38 - Trieste Artecultura - febbraio/marzo 2014
“Madama Butterfly” in scena al Teatro Verdi
L’AMORE INFRANTO
di Pierpaolo Zurlo
Ci sono opere senza tempo, opere che paiono non invecchiare mai: Madama Butterfly, andata in scena al Teatro Lirico “G. Verdi” è sicuramente una di queste. Sarà
per la scrittura (apparentemente) evanescente ma penetrante, che pare incisa con una grafia morbida su un telo
di lino, priva di rughe, priva di tempo, priva di orpelli;
sarà per la sapiente costruzione a tasselli, a brevi motivi
che ricorrono con una precisione meticolosa a sottolineare
emozioni, pensieri, timori, ardori, paure; sarà perché, senza nemmeno apprezzare coscientemente questi particolari
infiniti, il piacere dell’afflato melodico trascina senza requie da un momento scenico ad un altro, da un’emozione
a quella successiva. Poco conta, in fin dei conti: il teatro
stracolmo (ma solitamente tutti i teatri che programmano
quest’opera si ritrovano stracolmi) ha tributato un successo straripante allo spettacolo, premiando l’intero cast
e in particolare la protagonista per l’intensità della sua
interpretazione.
E pensare che quest’opera alla sua “prima” (a Milano,
a La Scala, il 17 febbraio 1904) era caduta rovinosamente.
Poi, attraverso varie “versioni” (consistenti in tagli più o
meno estesi e in piccole ma significative alterazioni del
libretto che sempre più hanno focalizzato l’attenzione sulla
figura della protagonista), da Brescia (28 maggio 1904) a
Londra (10 luglio 1905) per terminare a Parigi (l’ultima,
quella che s’ascolta oggi nei teatri di tutto il mondo, andata in scena all’Opéra Comique il 28 dicembre 1906, frutto
della collaborazione del compositore e del sovrintendente
del teatro, e regista, Robert Carré), ha saputo imporsi nei
gusti del pubblico e della critica.
Più lenta la seconda a comprendere la grandezza
dell’arte pucciniana, se si pensa ai molti libelli denigratori stampati nel corso dei decenni (alcuni col compositore
ancora in vita) che via via hanno ceduto però il passo ad
una valutazione diametralmente opposta (a volte purtroppo altrettanto superficiale ed entusiasticamente acritica)
o ad alcune recensioni che hanno raggiunto vertici di totale – e simpatica, dopo tutto – incomprensibilità. Come
testimonia la caustica uscita di John Bingham Morton
che s’era profuso, nella sua rubrica “Beachcomber” (nel
Daily Express, anno 1924), nell’enigmatica battuta «Wagner is the Puccini of music»… Da tali “sentenze” ci si
può render conto di quanta strada la musica del lucchese
abbia dovuto percorrere per diventare oggetto di studio
serio e profondo.
Studio serio e profondo che pare essere alla base della
resa musicale della pregevole edizione della “tragedia giapponese in due atti” presentata a Trieste: Donato Renzetti
ha concertato con impeto – che nulla però ha concesso a
quello svenevole sdilinquirsi melodico che spesso s’associa
a Puccini – la colorita partitura. Serrata, precisa nel ritmo,
incalzante nel racconto, lontana da quel sentimentalismo
di maniera che spesso sciupa la trasparente bellezza delle
linee melodiche, la lettura del direttore ha saputo esaltare
l’aspetto drammatico e timbrico di quest’opera. A partire
dalla disposizione dell’orchestra, coi contrabbassi a sinistra, i legni in fondo, gli ottoni concentrati a destra, tutti a
sostenere, a irrobustire, a “speziare” la scrittura brillantissima di Puccini. Fin dalle prime misure, quell’enigmatica
fuga che sembra alludere al frenetico mobilitarsi di tutta
la casa per l’imminente matrimonio e che allude invece,
più sinistramente, citandone la forma e la disposizione
delle voci orchestrali, al preludio dell’opera di Bedrich
Smetana Prodaná nevesta (che noi conosciamo come La
sposa venduta, per l’appunto) e che dà da subito la piena
caratterizzazione di un’intelligenza creativa che cita con
sensibile e raffinato acume un altro lavoro per il teatro
musicale, che nel titolo contiene però già tutto il dramma
che seguirà a queste prime note. La continuità timbrica e il
fitto irretirsi dei motivi originali giapponesi congiunti alle
sezioni di stampo più marcatamente “occidentale” hanno
trovato in Renzetti un sapiente equilibrio. Come sapiente,
e intelligente, è stata la scelta di restituire l’opera così
come l’aveva concepita Puccini, in due atti, con al centro
del secondo tempo la meravigliosa sospensione del “coro
a bocca chiusa” seguìto, senza soluzione di continuità, dal
piccolo “poema sinfonico” che narra i pensieri, le emozioni
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della protagonista nella lunga
veglia che la accompagna fino
alle prime luci del giorno che
la vedrà morire. Anche di
queste pagine Renzetti ha
messo in risalto la pregnanza
strumentale, la forza espressiva che le pervade, con una
meticolosa attenzione ai tanti
dettagli timbrici, ai contrasti
dei vari materiali musicali che Puccini utilizza ed allo stile
d’assieme che alterna con disinvoltura il passo leggero a
quello più drammatico.
In questo cammino all’interno dell’opera ha trovato
una fida alleata nell’intensa Cio-Cio-San di Amarilli Nizza
che s’è imposta con una lettura intensa, tutta giocata sulla parola e sulla “definizione” dello spazio scenico ideato
dal regista, Giulio Ciabatti. Gesti credibili (incluso il suicidio finale che non è, come spesso
si crede, un hara-kiri – riservato agli
uomini – ma un ton-to, il taglio della
gola, gesto tipicamente destinato alle
donne) e coerenti, la cui efficacia s’è
misurata nella gestione accorta dei
vari passaggi dai toni di conversazione a quelli più intensamente drammatici. È bello, timbricamente bello
è risultato alla fine il contrasto fra la
sua voce, più chiara e più vibrante,
e quella più pastosa, scura della Suzuki di Chiara Chialli, che nel duetto
cosiddetto “dei fiori” (“Scuoti quella
fronda”), sospinto da un ondeggiare
sicuro che non cercava il liberty di
superficie, ha ben stilizzato l’insieme, facendo piovere letteralmente
le voci, così come gradualmente piovevano in scena i fiori, a creare un
tappeto arabescato di raffinatissimo
colore vocale.
Luciano Ganci, un Pinkerton sicuro, dal bel timbro
chiaro e disinvolto, ha incalzato la protagonista fino al
raggiungimento dello scopo che s’era prefissato, per poi –
come da libretto – scomparire, lasciando l’amaro in scena
e nel ricordo del pubblico. Pur confinato, localmente, al
solo primo tempo dell’opera (cui poi Puccini avrebbe cercato di rimediare col successivo inserimento del breve “Addio fiorito asil” del secondo tempo), per valutarlo è stato
ben più che sufficiente il duetto che ha intessuto con CioCio-San alla fine del primo atto:
il luogo convenzionale nel quale
si dovrebbe realizzare musicalmente il mutuo scambio amoroso (e che è invece, in Madama
Butterfly, il momento in cui la
ricerca superficiale dell’appagamento sensuale si scontra con
l’autentico lirismo femminile),
gli è giustamente valso il riconoscimento da parte del pubblico.
Ben diverso il ruolo di Shar-
pless, che di sé permea tutto il corso degli accadimenti
e che ha trovato nel timbro
vocale pieno e umano di Filippo Polinelli un qualificato
interprete, morbidamente lirico nelle sezioni più umanamente partecipate e incisivo,
scenicamente, in quelle più
discorsive (l’alternanza fra le
due è la vera cifra stilistica di quest’opera).
Completavano il cast, in ruoli quantitativamente piccoli
ma per nulla superflui, il Goro di Gianluca Sorrentino e
il principe Yamadori di Makoto Kuraishi che hanno entrambi ben delineato le due figure che si situano allo snodo, all’incontro delle due civiltà, quella orientale e quella
occidentale, facendolo in punta di piedi, con discrezione,
senza per questo diminuire la fatale portata di quella contaminazione culturale che è il tema
principale di Madama Butterfly e che
spesso Puccini non lesina di velare
d’un tono vagamente caricaturale.
La regia di Giulio Ciabatti ha posto l’evolversi degli avvenimenti in
una “casa a soffietto” d’un Oriente
fiabesco, per nulla degradato – ancora – dal liberismo economico occidentale, ma già segnato da quel che poi
il “secolo breve” avrebbe accentuato:
turismo sessuale, prevaricazione,
sfruttamento. Il “minimale” impianto scenografico permette di accentrare l’attenzione sui protagonisti ma
soprattutto sulla protagonista dandole quel rilievo che Puccini stesso,
attraverso le quattro diverse versioni, ha inteso darle. La totale assenza
di scrupoli di un Pinkerton, isolato
dal contesto orientale (ma tenuto a
distanza anche dall’atteggiamento
deplorante di Sharpless), ha enfatizzato, in questa lettura
scenica, quel valore – tipicamente giapponese – del “gruppo”, del “nucleo sociale” (opposto all’individualità egoista e
avventurosamente sfrenata che Pinkerton simbolicamente
rappresenta). Ed è così che ha ancor di più accentuato, col
venir meno del consenso sociale (rappresentato dal coro
femminile che la abbandona a metà del primo atto), il senso profondo di totale solitudine che gradatamente avvolge
l’eroina: attraverso quei passaggi fondamentali che sono le
sue arie, ha disegnato l’incauto
sporgersi di questa delicata farfalla dal sogno d’amore mai realmente corrisposto (il duetto del
primo atto) alla vertigine della
delusione (“Un bel dì vedremo”),
alla desolazione dell’isolamento
(“Che tua madre dovrà prenderti
in braccio” ) sino all’abisso del
sacrificio finale che strappa le
sue fragili ali non più utili, ormai, ad alcun volo.
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