Giulia Niccolai Poemi & Oggetti A cura e con una introduzione di Milli Graffi Prefazione di Stefano Bartezzaghi Le Lettere Milli Graffi L’action writing di Giulia Niccolai Giulia Niccolai, fotografa-giornalista, scrittrice di romanzi, poe– tessa di preziose e spericolate sperimentazioni, studiosa di arte e di filosofia orientale, si muove tra immagine e scrittura. Si potrebbe dire che un frisbee, la particolarissima forma di poesia da lei inventata, sia un clic del fotografo. Ogni sua opera, libro o pamphlet o tavola visiva, non è mai ripetizione o incrementata variante della precedente, ma sempre frutto di una radicale ricerca innovativa, e ora è tempo di capirne la portata e la forza propulsiva come assoluta novità nel campo delle lettere italiane. Giovanissima, è subito conosciuta come valente fotografa: lo scatto coglie i movimenti dentro una spazialità ben aperta, adeguata e agevole, e come intensamente concentrata. Rincresce che tutto il materiale americano dell’esperienza a New York sia stato dichiarato disperso da chi l’aveva in consegna. La prima forma di scrittura che affronta è la narrativa, Il grande angolo (1966), sulla linea della francese école du regard: racconta il 13 mondo, ivi compresi i sentimenti, i ricordi d’infanzia, i desideri, le aspirazioni e le ricerche attraverso la pura descrizione degli oggetti. Il programma è ambizioso, sfiora l’irraggiungibile. La descrizione dell’oggetto diventa una consultazione, perché l’oggetto viene descritto nella stretta misura in cui è funzionale alla narrazione. La «tenda di panno nero da camera oscura» che si trova nella cabina del comandante della nave a pagina 9 è una notazione oggettiva, ma è anche carico di connotazione potendovi leggere il primo accenno all’attività della protagonista che solo più tardi si rivelerà come fotografa. Fra il detto e il taciuto si forma una tensione e soprattutto un equilibrio che è in realtà una potente arma di seduzione narrativa. A volte la determinazione di un genere è affidata solo a un gli o a un le. Il lettore si trova a promuovere una propria attività di decodifica e di controllo. È lasciato solo a tracciare le corrispondenze, a legare i fili, a presumere ciò che non viene detto esplicitamente. Ma non è lasciato solo a lavorare di immaginazione, in realtà è intrappolato in una scacchiera di dati (di oggetti) ognuno dei quali contiene la sua propria particolare predisposizione a intrecciarsi con alcuni altri oggetti. Il reticolo è a un tempo sommerso e riaffiorante. Qualcosa di analogo – il suggerimento al possibile ma mai completamente realizzato intrecciarsi di una rete – ricomparirà nei Frisbees. I sentimenti, l’amore, la sofferenza e il dolore sono sottoposti a un trattamento radicale. Non vengono mai affrontati direttamente, ma solo marginalmente, alla periferia degli avvenimenti. La tragedia terribile del suicidio dell’amante è situata al centro del libro, non per metterla in evidenza, piuttosto per chiuderla, rinserrarla tra due pieghe felici del tempo; la prima piega è il lungo preludio della permanenza in Egitto, con la bella amicizia a tre, due uomini e una donna, che si mantiene a lungo irrisolta finché un semplice particolare (la gamba di lei posata sulla gamba di lui nel vagone letto di un treno) non diventa segno dell’avvenuta scelta. La presenza dell’Honda «che è come il Padre», sollecito padrone di casa nel deserto, e occulto organizzatore del loro girovagare, 14 suggerisce come i tre giovani siano ancora nell’area di soggezione a un padre. La seconda piega del tempo è la vita vissuta con Dominguez a New York condividendo la passione della fotografia come indagine sulla verità del reale nella crescente consapevolezza di una impossibilità di raggiungere tale verità (vedi le intense pagine sui tentativi di fotografare le detenute nere nel carcere che si trova di fronte alla finestra del loro appartamento). Il libro si chiude sul tramonto sereno e pacificato di Manhattan. Il suicidio è in mezzo a queste due fasi, sottratto alla linearità del racconto, anticipato e non conclusivo. L’orrore e il dolore sono contemporaneamente testimoniati (la scena che si presenta agli occhi di Ita, rientrando in casa inconsapevole, è descritta minutamente in ogni suo terribile dettaglio) e leniti, e via via attenuati. Vale di più il grande flusso della vita che non l’immenso orrore che può esplodere improvviso ma non vanificarne la grande affermazione. Anche questo espediente della marginalità nel trattamento dei sentimenti ricomparirà nei Frisbees. La sfida al dizionario Se nel romanzo sono già presenti a) il tentativo di ricondurre l’eterogeneità delle esperienze a una rete sottesa di correlazioni e b) l’espediente di restare ai margini degli eventi, manca però del tutto l’elemento principe delle sue poesie, e cioè l’uso dell’arguzia nella costruzione dei giochi linguistici. Per trovare il proprio linguaggio poetico, l’Autrice comincia con una serie di interrogazioni sulla natura e il funzionamento del linguaggio stesso. La prima è Humpty Dumpty, il libretto, che nel risvolto di copertina dell’antologia Feltrinelli, è definito «poesia concreta» per l’evidente esposizione dei valori tipografici; ma questa classificazione lascia in ombra l’effettivo guadagno ottenuto 15 nella ricerca oltre a disperdere del tutto la sequenzialità narrativa che vi è impressa. Teso tra i due poli apparentemente opposti del dizionario e del nonsense, la narrazione è una sorta di lettura critica dell’Alice in Wonderland. Ricordiamo che Lewis Carroll è l’autore che ha eletto l’uso sofisticato dei giochi linguistici a mezzo eccellente per celare/rivelare il suo immenso amore per una bambina, che in altre parole ha trattato il linguaggio come l’espediente massimo per posizionarsi al margine degli eventi. Ed è in Alice che il dizionario è segnalato come sfida al senso (p. 48). La frase tratta dalle Explanatory Notes del Webster che Niccolai pone in esergo ci dice come il vanto della propria capacità classificatoria da parte del Webster finisce in realtà per rivelare come per raggiungere il significato di una parola ne occorra un’altra, e poi un’altra ancora, e così via. Dalla dispersione sillabica di dictionary (p. 49) emerge un nary, forma dell’inglese classico usata per sottolineare il negativo, e così vediamo che nel termine dictionary c’è la negazione della propria funzione: nary a word, nemmeno una parola. Nonsense (p. 50) chiude il sense dentro un’altalena di negazione/affermazione (non e on) e la conclusione nessun senso su insiste sull’affermazione dell’oggetto mancante. Il rapporto tra senso e suono è confermato da might/bite (p. 53) che riecheggia un certo suono mandibolare del mordere. Ma la trappola di un apparente collegamento e correlazione dei suoni col senso può in realtà rivelare una bizzarra irresponsabilità (leggi arbitrarietà) del linguaggio. Se Carroll dice che cats è molto simile a bats, (in italiano potrebbe essere gatti/ratti) ti sta dando un messaggio che puoi capire soltanto ascoltando il suono della lingua e il suono di una lingua può essere un puro godimento. Un godimento dalle inesauribili risorse. Per esempio, introduce alla narratività, come in late/tale (p. 55), il binomio che sta alla base di una bizzarra convocazione di personaggi con lo sviluppo di un ulteriore trasformismo fonetico per cui tale si trasforma nel16 l’omofono tail e più tardi lo scomparire del gatto del Cheshire a partire dalla propria coda potrà essere espresso da Giulia Niccolai con un pleonastico tail off (p. 63). La manualità del letraset consente di aderire plasticamente a quella particolare leggerezza della fluidità del linguaggio che all’Autrice premeva mettere a fuoco ricalcandola su Carroll. Ajar (p. 57) sbuca fuori dalla ossesssiva ripetizione di a jar, e che cosa socchiude se non un certo particolare spazio che il linguaggio concede? I Vocatives (p. 58) mostrano quelle variazioni minimali che hanno fatto germogliare le storie delle piccole ostriche e del topolino. Basta una lieve alterazione fonetica per dar vita a una sempre nuova invenzione narrativa. Tramite Carroll, Niccolai scopre la particolare potenza generativa che è implicita nel linguaggio, e che evidentemente andava cercando e che trovava allentando o lasciando in sospeso la funzione comunicativa. Partono le elaborazioni personali: Juggler (p. 59) è colui che tiene in equilibrio la sequenza delle lettere. Il corpo e il peso del segno – e la ricchezza grafica del letraset che aderisce alle mille articolatissime variazioni del suono – misurati sulla individuale precaria capacità di equilibrio di ciascuna lettera fanno sì che l’immagine finale sia metafora del linguaggio stesso o perlomeno di ciò che si può fare con il linguaggio. Decisiva è la nota che Niccolai ha posto sotto questo straordinario pezzo di poesia concreta – questa lo è davvero – : «yet you balanced an eel on the end of your nose», un verso della poesia You are old, father William che Alice recita al Bruco per dimostrargli di non essere più la stessa bambina che era entrata nel Wonderland, e infatti la vecchia poesia, ben nota ai bimbi vittoriani, le esce dalla bocca totalmente trasformata. È su questo verso che Niccolai costruisce l’immagine di una lingua-anguilla che un arrogante sbruffone riesce a tenere in equilibrio sulla punta del naso. Il cheese (p. 65) come griglia del sorriso stereotipo richiesto nelle fotografie – Carroll fu uno dei pionieri della fotografia – resta 17 sospeso sulla pagina con la stessa misteriosa incongruità del gatto carrolliano. Segue la serie delle figurazioni ovvero elaborazioni plastiche del corpo tipografico della parola in sintonia con il proprio particolare senso/suono: the large one (p. 64), il bounce (p. 72), l’impenetrability (p. 74), l’unihorn (p. 75) con la modificazione da unicorn per necessità di visualizzazione, il topsy turvy (p. 70) che provoca l’azione di capovolgere il libro per leggerlo correttamente, e il filologico humpty dumpty (p. 73) dove le varie accezioni di hump (gobba) e di dump (intingere – inzuppare – buttare giù) si assembrano e si combinano per formare il corpo del leggendario uovo della filastrocca sempre in bilico sul muretto e destinato a cadere. Gli interventi personali di Niccolai sul corpo della parola sono sempre fatti stando dentro la regola principe di Carroll che è il rispetto del “senso” («Take care of the sense, and let the words take care of themselves», p. 71); la parola è l’agente del senso, sa come gestirlo, sa come afferrare il suono che dal senso si dirama («senses do sound» p. 72). Il killtime di p. 67 merita qualche ossservazione in più. Nel testo di Carroll c’è la presa alla lettera di un modo di dire: murder the time (perdere il ritmo) viene inteso dal Cappellaio come fermare (uccidere il tempo, bloccare l’orologio), e poiché afferma che sono le sei, l’ora in cui le lancette dell’orologio sono perfettamente allineate l’una sull’altra, esse assumono l’aspetto minaccioso di un’unica “lancia”. L’Autrice si serve della seconda ‘l’ di kill per tagliare in due la parola time disposta verticalmente. È una figurazione più complessa delle altre. Vi è entrato qualcosa in più, un extra. C’è un’immagine nel Grande angolo, in chiusura, sull’ultima pagina, che presenta una curiosa analogia con il killtime: «La lancetta dei minuti nel mostruoso Colgate clock di Jersey City lunga e pesante come un’alabarda. Gli uomini del fiume dicono che cali sulla mezza più in fretta di quanto non risalga l’ora». Un’alabarda che cala in fretta, un colpo mor18 tale: per uccidere il tempo. L’unico collegamento che ho potuto trovare nelle opere successive per spiegare questa immagine del tempo bloccato è nei Frisbees, nei punti dove si accenna alla necessità di un lavoro sulla memoria, di un tempo da ritrovare e da rimettere in moto. L’operazione sarà gioiosamente portata a termine nello splendido libro in prosa Esoterico biliardo. Humpty Dumpty si chiude con l’acrostico (p. 76) che sancisce la centralità di un io serrato tra le due sponde dello pseudonimo. L’omofonia tra and (congiunzione, capacità di collegare) e end (fine, chiusura), che sono termini in opposizione, viene sfruttata per dare esaltazione all’io. La capacità di collegare e contrapporre esiste solo in rapporto a un io autoriale, e su di esso finisce. Il senso-suono dei nomi geografici La mobilità aggiuntiva del senso implicita e, come dire, di fatto impigliata nella fluidità fonetica delle parole trovata in Humpy Dumpty, dà il via alla complessa operazione di Greenwich, ossia alla costruzione di nonsense geografici, così definiti dell’Autrice stessa. Il nome geografico è un suono che ci arriva dalla notte dei tempi, carico di un senso spesso impenetrabile e anche quando ci viene rivelato il percorso delle variazioni filologiche, ha un senso che eccede i più evidenti significati e che si impone con sicura pienezza, al di là delle più accertate notizie; è sempre capace di un suggestivo potere di evocazione. La carica delle stratificazioni del senso presenti nel nome geografico è il campo di lavoro dove opera Greenwich. In Greenwich il nome geografico è una tessera fonetica che si allaccia ad altre tessere, creando concatenazioni di frasi e di versi, solo raramente ricorrendo al prestito di qualche preposizione, raramente al verbo essere – e solo coniugato alla terza persona singolare del presente indicativo –, mettendo in moto come in un 19 effetto valanga una massa incalzante di suoni suscettibili di aprirsi a una comunicazione. Quando ho letto il nonsense a me inscritto, samassi mannu / serpeddi ferru… (p. 78), ho provato un moto di orgoglio oltre che di divertimento. Una certa indecifrabilità e scontrosità del mio carattere era colta con raro garbo e precisione. Roba da impararsela a memoria. La lingua-anguilla da tenere in equilibrio sulla punta del naso è un atto performativo che funziona quando viene fatto girare attorno a un nome di persona conosciuta. Si potrebbe addirittura parlare di ritratti. Non ritratti alla Arcimboldo, di appiattiti elementi, curiosi ma inerti, che privilegiano l’eterogeneità e non l’unità, ma clamorosi ritratti ad sensum dove rincorrere il gioco arguto delle allusioni. La lingua-anguilla scopre la sua massima libertà appoggiandosi da una parte sull’autorità dell’atlante – così come Humpty Dumpty poggiava sull’autorità del dizionario – e dall’altra sulla solidità referenziale della persona dedicataria. Solidità che sussiste anche se non si conosce la persona. L’atlante garantisce l’autenticità del materiale usato. È come un codice o una formula, che si arroga il posto pubblico generalmente attribuito al dizionario; è una sorta di disciplina interiore e privata che spazza via il normale uso comune delle parole codificato dal dizionario. Per poesie di questo tipo vale la qualifica di arte astratta, come si diceva della pittura quando abbandonò la figurazione. Il materiale verbale scavato fuori dall’atlante garantisce la propria appartenenza a una lingua vera, esistita ed esistente, ben radicata nella tradizione, e addirittura può arrivare ad estendere la propria garanzia sulla solidità della lingua in questione a tal punto che continuerà a cedere la propria carica di senso anche quando viene usato modificando radicalmente il referente. Giulia Niccolai ha sempre bisogno di compiere una riflessione teorica sulle operazioni letterarie che va via via facendo. Mentre lavora su Greenwich, appronta anche la raccolta delle nove poesie intitolata Dai Novissimi, in quanto poesie costruite sull’intro20 duzione di Alfredo Giuliani a quell’antologia. In 1. (p. 91) leggiamo: «La descrizione di un paesaggio / mentale», e la dedica dei nonsense geografici a una persona fisica con nome e cognome indirizza proprio in quella direzione – la geografia è quella della mente – e, di seguito, nello stesso verso «l’unità del desiderio / di esaltare gli opposti», dove gli «opposti», nella possibile accezione di contraddizioni, ineliminabili conflitti, mantenuti tali in quanto «esaltati», vengono in qualche modo azzerati da una categoria superiore che è l’«unità del desiderio». Unità dell’impronta sonora di un territorio intesa come desiderio o pulsione di vita che si proietta in varie direzioni. E pensiamo a quanto possono essere diversi questi nonsense geografici se letti ognuno dallo specifico indigeno di madre lingua, un polacco per Enrico Clerici (p. 80), un brasiliano per Giovanni Anceschi (p. 84). Como è trieste Venezia (p. 85), dedicato ad Adriano Spatola e a Charles Aznavour, tira dentro nella rete fonetica l’impronta vocale di un bravo e affermato cantante, ma poiché partecipa anche della natura dei witz, ha una funzione liberatoria e piace, indiscutibilmente piace. Nella poesia 6. (p. 93) leggiamo: «Siamo manovrati / certamente in relazione / con qualcosa che si vuol trovare». In relazione alla ricerca sugli esiti della variabilità fonetica del linguaggio (che alla nostra Autrice premeva trovare), questi versi rivelano una misura di passività di fronte al materiale verbale (siamo manovrati) come accettazione totale nell’ascolto e nella percezione dei suoni. Una passività che non è il contrario dell’attività, è l’antenna tesa al massimo per cogliere quanto c’è da cogliere. Anche la poesia 7. si muove in questa direzione. Un altro punto che ci sembra notevole è nella poesia 8. (p. 94) il concetto della sperimentazione come qualcosa che si fa «dietro l’arazzo». «Proprio in quanto è a sua volta decifrabile / da dietro l’arazzo / lo stesso orizzonte / che si iscrive vastissimo». Se si lavora dietro l’arazzo dei significati, si finisce per scoprire una nuova profondità dell’orizzonte, pur essendo l’orizzonte sempre lo stesso. 21 L’ultima considerazione è per il titolo, Greenwich, che inspiegabilmente e direi quasi fortunosamente, senza intenzione, collega l’intera raccolta al problema del tempo. Per Greenwich, infatti, passa il meridiano che definisce anche la misura del tempo. La sperimentazione è usata per acquisire certezze e competenze sul linguaggio, e soprattutto per affrontare a capofitto il centro del problema poetico che è quello di circoscrivere il senso evitando le secche dei significati: lo spazio topico della poesia. Poema & Oggetto Ho fortemente voluto includere in questa antologia Poema & Oggetto – che potrebbe apparire come un’opera prevalentemente visiva – perché in realtà rappresenta un punto di svolta decisivo nella ricerca dell’Autrice sul linguaggio. Questa volta non va a scavare nell’infinita variabilità dell’orizzonte semantico delle parole, ma vuole affrontare il rapporto che si stabilisce tra la scrittura e la realtà. Nel titolo, Oggetto è scritto con una inaspettata maiuscola proprio per segnalare con forza una presenza altra rispetto al linguaggio. E l’oggetto verrà inserito nel libro, fisicamente e inequivocabilmente integro. La scrittura è per un verso allusa attraverso le immagini delle cose che servono per scrivere, e poi è direttamente esercitata nelle didascalie o titoli a quelle immagini. Questi oggetti dello scrivere, quali erano nel 1974, anno in cui apparve il libro, sono ora drammaticamente passati, ma questo non deve distoglierci dal valutare la precisa scelta temporale che rappresentavano: erano gli oggetti del presente, del qui e adesso. La tenerezza di Cavalcanti per le sue cesoiuzze e i suoi coltellini è così ben trasformata che quasi non si vede. È per esempio nel titolo scultura (p. 106) che viene dato alla macchina da scrivere tra22 volta da un eccesso d’ira col nastro divelto e il foglio stracciato ma ancora infilato nel rullo. Anche il nastrino (3 mm) della Varityper fissato in alto accanto al punto di legatura delle pagine e lasciato penzolare libero (in questa edizione, quest’opera manca) cambia di nome e diventa segnalibro. Non è l’oggetto in sé ma l’uso che se ne fa, a imporsi nel testo poetico. Gli oggetti offrono una carica analogica che si dà nell’immediatezza, che non ha bisogno di essere segnalata e detta. L’oggetto assume un apparato di parola, si semanticizza, allude, mostra un paradigma, è capace di fluttuare, di allacciare impossibili legami. Il poema intitolato setaccio (p. 113) porta la parola poema scritta su una rete metallica a maglie fitte che rimanda alle operazioni di selezione e filtraggio del lavoro poetico. La lampadina ritagliata nella classica sequenza de le quattro fasi della luna (pp. 123-126) diventa metafora di un comune riconoscibile disagio. In ricordati dei massmedia (p. 112) la parola poema è scandita lettera per lettera sui leggerissimi strappi che a quel tempo le rotative imprimevano sui bordi delle pagine dei giornali per farli scivolare fuori dalla macchina. L’azione del fissare premendo, dell’incidere, è un’azione fondamentale dello scrivere, è sia fisica che mentale. Si scrive premendo con la penna, premendo sui tasti, perché si vuole “puntualizzare” qualcosa. E così abbiamo cinque appunti per un testo (p. 102) con gli spilli che fermano i foglietti sulla pagina. Per un verso si può dire che gli oggetti vengono declinati e coniugati, e la tacita sintassi che li governa è di volta in volta il piccolo rebus consegnato al lettore. Per contro, le parole (e le lettere che le compongono) assumono la consistenza di accadimenti cosali (vedi poemalfabeto p. 101, un’agenda per un testo p. 103, sagittario p. 105, la serie delle trasformazioni dei caratteri in texture come whole hole p. 107, type tapestry p. 108, knit knot p. 128, steep step p. 119, il Manoscritto trovato a Saragozza p. 121, doccia goccia p. 131, sei di 23 Humpty Dumpty 1969 A term whose meaning is recorded under the entry of some other term is (if it seems to require separate entry at its own alphabetical place) entered thus: Desdemona, n. See Othello Wesbster’s New Collegiate Dictionary Note originali dell’Autrice Webster’s New Collegiate Dictionary, 1961. (Thin paper edition). (Explanatory Notes). Note della Curatrice The Red Queen shook her head. “You may call it nonsense if you like”, she said, “but I’ve heard nonsense, compared with which that would be as sensible as a dictionary!” The Red Queen, p. 207. Lewis Carroll, Alice’s Adventures in Wonderland and Through the LookingGlass, a cura di Martin Gardner, edizione Penguin. Tutte le citazioni sono da questa edizione. 48 Nary, aggettivo che indica il negativo. Qui: nemmeno una parola. 49 50 The Duchess: “Take care of the sense and the words will take care of themselves”. The Duchess, p. 121. 51 Senses do sound! 52 He might bite, p. 121. 53 Cats are very like bats, p. 28. 54 INDICE Stefano Bartezzaghi Carote, ciliege, torte di mele e Gin. Quattro assaggi con Giulia Niccolai 5 Milli Graffi L’action writing di Giulia Niccolai 13 Humpty Dumpty 1969 47 Greenwich 1971 77 A marmolada, 77; Istanbul? 77, Brohl, 77; Samassi mannu, 78; 1. De Dijon à Besançon, 78; 2. De Besançon à Lyon, 78; 3. Environs de Lyon (Légende), 79; Utah, 79; Polska Majar Poem, 80; Reunion, 80; Hells gates, 81; Rising star, 81; Lodi?, 81; Stillwater, still water, 82; Case pauceris, 82; Non torno, 83; To Rosetta, Parthia and Geneva, 83; Sambas, 84; This hawk, 84; PalermoOrgosolo, 85; Como è trieste Venezia, 85; Mulde Schweiz, 85; Carroll, 86; Cenis ceres, 86; In the downs, 87; Red cloud on slaughter beach, 88; Villa e Costa, 89; Noc! big bay de nom, 89 Nota 90 Dai Novissimi 1970-1972 91 Sostituzioni 1972 95 Sostituzione, 95; Positivo & negativo, 95; Il soggetto è il linguaggio, 96; Sintattico e verbale, 96; Risultato e funzione del complesso, 97; Domande & risposte, 98; Solo indirettamente, 98; Per eliminare contraddizioni, 98 Poema & Oggetto 1974 99 il pensiero ha cinque petali, 100; poemalfabeto, 101; cinque appunti per un testo, 102; un’agenda per un testo, 103; scrivere giusto sbagliato, 104; sagittario, 105; scultura, 106; whole: intero hole: buco, 107; type: batti a macchina tapestry: arazzo, 108; cassa tipografica vuota fotografata il 21 giugno 1974, 109; conteggio alla rovescia, 110; mare madre, 111; ricordati dei mass media, 112; setaccio, 113; poema a cinque punte, 114; grandi antille piccole antille, 115; appendice a humpty dumpty, 116; macchina da scrivere oggetto, 403 117; steep: ripido step: gradino, 119; tagliare lungo la linea tratteggiata, 120; Jan Potocki, Manoscritto trovato a Saragozza, introduzione p. XIV, Edizioni Adelphi, 1965, 121; balloon: pallone, 122; le quattro fasi della luna, 123; annulli postali, 127; to knit: lavorare a maglia knot: nodo, 128; annullo postale su un foglio a forma di macchina da scrivere, 129; cinque righe per una composizione musicale, 130; doccia goccia, 131; sei di danari, 132; poema tautologico, 133; poema tautologico, 135 Webster Poems 1971-1977 137 A motion action or gesture by which a thought is expressed or a command or wish made known in the work of Adriano Spatola, 137; For Adriano Spatola’s Zeroglyphic, 138; For Adriano Spatola’s Divisible: indivisible, 139; For Maurizio Osti’s Hypothetical line, 139; For Giovanni D’Agostino’s Plane Leaf, 140; For Elisabetta Gut, 140; For Claudio Parmiggiani’s Dis-location, 141; A webster poem for Palazzeschi, 142; A webster poem for Jacqueline Nicod, 142; For Gianni Fontana’s Radio Drama, 143 Nota 144 Russky Salad Ballads 1975-1977 145 E.V. Ballad, 145; Traduzione e analisi della E.V. Ballad, 146; A.S. Ballad, 150; J.M. Ballad, 151; The Lockheed Ballad, 152; A.B. Ballad, 154; B.V. Ballad, 155; L.A. Ballad, 157; A.G. Ballad, 158; Harry’s Bar Ballad, 159; T.S. Ballad, 160; S.L. Ballad, 161 New Greenwich 1975-1979 163 Barcelone bergerac, 163; Jura, 163; Ohio, 163; Inverno (Pavia), 164; Loriol lavoulte, 164; Réseau est, 165; New South Wales, 165; Como lario, 166 Facsimile 1979 La serie delle chiavi, 168: M.-L.L. Ballad, 168; La serie della macchina da corsa, 174; La serie dei vasetti e delle lattine, 181; La serie Marigold, 185 167 Prima e dopo la Stein 1978-1980 191 Bad Ragaz (quasi una lezione), 191; Poet-Public, Public-Poet, 193; La storia geografica, 194; Piccione: alla maniera di Gertrude Stein, 196: Quiproquo A Tit for Tat Poem, 198; Poema, 199; Personal Karma, 200: La valse, 201; Trama e ordito, 202; Poema, 202; GN IS HAPPY, 202; Two Jewels, 204 Frisbees (poesie da lanciare) 1982-1985 207 Frisbees di coda e d’occasione 1985-1986 281 D’Annunzio offresi, 281; La ripresa, 283; Due volte, 285; Frisbees sulla scrittura, 286; Frisbees sulla luce, 289; GIN - ginepro, 291 Postfazione 293 Lunghe e brevi 1988-2004 295 Frisbees ’88, 295; Frisbees in Metró, 299; Un frisbee per G.M., 302; La tenda, 302; Giovedì ventidue, 309; A. S., 312; La camera del poeta, 313; Quel “piè 404 veloce”, 315; Menaggio (Como), 1942-1945, 316; Irresistibile Virgilio, 317; Vibrisse, 318; Spontanea, 319; Gerry Mulligan, 319; Per Angelo di Claudio Parmiggiani, 320; Per Felice Casorati, 320 La casa al lago 2005 Orienti 322 1999-2003 324 Il primo viaggio, 324; Giappone, 326; Cina, 328; Un frisbee cinese sulla scrittura, 328; Lòng – Drago, 328; Avamposto mongolo, 329; India, 330; La gara, 330; Sala d'attesa, 332 Sei meditazioni 1999-2003 337 Meditazione 1, 337; Meditazione 2, 338; Meditazione 3, 339; Meditazione 4, 340; Meditazione 5, 341; Meditazione 6, 343 Frisbees della vecchiaia 2001-2011 345 Corredo bibliografico 389 Antologia della critica 393 Marisa Bulgheroni, 1974 Giorgio Manganelli, 1981 Mario Spinella, 1981 Alfredo Giuliani, 1981 Francesco Muzzioli, 1989 Beniamino Placido, 1995 Bianca Tarozzi, 1998 Chiara Zamboni, 2001 Marco Belpoliti, 2001 - 2005 - 2006 Aldo Tagliaferri, 2002 Franco Tagliafierro, 2002 393 394 398 398 398 398 399 399 400 401 401 405