Intenzionalità
• Una delle caratteristiche più evidenti delle
persone è che sono attive e manifestano un
comportamento «intenzionale».
• Il concetto di intenzionalità è più semplice da
riconoscere che non da descrivere.
– Il biologo S. Kauffman dice: quando chiamo il mio
cane, mi guarda. È un comportamento
intenzionale.
• Per W. Freeman (neuroscienziato)
l’intenzionalità e il produrre azioni dirette
verso uno scopo è una caratteristica di base
del nostro cervello.
…la diade deterministica natura-cultura… non
riesce a tenere conto della capacità degli esseri
umani di costruire e perseguire i propri obiettivi
personali nell’ambito del contesto sociale
(Freeman, 1999, Come pensa il cervello, tr. it.
2000).
• Gli individui sono «centri attivi» di interessi e
motivazioni, che percepiscono le esperienze
come «proprie»:
…alla base del nostro senso di essere un centro
indipendente di iniziativa e di percezione, integrato, con
le nostre ambizioni e i nostri ideali più centrali, con la nostra
esperienza che la mente e il corpo formano un’unità nello
spazio e un continuo nel tempo. Questa configurazione
psichica coesiva e permanente forma il settore centrale
della personalità (Kohut, 1977).
La concezione del neonato come groviglio di
impulsi e bisogni meramente fisici, come tabula
rasa governata solo da impulsi, non tiene
presente che…
…la caratteristica più notevole dei bambini di ogni età è
tuttavia la loro capacità di generare intenzioni o stati
motivazionali coerenti: non sono in balia degli stimoli,
né in costante conflitto di impulsi. (Trevarthen*, 1980, tr.
it 1998, p. 34)
* C. Trevarthen è neuroscienziato e psicologo dello sviluppo.
Sin dall’origine, l’essere umano può essere
immaginato come un centro attivo dotato di
intenzionalità, con caratteristiche proprie (anche
se solo potenziali), impegnato a evolvere e a
conoscere se stesso e il mondo che lo circonda.
 Donald Winnicott ha utilizzato il termine di “vero Sé” per
alludere alla spontaneità originaria del soggetto. Un
individuo è «sano» quando riesce a percepire di «star
vivendo la propria vita»
 Per Piero Bertolini e Marco Dallari l’intenzionalità, sulla
scorta della tradizione fenomenologica (depurata però da
ogni idealismo), è incontro fra persone reali, soggetti a
pieno titolo, soggetti attivi in relazione
 Per Colwin Trevarthen (1997) è possibile parlare in modo
sensato di “intenzionalità” nei neonati. A suo parere i
neonati hanno un’innata capacità di autoriferimento.
 John Dewey pone al centro della sua pedagogia l’
«esperienza» intesa come interazione fra l’io (self) e
l’ambiente. Tale interazione è resa significativa dal fatto
che l’azione compiuta dal self è intenzionale
(purposeful) e intelligente
 I ricercatori dell’Infant Research parlano di dello
sviluppo del Sé non solo quale esito di regolazioni
intersoggettive ma anche di “autoregolazioni”, cioè di
avere una propria «logica» interna di funzionamento,
di essere «autonomo» e non solo «eteronomo».
 In Carl Rogers alla base dello sviluppo della personalità
vi è il concetto di organismo inteso come un tuttounico, irriducibile alla semplice somma delle parti, una
«persona» e dotato di una «tendenza attualizzante»
 Heinz Kohut parla di un Sé nucleare.
Una delle difficoltà del lavorare
con i neonati è che possiedono
menti proprie. Talvolta, quando
non fanno determinate cose, è
perché non vogliono farle, mentre
quando vogliono fare qualcosa, ce
la mettono davvero tutta.
Trevarthen (1997, p. 149).
• Il neonato viene alla luce con un sé giocoso,
espressivo e portato alla sperimentazione, pronto
ad esplorare ed ad usare oggetti e a comunicare
con le altre persone su come usarli
Un bimbo di due mesi è una personalità complessa,
capace di distinguere le persone da altri oggetti “fisici”,
trattandole come una categoria di importanza primaria
per il proprio sviluppo.
Trevarthen (1974, tr. it. 1998, p. 43)
• Un bambino ha una sua “voce” che non ha
niente a che vedere con l’esigenza di essere
nutrito, rimanere al sicuro e protetto: le
protoconversazioni hanno inizio quando il
bambino non si accontenta di rimanere al sicuro
e si cimenta in “conversazioni” con i fratelli, i
genitori, altri bambini della sua età. Questo
comportamento rappresenta uno scambio
reciproco. (Trevarthen 1997, p. 147)
Natura o cultura?
Sulla scorta di tali considerazioni, Trevarthen è
convinto che una visione più chiara di come il
cervello umano si sviluppa possa fornire un
contributo alle teorie dello sviluppo e ai connessi
metodi educativi (1980, tr. it 1998, pp. 1-2).
Ma…

… sottolinea che man mano che le nostre
conoscenze sul cervello aumentano, non
diminuisce la distanza fra la logica
materialistica della biologia e la
consapevolezza che abbiamo come esseri
umani di essere dotati di sentimenti
complessi e una vita consapevole.
Tutto ciò appare alquanto frustrante per lo scienziato moderno, che
probabilmente si risolverà ad accogliere una prospettiva di tipo
dualistico e a cercare spiegazioni diverse per gli eventi fisiologici da
una parte e per quelli mentali o spirituali dall’altra. A chi non è un
biologo, o non è impegnato a semplificare il comportamento umano, la
natura biologica ereditata dall’uomo appare irrilevante, uno strumento
subordinato alla mente, o una fonte di impulsi fastidiosi per la vita
personale del “Sé”. Io penso invece che, se vogliamo comprendere il
neonato in quanto essere umano, sia necessario affrontare il paradosso
che sorge fra mente e materia biologica, da che un bambino piccolo è
una giovane mente immersa in materia biologica. Ma ammetto che è facile
cadere in una spiegazione molto rozza della mente in termini di pezzettini
di strutture cerebrali. Condivido le preoccupazioni di chi si chiede se sarà
mai possibile conoscere abbastanza sui pallidi labirinti del cervello da
poter indicare il loro esatto contributo alla vita mentale e al
comportamento. In particolare, mi sembra lecito domandare che cosa
abbiano a che fare i discorsi che facciamo sul cervello con lo
sviluppo della coscienza, delle intenzioni e delle relazioni personali
nel bambino (Trevarthen).
• Gli psicologi sembrano spesso credere che
le caratteristiche umane sia determinate alla
nascita geneticamente e che in seguito
vengano modificate dalle influenze
ambientali. Ma è davvero così?
(Trevarthen, 1997, tr. it. 1998, p. 3)
 Se osserviamo lo sviluppo di un essere umano, notiamo
che esso inizia sotto la forma di una cellula entro la quale
sono combinati i cromosomi di un uomo e quelli di uno
spermatozoo. Attraverso migliaia di cicli di divisione cellulare,
le molecole dei geni costruiscono immagini di se stesse e le
distribuiscono in maniera uguale a ciascuna cellula.
 Questa chimica eccezionale spiega come i cromosomi
riescano a trasmettere informazioni in maniera indistruttibile
per formare sempre la stessa specie di organismo (Crick
1962). Alcuni prodotti delle molecole dei geni agiscono
“all’indietro”, in modo da esercitare un controllo sul destino
dei geni stessi cosicché, poco tempo dopo l’inizio della
trascrizione del codice genetico, i processi significativi
dello sviluppo non interessano più solamente il livello
molecolare, ma quello sovraordinato in cui avviene
un’interazione fra membrane e fibre cellulari ripiegate o
fra raggruppamenti e strati di cellule, che agiscono come
complemento dei geni.
 Non vi è dubbio, cioè, che il codice genetico
agisca come la matrice che può generare infinite
copie identiche di giornali, cosicché la trasmissione
delle funzioni viventi viene assicurata in maniera
assai affidabile attraverso le molteplici replicazioni
cellulari.

Tuttavia questo non spiega interamente la
formazione dei complessi organismi pluricellulari.
Il fatto è che i geni, seppure essenziali, non possiedono, in se stessi,
alcuna funzione vivente; il loro “codice” deve essere interpretato
all’interno della chimica cellulare, della fisiologia e delle abitudini di vita
all’interno dell’intero organismo (Srb, Owen, Edgar 1965; Waddington
1966). I geni possiedono significati diversi in diverse forme di vita. Sono
come animali domestici in una fattoria di strutture cellulari e, man mano
che l’evoluzione procede, essi certamente mutano, adattandoli alle
modalità di “allevamento” intracellulare (Grant 1977). Si è ipotizzato che
l’evoluzione degli animali sociali operi attraverso geni per l’ “egoismo” o
per l’ “altruismo” (Dawkins 1976); ma questi sono concetti che si
applicano alla personalità umana, e qualsivoglia egoismo o altruismo il
gene possa avere gli viene attributo dalla persona nella quale si trova.
Da questo punto di vista è la persona a causare il tratto ereditario o
genetico (Trevarthen, 1997, tr. it. 1998, p. 4).
• Anche Gabbard (2000, tr. it 2002) evidenzia
“che vi sono nella vita periodi definiti durante i
quali l’espressione di un gene è dipendente da
un certo tipo di influenza ambientale”.
– L’impatto dei fattori ambientali spiega le differenze
fenotipiche e la discordanza di molte malattie tra
gemelli monozigoti.
Egli cita alcuni esprimenti:
– È stato osservato che in una colonia di scimmie il
20% che manifestava una vulnerabilità genetica alla
separazione dalla madre (rilevata in base alle
reazioni depressive sviluppate in seguito a brevi
separazione e al conseguente aumento del
cortisolo e di ACTH). Se queste scimmie venivano
affidate a madri particolarmente accuditive
riuscivano a integrarsi perfettamente nel gruppo
tanto da raggiungere i vertici della gerarchia
sociale.
– Rosenblum e Andrews (1994) assegnarono piccoli
di scimmia casualmente a madri normali e madri
rese ansiose da un programma di alimentazione
imprevedibile. Le scimmie che erano state accudite
da madri ansiose mostravano una diminuita
capacità di interazione gruppale ed erano
socialmente subordinati, che tuttavia si manifestava
quando stavano diventando adulte, confermando
l’ipotesi psicoanalitica che disturbi della prima fase
dello sviluppo si manifestano in periodi evolutivi
successivi.
– In Finlandia alcuni ricercatori hanno dimostrato che
la terapia psicoanalitica può avere un impatto
significativo sul metabolismo della serotonina. Un
paziente di 25 depresso e affetto da un disturbo
borderline di personalità dopo un anno di
psicoterapia presentava, pur senza aver assunto
farmaci, una captazione della serotonina normale.
Quindi, l’esperienza mentale può
influenzare la biologica e viceversa.
Se ne deduce che ogni tipo di intervento
(educativo, psicologico, psichiatrico,
medico) va considerato come
“biopsicosociale”.
- Ad esempio, i farmaci usati nella psichiatria
hanno anche un effetto “psicologico” e gli
interventi “psicoterapeutici” influenzano il
cervello al di là del loro impatto psicologico.
 ripensare il rapporto natura-cultura
– Il rapporto mente-cervello non è una
questione di aut-aut, ma di et-et.
– Gabbard parla di una “deplorevole
tendenza verso la dicotomizzazione” in cui
da un lato si mettono i disturbi di stampo
psicologico e dall’altro quelli di origine
biologica (da curare farmacologicamente).
Questa suddivisione in un approccio biologico e uno
psicologico non risponde più alle conoscenze che si
stanno acquisendo nell’ambito delle neuroscienze,
alla plasticità del cervello, al fatto che i modelli
mendeliani dell’ereditarietà non si applicano alle
malattie mentali. Pur dovendo preesistere un sostrato
genetico che predispone all’insorgenza di una certa
malattia mentale, gli studi sulla plasticità cerebrale
mostrano che le modalità di sviluppo cellulare non sia
regolato solo dai geni, ma ci sia una forte dipendenza
da segnali ambientali (Hyman 1999).
- Nell’ambito della medicina si assiste a una
grande rivalutazione degli aspetti
educativo-sociali (arte-terapia, sorrisoterapia, pet-terapia, musico-terapia ecc.),
perché si è visto che sono in grado di
migliorare assai il benessere del paziente,
non solo sul versante “psicologico”, ma
anche nella sua capacità di reagire
“fisicamente” alla malattia.
Centralità dell’emotività
• Trevarthen sostiene anche che le emozioni
sono regolatrici delle attività psicologiche, non i
loro prodotti: «sono cause, non effetti, della
percezione e dell'azione».
Anche Greenspan e Brazelton, nel loro testo del 2000 (tr. it.
2001) I bisogni irrinunciabili dei bambini, affermano qualcosa
di simile a proposito delle emozioni e del Sé:
Greenspan: «L’organizzazione delle emozioni si sviluppa prima del
controllo motorio. A ogni stadio della crescita cognitiva corrisponde uno
stadio precedente nella sfera affettiva che anticipa le interazioni col mondo
fisico. Questa organizzazione delle emozioni rappresenta la prima modalità
che il bambino ha di acquisire una conoscenza del mondo, e dà avvio alla
costruzione del pensiero.
Allo stesso modo, è da qui che comincia a delinearsi il senso di Sé, che
necessita della consapevolezza di un confine tra le proprie emozioni e
quelle che provengono dall’esterno. Anche questa consapevolezza ha
le sue radici necessariamente nelle relazioni interpersonali. Non si può
fare un esame di realtà senza il senso di sé. Tutto questo comincia nel primo
anno, ma poi il bambino lo esplicita, simbolicamente, nel secondo e nel terzo
anno, utilizzando parole che hanno un significato affettivo: ‘dammelo’ e ‘no,
non puoi averlo’. Ogni interscambio del genere ha un ‘io’ e un ‘tu’ e crea un
confine simbolico».
Brazelton: «Credo che anche l’intenzionalità cominci nell’utero. I neonati
hanno un’intenzionalità» (p. 11)
L’uomo come essere
biologicamente incompleto
L’uomo può essere definito come il primate che
emerse in quella determinata fase dell’evoluzione in
cui la determinazione istintiva scese al minimo e lo
sviluppo del cervello raggiunse il massimo.
Fromm (1973)
• Ha pertanto bisogno di stabilire dei nuovi legami
affettivi con i suoi compagni, senza i quali
soffrirebbe di un forte isolamento e smarrimento.
Ha bisogno di rimettere radici (Fromm 1973).
L’uomo – di qualsiasi età e civiltà – è messo di fronte
alla soluzione di un eterno problema: il problema di
come superare la solitudine e raggiungere l’unione
(Fromm 1956).
• Un’intera tradizione di pensiero (che parte da J. G.
Herder e giunge fino a Geertz), sostiene che
l’uomo è un essere biologicamente incompleto.
– Per riferirsi a questa caratteristica dell’uomo, oggi si
usa anche il termine neotenia, mutuandolo dalla
biologia, per riferirsi alla minor specializzazione
dell’uomo rispetto ad altri animali e alla
conseguente maggior adattabilità ambientale.
• L’azione quasi-meccanica dell’istinto animale
nell’uomo si allenta: l’istintualità umana non è
autosufficiente, tanto che il piccolo dell’uomo ha
bisogno di molte più cure e per molto più tempo di
tutti gli altri animali.
– La psicoanalisi di Freud è basata sulla differenza fra la
«pulsione» e l’ «istinto». Quest’ultimo allude a qualcosa
di interamente predeterminato; la pulsione, pur avendo un
sostrato biologico, è più indeterminata, più plasmabile,
sublimabile ha bisogno di «oggetti» da «investire» (→
investimento oggettuale). Freud la chiama «libido»: la
libido evolve e si struttura lungo il percorso di vita. Freud
riconobbe l’esistenza di tappe particolarmente importanti
lungo tale percorso, tappe che appartengono ai primi anni
di vita (fase orale/anale/genitale)
– Erich Fromm distingue le «pulsioni» dalle
«passioni»: infatti, a suo parere, anche gli
animali hanno «pulsioni» (fame, protezione,
sessualità, attaccamento); le «passioni» sono
invece tipicamente umane perché
rappresentano le risposte al dilemma
fondamentale della vita umana:
Le passioni fondamentali dell’uomo non sono radicate
nei suoi bisogni istintivi, ma nelle specifiche condizioni
dell’esistenza umana, nel bisogno di trovare, dopo la
perdita della correlazione dello stadio preumano, una
nuova correlazione tra l’uomo e la natura (Fromm,
1955)
• La differenza risiede nel fatto che l’animale vive
le pulsioni come qualcosa che sono tutt’uno con
il suo appartenere all’ordine naturale.
• Invece l’uomo si «stacca» dalla natura: è, sì,
ancora parte della natura, ma anche separato:
non angelo, non animale.
• Tale mancanza di autosufficienza del
funzionamento istintuale umano richiede che
l’uomo trovi all’esterno – nei rapporti sociali,
nella cultura (intesa in senso lato) – una
dimensione dove poter trovare dei criteri per
risanare la rottura dell’impulso, per sapere come
agire e chi è.
– La cultura è la seconda natura dell’uomo. (Remotti 2000).
– La cultura è necessaria, secondo tale concezione, perché
l’uomo non è dotato di un corredo istintuale che, al pari di
quello degli animali, possa indirizzarlo e guidarlo: egli ha
bisogno della cultura per sapere cosa deve fare. Se non
riuscisse a mettersi in rapporto con un sistema capace di
dare senso alla sua esistenza sarebbe un essere
paralizzato (E. Fromm 1941).
– Il patrimonio culturale acquisisce uno status oggettivo,
costituisce un corpus di valori e conoscenze che dialoga
con i meccanismi mentali degli esseri umani,
strutturandoli. Ogni volta che un elemento culturale si è
prodotto entra a far parte della «cultura»: non viene
perso, ma capitalizzato: la cultura arricchisce le
possibilità di scelta dell’uomo fornendogli un patrimonio
non solo di strumenti mentali e tecnologici, ma anche di
significati e di visioni del mondo, che costituiscono una
«esternalizzazione” dei loro processi mentali, una
ricchezza oggettivamente presente a cui le menti degli
individui possono attingere (Wilson- Keil, 1999).
L’interiorizzazione delle attività radicate socialmente e
sviluppate storicamente è l’aspetto caratteristico della
psicologia umana, il fondamento del salto qualitativo dalla
psicologia animale a quella umana. […] I processi
psicologici, così come avvengono negli animali, di fatto
cessano di esistere; essi sono incorporati in questo sistema
di comportamento e sono ricostruiti culturalmente e
sviluppati fino a formare una nuova entità psicologica.
Vygotskij (1930-1935, p. 88)
• l’uomo, quindi, «emerge» dall’indifferenziazione
con la natura, diventa individuo, cosciente di sé,
e solo: egli vive «in prima persona», non più
come parte di un qualcosa, della Natura: egli è
«individuato» e non può, neanche da ubriaco,
cedere la propria individualità. Questa lo
perseguita, come un dono, ma anche come un
maleficio e una tortura.
• L’uomo è costretto a diventare un «traditore»
(Jung) in quanto deve tradire i rapporti di
appartenenza; e, come i traditori, si guarda
sempre alle spalle…
Albero della Conoscenza del Bene e del Male
Lucas Cranach detto il Vecchio (1472 –1553)
Fromm interpreta la cacciata
dal Paradiso terrestre come
l’esito di un essere diventato
consapevole di sé dell’uomo:
egli ha mangiato dall’Albero
della conoscenza e da quel
momento diventa cosciente
di sé, si vergogna della
propria nudità e non può più
restare nella beata, ma
incosciente, appartenenza
con tutte cose che si respira
nel Paradiso terrestre.
• L’uomo diventa inquieto perché, da un lato, non
può abbandonarsi e appartenere totalmente, perché
ciò gli farebbe perdere il suo essere individuo;
dall’altro la sua separatezza gli crea disagio, senso
di isolamento, paura.
• Ecco perché per Fromm la libertà è dono ambiguo
che occorre accettare con coraggio: dà all’uomo
autonomia, ma gli toglie sicurezza.
– Fuga dalla libertà (1941) è costruito attorno all’idea che gli
uomini, inconsciamente, rinuncino alla libertà e si leghino
a feticci o ideologie.
→ l’ambiguità dell’essere umano è che egli
cerca contemporaneamente autonomia e
appartenenza
• L’uomo inizia a provare nostalgia per la Natura
da cui proviene e la percepisce come una Grande
Madre avvolgente.
• Se, come evidenzia Fromm, non vuole
«impazzire» per la sensazione di separatezza
deve ristabilire dei legami, delle appartenenze.
• Ma l’appartenenza va ottenuta senza rinunciare
all’individualità e alla separatezza; se
appartenesse «troppo», cederebbe nuovamente
la sua identità, si rifonderebbe nel tutto, come
avviene nelle appartenenze tribali, fusionali,
nell’adorazione di un’ideologia ecc.
• Questo essere dentro e fuori dalla natura
genera quella sensazione di innaturalezza
del comportamento umano.
Se amassi i paradossi, potrei affermare che è
naturale per l’uomo comportarsi in maniera
innaturale.
Róheim (1950, p. 498)
Dewey, nel suo Arte come esperienza (cap. 1), afferma che
l’arte ambisce a ritornare all’istintività animale, all’essere un
tutt’uno con l’esperienza che si va compiendo.
Per afferrare le fonti dell’esperienza estetica è perciò necessario
ricorrere alla vita animale al di sotto della scala umana. Gli atti della
volpe, del cane e del tordo possono valere almeno a ricordare e
simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo
tanto, quando il lavoro diventa fatica, e il pensiero ci astrae dal
mondo. L’animale vivo è pienamente presente, tutto là, in ognuna
delle sue azioni: nelle sue occhiate caute, nel suo annusare
accorto, nel suo drizzare gli orecchi improvvisamente. Tutti i suoi
sensi indistintamente stanno sul chi vive. Se state attenti, vedete il
movimento confondersi con la sensazione e la sensazione con il
movimento, determinando quella grazia animale con la quale
all’uomo riesce così difficile gareggiare.
• Pirandello affermava che l’uomo è come se
avesse la “febbre”
Sì, perché un cane, poniamo, quando gli sia passata la
prima febbre della vita, che fa? mangia e dorme: vive
come può vivere, come deve vivere; chiude gli occhi,
paziente, e lascia che il tempo passi, freddo se freddo,
caldo se caldo; e se gli danno un calcio se lo prende,
perché è segno che gli tocca anche questo. Ma l’uomo?
Anche da vecchio, sempre con la febbre; delira e non se
n’avvede; non può fare a meno d’atteggiarsi, anche
davanti a sé stesso, in qualche modo, e si figura tante
cose che ha bisogno di creder vere e di prendere sul
serio (Pirandello, L’umorismo, 1908).
L’uomo si annoia e l’animale no
O greggia mia che posi […]
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio
assale?
(Leopardi, Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia)
• Per G. Róheim, il complesso di Edipo non è un
evento innato della psiche, ma un inevitabile
processo umano che trova la sua ragion d’essere
nel prolungamento della condizione infantile di
dipendenza dalla madre. Infatti, il complesso
edipico nasce dal conflitto tra la naturale
tendenza a crescere ed il desiderio di restare,
simbolicamente, nell’utero materno.
• È nostalgia per un’appartenenza totale.
– Di tale idee sono anche E. Fromm e C. G. Jung
• La “simbiosi”, il “narcisismo primario”, la “fase
autistica” del neonato su cui hanno insistito
molti psicoanalisti oggi sono concetti non più
sostenibili dalla moderna scienza psicologicoevolutiva.
• Ha tuttavia senso parlare di
momenti “simbiotici” di fusione fantasticata tra
rappresentazioni di sé e rappresentazioni
dell’oggetto in situazioni d’intensa attivazione
affettiva (Kernberg 2005, pp. 90-91).
→ la ricerca dell’ «oggetto totalmente
soddisfacente»
Spiega G. Róheim:
• L’essere umano vuole crescere ma,
contemporaneamente, non tollera “la separazione,
sempre prematura, dalla madre” (1950, p 491).
• La cultura, freudianamente, è per Róheim un tentativo di
attingere in maniera sublimata al soddisfacimento
pulsionale; ma a tale dimensione se ne aggiunge
un’altra, quella che richiama l’uomo al ricordo dei beati
momenti dell’onnipotenza infantile e, inevitabilmente, ai
connessi sentimenti di solitudine e di perdita: “il grande
pericolo contro cui il genere umano ha sviluppato la
cultura è la perdita oggettuale, l’essere lasciato solo
al buio” (1943, p. 91).
• In tale visione concettuale, la natura
umana si trova in “una situazione
conflittuale fra due tendenze, regressione
e maturazione” (p. 511); ciò costituisce
l’aspetto “tragico” dell’uomo.
• Cedere alla regressione significherebbe
rinunciare all’identità, al compito di
umanizzazione che ognuno porta con sé;
significherebbe ridiventare l’uomo tribale, l’uomo
fuso con la Natura, rinunciare alla libertà.
→ Per Fromm l’alternativa è: produttività o fuga
dalla libertà? Accettare la sfida a cui l’essere
umano si trova di fronte per progredire verso la
costruzione di una dimensione propriamente
umana, basata sulla solidarietà e sulla produttività
a tutti i livelli (emotivo, cognitivo, artistico ecc.)
oppure legarsi a dei feticci, regredire verso forme
simbiotiche di appartenenza?
• L’uomo deve ‘inventare’ la sua umanità, deve
escogitarla e crearla dal nulla; nascendo si
assume l’onere di ‘diventare’ umano. Scrive
Francesco Remotti.
Diventare umani è un compito a cui gli esseri umani non
possono sottrarsi: l’umanità non è data e garantita
biologicamente: esige invece di essere costruita
culturalmente. Essa non è un presupposto, se non in
minima parte: è invece un telos, una meta, un qualcosa
che va cercato (e non è detto che venga raggiunto): più
radicalmente un qualcosa che va inventato (Remotti
2000).
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Teorie della formazione AA 2012-13