STATO SENZA AUTONOMIE E REGIONI SENZA REGIONALISMO
di
Enzo Balboni
(Professore ordinario di Diritto costituzionale
Università cattolica di Milano)
e
Massimo Carli
(Professore incaricato di Diritto costituzionale e diritto regionale
Università cattolica di Milano)
7 novembre 2012
1. Chi scrive di regioni, autonomie, federalismi in queste settimane di pieno autunno 2012
patisce fortemente la contingenza immediata e si percepisce come chi, travolto da una piena
tanto improvvisa quanto devastante, annaspa in un mare di fango, di detriti e di sporcizia.
I clamorosi casi di mala gestione, ma anche di vera e propria corruzione, venuti alla ribalta di
recente in due regioni capofila dell’assetto istituzionale italiano, Lazio e Lombardia, uniti al
crollo dell’affluenza alle urne in Sicilia, non sono purtroppo fatti isolati né folkloristici, ma
attestano quantomeno una qualità di amministrazione pessima – sia come attività che come
controlli – e ciò rischia di travolgere l’idea stessa di autonomia regionale e locale.
Ѐ quasi irreparabile lo sfregio che le squallide gesta di non pochi “servitori” dell’istituzione
hanno inferto all’immagine e alla sostanza di quella che fu l’idea di Sturzo e di Ambrosini,
dei Costituenti, di una non piccola parte della dottrina autonomistica: Carlo Esposito,
Temistocle Martines, Livio Paladin, Feliciano Benvenuti, Giorgio Berti, Umberto
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Pototschnig, Giorgio Pastori e Umberto Allegretti – per fare i primi nomi che vengono alla
memoria e alla penna.
Per misurare la distanza dell’oggi opaco rispetto ad un ieri luminoso, quantomeno sul piano
ideale, basterà ricordare la solenne disposizione normativa ed ideologica, – perché costitutiva
di un certo tipo di legame sociale – relativa al “riconoscimento” dell’autonomia locale. Non
per caso né per accidente essa venne trasposta, consapevolmente e per espressa volontà
politica, in posizione eminente, all’art. 5 della Costituzione, così inserendola tra i principi
fondamentali dell’ordinamento repubblicano, essendosi ritenuto non solo che fosse più
consona, ma necessaria una sua collocazione accanto ai principi costituzionali che potremmo
definire supremi: democratico, personalista-comunitario, di eguaglianza e di favor per il
lavoro e la piena occupazione.
Tuttavia, non solo le male gesta di non pochi eletti nei consigli regionali – in ciò coadiuvati da
una burocrazia senza meriti – ma anche lo stesso Governo dello Stato (e si capirà fra poco
perché lo battezziamo così) si è dato da fare, in questo lasso di tempo e, paradossalmente con
lo scopo di troncare gli eccessi di discrezionalità irresponsabile conseguenti all’autonomia
regionale, ha confezionato non solo svariati decreti legge, ma addirittura un disegno di legge
costituzionale (Atto Senato n. 3520, XVI Legislatura, presentato il 15 ottobre 2012) che si
segnala per la vistosa virata in senso centralistico, tutta all’insegna del concetto: non possiamo
fidarci di queste regioni.
C’è una spia lessicale e grafica che illustra, meglio di un trattato, questo stato d’animo
accentratore e statalista: la relazione governativa al disegno di legge costituzionale, quando
evoca lo Stato e il Governo utilizza sempre la lettera maiuscola, ed invece quando deve
parlare delle regioni preferisce la minuscola.
Ѐ lo stesso disegno di legge costituzionale che si dichiara consapevole dei tempi ristretti
(ormai meno di 4 mesi, nell’ipotesi più favorevole) che mancano allo scioglimento delle
Camere che precederà le nuove elezioni e pertanto si accontenta
di correzioni
quantitativamente limitate, tuttavia non solo significative, ma emblematiche di un
orientamento affatto diverso, perché estraneo ad una veridica cultura autonomistica,
considerata ormai un orpello ideologico del passato di cui liberarsi al più presto.
Prima di esaminare con qualche dettaglio la materia del ddlc sarà lecito, però, anticipare che
le contingenze parlamentari – là dove problemi di spessore assai maggiore, dall’approvazione
urgente della legge di stabilità, alla nuova legge elettorale, alla conversione a getto continuo
di svariati decreti legge in scadenza, reclamano l’ormai scarsa attenzione di deputati e senatori
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in caccia della loro rielezione – non promettono nulla di favorevole a chi credesse veramente
(ma ce ne sono?) alla bontà delle misure progettate.
Solo un soprassalto consensuale di ampia portata verso un testo condiviso e che non apparisse
solo obbligato dalle dure necessità dell’economia, rafforzate anche in questo caso dal mantra
di una cogente richiesta dell’Europa, potrebbe operare il miracolo (? !) di una doppia
approvazione liscia e veloce. Ma, francamente, non pare necessario invocare l’aiuto del cielo
per la navigazione di una barchetta che si è buttata un po’ velleitariamente in un mare
burrascoso e che, verosimilmente, farà la fine del ddlcost. Amato, di riforma del Titolo V,
varato senza troppa convinzione nel corso della XIII legislatura.
Rispetto a quel tempo la situazione delle autonomie – la loro consistenza ideale, istituzionale
e soprattutto culturale – è mutata in peggio, e di molto.
Ragionando per un momento für ewig, sciolti dalle costrizioni della pesante contingenza,
vorremmo stilare un referto su una materia che ormai è già protesa in direzione avversa
all’autonomismo: in attesa soltanto di una sanzione formale. La sostanza, infatti, è già
tornata al di qua
della motivazione e della speranza che si era inteso immettere in
Costituzione, sulla base del dimenticato, ma fondamentale, o.d.g. Dossetti sull’autonomia
delle comunità intermedie che progressivamente, dal basso, costruiscono e costituiscono la
Repubblica, dando slancio e struttura al personalismo comunitario.
Siamo andati, a colpo sicuro, a cercare una citazione di Mortati dell’epoca, che potesse essere
utile. Senza fatica è emersa la seguente, nell’aureo libretto preparato a commento della
Costituzione di Weimar, pubblicato nell’aprile del 1946 allo scopo di “illuminare le menti e
sostenere i cuori” dei costituenti (come dirà limpidamente anche Croce in Assemblea).
Riferendosi alle debolezze che avevano propiziato la caduta della Repubblica di Weimar, il
grande costituzionalista calabrese le rinveniva nella «assenza di una democratizzazione
sostanziale dei corpi intermedi, di una effettiva utilizzazione di questi e di una loro
coordinazione, oltreché nei rapporti reciproci, in quelli con lo Stato» (cfr. C. Mortati, La
Costituzione di Weimar, Sansoni ed. 1946, p. 77).
Certamente l’elezione degli organi di governo della Regione c’è stata, a partire dal 1970, ma
da quale anno si può parlare per loro di una “democratizzazione sostanziale”?
Piegando la testa si dovrà, allora, dare atto dell’ estraneità del popolo italiano rispetto ad una
vera ed esigente cultura dell’autogoverno e della self administration. Visto da qui Carlo
Cattaneo pare proprio uno svizzero. Con un senso di malinconia, inoltre, si dovrà ancora una
volta dar ragione ad uno studioso e fautore delle autonomie bene intese, Giorgio Pastori, che
già nel 1980 aveva parlato di “Regioni senza regionalismo”. In tal modo l’istituzione
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regionale che, insieme alla Corte costituzionale, costituiva la novità forte della Costituzione
repubblicana, si è palesata non all’altezza delle speranze che vi erano stato riposte.
Ciò premesso, passiamo ad un esame più interno alle disposizioni che si vorrebbero novellare.
2. Già nell’Editoriale del precedente numero di questa rivista si è messo in luce come il
disegno di legge sposi una critica distruttiva nei confronti delle Regioni. Osserviamo adesso
un po’ più da vicino i contenuti.
Il cuore della proposta sta nell’art. 2. Ed infatti l’art. 1 si limita a prevedere che le Regioni
speciali assicurino l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento
dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali. Si tratta della esplicita previsione di un
vincolo già esistente in forza dell’art. 117, primo comma, Cost. che impone alle leggi
regionali il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali: ed il Ministro Patroni Griffi, nella seduta pomeridiana in Commissione del 24
ottobre scorso, ha dichiarato la disponibilità del Governo a una riconsiderazione del cit.
articolo. L’art. 3, per parte sua, oltre ad una modifica conseguente alla nuova configurazione
della potestà legislativa concorrente, su cui ritorneremo, si limita a prevedere modifiche in
tema di impugnazione delle leggi regionali, estendendo alla Sicilia il controllo successivo
previsto per tutte le altre Regioni. Fin qui si tratta di ritocchi ragionevoli.
Le modifiche che contano sono dunque contenute nell’art. 2 il quale, oltre a correggere il
riparto delle materie fra Stato e Regioni, riducendo, con qualche sbrigativo eccesso, le
competenze regionali, prevede : 1) la c.d. clausola di supremazia; 2) l’ampliamento della
competenza statale in materia di ordinamento degli enti locali; 3) una nuova definizione della
potestà legislativa concorrente; 4) una nuova disciplina del potere regolamentare.
3. La clausola di supremazia suona così: “le leggi dello Stato assicurano la garanzia dei
diritti costituzionali e la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica”. A
parte il fatto – che non ci pare banale - che anche le leggi regionali assicurano i diritti
costituzionali, perché l’eguaglianza sostanziale è compito della Repubblica e non del
solo Stato, il Ministro Patroni Griffi l’ha giustificata, sempre nella cit. seduta del 24
ottobre, ricordando che la stessa Commissione affari costituzionali si è già pronunciata
favorevolmente in altra occasione. E nel ricercare tale precedente, ci siamo imbattuti
negli atti dell’Indagine conoscitiva sui diversi aspetti del Titolo V svolta, nella
precedente legislatura,
dalle due Commissioni Affari costituzionali di Camera e
Senato, conclusasi nel febbraio 2007, in cui i due presidenti delle Commissioni
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parlamentari, aprendo l’11 dicembre 2006 la consultazione degli esperti (più di 40),
così riassumevano le conclusioni risultanti dalla consultazione della società civile,
comprese Confindustria e organizzazioni sindacali e professionali (tutte queste sono
componenti della Repubblica, se rettamente intesa):
-
in prospettiva, riforma del bicameralismo; e intanto necessità di rafforzare organi e
procedure di raccordo, magari con l’attuazione dell’art. 11 della legge
costituzionale n.3/2001, come soluzione transitoria e sperimentale;
-
riforme costituzionali limitate, non rimettendo in discussione il quadro d’insieme.
Dette conclusioni hanno ricevuto un larghissimo, quasi unanime, consenso da parte
degli esperti. E anche ANCI ed UPI, nel loro parere del 25 ottobre sul disegno di legge
costituzionale, hanno lamentato l’assenza di una sede politica di composizione degli interessi
rappresentati dai livelli di governo che compongono la Repubblica.
Conclusione: la clausola di supremazia,
senz’altro necessaria (anche se pare
eccessivo prevederla per tutte le materie di competenza regionale), si risolve inevitabilmente,
se non accompagnata dalla possibilità di confronto in sede parlamentare delle ragioni
dell’unitarietà e di quelle della differenziazione, in una generalizzata e acritica prevalenza
delle esigenze del centro, con l’unico risultato di mortificare le autonomie.
4. L’ampliamento della competenza statale in materia di ordinamento degli enti locali è
perseguito, dal disegno di legge, mediante la previsione della nuova competenza dello
Stato in materia di “principi generali dell’ordinamento” degli enti locali. Come già
rilevato in altra sede (cfr. www.lavoce.info del 30 ottobre), si tratta di una formula
polisenso, che mostra di ignorare che non è possibile regolare dal centro, con un’unica
disciplina, i più di ottomila Comuni, che necessitano invece di normative regionali
differenziate fra di loro, perché i Comuni, in Italia, hanno
storia, peso e prassi
diverse. Eppure tale previsione ha avuto il consenso di ANCI e UPI nel cit. parere,
conseguenza dell’ avversione degli enti locali nei confronti delle Regioni, viste come
padroni più invadenti del Ministero dell’Interno.
La potestà legislativa concorrente, con il nuovo disegno di legge, non sarebbe più
limitata dai principi fondamentali della materia, ma dai profili funzionali all’unità giuridica ed
economica della Repubblica stabiliti dalle leggi dello Stato, le quali potranno anche fissare un
termine per l’adeguamento della legislazione regionale e giocare a ruota libera con il concetto
di efficienza.
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La relazione si sofferma diffusamente su tale nuova previsione che individuerebbe il
ruolo della legislazione dello Stato in una prospettiva funzionale/teleologica, quella dell’unità
giuridica ed economica della Repubblica, che non esprimerebbe un titolo dell’intervento del
legislatore statale al di fuori dei criteri di ripartizione delle competenze. Essa indicherebbe,
invece, il nesso strumentale-finalistico in relazione al quale le norme della legislazione
statale possono porre una parte della disciplina legislativa, in chiave di prevalenza e
complementarietà rispetto alle norme regionali. Non è questa la sede per scendere nel merito,
ma una nuova configurazione della potestà normativa concorrente che, invece, altrove viene
abolita o sottoposta alla regola della prevalenza della “lex posterior”, rientra certamente fra
quelle modifiche ampie e articolate che il disegno di legge dice, nella relazione, di non voler
considerare per adesso, e che, ancora, senza una sede di confronto politico - parlamentare fra
Stato ed autonomie, porterebbe, inevitabilmente, a sacrificare le esigenze di quest’ultime.
Altra modifica di sistema è quella relativa alla disciplina del potere regolamentare che
oggi spetta alle Regioni nelle materie di competenza residuale e concorrente e allo Stato nelle
materie di sua competenze esclusiva e che invece, con il disegno di legge, passerebbe allo
Stato e alle Regioni per l’attuazione delle proprie leggi nelle materie di rispettiva competenza.
Sono note le anomalie della situazione attuale quando lo Stato, per superare il divieto di sue
norme regolamentari nelle materie concorrenti, emana non meglio precisati “atti di natura non
regolamentare”, così denominati per usufruire di un procedimento di approvazione interno
alleggerito rispetto alla necessità di munirsi del parere del Consiglio di Stato. Ma, anche in
questo caso, non si tratta di una modifica largamente condivisa perché, come evidenziato in
dottrina, da essa derivano molteplici conseguenze, anche sul sistema delle fonti, ponendosi il
problema se, con la nuova formulazione, siano ancora legittimi regolamenti diversi da quelli
di attuazione delle leggi.
5. Ma, ci domandiamo, perché mai
un Governo tecnico, che non ha elettori da
assecondare, intraprende un’iniziativa legislativa che, oltre ad alcuni opportuni
correttivi nella ripartizione delle competenze legislative di Stato e Regioni, contiene
anche nuove norme che privilegiano il centro rispetto alla periferia, la uniformità
invece della differenziazione, ignorando le conclusioni largamente condivise
dell’indagine conoscitiva?
L’Italia ha ratificato la convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia
locale (L. 439/1989) secondo la quale, come si legge nel preambolo, è a livello locale che
può realizzarsi il diritto dei cittadini a partecipare alla gestione degli affari pubblici e,
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soprattutto,
la difesa e il rafforzamento dell’autonomia locale nei vari paesi europei
rappresenta un importante contributo all’edificazione di un’ Europa fondata sui principi della
democrazia e del decentramento del potere. Qualcuno dirà che si tratta di principi vecchi che
hanno fatto il loro tempo e che pertanto, in nome dell’efficienza, vanno sostituiti con un
nuovo rafforzamento del centro che porti con sé normative statali uguali per tutti anche in
contesti diversi, e che dunque la uniformità deve (quasi) sempre prevalere sulla
differenziazione. Ma così si dimentica quel che la storia ha dimostrato e cioè che i due poli,
cioè uniformità e differenziazione, sono entrambi forti o entrambi deboli. L’equilibrio a suo
tempo maturato nel testo costituzionale attende ancora di essere messo alla prova, ma
seriamente.
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