Questo sedicenne di un metro e
ottantasei centimetri è stata la forza della mia
lotta. Quando lo presi in braccio per la prima volta
era solo un fagottino ed erano solo pochi giorni
che ero stato licenziato. Quando lo vidi attaccarsi
avidamente al seno della mamma per succhiare il
latte, io, stringendo i pugni e serrando la mascella
pensai: “non potrà mancarvi mai niente, dovessi
rivoltare il mondo”. Forse mi avevano letto nel
pensiero perché le sorelline che erano sedute sul
letto si voltarono a guardami. E io quello feci!.
La porta si apre e Daniele entra, si volta e
mi vede in piedi vicino alla finestra. Getta a terra
lo zaino e corre ad abbracciarmi. Un tempo, non
molto lontano, ero io che gli mettevo la mano sulla spalla, oggi è lui che lo fa con me. Per vincere
la mia commozione gli dico che devo andare in
bagno, lui mi da un bacio e mi scioglie dall’
abbraccio. Entro in bagno, asciugo gli occhi dalle
lacrime e riesco. Lui è lì ad aspettarmi, mi sorride
e va a mangiare. Aveva capito.
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Epilogo
Questa è la mia storia, una storia che ha
riempito oltre mille pagine di giornali e occupato
ore di interventi televisivi. Una storia che ha
commosso alcuni e divertito altri. I miei ricordi li
ho nitidi e non offuscati dal rancore, perché in
questa storia, io ho avuto solo da imparare ed è
per questo che malgrado tutto sono felice di averla
vissuta. Quasi tutti quei politici che sfruttarono
l’immagine dell’uomo incatenato, sono scomparsi
dalla scena ed anche gli amici di allora.
Ora vivo serenamente, protetto, come in un
guscio di tartaruga, dalla mia famiglia e dai pochi
amici che mi sono rimasti, come Paolo e i miei
ragazzi stranieri.
A volte, mi chiedo come sarebbe stata la
mia vita se non fossi entrato a far parte della
Misericordia di Scafa, se non avessi conosciuto il
suo governatore, Mauro Feliziani, mio affittuario
e amico. Ci penso spesso e mi vengono i brividi!
E lì che ho conosciuto Paolo Lanaro, il
quale entra costantemente nelle vicende della mia
vita. E’ lui che mi ha spronato a riprendere a
scrivere la storia della mia vita e che mi ha aiutato
nella stesura del testo. In questi ultimi quattro anni
mi ha guidato anche a crescere professionalmente
in questa nuova attività. Per tutto questo lo
ringrazio pubblicamente attraverso le pagine di
questo libro.
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Ma un’altra persona importante, che ha
contribuito alla svolta della mia vita è stata Enrico Breda, uomini come lui, sono stati fatti con uno
stampo che non si trova più. Quelli che quando ti
parlano ti guardano diritto negli occhi e ti leggono
dentro. A volte, quando lo guardo, mi sembra di
rivedere mio padre e in certo modo, non lo nascondo, tale si è dimostrato nei miei confronti,
proteggendomi sempre, alle volte anche quando
non lo meritavo.
E’ per merito degli uomini come lui che,
persone che non vendono la propria dignità, possono ancora dimostrare quanto valgono e continuare a vivere.
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Indice
Il rientro in fabbrica ………………….
Un tragico episodio …………………..
Un’altra batosta ………………….……
Comincia una nuova vita …………….
La Misericordia ……………………….
Il Signor Enrico ……………………….
Protezione Civile ………………………
Finalmente torno a lavorare …. ……..
Impara l’arte e…(che fatica!)………...
L’amianto ………………………………
Una decisione importante …………….
Jaccio della Madonna …………………
L’elicottero ……………………………..
L’isola dei ……famosi …………………
Finalmente è finita! ……………………
Si torna al rifugio ………………………
La lupa …………………………………..
Emergenza bomba ………………….. ..
Un gruppo di amici ……………………
Brucia tutto ……………………………..
Daniele ………………………………….
Epilogo …………………………………
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Pag. 3
Pag. 7
Pag. 9
Pag. 12
Pag. 15
Pag. 20
Pag. 22
Pag. 28
Pag. 32
Pag. 36
Pag. 38
Pag. 41
Pag. 46
Pag. 49
Pag. 58
Pag. 64
Pag. 66
Pag. 70
Pag. 75
Pag. 82
Pag. 86
Pag. 88
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