René Magritte: seconda parte
Spiritualità Adulti
2010-2011
Preghiera corale
29 MARZO 2011
"Giustifica la mia anima, o Dio,
ma insieme col Tuo fuoco infiamma la mia volontà.
Risplendi nella mia mente,
sebbene forse ciò significhi ‘sii tenebra per la mia esperienza ’,
ma occupa il mio cuore con la Tua meravigliosa vita.
Fa’ che i miei occhi vedano nel mondo soltanto la Tua gloria,
che le mie mani non tocchino cosa che non sia per il Tuo servizio.
Fa’ che la mia lingua non gusti
pane che non mi fortifichi per lodare la Tua grande misericordia.
Fa’ che usi tutte le cose per una sola ragione:
per trovare la mia gioia nel darTi grande gloria.
Perciò tienimi lontano soprattutto dal peccato,
che divora con fuoco irresistibile la carne dell’uomo
fino a distruggerlo.
Tienimi lontano dall’amore del danaro che è odio,
dall’avarizia e dall’ambizione che soffocano la mia vita.
Schiaccia il serpente dell’invidia
che avvelena l’amore e uccide ogni gioia.
Scioglimi le mani e liberami il cuore dall’indolenza
e dammi la forza che si mette al Tuo servizio nel silenzio e nella pace.
Dammi l’umiltà in cui soltanto è riposo,
e liberami dall’orgoglio che è il più pesante dei fardelli.
E possiedi tutto il mio cuore e tutta la mia anima
con la semplicità dell’amore.
Occupa tutta la mia vita
con l’unico pensiero e desiderio dell’amore,
perché io possa amare non per amore del merito,
non per amore della perfezione, ma per amore della virtù,
non per amore della santità, ma per Dio solo.
Perché una sola cosa può soddisfare l’amore e ricompensarlo:
Dio solo."
Thomas Merton
THOMAS MERTON
“Sono sinceramente convinto
che in realtà ti piaccia il mio desiderio di piacerti”.
Da giovane
appassionato del mondo,
a monaco
girovago per Dio.
Estratto da: Antonio Montanari, Un viandante di regni, Thomas Merton,
Abbazia S.Benedetto, Seregno 2007
Spero che non circolino troppe voci folli su di me. Non smettete di dire a tutti che
sono un monaco di Gethsemani e che conto di esserlo sino alla fine. (Testo riportato in
J. E. Bamberger, Qui fut Thomas Merton?, p. 414)
PRIMO MOMENTO
Un viaggio un po' lungo…
L'ultimo giorno di gennaio del 1915, sotto il segno dell'Acquario, in un anno di
una grande guerra, al confine con la Spagna, nell'ombra dei monti francesi,
io venni al mondo. Fatto a immagine di Dio, quindi libero per natura, fui tuttavia schiavo della violenza e dell'egoismo, a immagine del mondo in cui ero
nato.
Effettivamente, Thomas Merton nasceva a Prades, in Francia, il 31 gennaio
1915, da Owen Merton e da Ruth Jenkins. Entrambi erano pittori:
Mio padre dipingeva come Cézanne e capiva alla maniera di Cézanne il paesaggio della Francia meridionale. [...] Da mio padre ho ereditato il modo di vedere le
cose e parte della sua rettitudine, e da mia madre un po’ del suo scontento per il
disordine che esiste nel mondo e un po' della sua versatilità. Da entrambi mi vennero buone doti per lavorare, sognare, godere ed esprimermi.
[...] Mio padre e mia madre vennero dai confini del mondo a Prades — effettivamente il padre di Thomas era neozelandese e sua madre statunitense — e, sebbene
arrivassero con l'intenzione di rimanere, vi si trattennero soltanto il tempo necessario perché io nascessi e muovessi i primi passi, poi ripartirono. (T.Merton, La montagna
dalle sette balze, Garzanti, Milano, 1979, p. 9)
Da allora, la vita del giovane Thomas non fu facile e piuttosto movimentata:
«Essi partirono e io incominciai un viaggio un po' lungo». Nel 1916 si trasferisce
negli Stati Uniti e vive a Douglaston, dove viene affidato alle cure dei nonni
materni. Dall'ottobre del 1921 — un anno dopo la morte della madre —, il
piccolo Thomas, che ha solo sei anni, trascorre qualche tempo alle Bermuda
con suo padre, che là si dedica alla pittura. Poi, finalmente, nel 1925 ritorna di
nuovo in Francia con suo padre e vive a Saint Antonin. Nel 1926 frequenta il
Liceo a Mont-Auban e due anni dopo (1928) continua la scuola in Inghilterra, a
Oakham. Poi, nel 1933 frequenta l'Università a Cambridge e, finalmente nel
1934 ritorna definitivamente negli Stati Uniti. Si tratta effettivamente di «un
viaggio un po’ lungo», durato fino all'età di 19 anni.
«Per tutti e tre, per ragioni diverse, il viaggio è ora concluso» — annota Merton
ne La montagna dalle sette balze. Infatti sua madre era morta per un tumore
nel 1921, quando Thomas aver solo sei anni, e suo padre l’avrebbe seguita dieci
anni dopo (1931) per la stessa malattia.
In tutto quel tempo, il giovane Merton aveva viaggiato molto e i suoi genitori
e i nonni materní si erano preoccupati della sua educazione scolastica, ma
nessuno aveva mai pensato di offrirgli una vera educazione religiosa.
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Thomas Merton moriva a Bangkok, in Thailandia, il 10 dicembre 1968, all'età di
53 anni. Dopo aver concluso la sua relazione su Marxismo e prospettive monastiche, nel contesto del convegno monastico internazionale, egli si era ritirato
nella sua stanza. Fatta una doccia, uscì con i piedi bagnati sul pavimento del
terrazzo e toccando la pala di un ventilatore, rimase fulminato a causa del suo
cattivo funzionamento.
Di quella morte sono state date le interpretazioni più disparate: una morte
zen, un suicidio organizzato inconsciamente, un'abile strategia omicida messa
in atto dalla CIA, un volgare assassinio? Forse è più opportuno lasciare a Thomas Merton di dirci il senso di quel viaggio e, quindi, di quella morte. Qualche
settimana prima della partenza — il 9 settembre 1968 — scriveva nel suo diario:
Parto con lo spirito completamente aperto: spero senza particolari illusioni. La mia
speranza è semplicemente di godere del lungo viaggio, di profittare, di imparare,
di cambiare, forse di trovare qualcosa o qualcuno che mi aiuti a progredire nella
mia ricerca spirituale. [...] Resto un monaco di Gethsemani. Non so se finirò i miei
giorni qui, forse non è così importante. La cosa grande è rispondere perfettamente
alla Volontà di Dio in quest'occasione provvidenziale. (T.Merton, Scrivere è pensare,
p. 420)
E, poche ore prima della morte, rilasciava questa dichiarazione che doveva
essere il suo ultimo commento autobiografico:
Sono monaco. Sarò monaco fino alla morte. Niente può impedirmi di esserlo.
(J. E. Bamberger, Qui fut Thomas Merton?, p. 413)
«Sarò monaco fino alla morte». È in queste parole il senso della sua vita. Una
vita che si era svolta in modo paradossale e che certamente non rientrava nei
canoni monastici tradizionali.
Questo, però, Merton lo sapeva bene e, proprio in questa paradossalità riconosceva il dono della misericordia che Dio riversava su di lui:
Sento che la mia vita è in modo particolare sigillata col grande segno — il segno di
Giona — che il battesimo, la professione monastica e l'ordinazione sacerdotale hanno impresso a fuoco nelle radici del mio essere, poiché, come Giona, anch'io mi trovo a viaggiare verso il mio destino nel ventre di un paradosso. (T. Merton, Il segno di
Giona, Garzanti, Milano 1953, p. 3)
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sposato, che ero ubriaco, che ero morto. (Riportata in J. E. Bamberger, Qui fut Thomas
Merton? La délicieuse saveur de la liberté, <<La vie spiritelle>> 51 (1969), p. 414)
A che cosa si riferiva con queste parole? Forse a un'avventura accaduta alla
fine di marzo del 1966, quando Merton si trovava all'ospedale di Louisville per
un intervento alla schiena e si era innamorato dell'allieva infermiera che si era
presa cura di lui. Egli stesso aveva commentato quell'avvenimento con queste
parole: «Dopo tutto, innamorarsi di nuovo dopo venticinque anni di clausura
era, almeno per me, un avvenimento». L'avventura, però finì definitivamente
nell'estate del 1968.
Un ulteriore problema era dato dal fatto che Merton, a partire dai primi anni
Sessanta, aveva sempre più concentrato il proprio interesse sulle discipline religiose é filosofiche orientali.
Alla luce degli ultimi scritti, il suo viaggio asiatico rischiava di essere letto — come qualcuno aveva già fatto e come ancora oggi alcuni autori continuano a
fare — come un avvenimento che poteva compromettere la sua fede cattolica,
abbracciata trent'anni prima. Effettivamente, ancora oggi si continua a discutere se la sua visione contemplativa sia rimasta fedele al cristianesimo o tenda
piuttosto verso le religioni dell'Estremo Oriente.
In diverse occasioni, Merton aveva cercato di smentire formalmente quelle voci:
Mai ho pensato di cambiare qualcosa riguardo alle decisioni definitive che ho preso
nel corso della mia esistenza: essere cristiano, essere monaco. Essere prete. Anzi, la
decisione di rinunciare e di abbandonare il mondo secolare moderno, decisione
ripetuta e riaffermata in diverse occasioni, è diventata in fine irrevocabile. [...]
Sono sempre in monastero e ho l'intenzione di rimanervi. Non ho mai avuto il minimo dubbio riguardo alla mia vocazione monastica. Se mai ho avuto un desiderio
di cambiamento, andava nel senso di una vita ancor più solitaria, ancor più monastica. (Testo riportato in J. E. Bamberger, Qui fut Thomas Merton?, pp. 414-415)
Il 13 gennaio 1968 era stato eletto il nuovo abate di Gethsemani, Flavian Burns,
successore di James Fox. Egli era stato un tempo novizio di Thomas Merton e
continuava a provare grande stima e venerazione per il suo maestro. Il rapporto con Dom Flavian era dunque molto diverso rispetto al quello con Fox, e
il nuovo abate sarebbe stato disposto a concedere a Merton il lungo viaggio
che ormai si prospettava. Un viaggio che — come avrebbe ricordato lo stesso
Dom Flavian nell'omelia per il suo funerale — father Louis aveva intrapreso
«nello spirito della sua stessa ricerca di Dio».
Merton partì il 15 ottobre per l'Asia, mentre la conferenza monastica era programmata per il mese di dicembre. Egli aveva infatti avuto il permesso di organizzarsi il viaggio, che prevedeva varie soste prima e dopo l'incontro organizzato dall'AIM (Aide à l'Implantation Monastique).
Merton intuiva che, dovendo viaggiare per un certo tempo, le voci già circolate
in precedenza sarebbero ricominciate. Perciò, qualche settimana dopo la sua
partenza, scriveva a Gethsemani:
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SECONDO MOMENTO
la storia di una vocazione: in 4 anni, da battezzato a monaco
Solo dopo il lungo e travagliato cammino personale, egli ricevette il Battesimo
nella Chiesa cattolica il 16 novembre 1938, all'età di 23 anni.
La conversione viene riletta dallo stesso Merton con la metafora del Purgatorio dantesco, che ha offerto il titolo alla sua opera più celebre: La montagna
dalle sette balze:
Col principio di novembre la mia mente era tutta presa da questo solo pensiero: ricevere il Battesimo [...]. Stavo per approdare sulla spiaggia ai piedi dell'alta montagna dalle sette balze di un Purgatorio più ripido e arduo di quanto potessi immaginare, e nulla sapevo della scalata che mi attendeva.
(T.Merton, La montagna dalle sette balze, p. 264)
La sua vocazione fu piuttosto travagliata e il suo desiderio di diventare sacerdote fu scoraggiato dai francescani ai quali si era rivolto, sia a motivo della
conversione ancora recente, sia delle incertezze e dei dubbi che lo assalivano.
Un ritiro a Gethsemani, nella Pasqua del 1941, aveva suscitato in lui il desiderio
di farsi monaco in quel luogo, ma i dubbi persistevano e la risposta negativa
precedente sembrava ostruirgli ogni possibilità di accesso anche al monastero.
La soluzione arrivò la sera del 28 novembre 1941, dopo una preghiera rivolta a
santa Teresa di Gesù Bambino. Merton la descrive con queste parole nell'autobiografia:
All'improvviso, appena terminato di formulare questa preghiera, divenni conscio
del bosco, degli alberi delle montagne nere, del vento umido della sera, e poi, con
una chiarezza maggiore di quella delle realtà evidenti, nell'immaginazione cominciai a sentire la grande campana di Gethsemani che suonava nella notte, la
campana della grande torre grigia che suonava e suonava come se si trovasse
appena dietro l'altura più vicina. Quella sensazione mi lasciò senza respiro e dovetti pensare due volte per comprendere che solo con la fantasia sentivo la campana dell'Abbazia Trappista suonare nelle tenebre. Eppure, come calcolai in seguito, era esattamente l'ora in cui la campana suona ogni sera per la Salve Regina, alla fine di Compieta. Pareva che la campana mi dicesse qual era il mio posto,
pareva che mi chiamasse a casa.
(T.Merton, La montagna dalle sette balze, Garzanti, p. 435)
Thomas Merton era entrato nell'Abbazia trappista di Nostra Signora di Gethsemani, nel Kentucky, il 10 dicembre 1941. Aveva quasi 27 anni. Ne sarebbero trascorsi esattamente altri 27 da quella data quando, il 10 dicembre 1968,
sarebbe morto a Bangkok, in Thailandia.
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TERZO MOMENTO
«Un gusto delizioso della libertà»:
i primi anni di vita monastica a Gethsemani
Merton ci ha lasciato diverse descrizioni di Gethsemani. La prima risale al
tempo del ritiro fatto in quel monastero in occasione della Pasqua del 1941.
Così si legge nel suo diario:
Ho visitato molti luoghi per la loro bellezza, ma questo è il più bello, almeno in
America. [...] Una valle amplissima, piena di terreni ondulati e di avallamenti,
con boschi, cedri, campi verde scuro, forse frumento non ancora maturo. I fienili
e i vigneti del monastero. Il poggio con la statua di san Giuseppe nel mezzo di
un grande campo... I trappisti, con i cappucci medievali da contadino, camminano pesantemente in fila per le vigne. Questo è il centro dell'America. [...] Questo è un palazzo grande e splendido. (T.Merton, Scrivere è pensare, vivere, pregare.
Un’autobiografia attraverso i diari, a cura di P. Hart e J. Montaldo, Garzanti, Milano 2001,
pp. 52-54)
Il giorno dopo si chiedeva: Come si spiega che quest'abbazia sia un paradiso
terrestre? E rispondeva con ingenuità:
La ragione sta nella gerarchia delle attività. Per i buoni trappisti il lavoro è importante: è insieme penitenza e ricreazione [...]. La vita in quest'abbazia non è
comprensibile se non si inizia la giornata con i monaci, con il mattutino delle 2.
Seguono poi le messe private, alle 4,30 e il momento culminante è la messa solenne delle 8. Le sei ore, dalle 2 alle 8, sono dedicate alla preghiera.
(T.Merton, Scrivere è pensare, pp. 52-53)
Più tardi, ne La montagna dalle sette balze - siamo nel 1948 —, egli guarderà con occhi meno ingenui alla realtà e sarà costretto a osservare
Mi sembra che i nostri monasteri producano ben pochi contemplativi puri. La
nostra è una vita troppo attiva. C'è troppo movimento, troppo da fare. E questo vale specialmente per Gethsemani che è una vera centrale elettrica e non
soltanto una centrale elettrica di preghiere. Infatti, nell'animo di alcuni dei suoi
ospiti vi è un venerazione quasi esagerata per il lavoro. (T.Merton, La montagna
Una nuova soluzione gli viene offerta, quella dell'eremo del monte Oliveto, all'interno della proprietà del monastero, dove l'abate James Fox gli consente di
vivere parzialmente, sebbene con molte restrizioni. Siamo nel 1960 e Merton è
ancora maestro dei novizi. Finalmente per la prima volta nella vita, Merton sentiva di «avere una vera casa e che l'attesa e ricerca sono terminate». Tuttavia il
rapporto con l'abate rimane teso. Questi, infatti, continua a ripetere a Merton
che è una cosa che non vuole e che egli può usare l'eremo, ma solo in modo
molto limitato, perché deve continuare ad essere maestro dei novizi. L'abate «è
molto chiaro sul fatto che non posso vivere là, né dormirci o dire la messa».
Inevitabilmente, cresce in Merton la convinzione che l'abate non sia interessato
ai sui sentimenti al riguardo.
Col tempo, però, le restrizioni riguardo alla vita eremitica vengono tralasciate e,
nell'agosto 1965 Merton viene sollevato dall'incarico di maestro dei novizi e ottiene il permesso di vivere a tempo pieno come eremita all'interno della proprietà
di Gethsemani. Quando l'abate lo informa di questa possibilità, il 19 luglio, egli
scrive nel suo diario:
Una piacevolissima sorpresa. Ne esultavo, ero assai con mosso e grato. Cose di questo genere mi fanno vergognare delle mie paure e preoccupazioni, e mi rendono
ridicolo. Questo fatto è senz'altro notevole davvero e dimostra che l'abate non è un
mero politico. Si tratta di un passo del tutto insolito nell'Ordine: l'abate non avrebbe
potuto compierlo due anni fa. Si vede che non è guidato solo dai suoi gusti personali, dalle sue preferenze e paure: è davvero attento, più di tanti altri, alle indicazioni
oggettive di ciò che Dio vuole per la sua chiesa. (T.Merton, Scrivere è pensare, p. 317)
Questo era quanto egli aveva lungamente desiderato, o così pensava, perché
Merton, in realtà, continuava a mantenere i suoi incarichi pubblici, le sue responsabilità nei confronti della corrispondenza e i suoi diari, come aveva fatto
prima di iniziare la sua vita di eremita a tempo pieno.
SESTO MOMENTO
«Sarò monaco fino alla morte»:
il compimento di una vita
dalle sette balze, p. 464)
QUARTO MOMENTO
«Ho scritto la mia vita invece di viverla»:
un bisogno di solitudine mai appagato
Possiamo ora cercare di percepire qualcosa questo conflitto fra il bisogno di
solitudine, che si fa sempre più preponderante, e il bisogno innato di scrivere,
che lacera Thomas Merton. Il 19 marzo 1949, affida queste riflessioni al suo
diario:
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Negli ultimi tempi Merton sentiva con urgenza il desiderio di chiarire, per quanto fosse possibile, la propria posizione a proposito della vocazione monastica. Da
tempo, infatti, circolavano voci insistenti su di lui: si diceva che aveva lasciato il
monastero, l'Ordine e perfino il sacerdozio. Decise di affrontare pubblicamente il
problema. Lo fece per la prima volta nella prefazione all'edizione giapponese de
La Montagna dalle sette balze:
Sono state diffuse molte voci su di me da quando sono entrato in monastero. Si affermava che avevo lasciato il monastero, che ero ritornato a New York, che ero in
Europa, che ero in America Latina o in Asia, che ero diventato eremita, che mi ero
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E quasi impossibile rispondere alla domanda. Spesso mi convinco che non ho «nulla
in comune» attualmente con dom James e con gli ideali dell'Ordine. Fino a che
punto dunque è un'evasione? La verità è che qualcosa di inesplicabile mi attrae
fuori da qui, qualcosa d'indefinibile che mi mette a disagio qui (non dico infelice):
sempre la solita storia di «qualcosa che manca». Che cosa? È qualcosa di essenziale?
Non ci sarà sempre qualcosa che manca? Eppure c'è sempre questo impulso ad
«andare oltre», a partire, a salpare per un paese diverso e iniziare una vita nuova.
Forse è inevitabile, proprio un desiderio che si ha sempre senza poterlo soddisfare. Si
tratta di quel tipo di desiderio che mi portò qui. Forse ciò che voglio davvero è fuggire dagli ideali e da un'immagine mentale di monachesimo e vivere semplicemente come mi riesce, ecco, vivere. (T.Merton, Scrivere è pensare, p. 182)
Ho trascorso l'anniversario della mia professione solenne all'infermeria, grande
generosità da parte di san Giuseppe, come inizio a capire. [...] Tanto tempo! Tanto tempo! Niente manoscritti né macchina per scrivere niente corse avanti e indietro alla chiesa né scriptorium, non ci si rompe l'osso del collo per finire una cosa
quando già se ne profila un'altra. [...] Questo è il modo in cui dovrei vivere: con il
mio spirito e con i sensi silenziosi, troncando i contatti con il mondo delle attività,
della guerra e delle preoccupazioni della comunità, non essere ansioso per nulla
di alto o di basso, di vicino o di lontano, vivere senza darmi da fare tutt'intorno
con i miei capricci, desideri e progetti e senza farmi strappare dalle mie orme a
causa del flusso eccessivo dell'attività naturale che scorre a pieno ritmo a Gethsemani. (T.Merton, Scrivere è pensare, pp. 77-80)
Quel che cerco davvero è una vita realmente solitaria, semplice e rudimentale, senza particolari etichette applicate. Là ci sarà amore, ma non un amore astratto: amore vero verso persone vere. (T.Merton, Scrivere è pensare, p. 183)
Nel 1951, l'abate affida a Thomas Merton l'incarico di maestro dello scolasticato, cioè dei giovani monaci che si preparano con gli studi al sacerdozio. A sei
mesi da quell'incarico tenta un primo bilancio:
Ciò che ho bisogno [...] è di fare un viaggio in un luogo primitivo, tra la gente che vi
abita, e lì morire. È nel contempo un'uscita e un «ritorno». Un andare verso un luogo dove non sono mai stato e dove non ho mai immaginato di recarmi [...]. Sento
che se non lo farò, la mia vita spirituale morirà. (T.Merton, Scrivere è pensare, p. 186)
In questo tempo ho guardato nei loro cuori prendendomi i loro fardelli. Non sempre ho visto chiaro e non ho portato sempre bene quei fardelli [...]. Parecchi giorni
abbiamo aggirato le cose e siamo finiti nel fosso perché il cieco conduceva ciechi.
Merton sogna il momento della partenza. Dalle riflessioni che affida al suo diario emerge la profonda lacerazione che porta dentro di sé:
E di nuovo si ritrova con il sogno della solitudine infranto fra le mani:
Non mi va di morire in questo monastero, sarebbe una resa completa alla mediocrità, ma poi non importa dove uno muore. E comunque amo la comunità, visceralmente: è meglio anche per loro che me ne vada da qui. (T.Merton, Scrivere è pensa-
Scrivere è pensare, p. 119)
re, p. 188)
(T.Merton, Scrivere è pensare, p. 118)
Qual è il mio nuovo deserto? Si chiama compassione. Non c'è luogo desertico così
tremendo, così bello, arido e fecondo come il deserto della compassione. (T.Merton,
In realtà, una lettera proveniente da Roma e firmata da due cardinali, pone
fine ad ogni sogno:
A volte, nei momenti di solitudine — come era accaduto ad esempio la notte
di ronda del 4 luglio 1952 —, riaffioravano con insistenza nel suo cuore domande destinate a rimanere senza risposta:
Era una busta grande, per via terra: una busta troppo grande. [...] C'era scritto
«No». Era una lettera lunga, personale, dettagliata, in effetti una lettera molto
raffinata, firmata dal cardinale prefetto e controfirmata dal cardinal Larraona:
due cardinali. Cosa potrebbe essere più definitivo e ufficiale, più finale? (T.Merton,
Tra il silenzio di Dio e quello della mia anima sta il silenzio delle anime affidatemi.
Immerso in questi tre silenzi, comprendo che le domande che mi pongo su di loro
non sono forse nulla di più che una supposizione.
Forse la rinuncia più urgente e concreta è la rinuncia a tutte le domande.
Scrivere è pensare, p. 189)
(T.Merton, Scrivere è pensare, p. 129)
E aggiunge:
Nell'autunno del 1952, finalmente, il desiderio di solitudine sembra trovare
appagamento nella quiete che Merton raggiunge, rifugiandosi nel vecchio
capanno degli attrezzi di St. Anne. A volte ritorna un po' di pace:
La lettera da Roma era datata 7 dicembre. La cosa che mi colpisce è che il problema è risolto, risolto in modo più profondo e più ampio che soltanto in senso negativo: non è solo che io debbo stare qui. Dopo cena mi sono seduto fuori da solo. Molto
calmo. In effetti è una soluzione, anche se non so fino a che punto. Una specie di
anestesia: certo sono stupito di non essere affatto irritato e di non provare il minimo
rammarico. Piuttosto sento gioia, vuoto e libertà. [...] Ho scaricato una montagna
dalle spalle, una montagna del Messico che io stesso avevo scelto. [...] Qui o altrove
non fa differenza. Da qualche parte, da nessuna parte, oltre ogni «parte». La solitudine al di fuori della geografia o dentro, non importa. (T.Merton, Scrivere è pensare,
p. 190)
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Mi sembra che St. Anne sia ciò che ho atteso e cercato tutta la mia vita e ora mi
ci sono imbattuto quasi per caso. Per la prima volta sono cosciente di quello che
accade a un uomo che ha davvero trovato il suo posto nello schema delle cose.
(T.Merton, Scrivere è pensare, p. 147)
Anche in questo tempo tuttavia, ogni volta che la domanda sulla vocazione
eremitica emerge con insistenza, deve trovare un modo per calmarla:
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Per trentasette anni ho scritto la mia vita invece di viverla [...]. Tuttavia non posso
diventare eremita solo per il fatto che la faccenda sembra credibile sulla carta.
E concludeva:
(T.Merton, Scrivere è pensare, p. 142)
Una cosa ragionevole: posso iniziare a vivere ora, per quanto possibile, la vita che
vorrei vivere in quel monastero, e con lo stesso spirito.
St. Anne è stata una bella esperienza:
(T.Merton, Scrivere è pensare, p. 168)
Quanto è stato ricco per me il silenzio di questa casetta, che è soltanto un capanno
degli attrezzi, dietro il quale, per due anni, sul fianco della collina, ho cercato invano di piantare un giardino. (T.Merton, Scrivere è pensare, p. 164)
Forse quella conclusione era un poco forzata e l'inquietudine ritorna:
Ma anche St. Anne è durata poco… visto che dal 1955 egli aveva assunto il
compito di maestro dei novizi.
Mi chiedo fino alla nausea: «Per che cosa sono qui?». La sola risposta soddisfacente
è «per niente». Io sono qui gratis, senza uno scopo o un piano speciali. Sono qui perché sono qui e non da un'altra parte. Non sono qui in virtù di qualche elaborato
piano monastico o perché qui «è il posto migliore» (probabilmente non è così), ma
semplicemente questo è il posto in cui «Dio mi ha messo». Vivo qui, lavoro qui. […]
Per me la sola risposta intelligibile è quella esistenziale: io sono qui gratis, per nessuno scopo speciale, senza fronzoli, liberamente. Non ho nessun motivo serio per desiderare di essere altrove, sebbene potrebbe piacermi certe volte. (T.Merton, Scrivere è
pensare, p. 174)
René Magritte: prima parte
Così scriveva l'11 dicembre 1958. E il 28 dicembre aggiungeva:
Se mai avrò l'opportunità di condurre una vita davvero solitaria, devo avere l'intuito e l'abilità di prenderla al volo. Non ero pronto nel 1955 quando la desideravo
così fortemente. Non sono pronto nemmeno adesso. Non sono pronto nemmeno a
gestire una comunità e non ho più il desiderio di fondarne una. Spero che quando
giungerà il momento saprò davvero cavarmela da solo. Che Cristo mi conceda
questo grande favore. (T.Merton, Scrivere è pensare, p. 177)
QUINTO MOMENTO
«Non mi va di morire in questo monastero»:
verso una nuova meta
Nel luglio del 1958, Merton elaborava il progetto di un piccolo monastero diverso da Gethsemani. Un monastero
senza un «programma». Senza un lavoro particolare da compiere. Monaci per
«vivere», non per essere monaci, distinti da ogni altro tipo di essere, bensì
«uomini», figli di Dio. Senza un futuro speciale: niente campagne per postulanti.
Senza alcuna reputazione o fama particolare.
Un monastero nascosto, magari non conosciuto come tale. Magari senza nemmeno
indossare abiti speciali. Senza edifici visibilmente distinti. Certamente isolato, munito di chiostri e riservatezza. Con dei tipi di eremitaggio, ossia con la possibilità di
solitudine privata per un certo periodo dell'anno. Solitudine particolare in certe
stagioni: avvento, quaresima. Costituzione di un nucleo di monaci maturi, ciascuno
capace di decidere per sé nel digiuno ecc. Interessi per l'arte, la musica, la letteratura, la politica, ecc. contemporanee. Lavoro manuale, naturalmente, forse un po'
di insegnamento. Ma attenzione a non affollare la vita con lavori e progetti .
(T.Merton, Scrivere è pensare, p. 168)
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Merton è sempre più insoddisfatto di ciò che vive:
Il fatto è che, quando la gente viene a trovarmi, non è realmente edificata: devo
farmene una ragione, anche se mi disturba. Fondamentalmente non sono davvero
un monaco e un cristiano: va bene rigettare le forme esteriori nulle, ma c'è poi
qualcosa all'interno? Forse no. (T.Merton, Scrivere è pensare, p. 180)
Nel 1959 pensa di lasciare Gethsemani per ritirarsi nel monastero fondato da
dom Gregorio Lemercier, dedicato a Nostra Signora della Resurrezione, nella
diocesi di Cuernavaca in Messico, dove alcuni movimenti ecclesiali si erano lasciati coinvolgere nelle lotte operaie, contadine e studentesche, dando forma a
quello che presto si sarebbe chiamata «Chiesa dei poveri». Questo ideale affascinava Thomas Merton, tanto che aveva avanzato una richiesta ufficiale di
lasciare la propria comunità per raggiungere il gruppo di Cuernavaca. Ma al
tempo stesso lo preoccupavano le conseguenze di tale abbandono:
Sarà interpretato semplicemente come una rinuncia e un «ritorno al mondo». Come una rinuncia alla mia vocazione. In un certo senso è un abbandono del monastero, poiché non sono più soddisfatto di questo tipo di vita. Se è così, non devo oppormi a che venga interpretato di conseguenza, sebbene non sia la mia intenzione
né il mio desiderio. Comunque, sono poi così insoddisfatto?
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Thomas Merton - Centro Mater Divinae Gratiae