ORME SULLA SABBIA,
IMPRONTE DIGITALI,
CUORI INCISI SULLA PELLE DEGLI ALBERI,
RETI DI GRAFFITI SUI MURI DI UNA CELLA,
RUGHE E CICATRICI
IN CUI SI RIASSUME UNA VITA,
TACCHE SU UN BASTONE,
NODI AL FAZZOLETTO,
TATUAGGI
COME ARCHIVI O PEDIGREE,
SEGNI DI QUALCOSA CHE È ACCADUTO
O STAVA PER ACCADERE,
ANCHE PERSE PER SEMPRE
QUESTE TRACCE
CONTINUANO FORSE A PESARE
CON TUTTA LA LORO ESILITÀ
SULL’INANITÀ DEL NULLA.
Michel Leiris, ‘Fissures’
Questa pubblicazione riprende il contenuto del
numero 28 di marzo 2014 di Primapersona, semestrale
della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale - Onlus
Pieve Santo Stefano (Ar)
Primapersona pubblica testi autobiografici inediti,
tracce consegnate in Archivio da “gente comune”,
e le accompagna con le riflessioni di chi,
antropologo o storico, sociologo o linguista, filosofo
o letterato, è persuaso che la scrittura autobiografica
sia un gesto da interrogare.
FONDAZIONE
Hanno collaborato al volume:
Anna Iuso, Silvia Bragagni,
Antonella Brandizzi, Daniela Brighigni,
Luigi Burroni, Francesco Della Costa,
Patrizia Dindelli, Natalia Cangi,
Alessio Catalini, Michelangelo Ciminale,
Fulvio Cozza, Matteo Gallo,
Gabriella Giannini, Irene Napoli,
Riccardo Pieracci, Tiziana Nocentini,
Simona Simone.
Photo editor: Daniele Cinciripini
Graphic design: cdm associati, Udine
Impaginazione: Grafikesse, Tricesimo (UD)
Stampa: Poligrafiche San Marco,
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In copertina
Foto di Luigi Coeta conservata presso la
Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Le citazioni tratte dai diari e dalle memorie
riproducono integralmente il testo di riferimento: eventuali disgrafie e/o alterazioni
delle corrette strutture sintattiche sono
fedeli all’originale.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
1915-2015. Cento anni dopo
33 Censura
1915-2015. Cento
Achille Salvatore
anni dopo, un viaggio
Fontana
nella storia d’Italia
e d’Europa
34 Civili
Nicola Zingaretti
Isabella Bigontina
9
La memoria degli
35 Crocerossine
italiani. L’Archivio
Elisabetta Berti
dei diari di Pieve
Santo Stefano
D
Camillo Brezzi
38 Disertore
Francesco Marchio
11 Q come guerra
Anna Iuso
39 Disfatta
Giuseppe Manetti
7
A
15 Addestramento
Giuseppe Trentini
16 Addio
Giuseppe Manetti
40 Disordine
Domenico Bacci
41 Donne
Jone Leporini
56 Giovinezza
Salvatore Pisanello
80 Nostalgia
Renzo Re
H
57 Honved
Anonimo
81 Notte
Agostino Tambuscio
I
60 Ideale
Eugenio Anzilotti
61 Ironia
Alessandro
Vecchiotti
62 Irredentismo
Elisa
Seppenhofer
63 Isonzo
Antonio Ferrara
106 Sfollamento
Maria Brunetta
83 Offensiva
Giuseppe Garzoni
107 Shrapnel
Giuseppe Rondoni
86 Orrore
Paolo Bielloni
T
108 Telegrafo
Danilo Gracci
87 Ospedale
Ambrogio Ryllo
P
88 Pacchi
Costantino Giordano
17 Alpini
Isidoro Primus
42 Edelweiss
Efisio Atzori
20 Amicizia
Giovanni Presti
43 Eroi
Gastone Bassi
65 Lettera
Paolo Capecchi
92 Patria
Luigi Marziano
21 Amore
Vincenzo Farina
44 Esperienza
Antonio Santo
Quintino Preite
66 Libertà
Francesco Isola
93 Paura
Duilio Faustinelli
67 Licenza
Paolo Cassa
94 Piave
Giovanni Bertoli
68 Logoramento
Pasquale
Gagliani
95 Pidocchi
Mariano Gigli
22 Arruolamento
Rodolfo Frigeri
23 Austriaci
Ubaldo Baldinotti
B
24 Bainsizza
Antonio De Maria
25 Bersaglieri
Annibale Calderale
26 Bicicletta
Ludovico Caprara
27 Bombardamento
Ercole Vari
C
30 Campi di
concentramento
Francesco Isola
31 Caporetto
Rocco Egidio De
Bonis
32 Carso
Alfonso Onofrii
F
45 Fame
Alfonso Lucarini
46 Fango
Luigi Merlini
47 Fede
Sisto Monti Buzzetti
M
69 Madre
Filiberto Boccacci
48 Feriti
Imerio Vincenzo
Gherlinzoni
70 Morte
Francesco
Ferruccio Zattini
49 Fortuna
Priamo Ferrini
71 Mulo
Giuseppe Carruba
Toscano
52 Fotografia
Francesco Tiscornia
53 Fucilazione
Paolo Ciotti
54 Fuga
Donato Vinci
G
55 Generali
Giuseppe Mimmi
N
74 Natale
Giuseppe Orobello
105 Schegge
Cesare
Ermanno Bertini
O
82 Odio
Giovanbattista
Garattini
L
64 Lavori forzati
Giuseppe
Battistel
E
S
104 Sacrificio
Arturo Busto
89 Padre
Renato Rossi
Q
96 Querra
Vincenzo Rabito
97 Quota
Azaria Tedeschi
R
98 Rancio
Eugenio Lavatori
99 Retrovie
Giuseppe Tiburni
100 Riposo
Agostino Tambuscio
75 Nemico
Giuseppe Cordano
101 Ritirata
Mario Bosisio
76 Neve
Giuseppe Lucarelli
102 Ritorno
Carlo Thau
77 Nobildonna
Amalia Sola
103 Ruberie
Ugo Mario Venturelli
109 Tradimento
Anonimo
112 Trincea
Mario Ginelli
U
113 Uccidere
Giuseppe Russo
114 Ufficiale
Bruno Palamenghi
V
115 Vallata
Piero Rosa
116 Vittoria
Luigi Braga
117 Vittorio Veneto
Raul Baccini
118 Volontario
Oliviero Sandri
Z
119 Zaino
Emilio Cioli
Fortino italiano di cresta su cima Tognola nei pressi di
Passo Rolle (Tn).
Il progetto “I sentieri delle anime” è una ricerca di
Carlo Sette sugli avvenimenti e sui territori interessati
dalla “guerra di mina” in alta quota, una particolare attività bellica della Prima guerra mondiale che consisteva nello scavare gallerie al di sotto delle postazioni
nemiche per poi farle esplodere. Il lavoro interpreta,
attraverso i segni rimasti, quanto avvenne sulle sommità del Pasubio, quando l’esplosione di una mina devastante sgretolò il Dente Italiano uccidendo diversi
ufficiali. La morfologia dei due Denti fu profondamente
modificata e ancor oggi le ferite inferte dalle mine non
sono state dal tempo e dalla natura ricucite.
© CARLO SETTE
Reginaldo Binni - Archivio Daniele Cinciripini
Lanciabombe e serventi con maschera antigas
al fronte sul Col di Lana (Bl)
Otello Ferri - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Manovre militari sul fronte carsico.
1915-2015. CENTOANNI DOPO
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7
1915-2015
Cento anni dopo, un viaggio nella storia
d’Italia e d’Europa
NICOLA ZINGARETTI
Presidente della Regione Lazio
La Regione Lazio è impegnata in tanti
progetti volti alla valorizzazione della storia e nostra memoria. È un impegno che
consideriamo parte integrante del nostro
lavoro quotidiano; perché governare un
territorio, lavorare per la sua modernizzazione e il suo rilancio economico e sociale
non è cosa diversa o separata dal cercare
di renderlo un luogo in cui tutti possano
sentirsi cittadini consapevoli.
Questa scelta assume una valenza tutta
particolare in occasione delle celebrazioni
del centenario dell’entrata in guerra
dell’Italia nel primo conflitto mondiale.
Tra il 1914 e il 1918 il mondo è scosso dal
più grande conflitto mai prodotto fino allora nella storia dell’umanità.
Prende avvio, in quegli anni, quella che
alcuni storici hanno definito come una
lunga ‘guerra civile europea’, destinata a
dividere non solo gli eserciti, ma i popoli e
le nazioni per oltre un trentennio, lasciando un’impronta indelebile su tutto il XX
secolo.
In quattro anni, sono oltre sessanta milioni gli uomini inviati al fronte; circa dieci
milioni i morti; quasi il doppio i feriti.
Ma la guerra non si combatte solo nelle
prime linee: il conflitto arriva, anche se indirettamente, nelle retrovie, modificando
abitudini, comportamenti, stili di vita –
addirittura rapporti di genere – prima
consolidati.
Dopo la Grande Guerra, la società, la poli-
tica, la cultura e i rapporti tra gli individui
e gli stati in Europa non saranno più gli
stessi. Oggi, cento anni dopo quegli avvenimenti, abbiamo la fortuna di vivere in
un’Europa profondamente diversa, in cui
non solo la collaborazione pacifica e democratica tra gli Stati è diventata lo strumento ordinario e naturale delle relazioni
internazionali, ma la stessa identità dei
singoli paesi è sempre più collegata alla
consapevolezza di una più ampia cittadinanza e coscienza europea.
Anche qui sta la complessità del XX secolo: mai come in Europa si sparse tanto
sangue come durante la prima metà del
Novecento; allo stesso tempo, mai come
nella seconda metà del XX secolo l’Europa
riuscì a costruire le basi di un futuro più
unito e solidale.
La Regione Lazio per la sua naturale predisposizione geografica e culturale, e nel
pieno spirito del processo di costruzione
europeo, vuole assumere sempre più la
funzione di ponte tra Europa e
Mediterraneo, per valorizzare gli incontri
tra culture differenti, senza rinnegare o
reprimere le diversità, ma valorizzando i
momenti di confronto e di collaborazione
reciproca.
Ricordare dunque gli eventi di quegli anni
significa andare alle radici della nostra
storia di cittadini europei; significa cercare di capire la complessità di quel periodo
storico, per non dimenticare le milioni di
vite perse e perché gli errori che in quegli
anni portarono a due conflitti mondiali
non si possano più ripetere.
Per un’Europa, dunque, sempre più unita
e democratica, in cui fare crescere le generazioni future.
La pubblicazione dell’Alfabeto della guerra e la collaborazione che in questa occasione abbiamo realizzato con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di
Pieve Santo Stefano – un’esperienza unica in Italia –, rappresenta una grande occasione per comprendere le nostre radici
e il vissuto di milioni di italiani nel volgere
di uno dei passaggi più significativi dei
nostri tempi.
Uno strumento che vogliamo utilizzare
per consentire ai giovani e agli studenti
delle nostre scuole di scoprire come tante
delle cose della realtà in cui viviamo oggi
siano il frutto di un lungo e articolato percorso. In questo senso, la conoscenza del
passato è un tassello indispensabile di
quel mosaico di idee e pensieri di cui dobbiamo dotarci per affrontare adeguatamente le grandi sfide che abbiamo di
fronte.
Tutto ciò affinché la memoria delle grandi
conquiste economiche, sociali, politiche
ottenute nel corso dei decenni passati
possa fondersi con la ricerca delle soluzioni ai problemi di oggi e di domani. Per
guardare insieme, con maggiore serenità,
al nostro futuro.
Uno degli ingressi ai locali della batteria sul monte
Rasta (a Camporovere di Roana), cima strategica
della Grande Guerra.
© NAZZARENO BERTON E SERGIO CARLESSO
LA MEMORIA DEGLI ITALIANI
¬
9
La memoria degli italiani.
L’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano
CAMILLO BREZZI
Direttore scientifico dell’Archivio diaristico
1. Sono passati più di trent’anni da quando
un giornalista, scrittore, ‘curioso’ intellettuale, viaggiatore, conoscitore di diversi
paesi e di popolazioni, come Saverio Tutino
propose agli amministratori di un paesino
della Valtiberina, in provincia di Arezzo, di
creare un luogo che conservasse le memorie scritte della ‘gente comune’. Tutte le memorie, colte e semicolte, prodotte da donne
e uomini di diverse appartenenze culturali
e politiche: nobiluomini o contadini, operai
e industriali, partigiani e repubblicani di
Salò, emigranti e viaggiatori, precari e cervelli in fuga…
Da questa originale e fantasiosa sollecitazione nasce l’Archivio diaristico nazionale a
Pieve Santo Stefano.
A partire dal 1984, Saverio Tutino, coadiuvato da una motivata équipe, inizia a raccogliere diari, memorie, epistolari della ‘gente
comune’, di coloro che abitualmente hanno
una ‘vita normale’ o comunemente considerata tale. Tra gli obiettivi iniziali c’è quello
di costruire un patrimonio collettivo di memorie. Oggi l’Archivio rappresenta una delle
iniziative più interessanti a livello nazionale
e costituisce un modello anche per altri
centri analoghi in Europa. Il fondo comprende oltre 7.000 storie tra diari, memorie,
autobiografie, epistolari, che abbracciano
un ampio arco cronologico: dai manoscritti
dell’Ottocento ai più recenti scambi e-mail.
Chi invia una memoria, una raccolta di
lettere, un’agenda consegna nelle mani
dell’Archivio un pezzo della sua vita o
quello di una persona cara. Lo affida ad altri, affinché venga conservato, letto, divenendo in tal modo utile a qualcuno. Stando
al disegno di Tutino, i diari giunti all’Archivio
nell’arco dell’anno sono esaminati da una
Commissione di lettura che sceglie gli otto
finalisti. I testi prescelti vengono letti da
una Commissione nazionale che ‘premia’
un diario e ne garantisce la pubblicazione.
Con il passare degli anni, l’appuntamento
di settembre si è andato arricchendo e la
manifestazione – le ‘Memorie in piazza’ –
vede una più ampia articolazione tanto da
sembrare un vero ‘festival della memoria’. Il
premio Pieve dal 2012 ha preso il nome del
suo fondatore, Saverio Tutino deceduto nel
novembre 2011 all’età di 88 anni.
Al centro dell’attenzione della commissione
di lettura, dei giurati, dei numerosi (sempre
più numerosi) spettatori-partecipanti alle
giornate del premio Pieve, dei lettori, ci sono i diaristi. Le giornate di settembre, nelle
varie piazzette di Pieve, vedono gli incontri
fra chi scrive e racconta di sé e chi legge e
ascolta.
L’Archivio diaristico non è solo un luogo in
cui la memoria è conservata. È il posto in
cui i ricordi e le narrazioni di sé parlano agli
altri; un monumento nazionale della memoria che accoglie studiosi e cultori; dove i
diari possono prendere la forma di libri,
film e spettacoli teatrali. Si potrebbe quasi
dire che ogni diario, memoria, epistolario,
giunto in questo paesino della Toscana, oltre a raccontare ‘le storie’ ha una propria
‘storia’ che lo contraddistingue. Alcuni di
questi diari sono diventati rappresentativi
dell’Archivio, dei veri ‘simboli’.
È il caso del lenzuolo di Clelia Marchi, una
contadina di Poggio Rusco che, dopo la
morte del marito, la sera scrive, riempie fo-
gli e poi li cuce insieme. Una notte non ha
più carta, allora, prende un lenzuolo (un
pezzo del corredo matrimoniale d’altri tempi), sul quale non potrà più giacere con l’amato Anteo, e comincia a raccontare la
drammaticità di una vita quotidiana nella
campagna mantovana. Scrive di sé, della
sua famiglia, di Anteo, ma anche della sua
terra, della sua gente … e in cima al lenzuolo appone un titolo: Gnanca na busia
(Neppure una bugia). Clelia «rielaborava la
perdita facendo della custodia della memoria e della scrittura due strumenti di conforto e di riflessione» (Patrizia Gabrielli,
Tagebücher, Erinnerungen, Autobiografien.
Selbstzeugnisse von Frauen im Archivio
Diaristico Nazionale in Pieve Santo
Stefano, in «L’Homme. Z.F.G.», n. 2, 2004,
pp. 345-352).
Quale emozione guardare e leggere i foglietti scritti, nel carcere di via Tasso, a
Roma, nei primi mesi del 1944 durante l’occupazione nazista, da Orlando Orlandi
Posti, un ragazzo che partecipa alla
Resistenza, e che da quel carcere, sfidando
le severe regole della prigionia nazista, invia alla madre dei bigliettini accuratamente
celati nei colletti delle camice da lavare! Il
tentativo estremo di colmare il vuoto della
solitudine, di alleviare il dolore procurato
dalla rottura drastica dei vincoli affettivi.
Dieci giorni dopo il suo diciottesimo compleanno, il 24 marzo 1944, Orlando, insieme
ad altri 334 prigionieri, sarà ucciso alle
Fosse Ardeatine.
Anche il viaggio dei sette quaderni di
Vincenzo Rabito, cantoniere siciliano, ‘ragazzo del ’99’, ‘inalfabeta’, è una storia nella
10
¬
LA MEMORIA DEGLI ITALIANI
storia. Paragonato a un Gattopardo ‘popolare’, la Giuria del 2000 premiandolo lo definì «il capolavoro che non leggerete» (data
la sua mole). Alla fine di una ‘sfida esagerata’ il dattiloscritto divenne nel marzo 2007
un volume Einaudi (sia pure non integrale)
con il titolo Terra matta, ribaltando così la
provocazione della giuria e affermandosi
come un caso letterario. Tutto quello che si
cerca normalmente in una scrittura del sé
in Terra matta è presente. Il diario di Rabito
non è ‘solo’ la storia di un secolo o di una
terra o di un uomo, oggi è anche un libro
costruito con involontaria sapienza narrativa da una persona che ha preso la quinta
elementare in dieci giorni, perché la licenza
gli serviva per trovare lavoro.
Tra gli altri simboli dell’Archivio, anche il
diario di una settantenne, Ida Nencioni, affetta da gravi turbe psichiche. Ida annota
con sconvolgente purezza i piccoli eventi
quotidiani che si svolgono nelle case popolari di Milano e nel corso delle sue degenze
nei manicomi: una testimonianza aspra sul
calvario cui erano sottoposti i ‘malati di
mente’. Dopo l’approvazione della legge 180
Ida è seguita a domicilio dal Centro di igiene mentale di Sansepolcro e, chiusa nella
sua «casa scatolino», scrive le proprie memorie d’infanzia, continuando ad appuntare la sua vita su fogli finissimi di calendario, quelli che si staccano uno ad uno con i
numeri grandi rossi al centro. Scrive tutto,
Ida, nel suo «diario nero», scrive la sua verità di donna colta, informata, strana, eccentrica, additata in paese come ‘matta’.
2. Oggi chi raggiunge il piccolo centro della
Valtiberina si trova nello spazio unico ed
affascinante, nel Piccolo museo del diario,
allestito presso il Palazzo Pretorio nel cuore di Pieve Santo Stefano. Non si può raccontare tutto quello che l’Archivio ha realizzato, né tutte le storie che ospita, ma grazie
al progetto di interaction design elaborato
dallo studio dotdotdot, il Piccolo museo del
diario offre il ‘significato’, la suggestione del
luogo archivio e mette in scena alcune delle
sue storie simbolo. Dal dicembre 2013, data dell’inaugurazione, entrando nel museo
le prime due sale sono dedicate all’Archivio,
un omaggio alle sue anime, un vivaio di memorie, confessioni, segreti nascosti in scaffali e cassetti pronti per essere svelati: un
grande archivio per diverse tipologie di pagine, tracce e testimonianze di vite personali. A ridosso delle pareti delle sale è stata
infatti riprodotta una parete archivio di legno composta di ante e cassetti, sulla cui
superficie videoproiezioni dinamiche riproducono i fogli dei diari. Basta avvicinarsi ad
uno dei cassetti, estrarlo e ci si trova di
fronte a schermi digitali e alle pagine di alcuni diari originali: è così possibile leggere
molte delle numerose storie custodite a
Pieve o ascoltarle grazie ad una voce narrante. Le altre due sale sono dedicate a
Vincenzo Rabito e al Lenzuolo di Clelia
Marchi.
In questi trent’anni sono ormai numerosi i
testi letti, esaminati, studiati da storici, antropologi, letterati. È questo uno degli
obiettivi con il quale (negli ultimi tempi)
l’Archivio si misura maggiormente: confrontarsi e collegarsi con il mondo della ricerca,
con le università nell’intento di porre i diari
nel quadro del rinnovato dibattito scientifico che attraversa le diverse discipline; di
far conoscere ad un pubblico più vasto,
grazie all’impegno di sempre più apprezzati
studiosi, le tante storie conservate negli
scaffali di Pieve; di consolidare la memoria
individuale e collettiva e destare allarme rispetto ai rischi di una politica dell’oblio. Per
questo, sin dalle origini, l’Archivio ha avviato
un’intensa attività editoriale che ha coinvolto diverse case editrici e dato vita a varie
‘collane’.
In occasione del trentennale dell’Archivio, ci
è parso significativo collegarci ad un altro
anniversario assai più importante, il centenario della Grande Guerra. L’arco temporale
che va dal 2014 al 2018 offrirà un’occasione irripetibile per riflettere e confrontarsi
sull’enorme dramma che ha coinvolto intere generazioni di cittadine e cittadini europei, militari e civili, di tutte le nazioni che
hanno preso parte alle ostilità. In questo
secolo, la storia, la letteratura, il cinema
hanno rappresentato in più occasioni questo grande evento.
L’Archivio dei Diari vuole fortemente partecipare a questo momento di riflessione con
gli strumenti originali che in trent’anni di
attività è riuscito a costruire, mettendo,
quindi, a disposizione non solo degli studiosi ma di un più ampio pubblico, la sua
particolare e ricca documentazione, più di
trecento fra diari, memorie, agende, epistolari di soldati e ufficiali. Si è pensato, quindi, di dare vita al progetto Dalla trincea ai
diari, in modo da divulgare aspetti inediti
dell’esperienza bellica e mettere a disposi-
zione forme di comunicazione innovative e
alternative.
Nelle varie parti che compongono questo
progetto, abbiamo prioritariamente avviato
la digitalizzazione del fondo Grande Guerra
in formato scansione e fotografico (quest’ultimo destinato ai manoscritti autografi)
per poter consentire ricerche e visualizzazione di diari e memorie relative al periodo
1914-1918. Abbiamo dato vita, inoltre, ad
una innovativa collaborazione tra l’Archivio
e il Gruppo de «L’Espresso» costituendo un
database con brani inediti dei diari. È stato
pubblicato il volume di un giovane studioso, Nicola Maranesi, il quale – utilizzando
come fonte i diari di Pieve – racconta la
guerra di trincea attraverso le tappe del
percorso emotivo, gli stati d’animo di chi ha
vissuto mesi, anni sul fronte bellico (Avanti
sempre. Emozioni e ricordi della guerra di
trincea, 1915-1918, prefazione di Antonio
Gibelli, il Mulino, 2014). L’Archivio ha prodotto, infine, lo spettacolo teatrale di Mario
Perrotta, una delle figure di spicco del teatro italiano, Milite Ignoto quindicidiciotto, al
fine di coinvolgere un pubblico anche di
non esperti e, in particolare, le Scuole.
La collaborazione con la Regione Lazio, con
la pubblicazione dell’Alfabeto della guerra,
è un’occasione per sollecitare l’interesse
verso la memoria della Grande Guerra attraverso la ‘letteratura popolare’, vale a dire
grazie alla lettura di documenti vivi, eloquenti, che continuano a rivelare risvolti
inediti dell’esperienza bellica e che hanno
ispirato un’indagine che si snoda tra le
emozioni e le sensazioni dei soldati e degli
ufficiali dal momento del loro arrivo in prima linea a quello, per chi l’ha potuto vivere,
del ritorno a casa.
Nello stesso tempo, con questa documentazione, si ha la possibilità di approfondire
una guerra di cento anni fa che ha segnato
uno spartiacque nella storia del nostro
Paese e in Europa. Soprattutto sarà un modo per conoscere i nostri antenati, milioni di
combattenti, molti dei quali non tornarono
alle loro case e alle loro famiglie. Quelli che
ebbero la fortuna di ricongiungersi ai propri
cari, certamente erano cambiati, trasformati. L’itinerario che proponiamo consente
di essere al fianco di quei soldati e nello
stesso tempo suggerisce riflessioni profonde sul presente, sulla reale portata dei problemi individuali e collettivi che investono il
nostro tempo e le nuove generazioni.
Q COME GUERRA
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11
Q come guerra
ANNA IUSO
SEMBRA DI VEDERLO QUEST’UOMO CHE, IN QUARTA DI COPERTINA, PENSA,
RICORDA E CHIACCHIERA CON UN AMICO CHE PARE UN PO’ LONTANO.
COSÌ, PRIMA SEDUTO SU UN PARACARRO, POI SCALPITANDO SUI SUOI
SANDALI, IL NOSTRO UOMO RESTA AD ASPETTARE BARTALI, IN UNA LUNGA
GIORNATA CALDA, FRA LA VOGLIA DI UNA BIRRA E RICORDI DI CUI NON
SAPREMO MAI.
Dicono gli specialisti del settore che
quando un’esperienza è troppo forte, troppo dolorosa, non si riesce a raccontarla.
Che non ci sono parole per il dolore. Da
Alphonse Daudet in poi, sappiamo che per
il dolore fisico è così. E però si dice anche
che raccontare il dolore aiuti a lenirlo, a
sopportarlo, o perlomeno a conviverci.
Così anche per i traumi: i disordini da
stress post traumatico hanno, fra le tante
difficoltà, quella della parola: con quali
parole raccontare l’orrore che si è vissuto?
Per noi, cha abbiamo la fortuna di non
aver mai vissuto una guerra, costruire
questo numero non è stato facile.
Volevamo, ovviamente, rendere omaggio ai
milioni di ragazzi (e non solo) che hanno
affrontato la Prima guerra mondiale, ma
abbiamo subito capito che sarebbe stata
un’operazione diversa da quella degli altri
numeri. Privilegiare alcuni temi e alcune
persone implicava una conoscenza di
questa guerra che di fatto ancora non esiste. Perché, e questi diari lo dimostrano
bene, non è stata ancora sufficientemente raccontata dall’interno, dai suoi veri
protagonisti.
La guerra dei milioni – milioni di morti,
milioni di soldati, milioni di feriti, di perdite, di lettere… – poteva essere raccontata
solo dai soldati stessi, in un’operazione
corale da noi mai tentata prima. Tutto il
numero è stato dedicato agli attori di questa lunga, dolorosa e sconvolgente esperienza, eppure anche così è stato difficile
scegliere: quali dei diari presenti in
Archivio avrebbe avuto l’onore e la responsabilità di raccontarci la Grande Guerra?
E partendo da quali argomenti? Insomma
quali erano le “parole chiave” del grande
conflitto?
Da questa domanda è cominciata la più
interessante storia delle preparazioni di
numero della nostra redazione, piccola
storia che merita di essere narrata.
L’idea dell’alfabeto è sorta in maniera
abbastanza fulminea: un evento così pervasivo come la guerra sicuramente investe tutti i campi dell’esperienza, dunque
un po’ tutto il dicibile, dunque tutto l’alfabeto. L’operazione immaginata, e da noi
redazione realizzata, è stata la seguente:
se ci fossimo trovati con un – folto – gruppo di soldati e avessimo detto “A come… ?”,
cosa avrebbero risposto?
La nostra redazione, composta per la
stragrande maggioranza di giovani, ha
cercato di immedesimarsi con questi coetanei di cento anni fa, dando delle risposte che poi avremmo “verificato” nei diari,
per capire se quelle parole fossero veramente fra quelle utilizzate per raccontare
il conflitto, e quindi se fossero idee, concetti, esperienze vissute dai nostri soldati.
Per esempio, per la lettera A siamo andati
dall’ovvia e onnicomprensiva parola
Amore (sì, ma che tipo di amore: coniugale, per i figli, i genitori, gli amici, o amore
universale?...) alla parola Abulia (sì, di certo l’abulia c’era, ma la raccontavano con
questo termine?). Esemplare sarà il percorso seguito per la lettera S. Era stato
proposto, fra le altre cose, un inatteso “Sei
milioni di morti”. Era una sorta di provocazione, che ci dice cosa resta nei giovani
d’oggi di questa guerra: il ricordo dei morti, giovani, sterminati. Una proposta che
serviva per riflettere, perché di certo i soldati che scrivevano lettere dal fronte, o
che tenevano un diario durante il conflitto, soprattutto all’inizio non avrebbero mai
immaginato una conclusione di questa
guerra così inaccettabile. C’erano poi le
proposte verosimili, come “sfollamento”,
che poi in effetti avremmo ritrovato in
moltissimi diari.
Andando dunque a leggere i diari, e implicando attivamente la parte della redazione
che ne aveva già letti molti, in alcuni casi
abbiamo cominciato a capire la distanza
che c’è fra ciò che immaginiamo di questa
guerra, ciò che abbiamo imparato a scuola
o dai documentari, e ciò che realmente è
accaduto fra le trincee o negli ospedali
militari, o anche nelle case, perché i diari e
le lettere sono anche quelli scritti dalle
famiglie in attesa dei propri cari. Insomma
la distanza fra ciò che raccontano le versioni ufficiali, e ciò che realmente è accaduto durante la Grande Guerra. E c’erano
quindi delle sorprese: sempre per restare
alla lettera S, andando a confrontarci con i
diari abbiamo “scoperto” una parola che
era nelle bocche di tantissimi soldati, un
pensiero fisso, motivo di iniziale sorpresa e
paura costante: Shrapnel. Non credo siano
in molti a sapere che questa parola i nostri
soldati la pronunciavano tutti i giorni, che
12
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Q COME GUERRA
la sognavano anche la notte. Uno shrapnel
era una sorta di “proiettile a due tempi”,
pericoloso e temutissimo, come racconta
in questo numero Giuseppe Rondoni, e
come raccontano quasi tutti gli altri, in
pagine che solo per motivi di spazio non
abbiamo potuto riproporre.
Le foto, dopo tanto tempo, sono di nuovo
quelle dei diaristi stessi, perché sarebbe
stato inconcepibile non restituire ai nostri
lettori i volti veri, e i luoghi, a volte ieraticamente vuoti come quelli di queste pagine,
simbolicamente in attesa di essere riempiti di vita o di morte.
Così, quest’alfabeto è il frutto di un viaggio
nelle menti dei ragazzi che su queste montagne temevano la morte, ma spesso superavano se stessi nella capacità di affrontare il dolore e la paura. Che scrutavano l’orizzonte per vedere il nemico, o poter scrivere una pagina a cui affidare i propri pensieri e la propria testimonianza di un evento che hanno rapidamente riconosciuto
come tristemente straordinario. Inevitabilmente, per ogni lettera c’è un numero
diverso di parole, perché abbiamo dato
spazio a quelle più frequenti o più inattese.
Alla lettera Q ne avevamo poche, anzi una
sola, che emergeva su tutte: Quota, un termine che i nostri soldati hanno imparato a
padroneggiare, anche se venivano da pianure e mari. Leggendo e sfogliando, però,
ne è venuta fuori un’altra, di un diarista che
della guerra scrive a lungo. Ancora una volta, Vincenzo Rabito. Nel brano che abbiamo riportato descrive il momento dell’armistizio, così come i soldati l’hanno vissuto:
un susseguirsi di contraddizioni, di contrordini, di sforzi inutili, di equipaggiamenti
inadeguati e vettovagliamenti inesistenti.
In altre parole, un’assurda carneficina, un
teatro senza senso chiamato Querra.
Q COME GUERRA
Fortino sul monte Fior, Altopiano di Asiago.
Le immagini di Nazzareno Berton e Sergio Carlesso sono tratte dal
progetto “Cinquantaquattromiladuecentoottantanove”. L’altopiano
di Asiago è stato importante teatro dei cruenti eventi bellici della
Prima guerra mondiale: il suo territorio risulta ancora “marcato” dai
segni rimasti di quell’avvenimento svoltosi quasi cento anni fa.
L’intento originario di questa ricerca fotografica è la rilettura di
quanto il paesaggio ancora “racconti” di quei giorni e delle trasformazioni che questi hanno comportato.
Di fronte alla comprensione dei drammi dei “cinquantaquattromiladuecentoottantanove” del Sacrario e di tutti gli altri che hanno sacrificato la vita per questo assurdo evento, si è affermata però l’impossibilità di limitarsi a un semplice “prelievo fotografico”: i segni introdotti (tutti fisicamente realizzati sul posto) diventano così allusivi, e
vogliono raccontare le sensazioni e le percezioni che ancora colpiscono “chi cammina su quelle pietre frante”.
© NAZZARENO BERTON E SERGIO CARLESSO
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Reginaldo Binni - Archivio Daniele Cinciripini
Soldati in marcia verso il fronte sul Col di Lana (Bl).
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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A
Addestramento
GIUSEPPE TRENTINI
Giuseppe, originario della provincia di Varese, è uno dei ragazzi
del ’99 chiamati in guerra giovanissimi: la sua memoria, scritta
alla fine del conflitto, racconta come l’esperienza bellica abbia
cambiato completamente la sua vita. In questo brano l’autore
ricorda, con una certa ironia, la noiosa ripetitività e la pesantezza dei mesi di addestramento.
[Luglio 1917] L’istruzione a piedi incominciò quando ancora
eravamo vestiti coi nostri abiti e si faceva sul piazzale del Re
alle Cascine. Il nostro orario era il seguente: Ore 5 sveglia. 5¾
appello e poi alle Cascine; alle 10 rancio. 11-12 appello e istruzione interna. 12-14 riposo (molto ben meritato). 14-17 appello
e istruzione alle Cascine. 17 rancio. 18 libera uscita. 21 ritirata.
21½ silenzio. Farò ora di questo orario una specie di commento. Prima di tutto la sveglia: un…pochino presto, ma pazienza;
quello che più importa si è che solamente quattro volte alla
settimana ci davano quella bevanda che così chiamavano
caffè, ma che io non riuscii mai a decifrare con un nome appropriato; era una vera “bourlanda”. Con niente in corpo si doveva
poi andare a fare istruzione sotto il sole, in mezzo alla polvere
che non ci lasciava respirare e con solamente qualche minuto
di riposo. Quando si ritornava per il rancio si era stanchi da morire e bisognava di nuovo mettersi in riga ad attenderlo per
mezz’ora.
Il rancio non era cattivo, ma non bastava. Io andavo a mangiare
il caffè e latte in una latteria. La pagnotta pure era piccola ed
insufficiente […].
Alle 11 si era di nuovo in riga e dopo l’immancabile appello si ricominciava l’istruzione interna. Si andava molto spesso sotto un
porticato che di notte serviva da “cesso” (non da gabinetto di decenza perché era una vera indecenza) e là in piedi ci insegnavano tutto ciò che può essere utile (ci insegnavano pure quello che
era inutile però) ad un soldato riguardo al modo di comportarsi,
ai suoi obblighi e alle pene stabilite per le mancanze che si commettono; fucilazione nella schiena compresa. I caporali però non
ne avevano voglia e ci facevano leggere
sempre le stesse cose il che rendeva ancora più noiosa quell’ora
di istruzione profumata. Non di rado poi capitava di doverla
passare sotto il sole di Luglio; una vera delizia quando si abbia
la busta in capo. Si andava quindi a riposare; il caldo concigliava il sonno ed io stanco morto mi addormentavo, ma sul più
bello “Svegliàa!” Ed allora bisognava alzarsi subito, vestirsi e
correre in riga […].
Appena in riga si incominciava un nuovo appello, poi davano la
pasta che ci veniva “buttata” da un soldato o caporale dalla
voce squillante salito su una sedia e quindi si andava alle cascine a fare istruzione di fanteria. Tra l’altro mi ricordo che
quando ricevetti la prima lettera da casa mia piansi. Dopo di
aver marciato avanti e indietro per lunghe ore sul piazzale si
ritornava in caserma e veniva subito distribuito il rancio che si
mangiava sempre con molto appetito; non di rado capitava di
tornare tardi dall’istruzione ed allora portavano la pasta ed il
riso stracotti.
Alle 18 finalmente si usciva tirando un lungo sospiro come chi
si sia levato di dosso un pesante fardello […].
Ogni cinque o sei giorni avevamo la distribuzione delle cinquine
o prestito che dir si voglia. Per prendere la misera moneta di
cinquanta centesimi era necessario un cerimoniale molto accurato e complesso. Appena chiamata bisogna uscire di riga ed
andare di corsa davanti al tavolino delle cinquine, fermarsi a un
passo di distanza, far un saluto (d’ordinanza e bene) un passo
avanti, allungare la mano sinistra (non la destra) prendere i denari, fare un passo indietro, un altro saluto, poi dietro front e
tornare in riga di corsa. Non di rado capitava che qualcuno
sbagliava questo cerimoniale ed allora lo facevano tornare di
nuovo in riga per ripetere la prova fino a quando riusciva perfetta. Molte volte avveniva pure che a qualche soldato facessero fare una ventina di volte il saluto od il dietro front, mentre i
compagni si sbellicavano dalle risa. È da notarsi poi che fra noi
vi erano degli anziani richiamati che avrebbero potuto benissimo esserci padri e che una di queste miserabili figure avrebbe
potuto capitare a uno di loro. Veniva perfino voglia di non prendere la cinquina, ma era obbligatorio e poi l’avevamo veramente guadagnata col sudore della nostra fronte.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
A
Addio
GIUSEPPE MANETTI
Giuseppe Manetti ha trentadue anni quando viene richiamato
sotto le armi e costretto, suo malgrado, a partecipare alla Prima
guerra mondiale; per sedici mesi, dal 1917 al 1918, affida a due
quadernini le sue paure, la sua ostilità verso la guerra e la grande
nostalgia per la moglie e la figlioletta che non ha visto nascere.
Mia cara moglie
Quando ti giungerà questo libriccino, io sarò belle estinto io capisco quale effetto ti farà ma io ò pensato di far così in modo
che tu non stia qualche mese senza sapere ciò che mi e accaduto, se tucredi di rimaritarti permé non trovo cosa in contrario
però, una raccomandazione ti faccio quella di tenere di conto
della nostra piccina che ò amato teneramente e di trovare
unuomo che sappia amarti come ti ò amato io che quando sposai te, ti giurai fedeltà e ti sono stato fedele questo desidero
che tu possa trovarti felice, e trovare un cuore degno del tuo
Se poi non vuoi far questo passo fai te di novo ti raccomando la
bambina, tuo marito e se io ti ò lasciato non e per la mia volonta per la mia volontà non avrei mai abbandonato la mia cara famiglia che mi sono sagrificato senza però sentire il sagrificio
farti forte che io potendo pregherò per te e per l’intera famiglia
Se tù resterai conla mia famiglia mi raccomando la pace ha voi
tutti, che per causa di non esserci la pacie vedete a che punto
siamo arrivati lo dico a te come lo dico all’intera famiglia se
questo farete vi benedirò e pregherò per voi per tutta la vostra
vita, però non ve lo comando ve lo supplico
Unaltra raccomandazione faccio a chi resterà capo della mia
famiglia o che tu resti te Ferdinando o te Emilio fate da padre,
e da capo al resto della famiglia come feci io quando scomparve il nostro caro padre edanche a voialtre sorelle mi raccomando di tenere il vostro posto come vi è dovere di donna di sorella
e di figlio
Se questo libretto vi giunge sarà l’ultimo scritto che da me ricevete perciò con questo vi giunge l’ultimo mio saluto e bacio
dal più piccolo al più grande di voi edà te mia cara moglie lo
stesso questo e l’ultimo bacio che ben per i scritto parte dal
mio quore e lo darai alla mia bambina tutte le volte che ti rammenti di me
tuo marito 3.6.17
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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A
Alpini
ISIDORO PRIMUS
Isidoro Primus, classe 1895, partecipa alle manovre belliche
con gli alpini del Battaglione Arvenis. Nel 1955 scrive una memoria per rendere omaggio al valoroso capitano Candoni, morto negli scontri sulle montagne del Friuli: in queste pagine tutta la dedizione di un soldato al proprio Corpo, rappresentato
come una vera e propria famiglia.
[Ottobre 1917] Saliamo sul Grappa. Lassù il monte era ricoperto da circa trenta centimetri di neve, divenuta dura quanto il
marmo a causa del freddo intenso. Come fare? non avevamo
nulla per coprirci. Niente cappotto, niente mantelline e senza
coperte. Niente corredo. Inoltre avevamo le scarpe rotte ! e così
abbiamo dovuto tirare innanzi per un mese. Nulla avevamo,
neppure un piconzino! Praticamente tutti noi avevamo i piedi
congelati, eppure bisognava rimanere inchiodati sulla posizione. I piedi ci davano la sensazione che fossero fatti di legno.
Per non essere scaraventati giù lungo le pendici gelate del
monte, dovevamo tenerci per mano in circolo a sei per sei.
Questo, naturalmente, quando si scatenavano le tormente. E
queste si succedevano sovente le une alle altre.
Una notte di tempesta, il Feltre, che controllava la zona antistante dell’Arvenis, dà l’allarme al Battaglione Arvenis stesso.
Ecco il Capitano Candoni pronto in prima linea. Quando il nemico aveva raggiunto le prime vette, il Savoia, urlato dal Capitano
Candoni fece scattare tutti. Il nemico venne ricacciato alla
baionetta. Altre munizioni non avevamo, all’infuori di quelle per
le mitragliatrici. Si pensi che il vino ed il cognac, destinato a
noi, venivano usati per le mitragliatrici che dovevano sparare
sovente, per evitare che tutto il meccanismo si ghiacciasse e
non si potesse poi usare l’arma.
Il nemico bombardava ininterrottamente, tanto che i posti colpiti non erano più bianchi di neve, ma brulli! I battaglioni venivano decimati dai bombardamenti nemici e dal congelamento.
Anche il Capitano Candoni soffriva come noi, tuttavia egli visitava i soldati della compagnia frequentemente, incoraggiando
tutti. Egli ci parlava in dialetto friulano, particolarmente quando voleva darci la carezza di padre. Nel terreno di nessuno, cioè
tra le linee nostre e del nemico, vi era una malga (casera e baite). Nei pressi della malga aveva avuto luogo un combattimento
feroce tra i nostri alpini e gli austriaci. Numerosi i morti lasciati
sul terreno da ambedue le parti.
[…] Il Capitano Candoni, insieme agli altri ufficiali erano saliti
sulla cima ad osservare l’attacco del Cividale. Come non mai, il
nemico vomitò sulle nostre linee proiettili di tutti i calibri. Ecco
la scheggia fatale colpire il padre nostro! Era stato colpito alla
testa. Dal mattino, visse sino verso le ore 14, e poi rese la sua
grande anima al Signore.
E quì devo far rilevare che non ho mai notato cordoglio nel
Gruppo Alpini, come quando il nostro Capitano ci venne rapito!
La 153 Compagnia, ormai orfana del suo padre, non poteva rassegnarsi a tanta perdita. Tutti piangevano! Ufficiali e soldati
avevano le lagrime negli occhi ed il cuore spezzato da tanto dolore. I suoi vecchi alpini lo piansero per tutto il resto della guerra e lo piangono oggi e sempre. In questo momento che scrivo
questo diario, dopo 37 anni, lo piango amaramente!
Prima che esalasse l’ultimo anelito, tutti i soldati della sua
compagnia si recarono, ad uno ad uno, a salutarlo. Egli non
parlava ed era in coma. Lo abbiamo salutato toccandogli quelle
mani benedette e generose; quelle mani che presto sarebbero
state rese inerti dal crudelissimo destino.
Tutti singhiozzavano asciugandosi le lagrime.
Intanto il Tenente colonnello Tessitore, comandante del nostro
battaglione, che trovatasi in licenza in Piemonte, venne informato della sorte toccata al Capitano.
Egli diede ordini, per telegramma, di non rimuovere la salma sino a quando egli non sarebbe giunto. Il giorno dopo il
Colonnello giunse al fronte. Egli salutò il GRANDE CAPITANO
con nobilissime parole. Poi baciò la salma ripetutamente e disse: “Addio, mio caro Capitano Candoni, addio! Fece poi il saluto
militare, il dietro front e singhiozzando accompagnò con lo
sguardo la salma del grande Artista e grande Soldato che veniva rimossa verso valle. Anche noi, così duramente colpiti abbiamo accompagnato il nostro PADRE con una lunga lagrima.
“Et Nunc Et Semper!”, caro COMANDANTE! “Et Nunc Et
Semper!” “Povera la mia compagnia!” disse egli prima di morire: aveva ragione!
Ed ora, Signora Candoni, ho finito. Porti la mia lagrima anche a
Sua sorella e conforti Sua mamma.
Ed ora chiudo, portando la mano destra alla falda del mio vecchio sgualcito cappello alpino in reverente saluto militare.
“Et Nunc Et Semper!”
Isidoro Primus
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Luigi Coeta - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Militari accanto a una granata inesplosa caduta l’8 dicembre 1915 nel versante sud del monte Melino (Tn).
L’ALFABETO DELLA GUERRA
Luigi Coeta - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Non solo eroiche azioni militari: soldati intenti a riparare
le divise e le calzature in dotazione.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
A
Amicizia
GIOVANNI PRESTI
Un giovane ufficiale siciliano scrive dal fronte giuliano alla fidanzata e le parla della vita delle trincee: le logiche di guerra e
talvolta la morte impongono a Giovanni, e ai suoi commilitoni,
delle perdite dolorose che nei brani di queste lettere egli racconta con struggente nostalgia. Il solo conforto sta nei solidi
legami umani che nascono tra i soldati a dispetto della loro
condizione di precarietà, delle fredde notti, della paura.
3 agosto 1916
Ben altra voglia che scriverti avrei stasera, perché le circostanze han messo a ben dura prova il mio cuore. Mi son staccato
proprio or ora da tre tenenti che mi han tolto dalla compagnia
per mandarli ad altri reggimenti, fra i quali quello che venne ad
impostarti la lettera a Padova giorni fa. Cosa vuoi: abbiamo provato le stesse emozioni sin dal principio della guerra, abbiamo
vissuto degli stessi palpiti e se per caso ora erano alla mia dipendenza io li trattavo come compagni, come fratelli. Ci siamo
baciati piangendo. Eravamo gli unici si può dire dei pochissimi
superstiti del 71 vecchio. Per maggior prova mi è giunta stasera
la cassetta dove tenevo i ricordi tuoi più cari e più recenti. Ti giuro che stasera il guerriero ne ha versato lagrime e ne versa; perché il cuore non conosce situazioni, è sempre uguale. Figurati: il
Colonnello voleva tenermi seco stasera. Ma io francamente gli
ho detto: Colonnello, conosco da tre anni gli amici che vanno, e
noi ci conosciamo da poche sere, vado con gli amici.
Mentre ti scrivo il mio attendente guarda, rimescola, rivede, assorbe, gioisce della roba della cassetta; l’unica sua conoscente. Il capitano che sta con me che sviscera anche lui la sua
cassetta mi fa vedere i suoi ricordi di Albania: una pietra che
assomiglia a un acino d’uva presa nel fiume di confine, un guscio di tartaruga che in Albania aveva vita e tante altre cose;
viene a farmele vedere mentre ti scrivo e vorrebbe infondermi
la sua contentezza; ma io ho ben altro per la testa. Io penso ora
che un anno fa io potevo venire a vederti, potevo venire a baciarti, e ora che potrei farlo con maggior diritto, la necessità mi
inchioda. Penso che l’8 agosto l’anno scorso questi occhi gioirono a San Gaetano, quando il prete predicava. Riportavo allora
i primi ricordi di guerra. C’era anche una cosa che avevamo
preso con il povero Aruffo, morto al Pasubio. Il colonnello sta
sera mi ha fatto leggere una lettera del padre; io in sua memoria domani scriverò una lettera alla madre del mio sergente
Sarpi, ucciso il 7 giugno […].
Ore 4 del 18 gennaio 1917
Tu hai ripreso la generosa consuetudine di scrivermi di sera
perché la sera è più propizia alle idee; io di notte perché, nella
febbre della tremenda responsabilità che su me incombe solo
di notte posso scriverti. Il mio attendente accoccolato in passamontagna, mi sta scaldando un po’ di caffè con lo scaldarancio. Queste scene di muta semplicità, mi fan pensare ad altre corrispondenti vissute; scene che avevano l’inquadratura
più elegante, più colorita, ma in cui poi, fatta astrazione della
parte formale, il risultato era identico. In tutta la fronte da ieri
sera c’è una calma, un silenzio che fa paura. Non un colpo di
cannone, non una fucilata: sai che impressione? Perché potrebbe nascondere qualche insidia. Di ciò abbiamo parlato poco fa con l’amico mio che ha la sua Maria a Venezia e di cui ti
ho parlato più volte, il quale avendo la compagnia alla mia destra viene di notte a trovarmi in buca…
Nel pomeriggio di ieri un soldato – non aveva candela lui – s’era sporto un po’ dalla sua buca vicino alla mia per scrivere
chissà con quale affetto a qualche suo caro. La seconda pallottola di un cecchino lo ha ucciso […].
Comando 71° Regg. Fanteria Bologna 14 giugno 1917
Sono qui per servizio. Ho trovato tanto lavoro. Ho trovato anche
il nuovo Colonnello che mi ha fato una lusinghiera accoglienza;
ho trovato anche il reggimento più al sicuro. E così ho una
stanza, un letto, delle lenzuola. Tante cose confortanti.
Comando 71° Regg. Palmanova presso l’Isonzo 24 giugno 1917
S. Giovanni
Al contrario dell’anno scorso, sul mio tavolo, di ritorno da una
cavalcata col Colonnello, m’han fatto trovare tanti fiori.
Gelsomino, rose e garofani come nell’età più beata e inconsapevole. Oh è San Giovanni del sole rosso e gigante alla mattina
quando il fresco inebriante pare che mettesse tanto sangue di
paradiso nelle vene.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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A
Amore
VINCENZO FARINA
Vincenzo, militare marchigiano dislocato sul fronte italo-austriaco, idealista e in attesa di partecipare ai corsi per ufficiale, scrive
all’amata Jone lettere intense: alla vita di trincea si affiancano i
sentimenti, il desiderio di riabbracciarla e di sposarsi per non
essere più separati. Nel frattempo l’immaginarsi insieme aiuta a
superare il dolore per la lontananza.
m’avvicino al letto, t’abbraccio i capelli disciolti e ti bacio il collo per la scanalatura della camicia. Jone, Jone mia! Poi ti stringo le mani calde, sotto le calde coperte, e stiamo così stretti,
stretti, dicendoci tante cose col fremere delle dita. Ti bacio, bacio, bacio
Vincenzo tuo tuo tuo.
Cara Jone mia,
Mia carissima Jone
11-VIII-1916 Venezia (isola)
Spero che la posta abbia ormai disingannato tua madre e te
circa il mio contegno e ti abbia recato quel conforto morale,
quella gioia rassicuratrice ch’io vorrei in questo momento largirti e che, di lontano, non posso affidare che a queste povere
righe scritte. Non puoi immaginare, Jone mia, come sono attristato dal tuo male. Anch’io dal tuo silenzio ero turbato, tanto
più che neppur i miei m’hanno scritto. Dicevo: Come tanta dimenticanza? Poi pensavo che forse tu aspettavi il seguito alle
tue cartoline, e mi rinfrancavo, ma sempre con un po’ di cruccio, per l’ostinato silenzio di tutti, amici e parenti, in questa ultima settimana. Ho sempre un po’ di posta; ora sono stato per
parecchi giorni un derelitto. […] T’ho mandato ieri la solita cartolina per annunciarti la solita visita e rassicurarti circa gli effetti. Da che son qui è stata l’incursione più infocata. Abbiamo
molto sparato e visto, qua e là per Venezia, intempestivi falò.
[…]
Io vorrei che tu mi scrivessi almeno una cartolina ogni giorno
per rassicurarmi; ma forse pretendo troppo da te malata?
Vorrei che tu potessi farlo e temo che, facendo, potesse venirtene aggravamento. D’altra parte, se tu non mi scrivi, io sto in
dolore e preoccupazione. Dimmi, o fammi proprio dire di che si
tratta. Rimettiti, poi va al mare o va in campagna; ma rimettiti
sana e lieta. Non ti preoccupare scioccamente per me; non
darti pensiero di qualche brutto episodio di cui mia madre è
stata cagione. Perdonami e perdonale il dolore che ti abbiamo
procurato. Vorrei asserti vicino e immaginarti vicina, come altre
volte che sei stata malata. Come penso con desiderio la poltrona che t’è viciona al tuo letto! Ecco io m’alzo in punta di piedi,
8-IIII-1917 (Pasqua)
Sono arrivato ieri sera, sabato, dopo un viaggio, come l’altro di
venuta, faticoso (3a classe, la classe, e molto, molto carro bestiame), all’accantonamento; stamani ho completato il mio
equipaggiamento e domani, lunedì mi presenterò al comando
del raggruppamento, cui sono destinato.: il 12 esimo. […] cara
desiderata frechina mia, le tue singolari virtù d’economia e d’abilità sono così preziose e invidiabili che io ci tengo a farle apprezzare. Del resto, tu che tieni tanto a che io sia pratico non
devi dolerti se sento e penso così; io compendio in queste tue
ottime e singolari qualità – quante ragazze potrebbero eguagliarti in ciò? – la visione della mia vita futura con te, della nostra casetta maritale o, se prima così a da essere, della mia vita nella famiglia tua. Dunque sta salda e contenta al mio affetto, al mio profondo e radicato amore e non ti turbino pensieri
tristi e dubbi, lascia perdere le stranezze assurde di mamma,
come quelle dell’altra sera; io la rispetto, ma passo oltre alle
sue bizze: fa pure tu così. Non credere che essa s’imponga a
me più del ragionevole: vedessi l’altra sera com’io trattavo il
suo sragionare. Rispettarla, ma non subirla. Forse ci si separò
troppo a precipizio, mentre io potevo ancora rimanere un poco;
ma fu bene che venissi via; risparmiai a te e tua madre una più
profonda commozione e diedi tempo a mia sorella di fare alla
giubba l’accomodatura del collo. Ora mi va benissimo. […]
Sappi che io ti voglio bene come a ciò che ho di più caro con i
miei, e fra questi e te non ci può essere in me contrasto alcuno,
anzi, tu hai diritti, oramai, superiori a ogni altro, per me. Capisci
che vuol dire: ti voglio bene? Pensa ciò che di più dolce e caro
puoi immaginare; esso è per te.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
A
Arruolamento
RODOLFO FRIGERI
La caserma e le sue regole portano un soldato spoletino a un
generale malessere, che sfocia in mal di gola e in febbre alta.
Nel suo diario Rodolfo racconta il trasferimento in ospedale, il
tremore, la paura di morire che viene superata grazie alle attenzioni di altri soldati. Quindi la visita e la speranza di evitare
l’arruolamento: non gli sarà possibile, ma alla notizia di cinque
giorni di licenza esplodono gioia e contentezza.
19.12.1915 Domenica
Scrivo dall’ospedale del celio-Riparto misto letto 31°.
Seguito al diario del giorno 16 di Giovedì.
Dopo cenato mi ritirai in caserma, la nottata passò così così
scrissi a Ada e l’impostai il giorno 17. La mattina facemmo l’istruzione interna, ossia ci spiegarono i regolamenti del soldato.
Poi ci fecero cambiare camerata dal 1° piano siamo andati in
un corridoio al 3° piano col N. di 72 letti figuratevi che chiasso:
Gigetto sta insieme a me come pure Aglini, il rosario non si disse. Dopo pranzo l’istruzione sotto il colosseo ma pochissimo
facemmo. Dopo l’uscita andai in Via Emanuele Filiberto a trovare Ida Ghilardi e fu assai contenta. La sera cenai da Giulia. La
notte del 17 mi sentii male alla gola, la mattina del 18 marcai
visita e essendo donzillite mi hanno mandato qui al Celio. La
febbre a 38½ entrai alle 11. Ero un po’ sconfortato, quando stavo sul letto che tremavo dalla febbre, senza coperta lenzuoli
nessuna conoscenza, il soldato mi si avvicinò e in un modo così
villano mi offese perché stavo sul letto. Fui preso dal convulso
e pianto. Mi sembrava di crepare allora. Corsero altri soldati, mi
confortarono mi portarono del brodo -latte-, fecero chiamare
Tonelli, venne qui verso le 5, gli dissi di dire a Dante che fosse
venuto a trovarmi. La notte del 18 non ho dormito quasi mai,
chi sognava, chi camminava, e poi tuoni e acqua a dirotto.
Scrivo adesso sono le 9 del 19 è Domenica, ho una pena devo
star qui solo solo, ho passato la visita e nessuna risposta mi ha
dato. Almeno potessi ritornare a casa per Natale! Sto sconfortato, prego, prego, Iddio mi aiuterà.
seguito ore 9 del 20) la giornata è passata così così, pregando
trovo tanto conforto, solo mi urta molto che resto qui senza alcuna notizia ne di casa, ne di Gigetto, Dante non è venuto. Alle
3 circa ho fatto l’analazioni alla gola, ho trovato giovamento,
poi verso sera gargalismi con colluttorio. Ha piovuto tutta la
giornata… Ho scritto alla maestra ma non si trova il verso d’impostarla, sono andato a letto alle 5½, ho riposato bene questa
notte, il respiro va molto meglio. Durante la notte non ha fatto
che piovere dirottamente con tuoni e forti.
Giorno 20 - Tempo brutto piove dirottamente
Mi sono alzato alle 7½, la gola sta un po’ meglio mi faccio del
tutto per star bene. Ho passato la visita e il Capitano Fioriratti
mi ha dato 5 giorni di riposo e poi stasera alle 5 esco. Mi ha
procurato contentezza questa notizia, e se poi mi daranno altri 5 giorni di licenza alla caserma vado subito a casa. Iddio mi
ha aiutato anche questa volta, e spero anche per l’avvenire.
Scrivo adesso sono le 10 – e piove dirottamente. Ho l’animo
contento – sono calmissimo.
Seguito dalla caserma Vittorino da Feltro) Il resto della giornata passò benino. Ero sopra il letto quando mi vedo vicino Tito
Bussotti e un altro di Bevagna. Fui contento vederlo, mi portò
a trovare Muzio e parlammo a lungo. Alle 2½ mi fecero di nuovo rivestire, poi andai a trovare Tonelli, e mi consigliò di uscire
e dormire fuori. Avevo una gran tosse e così pensai di andare
da zia Marietta. Trovai la lettera della Sartolli, da 4 giorni era
lì, zia Armenia viene il 22 – Andai a dormire, feci una forte sudata contro la tosse. verso le 9 arrivò zio Filino, mi addormentai un po’ appenato pensando l’avvenire. La nottata è passata
benino.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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A
Austriaci
UBALDO BALDINOTTI
Nato a Firenze nel 1890, Ubaldo Baldinotti per aiutare la
famiglia deve abbandonare lo studio e lavorare prima presso
un orefice, poi con il padre calzolaio. Nella sua autobiografia
ripercorre gli anni che vanno dalla chiamata alla leva militare
fino al ritorno a casa, nel 1919. Nel 1915 viene richiamato e
destinato alle trincee del Carso. Il senso della disciplina, del
dovere, del sacrificio e della lealtà verso la patria si incontra e
si scontra con lo spirito di fratellanza e solidarietà nei
confronti del nemico, in particolare verso due soldati austriaci
che, nascosti in una grotta, si tengono per mano.
[1916] Ci trasferimmo in un paesetto oltre il Passo Rolle, che si
chiamava Mezzano e ci alloggiarono nei locali delle scuole.
In questa località ci trattenemmo diversi giorni, e lì si fecero i
preparativi per sferzare un altro attacco, e conquistare una posizione, sulla cima di un’altra montagna chiamata la cima del
Gardinal.
Partimmo dal paesetto che erano le due di notte […] e incominciammo a camminare per certi canaloni che andavano a finire
sulla cima della montagna, ma disgraziatamente per noi, proprio,
nel canale dove noi camminavamo, fù fatale il trovare un piccolo
posto messo dal nemico, che era fatto con una tenda, ed era
composto da quattro soldati che erano li come posto avanzato.
Dei componenti il piccolo posto tre furono catturati prigionieri,
ma il quarto riuscì a sfuggire alla cattura, e fece appena in
tempo ad avvertire, quelli che presidiavano la cima della montagna; questo fù per noi fatale perché principiava appena a albeggiare, quando giungemmo sotto la posizione nemica […] vedemmo che i primi soldati Austriaci che si affacciarono sul costone, erano ancora in maniche di camicia, e se il soldato che
faceva parte del piccolo posto, fosse stato da noi catturato, […]
con facilità il nemico sarebbe stato colto di sorpresa, e non
avrebbe avuto il tempo di organizzare la difesa, e forse non
avremmo avuto bisogno, di sparare […].
Invece quell’unico soldato che riuscì a fuggire, fù la nostra disgrazia perché quando giungemmo nelle vicinanze della vetta,
oltre agli spari dei fucili e delle mitragliatrici, si fù investiti da
una scarica di grosse pietre, che rotolando giù dalla cima della
montagna, e che ruzzolavano per la ripida discesa, travolgendo
nella sua folle corsa, tutti coloro che si trovavano sul suo cammino, rimanendo investiti, e infatti ci furono parecchi feriti, e
qualcuno in modo assai grave, e anche qualche morto.
Il nostro comandante di battaglione, sospese l’avanzata perché,
data la situazione, e vista la impossibilità di conquistare la cima
della montagna, sarebbe successo che avremmo subito molte
perdite, senza poter raggiungere lo scopo, che egli si era prefisso dare battaglia e raggiungere la posizione del nemico. […]
Una mattina mentre una nostra pattuglia era in perlustrazione,
a una certa distanza dalla nostra posizione, in una piccola
grotta trovò nascosti due soldati Austriaci, che erano feriti ma
da ferite leggere, uno era anziano e aveva una lunga barba già
principiava a diventare biancastra, mentre l’altro era molto giovine, avrà avuto appena diciotto anni, il più anziano ne avrà
avuti oltre i cinquanta.
Quello più anziano aveva una piccola ferita a una mano mentre
il più giovine che pure era ferito ma non gravemente aveva una
piccola ferita sulla guancia destra, però i componenti la nostra
pattuglia, rimasero meravigliati circa il comportamento, che
avevano questi due prigionieri, perché si erano presi per mano,
e non ci fù verso di fargliele staccare, il sergente che comandava la pattuglia, non fù aspro ne cattivo, verso questi due prigionieri, e disse anzi con buone maniere ai suoi soldati, lasciateli
fare noi li porteremo al comando, e la si saprà il perché e ci
sarà l’interprete che li interrogherà e cosi scopriremo perché
essi si tengono stretti per la mano.
Furono portati al comando e il capitano medico gli medicò le
ferite, e confermò che erano ferite assai leggere, gli fù dato da
mangiare perché avevano molta fame, dopo poco arrivò al comando un tenente, che parlava e capiva bene il tedesco, e principiò a interrogarli, a un certo punto esclamò! Ecco chiarito il
perché si tenevano cosi fortemente stretti per la mano, sono
padre e figlio il padre ha 53 anni il figlio ne ha appena 17.
A noi soldati Italiani quando, passati pochi minuti, questa notizia venne fatta conoscere, a tutte le compagnie, facevamo a
gara e correvamo al comando e tutti portavamo qualcosa a
questi due prigionieri, chi portava una mezza pagnotta, chi
qualche pezzo di cioccolata, altri offrivano sigari e sigarette, e
anche gli ufficiali portavano qualcosa, e tutti senza distinzione
di grado ne di regione, dimenticando in quel momento, che essi
non erano due soldati nemici ma erano solo due esseri umani,
che disgraziatamente come noi, erano stati mandati a combattere e far la guerra, anche contro la sua volontà.
24
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
B
Bainsizza
ANTONIO DE MARIA
Un generale in pensione, nato a Vieste (Fg) nel 1899, rievoca la
Grande Guerra cui prese parte giovanissimo come volontario.
Realizzato il sogno di essere inviato nella zona di conflitto, è
testimone della disfatta di Caporetto ma anche dell’offensiva
che portò alla vittoria finale. Qui rievoca la celebre battaglia
della Bainsizza.
[1917] Il nostro settore in quei giorni sembrava un tranquillo
posto di villeggiatura, dove il verde cupo dei boschi si alternava
al verde chiaro dei prati.
Due volte al giorno si andava a turno in fondo ad un piccolo avvallamento a far rifornimento d’acqua, che attingevamo da una
polla ai piedi di una roccia, dalla quale scaturiva limpida e fresca. Di laggiù si poteva osservare il massiccio della Bainsizza
con i suoi fianchi boscosi, che scendevano verso l’Isonzo.
Quello sarebbe stato fra pochi giorni l’obiettivo della nostra
grande offensiva ed il bersaglio dei nostri tiri.
La sera prima dell’inizio dell’azione, Carreri ed io, raggiungemmo l’osservatorio della Sezione, dove appunto eravamo stati
destinati. L’osservatorio, ricavato nella spaccatura di uno sperone di roccia che s’affacciava sulla valle dell’Isonzo, era piccolo e stretto […].
Il tenente in fondo, davanti alla ferritoia, col suo binocolo, il
taccuino, la matita ed il prontuario dei tiri; io attaccato al telefono e Carrieri, guardiafili, vicino all’ingresso per essere pronto ad uscire in caso d’interruzione della linea.
In quel buco saremmo rimasti […] tre giorni, tanti quanti ne
erano stati previsti per il fuoco di preparazione dell’attacco.
Alle quattro del pomeriggio dell’indomani ebbe inizio il poderoso bombardamento delle posizioni nemiche. Anche noi aprimmo il fuoco. Il tenente mi passava i dati ed io li comunicavo alla
Sezione.
Le nostre bombe alate passavano rombando sulle nostre teste.
Noi le vedavamo, perché avevano una velocità ridotta, e ne seguivamo la traiettoria, attraverso la ferritoia, fino al punto
d’impatto col terreno.
Nel pomeriggio di quel primo giorno di fuoco una bomba, partita da un pezzo della nostra Sezione, venne a cadere a non più
di quindici o venti metri dall’osservatorio. L’esplosione fu formidabile ed il nostro piccolo rifugio ebbe uno scossone come
se fosse stato l’epicentro di un movimento tellurico. Sentimmo
cadere sulla debole copertura dell’osservatorio sassi e terric-
cio. Ci guardammo stralunati. Cos’era successo? Il tenente controllò i dati: niente da dire, erano esatti.
Allora con la sua calma abituale mi disse:
Sentiamo cosa dicono quegli incoscienti in batteria.
Girai la manovella della chiamata e presi il microfono.
Pronto? Ma dite un pò: siete matti? Volete farci fuori?
Perché, cos’è successo?
L’ultimo colpo che avete sparato ci è caduto quasi in testa.
Breve interruzione; sentivo che il mio collega all’altro capo del
filo parlava con qualcuno. Poi la sua voce:
Che cosa vuol dire quasi in testa?
Vuol dire che la bomba è caduta ad una quindicina di metri da
noi e nel nostro ricovero c’è stato il terremoto.
Altra breve interruzione, poi il mio collega riprese a parlare:
Il capo pezzo dice che è impossibile che sia stata una nostra
bomba. Lui è vecchio del mestiere. Sarà vecchio – risposi – ed
anche rimbambito, credo, perché da quando hai detto “colpo
partito” abbiamo contato i secondi, ma non siamo arrivati
neanche a metà della solita conta e la bomba ci è caduta vicino, sulla nostra sinistra.
Il tenente mi prese il microfono e raccomandò al suo collega in
batteria di sorvegliare meglio il tiro dei suoi pezzi. Dopo, Carreri
ed io scoppiammo a ridere come matti […]. Il tenente fingeva di
essere assorto nei suoi calcoli, ma rideva anche lui sotto i baffi. […]
Nel pomeriggio del terzo giorno Carreri ed io eravamo in
Batteria, quando arrivò l’ordine di sospendere il fuoco.
Il tenente Baldini ci disse:
Ahi, ci siamo, ragazzi. Adesso viene il brutto. Fra poco sentirete
che musica ci suoneranno quegli altri.
[…] Restammo in silenzio aspettando la reazione nemica.
Questa non si fece attendere molto. Un uragano di fuoco si rovesciò improvvisamente su tutto il nostro schieramento.
Sentivamo sulle nostre teste l’ululato dei proiettili dei grossi
pezzi nemici che andavano a colpire bersagli lontani, mentre
intorno a noi era un susseguirsi di esplosioni che scuotevano
paurosamente i nostri ricoveri.
[…] L’indomani l’alba si presentò ai nostri occhi con una visione
di tragico squallore: tutte le pendici della Bainsizza erano letteralmente bruciate, tutto il copioso manto di verde che le ricopriva era stato distrutto dal nostro bombardamento. Non era rimasto un solo albero né un solo cespuglio.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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B
Bersaglieri
ANNIBALE CALDERALE
Annibale Calderale, pugliese di Monopoli, divenne sergente dei
bersaglieri, ma dopo Caporetto fu fatto prigioniero e deportato
in un campo di prigionia vicino al confine con la Russia. Al ritorno in patria dovette difendersi dall’accusa di tradimento
formulata dalle autorità italiane. In questi brani unisce la descrizione minuziosa delle asprezze della caserma con quella
orgogliosa dell’addestramento dei “Bersaglieri” sempre scritto
con la B maiuscola.
Giugno 1915
La vita del bersagliere è dura e faticosa si va sempre a passo,
veloce, spesso di corsa, si percorrono grandi distanze sempre
con lo zaino affardellato; si fa ginnastica ed ogni giorno l’abituale corsa regolamentare di circa un’ora (56 minuti) a passo libero. Detta corsa si inizia a cadenza normale e si finisce a grande velocità da far perdere il fiato. Nei primi tempi qualche
Bersagliere non regge a detta corsa e si ferma o cade a terra come un corpo morto. Con il tempo però tutti si abituano. Vale l’allenamento. Si gronda sempre sudore. Quasi tutti i Bersaglieri,
nonostante gli sforzi, le fatiche, le intemperie a cui sono esposti
godono di eccellente salute. La massa dei Bersaglieri proviene
da contadini perciò tutta gente forte, robusta, ben piantata: allenata ad una vita dura e disagiata. A Napoli i Bersaglieri sono
molto ben visti dalla popolazione e rispettati. […]
Vi è la squadra comandata da un caporale «squadra di giornata» composta da 3 o 4 uomini. Addetta alle pulizie dei cortili,
scale, cesso della Caserma. Il cesso è composta da una stanza
con buche. (alla Turca) che alla mattina sono sempre otturate
ed il pavimento coperto di uno strato di rifiuti di circa 10 cm. È
cosa trementa pulire e mettere in ordine il cesso. si rivolta lo
stomaco. Le camerate vengono pulite tutti i giorni. i pavimenti
di detta lavati con creolina, le mura passati di uno straccio imbevuti di petrolio acceso eppoi imbianchiti, una volta la settimana, ma ci sono sempre gli insetti (cimicie). La sera quando si
rientra da un permesso serale alle ore 23 o 24, si sente nelle
camerate un tanfo insopportabile di sudore e di altri malodore
che non so descrivere. […]
Di tanto in tanto si va al tiro al poligono di Bagnoli. Io sono un
discreto tiratore, parecchi volti ho fatto 5 centri su 6 pallottole.
Qualche volta durante il tiro scoppia la canna del fucile provocando lesioni alla guancia del tiratore.
Luglio 1915
Abbiamo prestato giuramento, siamo diventati soldati completi
assumendo tutti i doveri. Si comincia a montare la guardia; […]
Sono arrivati i richiamati classe 1882, noi li chiamiamo i vecchi,
hanno avuto appena il tempo di vestire la divisa, sono subito
partiti per il fronte.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
B
Bicicletta
LUDOVICO CAPRARA
Nato ad Atri (Te) nel 1894, Ludovico scrive la sua memoria alla
fine della guerra: racconta l’eroica resistenza opposta al dilagante esercito austro-ungarico, dopo la disfatta di Caporetto,
dal 4° Reggimento Genova Cavalleria e si sofferma sulla sua
tenace e coraggiosa attività di ciclista portaordini tra i vari reparti.
Dopo il rancio mi si presenta il capitano e mi domanda: Sai andare in bicicletta? - Signorsì – Allora presentati subito al
Comando. Mi presentai al Comando e fui nominato ciclista allo
Stato Maggiore. Mi sembrò una nuova vita, si portava ordini ai
reparti in bicicletta, eravamo in 6, ma io ultimo arrivato dovevo
sgobbare di più ed io volevo attirarmi la benevolenza degli ufficiali e dei compagni. Così quando di notte si doveva andare
fuori, toccava a me. […]
Il 13 agosto 1915 il reggimento fa la prima tappa a Morsano al
Tagliamento. Io sono passato al nucleo ciclisti, non ho alcun allenamento, specie con la bicicletta affardellata, non posso far
capire ai compagni che non sono provetto, poiché appartengo
allo Stato Maggiore, quindi me la cavo con molto disagio ma
non ne posso più, vado a terra e faccio succedere un mucchio
di uomini e macchine, tutti si rialzano e rimontano, io ho un pedale storto. Il meccanico Vergani che segue in coda si compiace dell’accaduto e ci fermiamo a riparare la bicicletta. Il 15
agosto 1915 arriviamo a San Donà di Piave; durante la permanenza facciamo manovra a Musile, Oderzo, Noventa di Piave,
Ceggia, Torre di Mosto, Portogruaro e Fossalta di Porro ecc.
La guerra imperversa e noi stiamo troppo bene. Dopo tre mesi
in zona di operazioni ci sembra un Paradiso, ma non può durare
a lungo. Io sono sempre ciclista portaordini al Comando di
Reggimento, i miei compagni sono: Aldani Angelo Pieretti
Anacleto, Romolo Castiglioni Guarinoni Giuseppe, Gasparini
Giovanni Chiorboli Giovanni.
Il Comando di Brigata era a Fossalta di Portogruaro (40 km da
San Donà) quando si guastava la motocicletta erano noi ciclisti
che doveva fare lo scambio di corrispondenza, a me mi è toccata più volte fare 80 km partendo la sera alle 7 e rientrare al
mattino seguente. […]
Una tabella indica: Sei Busi quota 118. Dovunque proiettili inesplosi, reticolati ma soprattutto croci di legno grezzo. Sono comandato di avvisare le cucine che il rancio deve essere pronto
alle dieci. Ma dove sono le cucine? I portaordini deve saperli
trovare e io li trovai; a circa 100 metri in un valloncello. Si scivolava come camminare sul sego, l’anticamera era una trincea
e ogni feritoia un moschetto, più oltre una grotta, un vero inferno. Fuoco e fumo facevano bollire le marmitte con la carne, ma
il fumo dava all’occhio al nemico e perciò i srapnels piovevano
sulle cucine. Dopo pochi giorni le cucine furono trasferite più
lontano e non assieme ma ognuna per proprio conto. I cucinieri
dello Stato Maggiore si chiamavano Baldin e Bandinelli, mentre
l’uno confezionava il rancio, l’altro andava a Pieris alla spesa
viveri, avvenne che trovandomi presso di loro il Tenente di
Vettovagliamento mi comandò di scorta ai viveri e giornalmente dovevo recarmi assieme ad altri a Pieris in bicicletta.
Il Comando di Genova Cavalleria è a pié della infernale collina.
Dopo qualche giorno si trasferisce alla Cava “L” poco distante
dalla… M a circa 20 metri più sotto ci sono i baraccamenti per
100 uomini e vicino a questi c’è una semplice baracca di legno
dove deve servire per deposito di viveri per un giorno dello
Stato Maggiore. Quindi io e i due cucinieri siamo alloggiati in
questa baracca. Tutti i giorni devo recarmi a Pieris in bicicletta
assieme agli altri addetti al Vettovagliamento. La strada è continuamente battuta dal nemico e noi ciclisti procediamo a 50
metri l’uno dall’altro. A Pieris ci sentiamo allegri e felici ma il
breve momento passa veloce e appena i carri sono carichi rifacciamo la strada verso Vermegliano. Presso Ronchi il Tenente
con la rivoltella in pugno ci fa sfilare a lunga distanza finché
ognuno ritorna alla tana assegnata. Io mi sento scoppiare desiderio di raggiungere i compagni, mi sento solo e devo sopportare un lavoro superiore alle mie forze.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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27
B
Bombardamento
ERCOLE VARI
Un telegrafista della provincia romana si trova nella laguna di
Venezia sotto i bombardamenti austriaci. Nel suo diario ne
racconta la pericolosità con dettaglio e con una certa eccitazione, mettendo a contrasto il rischio corso e il coraggio dimostrato, l’ordine di restare al coperto e la voglia, un po’ sconsiderata, di uscire a vedere.
15-5-916
Mancano i telegrafisti poiché 2 ne sono a Venezia sicché sono
costretto a starmene tutto il giorno in ufficio. E sicché in certi
momenti non si arriva; mi stanco maledettamente. La sera dopo mangiato me ne vado al Caffè però in compagnia di Beretta
vado a fare una passeggiata lungo i vigneti. La sera è invidiabile, si gode e si respira a pieni polmoni; tanto è vero che noi ce
la cantiamo giocondamente, non curando il rumore degli uccellacci che si crede siano nostri. Intanto con grandi giri e con
grandi archi si avvicina alla Cavazuccherina. Si sente un allarme, ma non prevedo che qualche cosa succeda. Pian piano siamo diretti nuovamente al Caffè quando davanti al Municipio il
rumore dell’areoplano si fa tanto basso che ne sento lo spostamento dell’aria a terra. In un attimo si abbassa, butta una bomba quindi si rialza e segue il suo giro. Non so cosa è successo.
Ho inteso solamente un formidabile scoppio, dei pezzi di granata scivolare, sono stato abbagliato da una vampa momentanea, mi sono sdraiato immediatamente attera per essere libero
ed offrire meno bersaglio, quindi come se nulla fosse stato me
ne andavo al Caffè quando presso il ponte incontrato il
Colonnello Gherardini che ci ha mandati nelle nostre camerate.
Sono andato di corsa e non appena entrato in Ufficio ove regna
una confusione babelica, eccoti un colpo stragrande, una fiammata, uno stritolare di vetri, un grido soffocante, una colonna
di fumo. L’agitazione è al massimo. Tento di uscire per soccorere nel caso di bisogno, ma mi viene vietato. L’ordine del Sig.
Colonnello è esplicito e non si ammettono trasgressioni. Viene
poscia il Colonnello e manda ciascuno in camerata.
Quantunque a malincuore ci andiamo. Entrando noto che nella
mia camerata si sono rotti due vetri. Intanto andiamo a calmare le persone del vicinato che sono trepidanti. Il rumore degli
areoplani è cessato. Vado a vedere la casa colpita. È la segheria Baffi. È divenuta un macello. Le porte, le finestre, il tetto, i
piani, le tavole sono diventate un mucchio di stracci buttati in
un angolo. Fa veramente pietà. Al ritorno vedo varî ufficiali, e
per non avere delle osservazioni salto un muro e rientro in
Ufficio. Non ho avuta la minima paura. Mi sono mostrato veramente calmo. Andiamo a letto tardissimo dopo fatti i più grandi
commenti. Si è assistito alla guerra per circa 2 ore, e ne sono
contento.
16-5-916
Si vengono a sapere più ampi particolari sulla nottata ripiena
di spavento. Un soldato del 4° Genio Lagunare è stato ferito da
schegge di granate e trasportato immediatamente
all’Infermeria. Le bombe buttate sono moltissime. Presso la
Chiesa ha fatta una buca grandissima, vicino la Posta lostesso,
molte sono andate in acqua, una presso il Presidio di
Cavazuccherina. L’unico danno è quello della segheria Baffi che
è stata quasi completamente annientata. Però le bombe le
hanno buttate per tutto il percorso e la squadriglia deve essere
stata di un numero considerevole. A Ca’ Porcia, a Ca’ Paziente, a
Cavallino Ca’ Vio, Treporti ovunque, quest’ultimo forte ha sostenuto un attacco eccezionale. Ma la bomba è caduta su di un
burchio carico di fieno; per fortuna non ha esploso però annegava ugualmente se non fossero accorsi i soldati della 3
Disciplina che lo hanno liberato. A tale scopo il Generale Rossi
ha fatto alla predetta Compagnia un encomio solenne. A
Caposile una bomba è rimasta inesplosa. Non si sono accontentati gli Austriaci di questa notte, ma anche questa mattina un
continuo segnalare di areoplani nemici dirigentesi parte su
Venezia, parte su Treviso. Tutto il giorno un lavoro eccezionale.
Me ne resto tutto il giorno in Ufficio poiché non vi sono telegrafisti. La sera ritornando un mio collega da Venezia ci racconta che
c’è stata un’ora di ira di Dio. L’attacco si è ripetuto per ben 3 volte
con accanitezza singolare. Lo scopo della visita poco gradita è
stata poiché si trovava a Venezia la Regina Elena e non risiedeva
al Palazzo Reale ma bensì all’albergo Danieli, lì precisamente
che si concentrano le bombe. Poscia se ne vanno a Mestre ed
anche qui tentano di rovinare la stazione. Questa mattina la regina è partita per Udine e gli areoplani sono andati a Udine per
bombardare il treno reale. Sono informati troppo bene questi figli di cani. La sera ho la testa piena, vado a farmi due passi.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Renzo Re - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Il Colbricon (Tn), teatro di accesi scontri nel 1916.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
Luigi Coeta - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Il ponte sull’Isonzo abbattuto dalle incursioni aeree nemiche.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
C
Campi di concentramento
FRANCESCO ISOLA
L’autore racconta la guerra nell’Isonzo tra il 1914 e il 1918, la
prigionia in Westfalia e le sofferenze patite in diversi campi di
concentramento in cui viene deportato: fame, freddo e soprattutto dolore per la lontananza dai suoi cari.
[Ottobre 1917] E così dopo 20 ore d’ininterrotto camino, dopo
un giorno e quasi due notti senza cibo, bagnati fino alle ossa,
dopo tante peripezie, qual sollievo il trovarsi lì in un campo
aperto, sotto il manto di una fitta pioggerella, riscaldati da un
rabbioso vento nordico, lì senza alcun ristoro, senza nemmeno
un pezzo di suolo per poter adagiare le nostre stanche ossa!
“Oh, bel suolo d’Italia dove sei!” più volte esclamai.
Il freddo, la stanchezza, la fame ognor crescente, dominarono
le mie energie e dopo aver cercato invano un rifugio, mi sentii
venir meno e caddi per raggomitolarmi a terra; cercai di prender sonno, ma anch’esso era fugato dal dolore, dai ricordi:
quanti e quanti ricordi passarono per la mia mente, quante rievocazioni, quante lacrime affiorarono sulle mie ciglia infossate,
quanti singhiozzi amaramente repressi rattristarono il mio povero cuore sfinito e fiacco.
Forse dormii, ma era un sonno sconvolto, era una visione continua di cannoni, baionette, di morti, anime di compagni che mi
apparivan per implorare forse una preghiera, per mandare ancora un ultimo addio.
[…] Per prima cosa i tedeschi ebbero cura di dividerci dagli altri
prigionieri racchiudendoci in un angolo del grande campo bene
separati da una forte cinta di rete metallica; e così per 40 giorni ci sottoposero a molte visite mediche, punture, bagni e disinfezione panni.
Giorni questi di grandi torture, riducendoci ben presto ad un
nuovo esaurimento per l’insufficiente alimento.
Quale era il nostro alimento quotidiano? Una broda nerastra insapora composta di pezzettini di carote ed acqua, acqua di
fonte e null’altro assieme.
Qualche volta ci davano invece una bevanda con un miscuglio
d’una farina color caffè, la qual farina, al par della sabbia calava rapidamente sul fondo dei recipienti.
Un unico mestolo di questa denominata “sboba” era per due
volte il nostro miglior cibo giornaliero.
Ci davan sì alla mattina il caffè, un liquido color tintura di jodio
nauseante né più né meno dell’infuso di Vienna, tanto ripugnante che nessuno di noi nemmeno l’assaggiava.
Ed il pane! Mio Dio quale oltraggio alla miglior provvidenza della natura!
Il nostro pane non era altro che un conglomerato chissà di quali selvagge sostanze, una pasta cruda anch’essa color tabacco,
attaccaticcia, tenuta insieme da una crosta nera in carbone,
crosta bruciata superficialmente da una repentina cottura.
[…] Dopo qualche settimana dal nostro serraglio dei compagni
più audaci, approfittando d’un momento di distrazione delle
rassegnate sentinelle, tentarono, e parecchie volte riuscirono, a
scavalcare la cinta metallica che ci separava dagli altri prigionieri alleati, portandosi così alla ricerca di cibo.
Ma una notte, una sentinella forse questa dal cuore più crudele, colse un compagno al varco: la baionetta dell’inumano si
bagnò di sangue!
Cadde esanime a terra quell’infelice compagno; cercammo di
raccoglierlo, ma fummo brutalmente ricacciati nella nostra baracca: solo attraverso la finestra potemmo vedere un gruppo di
quegli armati raccogliere quel corpo e portarselo via; una larga
chiazza di sangue diceva che doveva esser stato ferito gravemente.
Morì esso? Nulla si poté sapere di quella povera vita così brutalmente straziata per una colpa il cui fine non era altro che l’elemosina di un po’ di pane.
[…] E così, lontani dal mondo, separati da ogni vita, accoglievamo quei raggi di sole come fossero angeli che portano un po’ di
calore, un po’ di vita e nulla vi era di più.
Anzi, ad aumentare il più triste degli sconforti piombò sul cuore
d’un piccolo gruppo di noi italiani la dolorosa notizia, cioè la
proibizione di scrivere alle nostre famiglie, ai nostri cari.
Ma se i nostri territori eran sotto il dominio loro? Vane proteste!
E mentre attendevamo nuove dai nostri cari, le nostre prime lettere ritornavan invece respinte. E nemmeno nell’Italia, noi figli di
profughi per definizione d’indirizzi potevamo scrivere.
Qual indicibile dolore provammo noi, dalle terre insanguinate, a
non poter dire alle nostre mamme: “coraggio, siamo ancora vivi”,
non poter ricevere da loro una parola di conforto, qualche nuova.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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C
Caporetto
ROCCO EGIDIO DE BONIS
Un giovane ufficiale potentino tiene il diario di una carneficina
tristemente nota e pressoché annunciata. Saldi nello spirito,
ma fiaccati nel corpo, i suoi soldati resistono strenuamente all’avanzata nemica, inesorabile e impietosa. Cosa resta d’umano se vedere morire è peggio del morire stesso? Nessun cedimento, però, sembra trasparire dalle parole del diarista.
Nemmeno di fronte al venire meno di munizioni e all’interruzione delle comunicazioni con i comandi.
24 ottobre [1917]
La giornata di ieri è trascorsa tranquilla. I due eserciti sono rimasti immobili nella terra, muti; nessun colpo si è udito.
All’alba di stamane dalla parte di Gorizia giunge a noi soffocata
l’eco delle cannonate. Il tempo è triste e nebbioso.
Nel pomeriggio le artiglierie austriache divampano dal Faiti al
mare; le nostre rispondono debolmente. Due tentativi di attacco davanti alle trincee di Castagnevizza sono stroncati. Gli attaccanti, che procedevano compatti, non hanno avanzato che
di pochi metri. Colpiti dai tiri delle mitragliatrici e dei fucili sono stati costretti a retrocedere con gravi perdite. L’artiglieria ha
ripreso i tiri ed ora batte anche gl’imbocchi delle gallerie, gli
osservatorî e depositi, intossicandoli con gaz asfissianti e li intensifica nella serata e durante la notte, accanendosi in ispecie
sui camminamenti di accesso alla prima linea, che sono in
molti tratti crollati.
25 ottobre
Alle sette i rincalzi si recano in prima linea per rinforzarla.
Iniziamo subito la marcia allo scoperto sotto la raffica delle
granate, non potendo seguire i camminamenti franati. Sulla
epidermide sconvolta gli uomini vanno avanti curvi, senza fermarsi un istante.
[…] Il frastuono di miriadi di colpi sferza l’aria, i gaz avvelenano.
Uno shrapnel sibila ed esplode in alto, la raffica delle pallette
si abbatte su un gruppo di soldati che rimangono tutti feriti. Un
caporale ha la forza di attraversare di corsa la dolina e cade
fulminato vicino a noi. Ha gli occhi stravolti, le gote di un colore
rosso bleu e due rivoli di sangue gli scendono dagli angoli della
bocca. Una palletta di piombo, penetrata dalla fossa sopraclavicolare sinistra, gli avrà leso il cuore. Quale fenomeno! Colpito
a morte, ha avuto la forza di correre per oltre cinquanta metri. I
portaferiti lo depongono seduto con le spalle poggiate alla
scarpata di terra; non sembra morto, pare che dorma col capo
reclinato da una parte.
Ripigliamo la marcia in avanti. […] Sotto questo cataclisma faremo a tempo a batterci o cadremo prima di vedere il nemico in
faccia? È terrificante essere attori in un teatro di morte e di distruzione: pietre, ricoveri crollati, sacchetti di terra lacerati e
cadaveri si accumulano per ogni dove.
[…] Prima di appoggiarsi ad un dorso affiorante, fa duopo chiedere scusa ai morti, invocare la loro protezione. [cancellatura]
Quale artista del pennello saprebbe dipingere con verismo ed
efficacia un quadro così spaventoso? Le descrizioni di brutture
dei più famosi romanzieri impallidiscono a paragone di simili
orrori. Triste umanità come riduci i tuoi figli!
[…] Con la profonda visione di una brutta notte, che ravvolge
nel suo sudario di tenebre i miseri avanzi umani, si soffre tutto
ciò che Iddio ha creato per far patire l’uomo: freddo, fame, sete,
sonno e combattimenti contro una deità invisibile. A deprimere
il morale contribuiscono vieppiù le catastrofiche notizie che
pervengono dalle retrovie. I soldati sono a contatto di gomiti ad
attendere il cataclisma con calma, rinchiusi in se stessi, con le
facce smunte, sfinite e solcate da rughe profonde. Più che morire, per loro, è più brutto veder morire…
26 ottobre
Abbiamo trascorsa la nottata insonne sotto il fuoco avversario
che non ci ha permesso un po’ di tregua e l’alba di stamane è
l’alba di un triste giorno.
[…] Invio un biglietto al comando di reggimento (perché ignoro
dove sia quello di battaglione), al quale comunico che gli assalti nemici sono stati tutti respinti e invoco l’intervento dell’artiglieria. Nessuno risponde e nessuno aiuto viene ad arrecarci
conforto. È alle ore 23, invece, che ci perviene l’ordine di abbandonare la prima linea e di formarne un’altra più arretrata
nel camminamento di arroccamento.
27 ottobre
[…] Ho notizie che pattuglie nemiche avanzano da tergo e avverto i soldati di tenersi pronti per far fronte ad un nuovo assalto generale. Mi reco all’osservatorio per assicurarmi della
terribile notizia e infatti noto gruppi di uomini che dalla quota
278 si dirigono verso di noi. Siamo completamente circondati e
presto saremo travolti.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
C
Carso
ALFONSO ONOFRII
Un militare abruzzese ripercorre nella sua memoria le fasi del
difficile trasferimento sul Carso: racconta dei cecchini austriaci pronti a sparare in qualsiasi momento e offre, con lucidità e gusto per il dettaglio, uno spaccato della vita e del morale dei soldati costretti nelle trincee in attesa dell’attacco alle postazioni nemiche.
[1915] Nel giorno stabilito mi presentai al deposito del Reggimento, in Chieti, dove ritrovai altri compagni di corso e di scuola.
Dopo il giuramento, ci consegnarono in foglio di viaggio per
raggiungere il fronte.
[…] Il Comando del reggimento era a San Polo, un paesino ormai ridotto ad un cumulo di macerie, situato alla sinistra di
Monfalcone. Il reggimento era da pochi giorni in prima linea.
Per raggiungere tale località ci condussero in camion dalla stazione ferroviaria vicino al fronte, Staranzano, a circa 3 chilometri da San Polo. Ci indicarono la strada e ci raccomandarono di
camminare distanziati ed il più possibile al coperto.
[…] Dopo meno di due chilometri cominciammo a sentire il sibilo delle pallottole e ci rendemmo conto di essere stati scoperti.
Decidemmo perciò di abbandonare la strada per continuare il
cammino attraverso i campi, spostandoci sulla sinistra.
Quando il fuoco dei cecchini, così si chiamavano i tiratori scelti
austriaci, cessò, tornammo sulla strada e ci sedemmo sulla
spalletta di un ponticello, per prendere l’ultimo caffè, che un
collega aveva nel termos. Alcuni scoppi a pochi metri sulle nostre teste ci sorpresero e nel momento in cui stavamo osservando il fumo degli scoppi ancora sospeso nell’aria, un carabiniere ci invitò a ripararci sotto il ponticello, poiché eravamo
stati individuati; e aggiunse che si trattava di shrapnel e che
servivano per aggiustare il tiro dell’artiglieria. […] ci consigliò di
riprendere la nostra via solo all’imbrunire, perché il cammino
era molto pericoloso e ci esponeva a grave rischio.
[…] Quando riprendemmo il viaggio le pallottole fischiavano ancora con una certa frequenza, però con minore intensità.
[…] Incontrammo, lungo il sentiero che correva alla base del
terrapieno, degli accantonamenti di soldati del nostro reggimento, i quali ci indicarono il Comando, cui ci presentammo
verso le ore 19,30 della sera. Fui assegnato alla 11º Compagnia
del 3º battaglione.
Il capitano mi fece accompagnare da un soldato per raggiunge
re l’accantonamento dov’era il 3º plotone, di cui dovevo prendere il comando.
A questo punto dovrei riferire sulle mie prime impressioni ricevute arrivando al fronte. Dirò subito che vi si giunge senza provare scosse emotive violente, se si è consci di ciò che è la guerra e se si tiene presente lo stato di temerarietà che accompagna sempre la gioventù. Quindi, i primi sibili di pallottole, lo
scoppio di granate anche a pochi metri e le diverse e difficili
condizioni di vita non mi impressionarono e ciò fu un bene, perché conservai quella padronanza e quella serenità, che sono
indispensabili ad un ufficiale a essere apprezzato dai superiori
ed amato dai suoi soldati.
[…] Io ero nuovo alla guerra, però fin dal primo giorno cercai di
rendermi conto delle posizioni che occupavamo, dei reparti che
costituivano la mia divisione e della storia di quasi un anno di
guerra, in quel settore del Carso, che era considerato uno dei
più attivi.
[…] Nei pochi giorni di permanenza nelle posizioni di retrovia,
come truppa di riserva, non mi riuscì di carpire notizie sui programmi immediati che sarebbero stati assegnati al nostro reggimento.
Però i soldati sapevano che la prossima azione doveva interessare l’attacco alla posizione di Seltz, definita la vedetta del
Carso: infatti, era l’unica collina che non eravamo riusciti a
conquistare e, per la sua posizione avanzata verso il nostro
fronte, costituiva un ottimo osservatorio del nemico per le nostre retrovie.
[…] I primi giorni di fronte passarono in relativa tranquillità, pur
non mancando, specie di notte, estese fucilerie fra le opposte
trincee ed intensi interventi delle artiglierie.
[…] Intanto i soldati si preparavano alla prossima azione con
spirito di rassegnazione e passavano il tempo libero a scrivere
alle loro famiglie […].
In nessun caso notai in loro uno stato d’animo depresso, anzi
chiedevano notizie di tutti i familiari […] senza omettere un arrivederci presto. In quel periodo vi era la convinzione che la
guerra non potesse protrarsi ancora per molto tempo.
Purtroppo questa speranza si ripresentava spesso, apportando
illusioni e conseguenti delusioni.
Eravamo ormai alla vigilia dell’attacco e le nostre artiglierie aggiustavano i tiri sulle posizioni di Seltz tenute dal nemico.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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C
Censura
ACHILLE SALVATORE FONTANA
Achille Salvatore Fontana, giovane militare comasco, invia giornalmente alla famiglia lettere in cui alterna sue notizie a informazioni sulle battaglie a cui prende parte e agli spostamenti da
una batteria all'altra, a richieste di giornali e notizie dei suoi cari, sempre preoccupato per la censura e per gli affari di famiglia.
© Luigi Burroni
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
C
Civili
ISABELLA BIGONTINA
Nata a Cortina d’Ampezzo nel 1862, resta sola con tre figli piccoli nella casa di Belluno ove si sono insediate le truppe austro-ungariche per le quali fa da interprete, mentre il marito è
al fronte. Responsabile di una comunità, contribuisce alla soddisfazione dei suoi bisogni fondamentali, retta dalla fede in
Dio e dall’amore per la patria. Nel diario annota il suo impegno
quotidiano.
17 – giovedì – S. Antonio ab.
Oggi prima distribuzione di farina, a pagamento. Quante famiglie senza pane e senza polenta! […]. Come si andrà avanti? […]
Io cerco di essere gentile con tutti (con dignità, come dice don
Antonio) ma quando mi toccano l’Italia non ne risparmio una e
provo una soddisfazione incredibile a vedere come a volte debbano darmi ragione.
7 [gennaio 1918] – lunedì – S. Luciano prete
Vae Victis – proprio così. Sistematicamente ci espropriano di
quanto abbiamo. Oggi hanno preso gli ultimi due vitelli di Riva
– restano solo due vacche – per quanto tempo? A volte lo spettro della fame mi rende pensierosa – ma al solito mi rimetto
presto – il cannone tuona più che mai e mi dice di sperare.
Eppure ogni giorno la va un poco pezo, non tanto in casa chè gli
ufficiali attuali, presi individualmente non sono scortesi […]
25 – venerdì – Conv. S. Paolo
Proprio quando speravo ormai di passare qualche tempo in libertà, sono arrivati due battaglioni della divis. Edelweiss […] In
casa abbiamo 14 ufficiali più gli attendenti, cuochi, ecc.
Ho dovuto dare anche la cucina della Micca […] ci hanno promesso due porzioni di carne a pranzo e due a cena. Ci avevano
promesso dei dolci […] Ho ringraziato dicendo che preferivo un
po’ di pane e dobbiamo fare così, se vogliamo continuare ad
assistere tante persone […]
Eppure come piange il cuore nel dover mostrarsi cortese con
chi ritorna dall’aver combattuto contro i nostri figli! […]
– Dove sarà stato Bepi? Meglio non fissarci troppo il pensiero
ed affidare i nostri cari a Dio. […] grandi scioperi di Vienna – dal
18 non escono più i giornali.
9 – mercoledì – S. Giuliano m.
Il cannone ha tuonato tutta la notte con violenza –
Oggi corrono le voci più strane. Parlano tutti di ritirata dei tedeschi, ma io non mi illudo troppo – sarebbe troppo bello – mi
sembrerebbe di non aver sofferto affatto. Ah, come si è risvegliato in tutti un forte amore, un desiderio indescrivibile per la
nostra patria! Molti darebbero volentieri quel poco rimasto pur
di rivedere i nostri soldati! Eppure qualche cosa di nuovo ci deve essere!
11 – venerdì – S. Iginio papa
Che serata triste! Se fossi abituata a piangere su quanto ha distrutto la nostra quiete, verserei un torrente di lagrime.
[…] Ho fatto una lunga visita alla sig.ra Sgorlon che si è presa
in casa il cav. Barucchi, rimasto derubato di quanto aveva […]
Non ci rimane altro conforto che di aiutarci l’un l’altro. Parlano
di requisizioni che stanno facendo anche nelle case abitate di
biancheria, materassi ed altro. Possibile! […] Io spero ancora
che non sia vero. […]
15 – martedì – S. Mauro ab.
Come si va perdendo la speranza in una prossima liberazione!
Che cosa faranno laggiù? Finalmente ho potuto avere dei giornali […] Pare che tutta la Polonia sia stata dichiarata stato libero – e questo per la magnanima volontà dei due imperatori. […]
30 – mercoledì – S. Savina m.
Finalmente ho avuto un giornale! La situazione in Austria mi
pare tutt’altro che buona, […] Affretterà questo la fine del grande conflitto? […] In Russia tutto va di male in peggio. […] Sarà
meglio per noi? Fortuna che il giornale non parla affatto o quasi dell’Italia – questo mi fa sperare che nell’interno non vi siano
grandi agitazioni. Chi potrà ridire le ansie di ogni giorno?
Finalmente ci hanno dato kg. 90 di sale austriaco a cor. 0.50 il
kg. […]. Gran parte è già stato distribuito con Gigia a gr. 150 per
persona. Buona notte laggiù e Dio con voi!
17 [febbraio 1918] – Domenica – I Quaresima
Sono arrivate le truppe che aspettavamo. Ve ne sono da per
tutto […] Sono Honved – Ungheresi – dicono di essere sempre
stati amici dell’Italia, ma sono fieri, rudi quasi violenti se la
gente non cede. […]
Ma con che cuore vediamo arrivare tutta questa gente, che va
laggiù a combattere i nostri con la forza della disperazione. Dio
aiuti quelli che ci difendono.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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C
Crocerossine
ELISABETTA BERTI
Il diario della giovane crocerossina emiliana sembra rimandare
l’immagine di una guerra vista da dietro una finestra.
Impegnata in un ospedale militare di Caltrano che funge più
che altro da campo di smistamento dei feriti più gravi, la ragazza, in alcuni passi, sembra descrivere quasi con epicureismo gli eventi bellici che le scorrono davanti, vagheggiando sì
il ritorno ai luoghi natii nei momenti più duri, ma giungendo
anche a rimpiangere, una volta trasferita, i bei monti vicentini
e financo il fermento guerresco che li animava.
Caltrano 3 agosto 1917
L’ospedale è nel municipio (un gran palazzo), e ci siamo accomodate benino; dà sulla piazza ove è la fontana e quindi grande comodità di acqua. Nella piazza vi è pure la chiesa che ha
un altissimo e svelto campanile. […] La popolazione ci ha accolto con grande curiosità benevola e quasi ossequiente e la
prima nostra passeggiata ha avuto accoglienze talora commoventi: alcuni vecchietti ci hanno salutato con riverenza, e i bimbi ci hanno portato i fiori. Ci chiedevano i santini perché ci pensavano Suore!
4 settembre 1917
Ogni tanto si vorrebbe scrivere ciò che più appassiona l’anima,
ma un po’ la mancanza di tempo un po’ un timore quasi di se
stessi ci trattiene dal farlo. Questa vita è di sacrificio grande,
[per] la lontananza da casa e specialmente quando si sappia
che i propri cari vivono con l’anima in pena. Come si vorrebbe
volare da loro! E come si aspetta la posta! Essa diventa la più
grande attesa [del]la giornata e quando manca non si desidera
altro che di giungere presto al domani.
5 ottobre
[…] Avrei voluto tener conto di tutte le persone che ho conosciuto ma non l’ho fatto di mano in mano ed ora mi riesce più difficile. Intanto oggi che ho poco da lavorare proverò a riepilogare.
Comincio dall’unità.
Direttore. Il capitano Caccini, un bravo medico, come direttore
non ha polso e la carica gli è di peso; è anche piuttosto nervoso
e ha alcune fissazioni, specialmente contro la Croce Rossa. Ora
è stato avvicendato.
I Capi reparti Dott.r Rocchi e Dott.r. Pampiglione tutti e due romani. Il secondo è rimasto pochi giorni, era persona simpatica
e geniale. Il primo è un carattere prepotente che fino ad ora è
stato l’arbitro della riunione; pare abbia un po’ di simpatia per
la collega mia, la Bianca Gentili di Roma anch’essa. Mi sembra
che la simpatia vada accentuandosi; magari si combinasse un
matrimonio.
[…] I malati e feriti che si hanno assistiti si hanno in genere pochissime eccezioni fatto, specialmente dopo che siamo a
Caltrano vi è ordine ristrettissimo per ospitarli. E dispiace molto questo e specialmente se sono feriti di guerra gravi vengono
subito sgomberati negli ospedali dipendenti. Abbiamo spesso
operai borghesi e questi vanno dai 13-14 anni ai 77. Pochi giorni
[fa] in corsia avevo appunto un settuagenario e nei primi giorni
che ero a Caltrano ho avuto due maschietti, uno di 12 e l’altro
di 15 anni; erano stati feriti dallo scoppio di una mina. Il primo
era tanto tanto carino, e ogni tanto piangeva; bisognava proprio
fargli da mamma. Io gli chiesi “ma quando sei guarito ci vuoi ritornare sul Paù a lavorare?” e lui tutto spaventato agitando la
manina incolume mi rispose: “No no no! Voglio stare sempre a
casa mia”. È rimasto spaventato dallo scoppio.
15 ottobre
[…] Mercoledì parto e vado in permesso. Sono felice di riabbracciare mamà papà le sorelle e tutti i miei; da Nino ho avuto
oggi una cartolina da Cuneo ove mi dice che nell’ultima decade
di ottobre sarà certo in licenza e così io potrò stare con lui ed
ho preso le misure giuste.
[…] Il 17 di ottobre sono ritornata a casa e credevo di passarvi
una breve licenza, invece la nefasta sventura di Caporetto ha
troncato il mio servizio in Zona di guerra.
Vi ritorno solo il giorno 8 giugno 1918. Nello spazio ho prestato
servizio a Bologna ed ho lavorato anche per propaganda e resistenza patriottica.
8 giugno 1918
Sono arrivata alle 4 e mezzo a San Bonifacio ove ho raggiunto
la mia unità nuova, l’ospedale da campo 0.128. mi è stato immensamente duro il distacco da casa! Speriamo che il sacrificio possa essere compensato dal lavoro! […] Il 0.128 è specializzato per malarici e così il servizio sarà cosa tutta speciale. Il
paese ove risiede è tra Verona e Vicenza a sud della strada ferroviaria; non è niente di speciale, non ameno e non ridente.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Fanny Castiglioni - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Numerosissime furono le donne che negli anni del confitto si
mobilitarono per l’assistenza sul campo ai feriti in battaglia.
Le crocerossine, che popolarono i tanti ospedali e i punti di
soccorso sorti durante la guerra, con le loro cure riuscirono ad
alleviare almeno in parte le sofferenze dei soldati.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
D
Disertore
FRANCESCO MARCHIO
Le memorie di un falegname di Fiume che va in guerra richiamato dall’esercito austriaco, finisce due volte in Estremo
Oriente, combatte per austriaci e zaristi, infine scappa per raggiungere una donna russa innamoratasi di lui. In questo passo
Francesco Marchio ricostruisce in maniera vivida i tumultuosi
attimi della sua diserzione: la narrazione trasuda angoscia e
attaccamento alla vita più che retorica bellica.
Smontati dal treno, dopo due giorni di marcia, siamo arrivati al
fronte, era circa la mezza notte.
Erimo in piena offensiva, in una posizione buona per rimaner, o
tutti malsacrati, o tutti presi, Prevalse la seconda.
Il dopo domani che era il 10 giugno 1916, ondate di paura passava per la trupa, si legeva negli occhi di tutti una preocupazione che superava, che andava oltre il straordinario, era circa
mezzogiorno, la bolgia aveva raggiunto sproporzioni inenarabili.
Erimo dietro una picola colina che aspetavimo l’ordine d’attaco, sotto una vera pioggia di granate, srapnels mine, mitragliatrici e fucili. Piutosto bianchi che rossi, si comentava quella
tropo ingarbugliata situazione.
Si diceva: Questa giornata sarà per noi l’ultima.
Uno diceva: povera la mia mamma.
Un’altro: povera la mia sorella.
Altri: poveri figli miei mai più gli rivedrò. Altri con la fotografia,
della sposa, o dei figli, o di altre persone care pareva, volevano
dare l’estremo saluto.
[…] Sempre più fermi nel proposito di non tornare più in dietro.
Oramai la carta era giucata, ci aspetava la morte, avanti, e indietro. Se ci prende la fanteria, siamo salvi se ci prende i cosachi siamo morti, e se ci assalta i cerchiesi, siamo fati a pezzi.
[…] Ora, viene la nostra volta.
All’armi! all’armi! All’armi!!!
Tutti in piedi. Il fuocco aumentava ancora. Non si sale la colina,
un altro ordine, cioè d’imbocare un lungo fossato, alla nostra
sinistra, che si scostava gradatamente dal fronte russo.
Gli dico all’amico: cambiamo posizione.
No! dice lui, questa mi da l’odore di una ritirata. Io no, e lui si.
Inverita era una ritirata, e che ritirata. Io però pensai di dare
esecuzione al mio progetto, che era quello di non ritirarmi.
Chiamai l’amico, sempre di corsa ma l’amico non c’era più ci
avevimo smariti.
[…] Ora sicome tutti i mali non vengono per nuocere, pensai di
riparare in un bucco fato in quel momento da una granata, perché dificilmente cade un altra nella medesima posizione dato
lo squotimento del cannone. A un centinaio di metri, vedo, un
soldato che si sbaraza del zaino, tascapane, fucile ecc. e cominciava corere da sinistra a destra, io sapevo che da quella
parte erano i russi, ma non gli avevo ancora visti, perche la colina me lo impediva. Tutto questo in meno che non si dica.
Abbandonai l’idea del buco e mi sbarazai di tutto, e di corsa
verso i russi. Non avevo più forsa, ero ridoto ai minimi termini,
non escluso il pericolo di venire ripresi della cavaleria
Austriaca. La testa era giucata un tutte le maniere.
Fatti un quattrocento passi, vedo il mio plotone senza armi, con
i fasoletti bianchi, in segno di resa, e sempre di corsa, nel qual
caso non potevo mai ragiungerlo, perche io dovevo corere al dopio, imaginarsi chi poteva corere il doppio, si tratava, di non morire. Stavo per guadagnare la cima della colina quando mi si
presenta soldati a cavallo che non avevo mai veduti, Eramo
(cierchiesi) Questi sono turchi, hanno tutte le carateristiche del
nomade, non e che le spade, lancie, e l’imancabile pugnale, che
lo portano alla cintola anche quando vano a leto, feroci per ecelenza, vestono come vogliono, chi ha i calzoni rossi, chi bleu, altri verdi ecc. Portano una bereta di forma cilindrica […] qualche
cosa di spaventoso il vederli, strisciano per l’erba con il pugnale
fra i denti, senza rendersi accesibili al nemico.
A quella vista cominciavo a smarirmi, non sapevo più se ero io,
se ero un’altro se sognavo, se ero in cinematografo, se legevo
qualche romanzo d’aventure. In un sforzo supremo, riebbi la ragione e mi considerai morto.
Veloci passavamo vicino al mio plotone, tirando colpi di spada,
e di lancia, che venivano scansati, anzi schivati con meravigliosa abilità. Esausti fino che si vuole ma si tratava che passato
quel pericolo, non c’era più guerra per noi, sono momenti quelli
che si diventa d’acciaio. Allora racolsi tutte quelle forze che
non avevo più continuai la corsa sempre contro i cerchiesi una
mossa per scapare la testa era persa.
Ora sicome i primi non erano tanto compati, potei, sgataiolare
un po a destra un po a sinistra, in modo da passare tra l’uno e
l’altro, finché trovai i primi soldati russi, cioe la fanteria.
Li mi sono un po rassicurato, feci un ultimo incomparabile sforso, dove guadagnai il di dietro della colina.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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D
Disfatta
GIUSEPPE MANETTI
Giuseppe Manetti ha trentadue anni quando viene richiamato
sotto le armi e costretto, suo malgrado, a partecipare alla
Prima guerra mondiale: in questo brano racconta nei dettagli
la ritirata dell’esercito italiano dopo la disfatta di Caporetto,
descrivendo le azioni e lo sbandamento dei soldati, gli incendi,
la distruzione e i saccheggi lungo il cammino.
27 Ottobre 1917
circa alle ore 7 si difonde la vocie che li austriaci anno sfondato
la linia dalla parte del monte Nero ma io per il primo non ci credo pe la prima dissi con i miei compagni può essere ma la seconda o la terza come sarebbe questo è impossibile! specie in
così poco tempo. più tardi le voci diventano più difuse al fine
del giorno realtà perché anche a noi viene l’ordine di ripiegare e
abbandonare la linia.
circa alle ore, 19, sull’imbrunire si vede più qua, e più scoppiare
come vampe di foco formidabili sul principio si crede a delle
grandinate incendiare ma più tardi di pole capire di chi si trattava.
in faccia a noi, sulle pendici del vallone Doberdò ci avevano rizzato un’infinità di baracche per ricoverare tutti i soldati tutte di
legno, nellandare della notte queste baracche un ciuffo prima e
uno dopo si vedeva una gran vampa di foco che faceva luce per
delle diecine di chilometri di circonferenza e in seguito a questo bruciare, le baracche, per così dire non si trattava di bruciare le baracche ma pareva che prendesse foco tutte quelle
colline pareva essere in mezzo all’Inferno da ogni parte da ogni
luogo si vedeva di questi incendi più tardi ancora si innalza
delle nove vampe ancora più grandi accompagnate da un rombo e da una scossa del terreno quasi da buttarti per terra ci levava il fiato per 10 secondi ci faceva salire il cuore alla gola,
per quanto questi rombi e fiamme si vedessero a distanza di 2,
o più chilometri circa nessuno si poteva fare in idea di cio che
fosse perche granate anche da 420 non potevano fare un tal
rumore e più non si sentivano venire
si passa così 5 o 6 ore si può dire in mezzo all’inferno o peggio
ancora non so spiegarmi.
poi circa alle ore 2 del 28 ci fu detto, e si poté capire di che si
trattava: tutti quelli incendi erano prodotti da dei tubi di benzi-
na buttati in mezzo alle baracche, e poi messo foco capirete
quando arrivava entro la benzina scoppiava il tubo e bagnava
di benzina tutto il legno potete in maginare quale vampe si alzava e questo lo facevano i nostri soldati perche costretti a dovere abbandonare le posizioni prima di lasciarle in mano al nemico, quei rombi e scosse, erano prodotti da l esprosione dei
cannoni di grosso calibro in trasportabili 280 e 305 mediante
un tubo di gelatina che li faceva scoppiare.
alle ore 4 ci fanno preparare tutta la roba e si parte, quando
siamo a Doberdò pieno la strada di soldati di tutti i reggimenti
si dové fermarsi per dar corso adessi nel frattempo arrivò 3
strap da 151 calibro proprio sopra a noi ma come dio volle nessuna disgrazia si seguita il camino quando siamo in cima ad
una collina che si vede tutta la pianura dell’Isonzo quale effetto!! si vedeva da tutte le parti incendi per tutti i paesi pertutti i
baraccamenti, in somma eravamo in mezzo alle fiamme tutto
bruciava quando si trattava di cose militari.
qui in cima a questa collina ci eunaltra linea di resistenza tutta
in cemento armato anche questa incavata nella roccia quanto
lavoro quanto sudore ci resta su queste colline oltre a tutta la
gioventù e tutto il sangue e tutti i sagrifici sopportati in due
mesi di guerra, eppur per quanto sia antiguerriero per natura
mi era tanto dolore abbandonare tutto quello, si seguita il cammino accompagnati dalla pioggia.
[…] la mattina del 29 ci alzammo circa le ore 7 mi pareva di essere tornato al mondo.
Mi misi a parlare con un borghese questo mi dimostrò che il ritorno delli austriaci li dispiaceva per quanto egli fosse nato
sotto quel governo edanche delle donne si dimostrarono dispiacenti, ci e una gran confusione di soldati, chi va chi viene,
passa artiglieria, passa genio, passa soldati, e materiale di tutti i reggimenti ci si domanda tra noi quale catastrofe suciede?
[…] La mattina del 1° Novembre 1917 ci fanno andare in seconda linia dietro l’argine del fiume qui il saccheggio crescie a parte per conto mio che sono stato tanto timido di non approfittarmi di niente ne di roba da mangiare ne di altro perché ero
tanto addolorato nel vedere tutte queste famiglie costrette ad
abbandonare i suoi averi la sua santa dimora e piu vedere cio
che va sciupato specie il vino!!!
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
D
Disordine
DOMENICO BACCI
Il ricordo di un sacerdote che ha vissuto al fronte la Prima
guerra mondiale: le sue memorie militari si intrecciano con
l’esercizio del ministero sacerdotale. La pagina che segue
racconta lo sbandamento dell’esercito e dei civili dopo la
ritirata delle armate italiane dal fronte carsico, nel 1916.
La ritirata delle nostre valorose Armate da tutto il fronte
carsico, giunse a noi sul S. Michele dove da poco tempo vi
erano stanziati, inaspettata, sbalorditiva e irrazionale
considerato l’alto morale che animava i combattimenti! […]
Era notte avanzata!…silenzio sul nostro Fronte, e rombo di
cannone sul Fronte opposto!
Scendemmo il Monte, preceduti dalle nostre Truppe, e
attraversammo il Ponte di Peteano, Ponte sul fatidico fiume
Isonzo!… Non appena ci fummo assicurati che tutti erano
passati, furono poste le mine e fatto saltare il bel Ponte, che
ricordava il sacrificio di innumerevoli vittime.
Di qui, passammo attraverso Gradisca in fiamme alimentate
dai grassi della Sussistenza, e tra il fumo e il fetore
ammorbante, in breve tempo giungemmo a Cormons.
Confusione babilonica indescrivibile!… vera confusione
apocalittica, della quale nessuno potrà ritrarre l’orrore, il
disordine, la degradazione di un esercito, di più eserciti,
abbandonati al disordine, all’ubriacatezza, alla licenza
sfrenata, alla vendetta, al furto, al delitto!
La piccola piazza rigurgitava di soldati misti agli Ufficiali, in
preda al vino, delle cantine e dei bar svaligiati, da far pietà!…
Tutti i combattenti, piccoli e grandi, si erano strappate le
mostrine, per nascondere l’Unità militare cui appartenevano!
Tutte le viuzze della cittadina, formicolavano di soldati
ammassati insieme a borghesi, uomini, donne, bambini, vecchi,
malati, sofferenti, inebetiti dalla paura, cui contrastavano i
canti e gli urli degli ubriachi, e i pianti dei piccoli che avevano
smarrito la mamma, e le mamme che avevano smarrito i
bambini!… spettacolo da far pietà.
Si vedevano molti scalmanati prendere d’assalto negozi,
cantine, bar, calzaturifici, oreficerie, orologerie, panetterie,
salumerie, macellerie, e abitazioni abbandonate dai padroni
impauriti… a far mambassa di tutto riempiendo sacchi, e
fagotti fino all’impossibile, servendosi di lenzuoli e di coperte
rubati!… […]
Fra quella folla incomposta, disordinata, rumorosa ed eccitata,
senza guida, senza indirizzo e improvvisamente depauperata
vidi un giovane a cavallo, certamente un soldato, che si era
gettata a tracolla una bellissima stola sacerdotale di seta
giallo-oro, con fiorami a colori, rubata indubbiamente in
qualche chiesa; e che si atteggiava a “maresciallo”
comandante di quel disordine, gridando a destra e a sinistra,
quasi volesse rimettere ordine in quell’immenso disordine!
Appena lo vidi, corsi a Lui imponendogli di consegnarmi quella
stola! Egli si oppose, e io feci mossa di prenderlo per una
gamba e tirarlo a terra! Allora mi cedette la Stola, che presi,
portai a suo tempo in famiglia, feci ripulire e conservai come
prezioso ricordo di guerra. […]
Da Cormons prendemmo la via conducente a Latisana,
credendo di poter proseguire attraversando il Ponte, per poi
raggiungere il Piave. Questo tratto addivenne un tormento,
cotanto penoso che non potremo mai dimenticare.
Il disordine si fece ancora più caotico, […]. Pioveva a dirotto!…
la strada assai stretta, tra il fango e la pioggia si era resa
impraticabile!… ai lati della strada, canali in piena allaganti i
campi vicini! Tra le nuvole ronzavano gli aeroplani nemici, che
di tanto in tanto lasciavano cadere qualche bomba. Il panico
era generale.
Tra la folla in maggioranza a piedi, bambini piangenti attaccati
alla sottana della mamma!… vecchi e vecchie impotenti si
vedevano d’impaccio a coloro che volevano camminare! Carri
agricoli sovraccarichi, di masserizie, di donne, e di fanciulli!
Barocci e baroccini pieni fino all’impossibile di persone d’ogni
età e condizione!… malati che languivano distesi sopra carretti
vecchi e sgangherati!… persone, e fra queste, molti Soldati, che
si trainavano dietro dei cavalli, die muli o dei somari!… altri che
guidavano gruppi di tacchini e di polli!…
Impossibile descrivere al minuto quella scena!
Per diminuire il disordine, alla fine fu dato ordine ai carabinieri
di gettare nei campi o nei canali vicini, tuttociò che era di
maggiore ingombro, e quindi giù bestie, giù carri, giù birocci
ecc. senza imprecazioni e opposizioni! Eccoci sul Ponte di
Latisana che attraversa il Tagliamento. Confusione ancora
maggiore! Tutta la folla, compresi Soldati e Ufficiali, diretti
verso il Ponte S. Vito al Tagliamento!… la ragione non si seppe;
almeno io non la seppi.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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41
D
Donne
JONE LEPORINI
Le lettere che Jone, giovane insegnante marchigiana, scrive all’amato Vincenzo, militare durante la Prima guerra mondiale e
combattente sul fronte italo-austriaco: una donna che vive
nell’attesa del ritorno, impegnandosi nel lavoro e occupandosi
delle “domestiche cose” sempre in equilibrio tra il dovere verso la famiglia e il desiderio dell’autonomia decisionale.
Ascoli P. 2-7-916
Carissimo Vincenzo
[…] Io vorrei arrivare alla fine della guerra senza intaccare il nostro gruzzolo già troppo esiguo pei nostri bisogni: che se dovessi consumare anche quello non saprei più su cosa sperare e
vedrei avverate tutte le mie tristi previsioni. Se ne sono avverate già tante! Come ti ho detto nella cartolina-vaglia, sono stata
per qualche giorno malata. Certo nelle condizioni d’animo tristissime in cui son posta, ho abusato troppo delle mie forze e
queste non bastano, per quanto sfruttate, a darmi quel tanto
necessario a edificare, da sola, il nostro nido. Sono stata dunque malata e sono così stanca ed esaurita anche ora! Ma sta
sicuro: io vivo in mezzo ai dottori. Attorno al mio letto ho avuto
Zannoni e Cardi. È vero che il primo scherzando mi diceva: con
due medici attorno l’ammalato muore di certo. Ma io son viva!
La scuola non si chiuderà che alla fine di luglio. Ho lasciato la
ripetizione serale alle Angelini; entro quest’altra settimana mi
lasceranno anche Virdia e Vecchiotti che vanno in campagna:
mi restano tuo fratello, un altro ragazzetto che ho preso ultimamente e una bambina che per ottobre devo preparare per
l’esame di prima in seconda. Per settembre ho altri impegni. Se
penso che l’improba fatica mi frutterà si e no 100 lire, mi vien
voglia di pensare piuttosto alla salute. Ma non potrei smettere.
Tu forse non mi comprendi perché troppo poco quando sei stato qui ti sei preoccupato di fare in modo di sposare presto e
bene. Hai fatto troppo a modo tuo e ti assicuro, perdonami
Vincenzo, che ho rimorso di non aver saputo, con tutte le buone
maniere, con tutto il mio amore, trarre maggior utile dai tuoi
guadagni. L’utile per tutti e due, intendimi. […]
Ascoli P. 16-12-916
Carissimo Vincenzo mio
ebbi giorni fa la tua lunga lettera attesissima e graditissima:
l’ultima tua fotografia mi piace e l’ho cara. Sei tu, con la tua
deliziosa pozzetta mia che mi fa fremere per tanti ricordi. Non
sei preso bene, ma io ti rivedo chiaramente. […] Grazie dunque,
Vincenzo mio, di queste fotografie che ho gradito immensamente, per quanto sono arrivate ben tardi per il mio desiderio.
[…] Io sono, in fondo, sincera solo nei momenti buoni: perdonami dunque tante mie stranezze, nate dalla nostra lontananza,
dal sospetto messo in me da tanti fatti a te noti, dal mio amore
che non è mai sazio di te. Pensa che tutto passerà quando saremo in pace e più quando sarò tua. Un’altra cosa mi addolora,
di non poterti mandare, per Natale, un bel pacco “magnifico”
che sollevi in qualche modo l’animo tuo, che, in quei giorni, sarà
proprio solo. Godrei tanto di poterti mandare il segno del mio
amore premuroso e vigilante, perché se tu non sarai sereno in
quei giorni, io sarò sconsolata in mezzo agli agi di casa mia.
Avrò tutto e tutti e non avrò nulla e nessuno senza di te. Pare
che abbiano sospeso l’invio dei pacchi: sarà vero? In ogni modo,
il mio subirebbe un enorme ritardo. Come fare? Poi tu non sarai
più ove sei ora e chi sa se i pacchi ti perverranno? Consigliami
tu come devo fare. Ora io so che tu aspetti da me uno sfogo politico pel vile agire della Germania. Credi che io sarei contenta
di una pace o di una tregua? NO. Ti do ragione. La Germania ha
voluto la guerra quando era comoda, vuole la pace quando le a
comodo? Ci possono essere degli italiani pronti ad accontentarla? Io passo nel tuo numero. Guerra sino alla vittoria!!
S. Benedetto 22-8-917
Vincenzo mio
[…] Rimarremo io e Mimma sole quaggiù. Se sapessi Vincenzo,
che vita spensierata menano le bagnanti! È una vergogna! Il
lusso è mai visto. Ma io non mi curo di nessuno. Stamattina è
stata vista in alto mare una torpediniera. Un po’ di panico finché non s’è saputo che era italiana. Ieri sera passò un treno di
feriti. Quando passò sopra al ponte da cui si vede il caffè
Adria, essi fischiarono fortemente tutte le signore e signorine
che stavano lì a civettare prendendo il gelato. Ma l’hanno ridetto certe signorini che erano lì con le altre. Non è una vergogna? Tu pensa che in questo momento terribile nessuna più
della tua Jone compie il suo dovere di Italiana. Ti sembra una
esasperazione? Lascio di scrivere per ora. Vado ad impostare:
poi al mare, davanti al quale siedo, lavorando il centro del nostro comò.
42
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
E
Edelweiss
EFISIO ATZORI
Il militare sardo Efisio Atzori non ha ancora compiuto vent’anni quando lascia l’Accademia di Modena alla volta del fronte,
nei pressi di Trento. L’euforia con cui affronta questa nuova fase lo porta a fare incetta di esperienze e oggetti: certificati
della sua presenza nell’esaltante impresa collettiva che puntualmente racconta per lettera alla propria famiglia. Efisio
morirà di lì a poco, combattendo, come scrive un quotidiano
locale, “con la fede e l’entusiasmo della sua bella e ardente
giovinezza”.
Zona di guerra 24/4/16
Miei cari,
[…]. Mi ripetete sempre che volete i fiori delle alpi. Quando
quassù sarà primavera se la neve sarà sciolta ne potrò trovare
qualcuno. Son fiori rari e nascono nei punti più alti e più difficili. Ad ogni modo spero procurarne, ho raccomandato anche ai
miei soldati. Qui è pieno inverno, 15 gradi sotto zero, c’è un vallone dove ci saranno una ventina di metri di neve, quindi i fiori
sono lontani. Pazienza, verranno anche quelli […].
12/5/16
Carissimi,
[…]. Vorrei raccontarvi la bellezza della Valtellina, che io ho
percorso completamente a piedi, anzi presso Cepina, mentre i
soldati facevano il bagno ai piedi in riva all’Adda ho colto i primi fiori visti in questa primavera. Di violette ce n’è una quantità
fenomenale. Fra violette e non ti scordar di me i campi perdono
il loro verde per prendere il colore dei fiori. Questi pochi fiorellini serbateli per mio ricordo. Quassù la primavera non esiste il
ghiaccio e la neve c’è tutto l’anno e lo stato normale è la tormenta. Di notte il freddo tocca i 35, 40° sotto zero, ma io non
soffro, in 2 giorni abbiamo avuto 4 soldati coi piedi congelati,
da qualche giorno non mi lavo la faccia, ma in compenso sto
bene di salute. Continuano a sparare cannonate, si vede che
non pensano al lavoro che anche per loro il trasporto delle mu-
nizioni ch’è difficilissimo. Io son contento perché nella posizione in cui ci troviamo siam penetrati per oltre 15 Km in terre redente, Se si potesse salire una montagna che abbiamo difronte
potremo (col cannocchiale) vedere la nostra cara Trento […].
Temù 24/5/16
Carissimi,
[…]. Questa carta con la quale vi scrivo l’ho trovata in una caverna austriaca, ho trovato un libro da messa scritto in polacco
delle imagine e due aldewais. Sono i primi che ho trovato son
stati colti da un austriaco forse già morto, sarà un bel ricordo
lo stesso.
Ed ora posso dirvi che tutto il ghiacciaio dell’Adamello è conquistato anzi la nostra compagnia in certi punti è entrata in
mezzo ai boschi della Val di Genova. Col mio plotone son sceso
per 1002 metri in un pezzo di territorio di circa 8 Km.
Ho colto altri fiorellini a quota 2352 i primi che ho visto dopo 12
giorni di ghiacciaio. Ho raccolto qualche oggetto austriaco e
appena mi verrà conveniente ve li invierò. Conservatemi tutto.
Volevo pigliare un fucile ma mentre sono andato giù il
Comando di reggimento ha inviato a ritirarli tutti. Ne troverò altri in seguito. Ho preso anche la borraccia ed ora posso portarla perché l’ho presa io. Ho fatto bene a non accettare quella
che voleva darmi il Signor Mereu.
Come vedete anche i sardi resistono a 3354 metri dove gran
parte dei montanari nati gelano per il gran freddo, io ci resisto
benissimo e benché sia stanco (più per il sonno perduto che
per altro) mi sento benissimo e in perfetta salute. Oggi ho ricevuto la vostra lettera dove mi dite di aver saputo che io cambio
zona e vado nell’Adamello. Invece io ci son già stato 12 giorni e
son già giù. È abbastanza svelto il nostro giro di corriere!!!
Salutatemi tutti, la comitiva i parenti gli amici in genere e voi
ricevete i più caldi e affettuosi
bacioni
Efy
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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43
E
Eroi
GASTONE BASSI
Cinque anni dopo la partecipazione alla guerra, un capitano di
complemento fiorentino ricostruisce dai suoi appunti del tempo diverse azioni belliche. Serrato è il susseguirsi di imprese
eroiche, tutte descritte con un linguaggio preciso, enfatico e
asettico insieme, volto a lodare il proprio e l’altrui coraggio.
Anche riconoscere i primati del nemico diventa così un modo
per glorificare il valore dell’esercito italiano.
[Dicembre 1917] La seconda compagnia, a destra, dette l’allarme troppo presto.
Intuii il pericolo, balzai in piedi col bravo sergente Stucchi, per
superare rapidamente la breve distanza, ed urlai raucamente:
– Savoia!…
Le mitragliatrici nemiche apersero il fuoco insieme e c’inchiodarono. Ci gettammo ancora a terra sotto la grandine di colpi.
Con la testa puntata dietro un grosso sasso sentivo il breve sibilo rabbioso delle pallottole, impossibilitato di muovermi. I
fanti a terra, come compressi contro il terreno, aspettavano.
Pareva aspettassimo la morte. Il fuoco nemico sostò; come obbedendo ad un ordine ci trovammo ancora in piedi ed a testa
bassa ci lanciammo urlando contro il nemico.
Ma le inesorabili Schwartzlose stroncarono ancora il nostro
tentativo e ci costrinsero a rinunciarvi. Mentre ci apprestavamo
ad un penoso e difficile ripiegamento, con un improvviso contrattacco numerosi nemici ci avvolsero sul fianco destro e con
un tremendo lancio di bombe a mano riuscirono a catturare
Ingignoli col suo primo plotone. Tentai intervenire, ma il soverchiante numero degli avversari mi costrinse a recedere dal proponimento.
Catturammo alcuni uomini ed un ufficiale ferito ad una gamba
e ripiegammo affranti presso le caverne sulla linea conquistata
il giorno prima. Ci restammo: eravamo ridotti in pochi.
Dall’ufficiale prigioniero un bel giovanotto biondo, Zarantino,
sapemmo notizie preziose sull’efficienza del nemico, potentissima sotto ogni riguardo, e tale da stornare ogni velleità di agire profittevolmente nell’enormi condizioni d’inferiorità in cui
eravamo.
Ma non era finito il nostro compito: alla 10 del mattino un ordine ci lanciava ad un secondo assalto, a mezzogiorno ad un terzo, alle due ad un quarto; l’ultimo! E tutti disgraziati.
Ma il generale Di Giorgio “voleva” la quota Col Berretta. Noi non
gliela prendemmo –come nessun poteva prenderla- ed egli
sfogò il suo sdegno non dando corso alle varie proposte di ricompense!
Ma noi sapevamo di aver fatto intero il nostro dovere. Quanti
poveri fanti lasciammo lassù e quanti buoni e cari colleghi!
[…] E quanti altri! Il battaglione era ridotto a poco più di cento
uomini. E pensare che, stanchi e sfiniti come eravamo, si aveva
di fronte freschissima la Divisione Edelweiss, la bellissima ed
imbattuta dell’esercito nemico! Mi preme ricordare, a titolo
d’onore, che la mia Brigata Massa Carrara era chiamata per
motteggio dal nemico: Massa Cattiva (Massa, in friulano, significa molto ) ed i fanti se ne gloriavano, a buon diritto.
Col Berretta voleva ancora da noi delle vittime, chè alcune mitragliatrici nemiche appostatesi su di un costone che ci dominava di fianco presero a batterci senza che noi trovassimo altro
riparo che qualche tronco d’albero o qualche lieve prominenza
del terreno. Col coraggio della disperazione, con tutte le nostre
armi controbattemmo furiosamente finché le Schwartzlose
tacquero, dopo averci ancora dilaniato. La 7° compagnia del
Capitano Mariton, era rimasta interamente falciata dai tiri che
avevan fulminato i fanti nella loro posizione di vigile attesa.
Finalmente, su quella seconda giornata di tragedia (date inobliabili: il 10 e l’11 Dicembre) calò la sera a portarci un po’ di
tregua. I fanti, avvolti in teli di tende, si gettarono a terra fiaccati, mentre in sei o sette ufficiali ci cacciavamo nella breve
caverna ingombra d’indumenti austriaci, di elmetti, di cinghie,
di giberne, da cui esalava un odore nauseabondo di untume e
di cattivo tabacco e da cui, anche, emigrarono legioni di pidocchi a far causa comune con quelli che avevamo già a tormentarci da un pezzo.
Da due giorni non si mangiava; mi cacciai nello stomaco due
pugni di neve che frattanto era caduta, ma quella mi aggiunse
il tormento della sete. […] Nella notte ebbi ordine di costituire
una pattuglia per avvicinarmi alle posizioni nemiche esplorare
la zona e procurare di scoprire gl’intendimenti dell’avversario.
Uscii all’aperto; la neve caduta aveva velato di candore la tragedia dei due giorni. I fanti giacevano a terra, e non mi fu facile
comporre il drappello perché molti che chiamavo sottovoce
scuotendoli, dormivano il sonno della morte.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
E
Esperienza
ANTONIO SANTO QUINTINO PREITE
Un giovane soldato descrive la vita di trincea nel Carso. Tra le
opposte linee di guerra, distanti spesso pochi metri, dove i
soldati si consumano in attesa di assurdi assalti frontali, si
compie il massacro di centinaia di ragazzi mandati alla
conquista delle posizioni nemiche. L’inferno del corpo a corpo
è un’esperienza che Antonio non può dimenticare.
La mattina del 24 aprile [1916], appena i primi raggi del sole
cominciarono ad illuminare l’universo intero, il nemico
incominciò a bombardare la nostra prima linea con tiri ben
giusti e con un’attività che a otto mesi che avevo partecipato in
guerra, giammai era stata così attiva e così precisa. Le granate
nemiche scoppiavano sulle nostre trincee seminando stragi e
morte. […] Verso le ore 1 di notte stavo per dare il cambio alle
vedette che si trovavano con me sotto il cunicolo 8 bis; nel
momento in cui stavo cambiando l’ultima vedetta di punta,
davanti al rimboccatura sento un rumore: senza nessuna
impressione cominciai ad osservare da un feritoia più vicina: i
nostri soldati, che erano sul San Michele, per combinazione
avevano buttato in aria un razzo luminoso, di quelli a
paracadute. Io, aiutato dalla luce di quel razzo, m’accorgo che
gli Austriaci erano usciti dalle loro trincee, con le baionette
innestate erano distesi a terra, aspettavano forse il comando
dal loro ufficiale per venire all’assalto contro di noi. Mi
impressionai molto vedendo il nemico vicinissimo e, così
preparato, mi rifeci animo e incominciai a gridare come un
pazzo con tutta la forza dell’animo mio: “Battaglioni: baionetta
in canna, fuoco!” I rincalzi alla nostra linea erano già arrivati e
allora i nostri aprono una fucileria infernale. Gli Austriaci
cominciarono a menare bombe incendiarie e mozziconi carichi di
dinamite e gelatina, vedevi l’inferno! I nostri, al mio grido, erano
pronti ed ognuno aveva preso posto alle feritoie e con la
baionetta innestata aprirono il fuoco. Ad un fiato sentiamo un
mondo di voci gridare: “Urrà! Urrà!”. A questo grido i nostri più
s’inferocirono e, tutti un’anime e un sol pensiero, incominciarono
a fare fuoco; le nostre mitragliatrici entrarono in azione. […]
Dopo un’ora e forse più di accanita fucileria, il nemico, perduta
ormai ogni speranza di conquista, dovette ritirarsi nella loro linea
di partenza, lasciando centinaia di morti e di feriti sul terreno,
cioè davanti alla nostra prima linea. […]
I poveri Austriaci feriti a morte giacevano sul terreno, gridavano e
si lamentavano, forse chiedevano aiuto, ma chi li poteva aiutare?
Nessuno! In verità ti veniva compassione a sentire tanti lamenti
di quei poveri disgraziati, che pure loro erano giovani e padri di
famiglia, e per adempimenti di dovere verso la Patria loro
restarono chi morto, e tanti altri feriti sul campo di battaglia. […]
Il giorno 28 giugno fu un giorno molto ventoloso, e l’acqua cadeva
senza tregua, che noi eravamo tutti bagnati da capo a piedi.
Verso le ore 6 venne dato l’ordine di andare all’assalto.
Innestammo tutti la baionetta e, pronti, aspettavamo il
comando del nostro Capitano. Finalmente sentiamo gridare
“Avanti Savoia”.
Ufficiali, graduati, e soldati, tutti un’anime, uscimmo dalla trincea nostra; arrivammo senza nessuna perdita nella trincea nemica, ma la trincea nemica era stata costruita di cemento, e
non si poteva entrare da nessuna parte. Con vanghette, piccozzini, a colpi di baionette, potemmo fare qualche buca ed entrare dentro; intanto il nemico che ci aveva visto il nostro movimento, incominciava a tirare con le loro mitragliatrici, che erano state ben piazzate sopra il San Michele, e ci pigliavano ai
fianchi, e seminavano strage.
Un mondo di feriti giacevano a terra senza fare nessun movimento, parecchi dei nostri soldati, per mezzo di qualche buca
che avevano fatta, erano penetrati dentro. Io ed il Tenente Coen
Mosè, leccese, entrammo da dentro una buca.
Ci accorgemmo che c’erano parecchi fili telefonici, a colpi di
vanghetta li tagliammo; in quel momento sentiamo i nostri soldati gridare “Savoia”. Gli Austriaci che erano dentro gridavano:
“Urra!”.
Insomma, venne una lotta corpo a corpo, non si sentiva altro
che gridi, spasimi, lamenti, colpi di baionette… insomma, non
si capiva niente! Veduto il pericolo che gli Austriaci erano stati
fino a quel momento vincitori, io con il Tenente Mosè
tagliammo i fili telefonici e cercammo di uscire da quella
trincea. Appena usciti, una bomba a mano che gli Austriaci
buttarono a noi venne a ferire il Tenente alla schiena. Vado per
aiutarlo e m’accorgo che gli Austriaci, per mezzo di un loro
camminamento scendevano alla prima linea. Allora avverto il
tenente, lo piglio a spalle e via! Lo strascino alla nostra linea di
partenza, passando in mezzo al piombo nemico.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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45
F
Fame
ALFONSO LUCARINI
Alfonso Lucarini di Camaiore (Lu) alla fine della guerra cominciò a scrivere le memorie dei fatti appena vissuti sulla base di
alcuni appunti: la vita della trincea, la disfatta di Caporetto, la
prigionia in Austria-Ungheria con la vivida descrizione di un
corpo frastornato dal viaggio, piegato dal sonno e divorato dalla fame.
[1917] Arrivati che fummo stavamo in attesa di mangiare, ma di
questo niente si trattava; e così bisognò coricarsi, bene leggieri
di stomaco, in baracche ove l’acqua veniva dentro a più non
posso e così alla meglio, tra il sonno, che era qualche notte che
non dormivamo più, e la stanchezza, finimmo coll’addormentarsi, ove ricomparve il giorno, sperando che ci avrebbero dato
qualcosa a mangiare. Mi affaccio sulla porta della baracca ove
vedo unaltra quantità di prigionieri giunti da poco, anche loro
aspettavano di sazziare un poco lappetito e difatti si vedevano
grandi marmitte che bollivano a grande velocità; tutti dicevano
cosa bolliranno di bello, lappetito era al colmo e dopo qualche
mezzora si mettono a distribuire quella roba che tutti curiosi e
colla voglia di mettere in bocca qualcosa, saltiamo tutti in
mucchio intorno alle marmitte, al rischio di rovesciarle al suolo
per rimanere allo sciutto; in una parola, a forza di pigiare, mi
riuscì prendere un mescolo di quella roba che non era altro che
acqua bella chiara un poco indolcita. Alla sera ci fu quasi come
per miracolo del cielo una mezza pagnotta ove se la diluviammo in un attimo, assieme con un mescolo di rape tagliate a
quadretti a guisa di minestra, donde poi tornare di nuovo a coricarsi nelle baracche che bisognava adattarsi a rimanere uno
sopra latro per scarsità del posto e la quantità di prigionieri.
[…] La mia compagnia prese dimora in un bosco, nei dintorni di
Cernizza ove si adattaromo in baracche che sembrava quasi
essere rinati, avendo sofferto quattro o cinque giorni di fame,
fradici dallacqua e dalla fanga ove qualcuno toccò lasciarsi la
pelle, forse polmonite fulminante. La vita passata a Cernizza
non era gran male, poiché ci alzavamo la mattina alle sei, prendevamo il caffè e se ne andavamo in giro per quei dintorni […].
Alle due dopo mezzogiorno ritornavamo alla baracca ove una
gavetta di rape e qualche segnale di patate stava ad attendersi;
un mezzo chilo di pane assai mangiabile, unaltro mescolo di
caffè […]. Trascorsimo così un mese a quella maniera, ove un
po’ d’appetito si sentiva ma non quella fame che mi credeva
soffrire. Viene ordine di riunire le compagnie e partire per il
concentramento il quale il due dicembre prendiamo il treno alla stazzione di officina […]. E dopo un lungo aspettare si muove
il treno in direzzione di Lubiana. Inutile tenersi fermi e a posto;
la fame per qualche compagnia era già al colmo; ogni qualvolta
che si fermava tutti col busto sporgente in fuori al vagone mostravamo ai borghesi chi un coltello, un fazzoletto, un paio di
calze e qualche oggetto che fino a quel momento n’avevamo
avuto in abbondanza, e mostrando con mani allungate quella
roba gridando: Prut, prut, la prima parola imparate per tedesco.
Qualcuno trovava da fare affari riuscendo portar via qualche
pezzetto di pane in scambio di roba, qualcunaltro rimaneva allo sciutto, rimettendosi il treno in moto, e così rimaneva coll’occhi fissi su quelli che mangiavano facendosi venire lacquolina in bocca. Arrivati dopo dieci ore a Lubiana […] ci mettono
per quattro in direzzione di baracche ove ci avevano preparato
un poco di acqua calda con un po di essenza di rum, un pezzetto di salame nella quantità di cinquanta grammi; e via un dietro
laltro in baracca, dove no ci si capiva nemmeno ritti. […] Alla
sera del terzo giorno veniamo messi in partenza e via in direzzione della stazzione ove un lungo treno stava preparato. […]
Fu presto fatto a imbarcarci e dopo qualche ora di cammino ci
fermiamo, ove corre la voce che è pronto il rancio. Tutti a orecchi tesi ascoltavamo i passanti; che andavano avanti e indietro;
dialoghi che non capivamo una acca; attendevamo ansanti lordine di mangiare; come infatti giunge lordine e qui in riga fra
binari ci conducono in direzzione d’un baraccone ove un vaporetto fitto faceva a gara per uscirne fuori esalando un odorino
che faceva venire, a noi tutti affamati, l’acquolina in bocca.
Porgo la gavetta a mano tremante quale vedo rovesciarmi un
mescolo di farinata con qualche pezzetto di carne, ove faccio
ritorno nel vagone, mettendone in bocca mezzo cucchiaio per
volta, per timore di finirla troppo presto. Inghiottita quella farinata bollente sembrava, benché fossi ancora un po leggerino di
stomaco, essere risuscitato.
46
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
F
Fango
LUIGI MERLINI
L’impiegato fiorentino Luigi Merlini, in questa breve memoria
scritta appena dopo la vittoria, racconta la disastrosa ritirata
di Caporetto, denotando un particolare attaccamento al terreno perduto: un suolo bagnato dal sangue e sferzato dalla
pioggia.
[Ottobre 1917] La seconda e la terza Armata a destra, la quarta
a sinistra, avevano l’ordine di ripiegare sul Tagliamento, contendendo al nemico palmo a palmo il terreno, onde dar tempo
ai carreggi, alle artiglierie, al grosso dell’esercito, di passare i
ponti. […] Descrivere il nostro stato d’animo all’annuncio è impossibile. Era un sogno, un terribile sogno, non voleva entrare
in testa che fosse una realtà. Ci guardavamo in faccia instupiditi, increduli di quanto sentivamo, profondamente accasciati.
Lasciare quelle terre ridivenute nostre a prezzo di tanti sacrifici, bagnate col sudore della nostra fronte, colle lacrime dei nostri occhi, col sangue delle nostre vene, quelle terre di cui ogni
metro possedeva il cadavere di chi l’aveva conquistato coll’olocausto della propria esistenza. Il 230° andò sul monte Quirino a
sbarazzarvi la strada che da Vercò viene verso Cormons, sboccando sulla strada principale che da Bazzano va a Cormons; e
noi del 229° dovevamo stenderci lungo detta strada principale
facendo da collegamento coll’85°, che stava a protezione del
ponte sull’Indrio a poca distanza dal paese di Brazzano.
Dopo vari spostamenti all’interno del paese, ci stendemmo in
catena di combattimento lungo la strada, delle “gran guardie”
nelle baracche e infine la “riserva” nel paese.
Insomma una perfetta applicazione del regolamento sul “servizio di sicurezza in stazione” che tanto ci aveva fatto sudare
nelle istruzioni prima di andare al fronte, ma che al fronte, colla
guerra in trincea, non aveva servito a niente.
Per miglior consolazione alle nostre fatiche, ecco un bel ROVESCIO D’ACQUA, COME POCHE VOLTE MI ERA CAPITATO di vedere
e… sentire. Il cappotto, in pochi istanti, fu talmente zuppato
che non riescivo a portarlo. Dovevo correre fra i campi e stabilire collegamenti, vedere se “le piccole guardie” fossero in corrispondenza fra loro e col grosso, andare appostare nuove “piccole guardie”, ritirarne delle altre, perché l’85° fanteria continuava a spostarsi verso di noi, accavallando la sua linea di difesa alla nostra. Il terreno era così pantanoso, che si sguazzava
e si affondava a meraviglia. E sempre giù acqua per tutta la
mattina. […]
Intanto si andava ristabilendo la calma e potemmo fare un po’
di fuoco e asciugarci. Il fante fu sguinzagliato dentro i magazzini dei forni […] e riportò una discreta provvista di pagnotte.
Verso le tre (le 15), mentre stavano distribuendo delle cartucce, ecco l’improvviso ordine di partire. Ci radunammo sul crocevia del paese e avanti, cioè indietro! Traversammo il ponte
sull’Indrio, portandoci sulla riva destra del fiume, che, con le
piogge della notte e della giornata, andava gonfiandosi spaventosamente. Riscendemmo il corso del fiume per un tratto, e
cioè fino a portarci all’altezza del ponte della ferrovia. Qui sostammo e disponemmo la difesa lungo l’argine e formando una
testa di ponte al di là del fiume. Il livello dei campi nei quali
stavamo era molto più basso di quello del fiume in piena; l’acqua minacciava di momento in momento di sorpassare gli argini e allargare i campi, già melmosi e viscidi per conto proprio.
Ogni tanto, una nuova scossa d’acqua. Imbruniva rapidamente.
Il comando di battaglione s’era messo dentro un baracchino,
che altra volta serviva ai carabinieri di servizio al passaggio sul
ponte, che stava al lato di quello della ferrovia.
I soldati stavano nei campi fra l’acqua e il fango; le vedette fra i
canneti sguazzando nell’acqua e nella nebbia foltissima. Poche
vedette stavano nella testa di ponte oltre il fiume. Noi giravamo, abbattuti, stanchi e fradici da un posto all’altro, senza posa, senza requie, vigilando.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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F
Fede
SISTO MONTI BUZZETTI
Sisto Monti Buzzetti, vincitore del Premio Pieve 2007, è nato
nel 1896 ad Allerona in Umbria. Terminati gli studi superiori,
segue un corso per ufficiali a Modena. Nel 1916 parte per il
fronte in Trentino: morirà il 9 giugno 1917 a causa di una granata. Per mantenere i rapporti con la famiglia, Sisto invia a casa quasi trecento lettere, cartoline e telegrammi. La fede in Dio
lo sostiene e gli dà forza durante le battaglie, tanto da credere
di essersi salvato miracolosamente dalla morte come scrive
nella lettera.
26-2-1917
Miei cari.
Oggi ho ricevuto una vostra lettera in data del 22 nella quale mi
date migliori notizie circa la salute di Carlo. Io gli ho scritto
personalmente per avere più precise notizie, ma ancora non mi
ha risposto. Veramente stavo un po’ in pensiero, ma adesso sto
più tranquillo.
Mi dite anche, riguardo alla mia domanda per gli aviatori, che le
nuove squadriglie, saranno squadriglie da bombardamento.
Sentite, miei cari, pur di non ritornare in trincea sarei disposto
magari di andare all’inferno, se in questa vita esistesse un inferno, e ciò specialmente dopo quanto mi è occorso l’altro giorno, 24 febbraio.
In una mia dei giorni passati vi dicevo che da un momento all’altro poteva giungere una cannonata e mandarmi a gambe all’aria; invece il giorno 24 è giunta una pallottola che, solo per
miracolo di Dio non mi ha trinciato le budella. Io lo considero
un vero e proprio miracolo, e ne ringrazio a mani giunte Iddio.
Mi ero proposto di non farvelo sapere, per non arrecarvi quel
patema d’animo che certe notizie apportano sempre. Ma per
provare la mia ripugnanza verso la trincea non ho potuto fare a
meno dall’esporvelo. La pallottola mi ha forato la giacca un po’
a sinistra, sotto le costole, mi ha trapassato il portafoglio e tutte le carte che vi stavano dentro, mi ha rotto la penna stilografica, ha attraversato altre carte e lettere che avevo in tasca, ha
forato il maglione, la camicia, la maglia e mi ha colpito, proprio
al ventre, sopra l’ombelico, facendomi fortunatamente solo una
scalfittura, un po’ dolorosa sì, ma di nessuna conseguenza.
Forse nell’attraversare le carte, il portafoglio, e la penna, ha
perduto forza e forse anche si è deviata. Ma io continuo sempre a considerarla come una grazia di Dio segnalatissima.
Fra le carte forate, c’è l’immagine della Madonna Addolorata
che mi mandaste insieme al ricordino della prima Comunione
di Maria, pure esso forato.
Ed il portafoglio bucato, e le carte bucate le ho ancora in tasca,
e nel portafogli ci ho pure la pallottola che ho raccattato, ed ho
ancora indosso la giacca, il maglione, la camicia, la maglia; tutto forato. E dire che la notte avanti ero uscito in pattuglia e
nessuno mi aveva tirato un colpo, invece in trincea, una pallottola poco è mancato che mi mandasse nel mondo dei più.
Vedete dunque quanto è cattiva e traditrice la trincea, e se io
ho ragione di far di tutto, pur di non ritornarvi.
Ora non state ad angustiarvi per quanto mi è accaduto; quel
che stato è stato ed è per questa volta andato bene, e non se
ne parli più se non per ringraziare Iddio.
Saluti a tutti i parenti ed amici. Baci forti forti a Vilge.
Beneditemi e pregate sempre e molto per me.
Vostro aff.mo. figlio Sisto
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
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Feriti
IMERIO VINCENZO GHERLINZONI
Imerio Vincenzo Gherlinzoni, contadino veneto e padre di dodici figli, racconta nella sua autobiografia il tragico episodio del
suo ferimento in guerra. Vincenzo si ritrova inerme sul campo
di battaglia; ad un passo dalla morte il suo pensiero è rivolto
alla moglie, a i suoi figli e ai suoi cari. Neanche il gesto di
estrema umanità di un bersagliere sembra poterlo salvare:
nella disperata attesa dei soccorsi, non può che affidarsi alla
sua profonda fede in Dio e alla preghiera.
[16 settembre 1916] Ci fecero sfilare allo scoperto, per squadra
per uno di corsa, come dissi l’azione era già cominciata, e la
reazione nemica era terribile. Il nemico diffendeva, accanitamente, le sue posizioni, con un terribile fuoco di mitragliatrici,
e fucileria, e bombe a mano, mentre le artiglierie, battevano le
retrovie. […] Ad un tratto sentii un gran colpo al fianco destro,
che mi fece traballare. Siccome che dietro di me, veniva un soldato, bergamasco che era assai burroso; in un primo tempo,
credei, che questo mi avesse allungato un calcio, e feci per voltarmi per allungargli un ceffone ma nel fare tale movimento,
perdetti l’equilibrio e anche i sensi, e caddi a terra: erano le undici del mattino.
Quando ripresi i sensi il sole era presso al tramonto, feci per
rialzarmi da terra, e non vi riuscii; un dolore acuto, e lancinante, alla schiena e alla anca sinistra mi fece ricadere e sollo allora, mi accorsi di essere stato ferito; mi guardai attorno, e vidi
che il terreno tutto seminato di corpi di soldati, qualcuno ancora si muoveva e si lamentava, ma la maggior parte non si muoveva più!!! […] Io continuavo a raccomandarmi a quelli che mi
passavano vicino; Portatemi giù, per carità, ho quattro bambini; salvatemi la vita!!! Ma quelli badavano ai casi loro, senza
curarsi dei miei lamenti!!! Per caso un bersagliere, mi passò
tanto vicino che riuscii, ad afferrarlo, per una gamba, tanto mi
agrapai, che lo feci cadere, appenna che questi si rialzò fece
per prendermi per le spalle, forse per portarmi al posto di medicazione quando un aspirante ufficiale gridò: lasciate quel ferito, che ci sono i portaferiti apposta; e nel dir questo fece partire, un colpo della propria pistola, che prese di striscio, al collo
del povero bersagliere, che, cacciato un urlo, mi lasciò ricadere,
e raccolto il proprio fucile, seguì gli altri mentre, dal collo, gli
zampillava il sangue; e di lui non seppi più nulla. Io ricadendo
per terra, provai un dolore assai forte, ma non ostante gridai al
l’aspirante: vigliacco!!! […]
Quando tornai in me il sole era già tramontato, e allora mi prese un tale sconforto, vedendo che nessuno si curava di me, e
pensavo che durante la notte, senza essere soccorso sarei certamente morto!! E pensai ai miei cari, ai miei bambini che sarebbero restati orfani, e alla mia sposa, che non avrei più veduta, ai miei vecchi genitori, che mi avrebbero aspettato invano!!!
Ma pensai anche, che forse, in quell’ora i miei innocenti bambini, e la mia sposa stavano pregando il Signore per me, mi
confortai un pocco e pregai anch’io e dissi: Signore, datemi, almeno altri dieci anni di vita, a ciò che possa allevare grandicelli
i miei bambini.
Poco discosto da me, intanto vidi passare due porta-feriti con la
barella in spalla […]. Mi feci animo, e chiamai: portaferiti portaferiti!! E quelli si girano e si avvicinarono e dissero: Ma sei tu
Gherlinzoni, da quanto tempo sei qua? ed io: da stamattina alle
undici? Erano della mia stessa compagnia ed erano andati a portare giù, un altro ferito, poco prima che io restassi ferito, e poi si
erano imboscati e ora tornavano in cerca della compagnia.
Mi chiesero: soffri molto? e io: non ne posso più!! ed essi: ma
quanto sangue dove sei ferito? ed io: qui al fianco: Ben fecero
loro; coraggio ora ti portiamo giù, caricatomi sulla barella si avviarono. […]
Arrivammo dopo mezz’ora di corsa, su una strada tutte buche,
che mi sballotarono di qua e di là, e arrivammo all’ospedale da
campo 205 che era a Saciletto, paesino a alcuni Chilometri da
Carvignano, verso Palmanova e subbito fui portato in sala di
opperazione, dove spoliato che fui, venni visitato dal Colonnello
medico, assistito da due altri dottori che si accorsero subbito,
che la pallotola che mi aveva colpito, mi era entrata nel fianco
destro, un, poco in dietro, più verso la spina dorsale, e passando sotto a questa, aveva attraversato tutto il corpo, e aveva
battuto, su l’osso -illiaco-, quindi strisciando su questo, era
uscita, dall’inguine sinistro, dove aveva leso alcune vene, e lentamente andavo dissanguandomi, e seppi più tardi, che se fossi rimasto ancora poco senza soccorso, sarei certamente morto dissanguato. Providdero subbito a fermarmi il sangue, e dopo una sommaria medicazione, e disinfezione, mi portarono in
un lettino, in una camerata, dove si trovavano molti altri feriti.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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Fortuna
PRIAMO FERRINI
Priamo Ferrini, contadino toscano dotato di una scrittura venata di oralità, nel suo diario alterna la cronaca delle trincee,
della resistenza sul Piave e di una brutta malattia, con le speculazioni sul carattere imperscrutabile della fortuna, considerazioni tipiche del mondo popolare dal quale Ferrini proveniva.
Il racconto di una licenza di pochi giorni è tormentato da un
oscuro senso di incertezza.
[Giugno 1918] 15 giorni passarono presto e dopo mi toccava tornare lassù in dove avevo veduto che cosa c’era, stavo male perché pensavo a più cose un pensiero mi diceva non tornarci che
fai meglio non farai la vita bella ma stai sempre che in trincea,
l’altro pensiero mi diceva torna in su potreste avere anche la fortuna di non succedere niente, e dandoti chi sa come ti andra ha
finire, proprio non sapevo come fare, ma pero l’idea l’avevo sempre avuti di non tornarci se avevo la fortuna di scappare se trovavo ancora Vergilio e gli altri, e questi erano tutti piani che facevo dopo aver provato la trincea, ma si dette la sfortuna che gli
presero, e non posso dire che sia stata una fortuna e una disgrazia era proprio la stessa, anzi era molto meglio se non gli prendevano anche per me perché ero convinto di non tornare più se
trovavo dei compagni. E questo e stato tutto il mio pensiero durante la licenza. Poi anche gia sapevo la disfatta del 15 giugno e
sapendo di quei disastri non potevo stare contento, che ci dovevo essere anchio, ed invece la fortuna mi assisti e mi trovavo a
casa ed ogni giorno prendevo il giornale per sentire da che parte
di trovava il mio reggimento perché ero convinto di sapere da
qualche giornale e sapere come era andato a finire, ma non lo
trovato per niente, e dove ho lasciato la mia compagnia
compresi nel giornale che ci era la brigata Sassari ed allora
pensavo, ho si trova ha riposo, oppure tutto prigioniero.
Insomma sono arrivato al termine della mia licenza, e dovevo
ritrovare in linia non trovavo il verso di andarmene, a stare tanto pensieroso facevo star male i miei cari, mi sono fatto convinto di partire ma il mio cuore era gonfio di bilia la mia testa era
colma di pensieri.
Sono arrivato a sortire dalla porta della mia casa che tutti i
miei erano li vicino, per la mia partenza, ma propio non potevo
distaccarmi perché pensavo, siamo tutti quanti, io me ne vado
e chi sa se li ripotro rivedere come gia avevo perso la speranza
più di una volta. Insomma ho avuto tanto spirito di salutarli
tutti ed andarmene, ma ogni passo che facevo pensavo in dove
dovevo ritornare.
Poi camminando mi son fatto un po più coraggio, ma giunto alla stazione che cera mio padre pensavo che fra poco dovevo lasciare anche, giuta la tradotta ho salutato mio padre e sono
andato ha sedere in un angolo ha pensare a quello che mi ero
trovato e quello che mi potrò ancora trovare, poi che mi sono
trovato in tanti sfortunati tutti nello stesso modo ci si domandava da che parte ci si trovava, e cosi mi sono masso un po al
posto ed avevo tralasciato di pensare a tante cose […] quando
sono giunto al comando del Regg ho trovato un mio amico che
da tempo si era stati insieme e gli ho domandato di diversi nostri compagni, e lui la prima risposta che mi ha dato e stata
quella di dirmi che in tutta la compagnia giorno 15 ne restarono 5 di quelli che avevo lasciato quando parti per la licenza, e
mi disse che diversi erano morti chi all’ospedale e chi prigionieri nisomma era distrutto tutto quanto.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Renzo Re - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Trasporto di un ferito sul Piccolo Colbricon (Tn).
L’ALFABETO DELLA GUERRA
Luigi Coeta - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Prime cure prestate a un ferito nell’ospedale da campo.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
F
Fotografia
FRANCESCO TISCORNIA
Le lettere d’amore di Francesco Tiscornia, tenente siciliano inviato a Bologna, all’amata Armida. I due, da poco sposati, condividono per iscritto la loro quotidianità e tentano così, teneramente, di sopperire alla lontananza scambiandosi fotografie:
Francesco, però, non è mai soddisfatto di come lo ritraggono.
Bologna 3/8/18
Cara Armida,
hai pregato tanto che mi facciano lavorare anche di notte e cosi proprio oggi ricevo l’unito invito. Come vedrai dal testo sarò
comandato anche nelle ore di notte, quando cioè sarò libero
dal mio servizio, a decifrare i telegrammi che arrivano dal
Comando Supremo.
Come vedi non mi lasciano più nemmeno dormire di notte.
Sarai contenta adesso, non lo dirai più che vado dietro alle belle Bolognesi nelle ore di libero svago. Ebbene prendiamo anche
questa. Quando c’ è la salute c’è tutto. Del resto come ti dissi
già varie volte sono così contento e soddisfatto di tutto l’insieme che non mi da proprio noia l’andare all’intendenza Generale
a passarvi qualche ora anche della notte, Non ti puoi immaginare che cameratismo regni tra tutti noi, anche da parte di colonnelli e generali verso di noi poveri ufficialetti in erba c’è
quasi amicizia. Ti parlano con deferenza dandoti magari il buon
giorno ed il buon appetito. Cosa bisogna osservare è però la disciplina ed i superiori bisogna salutarli. Se manchi a questo
obbligo però la cosa è reciproca, non trovi un soldato che non ti
saluti, non un carabiniere, persino i marescialli di carabinieri
salutano i sottotenenti. Altro che lì, che se ne fregano dei superiori. […]
Tante cose belle e tanti bacioni
Tuo Francesco
PS.: Mi arriva in questo momento la tua raccomandata colla fotografia. Che porcheria, siamo alle solite, non ne facciamo altra
copia per carità. È proprio un fotografo cane o meglio scalzacane. Sulla busta scritto in lapis bleu c’è “Bello-Bel”. L’hai scritto
tu? Aspetta che abbia il vestito nuovo poi me le faccio fare qui,
vedrai che artisti. Qui usa far così: il fotografo prende 10 lire
per le lastre e poi ogni copia la paghi a parte, a seconda del
formato e della carta. Mi sembra più pratico, non è vero.
Rispondimi su quella parola… Bello… Ciao
Bologna addì 15/8/18
L’Assunta e ferragosto
Cara
In fatto di fotografie son proprio disgraziato. Come ti scrissi mi
feci fotografare qui da uno dei migliori fotografi della città,
Ebbene invece di essere il principale mi fece il ritratto un suo
commesso di modo che quando il padrone vide le prove mi disse che erano sbagliate e che bisognava ripetere perché il suo
dipendente aveva sbagliato nel mettermi in posa. Cosi ieri il
Fotografo Capo mi fece provare di nuovo a sue spese e mi prese in due posizioni differenti, una col berretto e l’altra senza, e
senza occhiali.
Speriamo che sia l’ultima e siano riuscite bene, cosa che vedrò
sabato quando andrò a vedere la prima prova. Intanto ti mando
queste due che mi prese un collega qui dell’ufficio. Mi sembra
di non esserci rimasto tanto male. Il male è che son troppo
grosso e grasso e stavo in mezzo a tanti mingherlini. […]
Ciao ciao tanti bacioni
Tuo Francesco
Bologna addì 24/8/18
Cara moglie
finalmente questa volta ci siamo? Vuoi che non è la mia faccia
cosi brutta come la dipingevano i fotografi di Genova? –
Cambiato artista – cambiato tutto.
E nota che queste fotografie non sono per nulla ritoccate –
Adesso sì che sono io. Sono rimasto naturale in tutte – fuori
che quella senza berretto – quella non mi piace proprio per
nulla. A parte ti mando quella per Gino e favorirai spedirla tu –
ed una copia per te, quella della bicicletta che in grande non
l’avevo fatta. L’ho fatte tutte grosse perché la spesa è la stessa. Peccato che erano finite quelle carte gialle e me l’hanno
fatte in bianco, col carbone scuro sotto – Sono un po’ antiche,
ma possono passare lo stesso. A Gino non occorre che la mandi
raccomandata, io dico che non si perde.
Mandami l’indirizzo preciso di Parmisini, corso Torino… […]
Mi scrivi di mandarti una piccola fotografia – ma come faccio,
dove vado a prenderla? Vuoi che vada nuovamente a farmi fotografare? Adesso basta no? […]
Ciao e tanti bacioni.
Tuo Francesco
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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F
Fucilazione
PAOLO CIOTTI
In guerra non si muore solo per mano nemica. Può accadere a
volte che un ordine dall’alto, che vorrebbe essere esemplare,
cagioni l’esecuzione di soldati del proprio esercito per futili
motivi. La percezione dell’ingiustizia, dell’assurdità e il dissenso da parte dei commilitoni può non essere sufficiente a fermare la folle imposizione: è quanto si evince dalle memorie di
Paolo Ciotti, sottotenente nato a Bologna, all’epoca poco più
che ventenne.
La vita di sacrificio, benché tale ancora non sembrasse, perché
ancora ricoverati nelle case, era già incominciata da diversi giorni; e negli stabili rimanemmo fino a che non ci accorgemmo che
essi erano presi di mira dal nemico. La mattina dopo ritornai al
battaglione con la Compagnia, rimanendovi qualche giorno. Le altre compagnie erano sempre in linea, e alla terza, il 2 Novembre
[1917] successe un fattaccio che rattristò immensamente.
Tre soldati, fra cui un caporale, erano stati sorpresi dal
Colonnello Brigadiere, mentre uscivano da una villa di Nervesa
con alcuni effetti di biancheria. Vi erano entrati così per quel
senso di curiosità, di cui tutti erano ancora invasi nel vedere
una casa abbandonata, e trovando nelle stanze deserte della
biancheria, avevano innocentemente commesso l’errore di scegliere qualche camicia e qualche paia di mutande per cambiarle con quelle sporche e piene di insetti che tenevano ancora
addosso fino dal Settembre. Il Generale li interrogò, prese il nome e cognome di ciascuno e tre ore dopo, quando ancora eravamo a mensa, un porta ordini del Comando di Brigata recò un
biglietto scritto a matita coll’ordine perentorio al Comandante
della 3° Compagnia di fare immediatamente fucilare da una
squadra dello stesso reparto i tre soldati, di null’altro colpevoli,
che di avere innocentemente asportato da una casa abbandonata una camicia e un paio di mutande. A nulla valse che il
Capitano Brenci e il Colonnello stesso scongiurassero il
Comando di Brigata di ridurre la punizione; la belva umana, anzi le belve umane, perché ad influenzare l’animo del Generale
non fu estraneo, si disse, il Capitano Oliva – Aiutante di Brigata
– furono irremovibili.
Il Ten. Medico Aschettino, che fu obbligato di assistere all’esecuzione, raccontò che i soldati della squadra che doveva far
fuoco, piangevano e così pure gli Ufficiali della Compagnia a
cui fu imposto di essere presenti alla tragica scena. Invece non
un lamento da parte dei giustiziati; prima di allinearsi, si baciarono e si rammaricarono soltanto, ad alta voce, di essere vittime di piombo italiano, anziché di quello nemico; poi pregarono
i compagni di mirar giusto affinché non li facessero agonizzare.
Vollero anche non esser bendati ed essere colpiti al petto.
Così, l’epilogo di un banale incidente! Oh! Quanti, per non dire
tutti, avrebbero dovuti essere fucilati per lo stesso motivo! Si
volle dare un esempio triste di rigidità militare che, se ebbe
l’effetto di impedire momentaneamente lo svaligiamento e la
razzia, ebbe altresì l’effetto di debilitare gli animi, sempre sotto l’incubo di pene feroci e di far nascere un odio grande contro
il Comandante di Brigata.
Venti giorni dopo, il padre di uno dei soldati fucilati, si recò ad
Arcade chiedendo del figlio di cui era privo di notizie, e il
Colonnello, che nessuna colpa aveva dell’accaduto e che aveva
pianto all’annunzio dell’ordine di esecuzione, dovette ricorrere
a pietose bugie per descrivere la fine del figlio. Il Generale non
si fece mai più vedere in linea. Se ci fosse andato, credo gli sarebbe capitato qualche brutto scherzo. Il Capitano Oliva invece,
vi andava spesso, e quando il 25 Novembre verso sera, ritornando da Nervesa a Case De Ros (dov’era il Comando) fu colpito da una palletta di shrapnel che lo ferì mortalmente noi tutti,
alla disgrazia del caso, vedemmo anche la giustizia di Dio!
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
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Fuga
DONATO VINCI
La guerra interrompe la quotidianità di questo contadino veneto che, nel mezzo di una giovinezza di ristrettezze e fatiche,
viene chiamato al fronte. Partecipa alla battaglia del San
Michele poco dopo il suo arruolamento e viene immediatamente preso prigioniero dagli austriaci che lo destinano a lavori di disboscamento e alla costruzione di una ferrovia. In
queste pagine della sua memoria, Donato rievoca la decisione
di fuggire con un compaesano: un’evasione che non durerà se
non qualche giorno.
Giunse il Lunedì dopo Pasqua del 1916 abbiamo lavorato quel
giorno mezza giornata cioè fino a mezzo giorno, il pomeriggio ci
fù concesso di riposo per farci un poco di pulizia personale
presso un piccolo fiume lì vicino, ed in quella mattinata mi buscai una bastonata da un caporale austriaco, allora anche
Pietro fù maltrattato, tanto da farsi prendere un’ulteriora decisione di allontanarsi con la fuga da quel gruppo, dicendomi io
qui non resisto più oltre;
Se tu vuoi seguimi. Altrimenti ti lascio, con la speranza di raggiungere il confino dell’Italia nostra.
Io però molto rassegnato non credevo ai suoi progetti, valutando la piena ignoranza di tutti due. In ogni modo volli seguirlo
per tanti altre ragioni, pensando, ha separarmi da lui, doveva
poi scrivere ai miei Genitori, è nel venire a sapere ciò, le famiglie certamente dovrebbero pensare a male, per chi s’ha cosa
sarebbe successo fra noi due;
Per tal ragione fui costretto di abbandonare quel logo, pur contro la mia piena volontà di non mai tradire il modo d’agire e di
fare, acconseti di unirmi alla fuga con quel mal desiderato
compagno.
Con la nostra poca roba che consisteva, del tascapane ha tracollo, qualche camicia alcuni paia di calze, un paio scarpe nuove strettamente tenutele conservate di due paia avutane in dotazione, quando ci fecero partire dal campo di concentramento
di Mauthausen, un telo da tenda, due piccole coperte, la gavetta è qualche pagnotta con qualche cosa altro per vitto necessario per un paio di giorni.
Prima di tutto nel iniziare la fuga, ci fecimo premura di allontanarci il più che ci fù possibile nella boscaglia, per non dar modo di venirci ha pescare al primo allarme, che certamente subito avrebbero dato.
In breve tempo ci trovammo lontano dal pericolo di essere
acciuffati, è per la durata di cinque giorni, quasi sempre in
cammino su di una cresta di alti monti.
[…] Nei primi albori della mattina seguente ripresimo il cammino tanto pericoloso, che ogni passo si provocava un rotolamento di sassi di ogni specie è grossezze, è col pericolo di essere
avvolti con i medesimi sassi fino alla loro nuova destinazione.
[…] Fattosi giorno mentre ci trovavamo ancora sulla cresta di
una montagna è boscosa, si sentiva in prossimità della valle
rimbombare, un prolungato fischio di una locomotiva, ove si
scorgeva anche la fine d’una seria di una catena di montagne.
In quest’altra ed’ultima discesa quasi nella valle trovassimo
una capanna con un piccolo deposito di paglia, qui pigliassimo
decisione di riposarci è dormire diverse ore, essendo molto
stanchi per non avendo dormiti la notte precedente.
Quando ci siamo svegliati nelle prime ore del pomeriggio del
quinto giorno, abbiamo ripreso di nuovo il cammino, però dopo
qualche ora essendo sempre tempo piovoso, appena usciti il
margine della foresta ci siamo trovati in una piana ove c’erano
solo alberi di quercia molto rapidi è senza macchia massa
od’altri cespugli, qui il Sig. comandante Pietro?,, con la sua immancabile bestialità volle comandarmi di radunare un poco di
legna per farsi il fuoco per asciugarsi i vestiti.
Ha tale richiesta mi rifiutai dicendo, non vedi che siamo vicino
a molto abitato e ha pochi passi dalla strada che certamente
da un momento ha laltro potranno passare soldati è gendarmi,
è facilmente col fumo che provocheremo facendo del fuoco, attirerà l’attenzione è ci verranno ha prelevare come due salami;
Questo mio giusto rifiuto al Sig. è padron Pietro non li andò giù
per niente, che subito imbestialitosi al pare di un somaro selvatico, saltando fuori d’ogni limite è con la sua zampa destra
imbrandì un legno per volermi menare! Questa volta l’ho sciagurato voleva fare il conto senza loste, ma!, sventurato lui che
trovò la reazione meritata
[…] gli dissi vai, mentre io essendo sicuro che ho tutto da perdere è niente da guadagnare, mi vado ha costituire al prossimo Comando di gendarmi!, nell’ascoltarmi volle dire, adesso
che vai dai gendarmi?! Di che vado io di qua la quale generosamente le risposi dicendogli, vai fin dove id’Dio ti permetta di
aiutarti, anche io ti do un buon augurio di riuscirci secondo il
tuo desiderio, è sappi che non sarò mai un vigliacco come tu
mi giudichi, dirò sempre ha costo di farmi ammazzare che vado solo.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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G
Generali
GIUSEPPE MIMMI
Giuseppe Mimmi, originario di Spoleto, partecipa alla guerra
come ufficiale e, dopo un lungo periodo in prima linea, viene
ferito nell’agosto del ’17. In queste pagine della sua memoriadiario rievoca l’orgoglio che aveva rianimato l’esercito italiano
dopo la campagna del Piave.
28 Ottobre [1918]
Alle ore ventitré della notte scorsa, le truppe italiane hanno iniziato la grande offensiva, che è in pieno sviluppo. Lungo tutta
la linea del Piave, attraversato i fiume, avanzano lentamente,
ma vittoriosamente, non ostante l’accanita resistenza nemica.
Le fanterie dei reggimenti 23°, 24°, 37°, 38° delle brigate Como e
Ravenna, […] hanno guadato il fiume alle grave di Salettuol,
vincendo enormi difficoltà, perché le passerelle gettate dal genio pontieri vennero presto distrutte dall’artiglieria nemica ed i
fanti costretti ad avanzare con l’acqua fino alla cintola, sotto il
fuoco violento delle armi automatiche, appostate sull’altra
sponda. A costo di sacrifici non lievi, riuscivano a sopraffare gli
austriaci, obbligandoli a retrocedere, ampliando poi, sempre di
più, il terreno conquistato.
Il generale Vigliani dirigeva personalmente le operazioni sotto
l’intenso fuoco avversario e di ciò glie ne va reso merito. Però è
strano il modo con cui si vuol mettere in evidenza il suo indiscusso coraggio e cioè attraverso la motivazione di una proposta di ricompensa al valore, che mi hanno fatto fare per il maresciallo Tellini, che lo accompagnava in macchina, e nella quale si parla più del generale che del sottufficiale. Lo scopo evidente è quello di mettere in luce il comportamento del comandante, affinché in più alto loco, venga fatta uguale proposta per
il generale. Non v’è dubbio che il comandante di una divisione
poteva esimersi dal rischiare la vita, andando in mezzo ai soldati, ma di conseguenza dovrebbero essere decorati tutti quelli
che hanno effettivamente compiuto l’azione. […]
6 Novembre
Ho lasciato di buon ora Colloredo e questa volta non per andare alla ricerca di locali o per guidare una carovana di carriaggi,
ma per compiere una missione inaspettata e nuova, che mi dà
un senso di soddisfazione e di orgoglio.
Fra le clausole del trattato di armistizio, vi è anche quella in cui
si stabilisce che, per il giorno otto corrente, debbano essere
occupate le zone lungo la nuova linea di confine ed i reparti
della 56^ divisione dovranno raggiungere, per l’epoca fissata la
dislocazione assegnata, nel settore medio del confine orientale. […] La via più comoda, ma più lunga sarebbe stata quella
per Udine, Cividale e la valle del Natisone, ma per evitare l’enorme traffico prevedibile, abbiamo preferito prendere la strada della montagna, che porta direttamente a Caporetto. […]
giunti a Platischis, abbiamo trovato la brigata Como, che marciava già verso la meta. Il parroco del luogo era in mezzo ai soldati e stava tenendo un discorso, pieno di entusiasmo e di patriottismo, mentre la popolazione acclamava festante.
Proseguendo per Bergogna, il primo paese austriaco di là dal
vecchio confine abbiamo incontrato il generale Tomassini, comandante della brigata, che ci vieta di andare più oltre, perché
la gente di quel luogo ci è ostile, e si ode qualche colpo di fucile. […]
Ripreso il viaggio, siamo entrati a Bergogna, insieme con
Tomassini. Qui abbiamo trovato un clima ed un ambiente nuovo. Il paese è pavesato da lunghi stendardi bianchi e turchini e
gli abitanti recano al petto coccarde degli stessi colori. La gente ha facce dure, prettamente slave e parla una lingua ostica,
incomprensibile. Gendarmi e soldati austriaci, jugoslavizzati
all’ultimo momento, ostentano un autoritario servizio d’ordine.
Ci fermiamo nell’unica piazzetta del villaggio e Tomassini convoca il sindaco, il parroco e gli altri maggiorenti del paese. […] Il
sindaco, in perfetto italiano, lingua che tutti conoscono benissimo, quando hanno voglia di parlarla, annuncia con enfasi, che
essendo stata proclamata la repubblica croata di Zagabria, loro sono i legittimi rappresentanti del nuovo stato e protestano
per la presenza delle truppe italiane! Tommasini scoppia in una
risata omerica e dopo averli apostrofati, con adeguati, ma irripetibili epiteti in pretto dialetto calabrese, fa loro energicamente intendere di non essere disposto a tollerare cretinerie
del genere e conclude ordinando l’immediata consegna di tutte
le armi, il ritiro dei drappi e l’ubbidienza assoluta ai suoi ordini.
E poiché erano intanto sopraggiunti reparti della 23° fanteria, i
plenipenitenziari della repubblica di Zagabria, hanno fatto atto
di sottomissione, i fucili sono stati ammucchiati sulla piazza e
le bandiere jugoslave scomparse.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
G
Giovinezza
SALVATORE PISANELLO
Un’adolescenza nutrita dalla voglia di essere arruolato come
volontario per combattere in difesa della propria patria. Tra le
mura del convitto, Salvatore ci racconta le esercitazioni in cortile, il secondo anniversario dell’inizio della Grande Guerra, le
incomprensioni familiari, le amicizie e la scuola che vuole lasciare.
25 aprile 1917
Vorrei andare volontario, ma visto e considerato che questo sogno non è possibile, mi sono deciso ad arruolarmi nel corpo dei
“Giovani Esploratori”. Io m’arruolo con la speranza di poter
combattere contro l’eterno nemico, e se riuscirò nel mio disegno, come del resto spero, sceglierò la sezione di Verona.
Questi miei sentimenti bellicosi s’erano raffreddati quando
seppi della morte immatura della mia amatissima sorella
Antonietta; ma subito poi passata la prima fase del mio dolore
mi si sono riaccesi. Io non vedo l’ora di poter compiere il mio
sogno, e quando questo avverrà mi dirò il più felice del mondo.
Ora aspetto il consenso di mio padre e che finiscano le scuole
sperando di essere promosso. Intanto ho cominciato a procurarmi i mezzi.
[…]
studio 9.10 di sera 19 maggio
Gli esercizi militari col moschetto
Finalmente dopo due mesi e più e dopo tanto aspettare, dopo
tanta ansia, stasera dalle 6 alle 6 1/2 noi alunni della squadra
di collegio terza quarta e quinta (dove in quest’ultima sono io)
ci hanno armati di moschetto e siamo usciti al prato superiore
di San Francesco sotto il comando del tenente Buoncompagni.
Domani domenica 20 maggio ci sarà il giuramento delle reclute
della classe 1898 ci andrà pure il plotone di convittori.
Correndo l’occasione ci hanno imparato il present’armi e i diversi ordini di marcia. Domani domenica alle nove si svolgerà la
cerimonia, il plotone dei convittori sarà inquadrato colla 1°
compagnia dei soldati; spero che sarò pure io implotonato.
Insomma vedrò domani.
20 maggio 1917
Il giuramento delle reclute
Stanotte ho dormito poco pensando sempre alla solenne cerimonia che si sarebbe svolta stamani, e temendo di non essere
implotonato. Finalmente è sonata la sveglia, e io a domandare
di qua e di là se io ero sì o no implotonato, tutti mi rispondevano negativamente. Ma quando siamo usciti da colazione il censore leggendo di quelli che dovevano essere implotonati, ho
sentito anche il mio nome e ho dato un balzo dalla gioia.
Vestitici cogli abiti grigi da passeggio, siamo scesi giù in palestra dove abbiamo trovati i moschetti disposti incontro il muro,
ci siamo armati e al “plotone avanti march” disposti per quattro e in cadenza siamo usciti dal collegio e siamo andati sul
prato ove abbiamo trovati i soldati con il tenente
Buoncompagni. Dopo una quindicina di minuti è stato dato l’ordine di marciare, e noi ultimo plotone della prima compagnia
abbiamo seguito i soldati […]
Abbiamo fatto la sfilata mentre la musica intuonava la marcia
reale; io sono stato preso da vero entusiasmo e come spero
non tarderò a offrire il mio braccio alla patria.
[…]
24 maggio
Orsono due anni l’Italia conscia dei propri diritti entrava in
guerra a fianco dell’alleati contro l’Austria. Oggi secondo anniversario vi è stata vacanza. Non si è svolta nessuna cerimonia
ma dicono che oggi ci sarà qualcosa; io a ricordarmi di due anni
fa il mio cuore ha palpitato e mi si è acceso l’entusiasmo. […] Io
non so veramente che mi sento, vorrei andare al fronte per morire; mi sembra così dura la vita quando penso ai casi miei, che
mi viene un desiderio di morire.
Dunque come ho detto mi sono acceso di entusiasmo, sono impaziente di stare in collegio non vedo l’ora che si chiudano le
scuole; qualcuno forse riderà, ma io voglio andare al fronte.
Ripenso sempre al maggio del 1915, quando la gioventù d’Italia
accorreva lieta e piena d’entusiasmo ad offrire le loro vite per
la grandezza della patria.
Gloria ai caduti! Gloria agli eroi che non curanti della loro giovinezza s’immolarono sull’altare della patria per una più grande
Italia, più forte e più temuta!
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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57
H
Honved
ANONIMO
Il diario di un ufficiale austriaco ignoto viene rinvenuto sul
campo di battaglia. Sul versante opposto all’Isonzo, a fronteggiare le truppe italiane lungo la linea del San Michele, sono
schierati anche i reparti del Regio esercito ungherese (Magyar
Kiraly Honvéd) di cui egli fa parte. Il testo ripercorre il periodo
dal 13 luglio all’11 agosto 1915. Non si hanno notizie del suo
autore che vede morire, con sofferenze inaudite, i compagni di
trincea esprimendo odio per le atrocità della guerra e disprezzo per il nemico.
19 luglio [1915]
Gli italiani sono impazziti tutti. Ma è questo il modo di sparare?
Mi pare che la ci vada piuttosto male.
20 luglio
Anniversario di Lissa. mene infischio! Messe di campo discorsi
patriottici. Il cappellano militare ha detto oggi tante messe chi
deve essere mezzo ubriaco […]. Banchetto. discorsi spumante.
triplice evviva. Il Signor Maggiore si è ubriacato come una troia ed
ha vomitato come uno studente. Qualche cosa di stupendo il patriottismo. E poi mi si strapazza perché non sono un patriota.
Pardon sono nato sloveno, ho passato gli anni dell’infanzia a
Vienna, la prima adolescenza in Boemia, due anni a Budapest, tre
in Svizzera poi a Parigi… e poi un povero diavolo dovrebbe sapere
ciò che veramente è, ed essere per giunta un patriota austriaco.
[…]
23 luglio
Povera di vita questa! invece che a ½ notte ho raggiunto la trincea sulle 4½. io credo che il caporale volontario di 1 anno, l’italiano, voleva farmi sbagliar strada. Una brava persona e colto.
si dice che se non fosse italiano, sarebbe già alfiere, mi sorprenderebbe se non fosse così “Salve o mia Austria!”.
[…] Umanamente incredibile ciò che succede qua, tutti zaini,
gambe, zolle di terra, visceri, pietre tutto vola in aria. È un frastuono come se il mondo volesse ritornar al Caos. I miei soldati
sono istupiditi e pallidi dal terrore. non basta che i porcaccioni
che abbiamo rilevato ci abbiano lasciato indietro i loro morti
puzzolenti. Anche la maggior parte dei miei è già fatta a brani
dalle scheggie. se vale la pena di ridursi in tale stato per questi
quattro sassi pidocchiosi del Carso.
24 luglio
Notte terribile. Vorrei essere già morto. O non ci si farà uscire
mai più da queste zolle, o ci si estrarrà pazzi. […] Vorrei conoscere il poeta capace di mettere in belle rime questi versi tracciati, questi brandelli di carne. questi torsi troncati, e la chiazza di sangue dei brani di cervello. Ho avuto comunicazione che
un’intero Battaglione di Honvvard si è arreso e che il tiro italiano ha prodotto grandissimi danni anche all’artiglieria.
Stiamo freschi! Ore tragiche, eppure bisogna che rida, non ne
posso fare a meno. Una scheggia di granata ha asportato i genitali al mio attendente.
Eppure il mondo è così volto! No, proprio li doveva far centro la
granata italiana. Povero Idenko!
È certo che tu non andrai in giro a far veder la tua gloriosa ferita. Specialmente non la mostrerai alle belle del villaggio.
[…]
6 agosto
Oggi ho visto per la prima volta soldati della Landsturm con fucili Vendoll. Credevo di scoppiare dalle risa. E la baionetta che
s’è applicata!
È vero che gl’italiani sono ancora alle lancie, ma l’antico non è
ridicolo, il “fuori moda” invece sì. Nessuno riderebbe dinanzi ad
un cavaliere in armatura: di un borghese in frak e pantaloni
quadrigliati riderebbero anche i morti. Fucili Vendoll! si spara,
poi si prega il nemico che per l’amor di Dio non si muova, poi si
ricarica, si spara e così via. […] Gl’italiani sparano senza posa.
Oggi ho chiesto di Kern. È considerato disperso ma lo si ritiene
morto. Peccato un’ufficiale valoroso, un uomo di cuore. Non si
sarebbe detto che fosse un’ungherese e per giunta ufficiale di
carriera. Pace alle sue ceneri.
Per mare la ci và splendidamente. Un sottomarino nostro ha silurato e affondato la Dreadnought “Conte di Cavour”. Così la trinità italiana si trova unita un’altra volta in fondo al mare “Re
d’Italia” “Garibaldi” “ Conte di Cavour”. Varsavia caduta.
Dublino presa. Banchetto alle 8 ½. Non ci vado. Il Cantiere di
Monfalcone è in fiamme. Meravigliosa scena di guerra. Pare
che gl’italiani sgombrerebbero le loro posizioni.
58
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Luigi Coeta - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Oltre al nemico si dovevano sfidare i rigori dell’inverno…
L’ALFABETO DELLA GUERRA
Per non dimenticare: colonna mozza eretta nel 1920 sulla
cima del monte Ortigara (Vi) in memoria dei caduti della
Grande Guerra.
© NAZZARENO BERTON E SERGIO CARLESSO
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
I
Ideale
EUGENIO ANZILOTTI
Deciso interventista, Eugenio partecipa prima ai combattimenti sul Carso, poi, come funzionario ministeriale alle trattative diplomatiche dei più importanti negoziati postbellici.
Dopo aver letto il “diario di un ufficiale austriaco morto su San
Michele nel luglio 1915” ne commenta la storia, interessato alla personalità del militare senza nessun pregiudizio. Nelle sue
riflessioni, Anzilotti apprezza lo spirito indomito dell’anonimo
ufficiale che affronta le battaglie sorretto da un forte ideale di
patria, fiducioso nella vittoria e nell’imperatore. Un’anima “sognatrice e sentimentale”.
15 luglio 1916 = Un diario di un ufficiale austriaco morto su S.
Michele nel luglio 1915.
– Contiene tutti gli elementi di una pietosa storia, e per delineare il carattere della persona.
È scritto con efficacia, con vivacità, con sentimento: è un documento interessante, che ha del romantico.
= Spirito entusiasta, pronto al sacrificio, odia l’Italia, ritenendola traditrice, ma ne sente il fascino specialmente attraverso
l’affetto ed il ricordo di una donna, amata e che ama ancora,
una donna che era signora di [lui]. Sembra allontanato da essa,
e pur ne serba vivissimo il ricordo e ne subisce fortemente il
fascino. Ad essa attribuisce il risveglio di un forte senso di ammirazione per opere [d’arte], e ricorda quelle vedute insieme in
Italia. In questo posto di passione [sogna] alti sentimenti e si
[appassiona].
È profondamente religioso: fida sulla vittoria, perché ritiene
giusta la guerra. Se non scorge le proprie armi vittoriose, ne
dubita però.
Invoca Dio con un senso intimo, vivo, meraviglioso di fiducia.
Odia brutalità, indifferenza ed il lazzo. È per questo che si tiene
lontano dai colleghi. Almeno dentro sé li disprezza. Sono proni
al vizio (ne parla spesso come dediti alle orgie di ogni specie),
senza pensare che vi è chi combatte e chi soffre, v’è chi a casa
patisce la fame.
Si apparta ed un amico gli suona Grieg, Händel Beethoven: è
musica che gli rammenta pure l’italiana.
– [Freme] di spirito militare, di venerazione per la famiglia regnante e bacia, piangendo, le mani dei principi della casa imperiale.
Ferito leggermente, è fiero del sangue versato. «Chi muore per
la patria e per l’onore di Asburgo, non muore!» Non tutti gli
ufficiali, sembra però, pensano così!
Inorridisce per le perdite subite nel luglio 1915 su S. Michele: si
sente che di fronte alla poderosa offensiva italiana diminuisce
il suo disprezzo per i soldati italiani (luglio 1915).
Ha momenti [anche] di depressione, di scoraggiamento.
Ma ha accanto slanci vivi, nobili: il suono delle fanfare e le
[parate] lo commuovono, come lo commuovono i ricordi di
famiglia. Rammenta persone e cose. (p. es: Un Cristo emaciato
nella cattedrale di Villach).
Mi apparisce così una anima seria, sognatrice, sentimentale,
forse per questo un po’ debole.
In Lui è una lotta fra ideale e reale, fra quanto Egli aspira e
coltiva nell’anima sua e che importa sacrifici di pensieri e di
sensi, e tutto quello che di terreno gli fa [contrasto] e cerca
condurlo in direzione contraria.
Egli riscontra in sé il male, ed allora si disprezza e ricerca lo
slancio che nobilita.
Religione, Amore, Patria, Ricordi… agitano quest’anima intensamente.
– Pace ad Essa!
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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61
I
Ironia
ALESSANDRO VECCHIOTTI
Torinese, studente di ingegneria, Alessandro parte volontario
per il fronte carsico: le lettere che invia alla famiglia sono ricche di dettagli legati al vivere quotidiano, con poche esternazioni ideali, ma con i segni di una giovanile e inconsueta ironia:
la disincantata capacità di cogliere il dettaglio che dà un senso diverso agli orrori circostanti.
14/12/1915
Cari fratelli, a rapporto!
I fucili sparano
I cannoni rombano
I proietti scoppiano
Le pallette fischiano
Oh che bel mestiere fare l’Artigliere
Sono dentro un’abitazione troglodita, seduto su una panca di
legno che mi serve presentemente da scrittoio e che l’abilità
dei miei soldati ha elaborato.
La mia abitazione è piccina piccina e la condivido coi soldati
del mio pezzo, per compenso c’è il palchetto di legno, un addobbo di teli da tenda, un caminetto che fa fumo ecc. ecc.
Raccontarvi tutto il viaggio sarebbe troppo lungo, d’altronde la
mia posizione è terribilmente incomoda per potervelo fare senza eccessiva mia fatica. Sono partito da Torino, e questo anche
voi lo sapete, ho cominciato subito a mangiare cioccolatini e
questo ve lo immaginate e sa Iddio se ho dovuto faticare e se
mi è stato necessario del tempo per esaurire la provvista. Però
lungo il viaggio ho sempre trovato qualche collega che mi ha
aiutato nella bisogna. Sono saltato da un treno all’altro e ho
adoperato vari mezzi di locomozione: l’autocarro pieno di sacchi di castagne, il carretto, il cavallo, e sono giunto a destinazione. […] Voi vorrete sapere dove sono?… Sono sopra un monte. Prendete una carta del teatro di guerra, ai posti d’orchestra
cercate un nome impossibile che sta tra lo starnuto e il colpo
di tosse; ne troverete moltissimi, e molti ne ho già trovati io per
venire qua, prendetene uno a caso, quello che vi piace di più, e
lì fate conto che sia io. […]
16/12/1915
Ha piovuto infatti; non molto, una pioggerella fine che è bastata
a sciogliere la neve e a infangare i sentieri. Oggi le artiglierie,
tanto da una parte che dall’altra, hanno lavorato poco.
Ora i monti si profilano pezzati di neve per la luce che trapela
da una cortina di nubi; vicino si vedono delle luci sul trincerone, la valle è coperta da nebbia. La mia compagnia alla mensa
sono sei o sette sottotenenti di artiglieria e con loro si fa musica orale; un romano legge le poesia di Trilussa, si scherza, si ride, e nell’antro formato da pietre e sacchi di terra accatastati,
piccolo scuro e fumoso, mangiamo in stoviglie primitive cibi
migliori di quanto potete credere (tutte le sere il dolce).
Bandita l’acqua perché, dovendola portare dal basso a dorso di
mulo, tanto fa portare solo il vino. Si passano ore di buon umore, sempre pronti però – o italiani le sentinelle vegliano – ad
andare al pezzo.
19/12/1915
Cari fratelli,
stamattina per la prima volta da quando sono partito da Torino,
mi sono lavati e puliti i denti. La cosa sembra a voi naturale, ma
non a me, né ai miei compagni che quando lo hanno saputo mi
hanno accusato di epicureismo. Ciò che ancora aspetto è di radermi: l’ultima volta mi feci la barba a Cividale, e adesso la barba orribilmente lunga mi dà un aspetto da “poilu” e mi fa male
alla gola. […]
23/12/1915
I giorni ora sono belli e promettono un buon Natale. Vi manderò
il menu del pranzo di quel giorno e stupirete. La baracca dove
ora abita il comando della mia Batteria è la più grande e sfarzosa delle vicinanze: ha una stufa di ghisa che fa poco fumo,
una porta con un buco, una lampada a petrolio provvisoriamente senza petrolio, un tavolo largo e lungo, dei banchi lungo le
pareti. Il tutto fabbricato sul luogo partendo dalle materie prime. Grazie alla magnificenza di questa baracca vi si farà il
pranzo di Natale, e sarà per dodici persone, non tredici perché
porterebbe disgrazia e perché non ci si potrebbe stare. […]
Dimenticavo dirvi che ieri mi sono fatta la barba, aveva la venerabile età di 14 giorni. La gioia che ne ho provato era ancora superiore a quella che ho provata dopo essermi pulito i denti dopo una settimana. Non vi ho neppur detto che sono da molti
giorni tornato all’uso del sapone.
62
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
I
Irredentismo
ELISA SEPPENHOFER
Nell’estate del 1915 Elisa cerca di raggiungere, in Svizzera, il
marito irredentista, ma viene arrestata dalla polizia austriaca
che l’accusa di spionaggio. Imprigionata, ha inizio per lei un
calvario che durerà ben tre anni durante i quali, spostata in vari carceri, subirà patimenti e angherie di ogni genere.
Partita da Gorizia il 18.6.915 per Trieste ove mi attendeva mia
sorella, credeva di stare in pace e di riposare la notte, ma le
continue incursioni di Aeroplani italiani poco si riposava.
Rimasi fino al 13 agosto e decisi, dopo aver avuto il permesso
delle autorità militari, di accasarmi a Vienna e di avere qualche
notizia dei miei e eventualmente poter andare in Isvizzera. Ebbi
anche regolare passaporto. Colà vidi parecchi cari amici. […]
Passai bene 5 giorni, mi proposero di partire, ebbi diverse visite
di persone che volevano darmi incarichi per persone di parentela ecc.
Alle 8 di sera rientrata all’albergo colla Sig. Ortensia 2 agenti in
borghese mi attendevano, si fecero mostrare il mio passaporto
che avevo in piena regola e mi invitarono di andare con loro alla
Polizia-Shitteuring. […] Dopo pochi momenti di attesa fui condotta dal Commissario Superiore Dr. Pollak tipo poco simpatico
di aguzzino. Mi fece molte domande sulla mia famiglia e di fatto m’accorsi ch’era ben informato di tutto. Dopo un lungo interrogatorio mi disse che doveva trattenermi in arresto aggiungendo che tutta la mia famiglia era sospetta e che probabilmente i miei figli combattevano contro l’Austria. […] Fui condotta da un agente in borghese alle carceri dell’Elisabethprison
e dopo una minuziosa visita delle cose mie e alla mia persona
(fatta da donna apposita) fui rinchiusa in una cella angusta illuminata a gas. […] Rimasi li fino a domenica mattina credo il
20 agosto del 1915. Verso le nove venne la guardia a dirmi di
tenermi pronta che doveva andar via. Io credeva di poter essere
lasciata libera, ma quale fu la mia disillusione quando i miei 2
crucchi, che aspettavano chissà che persona pericolosa, mi
dissero se desideravo andare a piedi o a mie spese s’intende in
vettura giacché venivo trasportata agli arresti del
Landesgericht, ove alcune celle sono adibite per inquisite politiche. Tutto il mio bagaglio era già stato levato dall’albergo
Veisenhahar ove avevo pernottato 2 o 3 notti e portati alla
Polizia […] accompagnata da 2 angeli custodi, perché uno era
troppo poco, fui consegnata all’ufficio del carcere. Anche li altro interrogatorio sulla mia nazionalità, cultura, conoscenza di
lingue, ecc. Fu trattenuto tutto il mio danaro perché sospetto di
spionaggio pochi gioielli vestiti qualche libro ecc. Solo un vestito una veste e pochissima biancheria mi fu concesso di portare
in cella. Verso le 11 ½ entrai nel mio nuovo appartamento N.
194 ove si trovavano già altre 6 infelici 4 per reato politico 2 comuni. Mi fu dato un po’ di minestra, una porzione di verdura
tutto immangiabile, mangiai 2 cucchiaiate ed un po’ di pane nero. […]
Dopo quasi 7 mesi di pene, angherie terribili, insonnie, tormentata da cimici e rovinata da tanti patimenti, fui chiamata ancora dal Dr. Hein il quale con strana cortesia mi disse che loro desistevano d’ogni accusa e che sarei passata fra breve alla
Polizia la quale destinerà dove potrò andare. […] Ero accusata
nientemeno che di spionaggio, perturbazione della pubblica
quiete e provata diserzione dei miei figli s’intende. Dopo aver
fatto parecchie perquisizioni in casa mia, a Trieste da mia sorella, non trovarono nulla di compromettente e per ordine militare fui confinata a Pöggstall Austria inf, al di là del Danubio
luogo abbastanza lontano da qualunque centro importante, la
città più vicina è Melk! Passai altri 5 giorni all’Elisabethpromenade, carcere di passaggio. Tutte donne di malafare, che 2
volte al giorno vengono arrestate nei locali pubblici e per le
strade, passano subito la visita medica e poi hanno piccole condanne. Io per fortuna ebbi stanza con due signore che erano sospette politiche; passai anche là tutte le umiliazioni possibili e
finalmente martedì 14 marzo accompagnata da un detective
borghese, molto andante, mi lascio impostare alcune lettere,
partimmo per Melk e poi in vettura attraverso il Danubio in
ferrybott attraverso bei boschetti arrivai alle 5 pom. a Pöggstall.
Il mio avvocato […] la seconda volta venne all’Elisabeth promenade e mi assicurò che Pöggstall è un bel luogo di villeggiatura,
che avrei trovato molti italiani e forse gente di Trieste. Io venni
qui piena di speranza, che almeno dopo 7 mesi di terribile prigionia avrei potuto parlare la mia lingua.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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63
I
Isonzo
ANTONIO FERRARA
Un ufficiale di fanteria della provincia di Potenza racconta, tra
vicende personali e precisa cronaca militare, due delle
battaglie dell’Isonzo. Dal 4 agosto al 17 settembre del 1916 le
truppe italiane sono infatti impegnate nella sesta battaglia
dell’Isonzo, terminata con la vittoriosa presa di Gorizia, e nella
settima, che vede invece respinta l’offensiva italiana.
4 Agosto. [1916]
Inizio dell’azione offensiva per la sesta battaglia dell’Isonzo, la
battaglia di Gorizia, con azione dimostrativa sul fronte di
Monfalcone, a q. 181, a q. 85, sul Sele e sul Casich.
La preparazione del fuoco di artiglieria è intensissima, come
mai visto finora. Il nostro battaglione, su due colonne, agisce
su q. 85, dove facciamo circa 400 austriaci prigionieri con
ufficiale e una mitragliatrice in perfetta efficienza. Questa è
stata presa mentre la puntavano contro di noi da un mio
coraggioso soldatino.
Purtroppo non possiamo tenere la posizione perché presa
d’infilata da raffiche di mitragliatrici provenienti da q. 121 non
espugnata. Siamo perciò costretti a ritornare nelle nostre
posizioni di partenza.
I soldati hanno portato via tutto il portabile dalla posizione
espugnata, fra cui diverse mazze ferrate. Chiedo il favore che
me ne siamo lasciate un paio per mandarle a casa per ricordo,
se mi sarà possibile. Me ne vien data una mazza regolamentare
e una di rozza costruzione, ma ancor più dannosa. Mi vien dato
anche un binocolo austriaco. […]
9 Agosto.
La nostra azione dimostrativa questa volta è servita a
qualcosa: ha consentito al 28° Fanteria di raggiungere Gorizia.
La battaglia, infatti, al 6 Agosto ha spostato il suo fiato rovente
sul suo obiettivo: Gorizia, con inizio di una furiosa preparazione
di artiglieria.
Arriva la notizia che il Sabotino è caduto e che alle 8 del
mattino del 9 Agosto Gorizia è stata espugnata. La notizia
riempie di gioia tutte le truppe della III° Armata.
10 Agosto – 13 Settembre.
Il Reggimento va a riposo a Crauglia, un paesino posto fra
Aiello e San Vito, non lontano da Palmanova. La truppa è
alloggiata in baraccamenti costruiti dal Genio, gli Ufficiali
presso case private. […]
14 Settembre.
Ha termine il turno di riposo e questa sera si ritorna in trincea
per prendere parte ad un’altra azione offensiva: la settima
battaglia dell’Isonzo. Il gazzettino del Reggimento, il
Sottotenente Comandini, figlio del Ministro, che riceve ogni
giorno posta dal padre, ci elargisce le notizie politiche romane,
le quali sono a volte finanche sconcertanti!. […]
Per andare in linea ci fanno passare l’Isonzo sul ponte di
Sagrado e poi sostiamo nel “Vallone” con sistemazione in
trincee arretrate. […]
Per l’azione offensiva a me viene dato il comando di una
colonna di attacco formata da due Compagnie. Comandante
del Battaglione indietro e Comandante del Reggimento ancora
più indietro.
La nostra artiglieria apre il fuoco con pezzi di tutti i calibri.
Entrano in azione le bombarde che hanno il compito di
sconvolgere i reticolati e le trincee nemiche.
Do le istruzioni per l’azione offensiva raccomandando ai
Comandanti di Plotone ed ai capi squadra di balzare subito
nella trincea austriaca che dista dalla nostra appena una
trentina di metri, espugnarla e immediatamente rovesciarne il
fronte di difesa e offesa. […]
All’ora stabilita, al cessare del fuoco delle bombarde e con
l’allungamento del tiro delle nostre artiglierie, scatta la
colonna all’attacco.
L’azione riesce bene, senza perdite, con conquista del
trincerone e della sottostante dolina, che viene subito
battezzata Dolina dell’acqua poiché nel fondo è piena d’acqua.
Facciamo parecchi prigionieri che non oppongono alcuna
resistenza e sono ansiosi di essere avviati al più presto nelle
nostre retrovie. Evidentemente temono di essere riacciuffati da
un possibile controffensiva da parte dei loro commilitoni!.
Do gli ordini per organizzare immediatamente a difesa la dolina e
chiedo nel contempo al Comandante del Battaglione dei rinforzi.
64
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
L
Lavori forzati
GIUSEPPE BATTISTEL
Un falegname veneziano racconta nella sua autobiografia la
straziante esperienza dei lavori forzati, che l’uso di una scrittura
semplice, e a tratti sgrammaticata, contribuisce a rendere forse
ancora più diretta. Fatto prigioniero e deportato a Mauthausen,
Giuseppe deve fare i conti con la fame, il freddo e la fatica che
dominano le sue interminabili giornate scandite dal duro lavoro
e dai lunghi spostamenti. Ciononostante trova la forza di lasciarsi sorprendere, incuriosito, dall’aspetto delle truppe tedesche, turche e austriache, che descrive nei minimi dettagli.
16 Agosto [1916] partenza da Verde e si arriva il 19 al campo di
concentramento di Mauthausen […]. Il giorno 2 Settembre fecero un battaglione di mille uomini e ci mandarono ai lavori si
parte da Mauthausen si passa per Budapes Itri Leopoli capitale della Galizia e presa dai Russi in principio della guerra il
giorno 7 si arriva a Premislani quì smontammo dopo 130 ore di
ferrovia il giorno 9 ci mandano a fare trincee e reticolati al
fronte Russo […], il giorno 4 Ottobre dopo 20 chilometri a piedi,
arrivammo in un paese Russo, […] il lavoro era faticoso e il
mangiare poco, si doveva fare sveglia alle 4 mangiare un po di
acqua calda con qualche patata, alle 6 al lavoro e si doveva
stare con questo poco di rancio fino alle 4, che si ritornava dal
lavoro, a mezzo giorno non si poteva mangiare perché la strada
era molto lunga, ci voleva 2 ore andare e 2 ore venire, e tutta
strada di montagna con terreno paludoso, alla mattina del 9
Agosto, ci danno da mangiare acqua bollita con un poco di sangue di un piccolo maiale, che avevano comperato per le sentinelle, e qualche buccia di patata dentro, perché le patate si
erano sciolte, noi tutti daccordo non abbiamo mangiato, allora
decidiamo di mettersi a rapporto, di andare al lavoro, ma nessuno lavorare, venne avvisato il tenente che comandava la
compagnia, che a mezzo dì venne, col capo lavoro, ma noi restammo sempre li, fermi con la palla in mano, allora fece
schierare tutte le sentinelle davanti a noi, col fucile spianato, si
mise a gridare ad alta voce, lavorare, alla prima volta nessuno
ci badò, ma alla seconda volta ci si mise adaggio a lavorare, in
quel momento tutto era contro a noi, perfino la pioggia che si
rovescio a secchi rovesci, poi ci fece a dire per mezzo del lin
terprete, che chi non vuole lavorare ce lo dica che sarà immediatamente fucilato […], il giorno dopo ci fece smettere il lavoro
un ora prima, e andavamo in grannaio, quì avevano legati 5 uomini al palo incolpati come iniziatori, e caporioni della rivoluzione, […] questi poveri Italiani piangevano, erano legati con le
mani di dietro a un palo, e una corda ai piedi, si dovevano sostenere con la punta dei piedi, dopo 2 ore vennero slegati, questi poveri uomini caddero a terra, erano svenuti […], allora il tenente ci disse che se cera qualche altro che avesse da dire
qualche altra parola lo metteva al palo. Dopo il lavoro di queste
trincee ci mandarono a lavorare nelle cave di pietra, il lavoro
non era tanto pesante, ma ci volevano 2 ore di strada alla mattina e 2 alla sera […], pulizia non se ne faceva più si erano divenuti come i maiali, intanto si erano arrivati al mese di
Novembre, e cominciava un altro nemico, il freddo quì la neve
veniva abbondante, e si gelava per la strada, e si erano vestiti d
estate, con giubba e camicia sottile, senza malia senza capotto, e si doveva lavorare sempre fuori le scarpe rotte che quando
faceva scirocco si doveva camminare nel fango fino al ginochio,
quì si era a Aulcha e Coino 2 paesi vicino al fronte Russo. In
questo fronte si vedevano soldati Germanici e Turchi, quì si lavorava per rimediare una strada Provinciale […], i Germanici
per questa strada passava di continuo, queste truppe le immaginavo formate da uomini molto più giovani, nella faccia di questi uomini si leggevano i segni di stanchezza, della lunga guerra, ce ne erano di giovani, ma anche di vecchi, dai 40 ai 45 anni,
di questi uomini, molti avevano i baffi lunghi, e dal freddo e
dalla neve li avevano sempre pieni di ghiaccio, cose che non
avevo mai viste i Turchi poi erano tutti ammalati, e parevano
tanti malati che camminavano, quello che son restato abbaliato
era lartiglieria Germanica […], e le cucine anche queste belle e
grandi, facevano da mangiare in marcia […], tanto fumo ma poco
arrosto, perché anche per queste truppe il rancio non era tanto
abbondante, il pane si vedevano che lo tagliavano come il prosciuto, e nel rancio cera molta acqua. I soldati che gli Austriaci
si servivano, nelle retrovie erano quasi ridicoli, erano uomini
storpi, zoppi, senza un occhio da 60 anni, ragazi di 10 o 12 anni,
che vestiti da militari facevano i carrettieri e altri lavori.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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65
L
Lettera
PAOLO CAPECCHI
Dall’epistolario di Paolo Capecchi, un giovane fante che scrive
alla famiglia dal fronte, pubblichiamo una commovente lettera
dei genitori che chiedono notizie. La ripetitività con cui il padre
implora il figlio di scrivergli quotidianamente e di raccontare
loro la verità sulla situazione, testimonia la paterna preoccupazione e ci fa comprendere quanto la guerra coinvolgesse direttamente anche la quotidianità dei civili, in apprensione per
la vita dei propri figli.
Abbadia S. Salvatore 31 maggio 915
Caro Figlio
Sentendo dai giornali tante cose, noi stiamo molto in pensiero
per te. Dunque mi raccomando, di nuovo che tu ci scrivi anche
tutti i giorni; se fosse possibile, che potessomo almeno
rianimarci anche fosse un rigo, e che per avere questo rigo ci
volesse anche quanto si sia non ce ne importa niente; basta
sapere le tue nuove; caro figlio se e possibile ci
raccomandiamo.
Ora ti pregherei anche farci sapere come mi ci dici, che non ai
ne fucile, ne cartuccie e tante altre cose; di te e dei tuoi compagni se ai tempo e che puoi scrivici tante cose tanto buone,
come cattive, buone se ci sono, e cattive se vengono; non ci nascondere nulla per carita.
Ci dicano che i nostro paesani anno fatto parecchie avansate, e
non cie tanto male se fosse possibile anche questo si avrebbe
piacere di saperlo, che cosi almeno si saprebbe la verita e non si
starebbe su l’incertezza. farci sapere che cosa fa Ferruccio se e
vero che si e battuto più di una f volta, e cosa fai te dirci proprio
la verita: anche dei tuoi compagni, ci raccomandiamo la verita
Ci dirai noiosi perche ripetemo tante volte le medesime cose.
ma capirai bene che sono tutte cose che si avrebbe piacere di
saperle tanto volentieri perche solo te possi farci sapere la verita se tu puoi, spero di si
Ti abbiamo scritto 3 letere con questa e al giorno di oggi non b
abbiamo avuto nessuna risposta speriamo che siano state per
la strada e che le riceveremo tutte insieme. tanto te che noi
qua All’Abbadia partono tutti 1° 2° 3° insomma eguale con
quelli che si credevano sicuri vengono sotto
Caro Figlio fatti tanto coraggio che anche noi ce lo facciamo,
che presto passera, e tu potrai tornare, vittorioso nelle braccia
dei tuoi cari coraggio anche ai tuoi compagni e Paesani e a tutti
e raccomandiamoci a Gesu e alla Madonna S.S. e spero vorra
aiutarci e liberarti da tuoi pericoli non ti dimenticare di dirle 3
Ave Marie, quando ti trovi angustiato che vedrai ti aiutera saluti
di tutti i parenti dandoti la paterna e materna Benedizione
[…] dico i tuoi Genitori
Gigi Luigi
66
¬
L’ALFABETO DELLA GUERRA
L
Libertà
FRANCESCO ISOLA
L’autore racconta la guerra nell’Isonzo tra il 1914 e il 1918, la
prigionia in Westfalia e le sofferenze patite in diversi campi di
concentramento. Tutti i prigionieri sono in attesa di notizie,
sperano che la fine del conflitto sia ormai vicina. Scene di indescrivibile esultanza avvengono per festeggiare l’agognata libertà.
[1918] In pochi giorni mi vestirono da capo a piedi con un nuovo
pesante vestito di color nero ed alla foggia inglese con i bottoni
color oro. […] Ma nonostante mi fossi trasformato in un inglese,
mi procurai un paio di stellette e me le applicai al colletto perché, così rimesso tanto di salute quanto di vestimenti, non volli
venir meno allo spirito di corpo, anche se l’Italia m’aveva per un
istante abbandonato.
Intanto si cominciava a parlare come avremmo trascorso il secondo inverno, perché la guerra, secondo le notizie che ci giungevano, doveva durare ancora per molto tempo.
Ben poco o nulla si sapeva dei grandi avvenimenti che accadevano sul fronte di guerra.
Le uniche notizie erano portate da qualche prigioniero catturato negli ultimi avvenimenti, ma ancor così ben poco potevano
raccontare in relazione ad una prossima fine, poiché la guerra
si combatteva ad oltranza, senza crolli decisivi.
Sapevamo bensì, e qui il nostro terrore, che l’esercito alleato
cresceva ogni giorno di uomini e di armi pel fatto che, lentamente, tutto il mondo si schierava contro il nemico, che sarebbe capitolato per fame.
E se così fosse avvenuto, quale sorte sarebbe toccata a noi?
Ecco il dilemma che dalla bocca di centinaia di migliaia di prigionieri veniva ogni dì in questione, poiché già il tedesco aveva cominciato a restringere più quel poco di alimento che distribuiva.
Siamo nel giorno dei morti! Avremmo voluto portare un fiore ai
nostri poveri compagni che vedemmo lentamente morire e che,
poco distante da noi, dormivamo il loro sonno eterno, ma questo pio sentimento non poteva essere effettuato, tuttavia ci
raccogliemmo nella piccola e nuda cappella del campo presso
un disadorno altare pregammo con il cuore, pregammo per essi,
pregammo per i morti, forse nuovi, delle nostre famiglie,
mentre quella preghiera era anche invocazione della nostra
salvezza, oppure per una dolce morte che desse finalmente alle nostre martoriate anime la pace della tomba.
Sarà vero che noi abbiamo ben poco contribuito alla causa per
cui siamo stati chiamati, ma pur tuttavia per la stessa causa
tremendamente abbiamo sofferto e, con il pensiero sempre rivolto alla nostra patria, serenamente aspettavamo la morte.
Molti italiani morirono, ma tutti questi morirono invocando, accanto al nome della loro mamma, anche quello della Patria.
Qualche giorno dopo a quello della commemorazione dei morti,
i miei inglesi mi strinsero cordialmente la mano, tra il mio più
grande stupore, poiché questo atto era del tutto inconsueto:
“perché ciò”, chiesi loro? “ Gli italiani hanno sfondato il fronte
sul Piave e con una poderosa offensiva marciano avanti!”
Qual miglior risposta potevo ricevere!
I miei occhi si aprirono, esultai di gioia, tanto più che proprio il
nostro esercito avanzava e corsi a raccontarlo ai miei
compagni.
Ma pur sì bella nuova ci dava dei dubbi e cioè ci chiedevamo se
con quello sfondamento avrebbero vinto la guerra oppure
avrebbero dovuto fermarsi sul Tagliamento o ritornare
sull’Isonzo.
Ma gli echeggianti squilli della vittoria dovevano svegliarci ancora dal torpore dell’agonia e risorgere per cantare l’esultanza
della prossima libertà, infatti l’11novembre arrivò a noi la
splendida notizia.
La portarono un manipolo di nuovi soldati repubblicani che
contemporaneamente obbligarono la guarnigione del campo a
togliersi le insegne imperiali ed al “levatet” delle baionette ci
annunciarono ufficialmente la loro resa succeduta non per
causa delle armi, ma per la fame, invitandoci al perdono ed alla
fratellanza: questo per noi fu come uscire dalle tenebre ed entrare in una sfolgorante luce, li baciammo e ci abbracciammo
mille volte, si corse nelle nostre baracche ed alla meno peggio
si formò delle bandierine e fra il delirio incontenibile, urlammo
la nostra gioia, la nostra libertà.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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67
L
Licenza
PAOLO CASSA
Soldato semplice, promosso a caporale sul campo, Paolo
Cassa è originario di Brescia. Ha ventinove anni quando, tra
molteplici difficoltà e impedimenti, riesce ad abbandonare la
trincea per sette giorni, sufficienti a tornare dalla sua
Giulietta, salutare i parenti, comprarsi un abito, un paio di
scarpe, due anelli e sposarsi; non senza immancabili e comici
contrattempi. In poche e sbrigative righe Paolo racconta la
sua incredibile esperienza di licenza, “una breve parentesi di
felicità”.
Da tempo, dalla mia fidanzata giungevano giustificatissime sollecitazioni a regolare la nostra situazione in modo, dato il protrarsi dello stato di guerra, di poter godere di giorni di licenza
tutti assieme e senza scrupoli circa la convivenza.
Mi rivolsi quindi al Cap. Capizzi che dimostrò di prendere la cosa
a cuore, ma mi avvertì che non poteva concedermi una licenza
motivata da… matrimonio, ma aggiunse che aveva sentito di una
probabile visita a Milano del Cap. Spatocco e “tu potresti aggregarti a lui”. La cosa mi fece naturalmente molto piacere, ma passavano i giorni, le settimane e la trasferta non maturava. Avevo
scritto a mio padre della cosa e lui aveva chiesto una breve licenza per attendermi a Brescia.
Finalmente il 10 Ottobre del 1917 telegrafai a papà e Giulietta
che l’11 sarei stato a Brescia per recarmi il 12 a Guidizzolo per la
cerimonia. Infatti il 10 mattina col Cap. Spatocco ci mettemmo in
viaggio. Giunto a Vicenza dove papà presiedeva il tribunale scendo dal treno per telegrafargli che mi raggiunga a Brescia, ma me
lo vedo di fronte appena arrivato da Brescia. Saluti e abbracci,
scambio di accordi per l’indomani e proseguo il viaggio. A
Brescia saluto il Capitano e prendiamo accordi per ritrovarci a
Milano. Corro a casa e mi diverte la sorpresa di tutti al vedermi.
Naturalmente c’erano varie cose da predisporre, ma l’ora tarda
non consentiva più acquisti d’alcun genere e papà e sorella non
avevano pensato neppure all’anello nuziale.
A notte giunse anche papà ed era assai tardi quando ci concedemmo un po’ di sonno.
Al mattino il “tram” per Guidizzolo, una specie di gamba di legno,
partiva piuttosto presto e io, Fanny e papà ci vestimmo in fretta e
alla stazione trovammo il treno in partenza. Ci accomodammo
sulle lunghe panche imbottite e partimmo; da qui la cosa assunse un andamento piuttosto comico.
Pochi chilometri dalla città entrano nel vagone due carabinieri
che, giunti da me, mi chiedono i documenti. Ahimè, i documenti
erano rimasti nella divisa ed io m’ero messo in borghese. Cercai di
commuovere i tutori dell’ordine, spiegando che i documenti li
avevo, ma a casa, che mi recavo a sposarmi, ma la risposta fu che
alla prossima fermata mi avrebbero fatto scendere in attesa di
avere i famosi documenti.
Però i Carabinieri proseguirono nel controllo e lasciarono il vagone, ed io uscito dalla piattaforma della vettura con salto elegante
balzai a terra ed ebbi la fortuna di veder passare un signore su un
calesse diretto in città e che gentilmente mi prese a … bordo.
Giunto a casa, trovai subito i documenti, poi corsi a comprarmi un
paio di scarpe decenti e poi al negozio di Fabanni e Frugoni a
prendere un paio di anelli di misura diverse.
Per il ritorno però non c’erano più treni, sicché non mi restava che
un mezzo, la bicicletta e senza por tempo in mezzo la inforcai e
via…
La povera sposina era in uno stato di agitazione da non dire, il
clero che doveva celebrare il rito pestava i piedi e continuamente
mandava a chiedere se lo sposo era arrivato, gli altri invitati, non
sapendo come comportarsi, scrutavano la strada e tentennavano
il capo, ed io pedalavo, pedalavo.
Il sospiro di sollievo di tutti al mio arrivo deve essere stato avvertito a distanza; 38km. Su strada e con bicicletta dal tempo, ma alle 12.30 io e Giulia eravamo sposati; ce l’avevo fatta!
Una troppo breve parentesi di felicità ed al mattino del 18 parto
per Milano.
68
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
L
Logoramento
PASQUALE GAGLIANI
Pasquale, originario di Napoli, partecipa alla Grande Guerra
come ufficiale al comando di vari reparti di artiglieria, ricevendo per i suoi atti eroici numerosi riconoscimenti. Nel suo diario
giornaliero annota la snervante ripetitività della vita di trincea
e i terribili effetti provocati dai bombardamenti nel fisico e nel
morale dei soldati.
7 marzo [1916] = Oggi compiono 4 mesi dal nostro ritorno alla
fronte. Vi sono vaghe voci di un prossimo cambiamento del
Corpo d’armata: credo che siano voci che riflettono più un desiderio soggettivo che una realtà.
11 marzo = Oggi si inizia un bombardamento sistematico che
dovrà durare almeno tre giorni, per culminare in un’avanzata
che dovrebbe renderci padroni di alcuni tratti di trincea che ci
danno fastidio. L’azione è contemporanea su tutto il fronte dell’armata (sui fronti delle altre armate sarà resa impossibile forse dalle abbondanti nevicate di questi giorni). Vi è chi dice che
il nostro cannoneggiamento è politico, riconnettendosi alla situazione particolare a Roma (che parola putrida è la politica! i
giolittiani hanno il coraggio di metter fuori il naso, spalleggiati
dai socialisti così detti ufficiali! perché non si mandano tutti in
trincea in prima linea!)
Tempo perfido! le piogge continue dei giorni scorsi hanno reso i
camminamenti tanti ruscelli di fango rosso: si arriva all’osservatorio in condizioni disastrose. […]
Il bombardamento nostro si è iniziato alle 10; gli Austriaci non
rispondono, per ora cercano di indovinare in che cosa noi si
tenda. All’imbrunire sono tornato a casa bagnato come un pulcino. Che voluttà potersi mettere addosso oggetti asciutti: è un
piacere questo che non possono concedersi quei disgraziati
che sono nelle trincee…
12 marzo = Tutta questa notte è durato il cannoneggiamento:
visto dalla mia finestra è uno spettacolo grandioso: nella foschia leggermente illuminata dalla luna crescente gli scoppi
degli shrapnels sembrano enormi lucciole.
Stamani continua la pioggia fitta gelida che sferza il viso.
Giungo all’osservatorio molle d’acqua e con il fango rosso sino
alle ginocchia. Il campo di battaglia – per chiamarlo con un
termine non più rispondente al vero – è vuoto, deserto. L’unico
movimento è dato dal saltare per aria delle trincee avversarie
battute dalle nostre granate. Ho avuta l’inestimabile fortuna di
vedere un austriaco che scappando dal suo ricovero, colpito in
pieno da una nostra granata e passato di corsa attraverso una
breccia della trincea. disgraziato! sei rimasto vivo sino a sera?
Se sì, devi essere o intontito o pazzo!
Un disgraziato colpo di una delle nostre batterie è caduto su
una nostra trincea, la più avanzata e distante un’ottantina di
metri appena dalla trincea austriaca battuta da noi. Col binocolo ho visto accorrere i portaferiti e da sotto le macerie trarre
un corpo umano e trasportato indietro su di una barella! Ne ho
provata una pena immensa! che strana psicologia è la nostra!
lo stesso colpo se ammazza dei nemici è giudicato da noi ben
riuscito e ci dà soddisfazione: se invece colpisce fortuitamente
i nostri, lo chiamiamo disgraziato e ci fa pena! Per telefono mi
sono informato: il ferito non è grave, forse se la caverà con un
mese di cura: chi sa che non sarà contento di questo colpo che
gli permetterà di rimanere lontano da questa bolgia infernale
[…].
Oggi quei signori hanno tirato con le loro artiglierie: ma si ha
l’impressione che i loro tiri siano disorientati: sono colpi quasi
di rabbia, di stizza.
13 marzo = Il bombardamento di questa notte è stato intermittente, ma in certi momenti raggiungeva un furore che ricorda le
tempeste dell’offensiva dei primi giorni.
L’avanzata doveva essere per le ore 5,30 (ora molto mal scelta
per un’avanzata preceduta da un bombardamento! Se si raggiunge l’obbiettivo, si ha poi davanti a sé tutta un’intera giornata da rimanere sotto al fuoco violentissimo delle artiglierie avversarie che hanno i tiri aggiustati sulle proprie trincee. Meglio,
in tal caso, avanzare al tramonto).
Pioveva; alle ore 5 si è intensificato il fuoco dell’artiglieria da
entrambe le parti ed è cominciato quello di fucileria.
Spettacolo meraviglioso il lancio di innumerevoli razzi fatto dagli austriaci per illuminare il terreno davanti alle trincee e battere così sicuramente l’attaccante. Pare che in due o tre punti
della fronte del nostro corpo d’armata si sia riusciti ad impadronirsi di elementi di trincea avversaria […]. Sono andato verso le 9 all’osservatorio sotto l’acqua battente. A quell’ora l’intensità del fuoco nemico era un po’ diminuita, sempre forte
però nella zona verso Monte S. Michele.
Sono tornato a casa bagnato fino alla pelle.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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69
M
Madre
FILIBERTO BOCCACCI
Filiberto Boccacci ha vent’anni quando, nel 1913, parte per il
servizio militare in fanteria a Genova. La separazione dalla
famiglia innesca una fitta corrispondenza. Con lo scoppio delle
ostilità, Filiberto viene inviato al fronte. Nella lettera alla madre
si avverte tutto l’amore verso i genitori e si intravvedono in
controluce i riferimenti alle sofferenze della vita di trincea.
lì 24 Settembre 1915 ore 23
Cara la mia mammetta;
ho ricevuto la tua lunga lettera e te ne ringrazio tanto tanto.
Ogni tua, ogni vostra lettera mi arreca una gioia indescrivibile,
un conforto massimo. Ti ringrazio degli incoraggiamenti: ti
giuro, cara mamma, che il coraggio non mi fa difetto: son di
buon sangue! Però non ti nascondo che sono un pò stanco: non
te lo dovrei dire; ma a te che mi comprendi più d’ogni altra
persona, a te che qualche volta ho fatto inquietare, non
nascondo nulla; si, sono un pò stanco. Vedi l’allegria non mi
manca, l’appetito nemmeno, la mia salute è ottima, ma sento
che avrei bisogno di almeno dieci giorni di riposo assoluto. Son
contento di compiere il mio dovere di soldato, di figlio italiano,
ne sono orgogliosissimo, e lo compierò fino all’ultimo, finché
una sola stilla di sangue scorrerà nelle mie vene, ma con mio
sommo rincrescimento, constato che non sono più quello di
due mesi fa’.
Ti scrivo sopra una tavola che appoggio sulle ginocchia, entro il
mio buco che il tempo e l’acqua hanno scavato nella roccia:
100 metri più su della mia casa vi sono gli austriaci, quindi per
nascondere ai loro sguardi sempre vigili il piccolo chiaro della
mia candela, ho coperto il mio alloggio con due tele da tenda:
ecco, sto col mio reggimento, con tremila compagni, eppure mi
sembra di star vicino a te, vicino alla mia famiglia, seduto
innanzi al tavolino di cucina a parlare con voi del più e del
meno, come facevamo quando ritornavo a casa presto…
Mancano pochi minuti alle 10 di sera (me l’ha detto un mio
compagno che dorme sotto terra vicino a me) e forse sarai
andata a riposare; ma son certo che il tuo pensiero di madre
affettuosa è rivolto a me, son certo che tu intuisci cosa io
faccia in questo momento; vedi l’illusione è completa: converso
con te, colla mamma mia.
Vuoi che ti dia una spiegazione un pò sommaria del luogo in cui
mi trovo? ti servo subito.
Mettendo fuori la testa dal riparo, a destra ho il monte che
scende quasi a picco: giù in fondo valle la luna fa sembrar
d’argento un piccolo corso d’acqua ed illumina più in là i tetti
delle casette di un villaggio; a sinistra, a 10 passi da me, vi
sono le trincee, dove vegliano le sentinelle a guardia di chi
riposa: innanzi, il monte scende dolcemente e si confonde
laggiù, un pò lontano, con un bosco; in vetta a questo monte,
lassù sul cucuzzolo vi sono i nemici. Di tanto in tanto mi giunge
il loro grido imitante il «cu-cu» che serve forse per tener
sveglia l’attenzione delle loro guardie; il silenzio che sarebbe
profondo quassù, specialmente di notte, viene interrotto da
qualche fucilata, dal sibilo di qualche bombetta che quasi
sempre scoppia molto lontano da me: il rimbombo dello
scoppio si ripercuote più volte per la valle in modo strano. Ogni
cinque minuti un nostro colpo di cannone passa sulla nostra
testa sibilando e batte nelle loro trincee: qualche volta viene
seguito da un grido, da un lamento: segno buono: ha picchiato!
Ecco su per giù com’è una notte di guerra. Ma però mi sono
abituato completamente, e non mi fanno più alcun effetto
questi rumori che prima mi sembravano tristi, quasi paurosi.
Se tu mi vedesti come sono imbacuccato! Son sicuro, non mi
riconosceresti. Fa un freddo birbone che di tanto in tanto mi
costringe a soffiarmi sulle dita. Quest’anno posso dire che
l’estate non sia venuta per me. […]
Avevo mandato via tanti animaletti, accidenti! sono ritornati!
Vedi è un incomodo: nel meglio che sto per sentir caldo, sento
un pizzico in qualche punto difficile del corpo e lì per… grattare
son costretto a disfare la mantellina, la coperta, i guanti ecc.
ecc. Se tu sapessi che nervi! eppure vi rido sopra; infatti, non fà
ridere il morso di un pidocchio? (scusami)
Dunque: mi vuoi mandare la polvere disinfettante? Mandamela
pure: accetto tutto […] Mettici ingredienti mangerecci, come
salame, scatolette di sardine, di tonno, qualche salsiccia di
fegato di quelle nere, come piacciono a me. […]
Buona notte, cara mamma, smorzo o spengo, (come ti fa più
comodo) il lume. Dì al babbo che a sua volta spenga la pipa, e
tutti e due, carissimi, dormite d’un buon sonno: io cercherò di
fare altrettanto.
Cara mamma, domattina distribuisci tanti bacioni a Mario,
Umberto, Irene: al babbo no perché glie ne invio due entro
questa lettera; a te tanti tanti
tuo Filiberto
Viva L’Italia
70
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
M
Morte
FRANCESCO FERRUCCIO ZATTINI
Un giovane soldato di Palestrina (Rm) a ventiquattro anni racconta nel suo diario uno degli episodi più tragici dell’esperienza al fronte: una valanga di neve travolge lui e i suoi compagni.
Francesco riesce fortuitamente a salvarsi, grazie al ramo di un
albero a cui si era aggrappato un attimo prima del disastro.
Sepolto nella neve ha la visione di suo padre, scomparso poco
tempo prima, che lo aiuta miracolosamente a liberarsi, ma,
uscito finalmente da quella che poteva essere la sua tomba, è
costretto ad assistere impotente alla morte di molti commilitoni. Un dolore indicibile, che non si può descrivere.
[1916] Fu un momento, un attimo anzi, che non permise neppure di gridare. Io, fortunatamente mi ero tolto lo zaino dalle spalle e invece di sedermici sopra come sempre avviene, mi ero appoggiato al grosso albero che sosteneva la baracca del posto di
corrispondenza. E quando ebbi la percezione del disastro che
ci minacciava, per istinto di difensiva o protezione, mi attaccai
con tutte le forze che la lotta per l’esistenza infonde al primo
grosso ramo di detto albero. Fu questo un vero miracolo! La valanga, investendomi a pieno, voleva trascinarmi nella sua fuga
precipitosa, sentivo una pressione intorno alla […] corpo, che
mi toglieva il respiro, la testa che avevo ritirato nelle spalle
sembrava volesse da un momento all’altro staccarsi.
Trattenevo il respiro perché sembravami che respirando non
potevo far forza, intanto, un rumore che chiamo infernale, perché altro nome non merita, era intorno a me, nella testa e
quando si allontanò e […] stabilire di essere passata la bufera,
vado per aprire gli occhi, ma non potei, la neve mi aveva ricoperto tutto. Mi si strinse il cuore e se non mi fosse comparso
mio papà, il povero babbo mio innanzi che sembravami rispondere alle mie invocazioni di aiuto, certamente non avrei fatto
nessuno sforzo per liberarmi ed avrei atteso la morte che con
certezza non sarebbe tardata a venire che pochi minuti.
Invece no, con l’impressione il mio povero babbo si adoperava
per liberarmi, io che sempre ero avvinto al ramo, mi provai a tirar su, ma non ero capace. Contemporaneamente sentivo qualche cosa muoversi sotto i piedi e come una molla che mi sollevasse, accoppiando così i miei sforzi, potei finalmente tirar
fuori la testa, respirare e vedere… tutto bianco, solo cinque o
sei dei sessanta che eravamo erano nella condizione mia più
fortunata di tutti invero.
Una volta tirata fuori la testa, potei facilmente liberarmi tutto e
dall’apertura che tirando fuori il mio corpo si era fatta, vidi un
compagno che faceva sforzi disperati per muoversi ma come
poteva mai da solo liberarsi di oltre due metri di neve che lo
avevano ricoperto? Balbettando, perché parlare bene non potevo gli feci capire di stendermi una mano, la strinsi forte, mentre
ero disteso sulla neve e con la sinistra stringevo il ramo che mi
salvò, potei tirarlo su, ma era in condizioni da far pietà, gli usciva dalla bocca un liquore verdastro ed il naso gli faceva sangue,
ma non importa era salvo. Gli altri cinquanta e più compagni
che mancavano dove erano?! Mistero! Non si vedeva che neve,
neve e null’altro che neve. Come gridai, come gridammo noi pochi che da soli ci eravamo salvati? Cosa gridammo? Furono certamente gridi di aiuto perché in pochi minuti a centinaia vennero i Bersaglieri armati di badile e con la loro umanitaria opera
salvarono non pochi da certa morte. Non posso descrivere il mio
stato d’animo. No, certe cose non si possono scrivere.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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71
M
Mulo
GIUSEPPE CARRUBA TOSCANO
Il tenente siciliano, di stanza nella zona del Vallone, tra
Montefalco e Gradisca, partecipò all’ultima delle undici battaglie sull’Isonzo, assistendo alla lenta avanzata dell’esercito
italiano e al contrattacco austriaco: nel suo diario, da buon ufficiale veterinario testimonia le devastanti perdite di uomini,
ma anche di animali.
29 giugno 1917
Stamattina si parte. Vo a Ferleti ove starò cinque giorni per il
turno al Vallone con gli altri veterinari delle brigate. Giungo alle
9,30. Trovo De Rosa. Rimane alla medicazione e io vo a salutare
gli ufficiali del comando. Accoglienza né buona né cattiva. Non
è passata mezz’ora, squillo di tromba. Corriamo a rifugiarci
nella caverna: vengono gli aeroplani. La sera prima alle 7 avevano lanciato 4 bombe e uccisero 20 soldati e 40 furono feriti.
Dopo altri 10 minuti altro squillo. Si poteva andare fuori. Se ne
erano andati. Vo al posto di medicazione vicino la mezza sezione di sussistenza, non trovo De Rosa. I quadrupedi feriti furono
avviati alle retrovie. Erano 15. I due morti li avevo visti sui carri
per la strada che li portavano al digestore di Torre Luino. […]
Fo chiamare i maniscalchi. Li mando in giro. Notizie: alla 589ª
compagnia mitr. Fiat del Capitano Bruno cinque muli uccisi e
uno ferito gravemente. Un altro mulo del 243 ferito gravemente.
Sono al di là della mezza sessione di sussistenza. Si va là, fo
abbattere i due feriti e torno a riferire. Avviso il digestore per
mandarli a rilevare. Non è ancora finita. Ronzio nell’aria di aeroplani. Sono nostri Si fanno riconoscere segnalando con la luce. Sono accolti a shrapnel. Si sta in ascolto.
13 agosto
[…] Oggi tirano pure a Redipuglia. Una granata pigliò in pieno
una tenda e fregò 4 soldati. Il colonnello brigadiere Cicconetti
farà cambiare il posto al battaglione. Se lo tiene lì glielo fugano. Tirano sempre lì, vicino la via, alla fine del paese quando si
va a Monfalcone.
L’offensiva pare si farà tra dieci giorni. Nella presente offensiva
pare si stia avverando quanto pensai al principio di quella di
maggio. Mettere dei depositi di scatolette nelle prime linee in
modo che le truppe possano vivere due, tre, quattro giorni
quando gli austriaci sferreranno il fuoco sbarramento. Allora i
muli rimasero 24 ore carichi col rancio nelle marmitte senza
potere andare avanti e senza potere trovare le truppe dei propri
reparti. Avvenne che il rancio dovette essere buttato, le truppe
rimasero quindi due giorni senza mangiare. Se invece si davano
delle scatolette tutto quello non si sarebbe avverato. Lo spirito
combattivo sarebbe rimasto alto e non depresso per la depressione del fisico causata dalla fame e dalla sete. Come pure si
poteva evitare la morte e molti ferimenti nei muli per lo stare
allo scoperto 24 ore; anche loro provarono la sete e la fame.
Molti insegnamenti ci ha dato la lezione del maggio. […] Molto
abbiamo imparato, molto sangue si è sacrificato, in questa
guerra per non aver tenuto conto di certi fattori, per disprezzare l’avversario, il quale si è dimostrato temibilissimo. […]
17 agosto
Ieri notte passarono da S. Pietro i 200 camion. La guerra noi la
facciamo con lusso. […] Passarono i camion piene di soldati.
È un nervosismo che ci tiene in orgasmo. Se non riesce questa
volta, sarà l’ultima offensiva nostra sul Carso.
Al Vallone il posto di medicazione è stato spostato da Micoli.
È un errore tenere un veterinario. I quadrupedi invece che subire la 1ª medicazione al Vallone possono benissimo senza alcun
pregiudizio riceverla a Redipuglia, Fogliano, S. Pietro ecc. Le ferite devono sempre guarire per 2ª intenzione.
Resteranno aperte e a contatto dell’aria. Nessuna medicazione
occlusiva si fa perché non danno fasciature e cotone e poi perché in certe parti del corpo non si possono fare. Basta una frizione vescicatoria che è meglio di qualsiasi medicazione disinfettante.
I cavalli i muli non possono essere considerati alla stregua dell’uomo. Quelli si possono paragonare al fucile, alla baionetta, al
cannone. Rappresentano un’arma; il completamento di un’arma
come la trattrice, l’affusto, il calce pel fucile. Ora i meccanici
vanno in prima o terza linea per riparare quegli ordigni. Stanno
nell’officina ove glieli portano per la riparazione. Il veterinario è
né più né meno che un meccanico.
Andare spesso al Vallone è bene per la profilassi delle malattie
infettive e parassitarie. Ma star lì per la medicazione è male.
Andare dopo la pattuglia per lo sgombro e sta benone.
Ma tra queste funzioni è quella di star lì per imitare i medici
della specie umana È una imitazione un voler copiare su una
parete della cucina o di una stalla il capolavoro di Raffaello.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Luigi Coeta - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Sequenza fotografica che mostra la celebrazione di una
messa in onore dei “Prodi morti per la Patria” accompagnata dalla descrizione di ogni singola immagine.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
N
Natale
GIUSEPPE OROBELLO
Giuseppe Orobello, impiegato siciliano di Bolognetta (Pa), nelle
sue memorie che vanno dal 1917 al 1919 narra un percorso che
lo porta a Singapore, passando per l’Egitto, la Russia e la Cina.
Ad Harbin, in Manciuria, incontra gli irredentisti italiani del
Trentino scappati dalla Russia scossa dalla Rivoluzione d’ottobre. In questo brano ricorda la dolorosa esperienza del Natale
trascorso in Siberia, il secondo lontano da casa.
Fu il giorno 24 dicembre [1918], giorno per me indimenticabile,
che il turno per andare a prendere la legna alla stazione toccò
a me. I conducenti andarono al magazzino a prendersi gli stivali e per primi, si recarono alla scuderia per preparare le slitte.
Furono distribuiti gli stivali agli altri serventi, e ne mancarono
due paia. Ma questi, come succede spesso sotto le armi, curandosi poco del soldato, insistette dicendo di recarmi assieme
agli altri, mettendomi se volevo sulla slitta. mentre si svolgeva
questo diverbio durato pochi minuti, i piedi si erano cominciati
a raffreddare Dovetti andare e siccome era peggio star sulla
slitta andai a piedi, così il movimento mi poteva recar meno
male. Avevo camminato circa m. 500 metri e mi sembrava che
non avevo più i piedi.
Siamo giunti alla stazione, e avevamo cominciato a caricare la
prima slitta, che costretto dovetti presentarmi al caporale dicendo che dubitavo di un congelamento ai piedi.
Ritornai indietro a piedi, e non appena fatto 100 metri, camminavo come un ubriaco.
Gettavo i piedi come se il terreno mi mancava sotto mi sentivo
più nulla dei miei piedi.
Il sangue ormai aveva terminato di circolare e fu perché mi ero
avvicinato al muro della strada che non cascai a terra.
Feci subito cenno ad un conducente di slitta, che mi condusse
alla caserma.
Arrivato nel cortile della caserma a stento appoggiandomi al
muro mi portai nella camerata e […] avvertii i miei compagni.
Subito hanno preso della neve e fu quella la 1° medicina, e incominciarono a strofinare i piedi.
Fu chiamato subito il tenente medico, e maggior fu per me lo
spasimo quando questi, proprio nel 1° dito del piedi sinistro
v’introdusse uno spillo della lunghezza di 4 centimetri. Ma come se nulla mi avesse introdotto, nessun dolore avvertii, era
realmente un congelamento
Da un infermieri ebbi fatto dei massaggi di spirito e grasso, mi
fasciarono i piedi e copertomi con delle coperte rimasi in attesa della guarigione.
Non mi facevano alcun/male e tanto è vero che essendo ora del
rancio mangiai, aspettando come il medico mi aveva detto, che
il sangue cominciava a circolare a poco a poco come prima.
Stiedi il rimanente del giorno e tutta la notte senza avvertir
niun dolore.
Il 25 dicembre, ricorrendo il Natale e di conseguenza festa per
la religione cattolica Appunto per farmi rammentare che nelle
famiglie quel giorno si festeggia e facendomi accorgere che il
mondo non lascia sempre felici; ma girando come una ruota, si
ferma qualche volta per farci vedere che anche il soffrire è per
noi, quel giorno mi trovai a letto. La mattina alle ore 8, ad uno
ad uno, moltiplicandosi tra loro, sentivo come un’introduzzione
di tante spille in un corpo vivente, da costringermi a non poter
star fermo sul pagliericcio.
Tale dolore era prodotto dal sangue poi incominciava a riprendere la circolazione. Se continuava così per poco tempo si poteva dire nulla, aumentando in tutti e due piedi, per presto si
formò un dolore irresistibile – Se fossi stato a casa avrei pianto
certamente, ma in mezzo ai miei compagni d’armi, che con me
avrebbero sofferto qualsiasi male, mi distruggevo dal dolore.
Stiedi a soffir di quel dolore sino alle ore 14, quando fattosi la
riunione uscirono dalla camerata per recarsi altrove. In un camerone molto spazioso, da diversi giorni si preparavano per festeggiare il Natale. Potei sapere che ivi era preparato l’albero di
Natale, tutte le pareti erano adorni di bandiere alleate. Poi il
Colonnello, in presenza delle diverse rappresentanze di quella
città, adunò la truppa e tenne un discorso riguardo alla vittoria
degli Alleati, e la prossima pace. Seguì una lotteria di alcuni regali, mandati dalla patriottica colonia italiana di Shangai, mentre la musica italiana suonava gl’inni nazionali.
Così, passò per me il 2° Natale sotto le armi, e il 1° fuor
dall’Italia.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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75
N
Nemico
GIUSEPPE CORDANO
La guerra vissuta da un militare di Bellagio (Co) e trascritta nel
diario insieme ai quotidiani problemi da affrontare: la fame,
l’autolesionismo – che a volte arrivava fino all’amputazione di
arti – di chi voleva tornare a casa in congedo, la prigionia e la
morte propria e degli altri. Una generazione intera che ha perso la sua giovinezza.
5 [luglio 1916] - Piove.
Ecco un’altra brutta notizia: una bombarda austriaca ieri colpì
a morte il mio carissimo amico Massola di Como. […] sono molto addolorato per la sua morte ma è così, uno alla volta toccherà a molti.
L’austriaco si è ritirato e fortificato su queste cime di monti: lo
Zebio, il Colombara, l’Ortigara e altre montagne che, nel susseguirsi come una catena, formano un baluardo dominando tutto
l’altopiano dei Sette Comuni e quassù resiste forte. […]
Sulla sera, alla nostra destra, verso il Colombara, un forte attacco nemico persiste tenace ma viene respinto dopo parecchie ore di fuoco. Nella notte da noi siamo sempre in allarme.
Nelle nostre linee stanno piazzando dei lanciabombe di grosso
calibro, il fante dice che qualche cosa di nuovo sta maturando.
6 - Tempo bello.
Sono le ore quattro del mattino, le nostre artiglierie iniziano un
bombardamento sulle linee avanzate nemiche. Il cannoneggiamento è continuo, serrato, un tambureggiamento infernale. Le
trincee nemiche vengono martellate palmo a palmo con una
precisione millimetrica.
Verso le otto del mattino il comando di settore, visto l’effetto
positivo eseguito dalla nostra artiglieria, dà l’ordine di attaccare e avanzare. […]
A mezzogiorno la nostra artiglieria leggera, piazzatasi su posizioni avvicinate alle linee nemiche, inizia un micidiale tiro serrato e preciso sulle loro trincee. […]
Il fante pensa che qualche cosa di nuovo sta avvenendo in meglio. Seguendo la solita manovra, protetti del tiro di copertura
della nostra artiglieria, sfruttando ogni asperità del terreno, arriviamo a pochi metri dall’austriaco.
La sua difesa ora è sporadica perché ormai con fucili e mitraglie non può offenderci. Solo con le bombe a mano può causarci disturbo o perdite di soldati. […]
Sono attimi questi che non si dimenticheranno facilmente. anche l’austriaco ora batte con feroce accanimento, con grossi
calibri, le retrovie e le strade di accesso. Con le bombarde batte i rinforzi e i rincalzi nostri. Lo scoppio tonante, il sibilìo dei
proiettili causano un frastuono che stordisce e annichilisce.
Intanto le nostre artiglierie allungano i tiri oltre la linea nemica.
[…]
Io e un soldato, compagno d’occasione, ci troviamo insieme
nella trincea austriaca. Vogliamo percorrere un camminamento
cercando altri soldati austriaci da snidare, lui avanti, io dietro.
D’improvviso escono da un ricaverò due soldato austriaci. Il
primo tenta un tiro con la baionetta per colpire il mio compagno. Però, io con un salto, faccio in tempo a darci un colpo alla
testa con il calcio del mio fucile. Il secondo austriaco, non visto, tenta a sua volta di colpirmi con la baionetta alle mie spalle. Ma il mio compagno ebbe la prontezza di sparargli una fucilata a bruciapelo, freddandolo.
L’altro austriaco rima a terra stordito dal mio colpo. Noi due,
con altri, passiamo oltre verso un tronco di trincea posto sul ciglio del cocuzzolo in mano ancora al nemico che di là ci mitraglia rabbiosamente […] Arrivano altri soldati nostri di rinforzo,
viene così completata la conquista della trincea austriaca del
Monte Zebio. Ora si cerca di sistemare la trincea occupata e di
ritirare i fucili, mitraglie e bombe a mano lasciate dal nemico.
Si trasportano i feriti gravi per medicarli al posto di medicazione, sia nostri che austriaci. È strano eppure si trasportano e si
curano i feriti nostri e austriaci con eguale considerazione. Ai
morti si penserà dopo. […]
Intanto la nostra artiglieri inizia un accanito cannoneggiamento alle linee e retrolinee nemiche, i proiettili passano sopra le
nostre teste fischiando maledettamente. […]
Intanto, piano, piano, siamo arrivati ai reticolati che il nemico ha
già sparso alla rinfusa Basta questo per farci sostare. […]
Il nemico, forse accortosi di qualche movimento, dalla trincea
butta dei razzi luminosi. Così io vedo che la trincea è a pochi da
noi. vedendo ciò do tempestivamente un avviso al Capitano e
cerco di trascinarlo a terra con forza. Ma lui sta ritto, immobile,
sembra di sasso. Fu un lampo di tempo, il nemico da pochi metri
spara una scarica di fucileria a bruciapelo. Il Capitano viene colpito in fronte e stramazza a terra trascinandomi anche a me. […]
È caduto senza un grido, senza un lamento, credo da vero eroe.
76
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
N
Neve
GIUSEPPE LUCARELLI
Nel febbraio 1916 il sergente d’artiglieria Giuseppe Lucarelli
si trova con una batteria di trecentocinque obici nella zona
della Carnia; nel suo diario giornaliero descrive minuziosamente i bombardamenti che la batteria effettua sulle postazioni nemiche e le enormi difficoltà create dalle abbondanti
nevicate.
21-II-[1916] Si sta formando un campo d’aviazione per la zona
Carnia ad ovest di Tolmezzo al di là del Pinte sul Tagliamento.
Un po’ tardi!…
22-II Ha nevicato tutta la notte; ne deve far tanta questa volta;
l’aria è oscura e la neve viene giù con lena.
23-II Nevica sempre, abbondantemente, ha raggiunto quasi i 60
cm. Non si può uscire che si affonda sino al ginocchio. Alle 21 è
quasi un metro e sembra voglia cessare
24-II Tutto è coperto di neve e di tanto in tanto s’ode dai monti
circostanti i rumore fragoroso delle valanghe di neve. Le comunicazioni telefoniche s’interrompono di frequente ed i nostri
guardiafili sono impossibilitati di percorrere i tratti di terreno
più pericoloso
25-II L’immensità della neve caduta doveva certo portare delle
conseguenze; infatti tre guardiafili sono stati, nei pressi della
batteria Poviz, investiti da una valanga e scaraventati in un
burrone. Due sono stati salvati (alpini) un terzo di fanteria è
stato rinvenuto cadavere. L’osservatorio di Robon basso rimane
isolato e non è possibile da tre giorni avere notizie dell’ufficiale
e dei tre soldati che vi si trovano, essendo inaccessibile, per la
quantità della neve che vi si trova, il terreno. […]
5-3 Nevica sempre. Numerosissime valanghe si susseguono
sui monti circostanti, ed il fragore, giunge distintissimo sino a
noi come un boato. La calma è perfette in tutta la Zona, ed i
posti nostri avanzati, si ritirano, donde più è maggiore lo spessore della neve e più frequente la caduta delle valanghe. La
batt. Doux parte dalla Carnia.
6-3 Si organizzano spedizioni agli osservatori sia per riattivare
le comunicazioni telefoniche, che per aver notizie del personale esistente sul Robon basso di cui nulla si può sapere da vari
giorni. Si teme che siano loro venuti meno anche i viveri.
Numerose valanghe cadono lungo tutta la valle e maggiormente dalla Sella in su, cagionando qualche vittima umana.
7-3 Nevica. Le nostre squadre di guardiafili non possono proseguire in alcuni tratti, poiché la neve supera l’altezza del loro
corpo, e le linee telefoniche, specie quella del Robon rimangono interrotte. Numerose valanghe cadute dalla Sella Nevea sulle trincee di fanteria, hanno causato la morte di ben undici
Soldati, che sono stati trasportati fino a Chiusaforte per gli
onori funebri.
8-3 Si celebrano i funerali degli undici militari vittime della neve. La sezione da 75 A, trainata fino alla batteria 120 Poviz, dopo innumerevoli stenti, durante la bufera di neve, per essere
destinata a Sella Prevala, ieri veniva investita e sepolta da una
immensa valanga. Nessuna notizia si è avuta in un primo tempo degli uomini, che poi risultò che erano fortunatamente tutti
illesi, dopo le ripetute ricerche. così, essendo rimasti allo scoperto, tutti gli artiglieri di quella sezione sono venuti a ricoverarsi nel nostro baraccone.
9 Marzo La neve è ostinata. Fervono i lavori sia per il riattamento delle linee telefoniche, interrotte cogli osservatori, sia
per mettere in condizioni, il nostro obice, da poter far fuoco
verso la Zona di Plezzo, essendo stata ordinata per il giorno 11
una nostra offensiva sul Cucla per rioccupare la Zona perduta
il 15 n.s.
[…]
12-3 Nevica. Cadono valanghe. Alle ore 4 si è avvertita una leggera scossa di terremoto in senso ondulatorio. Alle 13 una immensa valanga seppellisce il ricovero della batteria 149 G.
Poviz. Furono estratti il Ten. Garroni che respirava appena e che
è morto dopo alcuni momenti, 5 o 6 Soldati già cadaveri ed orribilmente deformati. Se continuerà ad imperversare il mal
tempo e la tormente, avremo, chissà quante altre vittime da registrare ancora!…
13-3 Pioviggina. Continuano a cader valanghe. In batteria si è
sempre pronti ad aprire il fuoco al primo ordine.
14-3 Azione delle nostre artiglierie. Verso le 10 apre il fuoco la
Batt. 280, sullo Zottenkopf. Vari colpi non scoppiano, causa, verosimilmente della grande quantità di neve.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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77
N
Nobildonna
AMALIA SOLA
Memoria della discendente di una famiglia aristocratica
milanese: dall’infanzia agiata trascorsa nella villa della nonna
contessa al prestigioso matrimonio con un nobile lombardo,
fino alla lotta clandestina contro i tedeschi. L’atmosfera
gioiosa del periodo adolescenziale si interrompe quando
scoppia la guerra, peggiorano le condizioni di vita e i giovani
vengono richiamati alle armi: tra questi l’amato zio che non
farà più ritorno.
Sul finire del 1914 nessuno in casa parve preoccuparsi che
quei mesi sarebbero stati gli ultimi di una lunga pace e di
un’esistenza facile, tutti invece sembravano convinti che la vita
non dovesse mai mutare.
Così il Natale del 1914, nella vasta sala l’albero strappato alla
terra per l’occasione brillava come nei passati Natali. Ancora
pacchi di regali voluminosi e minuscoli dalle varie forme,
ancora la nonna come capofamiglia seduta sull’ampia poltrona
dai braccioli dorati, ancora presenti mia madre, mio padre, lo
zio Ferdinando e l’altro venuto da Parigi, ancora tutti, i fattori, i
“familii” al completo e i contadini. Ancora quella atmosfera
particolare di festa, perché non si pensava allora che non si
sarebbe più ripetuta.
1915
In casa nulla cambiò sino al maggio di quell’anno.
Solo due fatti nei primi mesi dell’inverno, avevano segnato per
noi bambine l’inizio di qualcosa di nuovo.
Dopo la partenza di Nurse, il nostro rigido sistema educativo si
era allentato, ed ogni “rito” soppresso. Una certa tristezza aveva
avvolto tutto e tutti. I “Grandi” sembravano muoversi senza più
entusiasmo, come degli automi.
Dapprima il presagio, poi la paura che anche l’Italia, dopo la
Francia e l’Inghilterra, sarebbe entrata in guerra. E arrivò il 24
maggio.
La grande Berta
Con l’inizio della guerra, in casa s’era stabilito un modo di vivere
meno grandioso. Mia nonna e mia madre avevano smesso di
lavorare a ricami pregiati, per confezionare passamontagna,
calzerotti e altri indumenti per soldati al fronte.
Al rosario della sera la nonna intonava alcune preghiere per il
buon esito e la fine della guerra e per gli uomini ch’erano stati
richiamati e si trovavano lontano, sui campi di battaglia.
Vagava d’intorno una certa atmosfera di dubbi, d’agitazione, di
paure, ma nel medesimo tempo esaltante, poiché tutti erano
convinti di combattere per giusta causa; forse anche la nonna
la pensava così, ma non lo zio quando venne richiamato.
[…] Il motore rombava scuotendo la vettura con l’Achille già
seduto al volante quasi scomparso nella pelliccia e sotto il
berretto di pelo d’orso, come allora usavano indossare
d’inverno gli autisti.
Quando l’auto partì con un sobbalzo, silenziosamente e
sommessamente commossi, tutti i presenti ritornarono chi alle
proprie case, chi alle proprie stanze. Anche mia madre, le mie
sorelle e Madame Blanche se ne andarono, ma la nonna
rimase. Io nascosta in un angolo stetti ad osservarla. Mai
riuscii in seguito a dimenticare la sua immagine ritta, immobile
sulla soglia della casa, con un viso pallido, terreo, dai
lineamenti tirati che spuntavano dall’abito nero accollato; gli
occhi fissi dinanzi a sé, senza lacrime. Pareva una statua,
rigida nel suo grande controllo per non mostrare come esigeva
l’educazione d’allora tutto il dolore che la scuoteva.
Si mosse solo dopo qualche istante, ma per scendere nella
neve, con quelle sue leggerissime scarpette, forse per
un’istintivo – unico – attimo di debolezza, nell’ansia o nella
speranza di rivedere ancora il figlio, mentre guardava
l’automobile svoltare l’ultima curva del viale e scomparire. Sola
nella notte, ombra nera nell’immensa distesa bianca, rimase
sino a quando l’eco del motore, che le portava via il suo
prediletto, divenne sempre più debole sino a spegnersi del
tutto. Allora piegò il capo. Io fuggi nel timore di essere
scoperta, pentita quasi d’aver assistito alla sua muta e segreta
pena.
Il dolore della nonna mi sconvolse più della partenza dello zio.
Quella notte, io e, penso, pure lei, nel silenzio d’ogni cosa
addormentata, con il capo nascosto sotto le coltri, nei nostri
rispettivi letti, versammo le proprie lacrime.
Fu questo il mio ultimo ricordo della nonna.
Essa s’ammalò gravemente qualche mese dopo. Lo zio non
ritornò mai più.
78
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Luigi Coeta - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
L’equipaggiamento invernale in dotazione al soldato in
trincea. L’inverno del 1916-17 fu uno dei più nevosi e tristi
della Grande Guerra. Fu il nemico comune contro
cui dovevano combattere italiani ed austriaci: i morti per
valanghe, assideramento, malattie dovute alla vita di
stenti e al freddo superarono i caduti in azioni di guerra
in quei mesi in cui la coltre bianca aveva ricoperto ogni
reticolato e annullato ogni confine.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
Reginaldo Binni - Archivio Daniele Cinciripini
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
N
Nostalgia
RENZO RE
Renzo è un pellettiere nato a Milano nel 1892. Amante della
musica e delle buone letture, dal fronte scrive intense lettere
d’amore alla futura moglie Giannina. In queste pagine egli le
comunica tutta la nostalgia per una vita interrotta bruscamente e rimandata al giorno del suo ritorno dalla guerra.
Lì 4 Marzo 918 ore 20
Mia Giannina,
Attendevo stasera una tua lettera, una semplice riga che mi dica
il tuo saluto, il tuo pensiero, mi porti un tuo bacio che ricevo e ricambio con tutte le mie forze; e invece nulla! come sei cattiva,
Giannina! e come non pensi al tuo Renzo che ti adora tanto! […]
Sono tanto malinconico, stasera! Il tempo è orribile, piove, ma
sui monti ove presto saliremo, nevica; le strade sono infangate,
le case e palazzine deserte, finestre dai vetri in pezzi, profonde
buche scavate dalle bombe degli aeroplani; solo qualche rado
borghese e qualche donna qua e là; nemmeno un raggio di sole; bigio, sempre bigio, come l’animo mio; almeno potessi vedere il tuo bel viso amato, parlarti e udire la tua voce tanto carezzevole; potessi stringerti sul mio seno e non lasciarti più, mai;
sento un bisogno, una vera nostalgia di te e delle uniche ore felici da me vissute; è un disperato abbandono, un vuoto che provo intorno a me, quando tu non sei! E perciò che ti penso costantemente e ti desidero tanto! Quando, quando sarai per
sempre mia, tutta mia, senza ostacoli né distanze? È quasi una
febbre per me, il desiderio di te, del tuo amore; darei qualunque cosa per rivederti per qualche giorno; anche solo per poche ore; ma è impossibile! Se sapessi anche di che conforto mi
sia una tua buona parola d’affetto! e quando penso che un uomo senza cuore si è permesso di offenderti…
Si dice che a luglio ci saranno le nuove licenze, però di dieci
giorni; ma ci sono quattro eterni e lunghissimi mesi; e quante
cose possono accadere…!
Forse ti avrò un po’ comunicata la mia tristezza, stasera; perdonami, sai! E scusa qualche mia debolezza; ma la fiducia è
forte, nell’animo mio e nulla potrà scuoterla; ti amo tanto e mi
sono giurato la nostra felicità, come cosa per me sacra;
Giannina cara, tu mi amerai sempre, vero? Lo so l’amore tuo per
me, eppure vorrei che lo dicessi sempre come una musica dolcissima pel mio cuore: rammenti un mese fa? Ti ho baciata per
l’ultima volta col cuore che singhiozzava; avessi potuto vedere
il povero cuore mio! quanto dolore ho provato, Giannina! non
credevo di amarti si teneramente, si fortemente; come ti sei resa padrona di tutto me stesso!
Ti ho annoiata, è vero? Abbi pazienza cara mia! Non sono sempre così triste e di umor nero; abbiti i più appassionati baci dal
tuo Renzo che ti adora e ti pensa, ciao cara mia!
Vorrei mandare un saluto a tua mamma, tuoi fratelli e sorella;
se però lo vuoi sai?
Ciao e di nuovo bacioni,
tuo Renzo
[…]
Lì 30 Marzo 918 ore 20
Giannina mia,
Approfitto di un po’ di libertà, nella bella giornata, azzurra di
sole per scriverti […] certo che il cannone mi richiama alla
realtà ricordandomi la guerra brutale che distrugge tante bellezze naturali; guardo col binocolo sulla strada lontana e scorgo una donna, col fazzoletto rosso in capo ed una sporta sotto
braccio; ed un desiderio stanco e melanconico di affetto e di
pace m’invade, per cui mi sento improvvisamente solo ed abbandonato. La donna mi richiama vivamente alla memoria le
dolcezze quiete e care della vita domestica, le quali, paragonate alla dura vita di soldato, proprio in quest’ora, in questi momenti in cui di tale vita non si provano che le amarezze ed i disagi, mi fa quasi sembrare di essere infelice. Quella figura di
donna mi mostra la tua personcina, ardentemente cara, quella
di mia madre; in questo divagare della fantasia rammento i
momenti felici passati con te; i ricordi sono ciò che mi rimane
di più caro e santo; miro la tua fotografia e rivedo quella sera in
cui conobbi tuo fratello, quando tu mi stringesti il braccio e mi
dicesti di volermi ancora più bene; cari, cari momenti! Tu non
immagini quanto bene mi fecero e ancora mi fanno quelle tue
parole! Ho compreso tanta sincerità in tali parole e ne rimasi
commosso; ma perché non puoi leggermi nel cuore?
[…] ed ora termino per davvero coll’inviarti i più caldi bacioni ed
affezionati saluti, ciau, tesoro e ricordati qualche volta, ma pochino, veh, del tuo aff.mo
Renzo
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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81
N
Notte
AGOSTINO TAMBUSCIO
Agostino, nato a Savona nel 1897, viene fatto prigioniero dagli
austriaci dopo la disfatta di Caporetto. Riesce in seguito a tornare a casa, dove scrive le sue memorie del periodo passato in
trincea. La prima notte di guerra del giovane fante è notte di
smarrimento e paura; dopo una lunga marcia nel buio, la spossatezza prevale. Le cupe sensazioni legate all’oscurità si diradano al mattino seguente, lasciando posto alla cruda realtà di
un paesaggio devastato dai combattimenti e a un’agghiacciante scoperta.
[1917] Lungo e pauroso è il corso dell’Isonzo fra Tolmino e
Gorizia […] = Si va senza posa, senza fermarci.= È quasi notte.= Il nostro pensiero è ora concentrato unicamente a non
perdere il collegamento.= Da appena un giorno conosciamo la
guerra e ne siamo già veterani.=
È notte. Una notte buia, senza luna, senza una stella, notte tremenda di mistero! L’andatura diventa incerta, si incespica ad
ogni istante ed ogni attimo si cade. Non scorgiamo più gli ostacoli improvvisi che si presentano uno ad uno sul nostro cammino, i piedi si posano sui cadaveri, sui feriti che non vediamo, ma
che si… sentono.
Qualche ferito riceve l’ultimo colpo di grazia.=
Il piede si posa con un colpo pesante, violento sul quel corpo che
ostruisce la strada e sente sotto di esso costole scricchiolare
Ad intervalli delle urla lacerano l’aria.= Notte, notte tremenda
di mistero!!!
[…] Non si vede ad un metro e siamo costretti tenersi l’un l’altro
per la giubba.= Squarcia ad intervalli l’oscurità la fiamma delle
artiglierie ed il fascio di luce degli insonni riflettori italiani di
Kambresco che scrutano l’altipiano.= Il rombo tambureggiante
dei cannoni non ha un attimo di silenzio. si va, si va a tentoni in
silenzio, ma dove? S’ode lo schioppettio della fucileria e i rombi
sordi delle bombe a mano che esplodono.= 7 certo che a qualche chilometro vi sono uomini che si battono accanitamente.=
Ci fermiamo per avere un attimo di riposo.= Nulla si vede all’intorno fuorché i lampeggi dei cannoni.=
Che notte orrenda!……….
Si riprende il cammino alla cieca, fra poco ci si deve fermare –
Siamo giunti? ci domandiamo.= No, non siamo giunti, ma abbiamo perduto il collegamento.= Ed ora che si fa? Come trovare
gli altri? Alziamo la voce per chiamare la prima sezione che dovrebbe trovarsi avanti alla nostra: nessuna risposta.= Allora si
prova a chiamare la 3° che dovrebbe trovarsi alle nostre spalle:
lo stesso risultato.= Che fare? Anziche alzare la voce, proviamo
ad urlare: “Prima! Terza!! Finalmente delle voci lontane, sepolcrali ci rispondono.= Ma ove andare? non possiamo percepire
la provenienza delle risposte.= L’unica risoluzione è d’attendere con pazienza.= Dopo circa mezzora ci raggiunge il Tenente
della 3° e ci riposta a contatto con le altre sezioni.
Veramente stavolta ci fermiamo. Siamo sfiniti dalla lunga fatica sopportata e non abbiamo ancora visto il nemico, né sparato un solo colpo contro di esso.= Durante la notte a sorso, a
sorso ho bevuto tutto l’anice che avevo nella borraccia, quell’anice che da più giorni mi aveva regalato l’amico Callegaris.
Spossato, con le membra indolenzite e le gambe che a stento
mi reggono mi abbandono al suolo.= Ho tanto bisogno di dormire! Ho la sensazione di sentire sotto il corpo un bel morbido
giaciglio, parmi essere coricato su un letto di piume; ma la
stanchezza e l’oscurità non mi danno il tempo di pensare, né
d’osservare su cosa sono coricato.= Dormo profondamente le
poche ore che rimangono ancora a questa notte tenebrosa.=
Verso le quattro del mattino sento scuotere il mio corpo, apro
gli occhi, ma l’oscurità è ancora completa.= È il sergente
Rocci che mi chiede se ho ricevuto il caffè.= Rispondo negativamente.=
– Ma che facevi? tutta la compagnia ha già ricevuto il caffè. Si
sta ora distribuendo l’acqua.= – Grazie tante!=
Non ho ancora mosso un passo dla luogo in cui riposavo.=
Albeggia. Scorgo alla prima luce incerta di quest’alba una forma umana stesa ai miei piedi.= Osservo meglio; mi chino… orrore… ho dormito sopra un cadavere austriaco… le mie mani…
gli abiti … = Tutto intriso di sangue umano, del sangue del nemico morto.= Con terrore mi allontano dal cadavere… Ma qui,
cadaveri austriaci sono sparsi ovunque. La morte ha svolto un
poderoso lavoro.= Tutt’intorno sono le macerie delle case sfaldate dai cannoni; la strada è interamente ostruita da mattoni,
pietre, pezzi di muro, calcinacci, legnami d’ogni sorta e d’ogni
colore.= Tutto dall’orribile forza distruttrice è stato scaraventato in aria e tutto si è rigettato alla rinfusa, come cosa morta,
sul terreno ove alloggiava.
82
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
O
Odio
GIOVANBATTISTA GARATTINI
Nato a Martano (Le) nel 1893, nella sua memoria, scritta su richiesta del Ministero della Guerra dopo la conclusione del
conflitto, Giovanbattista Garattini racconta della ritirata di
Caporetto, di come fu catturato e internato nei campi di concentramento austriaci. L’incubo della fame, il freddo intenso, i
maltrattamenti subiti e le continue sofferenze alimentano un
“odio eterno” per i suoi aguzzini.
[1917] Era notte fatta, e non se ne poteva più! Finché quando
Dio volle, giunti in vicinanza di alcune capanne, qualcuna delle
quali adibita a stalla, ci fecero sostare, ma in che modo! In
mezzo al fango, nel quale si sprofondava per un buon palmo,
sotto la pioggia e al buio completo, bagnati, intirizziti dal freddo, senza un angolo dove poterci riparare e sederci per riposare! Si è acceso dei fuochi per riscaldarci, ma in mezzo a quel
vento, si gelava ugualmente! Intanto il nostro pensiero correva
lontano, la nostalgia della nostra Italia. Ormai lontana, ci opprimeva, mentre ci trovavamo tra gente che non comprendeva e ci
odiava! […] La sera del 14 novembre, ci caricarono su di un treno, formato da vagoni merci […] e partimmo si disse, per la
Germania.
[…] Ricoverati in luride baracche, parecchie delle quali sconnesse, tanto che dalle fessure vi entrava il gelido vento di quei
luoghi e la pioggia, su quella paglia polverizzata e completamente infettata da parassiti, parecchi infelici dai volti emaciati, con corpo scheletrito od enfio, colle stimmate proprie e terribili della fame, privi ormai di quella poca forza che sarebbe
bastata loro per rizzarsi, stavano sdraiati coll’abbandono proprio dei morituri […], cogli occhi socchiusi ai quali la vita sembrava ormai mancare.
Di quei disgraziati, […] ve n’era già una forte percentuale. Gli altri, quelli a cui ancora bastava la forza di camminare, la più parte
cogli abiti a brandelli, colla mantellina e col cappotto bucati, o
semplicemente con un pezzo di coperta sulle spalle, colle scarpe rotte, oppure privi di scarpe e coi piedi fasciati da cenci, luridi, intirizziti dal freddo, cogli occhi infossati, gironzolavano tra
quei ricoveri, dai quali usciva un fetore insopportabile, […] A quegli infelici, la fame, indubbiamente, aveva tolto il senno […].
Era uno spettacolo straziante vedere uomini sui vent’anni,
camminare curvi alla ricerca di erba e di radici, sulle quali si precipitavano per arrivare prima di un compagno vicino, estirparle e
portarsele alla bocca, senza nemmeno curarsi di una sommaria
lavatura, ed ingoiarle! Questa lugubre scena si ripeteva ormai
con tale frequenza, che, cosa indescrivibile ma purtroppo vera, il
Comando del Campo, per evitare che si rovinasse oltre il terreno,
già tutto a buche e fossette, ordinò ai sorveglianti di impedire
che continuasse?! E così quei selvaggi colla soddisfazione di
aver trovato un pretesto nuovo per sfogare liberamente il loro
odio, giravano col nervo in mano in cerca di qualche prigioniero,
intento ad estirpare erbe per percuoterlo senza pietà e godere
nel vederlo contorcersi! […] Questi nervi, della lunghezza di circa
un metro, grossi all’impugnatura come un bastone comune e terminanti a punta, saranno per i reduci della prigionia, il simbolo e
lo sprone dell’odio eterno contro i loro aguzzini, che senza ombra
di umanità, usavano per un nonnulla, anzi a solo scopo di vendetta e per sfogare il loro odio selvaggio.
Vidi un sergente austriaco nel bagno del campo. Al quale era
addetto, percuotere incredibilmente, dei disgraziati nudi e per
quella canaglia, il contorcersi di quegli infelici, sotto quelle
percosse, mentre avrebbe fatto sudar freddo per lo sdegno
contro quell’aguzzino, ogni animo appena sensibile, era motivo
di gioia. […] Una notte, un infelice ridotto agli estremi, coi piedi
congelati e ravvolti in cenci, dovendo necessariamente uscire
dalla baracca, faceva sforzi inauditi per trascinarsi, ma fu costretto ad abbandonarsi al suolo a pochi passi dalla porta, rimanendo esausto nella neve, battendo i denti dal freddo intenso e gemendo continuamente con voce fioca.
[…] Dopo qualche ora, due militari austriaci, piuttosto anziani,
adibiti quali pompieri del concentramento e comandati quella
notte, di vigilare nell’eventualità di incendi, ispezionando il
campo, passarono davanti alla baracca e scorsero il disgraziato che, ormai assiderato, non aveva più nemmeno la forza di lamentarsi. In men che non si dica, i due bruti, dopo aver ingiunto
bruscamente al poverino di alzarsi e ritornare in baracca, non
ottenendo risposta si scagliarono su di lui malmenandolo e
percuotendolo finché trascendendo sempre più, imbestialiti
come iene, finirono coll’ammazzarlo con un colpo di picconcino
alla testa!!
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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O
Offensiva
GIUSEPPE GARZONI
Un operaio friulano porta la testimonianza di un’avanzata che
segue i ritmi della guerra, tra strappi e pause forzate. Strategie
a volte estemporanee che espongono ancor di più i soldati. La
paura che immobilizza, i momenti di pietà per il nemico
agonizzante, gli slanci camerateschi. E la morte che da
tragedia, nella furia di un attacco, finisce spesso per
trasformarsi in evento ordinario.
[Agosto 1915] Il battaglione è pronto per l’assalto. […] Adagio
adagio si portiamo sotto pronti per l’assalto. E un mio
compagno mi diede dello zucchero da mangiare dicendomi: Io
muoio di sicuro; io me lo vedo, é troppo il pericolo. Io dicei: È
destino, cosa vuoi! Ma le sue parole mi rimasero
impressionanti. Si aveva formato tre linee; io ero in mezzo.
Quindi danno l’ordine di Savoia. La prima riga impauriti di quel
macello che avevano visto il giorno prima tanti si trattenevano.
Io sbalzo fuori coi primi e fui stato fortunato che in dove son
passato io dopo é stata pronta una mitragliatrice puntata che
tanti passavano tanti morivano. Ecco che mi sono trovato in un
altro riparo a 20 metri del nemico. Un momento mi muore il
compagno che mi aveva dato lo zucchero e va giù in un
burrone. Il capitano ferito. Le grida erano immense dei feriti.
Ma non giova. Un altro sbalzo tocca fare. Ormai si muore. […]
Andiamo fino in trincea loro. Ormai tocca di adoperare la
baionetta che quella mi faceva impressione più di tutto. […]
Davanti la mitragliatrice i morti erano uno sopra l’altro. […]
Dunque uno sbalzo in trincea. Le bombe fioccavano. Un mio
compagno gli diette una baionetta a uno e poi lo medicò. Viene
il cessate il fuoco. I austriaci si arrendevano. I prigionieri
furono pochi. I morti non tanti. In quel momento lì si occupò 3
linee di trincee. Terminata la battaglia il capitano ben due
ferite aveva una a un braccio e una a una gamba. Ci
accompagnò fino l’ultimo momento e poi ci fece la morale. poi
lo portarono giù in barella. Si chiamava il capitano
Bracciaferri. Ora tocca star attenti a un contro attacco. Si
prende le posizioni opportune. […] Poi si mettiamo di
sentinella quasi tutti. Erano le 8 di sera. Da mezzogiorno che si
combatteva. Alle 8 viene un ordine di mangiare mezza scatoletta di carne in conserva. Uno alla volta si mangia. Poi si
sentiva tutta la notte dei gridi strazianti dei soldati austriaci
feriti nei burroni. Andati al riparo si sentiva chi chiamava la
mamma a chi la Madonna e tutti i santi. Facevano pietà ai
sassi. Benché era tempo bello l’indomani di mattina andai per
levarci una cinghia a un morto austriaco. Mi sento a chiamare:
Italiano! bono italiano! io mi salto indietro come una molla.
Presi il fucile e la baionetta sveglio il mio compagno che
dormiva da qualche momento e poi andieti a vedere chi era. Di
distantescorgo 6 austriaci che volevano darsi prigionieri. Allora
gli feci gettar giù le armi e chiamarli per tedesco. Mi intesero
subito e venirono su. Sono le 5 di mattina del giorno 16 agosto.
[…] E poi ritorno indietro in prima linea che in quella mattina
passando per il campo di battaglia trovavo i morti uno qua e
uno là.
[…] Dava un aspetto orribile a vedere che tutti i sassi erano
bagnati di sangue. I morti si li vedeva bianchi con la bocca
aperta e i denti strinti, unghie che grattano la terra, i occhi
stravolti. Quindi era una disperazione a passar di lì. Ritornato
indietro viene ordinato di far le trincee e così si dovette
lavorare di notte perché di giorno ci vedevano di un altro
monte. L’indomani di nuovo tocca andare a un assalto e invece
il compito di quell’assalto gli toccava alla 6^ compagnia. E così
ci tocchette andare a noi. […] Alle 2 dopo mezzogiorno
andiedero all’assalto un plotone alla volta. Era un cucuzzolo
distante della nostra linea circa 30 metri. Noi in alto e loro
internati nella roccia e veniva combattuto tutto a forza di
bombe a mano. Lì si combatte forse una mezz’ora e poi i nostri
dovettero cedere e ritirarsi. Quelli che erano rimasti vivi erano
ben pochi. […] Il 18 due assalti così nel medesimo vallone. Altre
compagnie furono state a noi di rincalzo. Dopo andettero il
genio a fare una galleria e poi minarla per far saltare tutto in
aria. Poi sospesero. Il 20 di nuovo allo assalto altre compagnie.
La notte dal 21 al 22 il capitano della 6^ compagnia volontario
voleva prendere il cocuzzolo. Noialtri si seppe due giorni prima
di questo assalto.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Luigi Coeta - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Soldato in appostamento con la mitragliatrice.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
Renzo Re - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Reticolati di trincea.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
O
Orrore
PAOLO BIELLONI
Le memorie di un ufficiale veneziano ci proiettano in una notte
di apparente tranquillità in cui, con il favore dell’oscurità, si
riescono piuttosto agevolmente a completare gli spostamenti
strategici. Ma il cammino si rivela una discesa agli inferi,
rischiarata beffardamente dal plenilunio, che illumina il lato
più macabro del conflitto: cadaveri ammassati, ricoperti
pietosamente con mezzi di fortuna e straziati da stormi di
corvi voraci.
[1917] Un giorno, il Comandante la batteria volle trattenermi
fino al sopraggiungere della notte, dicendo che era inutile
esporsi a dei rischi enormi, mentre che la notte si poteva
compiere il trggitto con un maggior margine di sicurezza.
Il fronte era tranquillo. Passammo cameratescamente la
giornata ed a sera mi misi in cammino insieme a due soldati
che venivano trasferiti al parco.
Eravamo in totale plenilunio e ci si vedeva quasi come di pieno
giorno. Ma più ci avvicinavamo all’Judrio più si infittiva una
nebbia densa ed opaca che non era rischiarata che dagli
shrapnell ad intervalli regolari.
[…] Ci fermammo indecisi in quanto sarebbe stato necessario
imboccare giusto il sentiero che portasse al varco nei reticolati
e conseguentemente al ponte.
Ma, nel mentre cercavamo un orientamento, la luna disparve
sotto una cortina di nebbia fitta ed impenetrabile. Il buio
lattiginoso non ci consentiva di vedere più in là di due passi
davanti a noi. Un fetore di cadaveri rendeva l’aria quasi
irrespirabile.
Subito dopo l’avanzata era stato istituito un Corpo speciali di
territoriali che provvedeva a sotterrare le salme dei caduti,
lungo tutto il fronte di combattimento. Ma il compito era
sproporzionato al contingente di personale addetto. […]
Provvisoriamente si provvedeva col buttarvi sopra qualche
manata di calce viva. Prendemmo ognuno per conto suo, un
sentiero diverso senza troppo discostarsi e mantenendoci in
collegamento con chiamate frequenti.
[…] Il chiarore del plenilunio non fece altro che renderci
consapevoli della situazione in cui eravamo.
Ci trovavamo imbottigliati in uno dei punti più battuti dalle
operazioni di attacco che avevano portato allo sfondamento.
I cadaveri austriaci coprivano letteralmente il terreno: Sparsi, a
gruppi, a cumuli uno sull’altro, sui margini delle trincee
evidentemente diventati inospitali, denotavano uno
spostamento in massa stroncato da un volume di fuoco
apocalittico.
Nel raggio della nostra visuale se ne poteva calcolare a
centinaia, tutti in uno stato di incipiente putrefazione.
[…] Sui primi incontrati, che noi schivavamo nel nostro
cammino vedevamo staccarsi qualche nero uccellaccio che
fuggiva gracchiando sinistramente.
[…] Ad un tratto ci trovammo davanti ad una superficie
ondeggiante di piume nera iridescenti. Sostammo inorriditi.
Uno stormo denso di centinaia di corvi ricopriva compatto un
mucchio di caduti, ammassati uno sull’altro evidentemente
stretti insieme in un ultimo supremo momento di disperazione.
Il tropico ha le sue iene, i suoi sciacalli. Il nord ha i suoi corvi,
gli alati vermi delle tenebre, direbbe Victor Hugo.
Tirai fuori la rivoltella e sparai un colpo, due, tre. Vedemmo lo
stormo nero sollevarsi gracchiando e riprender terra qualche
diecina di metri più in là.
[…] Ci guardammo attorno: Tutti e tre eravamo immobilizzati
dall’orrore. Nello chock che ci invadeva avevamo perduto
l’orientamento ed ogni ulteriore passo non sapevamo se ci
portasse ad uscire o ad inoltrarci in quel regno dei morti.
[…] La nebbia veniva intanto spazzata da folate di vento
sempre più intense. La luna illuminava a giorno il campo
dell’orrore.
Ritrovammo il sentiero e poco dopo individuavamo il varco dei
reticolati e con esso il ponte.
Pur sotto l’incombere degli scoppi di shrapnell che ad intervalli
regolari ci investivano rabbiosi, ci guardammo in viso
sorridendo di un sorriso inebetito.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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O
Ospedale
AMBROGIO RYLLO
Un giovane maestro calabrese viene fatto prigioniero dagli
austriaci nel 1917. Liberato dopo sette mesi per malattia, grazie anche all’intervento della Santa sede e della Croce rossa,
Ambrogio Ryllo scrive numerose lettere ai propri famigliari,
descrivendo di volta in volta la propria situazione nelle strutture ospedaliere in cui trova ricovero. Nelle lettere pubblicate
di seguito egli racconta del trattamento, decisamente diverso, che riceve prima in Liguria e poi in Sicilia nel maggio del
1918.
Nervi, 14.5.1918
Carissimo Papà,
Io fui rimpatriato, senza scambio. La storia della mia malattia è
breve. Arrivato a Sigmundshberg la sera del 6 Gennaio rimasi al
Gruppe sino al giorno 11, giorno in cui entrai all’ospedale con
febbre (37,2) qualificata reumatica. Allo Lager-Spital non vi era
posto e andai al Lager-convalescenzario. Io che fui mai un uomo robusto ma al contrario anemico, per lo scarso e pessimo
cibo (acqua sporca per caffè, acqua sporca per brodo, 4 millimetri di carne di cavallo, erba (scorze di cavoli, di rape e simili
assecchiti) o vermicelli austriaci (cavoli sottaceto) o spinaci, o
rape, o barbabietole malcondite) e la sera polenta di miglio o di
altra farina (senza condimento) e 1/5 di pane di miglio ammuffito fecero sì che decadessi in una estrema magrezza e debolezza per cui il medico italiano Sotto Tenente De Rosa a mia
istanza mi propose Invalido per “Deperimento Organico”.
Passata la visita da un Colonnello austriaco il 15 marzo mi dichiarò invalido e così il giorno 4 maggio presi il treno della
Croce Rossa e lasciai Sigmundshberg sul confine Austro
Svizzero dove la sera del 7 son venuti gli Svizzeri i quali mi accompagnarono con un loro treno fino a Como dove arrivai
l’8.Non so dirti che festa ci hanno fatto in Isvizzera fu un getto
continuo di fiori, di aranci, di cioccolate, di sigari e sigarette. A
Chiasso vennero dati persino fazzoletti. Da Como su treno italiano fummo trasportati qui sulla Riviera in mezzo una selva di
fiori di aranci e di palme in uno dei più rinomati ex Hotel
Tedeschi.
Passata una prima affrettata visita fui diagnosticato (Sclerosi
Polmonare).Qui ci danno un vitto sostanziosissimo a base di
carne uova e latte alla quale dieta aggiungo una o due tazze di
cacao che ho comprato. Io noto in me stesso un miglioramento
giornaliero. Ho dato il sangue, l’urina, le feci, lo spurgo per l’e-
same, e dovrò passare per la radiografia del torace e una seconda e più minuta visita. Ho scritto la storia dell’atavismo. Ho
fatto l’innesto antitubercolino che è risultato negativo.
Zio Luigino mi ha offerto la sua casa per passarvi la licenza
scrivigli per ringraziarlo io ho già accettato l’offerta.
Attendo il certificato di sussistenza già richiesto a mammà e di
essere esaminato dalla Commissione d’Inchiesta sulla ritirata.
[…] Dimenticavo dirti che sono sempre dalle 6 del mattino alle
10 di sera sempre in giro. Prega e benedici.
Ambrogio
Catania, 29.5.18
Carissima Mamma,
[…] Siamo capitati in mano alla Tetella. Hanno paura dei microbi
incominciando dal Colonnello Medico che ci prende come impestati e sta tutto ristretto e con le mani in tasca finendo così al
Trombettiere. I borghesi neanche ci avvicinano. Ieri è venuto sulla soglia un […] della C.R. Ed è fuggito subito. Di poi sono un ammasso di asini non credono né alla batterologia né alla radiologia. Ci han rinchiuso in un […] dove si prende l’aria in un cortile
dove vivono o vivacchiano due tisiche piante di rose e una palma di grasta. […] Oh! quante maledizioni scaglio contro chi ha
dato la disposizione di venire quà giù e di lasciare la bella Nervi
poiché qui mi sento di nuovo in esilio poiché i fatti mi confermano che l’Italia nostra finisce alla punta di Reggio Calabria.
Ho scritto a Giulio Corapi per sapere le disposizioni emanate
dal Ministero riguardo ai Tubercolotici provenienti dalla prigionia austriaca. In quanto al vitto si sta male latte e caffè la mattina un decilitro l.0,10 senza pane. Alle 11 pasta in brodo o pasta asciutta, ma senza formaggio né grasso. Un pezzo di carne
o per meglio dire strascinacchia con contorno di faggioli o di
ceci tutto senza olio, un decilitro l.0.10 di vino. Alle 16 riso in
brodo e due uova che puzzano di cacentero – pane g 500 in una
volta e così ci vogliono rinforzare e rinsanguare!…È proibito ricevere parenti poiché ci fanno parlare dalle finestre come i galeotti!…Proibito ricevere pacchi. In ogni modo ci vogliono sagrificare e mi sento te lo ripeto in Austria. In Austria almeno v’era
il Lager spazioso dove si poteva camminare qui manca anche
questo. Se papà potesse venire farebbe bene altrimenti brutte
idee mi frullano per la testa e quello che non ho fatto in tre anni lo farò oggi. Prega e benedici. Saluto tutti
Ambrogio
88
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
P
Pacchi
COSTANTINO GIORDANO
Costantino, militare di leva, è fatto prigioniero dagli austriaci e
dal campo di prigionia invia lettere alla famiglia fornendo
indicazioni su come preparare i pacchi da inviare tramite la
Croce rossa: fondamentali per la sopravvivenza sono delle
piccole pagnotte di pane, che si mantengono per più giorni.
3/9/1916
Carissimi genitori
con questa mia spero di trovarvi tutti in buona salute come al
momento vi posso assicurare di me. Oggi ho ricevuto il pacco
n° 361 ancora intatto, contenente il pane, cioccolata,
continuate a spedirmene uno ogni dieci o quindici giorni.
Attendo vostre notizie; altro non mi occorre niente. Termino
salutandovi tutti di famiglia, saluti alle zie zii e parenti tutti.
Saluti dal vostro aff.mo figlio Costantino.
Giordano Costantino Soldato 80° fanteria Baracca n°6
hriegagefagenlager Breitenlee bei Vien Austria
7/1/1917
Carissimi genitori
pochi giorni sono ho ricevuto una delle vostre cartoline, che mi
fece molto piacere al sentire che vi trovate tutti bene, come
pure al momento vi posso assicurare di me. Fate doppio
abbonamento alla croce rossa e meglio ancora un
abbonamento solo e speditemene da casa un pacco alla
settimana di 5 chili di pane. Soldi non ne ho bisogno, altro non
mi occorre che pane, pane e qualche pacchetto di tabacco.
Termino salutandovi di vero cuore tutti.
Costantino.
21/1/1917
Carissimi genitori
con questa mia spero di trovarvi tutti in buona salute come al
momento vi posso assicurare di me. Sono contento che i
pacchi mi giungono con regolarità e in buone condizioni,
solamente che un abbonamento è troppo poco perciò vi prego
fare il possibile spedirmi un pacco alla settimana da casa di
solo pane, se non vi è comodo così fate doppio abbonamento
alla croce rossa.
Pochi giorni sono ho ricevuto un pacco che conteneva proprio i
generi che io desideravo cioè: pasta riso burro conserva come
sapone tabacco. Altro non mi resta che salutarvi di vero cuore
tutti.
Costantino
14/3/1917
Carissimi genitori
con questa mia spero di trovarvi tutti in buona salute come al
momento vi posso assicurare di me. Questa settimana ho
ricevuto tre vostre cartoline, una del 22 ottobre, una del 6
dicembre e l’altra del 22 dicembre, ho pure ricevuto tre pacchi
dalla croce rossa, due contenenti pane e uno contenente
proprio i generi che desideravo cioè pasta, riso, burro,
conserva, una scatola di carne, sardine, un pezzo di sapone e
quattro pacchetti di tabacco. Nelle vostre cartoline vi lagnate
di ricevere poca posta, questo non è colpa mia poiché io scrivo
una volta alla settimana com’è prescritto, questo diviene
dall’attività della posta. Sono contento che finora i pacchi mi
giungono con regolarità e in buone condizioni; in tutti ne ho
ricevuti 18, delle cartoline ne ho ricevute 13. Fate doppio
abbonamento alla croce rossa perché uno è troppo poco e
speditemi un pacco al mese di pasta, riso e fumare perché
quest’ultimo è l’unico divertimento che si abbia qua. Altro non
mi occorre che pane, pane. Soldi non ne ho bisogno. Termino
salutandovi di vero cuore.
Tanti saluti dal vostro figlio Costantino.
3/6/1917
Carissimi genitori
con questa mia spero di trovarvi tutti in buona salute, come
finora vi posso assicurare di me. Il giorno 30 ho ricevuto una
cassetta di pane spedito l’undici maggio che era tutto
ammuffito, fate le pagnotte piccole come quelle dei primi
pacchi e possibilmente di pasta dura fatele cuocere bene e poi
prima di spedirle fatele seccare al sole in modo che non
contenga più umidità.
La scorsa settimana ho pure ricevuto due cassette, una
contenente pane, riso pasta conserva dadi formaggio, l’altra
pasta, una camicia, una maglia, un paio di mutande. Quando mi
scrivete invece di sei mettete baracca n° 9. Altro non mi resta
che salutarvi di vero cuore tutti.
Vostro aff.mo figlio Costantino.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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P
Padre
RENATO ROSSI
Ventenne parte per la Prima guerra mondiale e da Venezia,
dove svolge lavori di ufficio, Renato scrive al padre in Umbria.
Nelle lettere le notizie sulla guerra si alternano al desiderio di
tenersi aggiornato sulle questioni familiari.
31.10.1917
Babbo carissimo,
Sono in questo momento in città e il primo pensiero è di
rassicurarvi sul mio conto, perché sto bene. Altrettando non
posso dire del morale certo che è doloroso e triste il momento
attuale, ma non bisogna disperare. Il momento è grave, forse il
più grave da quando l’Italia è stata formata, ma appunto per
questo occorre combattere strenuamente, chiamare a raccolta
tutte le nostre forze, le nostre energie per rinfrancarci e vincere.
Ti so dire soltanto che la gran parte dei soldati, eccettuato
alcuni, che però hanno già trovato il loro meritato… premio, sono
animati da una sola, da un’unica volontà: quella di ricacciare il
tedesco ad ogni costo! Questa è la mia impressione avvalorata
da ciò che ho visto in questi giorni trascorsi in mezzo a loro.
Certo una ritirata rapida e precipitosa come la nostra ci ha
costretto a sacrifici dolorosi; ed ha recato confusione che però è
già quasi completamente scomparsa e i nostri più bei reggimenti
attendono a piè fermo e con animo assetato di vendetta.
È probabile che anche il mio battaglione parta per spostarsi più
verso la linea del fuoco, ma parto contento e felice di recare il
mio modesto contributo. Chi ha un cuore e un’anima non può
assistere con animo indifferente agli avvenimenti che si
svolgono. In ogni modo nulla di preciso so dirti, perché sono
sempre in attesa. Ti pregherei però di mandarmi subito L. 50,
perché se dovessi partire mi occorreranno. […] Babbo mio
coraggio e non disperare! Son certo che tu non vorresti sapere
tuo figlio vile! Non cercherò di partire lo prometto, ma se me
l’ordinano obbedirò con animo lieto e sereno, sicuro della tua
approvazione! Mi sbaglio forse? Non credo!
Raccontarti ciò che io ho visto non potrei, perché la mia mente è
tutta piena di visioni dolorose, e mi sento stanco, d’altra parte è
proibito, e specie in questo momento occorre soprattutto tacere.
Vivi adunque tranquillo e se una decisione qualsiasi verrà resa a
mio riguardo te la comunicherò subito. Abbracciami tutti di casa
e tu voglimi sempre bene. Bacioni dal tuo affezionatissimo
Renato
19.12.1917
Babbo carissimo,
eccomi a te per rispondere alla tua lettera del 7 giuntami ieri. Di
nuovo a mio riguardo nulla ancora, ma credo che l’ordine di
partenza non tarderà molto. Come già ti ho detto parto tranquillo
e calmo con la certezza di compiere il mio dovere. […] Grazie
babbo mio della tua approvazione ai miei sentimenti, cosa di cui
non ho mai dubitato, perché ben ti conosco e so quanto tu
apprezzi le idee buone e generose. Non temere babbo per me. Ho
la convinzione intima che la palla che deve uccidermi non è
ancora stata fusa e forse non lo sarà mai; perché ho la certezza
di riuscire a giungere alla fine sano e salvo con l’orgoglio di aver
compiuto tutto il mio dovere di uomo e di soldato. Natale si
approssima e anche quest’anno dovrò farlo lontano da tutti voi.
È il 4° che manco da casa e credi che tale pensiero suscita in me
tanta tristezza e nostalgia! Ma come fare? Occorre pazientare e
attendere quel giorno sospirato in cui potremo ritornare in
mezzo a voi per riprendere quella vita così bruscamente
interrotta! In quanto alla situazione sebbene possa ancora
riserbarci qualche dolorosa sorpresa, pure è molto migliorata e
può considerarsi con fiducia! Il nostro esercito si batte e si batte
bene, gli alleati ci aiutano e il tempo è il nostro ausilio più
prezioso. Attendi quindi con fiducia lo svolgersi degli eventi e
non impressionarti di qualche momentaneo rovescio che ormai
non può cambiare il decorso degli avvenimenti! Sulla Russia
nulla posso dirti perché non so cosa pensarne! Sebbene l’attuale
lassù può riservarci qualche sorpresa buona, pure è meglio non
calcolare più su loro, perché le speranze potrebbero svanire anzi
tempo. Anche se la corrente contraria alla pace avesse il
sopravvento, ben poco aiuto potrebbero darci, perché ormai
quell’esercito è completamente disorganizzato e lungi da
portare un concorso a noi utile, non sarebbe che un
assorbimento di rifornimento degli alleati: rifornimento che però
può avere più utile impiego qui e in Francia. In quanto poi far
scontare alla Russia i suoi peccati, credo non sarà lontana la
resa dei conti; e se daranno mano libera al Giappone, il castigo
non sarà poi tanto lontano. […]
Saluti cari a tutti amici e parenti. Bacioni a tutti di casa e a te un
abbraccio di cuore dal tuo Renato.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Renzo Re - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Soldati impegnati nel recupero di legname per la
costruzione di baracche.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
Luigi Coeta - Fondazione Archivio Diaristico Nazionale
Trasporto di vettovaglie con l’aiuto dei cani da slitta.
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92
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
P
Patria
LUIGI MARZIANO
Un tenente siciliano racconta le manovre italiane sul fronte
francese, ma soprattutto testimonia per iscritto l’orgoglio che
prova per il suo compito di soldato, l’amore per la patria. Il
tricolore rappresenta tutto ciò che spinge Luigi e i suoi
compagni a dimenticare la paura, il pericolo, il dolore, e andare
avanti.
18 luglio [1918]
Gli ultimi soldatini d’Italia ce l’hanno fatta contro gli arroganti,
duri signori della guerra.
Ho attaccato al ramo di un albero vicino al I pezzo il
fazzolettino tricolore. Com’è bello! Sventola alla leggera brezza
di questa mattina assolata. Il tricolore spicca, sembra una
gemma luminosa n mezzo al fogliame verde; guardandola non
si può fare a meno di mormorare: – “Oh, Italia, Italia bella!” – e
sono parole che si pronunciano con la voce del cuore più che
con le labbra e senti il petto gonfiarsi e un sentimento di
orgoglio e di soddisfazione per il dovere compiuto, e non hai
più paura della morte,non hai più titubanza alcuna di fronte al
pericolo e al sacrificio.
Intanto i cannoni tuonano rabbiosamente. Nel Bois de Fleury, a
poca distanza dalle nostre posizioni, ferve accanita la mischia.
I nostri fanti sbarrano decisamente il passo alle masse
nemiche, il nostro fuoco cerca i punti vitali di esse e le
sgomina, le disorienta, le batte. È ormai in tutti la convinzione,
per una sorta di preveggenza che in guerra anticipa gli
eventi,che il piano tedesco di sfondare a ovest di Reims e a sud
della Marna, debba considerarsi fallito.
Alle 14 viene a farci visita un colonnello d’artiglieria della 120°
divisione francese. Il maggiore ci riunisce, ci presenta. L’ospite
ha per noi parole magnifiche, esalta il nostro valore, enumera i
nostri eroismi e si dichiara onoratissimo di averci al suo fianco.
Ci ha chiamati manipolo di eroi. E questo ci ha riempito di
orgoglio sebbene non possa compensare il sacrificio di tante
vite. […]
19 luglio
Alle 8 sferreremo il contrattacco.
Alle 8 in punto tutte le artiglierie del settore aprono un fuoco
tremendo. Il tiro è cadenzato ma data l’enorme quantità di
bocche da fuoco i tedeschi si sentiranno addosso un
eccezionale bombardamento.
Cambiando continuamente obbiettivo, per tutta la giornata si
spara. È uno spettacolo tragico e grandioso insieme. Ai pezzi i
serventi, tutti scamiciati, senza elmetto, perché il pericolo non
si conosce più, grondanti sudore, abbronzati dal sole cocente,
caricano e sparano come forsennati. I conducenti, nella
fornace della battaglia, in mezzo ai cannoni roventi, vomitanti
acciaio, con le pariglie impazzite, scaricano e si allontano al
galoppo; cassoni di artiglieria con i cavalli che si impennano e
nitriscono terrorizzati dalle esplosioni, charrettes francesi,
autocarri, portano munizioni senza un attimo di sosta. Tutte le
piante vicino alle batterie sono sfrondate. I cannoni sono
infuocati, ad ogni colpo mandano scintille; gli operai si
sforzano di lubrificarne i congeni. I comandanti di sezione,
dietro ai cannoni, con il canocchiale incollato sugli occhi,
seguono le mosse del nemico. Di quando in quando con voce
sicura diamo un ordine: un nuovo bersaglio si presenta, in
pochi secondo è battuto. A sera si cessa il fuoco. I nostri pezzi,
in queste ore di fuoco hanno sparato, solo essi, oltre 2400
granate.
Nuove truppe, intanto, vanno in linea. La brigata Brescia,
decimata, viene sostituita dagli americani. È un continuo via
vai di barelle. Le perdite del nemico sono gravissime: divisioni
intere sono state gettate nella fornace ardente della battaglia
e annientate dal nostro fuoco. Anche le nostre, però, sono
gravi; ma l’azione è riuscita: i tedeschi cominciano ad arretrare.
I nostri cuori esultano.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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Paura
DUILIO FAUSTINELLI
Un pastore della Valcamonica racconta, nella sua memoria,
i tragici avvenimenti che lo videro testimone della Grande
Guerra. In prossimità di Monfalcone, durante un’azione, avanza
lungo un pendio e si trova di fronte il nemico. Duilio è
impaurito, terrorizzato e retrocede nascondendosi in una
specie di trincea fatta di sacchetti. Alla sera raggiunge un
piccolo paese con altri superstiti cercando di non farsi
scoprire dagli austriaci.
[1915] Siamo scesi nella retrolinea provisoria cioè in un
paesello chiamato S. Pollo poco distante da Monfalcone, paese
che avevamo già sventrato con le pillole pins, era quasi già una
maceria: erano depositati in una casa semidirocata vari morti
dei nostri soldati caduti, che già si sentiva molto putrefemento,
e li si cominciava ad avere sensazione di paura e faceva
ribresso al vederli, e si diceva ora son questi, quella notte,
domani, ne può essere di me, dicevo tra me: la mia famiglia non
la vedo più, e che fare povero Duilio? A questo punto bisogna
armarsi di un ferreo coraggio e poi basta, mi rincresceva molto
a quel’età cosi giovine quasi ventitreenne il fiore dell’età, e
dicevo tra me: qui per campare ci vuole la grazia di qualche
Santo che abbia a proteggermi, altrimenti cè nulla da sperare;
poi a pochi passi cè in piedi ancora una chiesetta, […] è
perforata in varie parti, e io come pensava il mio pensiero sono
entrato colla mia dovuta intenzione […] e li cominciai a pregare.
[…] In questo frattempo il mio reparto l’anno richiamato a rango,
è fatto l’apello per scegliere circa 12 o 15 soldati per andare
circa mezzanotte per tagliare i reticolati austriaci […].
Danno l’ordine, di avanzare, prima si doveva calarsi giù per un
pendio: non si è fatto che quattro sbalsi a carponi, che il nemico
mi scopriì, e allora è stato una tempesta di piombo, a ridosso su
di noi, poveri infelici, perciò centinaia di bocche gridavano: Aiuto
Aiuto, portaferiti, salvatemi, chi chiamava la mamma, chi la
sposa, il papà, insomma cose che facevano, ribrividire chi è
morto sul colpo, chi era gravemente ferito, pochi erano i
superstiti. Insomma era una desolazione di spavento, chi non ha
provato e visto non può credere, un vero sfacelo; poi io, invece di
retrocedere, mi sono portato più avanti, di modo che mi sono
portato fuori del tiro nemico, ma camminavo come fanno i
caprioli, tutto angosciato del vero spavento, non cera da
scherzare, e di qui trovai una specie di trincea fatta di
sacchetti di terra dove di notte ci si metteva i piccoli posti
avanzati, era apenna della larghezza di circa due o tre metri, e
lì mi buttai contro di traverso ma non ne potevo più, e arsito
dalla sete chi mi bruciava il proprio petto e più in alto a retro di
me, si sentiva a ancora tanti, a gridare aiuto, aiuto, portaferiti,
che contendevano colla vita e la morte, perciò io per il grande
spavento non sapevo più cosa mi facevo, dicevo tra me qui
bisogna morire, o a un modo o all’altro, ed io pensai di mettere
il mio fucile in posizione di sparo e cociuto che volevo ferirmi
ad una mano, per poi eclisarmi al’ospedale, ma lo spirito santo
non mi a concesso, perché se fosse stato di spararmi per di più
a bruciapelo, poteva subentrare il tetano poi mi avrebbe
riconosciuto, e così mi mandavano alla fucilazione, cose
dell’altro mondo perciò un qualche santo mi a protetto a
tenermi la mano sulla testa. Poi in sul fare della sera son
venuti avanti ancora parecchi superstiti, di cui mi sono messo
insieme anchio ed era proprio il mio reparto, e siamo avanzati
di nuovo; il mio tenente che si chiamava Dipalma m’aveva
promesso una decorazione al valore militare, perché mi sono
portato avanti prima di loro i sopravvissuti, perciò mi voleva
premiare. Fatto sta che circa pochi minuti dopo il nemico, mi
scopre di nuovo: era poco distante e hanno cominciato a
sparare col loro tapum, perciò è stato ferito il proprio tenente a
tutte e due le gambe e li in questo fra tempo è rimasto ucciso
un soldato: li aveva centrato il cuore, e non a detto più né Gesù
né Maria e il tenente l’anno portato via i portaferiti e poi ho
saputo, più tardi, che li era stata conferita la medaglia
d’argento, perciò al posto di me la presa lui. Comunque quella
detta sera, al chiaro della luna siamo giunti a un paesello che
si chiama Sela: ai piedi della quota dove stavano la trincea dei
Tugnit sopra circa 200 metri di noi, e noi stare perfettamente
zitti: non si doveva fiatare e si sentiva apenna il tacpum e
qualche colpi di canone, perciò i Tugnit mi attendevano e di lì
abbiamo fatto sosta tutta la notte, e quel momento, erevamo
veramente avelito, faceva impressione guardando all’alto:
quella detta trincea pareva la spelunca dei maniturghi, che
sparavano.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
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Piave
GIOVANNI BERTOLI
Originario della provincia di Parma, Giovanni trascrive nel suo
diario, giorno per giorno, gli avvenimenti che vive al fronte
lungo il Piave: il celebre passaggio attraverso il fiume, le
emozioni, le paure e i confusi pensieri di quei momenti tragici.
Ma anche la gioia di riuscire, finalmente, ad arrivare sano e
salvo sull’altra sponda.
[1918] Venne l’ordine di prepararsi, pronti a qualsiasi chiamata
perché si tratta che il Genio pontiere vé à fare le passarelle per
passare il Piave alla notte medesima. Allora si prepariamo tutta
la nostra roba, si mettiamo questo vestito impermeabile ché si
chiamava la combinasione, si sembrava tanti palloni frenati. […]
Si sentiva le nostre artiglierie a sparare, ma non ci si oservava
perché era già da qualche giorno ché non si udiva altro, ma più
tardi si incomincia ha sentire un nostro bombardamento
fenomenale, […] era uno dei più inferociti che aveva sentito in
ventisette mesi. […] Noi siamo rimasti così impressionati ché
nessuno non aveva più né freddo né sonno, né niente.
Almeno à mé mi sembrava di avere una macchina nella testa ché
mi rappresentava centomila cose ogni momento […].
Allora abbiamo preso la nostra roba e via di corsa […].
Sembrava una cosa fatta ha posta! Non ancora distante
cinquecento metri incomincia ha piovere. […] Trà l’aqua, là paura
e là confusione non si cappiva più niente. Almeno io era uno di
quelli! Ma senza temere di sbagliare chi un poco più chi un poco
meno lé mie scarpe andavano bene a parecchi.
Siamo stati fermi circa un quarto d’ora poi si fanno proseguire la
strada assieme con la Fanteria […]. Più avanti loro incominciano
a gettare qualche raggio nel Piave. Poi frà pochi minuti a sparare
con artiglierie con Mitragliatrici ché sembrava l’affine del Mondo
[…]. I zrapnel le granate è lè pallottate di Mitragliatrici che
fischiavano, era una cosa spaventosa.
Sì erano accorti ché si era dietro per passare, e ché né era gia
passato. È loro facevano foco acanitamente. Io dire la verità,
tremava, batteva i denti e non sappevo più niente.
Mi ero trovato ancora in posti brutti ma così mai…
[…] Più tardi incomincia la medezima storia di cominciare a
sparare dà ogni parte. Io incominciavo a pensare per mé stesso ?
Diceva: la facenda si fa seria, qui si tratta di passare il piave
questa notte. […], mentre stava pensando venne l’ordine di
partire […] per andare a passare contro Vidor. Mentre si siamo
spostati pare ché sé né siano accorti subito anno cominciato a
sparare zrapnel è granate è guardare via il faro. […], il viaggio è
stato lungo è faticoso, va è và siamo arrivati a Vidor, eravamo già
per passare da una passerella, ché è venuto un ordine di tornare
indietro per andare a passare dà unaltra passerella intanto che
siamo andati da una passerella à l’altra là fortuna è stata per noi
ché è saltato per aria l’uno e laltra. Ed è venuto l’ordine di
fermarsi […].
Dalle nove che siamo partiti si siamo fermati ché era le tre del
del g. 28. Non era tanto caldo ma là contentessa di esser rimasti
di quà del Piave tutto nascondeva.
[…] e poi venne l’ordine di partire e andare a passare di dove
eravamo partiti la sera prima, percorrendo quazi sempre in riva
al Piave, per cinque o sei ore sotto quel fulmineo
bombardamento come la notte precedente. Quanto era
dolorosa?… Mà non cé stato da discuttere, bisogna andare: è
felice notte.
[…] Verso le undici arrivano dove si costeggiava proprio il Piave,
ché là sera prima da quel punto in avanti era qualchecosa di
spaventevole, invece là sera medesima si sentiva soltanto il
nostro. […] Si diceva fra noi guarda come si è cambiato da ieri
sera ha questa sera? […] per noi è una fortuna sé la riva dilà del
fiume è zgombra speriamo che non abiano a massacrarsi coi
fucili in mezzo al fiume mentre si passa […].
Noi si aveva premura di passare non per tanti scopi, ma soltanto
perché si diceva? se viene giorno e poi che si fanno passare
lostesso sarà un disastro… per noi. In fatti mentre comincia a
farsi giorno si infilano traverso il fiume siamo arrivati a metà che
non abiamo sentito neanche un colpo […], ma dopo anno in
cominciato a sparare alla passerella, inseguendosi di dietro con i
colpi […]. Il suo tiro si faceva sempre più intenso e à finito con un
tiro di sbarramento tutto verso il fiume. […] Finalmente siamo
arrivati sulla riva sinistra del fiume mà fuori completamente,
abiamo viaggiato sino circa le 12 poi si siamo fermati. Abiamo
mangiato un poco di galetta con della carne di scatolette, e si
siamo levate le scarpe rompendo il sugatoio per poter mettere i
piedi nel siutto, è gettar via le calze che erano piene di acqua.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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Pidocchi
MARIANO GIGLI
Mariano Gigli, nato alla Maddalena nel 1897, è un ufficiale diciannovenne che svolge scrupolosamente il proprio servizio
sul fronte austriaco sopportando, con serena accettazione, disagi e sofferenze. Nelle lettere che scrive ai genitori è premuroso e affettuoso, ma non esita a confidare alla madre il disagio procuratogli dagli indesiderati ospiti.
Lì 12-12-1917
Mamma mia carissima,
finalmente posso prendermi il lusso d’inviare una lettera in risposta alle tue lunghe e affettuosissime. Sono tre giorni che
non scrivo perché non ne ho avuto né il tempo né il modo.
Immagino quanto ti sarà di sollievo questa mia dopo tre giorni
di mancanza di mie nuove. Bisogna, cara mamma, che ti adatti a
simili scherzi perché in guerra non sempre si ha a portata di
mano la buca delle lettere, la carta per scrivere o la cartolina.
Quando manchi di mie nuove non devi allarmarti, ma pensa
sempre in bene, sono sicuro non ti sbaglierai. La tua corrispondenza giunge regolarmente ed è l’unico mio sollievo della giornata.[…]
Ho qui presente la tua lettera dell’8 cm che ricevetti ieri sera. Di
parecchie lettere non ti ho accusato nemmeno ricevuta, ma tu
perdonerai comprendendo che quelle poche righe inviate sono
state scritte in fretta in un momento di tregua o di calma spirituale, e che loro scopo principale era quello di mantenerti tranquilla con quelle poche e quasi sempre sconnesse frasi. Scrivo
seduto a terra, entro un buco, con la maschera contro i gas
asfissianti sulle ginocchia che mi serve da scrittoio. […]
Quando penso a quello che è accaduto e che la guerra sterminatrice è stata portata in casa nostra non riesco assolutamente
a convincermene. Tutti siamo però convinti che presto le cose
cambieranno, per quanto la odierna situazione sia molto critica.
Lasciamo queste dolenti note e parliamo d’altro. Ringrazio immensamente zia Lina della sua lunga e cara lettera. Per ora
non posso (perché non ho tempo) risponderle, ma appena mi
sarà possibile sarà mio dovere il farlo. Così pure farò per Carlo
che ringrazio tanto del suo cartoncino con tanto di intestazione
“BANCA”. Che bel giorno sarà quello in cui pure io potrò tornare
a ricoprire, anche un modesto impiego, e godere, però, un po’ di
quella pace famigliare che tutti si desidera ardentemente.
Tu mi domandi quando ci recheremo a riposo; nulla posso dirti
in proposito perché non se ne sa proprio nulla.! Sono già sedici
giorni di vita veramente dura e tutti ci sentiamo un pò snervati.
In confidenza ti comunico che mi sono riempito di pidocchi e
che non so come fare per togliermeli di dosso. Biancheria non
ne ho in gran quantità e quello che più mi importa, non ho una
divisa di riserva in modo da poter gettare via quella che presentemente indosso. Avessi almeno un antisettico, ma non mi
è stato possibile trovarlo! Questo a titolo di cronaca !!
Pazienza!
Chiudo: baci e abbracci carissimi a tutti di casa, a te, mamma
mia cara, tutto il mio affetto.
Tuo affmo figlio Mariano
Lì 18-01-1918
Mamma carissima,
stasera rispondo alla tua carissima in data 14 cm ricevuta ieri
sera. Da qualche tempo non scrivo più a lungo perché proprio
me ne manca il tempo. Si lavora notte e giorno e gli ordini si accavallano e non bisogna assolutamente farli accavallare, perché altrimenti sono guai!
Andiamo all’argomento che tanto ci preme; la licenza. Quando
sarà quel giorno? Spero presto, ma il punto interrogativo si ingrandisce perché solo il Colonnello decide chi deve partire.
Siccome io non vado molto d’accordo con lui mi farà allungare
il collo. Pazienza! Già in altra mia lettera ti accennavo dell’arrivo del Cap.Scola e in questa te lo confermo. Ti ringrazio dell’antiparassita che, quantunque entrato in funzione, pure non riesce a togliermi di dosso il prurito!!!
Il sergente che avevo mandato in licenza è già tornato ed ora
per turno spetterebbe proprio a me! Il mio arrivo sarà un’improvvisata perché da un momento all’altro il mio nome può
giungere dal Comando di Reggimento con l’invito di presentarmi a ritirare il foglio di licenza. Quale valore avrà per me quel
pezzo di carta con quelle poche parole stampate su! Non ti
stare a preoccupare per quanto riguarda la chiave del portone.
Quando penso che, per lontano che sia (al massimo sarà ancora un mese), vicina è la gioia di riabbracciarvi, ciò mi sembra
quasi impossibile. In questi giorni mi sta prendendo quasi una
fissazione e la mente non riesce a distogliermi dall’idea della
licenza.
Lascio perché la posta non mi lascia altro tempo. Bacioni a tutti e a te mamma mia tutto il mio affetto.
Tuo affmo figlio Mariano
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Q
Querra
VINCENZO RABITO
Nato a Chiaramonte Gulfi, Vincenzo Rabito, classe 1899,
partecipa appena diciottenne alla “querra”. Nella prima parte
della sua lunga memoria descrive con il suo particolare stile
narrativo la vita nelle trincee, le marce, la scarsità del cibo e,
con sottile ironia, sdrammatizza il rischio della morte e le
ingiustizie subite; libero da ogni retorica, ricorda la
conclusione della guerra e l’apparente vittoria.
[1918] Così, ci hanno portato nella provincia di Verona. Recordo
che erino li prime ciorne del settempre. E così, i nostre
comandante ni hanno detto come era il nostro intrizzo per
scrivere alli famiglie. Ed era così: al soldato Rabito Vincenzo, 69
reggemento Fanteria di marcia, 2 battaglione, 2 reparto
Zappatore, zona di querra, per dove si trova.
E tutte noi ci abiammo quardate in faccia sentento che erimo
nella «zona di querra». Ni ha cominciato la paura.
E comincianto da me, diceva: “Ma allora siammo in querra!?”. E
io diceva: “Ma come lo sente mia madre ‘zona di querra’,
sapendo sentere che Ciovanni era allo spedale a Pistoia, chi lo
sa quanto pianto deve fare questa mia madre!”.
Così, passereno 15 ciorne, sempre ciranto tutte li provincie del
Venito, sempre zaino a spalla, facendo teniche di querra e tire
di fucile e di bombe ammano, sempre camminare curbe e da
carpone, e sempre caminanto a piede, senza che una sera
avessemo dormito come li cristiane, sempre dormire sedute,
opure mentre che camminammo aderetura, che tutte, se ni
avessero pesato, avemmo demacrito 5 chile di ognuno di noie.
Che poi ci facevino camminare macare con la pancia a
strescione per terra e paremmo tante maiale, e sempre facento
tante corse e senza levarene li scarpe maie maie, e senza
compiarece maie la biancheria.
E come passereno li 15 ciorne, ci hanno portato a Scio, vicino al
fronte, dove di notte se vedevino li monte dell’altopiano di
Aseaco. E il ciorno ci facevino saltare tante fosse e di notte si
vedevino li monte, che annoi ni pareva che doveva fare
malotempo, e invece erino li cannonate che lampeciavano e si
sentevino li tuone.
Io diceva e tutte diciammo: “Se ci porteranno lì, siammo sicuro
che moremmo e con la famiglia non ci vediammo più!”.
Tanto lettere macare che scrivemmo, non ne arreciviammo, e
magare che qualche letra la reciviammo, era tutta scancellata,
perché la cenzura, se vedeva che c’era scrito: “Figlie mieie,
state atento! quardatete!”, non poteva essere di scrivillo e lo
scancellavino. Solo non scancellavano quanto la famiglia
scriveva: “Bisogna di morire per la Madre Padria!” E noi ci
potemmo mandare a dire: “Cara madre, io faccio il soldato per
defentere la Madre Padria!” Che io e tutte, nel nostro penziero,
diciammo: “Maledetta la Padria, che ci stanno fanno morire
prima che antassemo in trencieia…” Perché, per 15 ciorne, non
ci hanno fatto dormire neanche una notte! […]
Così, recordo che il 4 novembre, ciornata che non la
demencheranno nesuno de li uomine che sono nate e quelle
che devino nascire, che verso li ore 10, prima di mezzo ciorno,
hanno passato tante aparechi basse basse, che butavino
un’altra collazione di menefesti, più significative di quelle di
iere, che dicevi che immidatamente si doveva scomprare una
delle 2 strade, quella a destra che viene da Bassano, che
devino passare una colonna di machene con tutto lo Stato
maggiore, che dovevino antare a Trento a fermare l’ommistizio.
Così, la strada subito fu scomprada. E li colonne dai
prigioniere, se volevino camminare, dovevino camminare terra
terra, voldire campagne campagni. […]
Quella strada da Bassano a Trento era piena di bamtirine
trecolore e tante fiore butate e tante borchese che batievino li
mane, e tutte noi soldate col presenda darme, perché
passavino queste pezze crosse che antavino al castello di San
Ciusto a Trento – dove li austriece hanno imporcato a Cesare
Batista –, per fermare la pace.
Così, ci hanno fatto l’adonata, sempre senza rancio, e hanno
chiamato l’apello per vedire che era asente. Poi, ci hanno detto
che chi ave li callette e li scatolette si li mancia, e quelle che
non ci n’abiammo manciammo questa mincia, e ci dovemmo
contantare che avemmo vinto la querra. E tutte ci abiammo
quardate in faccia e tutte diciammo: “Ancora manciare per noi
non ci n’è. Abiammo vinto la querra e abiammo perso il
manciare!”.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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Q
Quota
AZARIA TEDESCHI
In questa raccolta di lettere spedite da Azaria all’indirizzo
della fidanzata-cugina, il giovane capitano calabrese descrive
la guerra di montagna in Trentino alternando pittoreschi
paesaggi a cruente avventure belliche. Nel settembre del 1917
verrà ferito a una gamba; una volta guarito ritornerà sul Carso,
ma perderà la vita sull’altopiano della Bainsizza.
Trentino, primi di giugno 1915
Carissima Peppinuzza, da due giorni ho raggiunto il mio nuovo
reggimento, che opera nella zona montana. Ho preso il
comando della 7° compagnia ed ho con me due tenenti
richiamati e tre sottotenenti, di due di complemento. sembrano
tutti degli ottimi giovani e animati dalle migliori disposizioni. la
truppa in fondo è costituita da buoni elementi. […] La
compagnia la ho raggiunta in montagna a 1900 metri di
altitudine assieme a una compagnia di alpini. A questa
altitudine la notte e la mattina si avverte abbastanza fresco e
specialmente ieri mattina, avvolti come eravamo nella nebbia
fitta e col vento che soffiava abbastanza impetuoso, sembrava
di essere ritornati in pieno inverno. In Friuli soffrivo pel caldo
snervante, ieri ricordando il mio desiderio di fresco di qualche
giorno fa, ho pensato più volte: troppa grazia, S. Antonio: la
mantellina era insufficiente. Nelle alte valli ancora si trovano
da quattro a dieci metri di neve, dalla quale facciamo largo
uso: serve per cuocere il rancio, bere, lavarci ecc. L’acqua
scorre molto più a basso e costerebbe molta fatica andarla a
prendere. I sorbetti come vedi, possiamo prepararli a buon
mercato. A questa altitudine sembrerebbe che la vita dovesse
scorrere abbastanza triste e noiosa, ma non è così, non ci
mancano i divertimento e il buon umore. Lasciando da parte il
magnifico panorama che quando il cielo è limpido, si gode da
queste vette dalle quali la vista spazia libera per enormi
distanze; lasciando da parte le sensazioni che si provano
guardando l’abisso dall’alto d’una roccia che per centinaia e
centinaia di metri sprofonda a picco, liscia e compatta, come
se a quella costruzione avessero lavorato non le forze brute e
insensibili della natura ma centinaia e migliaia di artefici
dannati per tempo immemorabile a quel lavoro dal capriccio di
qualche re delle foreste – noi abbiamo anche i nostri
spettacoli, specialmente pirotecnici. I nostri forti e le batterie
lanciano continuamente i loro proiettili che tagliano l’aria con
un frullio lamentevole, passano alti e vanno a colpire e a
scoppiare sui forti austriaci, dei quali alcuni sono stati
smantellati. Ma quelli che ancora hanno subito pochi danni
rispondono al fuoco dei nostri forti e mandano i loro proiettili
su quelli e sulle posizioni occupate da noi. Quando noi altri
sentiamo che un colpo è partito da un forte nemico ci
addossiamo alla roccia e alle trincee: subito dopo si sente il
fischio caratteristico del proiettile che si avvicina e che giunto
sulla nostra testa scoppia con grande fragore che l’eco
ripercuote cupamente giù per le vallante. Avvenuto lo scoppio
tutti i soldati tirano fuori la testa dal loro nascondiglio
improvvisato per constatare se ci sono stati danni e in questo
momento le trincee danno l’idea degli stagni popolati da
ranocchi i quali sono solleciti a mettere fuori il naso appena è
passato il pericolo. Se lo shrapnel o la granata non hanno
prodotto alcun danno, qualche soldato si sente autorizzato a
gridare all’indirizzo del puntatore. “ Va alla scuola, schiappino”.
In questo consiste il nostro divertimento.
Oggi la mia compagnia è scesa a valle e tra qualche giorno
ritorneremo in montagna. Dammi vostre ottime notizie e abbiti
con la zia e cugini i miei migliori abbracci e baci. Aff Azaria
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
R
Rancio
EUGENIO LAVATORI
Le giornate in ospedale che Eugenio, bracciante marchigiano
ferito in guerra, annota sul suo diario, sembrano essere
scandite esclusivamente dall’ossessione per il cibo, dalla
speranza di un rancio più sostanzioso. Eugenio è però
consapevole di essere un sopravvissuto, e il suo pensiero va ai
compagni in trincea, meno fortunati di lui, e alla famiglia che
spera di rivedere presto, non appena sarà finita questa guerra
di cui non capisce il senso.
5 [novembre 1915] Siamo partiti di nuovo a piedi senza
mangiare e senza trarre nulla per strada abbiamo camminato
tutto il giorno siamo arrivati in un piccolo Ospedale alle 6 di
sera Fermati lì ci anno preso la base è poi ci anno mandato via
di nuo.. 10 chilometri di strada ancora siamo arrivati all’11 di
notte tutti bagnati e infangati che la fanga passava il ginocchio
lì ci anno dato un po di paglia da riposare un quarto di pane
mezza razzione di carne e a dormire.
Alla mattina alle 6 e arrivato un ottomobile ci anno caricato
come bestie e via abbiamo camminato circa 8 ore siamo
arrivati in un ospedale vicino a Udine […]
appena rivati con quella fame ci anno fatto spogliare vestire da
malati e poi ci anno consegnato un bel letto poi cosa ci anno
dato da mangiare un sesto di pane, un mescolo di broda di riso
con 6 acini di riso così ci siamo coricati viene la mattina del 7
senza caffè alle dieci un quarto di pane una porzione di carne
ma assai poca, un mescolo di riso non so con che cosa era
condito Dalla fame sto scrivendo ma mi trema il polso si va a
riposare
8 Si fa giorno un po di caffe un decimo di pane alle 11 e ½ un
quarto di pane un pezzo di carne allesso un sesto di vino un
mescolo di riso e basta ma quasi sono sazio perché il dolore mi
guerna non è tanto orrendo ma lo sento bene sembra che la
testa sia abbastanza grossa ma invece sarà come prima mi
dicono che la mia ferita è piccola ma io non la posso vedere e
sono costretto a credere ora aspettiamo cosa ci daranno da
mangiare questa sera, un quarto di pane un pezzetto di carne
allesso un mescolo di riso senza vino e si va a dormire Il letto e
abbastanza buono.
9 E già giorno un mescolo di caffe un decimo di pane mezzo
giorno carne riso vino pane sempre al medesimo cosa si fa in
questo ospedale pensare alle nostre famiglie care ai nostri
vecchi genitori che piangono tanto la nostra disperazione e i
nostri disaggi di vita e poi loro cosa sanno sanno che noi
stiamo bene ma no la vita che facciamo si pensa alle nostre
addolorate moglie che tanto piangeranno qurando i nostri
bambini che forsi nemmeno avremo la fortuna di rivederli
basta speriamo in Dio che lui é il nostro padrone lui puole fare
ciò che vuole speriamo e preghiamo che presto finisca questa
guerra che rovina giornalmente migliaia di famiglie ebbene
sarà destinato così se dobbiamo morire moriremo è dura
morire senza rivedere i nostri più cari ma speriamo sempre che
questo non succeda.
Ebbene si fa sera …medesimo rancio meno il caffe.
Io…sembra di stare un po meglio
[…]
13 Lo stesso rancio sempre riso. Io mi sento sempre meglio oggi
poco appetito nessuna notizia della famiglia molto desidererei
Si fa sera e medesimo rancio e poi si va a dormire
14 Si fa giorno, il giorno iniquo. Sono partito dalla mia famiglia
che vuoi sarà sempre un giorno rammentato quel maledetto
giorno che ha messo in disperazione migliaia di migliaia di
famiglie e qualcuna, no parecchie, non si consoleranno mai più
perché perché i loro cari sono rimasti sul campo di battaglia e
io pure se mi prendeva meglio ero rimasto a S.Lucia là sulla
terra dell’Austria ancora speriamo presto sarà Italiana ma
ancora non è.
Ebbene questa volta è vinta.
Oggi sono tre mesi che non vedo più i miei cari genitori, la mia
bambina, la mia povera moglie ebbene possi avere la fortuna di
rivederla dopo tanti disagi della mia via non importa soffrire,
basta portare la pelle a casa.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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R
Retrovie
GIUSEPPE TIBURNI
Nel diario di un bersagliere senese troviamo un bell’affresco
delle retrovie dell’esercito. La musica della fanfara, di cui
Giuseppe fa parte, le lamentele del parroco che non vuole che i
bersaglieri suonino ballabili per far danzare le ragazze del
paese, ma anche i bombardamenti che illuminano a giorno i
cieli notturni e gli orribili spettacoli della guerra.
27 settembre [1917]
La notte gli austriaci ci sparano sulla nostra trincea e ci
buttano giù qualche baracchino, ma nessuno resta ferito. Il
giorno calma. […]
28 settembre
Alla mezzanotte e ½ arriva la compagnia e ci riuniamo tutti.
Alle 1 si parte da Pietra Rossa; a Cave di Seltz ci fermiamo un
poco poi andiamo avanti e ci fermiamo a Ronchi, ci portano in
un prato appena fuori del paese e ci buttiamo a dormire per
terra. […]
29 settembre
La mattina appena alzati io e Petri si va dal caporal maggiore
Bielli a sentire se ha nessun ordine riguardo ai trombettieri,
mentre si sta parlando arriva il sergente tromba Vitali e ci dice
che la sera bisogna suonare, e si resta d’accordo di riunirsi
tutti per le 1.
Verso le 4 una squadriglia di 4 aeroplani austriaci viene a
girellare sul nostro accampamento, le nostre batterie gli
sparano ma loro non intendono e seguitano a girare sopra noi.
Ad un tratto vediamo arrivare 5 o 6 nostri cacciatori e danno
subito battaglia agli austriaci, per un poco li vediamo tutti
assieme darsi dietro l’uno con l’altro poi gli austriaci tentano di
fuggire ma i nostri li seguono e riescono a tagliare la strada a
due apparecchi austriaci, nello stesso tempo sentiamo un paio
di scariche di mitragliatrice e un apparecchio austriaco che
forse non è stato colpito riesce a fuggire e lo vediamo
allontanarsi […]
5 ottobre
La mattina il sergente ci porta in un prato dove troviamo il 64 e
65 battaglione e il 18° reggimento con la mia fanfara a noi ci
fanno suonare mentre i nostri battaglioni fanno istruzioni,
[…]
7 ottobre
Il giorno si prova tutti assieme (noi, la fanfara del 18° e la
musica divisionale) La sera ci si riunisce tutti al comando di
divisione e di lì si parte suonando tutti assieme e si va in
piazza, dove la musica divisionale fa servizio suonando dei
pezzi d’opera […] Appena finito il servizio della musica ci si
riunisce di nuovo tutti assieme e partiamo suonando, si fa il
giro del paese poi si rompe le righe.
13 ottobre
La mattina si va a far scuola di tromba.
Dopo il rancio idem.
la sera si suona in piazza a Ruda. Mentre si suona il prete del
paese va a reclamare da un ufficiale perché le ragazze del
paese ballano coi bersaglieri. Noi allora suoniamo dei ballabili
apposta finché il prete non va via tutto scandalizzato.
26 ottobre
La notte gli austriaci non sparano. Giù nella strada continuano
a passare cannoni e camion di materiali che vanno verso le
retrovie. […] La sera verso le 4 sentiamo un gran rumore di
aeroplani e vediamo avvicinarsi una grossa squadriglia di
aeroplani austriaci Noi stiamo a vedere che direzione prendono
ma quando arrivano all’inforco del vallone cominciano a tirar
bombe. Allora scappiamo per andare in galleria ma la troviamo
già piena, e noi ci tocca stare fuori allo scoperto.
27 ottobre
La notte fino alle 3 si dorme ma poi ci tocca ad alzarsi e
scappare in galleria perché comincia a venir giù granate che
sembra l’inferno e questa volta picchiano nel segno perché
cascano tutte dalla nostra parte, cioè dove sono i
baraccamenti. […] Gli aeroplani appena sopra a noi cominciano
a menar giù bombe e continuano fino a che uno che si trova
all’imbocco della galleria comincia a gridare che ci sono i nostri
cacciatori, allora io esco di galleria e mi metto allo scoperto
per vedere la battaglia. […] Ogni tanto vediamo alzarsi per l’aria
delle enormi vampate di fuoco che arrossiscono tutto il celo:
sono le cariche delle artiglierie che bruciano nei depositi. […]
Noi arriviamo al ponte sull’Isonzo (dove stanno già preparando
le mine per farlo saltare) e di qui vediamo tutta la pianura
incendiata.
100
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
R
Riposo
AGOSTINO TAMBUSCIO
Agostino Tambuscio, nato a Savona nel 1897, viene fatto prigioniero dagli austriaci dopo la disfatta di Caporetto. Riesce in
seguito a tornare a casa, dove scrive le sue memorie del periodo passato in trincea. Le vivide immagini della prosa di
Agostino ci restituiscono una quotidianità in continuo fermento, che riesce ad allentare i suoi ritmi solo nei momenti di riposo: si tratta però di un riposo relativo, una sosta “da trincea”:
due sacchi vuoti possono costituire un buon giaciglio.
[1917] Due o tre chilometri ci separano dalla linea che abbiamo
lasciato, Chiassosa diventa la discesa verso il fiume, C’è chi ride
sguaiatamente senza quasi saperne il perché. C’è chi canta e
non si perita di osservare ove posa i piedi sulla strada ricoperta
dai sassi, tronchi d’albero, bombe abbandonate alla rinfusa dal
nemico in fuga nei primi giorni dell’offensiva vittoriosa. Eppure
bisogna calmare il delirio folle che ha invaso tutti e che ci ha
fatto dimenticare per pochi istanti i fratelli che sono rimasti
lassù! Ci sono le loro ombre, tristi, mute, sofferenti incollerite
per la gioia nostra così oscenamente esternata. Non credevano
i nostri morti di venire così presto dimenticati. Finalmente,
però, pare ritornarmi la realtà. Si scende ora con precauzione,
con lentezza e si tace. Ogni viso diventa grave, pensieroso, ogni
individuo ha un ricordo, la tragica fine d’un compagno.
[…] All’alba del 31 agosto siamo in riva al fiume. Rivedo Auzza
con la stazione ferroviaria semidistrutta e nei muriccioli ancora
in piedi le screpolature nei calcinacci portanti ben visibili i segni delle fucilate. Si va lungo l’Isonzo verso Canale. Ci fermiamo
all’entrata di una insenatura non troppo vasta formata da due
colline che si congiungono come il vertice di un triangolo.
All’entrata dell’insenatura si erge un alto tumulo composto con
pietre. Era una enorme fossa preparata dai nostri per poter dare sepoltura ai primi fanti che attraversarono l’Isonzo. Ci viene
riferito che sotto questi sassi riposano un centinaio di italiani.
Un poco più basso, cioè al piano del fiume c’è il nostro carreggio e le cucine.
Si fa una corsa al fiume. C’è un conto da regolare con i cucinieri: vogliamo sapere da essi che ne hanno fatto dei viveri spettantici, perché non ci hanno inviato il rancio lassù, ove non si
mangiava né si, beveva; solo si moriva!
Gli accusati si scolpano, giurano, spergiurano, che il rancio
giornalmente e regolarmente ci è stato preparato e inviato, come pure il pane, il vino… Ma allora dove andava a finire? Che
dicono quelli imboscati di conducenti? Questi dal canto loro rispondono che portando i viveri a metà strada venivano fermati
da reparti che secondo gli stessi erano addetti a farci pervenire
gli alimenti in linea! Sono tutte falsità! Non sapremo mai dove
andò a finire quella roba; ammesso che fosse stata realmente
inviata. Meglio troncarla così!
Scavalchiamo la ferrovia che corre sotto a questa cieca valle si
oltrepassa il traghetto di barche costruito dal Genio Pontieri e
si dà l’assalto ai carri. Vuotiamo i sacchetti che racchiudono la
biancheria, si va al fiume, ci spogliamo e ci tuffiamo nell’acqua
fresca che corre impetuosa, indi possiamo indossare biancheria pulita e priva di parassiti. Con il corpo ringiovanito dalla freschezza dell’acqua del fiume ormai nostro risaliamo la collina
per preparare la tenda. Non abbiamo un filo di paglia che ci
serva da giaciglio e dovremo dormire per trenta notti consecutive sul suolo nudo! Mi serviranno da giaciglio, dopo qualche
giorno, i due sacchi vuoti che, un giorno trovandomi di giornata
per il prelevamento e distribuzione del pane, non ho più restituito al magazzino.
Appena la tenda è pronta invio Rovere alla ricerca di una cantina militare con l’incarico di provvedersi delle migliori cibarie, di
frutta, di vino, avendogli promesso fin dalla linea di combattimento che se la fortuna fosse stata a noi propizia, appena a riposo avremmo festeggiato S. Agostino degnamente, il nostro
onomastico, l’anniversario del quale si celebra ogni anno il 28
agosto.
Rovere parte e qualche tempo dopo ritorna con le braccia colme d’ogni ben di Dio.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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101
R
Ritirata
MARIO BOSISIO
Nella memoria di un artigliere milanese leggiamo l’angoscia e
lo sconforto per l’ingloriosa ritirata seguita alla battaglia di
Caporetto. Mario verrà fatto prigioniero e finirà in Belgio, ma in
queste pagine si impone la malinconia del soldato che, dopo
venti mesi al fronte sull’Isonzo, deve distruggere i cannoni
perché non cadano in mano del nemico, deve lasciare la valle
in cui ha combattuto.
Verso la fine dell’ottobre dell’anno 1917 gli eserciti AustroUngarico e Germanico scagliavano tutte le loro migliori truppe
sul fronte italiano, per un’offensiva in grande stile, seguendo un
loro programma prestabilito; in una settimana tutto avrebbe
potuto essere distrutto: il nostro Esercito, le nostre forze navali,
la nostra esistenza come grande nazione.
Gli Unni calavano con secolare sete di vendetta, pieni di
desiderio del nostro bel paese, delle nostre belle donne, del
nostro buon vino, ebbri di tutto il ben di Dio che lasciavano dietro
a loro. Furono giorni di grande dolore, che mai verranno
cancellati dalla nostra storia. Tutto finiva, tutto crollava, e con
tutto crollava il frutto dei nostri sacrifici, le conquiste fatte in
due anni di continue vittorie del nostro glorioso esercito.
La notte dal 26 al 27 ottobre, non si capiva più nulla della nostra
situazione; reggimenti interi che si ritiravano; brigate che
andavano di rincalzo sulle linee; batterie che trainavano i loro
pezzi verso più solide posizioni, per proteggere la ritirata delle
fanterie di linea. Il cielo di Gorizia era stato illuminato a giorno
fino all’alba dal fuoco dei cannoni nemici, che vomitavano sulle
linee e sulle retrovie proiettili di tutti i calibri, mentre le nostre
artiglierie cominciavano a tacere; poche batterie resistettero
fino all’alba compresa la 428º batteria d’assedio con cannoni da
149 G., alla quale io appartenevo.
Questa batteria dopo aver resistito sotto raffiche di colpi bene
aggiustati, al mattino verso le sette ricevette l’ordine di far
scoppiare i cannoni e di distruggere tutti i proiettili e polveri che
esistevano. Dolenti e taciturni ci accingemmo alla triste bisogna.
Una parte degli uomini, seguendo i camminamenti, raggiunse il
fiume Isonzo per buttare in acqu tutti gli esplosivi e proiettili
esistenti della nostra dotazione, mentre gli altri di servizio in
batteria, provvidero a caricare i pezzi per farli saltare. Quale
colpo fu per me! Ero di servizio in qualità di capo al primo pezzo.
Radunai i miei fedelissimi sette inservienti guardandoli con
commiserazione, poi con le lacrime agli occhi ci abbracciammo.
Soltanto un attimo trascorse; poichè si dovette incominciare il
funebre rito:far morire quel bel mostro che da più di venti mesi
era stato nostro buon amico, di giorno e di notte, col bel tempo e
con la tempesta, nella stanchezza e nelle privazioni, nella gioia e
nel dolore […]. Tutto si distrusse colle nostre mani! E non si
voleva credere ad una ritirata così disastrosa…
Dalla poderosa e titanica lotta per la presa della città di
Gorizia, avvenuta nell’agosto 1916, che eravamo qui stabiliti nel
Valloncello sotto Peuma, largo non più di una ventina di metri
dove scorreva il torrentello Peumica, che raccoglie tutti gli
scoli delle montagne ad Ovest del Sabotino e delle espugnate
posizioni di Oslavia e Lenzuolo Bianco, tomba e gloria dei nostri
granatieri di Sardegna, per poi sboccare nell’Isonzo, proprio
dietro alla nostra batteria.
Partimmo dalla batteria sfasciata e ci avviammo per i
camminamenti […] con alla testa il caro Comandante della
nostra batteria, Capitano Bernardoni, che mai ci lasciò un
minuto in quella tragica notte. Le batterie nemiche ci
salutavano con rabbiosi tiri di artiglierie: sembrava ci volessero
sterminare tutti durante questa nostra fuga. Invece nonostante
la pioggia di ferro e di fuoco, riuscimmo a raggiungere il nostro
accampamento, dove avevamo le cucine, il materiale di riserva
e delle care e sgangherate brande, su cui si poteva riposare
meglio […].
Il nostro Comandante ci radunò sulla strada, col solo
tascapane, perché tutta la nostra roba era stata caricata sui
carri bagaglio […] allo scopo che la nostra marcia di ritirata
venisse effettuata con meno peso sulle spalle.
Lasciammo il baraccamento in fiamme e risalimmo il
cosiddetto Vallone delle Acque, alla sinistra del poderoso
Podgora, per raggiungere la strada di Cormons. Demmo l’ultimo
addio a questa vallata, dopo più d’un anno di nostra
permanenza, a noi tanto cara nelle giornate di tregua e di
riposo che il fuoco ci concedeva.
102
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
R
Ritorno
CARLO THAU
Carlo è un ragazzo del '99 costretto a interrompere gli studi
perché richiamato al fronte. Nella sua corposa autobiografia,
che abbraccia gli anni dal 1899 al 1985, egli dedica uno spazio
importante alla sua partecipazione, giovanissimo, alla Grande
Guerra alla fine della quale, ancora sotto le armi, riprenderà gli
studi per costruire il proprio futuro.
[1918] Un certo giorno venne l’ordine di trasferimento a Napoli.
Venne formato un treno straordinario, fu caricato tutto l’armamento e furono assegnati i posti per noi: ufficiali, due per ogni
scompartimento di prima classe; sottufficiali classe seconda e
per la truppa terza classe, sempre due per ogni scompartimento. Quindi partimmo per Napoli. Il viaggio durò dieci giorni! […]
A Bologna facemmo una sosta di qualche ora a fianco di una
“montagna” di cassette di liquori. Dopo la partenza, alla porta
di ogni scompartimento trovammo due bottiglie di liquore, una
per ogni inquilino! Il furto era stato equamente ripartito e di
esso godettero anche gli ufficiali.
Giunti ad Ancona fummo fermati. I ferrovieri si rifiutarono di
seguire, non ricordo quale questione c’era con l’Albania.
Appena giunti alla stazione dissi scherzando, ad un capotreno:
“Fateci partire subito, siamo stanchi, altrimenti noi spariamo i
cannoni!” “Provateci” – mi fu risposto – “e state buoni che siamo armati”. La risposta non mi sembrò tanto scherzosa.
Rimanemmo ad Ancona per tre giorni […]. Dopo trattative col
comando territoriale di Bologna, il viaggio riprese. Non eravamo
giunti a Bari che ci arrivò la grave, tragica notizia: un battaglione di bersaglieri di istanza ad ancona si era ammutinato. Fu
appoggiato dai ferrovieri e proprio la stazione divenne un campo di battaglia con morti e feriti. Quella insurrezione si estese
nelle Marche ed in Umbria. La famosa settimana rossa!
Pensare che avevo avuto l’idea di chiedere un permesso per recarmi a Narni, ma deposi l’idea, così senza una precisa ragione.
Fu una fortuna perché essendo in divisa potevo essere coinvolto! […]
Come Iddio volle giungemmo a Napoli! Correva l’anno 1920. Fui
assegnato ad una batteria del 24° Reggimento artiglieria da
campagna al comando del mio ex capitano siciliano.
Alla stazione di Napoli ci fu la battaglia dei vagoni: questi
erano scarsi ed i facchini pur di averne uno si offrivano di aiutare i soldati a scaricare i nostri. Io non mi feci travolgere da
assalti feroci. Misi due soldati a guardia, non feci toccare nulla
agli invasori. Chi accondiscese fu punito perché mancò anche
del materiale. Dopo qualche anno rientravo in una caserma dove vigevano tutte le regole e regnava la disciplina. Sempre quel
capitano mi propose di andare con lui in Sicilia dove era stato
trasferito. Con garbo ed adducendo una buona scusa non accettai e rimasi a Napoli. […]
Imparai a scrivere a macchina. A Napoli la vita fu abbastanza
buona e il mangiare discreto e abbondante. Stavo bene! Era
tempo che pensassi però anche alla mia vita, al mio futuro. La
mia classe era stata trattenuta per addestrare il 901, quella del
900, richiamata anche essa in anticipo fu posta in congedo subito, appena finita la guerra, sacrificati nella nostra carriera
scolastica e quelli del 900, non potevano addestrare la classe
successiva! Una assurdità, una ingiustizia! Scoprii una circolare che dava diritto agli ex combattenti a sei sessioni di esami,
due di queste erano già sfumate! Decisi di prendere parte alle
seconde due, mancavano due mesi per quella di luglio. Mi
iscrissi agli esami presso la scuola media superiore come candidato a geometra, mi rivolsi ad un insegnante privato, per la
matematica; qualche nozione d’italiano la prendevo da alcuni
libri di letteratura. Pensavo di dare l’esame di italiano scritto
ed orale e di matematica/Povero me! Ero molto indietro!
Comunque mi presentai ad italiano, scritto e orale, storia e
geografia e mi sembra in francese. Fui promosso in tutte e tre
le materie. […]
Tornammo a casa, io definitivamente. Questi 44 mesi di vita militare erano stati per me di grande esperienza. Ero partito ragazzo, ritornavo uomo. Mi sentivo soddisfatto ed anche contento di
aver servito la mia patria, con senso del dovere e con entusiasmo. Allora la patria era un qualcosa di nostro, una grande tradizione, era l’orgoglio di aver diffuso nel mondo una civiltà da cui
provenivano navigatori, pittori, scultori, scenziati e certo, anche
santi. Tutti avevano contribuito a far conoscere al mondo la piccola ma bella, tanto bella Italia.[…] Un periodo della mia vita era
finito ed ora ne iniziava un altro, più importante, più mio. Dovevo
lavorare per preparare il mio avvenire, per entrare nella società.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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103
R
Ruberie
UGO MARIO VENTURELLI
Un rappresentante di gioielli ferrarese, impegnato nel conflitto
come tenente dei bersaglieri ciclisti, in queste pagine di diario
racconta i giorni successivi alla battaglia di Caporetto.
L’emozione per le condizioni dei fuggiaschi si unisce all’attenzione nel riportare la preparazione dei pasti, l’approvvigionamento dei viveri e gli episodi di razzia.
Venerdì 26 [ottobre 1917]
Cominciano le prime notizie tristi. Vediamo i primi fuggiaschi.
Sono tutti instupiditi. Povera gente. La giornata per noi passa
abbastanza tranquilla. Facciamo i commenti sulla ritirata delle
nostre truppe.
Sabato 27 – S. Vito
[…] L’ordine di partenza c’è anche per noi. Il Maggiore vuole la
mensa per le 17,30. Mi do subito all’opera e all’ora stabilita la
mensa è pronta. Il Cap. Rizzo offre lo champagne Brindisi e
urrà! […]
Domenica 28
Ore 3 – Arrivo a Colloredo
Siamo bagnati fradici. Mi metto in cerca di un locale per far
fare la mensa e accendere un po’ di fuoco per gli ufficiali. Alle 4
il locale è trovato, il fuoco pronto. Gli ufficiali bevono il caffè e
si addormentano vicini, mentre il cuoco cuoce quattro
bistecche. Io spacco e imburro il pane. Faccio le razioni di
formaggio e di dolce preparato a S. Vito per la domenica.
Ore 5,30 Tutto è pronto. Consegno agli ufficiali una pagnotta
burrata con entro due bistecche, un bel pezzo di formaggio, un
po’ di dolce.
Alle 7 il Battaglione parte.
Vado a salutare i più intimi. Il Maggiore Diuro, il dott. Manfredi,
Pisciotta.
Sono commosso. Ciò è tanto strano.
Alle 7,30 Carati mi dice di trovargli dei copertoni mentre vado a
procurami i viveri.
Piove sempre. […]
Entro in Udine per andare alla Sussistenza. Tutto è chiuso.
Qualche soldato ubriaco per la via. Vetrine sfasciate. Si notano
i primi segni di saccheggio.
In Piazza Mercato Vecchio vedo il negozio di Paulini aperto.
Entro. Dei soldati d’artiglieria stavano rubando. Li caccio, a uno
anzi do un ceffone. Ma ormai chissà quanti prima di loro hanno
rubato. Fornito come era il negozio, nemmeno più una
macchina fotografica. Povera gente! Quanta distruzione.
Rimonto in autocarro e parto per Porta Venezia per andare a
Casarsa, visto che a Udine nulla potevo prendere di quanto
dovevo.
L’affollamento degli autocarri e delle persone che fuggono è
così enorme che decido di rientrare in città per partire da
un’altra porta. […]
Lunedì 29
Tutta la notte passa, si può dire, fermi. Tempo discreto. Alle 8
del mattino siamo a Pasian.
Dietro al mio autocarro ce n’è uno che deve essere di un
vivandiere. I conduttori mangiano. Io guardo.
Si procede a passi.
Verso le 15 ricominciano a mangiare. Domando qualche cosa.
Mi offrono tre gallette, una scatola di salmone e un bicchier di
vino. Non male. […]
Corre voce che al deposito benzina di Codroipo danno benzina.
I capitani vanno avanti e mi attenderanno là. Io vi arrivo verso
le 18. […]
Carico la benzina e i due capitani.
Alle 19 siamo a Codroipo. Io vorrei andare a Casarsa per
prelevare a quella Sussistenza viveri per il mio Battaglione.
Vicino alla Piazza di Codroipo degli arditi stanno svaligiando
una drogheria.
Entriamo io e Montemuro. Ci carichiamo di bottiglie, di
scatolette, mezza forma e rimontiamo in autocarro.
104
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
S
Sacrificio
ARTURO BUSTO
Ingegnarsi per scacciare il nemico non è semplice, può
diventare problematico anche accendere un fuoco. Nella
memoria del militare di Verolanuova (Bs) è struggente la
descrizione del sacrificio di un giovane per un compagno
d’armi, appena conosciuto, che implora di essere salvato da
morte sicura in nome dei figli e della moglie.
[Luglio 1916] Poiché si era praticamente attaccati dall’idea di
conquistare a qualunque costo delle posizioni nemiche,
dovemmo studiare qualche idea geniale per costringere il
nemico a sloggiare dal suo formidabile torrione. Questo mezzo
fu l’incendio del bosco che rivestiva il “Mosciagh”.
Ma […] vuoi per l’umidità propria di quei boschi, il fuoco non
prese, e noi rimanemmo delusi.
Da tergo non si rinunciava ancora all’attacco. Si aveva la
sfrontatezza di tacciarci perfino di codardi!
E noi col mucchio di cadaveri, ancora giacente fra le nostre
linee e quelle austriache, testimoniavamo il grande, sfortunato
spirito di sacrificio delle nostre fanterie! […]
Dalla fase degli attacchi risolutivi si passò poi dopo l’ecatombe
di tanti uomini alle azioni dimostrative che consistevano in
intense disordinate sparatorie di fucilieri e di mitragliatrici e
nell’uscita di qualche piccolo reparto, destinato a sicura morte.
La prima volta gli austriaci si allarmarono, ma poi se ne
stettero tranquilli pronti più a colpire gli uomini che ardivano
avvicinarsi ai loro robusti reticolati. In una di queste azioni
dimostrative nelle quali, come ho già detto, i nostri reparti
erano esposti a perdite sicure e inutili, dovetti assistere ad una
scena dolorosa quanto sublime di umanità e di valor militare.
La mia compagnia doveva far uscire una pattuglia di un
graduato e 4 uomini per tentare di raggiungere le trincee
nemiche. Era semplicemente pazzesco pensare alla
realizzazione di tale obbiettivo; ma gli ordini erano tassativi e
non ammettevano obiezione. Tutti i superiori erano come me
convinti di un tale stato di cose, ma nessuno aveva il coraggio
di protestare presso i capi più elevati. […]
Sta di fatto di dovere senz’altro eseguire l’ordine che
significava il sacrificio sicuro dei miei uomini. In base ai turni
da me scrupolosamente tenuti, stabilii a chi toccava il
pericoloso servizio e diedi le disposizioni del caso. Uno dei
componenti della pattuglia, un soldato con moglie e figli,
sapendo di andare a certa morte, implorò la mia pietà per la
sua famiglia. Evidentemente io non potetti concedergli quanto
egli voleva senza esporre, al posto suo un altro soldato. E fui
perciò rigido nel pretendere l’esecuzione dell’ordine del quale
potevo avere nessuna responsabilità. Quando la pattuglia,
ormai rassegnata alla sua sorte fatale, stava per uscire dalla
nostra trincea, un soldato, da poco assegnato alla compagnia,
si presentò a me e chiese di sostituire il compagno ammogliato
che conosceva appena. Fu un atto veramente generoso e
dimostrava l’animo nobile dell’oscuro soldato, già ferito sul
Pergon. La sua volontaria offerta commosse tutti noi ed i nostri
voti fervidi li accompagnarono nell’odioso servizio.
Appena usciti di trincea la pattuglia fu fatta segno al ritiro
preciso delle vedette austriache che colpirono quasi tutti i suoi
componenti. Soltanto il soldato volontario, il più animoso fra
tutti, riuscì a raggiungere il reticolato nemico e ne iniziò il
taglio con la pinza di cui era munito. Ma una pallottola
esplosiva lo ferì gravemente. Nonostante il dolore della
lacerante ferita e la forte perdita di sangue, egli, senza un
lamento, tentò di continuare il taglio del reticolato, finché
colpito a morte da una seconda fucilata, dovette desistere dal
suo generoso tentativo. Sgomberato poco dopo indietro, egli
volle venire a consegnarmi un pezzo del robusto reticolato
nemico da lui reciso. Ricordo ancora il suo pallido viso, il suo
corpo esangue, il suo parlare tranquillo nel dirmi, quasi
scusandosi, di aver fatto di tutto per eseguire l’ordine ricevuto,
ma di essersi trovato di fronte a difficoltà insormontabili.
Rivedo nel suo sguardo un non so che di celestiale e puro
proprio degli eroi, inconsapevoli della grandezza del loro animo
e della sublimità dei loro atti. Giunto al posto di medicazione
spirò senza alcun lamento.
E noi rimanemmo confusi di tanta generosità e di tanta
grandezza spirituale! La sua nobile anima aleggiò attorno a noi
e ci ricordò nei momenti più gravi fino a che punto doveva
giungere il nostro spirito di sacrificio per la Patria e per l’onore!
Lo proposi per la medaglia d’oro al valor militare ma non seppi
più nulla!
L’ALFABETO DELLA GUERRA
¬
105
S
Schegge
CESARE ERMANNO BERTINI
Cesare Ermanno Bertini è nato nel 1890 a Massa Carrara. Nel
diario, composto da tre taccuini, scrive da maggio a dicembre
1915, di sé, degli altri soldati e degli eventi bellici sul Carso in
modo ironico e disincantato, senza far trasparire la paura della
morte a causa delle granate e delle schegge. Il giovane toscano
viene ferito e, durante la convalescenza, conosce una ragazza,
Linda, che sposerà nel 1917 a Brescia.
22 = [agosto 1915] all’alba gran scarica sul fronte; le granate
nemiche passano sopra le nostre trincee andando a scoppiare
a distanza. Nel pomeriggio sono andato, assieme ad altri caposquadra, condotti dal nostro Tenente, fino alla prima linea di
fuoco a riconoscere i sentieri per guidare i soldati nel caso che
ci fosse bisogno di rinforzare la linea di combattimento.
Lassù apprendiamo che, nella serata del 21, rimasero uccisi 3
soldati e vi furono 7 feriti della 5^ Compagnia.
Facendo ritorno ai nostri posti abbiamo provato grandi emozioni perché parecchie granate ci scoppiarono vicinissime, mentre
le schegge sibilando passarono alle nostre orecchie.
23 = Anche oggi sono andato a riconoscere i sentieri per andare in prima linea. Sono stato nel cantiere di Monfalcone dove
trovai ciminiere perforate da cannonate, macchinari rotti da
granate, stabili squarciati e rottami di ogni genere.
Parecchie compagnie hanno morti e feriti: anche la mia oggi ha
segnato il primo morto. La sfortuna è toccata al soldato
Talamoni del terzo plotone.
Il disgraziato è stato colpito in testa da una scheggia di granata nel mentre che era uscito dalla trincea per cercare un po’
d’uva. La morte di Talamoni è stato così fulminea da lasciarlo
col grappolo in mano e diversi granelli in bocca. […]
31 = sono stato rinominato il Capitano della “Irma”, chiatta con
la quale ho traghettato per tutta la giornata i militari che dovevano attraversare l’Isonzo. Alle ore 22 abbiamo lasciato l’accampamento per andare di nuovo sul fronte dove siamo arrivati
alle 3 del 1 settembre.
Il malcontento regna su tutti perché abbiamo dovuto riposare
su due sassi aguzzi ed in trincea scoperta ed in trincea scoperta completamente.
1 settembre. Nessuno avvenimento durante il giorno.
Nella notte diverse granate nemiche sono state tirate a repar
del 22 Fanteria che trovasi sulla nostra sinistra.
2 = Alle ore 20 sono montato di vedetta alle trincee, assieme
alla mia squadra fino alle ore 24. Durante il servizio si è scatenato un temporale fortissimo che ci fece tribolare non poco.
Continuamente venivano lanciati dai nemici dei razzi verso le
nostre trincee, mentre la fucileria faceva un fuoco terribile.
3 = Moltissime granate di grosso calibro sono scoppiate vicino
alle nostre trincee; le schegge sibilando cadevano in ogni luogo
senza ferire alcuno della nostra compagnia.
4 = Il tempo era brutto: tuonava e pioveva a dirotto mentre i
lampi, squarciando le tenebre, rendevano il quadro tetro e spaventevole. […]
11 ottobre. Interessantissimo duello di artiglieria durante le
prime ore del giorno. Calma nel resto della giornata.
12 = Al fronte se ne vedono di tutti i colori.
Mentre mi recavo con la mia squadra di rinforzo all’11 compagnia incominciò un fortissimo attacco ore 20½). Le nostre postazioni sono state tutte coperte di fuoco.
Le granate di gran calibro con schianto terribile esplodevano
vicinissime facendo sussultare il terreno mandando le schegge
da tutte le parti. Gli shrapnels a centinaia scoppiavano per aria
lasciando cadere una gran pioggia di piombo.
Il nemico ci ha assalito con un ben nutrito fuoco di fucileria; ma
noi, che sempre vigiliamo, pronti ad ogni sorpresa, abbiamo risposto immediatamente.
Il combattimento si è fatto serio, il momento è critico: le granate fioccano da tutte le parti mentre le pallottole, con sibilo infernale, passavano sopra la nostra testa.
Ma ben presto è entrata in azione la nostra artiglieria la quale,
con i suoi tiri ben aggiustati, ha posto in fuga il nemico rimasto
sbalordito da sì forte resistenza.
Il 22 fanteria ebbe parecchi morti e feriti ma ebbe pure l’onore
di far prigioniero un Capitano e molti soldati austriaci. Serata
indimenticabile per le grandi emozioni provate.
13 = Il Comandante della Divisione ci ha fatto un encomio solenne per il contegno e sangue freddo dimostrato durante l’attacco di ieri sera. Oggi, quelle testa quadre di seguaci di
Beppone non si fanno vivi.
A quanto pare si vede che la lezione che hanno avuto ha fatto
effetto.
106
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
S
Sfollamento
MARIA BRUNETTA
Dopo Caporetto, una donna friulana, colta e molto ricca, inizia
una lunga discesa verso sud insieme ai famigliari. In queste
pagine del suo diario Maria Brunetta raccoglie le impressioni e
le emozioni che seguono l’addio alla propria casa. La quotidianità, oramai alle spalle, viene soppiantata da un susseguirsi di
burrascosi eventi. La nuova condizione di instabilità costringerà Maria ad adattarsi a situazioni per lei inimmaginabili fino
a quel momento.
30-10-17
[…]. Nelle case un dolore immenso, uno spavento cupo. Che avverrà? Prepariamo i bagagli, Antonia ne ha l’incarico.
Raduniamo i nostri contadini che in quest’ora di lutto si dimostrano sinceramente affezionati. Essi rimarranno, non possono
partire, sono famiglie numerose, vi sono troppi bimbi piccini.
Essi rimangono, affidandosi al destino e mettono a disposizione nostra tutti i loro cavalli.
La nostra casa è piena di ufficiali e soldati; la mamma piange
inginocchiata davanti all’immagine miracolosa della scala,
piange e inutilmente invoca dalla pietà divina l’arresto del nemico al Tagliamento. Valentino ci supplica di partire prima che
gli avvenimenti precipitino […].
È sera, la pioggia è cessata, i bagagli sono pronti, i servi ci
scongiurano di condurli con noi. Si parte affidando a Toni
Marsonet, il fedele dipendente nostro, la nostra roba. Apre il
corteo la carrozza col papà, la mamma, Natalia e Bruno.
Antonia in bicicletta, una “charrette” piena di bagagli ed un
carro che io seguo con Vico a piedi […].
Addio casa adorata, salotti che conoscevate tutti i miei segreti,
Madonnina dell’Oratorio che sapevi i miei piccoli dolori, addio camera bianca e verde che fosti testimone di tante fantasie bizzarre, di tante meditazioni, di tanti sogni dolci. Addio crisantemi del
giardino, – fiorite, fiorite a dispetto della malvagità dei tempi sulla tomba dei miei ricordi sacri, dei miei affetti perduti. Passo la
piazza del paese. Tutti sono sulle porte e mi salutano commossi.
Arrivederci, arrivederci, e mi guardano compiangendomi. Poi le
case si perdono nella semioscurità, si dileguano come fantasmi che inutilmente abbiano rincorso e tentato di arrestare il
nostro esodo. […]
1-11-17
[…]. Si parte col cuore grosso, con una gran voglia di piangere.
Papà sospira continuamente ed io non parlo. La parola della fede, la luce della speranza non la so trovare e anche trovandola
non la posso esprimere. Mi sento oppressa da un’angoscia
mortale, guardo senza vedere, odo ma non sento, mi sembra
d’esser morta. Infatti la parte migliore di me stessa è a casa
mia. Oh! non più mia.
[…] Finalmente, in fondo al paese, ci offrono una stalla per il
cavallo e il fienile per dormire. Accettiamo e con i buoni contadini dividiamo scambievolmente la cena. Loro ci offrono polenta, insalata, vino; noi formaggio. Poi all’incerto lume di un fanale ad olio, reggendo due coperte, m’avvio su per la lunga scala a
pioli per preparare le due cucce nel fienile… Orrore. Una quarantina di soldati dorme gettata bocconi qua e là. Qualcheduno
s’alza, stropicciandosi gli occhi imbambolati dal sonno, intravede la mia figura femminile e grida:
– Qua, qua, c’è un bel posto vicino a me, staremo caldi. –
– Non fare la schizzinosa – urla un altro.
– Fa freddo, rincuorati, bevi un sorso d’acquavite – dice un terzo quasi proteggendomi.
Io discendo precipitosamente, a rischio di rompermi il collo,
lungo la malferma scala, mentre sghignazzate e frasi equivoche m’accompagnano.
Impietosita allora una vecchia m’offre la metà del suo letto e
papà con Beppino s’adatta s’un altro lasciato neanche un’ora
prima da un morto!
La vecchia puzza, il letto di papà è nauseabondo, ma Dio pietoso alfine concede il sonno benefico alle nostra membra spossate.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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107
S
Shrapnel
GIUSEPPE RONDONI
Il giovane Giuseppe Rondoni, poco più che ventenne,
meccanico di professione e originario di Umbertide (Pg), si
trova al fronte nel ruolo di operaio semplice. Nelle pagine del
suo diario racconta uno dei momenti più intensi e pericolosi
della vita di trincea: a un passo dalla morte, impara a
riconoscere ed evitare i suoni del fuoco nemico, tra i quali
quello inconfondibile degli shrapnel, i letali proiettili carichi di
sfere di piombo.
Il 22 [giugno 1915] , che siamo arrivati qui in prossimità di
Capriva, si è preparata la batteria per il tiro che doveva essere
incominciato il giorno 23.
Infatti oggi si è incominciato verso le 2 dopo mezzogiorno. Non
si è soltanto noi, ma circa 39 batterie a tirare, ed è un continuo
sparare cannonate. Però questo giorno mi sarà indimenticabile,
e credo sarà il più critico di mia vita Poco dopo, incominciato il
nostro fuoco, il nemico deve averci visto, perché ci ha subito
risposto con colpi aggiustatissimi. […] Il primo proiettile è
cascato un po’ indietro e a destra, il secondo proprio lì a solo
qualche metro dalla bocca del fuoco, e di questo passo hanno
seguitato per diverso tempo. Noi, quando si sentiva il proiettile
arrivare dal sibilo, cu su riparava dentro alla trincea che era
scavata dietro al pezzo, ma a che cosa avrebbe servito quella
se la granata fosse venuta li sopra? […] È impossibile,
descrivere e immaginare l’impressione che faccia il sibilo del
proiettile al momento che arriva. Sembra che voglia arrivare
dappertutto, e in nessun posto si sia al sicuro, ed infatti è
proprio così perché per le granate in qualsiasi posto non si può
dire di essere sicuri. Quelle trincee che avevamo fatto
servivano bene per gli shrapnels e per le schegge di granate
quando ricascavano, ma per null’altro; eppure per noi era
l’unica speranza di salvezza… Seguitano a tirare cambiando da
granata a shrapnels, e quei proiettili scoppiavano proprio lì
sopra lanciando le pallette in tutte le direzioni. Sulle pareti
della trincea del 4° pezzo, si vedevano tutti buchetti fatti dalle
pallottole. Lì si ebbero i primi proiettili a due tempi. Si sentiva
lo scoppio dello shrapnel in aria e poi un secondo scoppio per
terra; da principio noi credevamo che si trattasse di due
proiettili alla volta, ma più tardi ci si accorse che il secondo
scoppio succedeva quando l’ogiva dello shrapnel urtava a
terra, così che essa faceva da granata. Sistema Tedesco!…
Loro seguitano a tirare, e noi si seguiva, avviene un primo
ferito.
Una palla di shrapnel gli ha traversato il braccio destro e si è
andata a fermare in una gamba, poi un secondo ed un terzo,
questi lievemente. In ultimo una granata arriva a scoppiare
proprio sulla sinistra del 4° pezzo. Si vede tutto il cannone
ricoperto di fumo e di terra e si sente a gridare. Credevo
fossero stati fracassati tutti i serventi. Si corre a vedere; si
trattava d’uno solo, ma ferito in un modo così raccapricciante,
che senza descriverlo l’avrò sempre impresso in mente mio
malgrado. Ad un certo punto vado dal 3° al 4° pezzo per
prendere una cordicella da sparo che si è rotta, e che devo
riparare. Tornando indietro sento un proiettile ad arrivare; ero
completamente allo scoperto. Come potevo meglio ripararmi?
Mi sono gettato tutto lungo per terra. Arriva a scoppiare proprio
li alla mia destra, e mi nasconde tra il fumo e la terra,
nell’istesso tempo sento qualche cosa che mi striscia nel collo.
Quando la burrasca è passata mi rialzo, tasto nel collo e sento
che si tratta d’una piccola sgraffiatura che mi era stata fata da
una scheggia, che poi era andata a conficcarsi in terra. Non era
nulla di male, e posso essere contento di essermela passata
così. […] Era già quasi notte, ed il nemico tirò ancora qualche
colpo, e poi tacque.
108
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
T
Telegrafo
DANILO GRACCI
Un giovane livornese, impiegato dopo la guerra come
capostazione in Sicilia, racconta la sua partecipazione al
conflitto quasi soltanto descrivendo il suo ruolo di
telegrafista. Gli eventi narrati e gli spostamenti citati sono
sempre in funzione della formazione tecnica ricevuta,
dell’interesse per lo stato o il ripristino di una buona
comunicazione telegrafica.
25 Maggio 1917.
Parto con un plotone al comando del Sott. Nicastro per andare
di rinforzo alla 34.a Sez. Telegrafisti che trovasi a S. Pietro
dell’Isonzo ad alla quale passo in sussistenza.
27 Maggio.
Ci rechiamo alla dolina delle granate (Appacchiasella. Io ed il
Cap.magg. Manerba e cinque uomini per concludere diversi
stendimenti tra i diversi comandi di fanteria che con l’avanzata
si sono dislocati nelle nuove posizioni conquistate.
Eseguiamo 4 stendimenti notturni sotto un fuoco infernale
nemico che ci fa passare momenti innarrabili. […]
1 Giugno 1917.
Rientriamo in compagnia la quale da Aiello si è trasferita a
Curriaco prendendo il posto della 18.a e quindi quello dei 23 Ca
che opera da Castagnevizza a Pietra Rossa.
2 Giugno.
Parto con una stazione ottica per la 61.esima divisione che ci
invia a quota 236. Siamo 3: Io Brizzi e Gaidano.
Fuoco nutrito,il nemico vuole riprendere le posizione perdute i
giorni prima.
Arrangiamo una capanna e impiantiamo stazione senza poter
corrispondere a causa delle scure nubi sollevate dal
bombardamento. Siamo a disposizione del 31.esimo fanteria
Brigata Siena ed abbiamo un fante per il collegamento.
3 Giugno.
Ore 4 di mattina forte contrattacco nemico preceduto da
violento fuoco di grossi calibri: un 280 esplode vicino e ci
seppellisce completamente frantumando l’apparato e
stordendoci senza procurarci gran male alla persona salvo
qualche sassata.
4 Giugno.
Dopo sostituito l’apparecchio con uno nuovo ritorniamo a
quota 235 per corrispondere con quota 208.
Troviamo un ricovero ingombro di cadaveri irriconoscibili nella
ex linea austriaca. Sono con Settimo e Biagi i due uomini di
collegamento del 141 fant. Brigata Catanzaro. Impiantiamo la
stazione eliografica la mattina del 5 giugno e possiamo
corrispondere abbastanza bene. L’artiglieria nemica si mostra
più umana ma di quando in quando qualche colpo cade a noi
vicino senza però fare danni di sorta.
Fa un caldo soffocante ciò che rende atroce il puzzo dei
cadaveri sparsi nei pressi e dissepolti ancora.
Ho provveduto allo sgombro del ricovero dei cadaveri ad alla
disinfestazione con la calce.
C’è discreto lavoro di telegrammi per l’osservatorio di artiglieria
che battezziamo col nome di Parigi (Convenzione). […]
17 Luglio.
Comincia il bombardamento da parte delle nostre artiglierie
sulle posizioni nemiche e il 18 Luglio alle 12 raggiunge
un’intensità spaventevole. Il nemico risponde e molte granate
esplodono vicine alla stazione. Lavoriamo quasi continuamente
con l’apparato ottico del comando della 6.a. div. essendosi
interrotte quasi tutte le linee telefoniche. Le nubi fornite dalle
esplosioni tra la nostra stazione e quella di quota 235
ostacolano moltissimo la corrispondenza, gli ordini di
trasmettere sono urgentissimi e tutti riguardanti gli assalti e
l’avanzata delle nostre fanterie sull’Hermada a destra e su Selo
a sinistra.
[…]
23 Ottobre.
Il bombardamento nemico non accenna ad indebolirsi, molte
delle linee che sono a me affidate si rompono in diversi punti.
La linea telefonica 20.a divisione si rompe alleore una di notte
in tre diversi punti. Piove a dirotto.
Pur nonostante esco con l’apparecchio telefonico e due uomini
per trovare e riparare i guasti.
Uno dei due uomini e precisamente il Coppini, cade in una
profonda pozzanghera.
A stento riusciamo a portarlo fuori. Rientriamo in ricovero alle
cinque del mattino.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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109
T
Tradimento
ANONIMO
Il diario di un ufficiale austriaco del 2° battaglione 46°
fanteria, deceduto durante la guerra, viene trovato tra le carte
di un prigioniero del 1° Reggimento Honved, catturato sul San
Michele il 29 giugno 1916. Il testo, tradotto dal tedesco,
esprime le dolorose contraddizioni dell’anima dell’ufficiale
divisa tra la convinta fede nella patria e nell’imperatore, e
l’amore struggente per Ilaria, una cocotte italiana, che lo
condurrà al punto di pensare di farsi catturare, tradendo i suoi
ideali, pur di passare del tempo con lei.
Ma l’artiglieria italiana deve essere preponderante. Qua vicino
una vaga veranda ornata di fiori mi costringe a pensare a Ilaria.
Una bella giovane bionda, con la veste bleu di cobalto con
ricche pieghe e stretta con una cintura, stava affacciata alla
veranda. […]
Impossibile dimenticare quella donna. Tutto e poi me la
ricorda. Appunto perché io non l’amavo soltanto coi sensi, per
quanto non fosse stata niente di meglio che una cocotte.
[…]
6 GIUGNO – Eccomi sul Monte Grappa, al confine tra fedeltà e
tradimento. Le ondeggianti schiere dei nostri prodi difensori
crescono, come le onde del torrente contro la chiusa, e la
corrente umana cresce e romperà gli argini per allargarsi sul
Paese che deve essere punito. […]
8 LUGLIO – Ho sognato di lei tutta notte. Stamani vidi su un
cespuglio due insetti accoppiati in modo perverso nella loro
fusione d’amore. Pensai tosto ad Ilaria e la rividi sulla piazza di
Ravenna mentre cercava qualche cosa di noto sulla base della
colonna Veneziana. Ella mi prese la mano e con un riso
perverso mi accennò con l’ombrellino l’oscena figurazione dei
gemini dello zodiaco…
[…]
18 GIUGNO – Pernottiamo all’albergo Eder. Alle 15½ incontro
con XI° battaglione di marcia del 46° Fanteria. Finalmente
posso fare un bagno. Alle 19 arrivo a Mauthen. Banchetto,
serata di musica. L’alfiere SPORER suona meravigliosamente il
piano. […] Quando suonò “ La morte di Ase” di Grieg, le lagrime
mi sgorgarono dagli occhi. Non posso dimenticare Ilaria ed ella
amava tanto la “Peer Gynt’s Suite”. Dove sarà ora? Donna
perfida e senza cuore! Per torturarmi di più pregai Sporer di
suonarmi il “Largo” del “Rolando” di Handel. “Lascia che io
pianga”. Ed io piango nella notte come un bambino. E un
pensiero sacrilego sorge improvviso nel mio cervello. Dio mi
perdoni! Pensai per un momento di farmi prendere prigioniero
per cercarla in tutta l’Italia, per passare ancora un’unica notte
d’amore con lei. […] Perché l’amore, che pure è un sentimento
nobile, ci rende vili?
19 GIUGNO – Riposo. Ed io mi riposo, ma soltanto fisicamente,
perché la mia anima non trova riposo da ieri. Penso ai molti
eroi austriaci che sacrificarono la vita per l’onore dell’Austria e
d’Asburgo, mentre io coltivavo propositi di tradimento per una
donna indegna. Provo schifo di me stesso. […]
2 LUGLIO – Arrivo a Devetaki. Rombo del cannone. Non un vetro
alle finestre. Nelle vicinanze tuona un mortaio da 305. Vorrei
conoscere l’effetto morale che fanno sugli italiani i suoi colpi.
14 LUGLIO – Dio sia lodato! Una scheggia di granata mi ha
ferito al braccio sinistro. Nulla di grave, ma io sono talmente
fiero che non lo posso esprimere. Quale grande onore poter
versare il sangue per la mia Patria per il mio Imperatore.
Adesso benedico la guerra e potessi avere innanzi a me il
nemico che mi ha ferito, lo accoglierei come un amico, lo
bacerei e lo abbraccerei. Rimango in trincea. […]
18 LUGLIO – Il cannoneggiamento si fece follemente violento
nella notte. È finita pensai: e mi preparai a morire da buon
cristiano. Però: morire così giovane! E senza confessione,
senza la parola di consolazione della fede, della nostra santa
religione. Ah! Italia! Dio ti punisca te, il tuo Re il tuo popolo
traditore.
Nelle prime ore del mattino il fuoco cessò di violenza. Io
guardavo una roccia liscia che il sole nascente tingeva di rosa,
e pensavo involontariamente al roseo fianco di Ilaria sulla
coltre verde. Quando due minuti più tardi una granata scoppiò
sulla roccia frantumandola, rimasi sorpreso di non vederne
schizzare il sangue. E mi sentii più leggero come se “Ella” fosse
morta, come se fossi più libero, come se l’incanto fosse rotto.
Quando vedo il cappellano voglio confessarmi.
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
Reginaldo Binni - Archivio Daniele Cinciripini
Trincea sul fronte italiano e austriaco. Qui giovani
uomini, divisi soltanto dall’appartenenza a nazioni diverse, venivano chiamati a combattere una
guerra di cui spesso non comprendevano il senso.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
Trincee sul monte Fior: su queste balze infernali
combatteva e moriva la miglior gioventù europea.
© NAZZARENO BERTON E SERGIO CARLESSO
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112
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
T
Trincea
MARIO GINELLI
Un agricoltore calabrese, cinquant’anni dopo la Prima guerra
mondiale, racconta la sua vita al fronte, il suo ferimento e il
congedo. In queste pagine egli rievoca i quaranta giorni
passati in trincea, le anguste condizioni in cui si svolge la
quotidianità, ma soprattutto il pericolo di essere in prima
linea, al cospetto dei cannoni nemici.
[Giugno 1917] Alle cinque di sera, appena dopo il rancio, mi fu
ordinato di fardellare lo zaino che dovevo partire. Un sergente e
dodici della mia compagnia si doveva partire per andare in
trincea a raggiungere il 1° Regg. Fanteria sul S. Caterina.
Aspettammo che scendesse la sera per essere meno scoperti.
Il viaggio fu pieno di paura. Mentre ci avvicinavamo al fronte
[era] sempre più forte il tuono del cannone. Circa le 9 di sera
eravamo sul ponte dell’Isonzo. Difronte avevamo il monte
Sabutino e alla sinistra il Carso. Una lunga distesa di colline
tutte aride e roccia. Passato il ponte, a 500 metri di strada,
entrammo nella città di Gorizia: strade piuttosto strette e non
era passato un mese che i nostri italiani l’avevano rpesa.
Prendemmo la strada che conduceva al Castello. A ogni scarica
che facevano i cannoni delle nostre artiglierie il cuore veniva in
gola e ci buttvamo per terra dalla paura. Il nostro sergente ci
incoraggiava, dicendoci di non avere paura che erano i nostri
cannoni che sparavano e quindi non ci potevano fare del male.
Passato il Castello di Gorizia, prendemmo la strada che
conduce sul monte S. Caterina. Quanto ci impressionò quella
strada, tutta mascherata di con tavole dei bachi da seta, con
muretti di sacchetti di terra, per essere riparato chi viaggiava
in caso di bombardamento! Arrivammo circa le 10 in trincea. Mi
consegnarono a un Tenente di compagnia che, come un padre
di famiglia, considerò quanto eravamo emozionati e stanchi. Mi
fece dare un po’ d’avanzo del rancio, piuttosto freddo, e un po’
di pagnotta e formaggio e mi fece ritirare in un buco un po’ più
grande di quello di un topo. Eravamo dentro in tre: Caporale
capo posto e due soldati che dovevano dare il cambio alle
vedette. Seduto uno stretto all’altro, mi lasciarono dormire
tutta la notte che più non sentii niente, né cannoni e nemmeno
mitraglia. Al mattino ebbi il tempo di esaminare la posizione.
Quanto disastro! Il monte era tutto ribaltato sottosopra. Mi
meravigliai avendo visto un castagno tagliato dai proiettili e
una vite lunga un palmo della mano. Ai morti avevano perfino
ancora da dare sepoltura. Uno poi si trovava davanti al mio
nascondiglio che le sue scarpe erano davanti ai miei occhi e già
si sentiva l’odore. Per quel giorno feci solo qualche vedetta. […]
Un giorno il mio Ten. Caputo (un tipo strano e coraggioso. Lui
era sempre per osservare le trincee nemiche e vi penetrava
anche all’insaputa del nemico) mi chiama, lui [con] due altri
soldati ben forti, mi dice di seguirlo. Era in pieno giorno quando
siamo giunti fuori la prima linea, nei piccoli posti avanzati. Mi
fa fermare, buttati a terra come pesci, nella piccola trincea, mi
spiegò il suo intento. A circa 4 metri di distanza c’era la
postazione nemica, ma quella postazione serviva solo di notte
e quindi il nemico non c’era. Noi, a carponi, si doveva penetrare
nella sua trincea e portar via due casse di munizioni e bombe a
mano e, a fatto compiuto, avrebbe pensato a farmi premiare.
Come facciamo a rifiutare? Con coraggio tutto andò liscio, ma
in quanto alla medaglia chi la vide? Un altro giorno il mio
plotone fu assegnato per montare di pattuglia ai piccoli posti
avanzati di notte. La sera era ben calma in quel punto.
Avevamo una trincea non più fonda di mezzo metro; la distanza
dalla nostra e quella nemica non superava i sei metri circa. In
quella posizione si vedeva bene la stazione di Gorizia e, poco
lontano, difronte il cimitero. In quel punto c’era un boschetto
nel quale c’erano nascoste le artiglierie nemiche. Erano
passate circa 2 ore che eravamo appostati, ma sempre regnava
calma dietro la nostra postazione. Avevamo una pianta di mele
che proprio in quel momento erano bemmature. Un infermiere
si azzardò a volerle raccogliere. Non l’avesse mai fatto! Un
razzo nemico diede segnalazione e non vi so dire quante
cannonate ci mandarono. Rimanemmo tutti coperti in terra,
ma, grazie a Dio, tutti salvi, nessun ferito. Il povero soldato
della Croce Rossa fu molto punito e la paura che prendemmo
fu infinita.
Il giorno seguente, mentre eravamo in trincea di vedetta, una
granata nemica uccise un soldato e ferito un altro. Così
trascorsero i 40 giorni di trincea che il mio regg. Aveva
accettato, piuttosto che partecipare all’azione di
combattimento per prendere il Monte Santo e monte Gabriele.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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113
U
Uccidere
GIUSEPPE RUSSO
Nato a Napoli nel 1896, Giuseppe Russo racconta la guerra sul
Carso e la sua prigionia in Boemia dopo la cattura nel 1917.
I combattimenti sono intensi, senza esclusione di colpi da
ambo le parti. Il terreno è pieno di buche, egli avanza con
fatica tra i soldati feriti e i molti cadaveri di compagni ormai
irriconoscibili. Quando vede gli austriaci correre, comincia a
sparare con il suo moschetto, cercando di ucciderne il maggior
numero, ma questi lo accerchiano spingendolo avanti nella
linea nemica.
24 maggio [1917]
I granatieri che mi precedono hanno perduto il collegamento,
mi trovo solo con la compagnia. Il fuoco d’artiglieria d’ambo le
parti è di estrema violenza. Comprendo la situazione, esco
dalla distrutta trincea Cordova e trascino i granatieri verso
quota 235 ove veggo svolgersi il combattimento. Il terreno è
cosparso di morti, passano feriti e prigionieri. Incontro qualche
ufficiale ferito del mio battaglione.
L’aspetto del terreno è terrificante: enormi buche prodotte dai
grossi calabri che si succedono l’uno all’altro seminando la
morte nelle file dei soldati che avanzano, membra umane
lanciate in ogni direzione, cadaveri irriconoscibili ancora
sanguinanti, morenti e feriti che chiedono aiuto e noi passiamo
sopra tanto sterminio in una corsa veloce verso la quota, seguiti
da scoppi di shrapnell. L’artiglieria nemica ci ha scorti e ci
segue col suo fuoco che aumenta sempre d’intensità. Ritrovo il
mio capitano e gli altri ufficiali col rimanente della compagnia,
ci organizziamo in una dolina e proseguiamo la corsa.
[…] Alfine ritrovo le altre compagnie del mio battaglione e mi
fermo. Son esaurito, le forze mi mancano, il petto ansa, mi
lascio cadere per terra e pian piano l’affanno mi passa. Ho
vicino il mio capitano. Con l’elmetto scavo nei sassi e mi faccio
un piccolo riparo. Di fronte a me veggo correre degli austriaci.
Col moschetto ne ammazzo 3. Vengono ancora degli altri,
continuo a sparare, essi continuano a cadere fulminati. […]
Cade la sera, mi trovo con pochi uomini framischiato ad altri
reggimenti. Seguendo il camminamento ritrovo il reggimento
quindi mi reco al comando di battaglione. Il maggiore mi ordina
di racimolare gli uomini e portarmi alla estrema sinistra in
collegamento col 1° Battaglione.
Tutta la notte i pochi uomini lavorano per farsi un riparo.
Si sgomberano i feriti. Viene l’alba.
25 maggio
All’alba incomincia il tiro d’artiglieria nemica, mi abbatte il
muricciolo e mi seppellisce con molti granatieri parte dei quali
soccombono. Resto ancora al mio posto e, seppellito una
seconda volta e contuso, mi sposto a sinistra. I feriti mi
chieggono aiuto, è impossibile il trasporto, né aiuto e ne
medico qualcuno. Ritrovo parte della mia compagnia. Il fuoco
d’artiglieria è violentissimo, la nostra piglia il sopravvento ma
quella nemica non si arrende. Il pomeriggio, il caldo e la sete
sono insopportabili, io ho le labbra sanguinanti, ho perduto la
voce, la gola mi arde. Verso il crepuscolo si avanza sotto il tiro
incrociato delle mitragliatrici nemiche, molti cadono colpiti alla
fronte, molti tenacemente proseguono e si spingono avanti. Le
mitragliatrici aumentano. È impossibile avanzare. Facciamo
sosta su quota 219 e ci rafforziamo con pochi sassi. Bevo
l’acqua sporca di lubrificanti d’una mitragliatrice austriaca. La
notte si lavora.
3 giugno
Intenso bombardamento durato tutto il giorno a tre riprese,
verso il crepuscolo aumenta di violenza, gran parte dei miei
granatieri restano vittime, i loro cadaveri son irriconoscibili,
non mi è possibile indentificarne alcuno. La linea è
completamente distrutta e sconvolta, cosparsa di avanzi
umani. […] Verso tardi il mio comandante di battaglione mi fa
chiamare. Mi consegna un foglio di carta, desidera l’elenco
delle perdite. Mi reco nella buca a sinistra del comando di
battaglione per compilarlo. Appena scritto 3 nomi sento delle
urla fuori, domando spiegazioni, mi si risponde: – Gli austriaci!
Intanto i granatieri che occupavano la buca si precipitano fuori.
Io lascio tutto impugno la pistola ed esco per correre alle
mitragliatrici, ma appena sull’imboccatura mi veggo
accerchiato da soldati austriaci armati di bombe e fucile e mi
impongono di lasciar la pistola. Ho appena 3 colpi essi son
numerosi, mi è impossibile resistere. Lascio la pistola e cerco
di dirigermi a destra per poi riunire qualche soldato e far fuoco,
ma due austriaci mi afferrano e mi spingono in avanti, verso la
linea nemica. Tutte le caverne son bloccate, veggo austriaci
dappertutto. Il terreno antistante alla linea nostra è cosparso
da cadaveri nemici, vittime della propria artiglieria la quale non
aveva modificato il tiro durante l’attacco delle fanterie per
rendere possibile la sorpresa.
114
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
U
Ufficiale
BRUNO PALAMENGHI
Non ancora ventenne, nel 1882, Bruno Palamenghi entra
all’Accademia di Modena e inizia la carriera militare. Durante
la Grande Guerra è al comando dell’esercito, impegnato nelle
battaglie dell’Isonzo e del Carso; poco dopo aver combattuto
per la conquista di Gorizia, il 7 ottobre 1916 riceve l’ordine di
lasciare il suo incarico e viene collocato a riposo.
7 ottobre – Mi trovo a chiacchierare in una piccola stanzuccia
– che fungeva da Ufficio Comando – col mio Aiutante Maggiore
in 1° e con varii miei Ufficiali. Entra il porta-lettera: distribuì la
corrispondenza. Presi alcune mie lettere personali ed altre dirette al comando di Reggimento, tra le quali una in busta gialla
carica di sigilli. Ne arrivavano tante durante la guerra, di queste buste misteriose contenenti ordini riservati, variazioni a cifrari, informazioni sul nemico ecc… a pur non di meno questa
mi sorprese… lacerando la busta lessi per la prima. Mi immobilizzai nel leggerne il contenuto – Mi si dava l’ordine di lasciare
il comando del Reggimento che provvisoriamente avrebbe assunto il T.te Colonnello Cappello – e rientrare al Deposito, a disposizione del Ministero della Guerra. II foglio mi tremava nelle
mani – la fronte mi si imperlò di una improvvisa perspirazione,
e nel volto ricoperto d’un pallore terreo, gli occhi sbarrati, da
impressionarne seriamente i presenti – l’Aiutante Maggiore
spaventato mi chiese cosa avessi.
Nulla – risposi con voce dura – bassa – tagliente – incisiva.
Con uno sforzo visibilmente doloroso piegai il foglio, lo riposi
nella busta, e lo misi in tasca.
Vidi tanti sguardi dei miei Ufficiali conversi su di me e provai di
sorridere, ma non vi riuscii.
Ho visto molta, troppa morte intorno alla mia vita, ma non avevo mai visto assassinare un’anima.
Rimasto poi a solo col mio Aiutante Maggiore in 1° e col
Tenente Colonnello, dissi loro “Leggete” per me non è vergogna
– voi sapete come si silura qua al fronte – Rimasero anche loro
pietrificati.
Tale comunicazione inaspettata, imprevista, inconcepibile mi
annienta – mi avvilisce – mi ha fatto penetrare il freddo della
morte sino alle sorgenti più profonde della mia vita – Una lama
di acciaio Austriaca attraverso il mio cuore non mi avrebbe
causato più dolorosa sensazione – ma… per la mia dignità, pel
mio orgoglio, mai mi mostrai più calmo – più indifferente – più
freddo.
Il perverso ed infame piano di vendetta di quel gran mascalzone e vigliacco del Generale Ruggeri Laderchi si è effettuato, ha
avuto esecuzione.
Il delinquente – l’assassino – ha un tribunale che lo chiama a
sé; una difesa che discute i suoi capi d’accusa; e spetta a lui
per ultimo la parola.
Un Ufficiale Superiore – un Colonnello – un Generale – rigido
custode dell’onore e della salvezza della Patria, non sa nemmeno per quale ragione specifica lo si getti sul lastrico.
Questo gran mascalzone di Ruggeri Laderchi mai mi aveva visto
né conosciuto, tranne il 22 Settembre 1916 quando stavo col
Reggimento a riposo – e mai in trincea od in una azione di
combattimento. Come e su quali elementi ha potuto giudicarmi? Nessun dolore che io possa aver provato e possa provare
nella vita, può e potrà uguagliare quello sentito nel vedermi allontanare dal Comando del mio Reggimento dalla linea di combattimento ove tante soddisfazioni tante emozioni avevo provate – tante privazioni sopportate – tanti pericoli affrontati e
sempre con grande abnegazione. Per un soldato valido e forte
– ardimentoso e coraggioso – amante delle peripezie e della
vita movimentata e dei pericoli – il dover stare lontano dal
fronte in questi momenti in cui si decidono le sorti della Patria
– del proprio paese – è quanto di più doloroso vi possa essere
– Ma pare che la guerra abbia tutto sconvolto e distrutto – anche nei vecchi Ufficiali.
Quei sensi di lealtà – franchezza – cameratismo – dignità –
che erano vanto e nobile tradizione dell’Esercito Italiano – sono del tutto spariti. […]
La carriera delle armi era per me poesia – culto – vita – ora ne
è disgusto – nausea.
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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115
V
Vallata
PIERO ROSA
Piero è nato a Torino nel 1897 e nel 1916 parte per il fronte come
sergente di artiglieria. Nella memoria racconta la sua guerra dal
Carso alla Valle dell’Adige, utilizzando un linguaggio aulico e ricco
di citazioni dantesche, descrizioni di particolari, tra cui le cartine
dei luoghi, i piani d’attacco e i disegni degli armamenti in uso.
[1917] Usciamo dal paese, ma dopo qualche centinaio di metri,
dobbiamo già fermarci per togliere i cingoli Bonagente dalle
ruote dei pezzi. È inutile, su strade a fondo solido, servono un
corno e fanno un fracasso indiavolato
Attraversiamo gruppi di casette rustiche abitate da qualche raro borghese, e puntiamo direttamente verso il nord. Buona parte di noi ha preso posto sulle trattrici e sui rimorchi. Il resto segue in autocarro. Sono sul secondo traino e chiedo al conduttore dove si va. “Chiedilo al capo colonna”. Ma anche questo è
muto come un pesce. “Dimmi almeno che acqua è quella lì”.
“Iudrio”. Alla buonora! Mi ricordo che quel fiumiciattolo serviva
di confine anticamente fra l’Italia e l’Austria e che non si inoltra
verso la linea di combattimento, ma la costeggia. La strada, o
pur meglio dire, le strade, poiché sono due, appaiate l’una di riserva all’altra, s’inoltrano incassandosi nella tortuosa valle che
prende il nome dal fiume suddetto. Immagino che costeggiamo
alla nostra destra il Carso, Gorizia, il corso dell’Isonzo; poi
scende la notte, il nostro stradale si svolge in serpeggiamenti
che mi fanno perdere la bussola: Segno evidente dell’appressarsi alle prime posizioni e l’inizio della frascatura e delle
stuoie sul mascheramento delle strade. Tutto è silenzio, solo
qualche rombo lontano ci ricorda che entriamo in guerra. Lo
strepito del motore, mi accomuna barbaramente al sonno.
Rannicchiato in un’angolo della trattrice, dormo un’oretta. Poi
la salita diventa ripidissima, i traini sono malsicuri in curva ed
è d’uopo sorvegliare con i cunei una possibile e pericolosa fermata della trattrice i cui freni non potrebbero vincere il peso. Il
cielo imbianca indicandoci l’approssimarsi dell’alba. Tratto,
tratto, autolambulanze incrociano il nostro convoglio portando
il loro dolorante carico di feriti. Alle sei, sbuchiamo in una valle.
Riesco finalmente a sapere che siamo in Val Doblar di fronte a
Tolmino e Santa Maria. Il mio traino si ferma per una riparazione ed ho agio di dare uno sguardo ai dintorni. La valle ha la forma di un trapezio strettissimo ed è orientata a nord; la testata
superiore è formata dai monti Ossojenka e le tre punte Jeza; il
lato destro (cioè verso il nemico) dai monti Varda, Zible, e Kard,
riuniti da una serie ci conche e selle; la sinistra dall’Ostry-Kras,
e Globo-Kak; la testata inferiore termina presso la stretta di
Auzza, alla strada imperiale. Il fondo valle è bagnato dal torrente Doblar. Vi è un paesino, Itergari e qualche casetta isolata e in
rovina. Siamo così destinati ad una posizione molto avanzata
che s’interna audacemente entro le linee nemiche, mettendo a
profitto lo scarto che forma l’Isonzo dalla conca di Plezzo ad
Auzza. Ripartiamo. La strada militare è ancora da finire e molti
borghesi lavorano alacremente a gran colpi di muia, per condurla a termine. Ciò non impedisce il comodo transito. Il fondo
stradale è ottimo, perché di viva roccia. Curve strettisfime ed in
pendenza con ai lati l’apertura di certi burroni da mettere i brividi. I conduttori devono usare la massima prudenza possibile.
Oltre a ciò, ogni tanto un cartello avverte: Strada battuta dal tiro nemico = transitare in piccoli gruppi = veicoli distanziati
Senza alcun incidente attraversiamo l’Ossojenka, si transita
sul costone del Varda e dello Zible-serh. Alt! Qui sta la nostra
posizione.
116
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
V
Vittoria
LUIGI BRAGA
Un ex ufficiale del Genio, nato a Milano nel 1899, descrive nella
sua memoria gli ultimi giorni della guerra quando, giunto nel
paese di Cinto Caomaggiore, in provincia di Venezia, apprende
la notizia dell’armistizio e assiste alla resa degli austriaci.
[1918] Rotto il fronte, è compito dei reparti celeri incalzare il nemico che ormai si ritira disordinatamente.
La Fanteria avanza lungo la direttrice delle strade; e siamo noi,
Zappatori del Genio, che, in testa alla colonna, provvediamo ad
assicurare la viabilità rimovendo eventuali ostacoli e a rendere
possibile il passaggio.
Arriviamo così, la sera del 3 novembre, davanti al paese di
Cintocaomaggiore, non lontano dal Tagliamento: il paese è ancora occupato dagli austriaci che però sembrano avere abbandonato ogni velleità di resistenza.
Dalle prime case del paese, escono tre austriaci che portano alto
su un bastone uno straccio bianco. Allora si fa loro incontro un
ufficiale della nostra Fanteria, scortato da due fanti: un parlamentare chiede di parlare con il nostro Comando. Con l’anacronistico rituale delle tradizioni militari, l’ufficiale austriaco, bendati
gli occhi, viene guidato sino al Colonnello di Fanteria; e qui, con
nostra grande sorpresa, afferma che è stato stipulato un armistizio e che quindi ciascuno deve rimanere sulle posizioni occupate al momento.
Naturalmente, poiché non abbiamo al proposito notizia alcuna,
si pensa ad uno stratagemma del nemico. Il Colonnello risponde
dunque che non ha nessuna intenzione di emanare contrordine
alla disposizione già data che prevedeva la nostra avanzata; e dà
mezz’ora di tempo ai nemici per ritirarsi o per darsi prigionieri.
Mezz’ora drammatica! Un grave silenzio incombe sul paese che
ci sta di fronte e che appare nella luce del tramonto ormai imminente, triste e deserto. Le nostre truppe, scaglionate in profondità sulla strada d’accesso dalla quale siamo arrivati sostano
con l’arma al piede. In attesa di conoscere la risposta degli austriaci al nostro ultimatum la Compagnia del Genio cede alla
fanteria il posto in testa alla colonna. Il mantenimento dei ruoli e
dei rispettivi compiti viene anche in questa circostanza rigorosamente rispettato. Quella mezz’ora passa rapidamente e ad un
tempo con estrema lentezza. L’attesa è gravida di emozione.
Cosa accadrà? Si accenderà una battaglia dei cui esito non possiamo certo dubitare, ma che potrebbe risultare, oltreché assurda,
aspra e sanguinosa? O gli austriaci giudicheranno inutile il sacrificio di altre vite, quando per le loro armi è tutto ormai perduto?
Allo scadere della mezz’ora, per qualche minuto continua il
drammatico silenzio, carico di tensione. Sta dunque per iniziare
l’azione di forza della Fanteria, quando ecco ricompare la bandiera bianca con la richiesta di un nuovo colloquio per trattare: il
nemico offre la resa delle truppe asserragliate nel paese ma richiede l’onore delle armi. E noi giudichiamo sia giusto riconoscere anche formalmente il valore dei soldati avversari.
La cerimonia si celebra senza indugio. Le truppe che si arrendono si costituiscono in una Brigata con tutti gli ufficiali di Stato
Maggiore; e sfilano, deponendo le armi davanti a un nostro picchetto in posizione di presentat-arm.
Non trovo parole adeguate per descrivere convenientemente la
solennità di quei momenti; ma ricordo bene che ne provai grandissima emozione. Tra noi e gli austriaci era caduta qualsiasi carica di odio; arrivo a dire che provavamo quasi pena per questa
esplicita solenne ammissione della loro sconfitta: dopo tante ore
di lotta e di fatiche; e dopo il sacrificio di tanti loro uomini morti
sul campo. […]
A Villa Giusti, dove ha sede il Comando Supremo dell’Esercito,
dal 30 ottobre al 3 novembre, si tiene un convegno tra il nostro
Comando e il Comando austriaco e in data 4 novembre 1918 viene firmato l’armistizio tra l’Italia e l’Impero austro-ungarico.
Non appena la notizia ufficiale arriva a noi, una gran gioia si impadronisce di tutti: a sera il cielo è tutto illuminato da razzi verdi, bianchi e rossi e salve di fucileria rompono l’aria. I pochi abitanti rimasti sul posto, prendono parte al tripudio, quasi increduli che il lungo martirio abbia alfine avuto termine.
Assicurato il passaggio del ponte, noi riprendiamo la nostra posizione di avanguardia per facilitare il transito sulle strade alle
truppe che proseguono l’avanzata. Attraversiamo campagne e
paesi, sempre tra popolazioni esultanti che ci accolgono trionfalmente.
[…]
Ho issato su di un bastoncino il piccolo tricolore di seta che
avevo portato con me da Milano (me lo aveva regalato mia
mamma prima che partissi per il fronte): in testa alla
Compagnia, la mia bandierina è salutata ed acclamata dai civili
che incontriamo e che ci accolgono festosi e plaudenti. Ancora
la conservo (con compiacimento e un po’ di commozione).
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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117
V
Vittorio Veneto
RAUL BACCINI
Caporale durante la Grande Guerra, Raul Baccini annota in due
piccoli quaderni gli avvenimenti bellici che lo vedono protagonista, arricchendoli con disegni di mappe e stemmi dei paesi
che visita. Nell’ottobre del 1918 partecipa alla battaglia di
Vittorio Veneto che racconta con passione e con precisa dovizia di particolari.
24 ottobre [1918] – Si attacca il nemico sul Grappa. Il ns.
Reggimento opera nella zona del Pertica che viene preso. Il nemico contrattacca; parecchie perdite da ambo le parti. Vengo
fatti al nemico 2800 prigionieri. Tempo cattivo.
25 ottobre – Proseguono gli attacchi sul Grappa. Abbiamo altre
dolorose perdite. Vengono fatti altri circa 2000 prigionieri.
Continua il movimento di autocarri. Il tempo è un po’ rimesso.
[…]
29 ottobre – Sul Piave si delinea magnificamente la nostra vittoria. Sono espugnate le alture di Valdobbiadene e riconquistata la città di Conegliano. Sul Grappa il nemico si accanisce ancora a tirare con le artiglierie. Nostri reparti attaccano il Monte
Asolone.
30 ottobre – Anche la 3° Armata passa il Piave ed avanza verso
la Livenza aspramente combattendo. La 10° Armata occupa
Oderzo, l’8° e la 12° giungono a Vittorio ed ai monti sovrastanti
Valdobbiadene. La 6° Armata rioccupa Asiago. La 4° occupa sul
Grappa l’Asolone ed altre importanti posizioni. Il nemico si sfoga a bombardare la città di Bassano.
31 ottobre – Il nemico pienamente sconfitto fugge precipitosamente abbandonando materiali, cannoni, viveri e munizioni;
migliaia di prigionieri vengono catturati. […]
Il nemico sembra si stia ritirando anche da questo Massiccio,
però le sue artiglierie si accaniscono ancora sulla povera città
di Bassano. Sono gli ultimi sfoghi di un nemico vinto!. Il nostro
reggimento deve andare in linea a M. Coston per fare una avanzata. Alle 15 circa partono i battaglioni e il comando. Il ritorno a
Semonzo in autocarro. Arrivato al piano apprendo la notizia che
il nemico in piena rotta fugge verso la montagna e verso il
Tagliamento.
La nostra cavalleria è presso Pordenone.
In Val di Brenta e sul Grappa gli Austriaci abbandonano in frettale posizioni lasciando nelle nostre mani quasi tutta l’artiglieria. […]
1 novembre – Le avanzate travolgenti delle armate Italiane
hanno annientato completamente l’esercito austriaco. I prigionieri si contano oramai a decine di migliaia, i cannoni vengono
quasi tutti catturati, il valore dei materiali caduti nelle nostre
mani ammonta a miliardi. Non è questa una vittoria, è addirittura un trionfo!. Ecco vendicato Caporetto!.
La nostra valorosa Armata del Grappa è entrata in Feltre; le altre armate occupano Belluno, le montagne di Asiago e tutta la
linea della Livenza. Il nostro Reggimento, come tutta la 15°
Divisione, trovasi ancora fermo in Valle dei Lebbi sul Grappa.
2 novembre – Continua rapidissima la travolgente avanzata.
Anche la 1° Armata è in azione.
È passato il confine della Valsugana, occupato Pordenone e la
Cavalleria trovasi già al di là del Tagliamento. Ci arriva la notizia
che l’Austria vinta e abbattuta ha mandato al nostro Comando
Supremo i plenipotenziari per chiedere l’Armistizio. Le campane dei paesi, silenziose da una anno suonano a festa, soldati
cantano per le vie, e la musica della nostra Divisione percorre
le campagne suonando inni patriottici e canzoni popolari. Trovo
l’amico serg. magg. Gambino sfuggito dalla prigionia nemica.
3 novembre – Al mattino vado a Bassano in bicicletta col ten.
Viganoni. La bella cittadina ricomincia a prendere un po’ di vita,
libera oramai dal pericolo delle cannonate, essendo caduta
nelle nostre mani tutta l’artiglieria del Grappa.
Nel pomeriggio ci arriva la notizia che nostri reparti di marinai
e di bersaglieri sono sbarcati a Trieste piantando il vessillo tricolore sulla Torre di S. Giusto. Più tardi arriva un fonogramma
dal Comando Supremo annunziante la firma dell’ Armistizio fra
l’Italia e l’Austria e la sospensione delle ostilità per le ore 15 di
domani; nel contempo apprendiamo che la 1° Armata ha occupato Trento piantando il tricolore sul Castello del Buon
Consiglio. Impossibile descrivere l’entusiasmo di noi tutti! Tre
anni e mezzo di dolori, di privazioni, di lutti, ci hanno dato finalmente l’auspicata vittoria! Trento e Trieste sono riconquistate
alla madre patria, l’Austria debellata è costretta ad accettare
le nostre dure condizioni!
118
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L’ALFABETO DELLA GUERRA
V
Volontario
OLIVIERO SANDRI
Oliviero Sandri nasce nel 1898 a San Giovanni in Persiceto
(Bo). Spinto dal patriottismo, a diciassette anni decide di
partire come volontario per il fronte, ma a causa della sua
giovane età viene rimandato a casa. L’anno successivo riparte
per andare in trincea e questa volta riesce a restare.
Sopravvive a Caporetto e alla trincea sul Piave fino a vedere la
vittoria finale. Le epistole che seguono sono pervase da una
frenetica e giovanile bellicosità.
27/06/1915
Carissimo zio, certamente resterai stupito nel vedere che la
lettera vien da Mantova e ti domanderai per qual miracolo
questo possa avvenire. Il miracolo in verità è molto semplice:
m’hanno mandato a casa perché il tenente ha saputo che ho 17
anni. M’hanno mandato a casa lo capisci, non è vero? Quando
mi dissero di tornarmene, provai una sensazione così dolorosa
che avrei preferito una fucilata e mi trattenni dal piangere solo
per orgoglio. […] Ora mi trovo qui come un pesce fuor d’acqua,
perché, davvero, in 15 giorni di campagna avevo già cambiato
abitudini e direi quasi carattere. In casa poi sono molto
scontenti di vedermi così triste, come rimbambito […]. Ti giuro,
zio, che mi trovo male, molto male, depresso moralmente in
modo spaventoso. Scusami se non ti ho scritto prima, ma
avevo speranza di poter ripartire e ieri, andato a Verona, provai
l’ultima disillusione: alle mie domande o, meglio, alle mie
preghiere mi si oppose un veto assoluto, cosicché me ne tornai
a Mantova senza quell’ultima speranza. […] Prega anche tu
qualche santo che mi aiuti. Ti ringrazio di nuovo ed abbiti i baci
più affettuosi dal tuo Oliviero
16/07/1916
Carissimo Papà,
questa mattina tutto il battaglione ha prestato giuramento,
dopo un discorso del Colonnello Bernardini. Così ora sono un
vero soldato, pronto a tutto. Per festeggiare la solennità ci
siamo riuniti noi tre volontari in una trattoria, da dove ti scrivo,
sperando in un lauto banchetto. […] Vita sempre attiva, fame
crescente, ora si fanno sboccini con meloni molto buoni per
sapore e per prezzo e un po’ di prosciutto e così si varia cibo.
Allegria non ma manca, anzi ce n’è troppa tanto che impedisce
di dormire il pomeriggio. […]
Bacio te e tutti. Oliviero
18/08/1916
Carissima mamma,
[…] Credo che non ne abbiate un’idea di che cosa vuol dire
stare per circa sette ore sotto una cortina di fuoco (nostri
però). Se avesti sentite le bombarde che sinfonia intonavano; i
loro proiettili si vedevano volare per aria come tanti mosconi e
poi scoppiare con di quei cinguettii che facevano tremare
persino le nostre trincee. E noi tutti allegri, perché ci si
spianava la via, ce ne stavamo ben nascosti poiché ogni tanto
qualche pezzo di una nostra granata arrivava sino a noi. A
mezzogiorno in punto cessò il fuoco e noi ci disponemmo lungo
il torrente Vertojbizza pronti a balzare fuori. […] Finalmente si
udì il grido di «Savoia»!. Allora non ho capito più niente: butta
via mantellina e coperta, che avevo a tracolla, scalza i ripari
della nostra trincea e fuori di corsa in mezzo ai vigneti. Le
pallottole vuoi di fucile vuoi di mitragliatrice (dio le maledica: le
loro però) cominciarono a fioccare; ma ti giuro che in quei
momenti non ci si bada più. […] Giunti sotto alla quota 95, una
piccola collina boscosa tra il S. marco ed il Vertojbizza, ci
lanciammo all’assalto. Se avessi sentito che «Savoia»! ne
fremo ancora al solo pensarci; credo di aver avuto l’aspetto più
di una bestia che d’uomo: la barba d’una decina di giorni,
sporco in faccia che non ti so dire, con la giacca aperta per il
caldo, calzoni lacerati dal filo spinato dei reticolati (i quali
erano stati demoliti dal bombardamento). […] M’incaricarono di
andar a vedere cosa succedeva alle pendici del colle; di fatti
portatomi su di un costone vidi dei fez rossi di bosniaci che
venivano su incitandosi con degli «Urrah!» molto flebili in
confronto ai nostri «Savoia»! Allora corsi a portare la notizia e
subito ci apprestammo alla bisogna, cosicché quando
apparvero sulla cima furono accolti maluccio e sicuro che ci
avran detto degli indelicati. Fu in questa occasione, mentre
sparavo in piedi per vederci meglio che rimasi colpito al
braccio. Però prima ebbi la soddisfazione di vederne ruzzolare
giù quattro. Fui medicato da quel falegname di Rimini, del
quale ti parlai quando venisti a Bozzolo, che piangeva per
paura che mi avessero fatto troppo male. Poi pian piano,
strisciando per non farmi chiappare dai colpi di mitragliatrice
che spazzavano i fianchi del colle, mi portai al posto di
medicazione […].
Baci carissimi a te, papà, Renato, Maria e cognati.
Oliviero
L’ALFABETO DELLA GUERRA
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119
Z
Zaino
EMILIO CIOLI
Un cambio di reggimento, vissuto con estremo disappunto dal
giovane toscano Emilio Cioli, offre l’opportunità di immergersi
in uno spaccato differente della quotidianità militare. La vestizione, l’equipaggiamento, la distribuzione delle mostrine, l’accurata disposizione del corredo personale nel pesante zaino
sono tutte azioni che sembrano svolgersi con un’affascinante
ritualità.
[1916] Sotto il peso quasi insuperabile dello zaino si giunse,
dopo aver ascoltato le poche ma tanto aspre parole del
Colonnello, alla disordinata caserma Cavalieri. Il buio e la ristrettezza della camerata produssero una gran confusione, ed
assai tempo ci volle per trovarsi un po’ di posto e sdraiarsi. La
notte fu per tutti insonne: svariatissimi i commenti, le angoscie, il dispiacere improvviso, tutti confusi e disperati. I superiori stessi si trovavano in imbarazzo e dicevano “è impossibile
vestire e preparare del tutto questi soldati”. Pareva proprio che
si dovesse partire istantaneamente. Nacque subito una gran
confusione. Subito mi tornarono alla mente le marce di Riola,
Pioppe, Grizzano, Susana, Montepero, S. Cristoforo, Labante,
Castelnuovo di Vergato, ecc. Il dolore della schiena e delle
spalle mi ricordarono che quelle belle marce le avevo fatte tutte senza zaino. Pensai all’avvenire che sarebbe stato ben differente, ma non m’afflissi.
Al mattino si tornò di nuovo nel piazzale della caserma Cavour
e qui il colonnello ci ripeté quasi le stesse parole, aggiungendo
che quasi tutti si sarebbe rimasti al 27° Reggimento, perché
soli 200 venivano mandati ad altro reggimento. Io mai pensavo
che toccasse a me la sorte di cambiar reggimento. Dopo il mezzogiorno, affardellati gli zaini, ci portarono al magazzino di vestizione e fummo tutti vestiti di nuovo: tale operazione occupò
tutta la giornata. Uno degli ultimi oggetti distribuiti fu la giacca: quando vidi che teneva le mostrine del 27° fui contento ed
esclamai: “meno male le mostrine sono già attaccate!” Non si
erano ancora distribuite a metà soldati, quando ci fu comandato di ritirarle tutte e riportarle in magazzino: che sorpresa! Ci
vennero tosto sostituite con altrettante portanti mostrine a
tutti sconosciute, metà verdi e metà nere: a tutti fecero cattiva
impressione e poco dopo si seppe di che reggimento fossero
perché ci dettero i berretti col numero 118. Si cominciò subito
a dimandare da che parte si trovasse questo reggimento e si
diceva dai più che si trovava nel Trentino. Il perché veramente
fosse toccato alla 4a compagnia a fornire i 200 uomini per il
118°, anziché alla 5a od alla 1a, fu un mito. Da alcuni si volle attribuire all’influenza del Tenente Bisci, comandante la 5a, il fatto che essa non fornì soldati al 118° reggimento. Per completare il numero di 200, vennero 13 soldati della 5a compagnia più
il Cap.le Magg. Gherardi e il Cap.le Borlacchi mio conterraneo.
Al mattino dopo la vestizione si fu divisi in 2 centurie; alla sera
si passò in rivista, dopo aver prelevato ognuno alla caserma
Ungarelli gallette, scatolette, coperte ed armi. L’ora della partenza fu sempre sconosciuta. Passammo così il giorno 18 el9;
la sera del 20 alle ore 5 mangiammo il rancio, si andò alla caserma Martini, posammo zaini e tascapani, ci fu data la pagnotta e la scatoletta per il giorno seguente e poscia ci lasciarono andare in libertà per la città per due ore. Alle ore 20 dovevamo ritrovarci tutti alla caserma per la partenza. Uscito per la
città potei mangiare per l’ultima volta la cucina ferrarese, consegnare all’amico Monticini un pacco acciocché mi fosse spedito alla famiglia insieme alle mie fotografie ritirate quella sera
dal fotografo. Fui quasi dei primi a tornare alla caserma; mi accompagnava l’amico Monticini assai sgomento: ci si poté
scambiare poche parole dato il dispiacere di doversi separare.
Stanco di stare nell’angoscia di vedersi dispiacenti l’uno coll’altro, gli strinsi la mano ed appena riuscii a dirgli addio.
Circa le ore 22, dopo diversi appelli, tutti si fu pronti ed il mesto
corteo col massimo silenzio sfilò verso la stazione. Tra lo zaino
e tutto il resto che contribuiva a rendermi quasi immobile, a
stento e sacrifizio tenni il passo dei più. Sul marciapiede della
stazione posammo i nostri bagagli e dovemmo attendere diverse ore, forse fino alle 24. Saliti su scompartimenti di 3a classe,
si partì alla volta di Padova.
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